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Passaggi Einaudi
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Einaudi
L’arrivo
Male
Maafushi
Himandhoo
Male, di nuovo
Thilafushi
a V.
con una penna d’argento
sesso. Sono vestite con quei vestiti tipo indiani, etnici. Hanno
degli anelli di bambú, i capelli con le treccine colorate. Una
legge Jonathan Franzen, l’altra invece un report che ha tirato
fuori da una borsa di tela con il logo dell’Onu. L’ultimo sulla
Siria, probabilmente, o una cosa del genere, perché è emer-
genza: hanno deciso di tagliare ai profughi le razioni di cibo.
Dicono che non hanno piú un centesimo.
Dicono che non arrivano alla fine del mese.
I piú nervosi comunque sono due baresi con il viaggio di
nozze pagato a rate, il trolley di Carpisa. È la loro prima volta
in aereo. Hanno prenotato il volo sei mesi fa, prima del ten-
tato colpo di Stato contro Erdoğan, prima dell’attentato
proprio qui, in aeroporto, prima di tutto. Un volo con uno
scalo di otto ore: ma in agenzia gli hanno detto di stare lon-
tani dall’area del duty free. E quindi si sono portati i taralli
e hanno dormito in un corridoio sperduto. Vicino a un’uscita
di sicurezza. Gli hanno detto di stare lontani dai luoghi af-
follati, mi spiega il ragazzo, ma anche dai luoghi isolati, che
magari scampi all’attentato ma vieni rapinato, e poi di stare
lontani dai tipi sospetti, ma anche dai tipi normali, perché
in realtà di questi tempi piú si è normali e piú si è sospet-
ti. Quelli dell’Undici settembre, no?, erano tutti ingegneri.
E poi gli hanno detto di stare lontani dai cestini della spaz-
zatura, dalle vetrate, dai bagagli, dai bagagli senza proprie-
tario ma anche dai bagagli, in assoluto, lontani dagli zaini,
dalle buste, dalle scatole, lontani da chi ha gli anfibi, perché
la suola degli anfibi è perfetta per l’esplosivo al plastico, ma
soprattutto, lontano da chi ha un’aria araba, in particolare le
donne, perché le donne non viaggiano mai sole, figuriamoci,
non escono di casa, sono la cosa piú perfida: le donne arabe.
La piú normale, la piú sospetta.
Il ragazzo mi guarda.
Ho i capelli neri e gli occhi neri.
E sono da sola.
– Comunque scusa, – mi fa. – Ora andiamo che è tardi –.
E si dileguano.
– Italiana, – dice.
– Ho visto quelle foto di… Come si chiama. Con tutti i
musulmani che pregano nei parcheggi dei supermercati.
Si chiama Nicolò Degiorgis. Il fotografo.
L’Italia ha , milioni di musulmani. E otto moschee. I
musulmani pregano in palestre dismesse, campi incolti. In
periferie di cemento e ciminiere. Tra vecchi copertoni.
Al riparo di teli di plastica.
E Nicolò Degiorgis è andato a fotografarli.
– E dove hai visto le sue foto? – dico.
– Su «Time», – dice.
– «Time»?
Lo guardo.
– Uno che studia in Pakistan? – dico.
– Leggiamo i vostri libri. Leggiamo i vostri giornali. Sie-
te voi che non parlate una parola d’arabo. E però state lí a
insegnarci come dobbiamo vivere. Il Pakistan probabilmen-
te neppure sai dove sta. E però sono dodici anni che i tuoi
droni bombardano il Pakistan.
Mi guarda.
– E quindi abiti a Ramallah. Sei stata a Gerusalemme?
– Sí. Sí, sono una decina di chilometri. È vicina. Cioè,
no, non è vicina: ci vogliono due ore. Anche tre. Dipende.
Dipende dal Muro, c’è un checkpoint, di mezzo.
– Però tu puoi andarci.
– Gli stranieri, sí. Noi possiamo andarci. I palestinesi no.
– E tu lavori per i palestinesi?
– Sí. Insegno musica a…
– Però tu puoi andare a Gerusalemme.
– Sí.
– Tu non capirai mai i palestinesi.
E torna a guardare la Siria.
– Sono lí in fondo.
Il proprietario mi indica una pila di cappelli di paglia.
– Ma questi sono tipo Panama, no? Volevo il cappello ti-
pico di qui.
– Tipico?
– Volevo il cappello… Il cappello che hanno tutti.
Mi indica una pila di berretti da baseball.
– Quello che usano tutti, – dice, – è questo.
– No… Piú che tipico: tradizionale. Volevo il cappello
tradizionale delle Maldive.
– In che senso tradizionale?
– Tradizionale. Il cappello tradizionale.
– Tipo: il cappello di mio padre?
– Sí, una cosa cosí. Suo padre che cappello aveva?
– Che cappello ha: è vivo, grazie a Dio. Ha un berretto
come questi.
– No, no… Allora: suo nonno. Suo nonno, per esempio,
che cappello aveva?
– Mio nonno?
Mi guarda.
– Non so se avesse un cappello, onestamente, – dice.
– Credo usasse una sciarpa. Per il sole. Una sciarpa bianca.
Ma che significa? Avesse visto questi, avrebbe usato uno di
questi, no? Usava le candele: ma se avesse visto le lampadi-
ne, secondo te avrebbe usato ancora le candele? Avrebbe
comprato uno di questi berretti qui.
– Sí, – mi liquida. – Direi proprio che sono i berretti tipici.
Cosí tipici che li userebbero anche i morti.
Nel secondo negozio, ci sono due turisti danesi. E c’è
un po’ di tutto. Magliette, stuoie, delfini di legno, delfini di
plastica, delfini di ceramica. Infradito. Accendini. Scorpioni
incorniciati. Ragni incorniciati. Magneti da frigorifero. Sot-
tobicchieri di madreperla, sottobicchieri a forma di pesce,
sottobicchieri a forma di panda.
C’è anche una coda di volpe.
– Cercavo un cappello. Un cappello di foglie di palma.
– Sono qui.
Il proprietario mi indica una pila di cappelli di paglia.
– No. Palma. Non paglia. Un cappello di foglie di palma.
– Foglie di palma?
– Ma sí, – fa il danese. – Il cappello verde. Quello che
poi dopo diventa giallo.
– Ma sí. Il cappello tradizionale di qui.
– In che senso tradizionale?
– Quello che hanno tutti. Quello di quella pubblicità…
Ma sí. Quello verde.
Sono marito e moglie. Sono dieci anni che vengono alle
Maldive.
Stanno andando in aeroporto.
Perché i turisti si fermano a Male al piú per un paio d’ore,
giusto per comprare un po’ di boccette di sabbia. O non si fer-
mano affatto. Se cerchi le previsioni del tempo, sull’iPhone,
non trovi Male, trovi direttamente: Aeroporto di Male.
È la prima cosa che noti, qui. Arrivi, sei alle Maldive: e
non ci sono hotel.
Non ci sono turisti.
Mentre i due danesi pagano, rovisto in giro un altro po’.
Shampoo di noce di cocco. Latte di noce di cocco. Olio di
noce di cocco. Sapone di noce di cocco.
Mestoli di noce di cocco.
– Allora, – dice il proprietario. – Vediamo un po’ questo
cappello. Hai una foto?
Giusto. Una foto. Il tipo del Guatemala.
O della Giamaica, cosa diavolo era.
Gli passo il mio telefono. Acquerelli su noci di cocco.
Candele dentro noci di cocco. Borse di noci di cocco. Quat-
tro statuette di gatti con brillantini.
– Ma questa è la Siria.
Mi guarda.
– Ma sei siriana?
– No, dico.
– Ma questa è Aleppo.
vita cosí del cazzo che il meglio è quello che per gli altri è
spazzatura.
– Ma no, ora… Poi, insomma, quanti anni ha questo
Gayoom? Novanta? Quanto ancora…
– Siamo invisibili. Completamente invisibili. E continue-
remo a esserlo fino a quando uno di questi ragazzi non salterà
in aria insieme a trenta turisti, e tutto il mondo si accorgerà
di cosa significa davvero vivere qui. E però a quel punto non
verrà piú nessuno. E l’economia crollerà, e il governo arreste-
rà tutti. E sarà un disastro. Sarà anche peggio di adesso. Devi
raccontare le Maldive ora. Non dopo. Dopo è inutile.
– Ma infatti sono qui. E ora scrivo. Scrivo tutto. Giu-
ro. Se però lei intanto… Ma comunque anche su internet,
in realtà. Dal tipo del Guatemala. Che dice? Forse potrei
comprare questo cappello su internet. Forse è piú semplice.
– Si sentono tutte queste analisi, tutte queste teorie…
Ma è cosí difficile da capire? Un mondo cosí è un mondo che
non può funzionare. Questa è la nostra unica vita: e vogliamo
viverla. Certo, se uno crede che questo è il paradiso, allora
sembra che siamo matti. Ma tu devi dirgli tutto. Ma proprio
tutto. Hai tempo per un caffè, vero? Ti aiuto io. Ci penso io.
– Conosce qualcuno che fa il cappello?
– Ho un nipote.
– Ha un nipote che fa il cappello?
– Ho un nipote che sta andando in Siria.
Perché poi ora che sto alle Maldive, invece che in Siria,
finalmente sono tutti tranquilli.
Tutti che mi scrivono: «Brava». «Rilassati».
– Per questa sera stai a Villingili, – dice Kinan. – E domani
poi ti sposti su un’altra isola. Intanto, – dice, – cerco di capi-
re chi è quest’uomo. Ma tu per un po’, stai lontana da Male.
Torno all’imbarco dei traghetti camminando rasente ai
muri. Di nuovo vigile come al fronte, in un secondo: alzo la
guardia: di nuovo attenta a ogni rumore, ogni ombra. Ogni
dettaglio. Ogni cosa che prima non c’era.
Ogni cosa che sta dove non dovrebbe stare.
E giuro: sono certa che nessuno mi abbia seguito. E invece
arrivo, mi richiudo il cancello alle spalle, e due ragazzi entra-
no subito dopo di me. Due ragazzi di qui. In un residence per
stranieri. Chiedono al proprietario di vedere una stanza. E il
proprietario mi guarda, poi li guarda: nervoso. Apre una stan-
za al piano terra. L’istinto mi dice di correre fuori, e dileguar-
mi: la testa mi dice di rimanere lí. In mezzo ad altre persone.
Escono.
Mi passano davanti. Uno dei due si ferma.
Tira fuori un coltello, mi fissa un momento. Ruvido.
E va via.
È mezzanotte quando mi scrive Kinan. «La gang di cui
ti parlavo», dice, «quella di cui non ricordavo il nome. Si
chiama Bosnia».
Chissà quante, un giorno, si chiameranno Aleppo.
Mi guarda.
– Un cappello che è un po’ un simbolo?
– Diciamo un simbolo. Sí.
– Allora questo, – dice.
E tira fuori un cappello a forma di Nemo. Il pesce. Quel-
lo del film della Disney. Il pesce arancione.
Piú che un cappello tra l’altro è un berretto. Un berretto
a forma di Nemo.
– Ma questo è Nemo.
– No che non è Nemo.
– Sí che è Nemo.
Mi guarda.
– Vedi? – dice. – È proprio il simbolo delle Maldive. Que-
sto pesce è nostro, – dice. – Non vostro.
Lo guardo.
– Di chiunque sia: questo pesce è Nemo.
– E invece no. Per niente. Questo pesce non è Nemo: è
il nostro pesce piú comune. Ma arrivate, e vi appropriate di
tutto. E trasformate tutto in un mondo a vostro uso e con-
sumo. Ma è tutto finto. Il vostro mondo è tutto finto. Non
esiste. Questo pesce non è Nemo. Cercavi il simbolo delle
Maldive? – dice. – Eccolo.
– Venite qui e credete di essere stati alle Maldive. E in-
vece non siete mai stati alle Maldive. Non siete mai stati da
nessuna parte, – dice.
– Forse gli altri, – dico. – Ma io sto a Male. Non sto in
un resort.
– E che differenza fa? – dice. – Tu guardi: mica vivi. Tu
non sai cosa significa davvero.
– O pensi di sapere cosa significa sudare tutta una vi-
ta, – dice, – tutto il giorno, tutti i giorni, sempre, ed essere
costretti a chiedere l’elemosina a un deputato per pagarti un
medico? Con questi ricchi sfondati, in televisione, che dico-
no: Mi sono guadagnato tutto fino all’ultimo centesimo. Mi
sono meritato tutto. Come se fossero stati piú bravi di te. E
invece sono solo stati piú ladri.
notte, i tonni e gli orsi. I cristiani e gli ebrei. Chi siamo noi
per saperne piú di Dio? Mio fratello non è andato a Gerusa-
lemme semplicemente perché Israele a Gerusalemme non ti
fa entrare. Poi possono raccontarla come vogliono: ma van-
no in Siria perché in Siria li lasciano andare.
– Perché poi ogni tanto ho sbirciato i suoi libri. E one-
stamente, sono identici ai nostri. Ai nostri libri di univer-
sità, – dice. – Spiegano l’Islam in modo sostanzialmente
corretto. Però poi c’è tutta la parte sulla jihad che è un po’
qui un po’ lí, un po’ sullo sfondo di tutto. Non è trattata in
modo organico. E l’Islam si può interpretare in molti modi:
ma non in ogni modo. Il concetto di jihad è abbastanza pre-
ciso. Per quanto tu possa ampliarlo, non puoi prendere un
tir e schiantarti sulla gente. Ma in quei libri la jihad è come
fuori contesto.
– È come se dicessero: il mondo è ingiusto, reagisci, – dice.
– Comunque non è questione di libri, onestamente. Qua-
lunque cosa sia scritta in quei libri: è che tutti i suoi amici
andavano in Siria. E quando uno è morto al fronte, è sta-
ta la fine. A quel punto non parlava d’altro, – dice. – Stava
sempre lí con il Corano. Vestito come un arabo –. Poi però,
per un po’, è tornato il ragazzo di sempre. E hanno abbassa-
to la guardia. – Ha ricominciato a nuotare. A correre. Cosí.
All’improvviso. Ogni mattina, come prima. E ha cambiato
lavoro. Non parlava piú di Siria. Non avremmo mai imma-
ginato che invece si stava allenando per combattere, e con
quel nuovo lavoro voleva pagarsi il biglietto per la Turchia.
Quando è sparito, abbiamo capito subito. E abbiamo tele-
fonato alla polizia, perché venisse fermato a Istanbul: ma
niente. Non hanno neppure richiamato. E mio fratello è ri-
comparso su Facebook con un kalashnikov.
In famiglia è l’unica a parlargli ancora. – Sta con altri ra-
gazzi di qui, e con altri stranieri. Gli unici che non vedo, nelle
foto, sono i siriani che sostiene di aiutare. E però… Però un
po’ ho paura a sentirlo, confesso. Perché temo mi convinca.
A volte penso: e se invece avesse ragione? Stiamo qui come
Tutte dello stesso colore. Perché tanto non sai mai chi
trovi.
E cosa pensa, con chi sta. Per cosa combatte.
Se ti spara o no.
I musulmani in genere ti parlano di salafiti e basta, quale
che sia il gruppo a cui si riferiscono. Ti parlano di islamisti,
cioè, che predicano l’Islam delle origini, l’Islam dei tempi
di Maometto – dei salafi, appunto: degli antenati. Oppure,
ti parlano semplicemente di al-Qaeda. Perché tra l’altro, al-
Qaeda non è un termine coniato dai jihadisti. Cioè, non è
stata al-Qaeda a chiamarsi al-Qaeda: è stata la Cia, negli anni
Novanta, a chiamarla cosí. E in un certo senso, a crearla, a
crearsela cosí. Nel solo modo in cui avrebbe potuto affron-
tarla. Perché in arabo al-qaeda ha piú significati. Può essere
tradotto come «la base», in senso materiale, una base mi-
litare, una base operativa, ma anche in senso piú astratto,
come «le fondamenta». I principî di base. E anche come
avanguardia, in senso gramsciano: la minoranza che sta in
prima linea, e anticipa e guida la maggioranza che seguirà.
Il significato che i musulmani non ti citano mai, è quello che
invece ti citano gli occidentali: un’organizzazione. Un’orga-
nizzazione a rete, magari, fluida, ma comunque un’organiz-
zazione. Perché come dice Kareem, l’egiziano: – Al-Qaeda
è un modo di stare al mondo –. E però come combatti un
modo di stare al mondo?
Nei nostri sistemi giuridici per spiccare un mandato d’ar-
resto per cospirazione, per esempio, che è il capo d’accusa
tipico contro chi sta pianificando un attentato, è necessaria
l’appartenenza a un’organizzazione. Non puoi fermare qual-
cuno per quello che pensa.
Per la sua visione del mondo.
Anche se è quello che al-Qaeda è, invece.
Molto piú di un’organizzazione. Un modo di essere.
Un’interpretazione del mondo.
In senso letterale: di tutto il mondo. – Quando con una
ruspa abbiamo abbattuto il confine tra Siria e Iraq, come
– E ha proprio la h.
– Himandhoo. Sí.
– E comunque, – dice Firas, – il Bardo, Sousse: combat-
tiamo con i mezzi che abbiamo. Che non sono i vostri dro-
ni, è vero. I vostri missili. Non possiamo sconfiggervi. Non
possiamo cambiare le cose, – dice. – Però possiamo rendervi
la vita impossibile: e costringere voi a cambiarle.
– Sono finiti, – dice, – i tempi in cui eravate i padroni.
– Niente, – dice, – è come prima.
– No, mi spiace.
– E sono quasi affondata. C’era un mare terribile.
– Mi spiace.
– E suo zio non ha lasciato… Non so, degli appunti.
Mi guardo intorno. La stanza trabocca degli oggetti piú
svariati, il pavimento cosparso di ami, lenze, ciotole di pla-
stica, rotoli di corda, rotoli di stoffa, un forno. In un angolo
c’è anche il motore di un gommone, cosí, poggiato come si
poggia un ombrello.
– Degli appunti?
– Tipo… Tipo un quaderno, ha presente? Il quaderno
con la ricetta della parmigiana. Le polpette. Mia nonna ha
scritto tutto. Tutto a stampatello. Preciso. Magari anche
suo zio: ha lasciato…
Mi guarda.
– … la ricetta. No? Del cappello.
– No. Mi spiace. Ma da dove sei venuta? Sembri araba.
– Magari c’è un cappello avanzato, qui. Ha controllato?
Qui in mezzo, magari… No, non sono araba. Però vivo in
Medio Oriente. Magari lí dentro, in quella specie di…
– In Medio Oriente?
– Sí. Lavoro con i profughi siriani. Lí, vede, in quella
specie di…
– Con i siriani! Che Dio ti benedica, figliola. Brava. Aves-
si l’età, andrei in Siria anch’io.
In Siria?
Dov’è che andrebbe, questo?
– Ma io veramente non…
Entra un vicino.
– Hai sentito? Questa ragazza. Senti che brava. Sta con
i siriani.
– Stai con al-Nusra?
– Io… Io… No, cioè, io: aiuto i profughi. Non combatto.
– Brava, figliola. Brava. Però ricorda: non basta aiutare
i profughi, bisogna impedire che diventino profughi. Un fe-
rito non è un ferito: è una vittima.
le parti, piú che una sentenza. Perché tutti abbiamo una re-
sponsabilità in quello che accade. La vita non è mai in bian-
co e nero. Il problema non è condannare: è capire. Impara-
re. Capire cosa ha voluto dirci Dio, e cambiare. Migliorare.
– E possibilmente, – dice, – migliorare tutti insieme. Per-
ché anche dopo il peggiore dei crimini, siamo comunque te-
nuti a vivere insieme. A condividere questo mondo. Questo
tempo che ci è dato. La vostra, invece, è una società violen-
ta, – dice. – Che esclude. Avete il bene e il male. Si sta den-
tro o si sta fuori. E casualmente, – dice, – poi fuori stanno
sempre i poveri. I neri.
– I musulmani, – dice.
– E la sharia è sufficiente. Una società non ha bisogno
d’altro. Perché l’Islam ha una soluzione a tutto. Certo, non
nei dettagli, – dice. – Però indica la direzione. Una direzio-
ne inequivocabile: perché il Corano ha segnato un progresso
in tutti i campi. Considera i non musulmani. In cambio di
una tassa, vivevano liberi: in un’epoca in cui l’Europa ave-
va l’Inquisizione. Mentre l’Europa aveva Hitler, Baghdad
aveva una maggioranza ebraica.
– In realtà, – dice, – abbiamo tutti una religione. Dei
principî indiscussi. Non credere è un atto di fede quanto
credere. Che differenza c’è tra l’Iran, che prescrive l’hijab,
e ti copre per forza, e la Turchia invece, che vieta l’hijab, e
ti scopre per forza? – dice.
– Ma qui, – dico, – è molto piú di un hijab. Siete tut-
te in nero. Fino a terra. Ho provato il niqab, e giuro, – di-
co, – non si cammina.
– Però, – dice, – con il tacco di centimetri invece hai
imparato? Anche con il tacco di centimetri non si cammi-
na. Nessuno mi obbliga a coprirmi. Sono io a obbligare, è il
contrario: sono io a obbligare chi mi parla a giudicarmi per
quello che sono, e non per quello che sembro.
– Tu, – dice, – dipendi dagli uomini molto piú di me. Voi
volete liberarci, – dice, con questa sua voce gentile. – E noi
vogliamo liberarvi.
– Tutto qui, – dice.
E mi offre una specie di palla verde con un foro, e poi
una cannuccia: da cui deduco che è una cosa che si beve. In
realtà, la mia attenzione è tutta su un planisfero. Le Maldive
sono al centro. E quindi l’Europa è a sinistra, e l’America è
a destra. – Sembra un altro mondo, – dico.
Dice: – È un altro mondo.
E ha ragione.
diritti: e però tutti zitti. Tutti servi. Tutti l’uno contro l’al-
tro, – dice. – Oggi nel mondo una minoranza della popola-
zione possiede tutto. Quanto sarà? Il per cento? E però
voi non è che pensate che il mondo, cosí, non può funziona-
re: pensate che volete essere in quel per cento. Poi dici a
me: violento. Tu hai la guerra in casa.
– Poi forse falliremo, – dice. – Ma intanto noi ci abbia-
mo provato.
Un’altra esplosione.
– Cinquecentomila morti, e stai a chiedermi: perché. Per-
ché sto qui, – dice.
– Ecco, com’ero. Ero come te. – dice. – Non capivo.
– Era tutto davanti a me, era tutto lí, chiaro. Ma io nien-
te, – dice, – non capivo.
– Proprio non capivo. Ero come te, – dice. – Proprio
non capivo.
Non so niente.
A un certo punto, intravedo una ragazza. O piú che al-
tro, un’ombra, nell’ombra. Sotto il niqab. Mi si avvicina, e
mi dice: – Sei tu che volevi il cappello, vero?
– Il cappello?
– Il cappello tradizionale delle Maldive, sí. Sei tu, vero?
È pronto.
– Ma davvero? – dico. – Grazie.
E dire che sono venuta qui per caso. Solo perché ero an-
cora sveglia.
E invece.
Tutto ha un senso.
– Grazie, – dico. – Grazie, davvero.
E mi dà un cappello bianco. Una taqiyah.
Il cappello… Il cappello quello dei salafiti. Quello che
usava Maometto.
Bianco. Di cotone.
Mi guarda. Mi dice: – Torni in Siria, adesso?
– Coraggio, – mi dice.
Mi dice: – Che Dio ti benedica.
gli altri: con chi attacca e con chi si difende, e i ruoli si in-
vertono, si invertono di continuo, e tu qui, stretta tra due
ossessioni, tra due sottomissioni, perché poi in realtà vo-
gliono tutti certezze, certezze e nient’altro, mentre sei qui
a provare a spiegare i jihadisti, a capire le loro ragioni, tu
che poi in Siria, però, e ovunque, vivi guardandoti le spal-
le, e anche qui, a spiegare i jihadisti camminando rasente
ai muri: e che senso ha? Ma d’altra parte, anche in Europa:
con i musulmani, tutti i musulmani, senza distinzioni, che
ormai sono i neri, sono gli ebrei di questo secolo, e sembra
che non abbiano una qualità, una cosa positiva, una cosa
bella, una cosa da cui imparare, niente: sembra che siano
un problema e basta, in questa Europa in cui provi a spie-
gare i jihadisti, e sei anche tu un terrorista. E ti è vietato
anche solo scrivere «Stato islamico», perché significa rico-
noscerlo, ti dicono, e legittimarlo: significa accettarlo – esat-
tamente come gli islamisti, che sono settant’anni, e anco-
ra stanno qui a parlarti di «entità sionista»: sono convinti
che sia sufficiente non nominare Israele perché un giorno
scompaia. Uguali.
Uguali e contrari. E tu in mezzo.
In questo mondo che non è mai il tuo.
C.L.
Ristampa Anno