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Antonello D’Angelo
Heidegger e Aristotele: il primo significato della
dynamis
(doi: 10.1403/12061)
Ente di afferenza:
Università di Bologna (unibo)
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Heidegger e Aristotele:
il primo significato della dynamis*
di Antonello D’Angelo
* Per quel che riguarda il rapporto Heidegger-Aristotele, non sono mancati negli ultimi
anni in Italia studi pregevoli. Basti pensare ai due capisaldi costituiti dalle indagini di F. Vol-
pi, Heidegger e Aristotele, Padova 1984 e di E. Berti, Aristotele nel Novecento, Bari 1992, pp.
44-111; ma molto interessante anche di A. Cazzullo, Heidegger interprete di Aristotele, Milano
1986 (commento puntuale a Vom Wesen und Begriff der φσις). Mi permetto altresì di ricor-
dare che chi scrive iniziò la ricerca sul rapporto tra i due pensatori con uno studio del 1982,
intitolato Φσις e οσ α nell’interpretazione heideggeriana di Aristotele, il cui contenuto è sta-
to rielaborato e circoscritto ad un problema più specifico in La critica heideggeriana dell’analo-
gia, in «La Cultura», XXVII (1989), pp. 276-343. Manca ancora, a mia conoscenza, una rico-
struzione totale e analitica dell’interpretazione heideggeriana dei concetti di δναµις e
νργεια, ricostruzione di cui il presente lavoro costituisce per chi scrive il primo passo. Ri-
cordo tuttavia che il problema è stato già in parte trattato con la consueta perizia e rigore da
F. Volpi, La «riabilitazione» della δναµις e dell’
νργεια in Heidegger, in «Aquinas», XXXIII
(1990), pp. 3-28, e ancora, in modo anche molto pregevole da P. Rodrigo, Heidegger lecteur
d’Aristote: dynamis et energeia sous le regard phénoménologique, in «Les Études philosophi-
ques» (1990), pp. 353-72. Ricordo inoltre gli studi di U.M. Ugazio, L’Aristotele nel primo Hei-
degger, in «Annuario filosofico», VI (1990), pp. 369-88; di F. Caramuta-A.M. Treppiedi, Da
Tebe ad Atene e da Atene a Tebe. ‘Metafisica’ Θ 2 tra Aristotele e Heidegger, in «Giornale di
metafisica», XIV (1992), pp. 373-442; di G. Penati, Aristotele e Heidegger. Prospettive e mo-
menti di un’interpretazione, ivi, pp. 485-504; di A. Sordini, Heidegger a Marburgo. Una lettura
del ‘De anima’, in «Teoria», XIII (1993), pp. 55-88; e infine di P.P. Ciccarelli, Heidegger e il
concetto di negatività. Sulla «presenza» aristotelica in ‘Essere e tempo’, in «Annali dell’Istituto
Italiano per gli Studi Storici», XIII (1995/96), pp. 563-613.
1 A questo proposito A. Faust, Der Möglichkeitsgedanke, Heidelberg 1931, p. 154, ha par-
lato esplicitamente di «rompicapo».
2 Così intende E. Berti, Aristotele nel Novecento, cit., p. 81.
3 M. Heidegger, Aristoteles, ‘Metaphysik’ Θ 1-3. Von Wesen und Wirklichkeit der Kraft,
hrsg. von H. Hüni, Gesamtausgabe XXXIII, Frankfurt am M. 1981, p. 49 (d’ora in poi citato
HGA XXXIII e il numero della pagina).
4 Ivi, p. 50.
5 Ivi, pp. 49-50.
6 Ivi, p. 53.
7 Ibid.
8 Ibid.
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9 Ivi, p. 54.
10 Ibid.
11 Ibid.
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12 Ivi, p. 55.
13 Ibid.
14 Alex. Aphr. in Aristotelis metaphysica commentaria, ed. M. Hayduck, C.A.G. I, Berolini
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1891, p. 565, 20-24: κα πρ"τον [scil. διοριστον] περ τ0ς κυρως δυνµεως. λγοι δ1 2ν
κυρως δναµιν τ3ν πρ-την κα (νεδεον 4λην5 δυνµει γ#ρ πντα στν5 6τις κ2ν
πρ-τη δναµις στιν, (λλ& ο7ν οκ 8στι χρησιµοττη πρς βουλµεα νν5 α9λον γρ
τι κα :πλον κα (σ-µατον ζητοµεν νν (λλ& οκ 8νυλν τι κα σνετον.
15 Ivi, p. 566, 9-12: (λλ& ε) κα π πλον στ τ δυνµει κα νεργε<α το δυνµει
µνον 6 το νεργε<α µνον, =µως ε)πντες περ τ0ς κυρως δυνµεως ν το,ς περ τ0ς
νεργεας >ρισµο,ς δηλ-σοµεν, φησ, κα περ τ"ν ?λλων δυνµεων.
16 Si vedano a tal proposito le spiegazioni di E. Berti, Aristotele: dalla dialettica alla filoso-
fia prima, Padova 1977, pp. 416-17.
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e con περ τ"ν ?λλων (de aliis) al significato più esteso della po-
tenza e dell’atto. Alberto, invece, con una forzatura credo del tutto
giustificata, intende che l’intero procedimento abbia la sua verità
nell’atto, in modo che quegli «altri» significati della potenza e del-
l’atto siano ricompresi senz’altro nell’atto. Rimane ancora aperta la
questione concernente il perché si cominci dalla potenza non utile,
e, a tal proposito, la prima parte del passo di Alberto non offre al-
cun chiarimento. Egli infatti afferma: sebbene non corrisponda alla
nostra intenzione (che è quella di ragionare intorno all’ente vero),
tuttavia parliamo di questa potenza (quella non utile) e ne parliamo
nelle distinzioni che riguardano l’atto; ma queste chiariscono gli altri
atti ultimi e non la potenza non utile. Fin qui, pertanto, non si evi-
denzia niente di nuovo. Nella seconda parte del passo, invece, si in-
travede una soluzione: l’ente vero è quello al quale è riferita la defi-
nizione, ed essa è costituita per natura dalla potenza e dall’atto, os-
sia dal genere e dalla differenza; si aggiunga che la materia non è
qualcosa che riguardi l’ente vero se non per il fatto che, per analo-
gia con la potenza, si riferisce all’atto. Torna la tesi già nota: il signi-
ficato più comune della potenza è la materia la quale non si riferisce
all’ente in quanto ente. Possiamo considerare la materia come perti-
nente all’ente vero soltanto per analogia con la potenza, la quale a
sua volta si riferisce all’atto (che è l’ente vero). È dunque la potenza
intesa come essere-in-potenza (non la potenza fisica che è la mate-
ria) che, in quanto sia ordinata all’atto, riguarda la filosofia prima.
Anche l’atto, quand’anche sia inteso come forma o come differenza
ultima, è qualcosa che appartiene all’ente vero soltanto se sia inteso
come atto, ovvero come perfezione d’essere. E se la differenza ulti-
ma è intesa come atto, da ciò risulta che procede dalla potenza così
come la perfezione dall’incoazione e così come il definiente da ciò
che è indistinto e incapace di definire26. «Et haec potestas sic accep-
ta ut confusa nihil diffiniens est huic intentioni primae philosophiae
propria, licet propter doctrinae facilitatem inchoemus a physica po-
testate»27. In tal modo sembra che la spiegazione sia completa: la
potenza propria della filosofia prima non è la materia, bensì quell’es-
sere non ancora in atto o quell’elemento della definizione che anco-
ra non definisce, i quali concernono l’ente vero in quanto si riferi-
scano all’atto. La materia è la potenza fisica, il principio del movi-
mento, il Vermögen del quale parlano lo Schwegler e il Bonitz; la
potenza della filosofia prima è invece l’essere-in-potenza, la Möglich-
keit.
Dall’interpretazione di Alberto Magno sembra risultare chiaro
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dini per il fatto che non pone alcuna dualità di ordini. Egli vede
bensì che in Aristotele non si passa dalla potenza secondo il movi-
mento alla potenza π πλον, ma tale assenza di passaggio non im-
plica una separazione di ordini che debba essere in qualche modo
colmata. Il filosofo tedesco non esclude comunque che la potenza
π πλον abbia un rapporto con il movimento.
E a tal proposito si può fare una considerazione di carattere più
generale. Nel saggio Vom Wesen und Begriff der φσις (composto
nel 1939) Heidegger afferma che la Fisica aristotelica è «il libro fon-
damentale della filosofia occidentale». E, anche se egli ritiene tanto
che la ‘fisica’ sia ‘metafisica’ quanto che questa sia quella, sembre-
rebbe evidente che voglia assegnare proprio alla ‘fisica’ una sorta di
primato. La ‘fisica’, però, considera l’ente in movimento, pur non
considerando il movimento in quanto ente, bensì l’essere del movi-
mento (ciò che Heidegger chiama la Bewegtheit). Il movimento è co-
munque connesso alla δναµις; che in una certa fase del suo pensie-
ro, alla quale appartiene la Vorlesung su metaph. Θ, Heidegger ten-
da ad affermare il primato della potenza sull’atto, sembrerebbe evi-
dente. Da questo punto di vista, pertanto, è anche chiaro perché
egli non prenda in considerazione la differenza tra l’ordine delle
realtà mobili e quello delle realtà immobili, ma tenda ad interpretare
il significato più esteso di potenza come anch’esso relativo in qual-
che modo al movimento, anche se il movimento stesso è posto in
questione dal punto di vista ontologico e non ontico. In questo sen-
so Heidegger è autenticamente antitomista e antimetafisico, cioè nel
rifiutare la separazione tra il temporale e l’eterno, separazione che
poi la metafisica intende ricomporre mediante la fondazione del
temporale da parte dell’eterno o mediante l’analogia tra i due ordini.
Quel che può apparire singolare è però il fatto che, proprio nel sag-
gio sulla φσις, ossia là dove, come si è accennato, Heidegger tende
ad attribuire un primato alla ‘dinamicità’ rispetto alla ‘staticità’ del-
l’essere inteso (metafisicamente) come semplice presenza, può appa-
rire singolare, si diceva, che in questo scritto egli sembri riaffermare
il primato dell’atto. È ovvio (ma forse non troppo) che con
νργεια o ντελχεια Heidegger non intende l’actualitas e dunque
né la semplice presenza né la ‘fine’ del movimento, bensì «l’aversi-
nella-fine», nel quale la ‘fine’ non è da intendersi «come cessazione
del movimento, ma come inizio della motilità, come mantenimento
riprendente il movimento» («‘Ende’ nicht Folge des Aufhörens der
Bewegung, sondern Anfang der Bewegtheit als auffangendes Auf-
behalten der Bewegung», cfr. Vom Wesen und Begriff der φσις,
Wegmarken, Frankfurt am M. 19782 p. 282). È comunque vero che
l’νργεια così come il filosofo tedesco la intende ha una forte so-
miglianza con la potenza attiva della Scolastica, potenza che, per il
fatto stesso che agisce, è in atto, anche se può astenersi dall’agire. Il
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29 Guglielmo di Moerbeke traduce: «Et primum de potentia quae dicitur quidem maxime
proprie, non tamen utilis est ad quod volumus nunc».
30 S. Thomae Aquinatis in metaph. expositio, § 1772.
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31 B. Bürke, Das neunte Buch des latinischen großen Metaphysik-Kommentars von Averroes,
cit., textus 1, p. 25, 7-9.
32 Il Bürke, op. cit., afferma che il testo è incomprensibile e che Averroè non ha notato la
difficoltà di intenderlo. Lo studioso propone poi, non notando egli stesso il problema filosofi-
co che si cela dietro l’incomprensibilità del testo, di sostituire «non illud quod» con
«quamquam», così da ristabilire il significato originario: «Obwohl das keinen Nutzen bietet
für unser gegenwärtiges Vorhaben».
33 Comm. 1, p. 26, 27-29 (cito sempre dall’ediz. Bürke).
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34 Questa tesi trova riscontro, pur se in un contesto completamente diverso, in J.D. Scoti
quaest. super metaph., liber IV, q. 1, nn. 1-3 (Opera omnia, VII, Parisiis 1893, pp. 145-47),
dove si escludono, a proposito degli equivoci, la contraddizione, la conseguenza e il paragone.
35 Sulla questione, di enorme portata, conto di tornare in un’altra occasione. Cfr. comun-
que il commento di Averroè a metaph. Λ 9, in Aristotelis opera cum Averrois commentariis,
VIII, Venetiis 1562-74, unv. Nachdruck Frankfurt am M. 1962, comm. 51, f. 337r. Che lo ae-
quivoce riferito alle scienze divina e umana sia da intendersi, proprio nel contesto averroista,
piuttosto come analogice, è opinione sostenuta da Ph. W. Rosemann, Νησις νοσεως und
TAcAQQUL AT-TAcAQQUL. Das Aristotelische Problem der Selbstbezüglichkeit des un-
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bewegten Bewegers in der Kommentierug Ibn Rusds, in «Zeitschritt für phil. Forschung», XL
(1986), pp. 543-61. La tesi del Rosemann, a mio avviso non del tutto convincente, merita tut-
tavia un’attenzione che non è possibile darle in questa sede.
36 Cfr. per esempio Plot. enn. II V 1: ο γ#ρ + δναµις + κατ# τ ποιε,ν λαµβανοµνη
λγοιτο 2ν δυνµει.
37 HGA XXXIII, p. 55.
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tenza, in quanto diciamo ‘in potenza’ non solo ciò che per natura muove altro o è
mosso da altro (sia in senso semplice sia ‘in qualche modo’), ma anche in una ma-
niera diversa; perciò, nel corso di questa ricerca si deve trattare anche di questo ul-
teriore significato.
38 Alex. Aphrod. in Arist. metaph. p. 578, 30-32: δι ζητοντες, φησ, περ το
τοιοτου το κα τρως δυνατο λεγοµνου δι*λοµεν κα περ τοτων τ"ν δυνατ"ν
τ"ν πεφυκτων κινε,ν D κινε,σαι, Gς ντεεν σοµνου κ(κενου δ*λου.
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48 S. Thomae Aquinatis in octo libros physicorum Aristotelis expositio, ed. P.M. Maggiòlo,
Taurini/Romae 1965, § 7.
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49 Ivi, § 8.
50 Cfr. S. Thomae Aquinatis I, q. 85, a. 3c, che tra poco esamineremo in dettaglio.
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a noi è sempre più in potenza rispetto a ciò che per noi è più lonta-
no; una volta però si considera più in potenza l’universale, dato che
contiene potenzialmente il particolare; un’altra volta più il particola-
re, dato che ha materia. Per Heidegger, invece, la possibilità che ca-
ratterizza l’esistenza fa sì che il Dasein sia a noi vicino ma anche che
sia a noi lontano, dato che, si ripeta, l’esistenza, in quanto ‘avanti a
sé’, caratterizza l’essere del Dasein come sempre incompiuto. En-
trambi gli aspetti dell’esistenza, l’attualità e la possibilità, sono dun-
que duplici: ciascuno di essi è insieme, per noi, onticamente vicino e
ontologicamente lontano.
Si veda infine metaph. Z 3, 1029 b 3-12. Questo passo presenta
più o meno la medesima dottrina di an. post. A 1. Ciò che è più
noto per noi è ciò che è più vicino ai sensi51; ma ciò che è più cono-
scibile ai singoli spesso è poco conoscibile in sé e poco o niente ha
di essere (µικρν D ο1ν 8χει το Iντος). È evidente che viene
confermata la teoria già esposta, secondo la quale quanto più qual-
cosa è ed è in atto tanto più è conoscibile per natura e tanto meno
è conoscibile per noi. Si ribadisca comunque che per un aspetto
sono più in potenza l’universale e il tutto, mentre per un altro aspet-
to il singolare e la parte. Come i due aspetti si compongano non è
ancora del tutto chiaro. Quel che però è importante sottolineare, a
proposito di questo passo della Metafisica, è che Aristotele denota il
procedimento illustrato con l’espressione πρ 8ργου, «è prelimina-
re», dunque «è proficuo e utile»52; è utile per la nostra conoscenza
procedere da e attraverso ciò che è più noto per noi a ciò che è più
noto per natura. Sembra che qui si dica il contrario rispetto al libro
Θ, dove l’indagine preliminare concernente la potenza cinetica è
detta ο χρησµη. Eppure anche in questo caso si procede dalla po-
tenza all’atto, ma l’atto non contribuisce per nulla al chiarimento
della potenza, o per lo meno non al chiarimento del primo significa-
to di potenza. Questo significa forse, nell’orizzonte aristotelico, che
la potenza cinetica è effettivamente autonoma dall’atto, mentre la
potenza ‘metafisica’ non lo è? Oppure si deve dire che la potenza
cinetica, che è de facto autonoma, de jure, ossia considerata ‘metafi-
sicamente’ quanto alla nozione, dipende in tutto e per tutto dall’at-
to? Da tale punto di vista la polemica aristotelica contro i Megarici
avrebbe senso solo per la potenza cinetica, laddove a proposito del-
l’altra potenza dovrebbero essere affermati il primato e l’anteriorità
dell’atto. In effetti, se è vero che un costruttore ha la capacità di co-
struire a prescindere dall’esercizio e dall’esecuzione, è pur vero che
tale capacità, guardata dal punto di vista del logos, è tale solo in vir-
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53 «Praeterea, composita sunt priora quoad nos quam simplicia. Sed universalia sunt sim-
pliciora. Ergo sunt posterius quoad nos».
54 «Ad secundum dicendum quod universale magis commune comparatur ad minus com-
mune ut totum et ut pars. Ut totum quidem, secundum quod in magis universali non solum
continetur in potentia minus universale, sed etiam alia; ut sub animali non solum homo, sed
etiam equus. Ut pars autem, secundum quod minus commune continet in sui ratione non so-
lum magis commune, sed etiam alia; ut homo non solum animal, sed etiam rationale. Sic igitur
animal consideratum in se, prius est in nostra cognitione quam homo; sed homo est prius in
nostra cognitione quam quod animal sit pars rationis eius».
55 «Praeterea, Philosophus dicit, in I physic. quod definitum prius cadit in cognitione no-
stra quam partes definitionis. Sed universaliora sunt parte definitionis minus universalium, si-
cut animal est pars definitionis hominis. Ergo universalia sunt posterius nota quoad nos».
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56 «Ad tertium dicendum quod pars aliqua dupliciter potest cognosci. Uno modo absolu-
te, secundum quod in se est: et sic nihil prohibet prius cognoscere partes quam totum, ut la-
pides quam domum. Alio modo, secundum quod sunt partes huius totius: et sic necesse est
quod prius cognoscamus totum quam partes; prius enim cognoscimus domum quadam confu-
sa cognitione, quam distinguamus singulas partes eius. Sic igitur dicendum est quod definien-
tia, absolute considerata, sunt prius nota quam definitum: alioquin non notificaretur definitum
per ea. Sed secundum quod sunt partes definitionis, sic sunt posterius nota: prius enim cogno-
scimus hominem quadam confusa cognitione, quam sciamus distinguere omnia quae sunt de
hominis ratione».
57 «Respondeo dicendum quod in cognitione nostri intellectus duo oportet considerare.
Primo quidem, quod cognitio intellectiva aliquo modo a sensitiva primordium sumit. Et quia
sensus est singularium, intellectus autem universalium; necesse est quod cognitio singularium,
quoad nos, prior sit quam universalium cognitio».
58 «Secundo oportet considerare quod intellectus noster de potentia in actum procedit.
Omne autem quod procedit de potentia in actum, prius pervenit ad actum incompletum, qui
est medius inter potentiam et actum, quam ad actum perfectum. Actus autem perfectus ad
quem pervenit intellectus, est scientia completa, per quam distincte et determinate res cogno-
scuntur. Actus autem incompletus est scientia imperfecta, per quam sciuntur res indistincte
sub quadam confusione: quod enim sic cognoscitur, secundum quid cognoscitur in actu, et
quodammodo in potentia».
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grale; entrambi infatti possono essere conosciuti sotto una certa con-
fusione, senza cioè che siano conosciute distintamente le parti. E co-
noscere distintamente ciò che è contenuto nel tutto universale è ave-
re conoscenza di una realtà meno comune; conoscere, per esempio,
l’animale in modo indistinto significa conoscere l’animale in quanto
è animale; conoscerlo invece in modo distinto significa conoscerlo in
quanto è razionale o irrazionale, vale a dire conoscere l’uomo o il
leone. Il nostro intelletto, dunque, conosce l’animale prima dell’uo-
mo59. E dato che la sensibilità, così come l’intelletto, procede dalla
potenza all’atto, in essa appare il medesimo ordinamento della cono-
scenza. Si deve dire allora che la conoscenza delle cose singole è an-
teriore per noi rispetto alla conoscenza degli universali, così come la
conoscenza sensibile è anteriore a quella intellettiva tuttavia, sia per
la sensibilità sia per l’intelletto la conoscenza più comune è anteriore
a quella meno comune60.
Si osservi: il primo cognito è l’ens generalissimum; esso è forse più
in potenza rispetto ai veri enti meno comuni? E inoltre, l’ens meno
comune, in quanto sia più in atto e meno conoscibile per noi, è più
ente o meno ente rispetto a quello più comune? Sembrerebbe sia
più ente in quanto sia più in atto; essendo però meno comune con-
tiene sempre in sé, affinché sia un ente, la nozione dell’ente più co-
mune, cosicché, sotto tale aspetto, è quest’ultimo che è più ente.
Vediamo ora l’acuto commento del Caietano, a proposito del qua-
le, tuttavia, si dovrà riproporre il dubbio appena posto. Egli consi-
dera due aspetti: 1. Il tutto universale è conosciuto prima della parte
soggettiva, ossia l’animale è conosciuto prima dell’uomo. 2. Il tutto
definibile è conosciuto prima della parte definitoria, ossia l’uomo è
conosciuto prima dell’animale. In ambedue i casi si ha che la cono-
scenza del tutto è confusa e pertanto è anteriore naturaliter [?!] a
quella distinta. Così però non si può sapere quale sia il primo cogni-
to in senso assoluto, se cioè il più universale (l’animale) o il meno
universale (l’uomo); il procedimento riguarda infatti le due realtà in
quanto siano considerate come tutto o come parte, ossia ciascuna di
59 «Sic autem potest cognosci tam totum universale, in quo partes continetur in potentia,
quam etiam totum integrale: utrumque enim totum potest cognosci in quadam confusione, sine
hoc quod partes distincte cognoscantur. Cognoscere autem distincte id quod continetur in toto
universali, est habere cognitionem de re minus communi. Sicut cognoscere animal indistincte,
est cognoscere animal inquantum est animal; cognoscere autem animal distincte, est cognoscere
animal inquantum est animal rationale vel irrationale, quod est cognoscere hominem vel leo-
nem. Prius igitur occurrit intellectui nostro cognoscere animal quam cognoscere hominem: et
eadem ratio est si comparemus quodcumque magis universale ad minus universale».
60 «Et quia sensus exit de potentia in actum sicut et intellectus, idem etiam ordo cognitio-
nis apparet in sensu [...] . Est ergo dicendum quod cognitio singularium est prior quoad nos
quam cognitio universalium, sicut cognitio sensitiva quam cognitio intellectiva. Sed tam secun-
dum sensum quam secundum intellectum, cognitio magis communis est prior quam cognitio
minus communis».
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esse può valere sia come tutto sia come parte, e, si osservi, la cono-
scenza del tutto è sempre anteriore a quella della parte61.
Il Caietano nota che nell’articolo compaiono due difficoltà: 1.
Non si capisce quale sia l’ordine della conoscenza in senso assoluto.
2. Non si risponde al quesito. Da quanto si è detto si ricava in effet-
ti che il meno universale (l’uomo) è conosciuto prima del più uni-
versale (l’animale), e al contrario, giacché vengono paragonati secon-
do la nozione di parte e di tutto. Si ribadisca: il tutto è sempre co-
noscibile prima della parte, ma una volta il tutto è il più universale,
mentre un’altra volta è il meno universale. Per risolvere la difficoltà
il Caietano nega che ciò che è meno comune sia conosciuto prima
di ciò che è più comune con uguale ragione. L’ordine della cono-
scenza tra il tutto universale e la parte soggettiva e l’ordine della co-
noscenza tra il tutto definibile e la parte definitoria non sono infatti
uniformi: il primo è un ordine simpliciter, l’altro secundum quid. La
parte definitoria in sé non dipende in effetti, affinché sia conosciuta,
dal tutto definibile, ma ne dipende soltanto per il fatto che è una
parte di quello; possiamo, per esempio, conoscere prima che cosa è
l’animale e poi conoscere che esso è una parte della definizione del
Pigmeo. La parte soggettiva, invece, dipende, affinché sia conosciu-
ta, simpliciter dalla conoscenza di ciò che è più universale. Sebbene
dunque in ambedue i casi la conoscenza del tutto preceda quella
della parte, tuttavia essa non precede qualunque conoscenza. La co-
noscenza del tutto universale, infatti, precede simpliciter quella della
parte soggettiva, e non solo in quanto essa sia una sua parte. In que-
sto caso, pertanto, a maggior ragione ciò che è più comune è cono-
sciuto prima, giacché a maggior ragione si deve attendere l’ordine
della conoscenza simpliciter, il quale precede quello secundum quid62.
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63 Si ricordi che il Caietano afferma che la conoscenza del tutto, in quanto sia confusa, è
naturaliter anteriore a quella delle parti che è invece distinta.
64 Cfr. Metaphysische Anfangsgründe der Logik, hrsg. von K. Held, Gesamtausgabe, XXVI,
Frankfurt am M. 1978, p. 184.
65 Ibid.
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possibile che tra due πρτερα l’uno sia πρτερον rispetto all’altro?
E come stanno le cose a proposito del Dasein che è esso stesso un
ente, anche se di natura particolare rispetto agli altri enti?
Tali quesiti possono ora essere affrontati solo di sfuggita. Riguar-
do al primo si deve notare che Heidegger, pur non soffermandosi a
lungo sugli aspetti aporetici della tesi aristotelica, lascia intravedere,
come vedremo subito, una soluzione alla difficoltà. Si tratta, come si
è detto, di due πρτερα, dei quali l’uno è πρτερον rispetto all’al-
tro. Sembrerebbe in effetti che l’autentico πρτερον sia quello
φσει, ma sappiamo anche che si comincia da quello πρς +µHς e
che perciò in questo senso il πρτερον φσει viene dopo! In Aristo-
tele la questione si risolve considerando i due punti di vista dai qua-
li essa viene guardata; e si dice perciò che ciò che è anteriore per
noi è posteriore per natura e viceversa. Questi due punti di vista
sono successivi o simultanei? In altre parole, si dice: guardiamo la
questione da un punto di vista e poi dall’altro, oppure la guardiamo
dall’uno e contemporaneamente dall’altro? E in questo secondo caso
la dualità è o no eliminata? È evidente comunque che in entrambi i
casi è in questione il tempo. Heidegger, come si diceva, sembra es-
sere consapevole della difficoltà e la risolve affermando che «l’essere
si dà ‘in sé’ in un senso originario – è πρτερον φσει e πρς
+µHς; soltanto, compreso rettamente e non come un qualcosa di on-
tico tra gli altri66. Se si intende così, non c’è più dualità di ‘anterio-
ri’, bensì, alla maniera heideggeriana, soltanto la relazione originaria
tra essere e tempo. Si può però chiedere, ed è il secondo quesito
che avevamo posto sopra, ‘chi’ siano questi +µε,ς che continuano ad
essere nominati e in relazione ai quali si dice che l’essere è
πρτερον67. Non si può certo intenderli, nel contesto heideggeriano,
come dei ‘noi’ ontici; se così fosse, si riproporrebbe tra l’altro il
dualismo aporetico tra gli ‘anteriori’. Riformuliamo allora il secondo
quesito: come stanno le cose a proposito del Dasein che è anch’esso
un ente, ma ‘difforme’ dagli altri enti? Ferme restando le osservazio-
ni fatte a proposito della lontananza-vicinanza del Dasein rispetto a
sé stesso, concludiamo rapidamente dicendo che Heidegger tenta di
rispondere al quesito nell’intera seconda fase del suo pensiero ma in
fondo già a partire da Sein und Zeit. JΗµε,ς non siamo ‘noi’ indivi-
dui ontici ma ‘noi’ in quanto ‘assegnati’ all’essere nel Da del Da-sein.
Nel Da come Lichtung si dovrebbe realizzare la confluenza tra
φσις e +µε,ς.
66 Ivi, p. 186.
67 A tale riguardo, con una impostazione del tutto diversa dalla presente, ha prodotto ar-
gomenti interessanti M. D’Abbiero, Essere-nel-mondo ed essere-dentro-il-mondo: chi è il «Da-
sein» di Heidegger?, in «Paradigmi», IX (1991), pp. 425-50.
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