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Passaggi Einaudi

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©  Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
www.einaudi.it

ISBN ----

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Francesca Borri
Ma quale paradiso?
Tra i jihadisti delle Maldive

Einaudi

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Indice

 L’arrivo
 Male
 Maafushi
 Himandhoo
 Male, di nuovo
 Thilafushi

 Nota al testo

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– E quindi vivi in Medio Oriente? Ma veramente?
Il tassista mi squadra dallo specchietto retrovisore.
– Veramente. Vivo a Baghdad.
– A Baghdad?
Sposta lo specchietto per squadrarmi meglio.
– Sono una giornalista di guerra.
– E stai in Iraq.
– In Siria e Iraq.
– Ma stai dove sta al-Qaeda?
– Anche al-Qaeda, sí.
– Ma veramente? Stai con al-Qaeda?
– Sí.
– Con al-Qaeda? – Frena di colpo.
– Cioè, non è che sto con al-Qaeda. Però sto dove sta
al-Qaeda.
Si illumina. Mi fa: – Ma guarda tu!
– Con al-Qaeda! Ma allora hai incontrato i nostri!
Mi fa: – Hai visto che coraggio?
Mi fa: – In prima linea!

A Parigi, a Bruxelles, a Tunisi, parli con i musulmani dei


jihadisti dell’Isis e tutti hanno quest’aria mortificata, quasi
a volersi scusare, quasi si sentissero responsabili, ti dicono:
Sono fuori di testa. Ti dicono: Non sono musulmani.
Alle Maldive ti dicono: Sono degli eroi.

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Ma quale paradiso?

a V.
con una penna d’argento

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L’arrivo

In genere i turisti occidentali neppure notano che questo


è un paese musulmano. E invece, è il paese non arabo con
il piú alto numero pro capite di foreign fighters. Contarli,
ovviamente, non è semplice, ma quelli di cui si ha traccia,
finora, sono duecento, piú o meno. Su una popolazione di
trecentocinquantamila abitanti. Il governo nega. Catego-
rico. Ma alle Maldive hanno tutti un fratello, un cugino,
un amico in Siria. Ad agosto, mentre tutto il mondo guar-
dava le Olimpiadi, alle Maldive tutti guardavano la batta-
glia di Aleppo.
E tifavano al-Qaeda.
Il problema è che, a parte guide sparse e il libro di un
giornalista australiano che un paio di anni fa, stanco della
frenesia di Londra, ha pensato bene di andare a rifugiarsi in
un angolo di paradiso a scrivere per un quotidiano locale e
ritrovare il senso della vita, e si è ritrovato invece un mache-
te conficcato nella porta della redazione, sulle Maldive, se
cerchi su Amazon, trovi un libro solo: lo studio di un antro-
pologo spagnolo sui regni di mare e oceano. Piú tre libri di
viaggio, e che però piú che di viaggio ormai sono di antiqua-
riato: il piú venduto è il diario di Ibn Battuta.
Che sbarcò alle Maldive nel XIV secolo.
Sostanzialmente, l’unico libro al mondo sulle Maldive, al
momento, è la Lonely Planet.
E a Istanbul, onestamente, in aeroporto, al gate per Male,
che è la capitale delle Maldive, i turisti hanno l’aria di non
essersi letti neppure quella.

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 Ma quale paradiso?

Praticamente alle Maldive tutto quello che agli stranieri


è consentito, ai locali è vietato. Tipo l’alcol. O il sesso fuo-
ri dal matrimonio: sono cento frustate. Era Ramadan, una
volta, e un tizio si è imboscato in un sottoscala con un tra-
mezzino: è stato arrestato. Le Maldive sono un paese un po’
conservatore, avverte con tatto la Lonely Planet. Fuori dai
resort, maniche lunghe e niente eccessi.
Che se guardate le ragazze, invece che i delfini, sono cazzi.
Ma al gate per Male, i turisti sono già tutti pronti in ber-
muda e infradito. Non che siano molti, in realtà. Oggi che ot-
to miliardari, secondo gli ultimi calcoli, possiedono la stessa
ricchezza della metà della popolazione del pianeta, quelli che
possono permettersi le Maldive non sono abbastanza da riem-
pire un aereo intero: l’aereo fa solo scalo a Male, va in Sri Lan-
ka. I passeggeri sono per lo piú asiatici minuti in finti Levi’s e
finte Nike, la pelle scura. Stanno tutti da un lato, timidi. Co-
me un po’ in soggezione. Una famiglia russa dorme dietro ma-
scherine Gucci tutte uguali e una barriera di trolley Hermès.
La ragazzina in tacco Jimmy Choo, la madre con una Selleria
gialla di Fendi. Il padre ha un Rolex con la ghiera verde, due
braccialetti e una collana d’oro, tre anelli, una camicia di lino
mezza aperta sul tatuaggio di un drago, o forse è un serpente,
o anche l’ammortizzatore di una moto, e dei mocassini di pelle
bianca. Tipo coccodrillo. E ha in mano il passaporto. Foderato
Vuitton. Il figlio piccolo intanto sfreccia in hoverboard e cuf-
fie Bose. In fondo, dietro tre svedesi con tutta l’attrezzatura
da sub, due francesi sui settant’anni, elegantissimi. Entram-
bi. Lui con il Panama e un sigaro spento, lei con un cappello
da attrice anni Trenta, a tesa larga, una copia di «Le Monde»
nella borsa. Discutono di fili spinati. Di frontiere. Di banca-
rotte morali, di profughi morti, per un attimo mi sembra stia-
no parlando di Calais, ma poi lei dice che è l’individualismo
americano, dice: – Trump, il turbocapitalismo –. Dice: – Noi
in Europa siamo un’altra cosa –. No. Parlano del muro con il
Messico. A destra, sdraiate, due trentenni con i sandali e l’a-
ria delle funzionarie di una Ong in cerca di una settimana di

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L’arrivo 

sesso. Sono vestite con quei vestiti tipo indiani, etnici. Hanno
degli anelli di bambú, i capelli con le treccine colorate. Una
legge Jonathan Franzen, l’altra invece un report che ha tirato
fuori da una borsa di tela con il logo dell’Onu. L’ultimo sulla
Siria, probabilmente, o una cosa del genere, perché è emer-
genza: hanno deciso di tagliare ai profughi le razioni di cibo.
Dicono che non hanno piú un centesimo.
Dicono che non arrivano alla fine del mese.
I piú nervosi comunque sono due baresi con il viaggio di
nozze pagato a rate, il trolley di Carpisa. È la loro prima volta
in aereo. Hanno prenotato il volo sei mesi fa, prima del ten-
tato colpo di Stato contro Erdoğan, prima dell’attentato
proprio qui, in aeroporto, prima di tutto. Un volo con uno
scalo di otto ore: ma in agenzia gli hanno detto di stare lon-
tani dall’area del duty free. E quindi si sono portati i taralli
e hanno dormito in un corridoio sperduto. Vicino a un’uscita
di sicurezza. Gli hanno detto di stare lontani dai luoghi af-
follati, mi spiega il ragazzo, ma anche dai luoghi isolati, che
magari scampi all’attentato ma vieni rapinato, e poi di stare
lontani dai tipi sospetti, ma anche dai tipi normali, perché
in realtà di questi tempi piú si è normali e piú si è sospet-
ti. Quelli dell’Undici settembre, no?, erano tutti ingegneri.
E poi gli hanno detto di stare lontani dai cestini della spaz-
zatura, dalle vetrate, dai bagagli, dai bagagli senza proprie-
tario ma anche dai bagagli, in assoluto, lontani dagli zaini,
dalle buste, dalle scatole, lontani da chi ha gli anfibi, perché
la suola degli anfibi è perfetta per l’esplosivo al plastico, ma
soprattutto, lontano da chi ha un’aria araba, in particolare le
donne, perché le donne non viaggiano mai sole, figuriamoci,
non escono di casa, sono la cosa piú perfida: le donne arabe.
La piú normale, la piú sospetta.
Il ragazzo mi guarda.
Ho i capelli neri e gli occhi neri.
E sono da sola.
– Comunque scusa, – mi fa. – Ora andiamo che è tardi –.
E si dileguano.

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 Ma quale paradiso?

L’aereo è tra quattro ore.


In realtà l’agenzia ha raccomandato anche di staccare la
suoneria del telefono: cosí se i terroristi iniziano a sparare,
ti fingi morto. E quindi, quando atterriamo, lui trova tre-
cento chiamate della madre. È stata tutta la notte davanti al
televideo a controllare se avevano dirottato un aereo.
– Ancora, ma’! – le dice. – E ti ho detto, non ho visto,
stev’ a dorm’. Comunque mo’ siamo arrivati. Tutt’a posto.
Scende dalla scaletta dell’aereo.
– E non lo so se fasc’ fridd’, ma’, siamo arrivati mo’ mo’.
Comunque avast’, che stogghe a paga’ i’ ’u telefono, che vuo’
che succede qua? Alle Maldive? Ma’… Ma’, non ti sendo,
che ci stanno i lavori. Ci stanno gli operai.
Stanno ristrutturando l’aeroporto.
– Le stramurt… attenzione!
Un muletto gli taglia la strada.
– Tranquilla, ma’. Che non sto cchiú in Turchia. Qua è
sicuro.
I lavori sono stati appaltati a un’impresa saudita.
– Ma’! Ma’, che non ti sendo! Chiudo! Tutt’a posto!
L’impresa della famiglia Bin Laden.

E comunque, a Male in aeroporto la sala arrivi in realtà


è un’altra sala partenze. Perché arrivi, e ti imbarchi per un
resort. Per una delle isole riservate agli stranieri.
Non c’è nemmeno un cartello con la scritta: «Uscita».
Anche se abbiamo tutti un fratello, un cugino, un amico
che è stato alle Maldive, le Maldive sono cosí un altro mondo
che Google non ha idea di come raggiungere il mio hotel. È
sulla stessa isola dell’aeroporto, Hulhumale, ma è all’estremi-
tà opposta: distanza , chilometri. Google dice di prendere
il traghetto per Male davanti alla sala arrivi, e poi di tornare
indietro, ma con un traghetto diverso, che invece attracca a
metà di Hulhumale. Da lí dice di andare dritto e poi a sini-
stra. E poi nuotare, credo, perché il pallino blu dell’hotel è
in mezzo al mare.

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L’arrivo 

Tempo stimato  ore e  minuti.


Al banco informazioni mi guardano un po’ strani. E an-
cora piú strani alla fermata dei taxi. Tre bambini mi fissano
come ti fissano in Africa quei bambini che non hanno mai
visto stranieri, delle ragazzine confabulano sulle mie Asics
rosse. Poi una signora si fa coraggio.
– Ha sbagliato fermata, – mi dice. – È quella lí di fronte.
– In aeroporto mi hanno detto qui.
– No, da qui si va solo a Hulhumale. Per le Maldive è lí.
– Per le Maldive?
Mi guarda perplessa.
Dico: – Ma siamo già alle Maldive.
– Dipende.
La guardo perplessa.
Mi dice: – Quali Maldive cerca? Le nostre o le vostre?

Perché in teoria, le Maldive sono un arcipelago di 


isole. Ma per i maldiviani, al fondo, sono un’isola sola: la
capitale. Molte delle isole hanno poco piú che un paio di ne-
gozi, una scuola, un campetto da calcio. A volte non hanno
ancora neppure l’elettricità. Alla fine, per qualsiasi cosa vieni
qui. A Male. Che sembra una città come mille altre, anoni-
ma, solo cemento e motorini e aria satura di caldo: ma sono
, chilometri quadrati,   residenti: e una popolazione
reale che è piú del doppio. A Male ogni anfratto è abitato.
Alle Maldive, il  per cento della popolazione possiede il
 per cento della ricchezza.
Lungo una delle strade principali, la Buruzu Magu, mi
infilo in una fenditura che sembra uno scorcio di cartolina,
con una casa blu, una casa verde, una casa gialla. Sul fondo,
rossa, c’è una scala a chiocciola. Sono case di tre stanze, tut-
te uguali, due al piano terra e una al primo piano. Il cortile
è questa striscia di ingresso in sabbia battuta, con delle pile
di sedie di plastica ai lati, un mocio agganciato a un chiodo,
spazzatura varia, ciabatte, barattoli di vernice. Dietro la pri-
ma porta a destra abitano in cinque; dietro la prima a sinistra

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 Ma quale paradiso?

in nove; dietro la seconda in diciotto, ed è solo una stanza,


tutti immigrati, vengono dal Bangladesh: dormono a turno.
Nella casa dopo, la porta è una porta di compensato marcio
ed è aperta: madre e figlia chiacchierano nel buio, e accanto,
su una stuoia logora, una vecchia, logora anche lei, che ran-
tola, i capelli ricci e grigi sfibrati come i fili di una lampadina
fulminata. Vivono in sedici, qui, tra stracci e scarpe sfonda-
te, i muri rattoppati con iuta e lamiere, il tanfo dei corpi. La
cucina è un fornello da campeggio, e un vecchio frigo arrug-
ginito. Le stanze non hanno finestre, né tavoli, né sedie, è
tutto sparso alla rinfusa, e il bucato che gocciola nell’angolo,
appeso al soffitto ad asciugare. Alla parete, il televisore al
plasma avuto alle ultime elezioni in cambio del voto.
Ma uno stipendio medio, qui, è   rufiyaa, e cioè 
euro, piú o meno.
E l’affitto, per tre stanze, è   rufiyaa.
Pochi metri dopo, un ragazzo sta su un balcone, che piú
che un balcone è un cornicione, con un tubo che fa da rin-
ghiera, e si rade specchiandosi in un coccio di vetro. Al pia-
no terra, un uomo a torso nudo, su un materasso, ricuce
una maglietta sgualcita. La stanza è stretta e lunga, con un
secondo materasso dietro il primo e nient’altro, una stanza
umida che piú che una casa sembra un magazzino. L’unica
luce viene dal televisore acceso, senza volume, rischiara i
muri con ombre gialle, rosse, arancioni: è al-Jazeera, è la Si-
ria, sono i bombardamenti di ieri notte. Dicono che Assad
stia usando il fosforo.
Un palazzo crolla.
Tra le macerie braccia, mani, teste. Un piede di bambino.
La casa all’angolo invece è azzurra, e alle finestre non ha
finestre ma reti. Alla porta, una donna bassa e larga dorme
su una poltroncina di ferro e corda. Sono in dieci in due stan-
ze e cucina. Nella prima c’è un letto a castello, e per terra,
su un pavimento che è un telo di plastica, c’è un ragazzo da-
vanti a una playstation: sta in un carrarmato, sta in Afgha-
nistan. Sta sparando agli americani. Al piano di sopra, su un

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L’arrivo 

letto sfondato, sua sorella, di  anni, stira, mentre l’altra


sorella, di  anni, taglia della stoffa alla luce intermitten-
te di un vecchio neon quasi esaurito. Una terza sorella piú
piccola si spazzola i capelli dopo la doccia, o una cosa simi-
le, perché nel bagno, in realtà, non c’è la doccia, c’è solo un
rubinetto. La madre fa la cuoca. Il padre invece fa consegne
con un furgoncino. E poi c’è anche il marito della maggiore
delle tre sorelle, che lavora in ufficio, mi dice la piú piccola,
dove per ufficio intende che fa il cassiere in un supermerca-
to. – Se potessi, – le chiedo, – cosa vorresti piú di ogni altra
cosa? – Mi guarda. – In che senso? – mi dice. Dico: – Se po-
tessi. Se potessi avere qualsiasi cosa: che cosa vorresti? – Qual-
siasi cosa? – Qualsiasi cosa, sí –. Guarda il pavimento. Poi
il muro, poi mi dice: – Un po’ di spazio. – Una stanza tutta
tua? – Sí, – dice. – Con un po’ di luce.
– Una stanza con una lampadina, – dice.
Resto un attimo in silenzio.
– Anche metà, – dice.
Metà stanza.
Pensa di avere chiesto troppo.
Nella casa successiva invece stanno tutti in un angolo,
perché piove, e piove in casa. E piove per giorni, qui: è sta-
gione di monsoni. E sono tutti bambini, perché gli adulti so-
no fuori al lavoro, tranne una ragazza. – E tu se potessi, – le
chiedo, – che cosa vorresti piú di ogni altra cosa? – Mi guar-
da. – In che senso? – mi dice. Dico: – Se potessi. Se potessi
avere qualsiasi cosa: che cosa vorresti? – Vorrei tutto –, dice.
– Mi manca tutto. Ma piú di ogni altra cosa vorrei non volere.
– Non volere?
– Perché so che non avrò mai niente, – dice. – Cosí sa-
rei meno triste.
– Vorrei che questa fosse l’unica vita possibile, – dice.
E poi c’è questo ragazzo, a un certo punto, che somi-
glia ad Abdallah. Abdallah al-Yassin. L’isolato dopo, in una
stanza di mattoni non intonacati, un ragazzo che ha la sua
stessa barba, i suoi stessi occhi e sta guardando la televisio-

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 Ma quale paradiso?

ne, un servizio su Gaza. O forse è lo Yemen, non so: sono


solo macerie. Ma lui sta lí, e ha gli stessi occhi di Abdallah,
che è stato il mio primo interprete, ad Aleppo: era uno degli
attivisti piú noti, ed è morto, adesso, è morto come tutti, in
Siria – Abdallah. Quella volta che gli chiesi dell’Islam, e mi
spiegò tutto, e però poi mi disse: «E però per capire la Siria,
Marx è piú utile del Corano». E perché adesso c’è questo ra-
gazzo, in questa stanza: e la stanza è piena di spazzatura. A
volte in sacchetti, a volte no, e questo ragazzo guarda la te-
levisione e intanto separa la plastica, l’alluminio, le cose che
si riciclano, che si possono rivendere: e ogni tanto trova un
avanzo di cibo, un fondo di succo di frutta, e lo esamina in
controluce, e lo sistema alla sua destra. Con cura.
Si prepara la cena.
Che poi è sempre cosí. Non solo qui. Ovunque. È solo
che queste cose non è che posso scriverle. Ma che notizia è?,
ti dicono in redazione. È la povertà. Esistono i ricchi ed
esistono i poveri. E come i filippini con cui ero in aereo.
Che notizia è? Solo che i tre filippini non erano filippini,
in realtà, erano dello Sri Lanka: erano filippini di profes-
sione, perché interi popoli ormai sono cosí condannati a
vita, condannati per nascita, a un ergastolo di miseria ed
emarginazione che essere filippino oggi è un mestiere. Non
è un aggettivo, non è una cosa che ti descrive, è un desti-
no: è una cosa che ti definisce, è un destino di autisti e ser-
vi e camerieri. E quindi avevo accanto questi tre filippini
dello Sri Lanka, in aereo. Venivano tutti e tre da Vicen-
za. Uno era un giardiniere, ed era in Italia da  anni. Prati-
camente era piú italiano di me, che sono andata via quando
avevo  anni: eppure, parlava ancora un italiano che avevo
difficoltà a comprendere. Ma perché alla fine, no?, il loro
mondo è tutto un mondo che non parla, in realtà. Ascolta.
Ascolta ordini e istruzioni. E basta. E quindi dopo  anni
capisci tutto: però ancora stenti a parlare.
I due alla mia destra invece lavoravano in un caseificio.
Pensavano di stabilirsi in Italia, e dopo un po’, di essere rag-

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L’arrivo 

giunti da mogli e figli, ma in Italia si sono ritrovati piú po-


veri che in Sri Lanka.
– Sono stato a casa l’ultima volta tre anni fa, – mi ha det-
to il giardiniere. – Il biglietto costa troppo:  euro, – mi
ha detto. Quanto un mese di stipendio.
Quanto una notte in un resort economico delle Maldive.
Ma che notizia è? Non è che posso scriverlo.
I ricchi e i poveri. Sta nelle cose.
Uno nella vita fa il filippino.

Poi uno dice: i jihadisti.

Perché in realtà è sempre cosí. La prima volta che sono


andata in Iraq, proprio il primo giorno, la prima sera, c’era
quest’uomo che dormiva per strada. In uno spiazzo d’erba.
E credevo fosse uno dei mille sfollati delle mille guerre di
questi mesi. Gli ho anche lasciato un paio di dollari. E in-
vece no: dormiva vicino a un distributore di benzina per es-
sere il primo della fila, il mattino dopo. Perché in Iraq c’è
benzina solo per i primi che arrivano. Cioè: l’Iraq galleggia
sul petrolio. Vedi trivelle ovunque. E però poi gli iracheni
non hanno la benzina.
E dormono cosí.
Per strada.
Perché la benzina sta tutta nei nostri serbatoi.

Quali Maldive? Le nostre o le vostre?

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Male

Kinan è cresciuto in una casa cosí. In sei in una stanza, i


genitori che erano uno scontro continuo. Per doccia il mare.
Nelle foto di famiglia è un bambino che si intravede appe-
na, sempre dietro un cugino, uno zio. Come per protegger-
si. Oggi giri con lui, e tutti si scansano. Oggi ha  anni, ed
è uno dei nomi piú noti, e temuti, della criminalità di Male.
Male è spartita fra una trentina di gang. Anche se nessu-
no, qui, parla di gang. I ragazzi ti dicono: Il gruppo. Perché
una gang è una cosa cosí normale, cosí ordinaria che non è una
gang: è un gruppo di amici. Un giorno organizzi una partita
a calcetto, un altro una rapina. Ogni gang ha piú o meno tra
i cinquanta e i cinquecento affiliati. Al solito stimare è com-
plicato. Ma significa che le gang, qui, coinvolgono sostanzial-
mente un quinto dei giovani, che sono la maggioranza della
popolazione: la larga maggioranza, perché l’età mediana, alle
Maldive, è , anni.
Nel primo e ultimo studio sulla violenza di strada, nel ,
uno studio effettuato dal governo, il  per cento degli intervi-
stati ha detto di non sentirsi sicuro ad andare in giro da solo.
Il  per cento ha detto di non sentirsi sicuro neppure a
casa propria.
Kinan è finito in carcere per la prima volta a  anni. Per
rissa. È eroinomane e alcolizzato da quando aveva  anni. E
ancora adesso, per campare vende droga. – Perché qui nessuno
ti offre una seconda opportunità, – dice. – Sono pronto a qual-
siasi lavoro, ma nessuno mi ha mai voluto. Nessuno. Manco
come scaricatore di porto. Prima o poi veniamo tutti arrestati,

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 Ma quale paradiso?

e tutti per droga, perché quando vivi in dieci in una stanza, la


verità è che vivi per strada. Non hai mezzo metro quadro di
spazio per studiare, per concentrarti su un libro: l’unico futu-
ro che hai è un futuro da cameriere. Guardi il mondo in tele-
visione, e poi ti guardi intorno. In esilio su quest’isola lontana
da tutto. E cosa ti rimane? – dice. – L’eroina.
Anche perché l’alcol fuori dei resort è vietato: l’eroina
costa molto meno di una vodka.
– Non puoi cambiare la tua vita, però puoi dimenticarla.
Perché tanto, – dice, – o stai dentro o stai fuori, a Male stai
in carcere comunque.
– E la cosa piú insensata, – continua, –  è che piú il reato
è irrilevante, piú la pena è rigorosa. Se rubi un mango, e nep-
pure da un negozio, da un albero, dall’albero del vicino, ti fai
un anno di carcere. E soprattutto, vieni bollato a vita. Ma poi,
allo stesso tempo, c’è una tolleranza totale: c’è una totale im-
punità, perché in realtà siamo al servizio dei politici. Ti com-
missionano di tutto, da un volantinaggio a un accoltellamento.
Con tanto di tariffario:  dollari per spaccare una vetrina,
 per bruciare un’auto,  per aggredire un giornalista. E
quindi, se vogliono, se gli sei utile, ti tirano fuori dal carcere.
– Piú che tolleranza, – dice, – è complicità.
– A volte, – dice, – ti chiamano semplicemente per di-
strarre l’opinione pubblica. Quando si comincia a discutere
degli ospedali che mancano, dei trasporti che non funzio-
nano, di mazzette e tangenti: ti chiedono di fare un po’ di
casino. Un po’ di scazzottate allo stadio. Un po’ di sangue.
Cosí la gente pensa ad altro. Pensa che il problema, in que-
sto paese, siamo noi.
Kinan è stato condannato due volte, ma non ha mai sconta-
to la pena. Come il suo amico Naaif. – E tu invece cosa fai per
vivere? – gli chiedo. Ride. – Sto scontando  anni di carcere.
Dal turismo entrano circa , miliardi di dollari l’anno.
Ma è tutto di proprietà di quattro, cinque affaristi. E dei
loro soci stranieri. Ai maldiviani non arriva niente. Giusto
una mancia per tirare una molotov. Fratturare un naso. Il

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Male 

turismo qui è un turismo gestito dai tour operator: paghi tut-


to all’agenzia di viaggi. Tutto insieme. Tutto in anticipo. Il
denaro sostanzialmente neppure transita dalle Maldive. An-
che se poi uno come Kinan ti sta davanti tutto elegante, in
giacca e camicia, le scarpe di cuoio. Una cartellina in mano.
Ha l’aria molto professionale. Ha l’aria di uno che lavora in
banca. O in una multinazionale. L’aria di un promotore fi-
nanziario. E invece è una cartellina con gli appunti sulla sua
vita: l’eroina gli ha devastato la memoria.
Non si ricorda neppure quando è nato.
Si ricorda una cosa sola, degli ultimi trentuno anni. – Mi
picchiavano tutti, quando ero piccolo. I ragazzi piú grandi vo-
levano soldi, e mi picchiavano. I miei mi picchiavano perché
glieli rubavo. Andavo a scuola, e mi picchiavano. Non anda-
vo a scuola, e mi picchiavano. Quando mi hanno arrestato,
ho capito che dovevo imparare a difendermi, – dice. – Che
dovevo picchiare per primo.
Mi guarda. – Non è una giustificazione. Però è una spie-
gazione.
Perché poi Kinan non è che nega le sue responsabilità.
Ha ucciso piú di una volta. – Vorrei dirti che non volevo.
Che volevo solo ferire, solo minacciare. Solo spaventare. E
invece no. Era quello che volevo. Era esattamente quello
che volevo: sapevo quello che facevo. Però so anche quel-
lo che fanno gli altri. Non sono l’unico criminale, qui. Sono
solo il piú visibile.
– Non sono il piú forte, – dice. – La verità è che sono il
piú debole.
Sono dieci anni che cerca di cambiare vita. E dal momento
che nessuno è disposto a offrirgli una seconda opportunità,
una seconda opportunità adesso ha deciso di offrirsela da solo:
ha deciso di andare via. Ha deciso di andare in Siria: – Non
è difficile. Nessuno ti controlla. Nessuno ti ferma. Hanno
tutto l’interesse a sbarazzarsi di noi, abbiamo compiuto tut-
ti i loro crimini: conosciamo tutti i loro segreti. E vogliamo
tutti andare via. Qualsiasi cosa è meglio di Male.

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 Ma quale paradiso?

– In Siria, – dice, – se non altro, sarei ucciso per una ra-


gione migliore.
Se è ancora qui, è solo per provare a salvare suo fratel-
lo. Dopo sessant’anni di moratoria, infatti, alle Maldive la
pena di morte è di nuovo in vigore. E il fratello, Humam,
è il primo della lista: è accusato di avere accoltellato un de-
putato. Ha  anni. Ha poi ritrattato la sua confessione, e
denunciato pressioni della polizia: e soprattutto, secondo
Amnesty International ha dato piú volte segni di squilibrio
mentale. E comunque, è al piú l’esecutore di quello che è
invece un omicidio politico. Afrasheem Ali aveva annun-
ciato di volersi candidare presidente, e Maumoon Abdul
Gayoom, che è stato presidente delle Maldive per trent’anni,
dal  al , ed è ancora oggi considerato il padre della
patria, aveva appena dichiarato che il suo partito avrebbe
sostenuto il candidato piú autorevole in materia di Islam.
Il candidato piú esperto. Che a quel punto sarebbe stato
Afrasheem Ali, dunque, piuttosto che Abdulla Yameen:
l’attuale presidente.
Ma mentre rientrava a casa, una sera, Afrasheem Ali è
stato ucciso.
– Per molti, qui, la Siria è un’opportunità non solo econo-
mica, ma morale: è una specie di forma di redenzione, – mi
dice nella stanza accanto Aishaat Ali Naaz. – Andare in
Siria significa avere una casa, uno stipendio, degli amici.
E soprattutto, un’identità: un ruolo, finalmente. Un senso.
Andare in Siria significa rimediare ai propri errori. Pagare le
proprie colpe, e ricominciare da zero. Sarà che sono una psi-
cologa, – dice, – e mi interessa non tanto quello che uno fa,
ma perché finisce per farlo, ma onestamente, per me questi
ragazzi sono vittime quanto le loro vittime –. Ha  anni,
e dirige il Mipstar, il Maldivian Institute for Psychological
Services, Training and Research. Il centro per cui Kinan
fa il volontario. Recuperano tossicodipendenti. Recuperano
un po’ di tutto, in realtà: tossicodipendenti, delinquenti,
alcolizzati. Depressi. Divorziati. – Perché vivere a Male è

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Male 

terribile, – dice. – E non mi riferisco solo alla criminalità.


Sei in mezzo all’oceano. Cioè, è magnifico, sí: però per un
giorno. Per una settimana. Ma sei in trappola, qui. E in piú,
senza un cinema, senza un parco, un teatro, un concerto.
Niente. Ogni giorno uguale all’altro.
E letteralmente: non hai neppure le stagioni, qui. La tem-
peratura è costante, tra i  e i  gradi. Hai sempre la stessa
luce, alle Maldive. Tutto l’anno. Non hai l’estate e l’inver-
no. Hai sempre gli stessi vestiti. I monsoni sono da maggio
a ottobre, e piove, ma non fa freddo.
– Le Maldive, è ovvio, – dice Aishaat Ali Naaz, – sono
di una bellezza straordinaria. Però non è che si vive di bel-
lezza. Si vive… Si vive di vita.
– E infatti non a caso, – dice, – sulle isole, da sempre, si
spediscono i nemici al confino.
E poi qui hai un’unica possibilità, dice: – Lavorare nei re-
sort. Ma è un po’ come essere marinai, stai lontano per otto,
nove mesi. E le famiglie crollano. E comunque, con lo stipen-
dio ti paghi a stento l’affitto di casa. Con tutto il paese con-
centrato qui, con cosí poco spazio a disposizione, la domanda
è molto superiore all’offerta, e i prezzi sono alle stelle: una casa
a Male ti costa quanto una casa a Parigi. Sono una psicologa,
ho uno stipendio alto, ho una figlia sola: eppure in banca ho
 dollari. E significa che se mi ammalo, non posso permet-
termi un medico. Molti partecipano alle attività del Mipstar
solo per venire a mensa. No. Non è vita, – dice.
– E cosa ti rimane? – dice. – L’eroina.
L’eroina, o qualsiasi altra cosa. Si mastica colla. Si fuma-
no radici. Sono cosí disperati, qui, che si sono inventati un
intruglio che chiamano «cola water». Praticamente, è una
Pepsi mista ad acqua di colonia.
Praticamente è acqua di colonia.
Praticamente svieni.
Un po’ come a Gaza, in cui si usa il Tramadol, che in
realtà è un antidolorifico: alcuni, nel mondo, tirano coca
per sentirsi a mille, altri vogliono solo dormire e sparire.

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 Ma quale paradiso?

Perché poi il Medio Oriente adesso ha altre priorità, ma


a Gaza intanto sono dieci anni, ormai, che i palestinesi sono
sotto assedio. Che non hanno piú neppure l’acqua: solo ac-
qua di mare, solo acqua salata. Ti senti appiccicaticcio tut-
to il giorno, a Gaza, tutti i giorni: per anni – e un F, ogni
tanto, che arriva e bombarda. Arriva e muori.
Poi uno dice: Hamas.
E infatti Aishaat Ali Naaz ora si occupa di fondamenta-
lismo islamico. Ha cominciato occupandosi di droga. Poi di
carceri. Poi di gang. E ora di jihadisti: – Una sequenza, – di-
ce, – che spiega già molto. I centri di reclutamento qui non
sono le moschee. Sono soprattutto le carceri. Perché si ini-
zia con la droga da ragazzini. Intorno ai  anni. E prima o
poi si viene arrestati: e al solito, da delinquenti occasionali,
si diventa delinquenti abituali. Il  per cento dei tossici è
incensurato. Ti unisci a una gang dopo. Dopo l’eroina. An-
che perché è il solo modo per difenderti dalle gang stesse:
con tutti questi tossici, la violenza di strada è violenza anche
per uno sguardo di troppo, per una parola fraintesa. O an-
che per niente. Se gli altri girano in branco, l’unica è girare
in branco anche tu. La polizia a Male non esiste. La polizia
è percepita come una delle tante gang. E quindi entri ed esci
di prigione: fino a quando non arriva un reclutatore che in
teoria è lí per convincerti a studiare, a imparare un mestie-
re, e ti regala un Corano. E ti parla della Siria. Dei bambini
della Siria. Perché l’idea, qui, non è tanto andare a costruire
il califfato, ma abbattere Assad. Aiutare quei bambini cosí
simili al bambino che sei stato tu.
– Il problema qui non è l’Islam, – dice Aishaat Ali Naaz. – Il
problema è l’eroina.
Secondo uno studio che ha effettuato per le Nazioni Uni-
te, alle Maldive il  per cento degli abitanti ha un amico
tossicodipendente.
Il  per cento ha un tossicodipendente in casa.
Che poi, in fondo, è anche un po’ la storia di Abu Musab
al-Zarqawi. Il fondatore di al-Qaeda in Iraq. Quello che oggi

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Male 

è lo Stato islamico. Al-Zarqawi era un teppista, fondamen-


talmente. Fino a quando non finí in carcere per spaccio, e
stupro, e si avvicinò all’Islam: e per espiare le sue colpe, de-
cise di andarsene in Afghanistan.
La Siria della sua generazione.
Aveva cosí tanti tatuaggi che era soprannominato «l’uo-
mo verde». Se li raschiò via da solo, con un rasoio. Perché i
tatuaggi sono vietati dall’Islam, alterano la creazione di Dio.
Alterano l’uomo cosí come è stato voluto da Dio. E quin-
di un giorno se li raschiò via con un rasoio. Cosí. Da solo.
Con tutta la pelle. Perché era come raschiarsi via di dosso
la vecchia vita.
– Qui lavori, lavori, lavori e nient’altro, – dice Aishaat
Ali Naaz. – E solo per pagare l’affitto di casa, – dice. – Mi
sveglio, la mattina, e mi chiedo che senso ha. Mi sveglio, e
sono solo stanca.
– E secondo voi, – dice, – questo è il paradiso. Ma qua-
le paradiso?

Ma perché arrivi alle Maldive, e in realtà, all’improvviso


sei in un altro mondo.
All’improvviso è tutto diverso.
Diverso da quello che conosci. Ma anche da quello che
immaginavi.
Diverso da quello che credevi di conoscere.
Perché il problema è che a un certo punto è venuta fuo-
ri questa storia della globalizzazione. Solo perché arrivi a
Mosca, e nella piazza Rossa trovi un McDonald’s. Questa
storia che tutto il mondo è paese. E invece poi arrivi qui,
e non importa che abbiamo tutti un fratello, un cugino, un
amico che è stato in vacanza alle Maldive: la verità è che
arrivi qui, e neppure riconosci la frutta che si vende per
strada. Cammini, e vedi questi oggetti indefiniti. Una spe-
cie di melone che però sembra un mango. Tipo un pallone
da rugby. E poi dei cilindri che somigliano a dei ciocchi
di legna, e dei piccoli tuberi sparsi per terra come fossero

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 Ma quale paradiso?

mandorle, e che però piú che mandorle ricordano dei bulbi


di tulipano. Degli strani peperoni.
O forse sono carote.
Forse non si mangiano.
Forse sono pile. Batterie.
Arrivi alle Maldive, e la verità è che è tutto diverso.
Tutto cosí inclassificabile.
Perché poi non solo su Amazon alla fine l’unico libro sulle
Maldive è la Lonely Planet, ma a Male non c’è una libreria.
Che se sei un giornalista, è uno dei primi luoghi in cui vai,
quando arrivi in un paese per la prima volta. Cioè: c’è solo
una libreria islamica, qui, un paio di isolati dopo il centro di
Aishaat Ali Naaz. Ed è anche una libreria molto bella, mol-
to ordinata, con il parquet di quelli che cigolano: solo che a
parte i libri in arabo, e un paio di libri in inglese, è tutto in
dhivehi: la lingua locale.
Perché poi ti dicono: l’inglese è la lingua universale.
E invece l’inglese è ancora la lingua di una minoranza. E
di una minoranza spesso ricca e bianca e laureata.
Ti dicono: Tanto ormai c’è Google Translate.
E invece il dhivehi non c’è, su Google Translate. Non
c’è da nessuna parte.
Leggo un po’ di titoli. «Il ruolo della moschea». «L’umil-
tà nella preghiera». «Guida all’interazione tra uomini e don-
ne». Sono tutti stampati in Arabia Saudita. «Il sacrificio».
«Il pellegrinaggio alla Mecca». Abu Ammaar Yasir Qadhi,
« modi per guadagnare di piú nel rispetto del Corano».
«Come conquistare il cuore di tua moglie».
– Sistemo i libri di jihad e sono da te. Un minuto.
Guardo il commesso.
– Jihad?
– Jihad, sí.
Mi guarda.
– Non significa mica guerra. Significa sforzo. Lo sforzo di
vivere secondo la volontà di Dio. Con coerenza. Secondo i tuoi
valori. Jihad è tutto quello che ti rende un bravo musulmano.

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Male 

– O una brava persona, – dice. – Se la parola musulma-


no ti allarma.
Sta sistemando lo scaffale dei libri per bambini.
Libri tipo: «A tavola». «A scuola».
«Vestirsi». Le bambine devono vestirsi da bambine e i
bambini da bambini. Bisogna infilarsi i vestiti iniziando dal
lato destro. E sulla maglietta non devono esserci immagini di
animali. Cambiati la maglietta dopo avere giocato a pallone.
C’è anche un libro per quando si è malati. C’è scritto che
bisogna ripetere tre volte: Bismillah, «Nel nome di Dio». E
poi nove volte a’oozu bi’izzatillaahi wa qudratihi min e qualco-
sa che direi suona tipo: «Gesú, aiutami tu» – però insomma, a
parte questo, quando si è guariti, dice, non bisogna dimenti-
carsi di chi non è ancora guarito. Di chi sta ancora in ospedale.
Bisogna andare a trovarlo.
E se hai avuto in regalo molti giochi, adesso puoi regalar-
ne uno a chi non ne ha.
Perché, hai visto?, c’è scritto: in realtà siamo sempre for-
tunati.
Chi per una cosa, chi per un’altra.
E per questo, dice, si vive insieme. Per bilanciarsi. Per
completarsi.
Forse questo è un libro da leggere.
Alla fine compro: Problems and Solutions. Cosí. Senza altre
specificazioni. Tutti i problemi e tutte le soluzioni.  pagine.
Il ragazzo alla cassa guarda Aleppo sull’iPad. Su Youtube.
Accanto a lui c’è un suo amico che studia in Pakistan. Ed è
a casa per un paio di settimane. – E tu invece cosa fai? – mi
dice. – Sei musulmana? – No, – gli dico. – Però abito a Ra-
mallah. Lavoro per i palestinesi.
Non è Aleppo, è Idlib. Hanno bombardato una scuola.
Si vede un braccio di bambino, per terra, con la mano che
ancora stringe lo zaino.
– Sembri araba.
– Sono italiana.
Mi guarda.

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 Ma quale paradiso?

– Italiana, – dice.
– Ho visto quelle foto di… Come si chiama. Con tutti i
musulmani che pregano nei parcheggi dei supermercati.
Si chiama Nicolò Degiorgis. Il fotografo.
L’Italia ha , milioni di musulmani. E otto moschee. I
musulmani pregano in palestre dismesse, campi incolti. In
periferie di cemento e ciminiere. Tra vecchi copertoni.
Al riparo di teli di plastica.
E Nicolò Degiorgis è andato a fotografarli.
– E dove hai visto le sue foto? – dico.
– Su «Time», – dice.
– «Time»?
Lo guardo.
– Uno che studia in Pakistan? – dico.
– Leggiamo i vostri libri. Leggiamo i vostri giornali. Sie-
te voi che non parlate una parola d’arabo. E però state lí a
insegnarci come dobbiamo vivere. Il Pakistan probabilmen-
te neppure sai dove sta. E però sono dodici anni che i tuoi
droni bombardano il Pakistan.
Mi guarda.
– E quindi abiti a Ramallah. Sei stata a Gerusalemme?
– Sí. Sí, sono una decina di chilometri. È vicina. Cioè,
no, non è vicina: ci vogliono due ore. Anche tre. Dipende.
Dipende dal Muro, c’è un checkpoint, di mezzo.
– Però tu puoi andarci.
– Gli stranieri, sí. Noi possiamo andarci. I palestinesi no.
– E tu lavori per i palestinesi?
– Sí. Insegno musica a…
– Però tu puoi andare a Gerusalemme.
– Sí.
– Tu non capirai mai i palestinesi.
E torna a guardare la Siria.

Per fortuna, oltre ai libri esistono anche i giornali. E i


giornalisti locali.
Che ti spiegano sempre tutto.

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Male 

E che sono gli eroi veri, in realtà. I giornalisti veri. Han-


no già scritto da anni tutto quello che noi cominciamo a
scrivere quando ormai è tutto un disastro, quando ormai è
tardi, e quelle che erano manifestazioni sono diventate rivo-
luzioni, quelle che erano rivoluzioni sono diventate guerre:
e ormai sono morti tutti. Solo che noi scriviamo sul «Guar-
dian», e accumuliamo premi, loro scrivono sul «Corriere di
Mosul». E accumulano bombe e basta.
E infatti la porta di «Minivan News» non ha targhette,
non ha loghi, niente, è una porta anonima di un anonimo
condominio. Capisci che sei al piano giusto dalle telecamere
di sicurezza: in dhivehi, «Minivan» significa «indipenden-
te», è l’unica testata delle Maldive indipendente dal gover-
no – è la porta in cui hanno conficcato un machete. Secondo
Reporters Without Borders, le minacce ai giornalisti sono
cosí frequenti, qui, cosí quotidiane, che il  per cento dei
giornalisti ha deciso di non denunciarle piú. Soprattutto, il
 per cento dei giornalisti ha deciso di occuparsi d’altro.
Di lasciare perdere la criminalità, la corruzione. La politi-
ca. Di occuparsi di calcio e buche nell’asfalto.
I titoli di «Minivan», d’altra parte, piú che i titoli di un
giornale delle Maldive, sembrano i titoli di un giornale del
Messico. Del Salvador. Torture, spaccio di droga, prostitu-
zione. Tangenti. Proteste per avere l’elettricità. Per avere
l’acqua corrente.
Sulle isole, il  per cento della popolazione è sotto la so-
glia di povertà.
Però la priorità del governo, in questi giorni, è una legge
sulla diffamazione. Anche se nella sua definizione di diffa-
mazione manca l’aggettivo fondamentale: che l’affermazio-
ne sia falsa. Secondo il governo, invece, un’affermazione è
lesiva della reputazione di una persona quando è contraria
a quello che la gente pensa di quella persona.
Secondo il governo, diffamare non significa mentire. Si-
gnifica criticare.
Significa pensare.
E quindi nella redazione di «Minivan» adesso sono tutti
concentrati su questo. Tutti sotto una foto di Rilwan. Che

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 Ma quale paradiso?

ha  anni e i capelli ricci, e l’aria di quello che la sera suo-


na la chitarra in spiaggia. L’aria di quello che tiene tutto
insieme. L’ultima volta che è stato visto era mezzanotte, e
stava tornando a casa. Si stava imbarcando su un traghetto
per Hulhumale. Era l’ agosto . Mezz’ora dopo hanno
visto un ragazzo, sotto casa sua, trascinato su un’auto ros-
sa: da allora, di Rilwan non si sono piú avute notizie. Nes-
suno ha mai indagato.
Anche se le auto rosse, qui a Male, sono solo due.
E una, l’ agosto, era a Hulhumale.
«Non tutti i misteri hanno una soluzione», ha dichiarato
il ministro dell’Interno. «Gli americani stanno ancora cer-
cando di capire chi ha assassinato Kennedy».
Yameen Rasheed è uno dei migliori amici di Rilwan. Ha
un’aria molto diversa dalla sua. Ha una camicia bianca e sfian-
cata, dei gemelli d’argento, ma ha la stessa testa: è uno dei
due soli blogger laici delle Maldive. L’unico che scrive an-
cora. L’altro è stato aggredito e quasi decapitato, e a stento
ricucito in ospedale. E si è trasferito in Sri Lanka.
Gli chiedo perché stia ancora qui. Si è laureato in India,
è un informatico, parla un inglese perfetto: potrebbe anda-
re ovunque.
Mi dice solo: – Sono nato qui. Vivo qui. E a volte, viven-
do, capita di esprimere un’opinione.
Mi dice solo: – Quello strano, qui, non sono io.
Il problema è che la sua opinione, qui, è un’opinione vieta-
ta: la costituzione riconosce la libertà di opinione, ma a condi-
zione di non esercitarla in modo contrario all’Islam. L’Islam è
la religione di Stato. Solo i musulmani possono essere cittadini
delle Maldive. L’apostasia è reato. Un reato punito con la pena
di morte. Non si può avere un’altra religione, né non avere reli-
gione. Finora, hanno ammesso di essere atei in quattro. Il primo
si è impiccato. Il secondo si è ricreduto – in carcere. Il terzo è
Hilath Rasheed. Quello che è stato quasi decapitato.
Il quarto non si trova piú.
Il quarto è Rilwan.

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Male 

– Ma non è questione di Islam, – dice Yameen Rasheed.


– Negli anni Settanta, quando Gayoom arrivò al potere, le
Maldive erano un arcipelago di pescatori allo stato brado.
Gayoom aveva studiato ad al-Azhar, al Cairo. La migliore
università del mondo islamico. Per le Maldive dell’epoca,
un po’ come per la Libia di Gheddafi, la sua parola non
era la parola di un presidente: era la parola di Dio, – dice.
Non avendo legittimazione popolare, Gayoom si creò una
legittimazione religiosa. – Ogni decisione veniva giustifica-
ta come una decisione dettata dal Corano. Quella che chia-
mano volontà di Dio, qui, è da sempre una volontà molto
terrena, – dice.
Fu Gayoom a inventarsi la formula dei resort. Del turi-
smo da  dollari a notte. – Era il modo di modernizzare
il paese, – dice. E il paese, in effetti, è passato dal terzo al
primo mondo. E però era anche un modo per controllarlo.
Concentrando la popolazione a Male. E soprattutto, impe-
dendo ogni contatto con altre culture. Delle  isole, so-
lo  sono abitate, e  sono resort: ma non c’è alcuna
interazione. Neppure nei resort. Fuori dall’orario di lavo-
ro, ai dipendenti è vietato stare in giro. – E in piú, i resort
sono stati costruiti da imprenditori stranieri, – continua
Yameen Rasheed, – perché nessuno, all’epoca, aveva i ca-
pitali necessari a costruirli. Né le competenze necessarie a
gestirli. Ed è cosí ancora oggi. Aprire un resort non è come
aprire un hotel. La legge impone agli imprenditori stranieri
di avere un socio maldiviano, che è sostanzialmente il socio
attraverso cui ottieni un’isola in concessione: e quindi, ov-
viamente, si tratta di un maldiviano che in genere è molto
vicino a un politico. O è un politico, – dice. – E questa è
la ragione per cui qui, secondo le stime dell’opposizione, il
 per cento della popolazione, alla fine, possiede il  per
cento della ricchezza.
– Ogni imprenditore ha il suo partito di riferimento. E
ogni partito ha la sua gang di riferimento. Ed è difficile cam-
biare le cose, sfidare il sistema, perché i giudici sono parte

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 Ma quale paradiso?

del meccanismo: se provi a sfidarlo, sei completamente vul-


nerabile. Completamente solo, – aggiunge Ahmed Naish,
lo specialista di cronaca nera e giudiziaria. – I giudici sono
circa duecento, e sono ancora quelli nominati da Gayoom.
Spesso non hanno neppure una laurea. Il  per cento ha so-
lo una licenza di scuola media. Il  per cento ha preceden-
ti penali. Ma sono protetti dalla costituzione. Sono protetti
dal principio dell’indipendenza della magistratura. Abdulla
Mohamed, il capo della Corte penale, ha assolto criminali di
ogni tipo, violato ogni tipo di legge: ma nessuno ha mai po-
tuto arrestarlo, o anche solo adottare nei suoi confronti un
provvedimento disciplinare, perché si tiene il timbro della
corte in tasca. Sempre. Anche di notte: se lo porta a casa.
Ma quando nel  Mohamed Nasheed è diventato presi-
dente, il primo presidente eletto della storia delle Maldive,
e ha provato a rimuoverlo, è stato accusato da tutto il mon-
do di attaccare la magistratura.
Di tentare di sottomettere il potere giudiziario al pote-
re esecutivo.
Che è il motivo per cui «Minivan News» ora è anche in in-
glese. Perché già è complicato difendere i diritti umani: ma a
volte bisogna difendersi anche dai difensori dei diritti umani.
– No, non è questione di Islam, – dice Yameen Rasheed.
– Perché l’Islam qui è politica, non è religione. Con Gayoom
ogni dissidente è diventato molto piú che un dissidente: è
diventato un infedele. Persino lo tsunami, nel , è stato
visto come una punizione di Dio, – dice. – Ti mostrano tut-
ti questi video in cui l’acqua, su un’isola, spazza via tutto:
tranne la moschea. Ma il problema non è l’Islam. Dietro l’I-
slam, c’è sempre altro. Il paladino della legge sul divieto di
alcol è stato Gasim Ibrahim, un deputato che oltre a essere
un fervente fedele è un fervente imprenditore: è il maggio-
re importatore di tutto quello che ha proibito. I suoi resort
sono i maggiori consumatori di whisky, vodka. Vini di ogni
tipo. Non è una novità. La religione è l’oppio dei popoli. Il
problema è quando diventa anche l’oppio degli analisti.

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Male 

– Perché il problema, qui, non è l’Islam, – dice. – Il pro-


blema è l’economia.
– L’economia, – ripete. – Perché il problema non è la po-
vertà, ma la disuguaglianza. Non è che qui non ci sono risor-
se: è che sono distribuite male.
– Però, – dico, – non capisco perché nessuno protesti.
Proprio perché non è che non ci sono risorse. Le Maldive
non sono mica il Biafra. Perché non sono tutti in piazza?
– Semplice. Perché nessuno qui può permettersi di mani-
festare. Nessuno guadagna abbastanza da risparmiare: se vie-
ni arrestato, la tua famiglia da un giorno all’altro è alla fame.
L’ultima volta che sono stato in carcere, l’anno scorso, quando
mi hanno fermato a un corteo, in cella eravamo in ventiset-
te. Sono stati tutti licenziati. E se hai precedenti penali, poi
non ti assume piú nessuno, – dice. – Soprattutto la pubbli-
ca amministrazione –. Che qui, non a caso, assorbe il  per
cento dei lavoratori. In un paese che si potrebbe governare
con un computer e due segretarie.
Vecchia tattica dei regimi di ogni tempo e latitudine.
– La politica, – dice, – è il primo lusso che un povero non
può permettersi.

Gayoom è rimasto al potere fino al . In Asia, il suo


è stato il regime autoritario che è durato piú a lungo. Poi è
diventato presidente Nasheed, uno dei suoi oppositori sto-
rici: ma dopo pochi anni, è stato rovesciato con un colpo di
Stato. Cioè: si è dimesso. Perché le Maldive, in teoria, sono
una democrazia. Anche se il presidente, dal , è Yameen.
Il fratellastro di Gayoom.
Quello che aveva come rivale Afrasheem Ali.
Però c’è un governo, qui, c’è un parlamento. Liberamente
eletto. Solo, la piazza principale di Male, piazza della Repub-
blica, la piazza delle manifestazioni, è abbastanza eloquente
su come funziona, qui, la democrazia. Ha al centro la ban-
diera delle Maldive – verde, ovviamente, il verde dell’Islam,
con la mezzaluna: dentro una cornice rossa: simbolo del sacri-

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 Ma quale paradiso?

ficio per la patria. Davanti, c’è la Moschea del Venerdí. La


piú importante di Male. A sinistra, c’è la sede della polizia.
A destra, la sede delle forze di sicurezza.
Il quarto lato è chiuso dal mare.
Caso mai qualcuno pensasse di svignarsela.
Da un angolo della piazza poi inizia la Majeedhee Magu,
una delle strade principali, che taglia in due la città. Con tut-
ti i negozi di souvenir. Anche se sono souvenir della Cina,
in realtà, perché le Maldive sono cosí prive di tutto che non
esiste un artigianato locale. Le Maldive sono credo l’unico
paese al mondo in cui non esiste neppure una cucina locale.
Una cucina tipica. Solo pesci. Pesci e noci di cocco. E i pe-
sci tra l’altro, tutti quei magnifici pesci delle pubblicità delle
agenzie di viaggio, in genere sono anche velenosi.
Le Maldive producono solo conchiglie. Conchiglie e co-
rallo.
E denti di squalo.
E sabbia. Decine e decine di boccette di sabbia.
Il resto viene dalla Cina.
E però, in tutto questo sono qui perché sto cercando un
cappello. Un cappello per un amico a cui compro un cap-
pello da ogni paese in cui sono, e qui, ho visto su Google,
c’è un tipo, in Guatemala, o forse era l’Honduras, un tipo
che fa ancora questo cappello tradizionale delle Maldive:
un cappello di foglie di palma. Di palma di cocco.
Foglie di palma di cocco intrecciate.
Solo che ho chiesto a tutti, e nessuno ha idea di cosa sia.
E mi hanno detto che l’unica è questa strada. Che se c’è, è
qui. In uno di questi negozi.
Il primo in cui entro vende essenzialmente conchiglie.
Collane di conchiglie, spille di conchiglie, cornici di conchi-
glie. Scatole di conchiglie. Conchiglie dipinte. Conchiglie
posacenere, conchiglie portasapone, conchiglie zuccheriere.
Conchiglie apribottiglia.
Conchiglie calamita. Borse di conchiglie.
– Cercavo un cappello. Un cappello di foglie di palma.

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Male 

– Sono lí in fondo.
Il proprietario mi indica una pila di cappelli di paglia.
– Ma questi sono tipo Panama, no? Volevo il cappello ti-
pico di qui.
– Tipico?
– Volevo il cappello… Il cappello che hanno tutti.
Mi indica una pila di berretti da baseball.
– Quello che usano tutti, – dice, – è questo.
– No… Piú che tipico: tradizionale. Volevo il cappello
tradizionale delle Maldive.
– In che senso tradizionale?
– Tradizionale. Il cappello tradizionale.
– Tipo: il cappello di mio padre?
– Sí, una cosa cosí. Suo padre che cappello aveva?
– Che cappello ha: è vivo, grazie a Dio. Ha un berretto
come questi.
– No, no… Allora: suo nonno. Suo nonno, per esempio,
che cappello aveva?
– Mio nonno?
Mi guarda.
– Non so se avesse un cappello, onestamente, – dice.
– Credo usasse una sciarpa. Per il sole. Una sciarpa bianca.
Ma che significa? Avesse visto questi, avrebbe usato uno di
questi, no? Usava le candele: ma se avesse visto le lampadi-
ne, secondo te avrebbe usato ancora le candele? Avrebbe
comprato uno di questi berretti qui.
– Sí, – mi liquida. – Direi proprio che sono i berretti tipici.
Cosí tipici che li userebbero anche i morti.
Nel secondo negozio, ci sono due turisti danesi. E c’è
un po’ di tutto. Magliette, stuoie, delfini di legno, delfini di
plastica, delfini di ceramica. Infradito. Accendini. Scorpioni
incorniciati. Ragni incorniciati. Magneti da frigorifero. Sot-
tobicchieri di madreperla, sottobicchieri a forma di pesce,
sottobicchieri a forma di panda.
C’è anche una coda di volpe.
– Cercavo un cappello. Un cappello di foglie di palma.

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 Ma quale paradiso?

– Sono qui.
Il proprietario mi indica una pila di cappelli di paglia.
– No. Palma. Non paglia. Un cappello di foglie di palma.
– Foglie di palma?
– Ma sí, – fa il danese. – Il cappello verde. Quello che
poi dopo diventa giallo.
– Ma sí. Il cappello tradizionale di qui.
– In che senso tradizionale?
– Quello che hanno tutti. Quello di quella pubblicità…
Ma sí. Quello verde.
Sono marito e moglie. Sono dieci anni che vengono alle
Maldive.
Stanno andando in aeroporto.
Perché i turisti si fermano a Male al piú per un paio d’ore,
giusto per comprare un po’ di boccette di sabbia. O non si fer-
mano affatto. Se cerchi le previsioni del tempo, sull’iPhone,
non trovi Male, trovi direttamente: Aeroporto di Male.
È la prima cosa che noti, qui. Arrivi, sei alle Maldive: e
non ci sono hotel.
Non ci sono turisti.
Mentre i due danesi pagano, rovisto in giro un altro po’.
Shampoo di noce di cocco. Latte di noce di cocco. Olio di
noce di cocco. Sapone di noce di cocco.
Mestoli di noce di cocco.
– Allora, – dice il proprietario. – Vediamo un po’ questo
cappello. Hai una foto?
Giusto. Una foto. Il tipo del Guatemala.
O della Giamaica, cosa diavolo era.
Gli passo il mio telefono. Acquerelli su noci di cocco.
Candele dentro noci di cocco. Borse di noci di cocco. Quat-
tro statuette di gatti con brillantini.
– Ma questa è la Siria.
Mi guarda.
– Ma sei siriana?
– No, dico.
– Ma questa è Aleppo.

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Male 

– Non sono siriana. Però sto in Siria. Sono una giornalista.


– Dio santo. Ma qui è venuto giú tutto.
– Piú o meno.
– Ma sono morti tutti.
– Quasi. Assad è vivo.
– E sei qui per raccontare le Maldive?
– No. Cioè, sí. Però sono qui per il cappello.
– Finalmente! Una giornalista!
– Magari conosce qualcuno, qui, che ancora sa come…
– Però di’ la verità: stai qui per i jihadisti. Ma tu devi rac-
contare le Maldive. Devi raccontare tutto. Perché io, poi, non
leggo piú niente, sai? Soprattutto le cose di guerra. Andate
lí, e rischiate anche la vita, e scrivete che si spara. Ma certo
che si spara: è una guerra. Ma proprio perché rischiate la vi-
ta: io voglio che mi spiegate perché si spara. Hai capito, no?
– Sí. Sí, certo, ha ragione, però ora ho questo amico,
no?, che…
– Hai visto cosa ha comprato la signora?
– … che mi serve un cappello.
– La signora che era qui. La signora danese. Ha comprato
delle monete. Ma proprio delle monete: delle rufiyaa. Sono
uno dei souvenir piú venduti. Perché qui paghi tutto con la
carta di credito. E stai nei resort e basta. Nessuno ha idea
di come viviamo. Di cosa significa Male. Poi un giorno uno
gli esplode addosso: e tutti a dire che è l’Islam.
– Ma magari su un’isola. Che dice? Magari su un’isola
qualcuno sa ancora come si intreccia un…
– Tutti a dire: Sono matti!
– … magari su un’isola di pescatori. Perché la città, ma-
gari… invece su un’isola magari si vive ancora secondo, no?,
secondo la tradizione. Magari conosce un’isola…
– E invece non sono matti. No, che non sono matti. Il
problema non è l’Islam. Il problema è tutto il resto. Ho la-
vorato per dieci anni nei resort. Ci prendevamo gli avan-
zi dai piatti, nelle stanze. E ti giuro: ancora oggi, non ho
mai assaggiato niente di meglio. Ecco. La nostra vita è una

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 Ma quale paradiso?

vita cosí del cazzo che il meglio è quello che per gli altri è
spazzatura.
– Ma no, ora… Poi, insomma, quanti anni ha questo
Gayoom? Novanta? Quanto ancora…
– Siamo invisibili. Completamente invisibili. E continue-
remo a esserlo fino a quando uno di questi ragazzi non salterà
in aria insieme a trenta turisti, e tutto il mondo si accorgerà
di cosa significa davvero vivere qui. E però a quel punto non
verrà piú nessuno. E l’economia crollerà, e il governo arreste-
rà tutti. E sarà un disastro. Sarà anche peggio di adesso. Devi
raccontare le Maldive ora. Non dopo. Dopo è inutile.
– Ma infatti sono qui. E ora scrivo. Scrivo tutto. Giu-
ro. Se però lei intanto… Ma comunque anche su internet,
in realtà. Dal tipo del Guatemala. Che dice? Forse potrei
comprare questo cappello su internet. Forse è piú semplice.
– Si sentono tutte queste analisi, tutte queste teorie…
Ma è cosí difficile da capire? Un mondo cosí è un mondo che
non può funzionare. Questa è la nostra unica vita: e vogliamo
viverla. Certo, se uno crede che questo è il paradiso, allora
sembra che siamo matti. Ma tu devi dirgli tutto. Ma proprio
tutto. Hai tempo per un caffè, vero? Ti aiuto io. Ci penso io.
– Conosce qualcuno che fa il cappello?
– Ho un nipote.
– Ha un nipote che fa il cappello?
– Ho un nipote che sta andando in Siria.

Ali ha  anni e un’aria umile, dimessa, e anche un po’


ascetica, è magro, con delle infradito, dei jeans corti alla ca-
viglia, una camicia con il collo alla coreana che somiglia a una
tunica. Chiara. Tre quattro centimetri di barba. È un ragaz-
zo taciturno, timido. Brusco, a volte. Ma di quelli che intui-
sci che è solo insicurezza. E soprattutto, è pronto: il viaggio
costa  dollari, è arrivato a . Risparmiati vendendo
hashish. – Diciamo : avrò bisogno di uno zaino. Dicia-
mo : magari avrò bisogno anche di un giubbotto, – di-
ce. – Di una felpa. Farà freddo. Fa freddo? – mi chiede. Non

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Male 

è mai stato fuori dalle Maldive. Ora invece ha il telefonino


con tutte le mappe della Turchia, segue la battaglia minuto
per minuto, metro a metro, sa tutto del fronte. Dei ribelli,
del regime. Chi avanza, chi arretra. Chi vince. Chi perde.
Sa meno della Siria. Della sua complessità. Gli attivisti lai-
ci, i saccheggi, il contrabbando, gli scontri interni, le faide,
la guerra come un affare: i tanti checkpoint che da entrambi
i lati del fronte, ormai, non servono a controllare il nemico,
ma a estorcere ai civili gli ultimi spiccioli rimasti – anche se
in un certo senso, in fondo, non sta andando in Siria. Ti di-
ce: – Sto andando in paradiso.
E comunque, ancora meno sa dello Stato islamico in cui
vorrebbe vivere. – Il problema, – dice, – è la democrazia: il
problema è questa pretesa degli uomini di decidere secondo
la propria volontà, invece che secondo la volontà di Dio –.
Ma per il resto, sulla Siria che verrà è vago. – Cosa ti aspetti
di trovare? – gli chiedo. Non ha dubbi. – Fratellanza, – dice.
Una nuova vita. Una vita diversa. – Una società in cui sia-
mo tutti uomini, e non avvoltoi. Carogne, come qui. In cui
tutti approfittano l’uno dell’altro. E l’unica cosa che conta è
avere l’ultimo iPhone, l’ultimo iPad. Avere. Avere, nient’al-
tro. E per avere, siamo pronti a tutto. Perché tu pensi di non
credere in niente, – dice, – e invece credi, credi quanto me.
Credi nel mondo cosí com’è.
– Siamo tutti al fronte, – dice. – Chi non combatte, in
realtà parteggia per il piú forte.
Chi non combatte, in realtà è il piú forte.
E il mondo gli sta bene cosí.
Dello Stato islamico, sa piú che altro cosa non deve esse-
re. Ma il suo amico Mohamed ride quando gli racconto che da
noi si dice che i foreign fighters non conoscano l’Islam. Quan-
do gli racconto del ragazzo di Birmingham che in aeroporto,
prima di partire, si è comprato il bignami di sharia. E sembra
non sia un caso isolato. In Siria è stata ritrovata una specie
di archivio. Delle schede. Centinaia di schede: compilate dai
jihadisti stranieri all’arrivo. Nome. Professione. Studi. Lingue

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 Ma quale paradiso?

parlate. Hai la patente? Sai guidare un carrarmato? Cose cosí.


E il  per cento delle reclute, a quanto pare, ha dichiarato
di avere solo nozioni elementari di Islam. Ma per Mohamed
non significa niente. – Nessun musulmano si definirebbe un
esperto di Islam, – dice. – Il Corano inizia dicendo: Studia –.
Poi mi guarda, dice: – Come Kant, no? Sapere aude.
Mohamed ha  anni, ed è un lettore onnivoro. Un let-
tore non solo del Corano: è appassionato di filosofia, di let-
teratura, soprattutto di letteratura americana. Di relazioni
internazionali. Ha l’aria di quello che è: uno studente, jeans,
polo e borsa a tracolla. Facoltà di sharia.
– L’Islam è giustizia. Giustizia intesa come è intesa ovun-
que: come uguaglianza di diritti e opportunità. Da voi uno
dice sharia, e pensa ai talebani. Alle mani mozzate, alle teste
decapitate. E invece la sharia è l’opposto. La sharia ti proteg-
ge. Il vostro è un diritto sviluppato dal legislatore. Il nostro
invece è un diritto sviluppato dagli esperti. E questo significa
che è un diritto che vincola tutti: anche il legislatore. Questo
è il principio essenziale della sharia. Nessuno è superiore al-
la legge. Nessuno è sottratto alle regole. Neppure chi gover-
na, – dice. – La sharia è con te. Non contro di te.
– La sharia ha lo stesso obiettivo del vostro costituzio-
nalismo: limitare il potere. Collocare l’uomo al centro del-
la società. Non il sovrano. Non il potente, il capo di turno.
Il bullo di turno, – dice. – Ai tempi di Maometto, si vive-
va in tribú. Si viveva in gruppo, perché la vita era dura. Il
singolo non era che parte del gruppo: non aveva autono-
mia. Non aveva valore in sé. E infatti non si avevano re-
sponsabilità dei singoli: né colpe né meriti. Tutto veniva
attribuito alla tribú nel suo complesso. Il Corano ribaltò
tutto questo. Era rivoluzionario, in senso letterale: perché
era individualista. Nell’Islam non hai intermediari: nell’I-
slam hai un rapporto diretto con Dio. Sei tu e solo tu che
un giorno sarai giudicato. E solo per le tue azioni. Islam,
è vero, significa sottomissione, – dice. – Ma è la sottomis-
sione a quello che ti rende libero.

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Male 

– Significa sottomissione a Dio invece che ad Assad, – dice.


– Significa tenere la barra a dritta, anche quando il mon-
do, intorno, va alla deriva, – dice. – Seguire la rotta: la sharia,
«la retta via». Perché non importa cosa decide la maggioran-
za. La maggioranza è stata anche quella che ha scelto Hitler.
Anche Mohamed è in partenza. Ma per i  dollari non
ha avuto bisogno di vendere hashish. Viene da una famiglia
molto praticante. Li ha chiesti al padre.
– Le Maldive potrebbero essere come Dubai, – dice. – Co-
me la Svizzera. Siamo pochi, siamo piú o meno trecentocin-
quantamila: e il turismo genera miliardi di dollari. E invece
qui tutto è un favore. Una concessione. Se ti ammali, bussi
alla porta del presidente, e ti pagano le cure in Sri Lanka.
Che poi è il motivo per cui nessuno si ribella. Perché ognuno
risolve i suoi problemi cosí. Pensando solo a se stesso. Non
siamo cittadini: siamo mendicanti.
E invece, spiega Mohamed, l’Islam è chiaro: – L’Islam ti
dice: Sei davanti a Dio. Alza la testa. Ti dice: Non hai scu-
se. Scegli. Scegli da che parte stare.
– Ma allora, perché, – gli chiedo, – non iniziate la vostra
battaglia dalle Maldive? Perché la Siria?
– Siamo musulmani. Siamo una comunità sola. E la Siria,
semplicemente, è la priorità. Sarebbe strano il contrario, – di-
ce. – Che con cinquecentomila morti, pensassimo piú a noi
che alla Siria. Ma la verità, – dice, – è che la Siria è la nuova
Bosnia: una guerra che non importa a nessuno, che nessuno
ferma, perché tanto a essere sterminati sono i musulmani.
Fossero i cristiani, l’Onu sarebbe intervenuta subito. La do-
manda vera, – dice, – non è: Perché vai in Siria? La domanda
vera è: Perché stai ancora qui? Quelli strani, con cinquecen-
tomila morti, sono quelli che pensano ad altro.
Il suo modello, dopo Maometto, è Malcolm X.
Eppure, quelli come Ali e Mohamed alle Maldive avreb-
bero molto da lavorare. Solo i musulmani, qui, possono es-
sere cittadini, e a scuola l’Islam è la materia principale, e
cinque volte al giorno i negozi chiudono per la preghiera:

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 Ma quale paradiso?

ma poi i commessi restano dentro a bersi un caffè. Non van-


no in moschea. E cosí per l’alcol: è vietato, ma si vende al
bar dell’Island Hotel. Accanto all’aeroporto. Basta pagare.
Anche un giudice è stato filmato insieme a due prostitute.
Però se sei una donna, invece, una donna qualunque, e
fai sesso fuori dal matrimonio, ti frustano in pubblico da-
vanti al tribunale.
Perché è vero che qui tutto è proibito. Ma poi il fine set-
timana vanno tutti in Sri Lanka.
Dove tutto è consentito.
– Non importa che l’Islam sia la religione di Stato. Al
momento, non esiste nessuno Stato realmente islamico, – di-
ce Ali. – Il problema è che il Corano si concentra sui prin-
cipî. Non è un manuale di istruzioni: delinea i principî di
fondo, che devono poi essere specificati in regole piú con-
crete. E quindi è integrato dagli hadith, esempi tratti dalla
vita di Maometto –. I detti e i fatti della vita di Maomet-
to: la Sunna. La tradizione. Da cui il termine «sunniti».
Gli sciiti invece guardano non solo a Maometto, ma an-
che ai loro leader religiosi. Che sono discendenti diretti di
Maometto. – Gli hadith sono sostanzialmente degli aned-
doti, – dice. – E sono stati tramandati oralmente per seco-
li. I piú affidabili sono circa cinquemila: ma in tutto sono
mezzo milione. E quindi il problema è che qualunque tesi
tu voglia sostenere, scoverai sempre un hadith a conferma
della tua tesi.
– Perché – continua Ali, – molti hadith non tramandano
affatto la tradizione, la prassi dei tempi di Maometto, ma
gli interessi di chi li ha tramandati. Si dice che Maometto
amasse i biscotti. Ma a dirlo fu tale Mohammed Mahai: uno
che vendeva biscotti.
– Neppure l’Arabia Saudita, – dice, – è uno Stato real-
mente islamico. Anzi, è lo Stato meno islamico di tutti. A
partire dal nome. Un cittadino saudita, per definizione, è un
seguace dei Saud, la famiglia reale: invece che un seguace di
Dio. L’Arabia Saudita è fondata sull’idolatria.

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Male 

– Ma sono tra i vostri principali finanziatori, – dico.


– Hanno miliardi di dollari. Miliardi e miliardi di dollari.
E quanti profughi siriani hanno accolto? Zero, – dice.  – No.
Oggi non esiste nessuno Stato realmente islamico.
– E quindi? – dico.
– E quindi la Siria è solo l’inizio.

Male è come se ti si stringesse addosso.


Ti si chiude addosso. Non si respira.
Ricorda un po’ Napoli. I Quartieri Spagnoli. Ma senza
quel fascino, quell’eleganza da aristocrazia decaduta. Cam-
mini, e sembra una città come mille altre. Anonima. Non
noti niente. Anche perché è una città cosí affollata che in
realtà sei tutto concentrato a incunearti tra bambini, ra-
gazzi fermi a un palo a fumare, amiche che chiacchierano,
anziani lenti, donne ingombranti, operai, buste, borse, pac-
chi. Zaini. Motorini. Motorini ovunque. E se anche noti
qualcosa, noti uno che sembra un promotore finanziario.
E invece è un assassino.
Noti un albero. Solo un albero, in fondo alla strada. Die-
tro un muro celeste. Sembra un giardino interno, di quelli
di una volta, di quelli con le maioliche e gli agrumi: e invece
poi attraverso due fori rettangolari che sarebbero le finestre,
vedi un frigorifero, un divano. Il soffitto di lamiera. Un pa-
dre entra insieme al figlio.
Era un giardino interno: adesso è abitato.
L’albero fuoriesce dalla cucina.
Una turista passa, scatta una foto.
Un isolato dopo, sulla strada di «Minivan News», al pia-
no terra, vivono in tredici. Marito e moglie con cinque figli
adulti, piú tre tra generi e nuore e tre bambini. Sono quattro
stanze, in tutto, di cui una è la cucina e una è l’ingresso in
cui siamo, e cioè un piccolo tavolo di formica con due sedie
e nient’altro, il resto è un cumulo di tricicli, vestiti, ciabatte,
ombrelli, oggetti di ogni tipo. Un forno a microonde. Un frul-
latore. Una boa. Lavorano tutti: uno guida motoscafi, uno fa

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 Ma quale paradiso?

il commesso in una cartoleria, uno fa l’istruttore di sub. Un


altro lavora alla dogana. Ma questa casa è tutto quello che
possono permettersi. – Ma come è possibile? – dico. – Solo
questa casa? – No, – mi dice quello che guida motoscafi. – No,
no, certo: non solo la casa. Anche il cibo.
E Male è tutta cosí. Anche la Majeedhee Magu, la strada
principale. Non noti niente anche perché il piú delle volte non
ci sono portoni, solo intercapedini tra un edificio e l’altro. E
quello è l’ingresso di casa tua. Ma tu vedi solo negozi. Solo
vetrine. E invece da lí un gatto ti osserva, tra stracci e ciabat-
te. Taniche di acqua. Un sottovaso, una scatola di merendi-
ne. I muri sono mezzi crollati. Mezzi marci. Non c’è nessuna
finestra. Eppure l’uomo seduto sul letto, con un groviglio di
vestiti nell’angolo, perché non c’è un armadio, altri vestiti
appesi al soffitto ad asciugare, è un addetto dell’aeroporto.
Ha uno stipendio di   rufiyaa. Dal soffitto gocciolano
giacche e cravatte. Mi traduce tutto suo nipote Hisaan, che
ha  anni e lavora in un resort ed è qui per due giorni in-
sieme alla madre, che ha appuntamento da un cardiologo.
– Tutto questo è voluto, – dice. – Non è povertà: è politica.
Siamo costretti a venire a Male per qualsiasi cosa, per andare
da un medico, per andare in banca, per andare all’università,
ma anche per tutto il resto, anche solo per comprare un paio
di scarpe. E ovviamente gli affitti sono spropositati. I prezzi
di Male sono i prezzi di Londra: con la vita del Burundi. Ed
è voluto, – dice. – Una popolazione alla fame è una popolazio-
ne che non ha tempo ed energie per organizzarsi e rovesciare
il governo. Che non ha piú neppure la capacità di organiz-
zarsi. Perché ormai siamo solo autisti e camerieri –. Ha una
strana malformazione ai denti. I due canini sono larghi, so-
no larghi quasi il doppio degli altri denti, e sono piú in fuori,
tipo un centimetro piú in fuori. Bianchi. Bianchissimi, sulla
pelle scura. – Scusa, – dice. E tace un momento. Mi offre un
succo di frutta. Poi tace ancora. – Scusa, – dice. – Non so di
cosa parlare. Qui lavoriamo per pagare l’affitto, e paghiamo
l’affitto per lavorare. Nient’altro, – dice. – Non so parlarti

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Male 

di un film, di un disco. Di un libro. Scusa, – dice, e tace, im-


barazzato, e guarda da un’altra parte, e guardo da un’altra
parte anch’io, in realtà, perché mi chiedo solo come deve es-
sere avere vent’anni, e due denti per cui nessuna ragazza si
sognerà mai di baciarti, due semplici denti che un qualunque
dentista ti tirerebbe via in due minuti ma tu non puoi per-
metterti un dentista, e quindi rimani lí: con i tuoi vent’anni,
e nessuna ragazza che si sognerà mai di baciarti.
Per due denti.
Però Riley, invece, è il suo opposto. Ha mille domande.
Mille cose di cui parlare. Ha  anni, un marito stilista e i
capelli corti e spettinati, l’aria sveglia e curiosa, l’aria di una
che vorresti come amica: ma sta in casa tutto il giorno con i
due figli di  e  anni e il suocero, malato, che ha una stanza
tutta per sé. Il resto è una minuscola cucina tutta piena di
chitarre e tamburi, e una stanza con un soppalco. Ora che
dipingeranno le pareti colorate, in realtà, non fosse che è sen-
za finestre, e fa un caldo micidiale, senza aria e senza luce,
non fosse che si allaga ogni volta che piove, e qui piove per
sei mesi l’anno, cioè, in realtà a parte questo la casa sembra
una casa di quelle delle riviste di arredamento, o almeno di
un catalogo Ikea. O forse è lei. Forse è lei che ti fa sentire
a Brooklyn. A Berlino. In una di quelle vecchie officine re-
cuperate dagli artisti. Solo che sta tutto il giorno in casa. Se
lavorasse, dovrebbe pagare una persona che si occupi dei fi-
gli e del suocero: e dello stipendio non resterebbe niente. E
quindi sta tutto il giorno in casa, e legge. Legge tutto quello
che trova: e ha mille domande, mille cose da chiedermi: non
si fida della stampa di governo. Mi chiede se è vero che Bin
Laden è ancora vivo, se è vero che gli attentati in Europa,
«Charlie Hebdo», il Bataclan, sono stati un’operazione di
Israele. Se è vero che l’Undici settembre in realtà sono stati
gli americani per invadere il Medio Oriente. E se è vero, co-
me scrivono in questi giorni, che in Francia hanno vietato il
velo. Che la polizia gira per le spiagge a spogliare le musul-
mane. – Sai, –  dice, – perché qui scrivono proprio di tutto.

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 Ma quale paradiso?

Esce poco. – A Male o sono tutti poveri, e strafatti, e non


parlano, oppure sono straricchi, e allora parlano solo di se
stessi. Ogni giorno cosí. Galleggi, nient’altro.
– Fino a quando un giorno il suocero sei tu, e una nuora
si prende cura di te, – dice.
Dice: – Vorrei essere nata coraggiosa come te. Libera.
Poi tace un momento. Dice: – O forse vorrei essere na-
ta in Italia.
– Fortunata come te, – dice.
Perché Male è tutta cosí. In fondo alla Buruzu Magu, che
è una strada che attraversa la città da un capo all’altro, paral-
lela al mare, a un certo punto c’è un cancello, e dietro il can-
cello c’è un cortile colmo di sacchi, ogni sacco colmo di bot-
tiglie di plastica. In casa sono tutte donne. Non capisco bene
chi abiti dove, cioè in quale stanza, la casa è un cunicolo buio
e umido, una stanza dopo l’altra. Nella prima a destra abita-
no una ragazza con il marito e il figlio, nella stanza dopo abi-
ta sua madre con le altre figlie e l’ultimo dei figli, che ha piú
o meno l’età del nipote, credo: non capisco niente. Vivono in
diciannove, qui, vedo solo scarpe. Scarpe e bambini. E donne.
Mi si affollano tutte intorno, sento solo voci, voci l’una sopra
l’altra, non escono mai, perché gli uomini, i padri, i mariti, la-
vorano nei resort, lavorano lontano, e non vogliono che girino
da sole, e quindi stanno tutte qui, in casa, sempre, in dician-
nove, o forse in cinquanta, perché so solo che a un certo pun-
to conto e siamo in undici, in una stanza di quattro metri per
quattro: undici piú un televisore che parla di Siria. – Hanno
iniziato la controffensiva, – mi dice un ragazzo. – Al-Nusra
sta provando a sfondare l’assedio, – dice, cosí, come un altro,
in un altro paese, in un altro mondo, direbbe che è iniziato
il contropiede, e invece non parla di una partita, parla dei ri-
belli, parla di Aleppo, mentre le sue sorelle, o madri o mogli,
o quello che sono, mi guardano, guardano i miei jeans, la mia
camicia, toccano la stoffa, e mi toccano i capelli, le mani, la
pelle delle mani, guardano l’anello che ho al dito, l’incisione
ebraica: mi guardano come se non avessero mai visto niente

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Male 

e nessuno. Non sono mai state fuori da Male. Stanno tutto


il giorno chiuse qui. Tutti i giorni. E starebbero qui anche se
non fossero costrette a starci, comunque, perché hanno paura.
Hanno paura delle gang. Anche se le gang sembrano averle in
casa, in realtà: si sentono delle urla, a un tratto, urla, oggetti
rovesciati, e una ragazza mezza svestita esce da una delle stan-
ze, strattonata da un ragazzo, un ragazzo che è mezzo svesti-
to anche lui, e strappa dal muro una torcia elettrica, e la sca-
glia a terra, e poi un piccolo specchio, colpisce una porta con
una gomitata, mentre una bambina si nasconde dietro di me,
si stringe al mio ginocchio, e il ragazzo mi passa davanti, mi
guarda, poi entra in cucina, una specie di cucina, scalcia via
una sedia, sputa, e si siede sull’altra, si accende una sigaretta
che non sa di sigaretta e dopo due, tre boccate, tace, gli occhi
aperti, mentre la bambina tira su la sedia, e mi offre l’avanzo
di sigaretta: e mi guarda: con la sigaretta in mano, mentre mi
arriva un messaggio, e il telefono si illumina, e come se nien-
te fosse, è un oooh di stupore generale, perché è un iPhone:
e nessuno ha mai visto un iPhone, qui, mentre il ragazzo è
ancora lí, ancora con gli occhi aperti – e cosa puoi dire, ades-
so? Perché in luoghi cosí, in momenti cosí, non c’è niente da
dire, e però c’è questo silenzio, adesso, c’è questo silenzio di
piombo, mentre fissano tutte l’iPhone e il ragazzo, dietro, è
sempre lí, sempre con gli occhi aperti, e tu che provi a vergo-
gnarti di meno di te, di tutto, spiegando che non vale quanto
costa, perché la Apple è tutta apparenza, ti senti dire, mentre
cerchi la porta, la batteria non dura niente, sei sempre incol-
lato a una presa, e invece quel Nokia vecchio di quindici an-
ni, ti senti dire, è molto meglio, e poi con quello non possono
tracciarti: con quello non possono bombardarti, è molto me-
glio dell’iPhone: e la bambina che ti guarda, cosí, ancora con
la sigaretta in mano, che ti guarda, e ti dice: – Non ho capito.
Chi è che ti bombarda?
Dov’è la porta?
Come si esce di qui?

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 Ma quale paradiso?

Perché poi era un messaggio di uno dei ragazzi in parten-


za per la Siria: e all’improvviso capisci cosa ti dicono, qui,
quando ti dicono che vogliono solo andare via. Che tutto
è meglio di Male. Mi dice che domani «un uomo molto ri-
spettato», cosí, senza altre specificazioni, vorrebbe incon-
trarmi in privato a Villingili. L’isola in cui abito. A cinque
minuti da qui. Anche se proprio ieri mi ha detto di fingere
di non conoscerlo, dovessimo incrociarci per strada, per ca-
so, perché è stato richiamato all’ordine per avere parlato con
una giornalista senza chiedere autorizzazioni: e mi ha detto
che alcuni, al solito, credono che io in realtà sia una spia.
Mi ha detto: – Stai attenta.
E adesso: come sa che abito a Villingili?
Tutto a un tratto, realizzo che sono sola. Completamen-
te sola.
Completamente vulnerabile. Non c’è neppure un’amba-
sciata occidentale, qui. Sono tutte in Sri Lanka. E la polizia
non esiste.
Telefono a Kinan. Di Villingili mi dice solo: – Lí spari-
sci –. Mi dice: – Insisti per incontrarlo a Male –. Ma non è
Male: è il Messico. È il Salvador. Scampia. Devi analizzare
da solo la situazione, e da solo trovare una soluzione. Una
protezione. Perché se gli altri girano in branco, la verità è
che l’unica è girare in branco anche tu.
L’unica è picchiare per primo.
Il tipo domanda anche se posso presentarmi all’appunta-
mento con un hijab. Con un velo. Non che sia una richiesta
strana: però significa anche che cosí nessuno, intorno, pense-
rà che sono una straniera. Anche perché è un appuntamento
in privato, come mi ripete.
Con un uomo molto molto rispettato. Ma di cui proprio
non può anticiparmi il nome.
Nessuno, nel caso, mi aiuterà.
La cosa piú probabile, onestamente, è che vogliano solo
accertarsi che io sia davvero una giornalista. In fondo, quan-

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Male 

do arrivi in un paese nuovo ti presenti alla tua ambasciata,


no? E a un paio di ministri. E qui ti presenti ad al-Qaeda. Il
problema però non è quale sia l’ipotesi piú probabile: il pro-
blema, in questo mestiere, è sempre quale sia l’ipotesi peg-
giore. Parlando, potrei credo convincerli di non essere una
spia. Né una che poi torna a casa e scrive che sono tutti degli
assassini. Ma se il problema non fosse tanto non avere gior-
nalisti ostili, quanto non avere giornalisti? In assoluto? Cioè,
e se il problema non fosse come io racconto o non racconto
l’Islam, ma che non vogliono ritrovarsi sui giornali con que-
sta storia delle Maldive regno dei jihadisti? Anche perché a
cosa servono quei  dollari? Un biglietto per la Turchia
costa molto meno.
A chi finiscono?
Sono solo jihadisti, quelli su cui sto lavorando?
E poi qui il problema in realtà è che non sei in mezzo ai
jihadisti. A degli uomini che per quanto radicali, per quanto
armati, hanno obiettivi e strategie, hanno una loro logica, come
in Siria, come in Iraq. Riflettono. Valutano. Ponderano. Qui
sei in mezzo a dei ragazzini che neppure capiscono che toccare
un giornalista straniero attira piú attenzione di dieci reportage.
Dei ragazzini «a rota». Altro che jihadisti.
Cristo. Questa città è piú pericolosa di Baghdad.
Ma no, mi dico, non avrebbe senso. Non sono mica de-
gli idioti.
Poi mi dico: Regeni.
Perché, cos’è che ha un senso, qui?
Cos’è che è piú probabile? Qui è tutto ugualmente pro-
babile. Penso all’università: penso a tutte quelle lezioni di
teoria dei giochi. Se A sceglie X, allora, no?, vedrai che B
sceglie Y. Perché è logico. Perché è razionale.
Razionale?
Andare in Siria?
Come era semplice il mondo, prima.
Come era sbagliato.
O forse, semplicemente, come era piú piccolo di quello vero.

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 Ma quale paradiso?

Perché poi ora che sto alle Maldive, invece che in Siria,
finalmente sono tutti tranquilli.
Tutti che mi scrivono: «Brava». «Rilassati».
– Per questa sera stai a Villingili, – dice Kinan. – E domani
poi ti sposti su un’altra isola. Intanto, – dice, – cerco di capi-
re chi è quest’uomo. Ma tu per un po’, stai lontana da Male.
Torno all’imbarco dei traghetti camminando rasente ai
muri. Di nuovo vigile come al fronte, in un secondo: alzo la
guardia: di nuovo attenta a ogni rumore, ogni ombra. Ogni
dettaglio. Ogni cosa che prima non c’era.
Ogni cosa che sta dove non dovrebbe stare.
E giuro: sono certa che nessuno mi abbia seguito. E invece
arrivo, mi richiudo il cancello alle spalle, e due ragazzi entra-
no subito dopo di me. Due ragazzi di qui. In un residence per
stranieri. Chiedono al proprietario di vedere una stanza. E il
proprietario mi guarda, poi li guarda: nervoso. Apre una stan-
za al piano terra. L’istinto mi dice di correre fuori, e dileguar-
mi: la testa mi dice di rimanere lí. In mezzo ad altre persone.
Escono.
Mi passano davanti. Uno dei due si ferma.
Tira fuori un coltello, mi fissa un momento. Ruvido.
E va via.
È mezzanotte quando mi scrive Kinan. «La gang di cui
ti parlavo», dice, «quella di cui non ricordavo il nome. Si
chiama Bosnia».
Chissà quante, un giorno, si chiameranno Aleppo.

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Maafushi

Ma niente di tutto questo arriva ai turisti.


I resort occupano ciascuno un’isola intera, sono l’isola,
sostanzialmente, e sono solo per stranieri: sono un mondo
cosí a sé che sui traghetti di spola tra un atollo e l’altro, quan-
do si intravede un resort con i bungalow, le palme, queste
spiagge chiare e infinite, il mare celeste, i maldiviani iniziano
tutti a scattare foto con il naso incollato al finestrino. Turi-
sti nel loro paese.
Ma niente di tutto questo, in realtà, niente delle Maldi-
ve arriva neppure agli altri turisti: i turisti delle guesthouse.
Che sono un’idea piú recente, invece. Un’idea di Nasheed.
Il presidente che nel  è subentrato a Gayoom. A diffe-
renza dei resort, le guesthouse sono sulle isole normali. Isole
abitate. Sono in mezzo alla vita vera. Perché l’obiettivo non
era solo creare un po’ di reddito: l’obiettivo di Nasheed era
anche creare relazioni, contatti. Lasciare entrare aria. Per-
ché il governo di Gayoom è stato una specie di quarantena:
ha immunizzato le Maldive dal mondo molto piú della geo-
grafia. E invece ora, con le guesthouse, i turisti stanno tra
i maldiviani.
Sono state la prima riforma di Nasheed. Un’idea sia eco-
nomica sia politica.
Anche di piú. Un’idea sociale. Nel senso proprio di un’idea
di società. Perché è vero che se vivi qui, vivi fuori dal mon-
do, e non importa quanto sia bello il mare, dopo un giorno
ti prende un attacco di claustrofobia. Ma è anche vero che
in fondo, qui è il mondo a venire da te.

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 Ma quale paradiso?

E il viaggio che ti cambia, no?, che ti apre, non sono i


luoghi: sono le persone.
La prima guesthouse è stata inaugurata qui, a Maafushi.
A  euro e due ore di traghetto da Male. O anche  euro e
mezz’ora di motoscafo – perché è sempre cosí, alle Maldive,
è sempre tutto netto: stai di qui o di lí, mezz’ora o due ore.
Un paese, due mondi.
Tre mondi. Perché poi ai resort arrivi in idrovolante.
Maafushi è un’isola minuscola. Non c’è praticamente nien-
te. Solo una moschea, e un campetto da calcio un po’ trasan-
dato. In dieci minuti vai da un capo all’altro. È un’isola cosí
piccola che non ci sono auto, né motorini: solo carrelli per i
bagagli, con le ruote che incidono ghirigori su queste strade
di sabbia battuta, larghe, tra case di cemento grezzo, bas-
se e rade. Né ci sono negozi. Solo un paio di alimentari di
quelli di una volta, con dentro il droghiere con il grembiule.
Ma non c’è neppure della frutta fresca. Capisci subito cosa
intendono, qui, quando dicono che per qualsiasi cosa hai bi-
sogno di andare a Male.
L’unica cosa che trovi è il filo da pesca. Scaffali e scaffa-
li di filo da pesca.
Hai bisogno di andare a Male anche per comprare dei bi-
scotti, non solo per un medico – a parte che l’ambulatorio è
una station wagon e quindi non hai bisogno di nessun medi-
co, qui: muori prima.
E Maafushi è una delle isole piú attrezzate.
– Lasciarci aprire una guesthouse non basta, – dice il pro-
prietario dell’unico tipo di negozio che non manca, un nego-
zio di souvenir. – Qui non c’è niente. Solo il mare. E i turisti
non vogliono solo un letto e un caffè la mattina. Sono turi-
sti, mica profughi, – dice. Vende essenzialmente conchiglie.
Collane di conchiglie, spille di conchiglie, cornici di conchi-
glie. Scatole di conchiglie. Conchiglie dipinte. Conchiglie
posacenere, conchiglie portasapone, conchiglie zuccheriere.
Conchiglie apribottiglia.
Anche specchi di conchiglie.

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Maafushi 

Conchiglie calamita. Borse di conchiglie.


Magliette.
Un albero di banano in legno laccato.
Berretti da baseball.
– Nasheed aveva visto giusto. Troppo giusto, probabil-
mente, – dice. – Le guesthouse potrebbero cambiare le Mal-
dive. E quindi ora cercano di boicottarle in ogni modo. Avere
un’autorizzazione per aprirne una, – dice, – non è difficile.
Il difficile viene dopo. Per attrarre i turisti è necessario mol-
to di piú. Sono anni, per esempio, che chiediamo di allargare
la bikini beach –. Che è l’espressione con cui qui chiamano
le spiagge per gli occidentali: alle Maldive il bikini è vietato.
Le donne nuotano vestite. – Sono anni che chiediamo festi-
val, concerti. Un cinema. Qui la sera non c’è niente. Ma il
governo non investe un centesimo, – dice. – Ma soprattut-
to il problema sono gli immigrati –. La legge impone che il
 per cento dei dipendenti sia locale. Sia nei resort sia nelle
guesthouse. Sempre. – Ma è una legge, – dice, – che non ri-
spetta nessuno. Perché qui tutto si fonda su accordi tra im-
prenditori e politici. I politici, per tacere, prendono mazzet-
te con cui costruirsi le loro reti. E quindi paghi: e nessuno
ti invia gli ispettori. Sono tutti del Bangladesh, qui. Lavo-
rano come bestie. E per pochi spiccioli, – dice. – Ma tanto:
se protestano li licenzi.
– Tanto, – dice, – il Bangladesh ha centocinquanta milio-
ni di abitanti. Uno ne perdi, e cento ne trovi.
– Ci dicono che per attrarre i turisti dovremmo essere
meno rigidi. Vendere vodka e cose cosí, – dice un passan-
te che si è unito alla conversazione. – Non si discute che di
questo. Dell’alcol, dei bikini. Ma il problema non è l’Islam.
Il problema, qui, è il Bangladesh.
– Il problema sono gli altri, – dice. – Non noi.

La guesthouse in cui sto, in effetti, è in mezzo al nulla. È


poco piú di una casa privata. La stanza ha la finestra su una
specie di cavedio, il cui muro è il muro esterno della centrale

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 Ma quale paradiso?

elettrica: che ronza ininterrottamente. E che comunque non


è sufficiente. Spesso salta la corrente. E con la corrente, l’ac-
qua. E l’illuminazione pubblica non c’è. La sera si gira con
una torcia. Dietro la centrale elettrica non c’è niente. Solo
sabbia. Sabbia, non la spiaggia: quella è dal lato opposto di
Maafushi, dal mio lato c’è solo sabbia. E spazzatura.
Una lunga distesa di spazzatura. Viene bruciata cosí. Tut-
ta insieme.
Dal mio lato c’è solo sabbia, e aria di diossina.
Perché alle Maldive in realtà una guesthouse è tutto quel-
lo che non è un resort. Il piú scalcinato dei bed & breakfast
come un hotel. Il White Sand è sulla strada principale – o
meglio, centrale. Ha  stanze. Una doppia, in media, costa
 dollari, dipende dalla stagione, e sono stanze ampie, lu-
minose, arredate come sono arredate oggi le stanze degli ho-
tel di questo tipo, di questo livello, in tutto il mondo, tutte
in legno: con quest’aria un po’ Ikea. I dipendenti sono cin-
que, e vengono tutti dal Bangladesh. Tre vivono qui, in una
stanza al piano terra. Tutti e tre insieme. Yassan ha  anni,
è arrivato qui a venti e ancora non è mai tornato a casa, nep-
pure una volta, perché non può permettersi l’aereo. Non ha
turni, non ha orari, non ha ferie: è sempre a disposizione. Da
sei anni. E la sua vita è tutta qui. – Maafushi non ha niente,
– mi dice Hani, che invece ha  anni ed è qui da due. – E
comunque non abbiamo amici, – dice. E non dice altro. Pro-
vo a chiedergli qualcosa, ma tace. Imbarazzato. Dice: – Ma
io non sono nessuno.
Dico: – Mi interessava la tua opinione.
– Che valore può avere? – dice.
– Sono solo uno che passa l’aspirapolvere.
Anche al Beachwood, poco oltre, una doppia in media
costa  dollari a notte. Ha  stanze. E anche qui, il per-
sonale è tutto straniero. Per metà del Bangladesh per metà
delle Filippine. – Ma il nostro hotel è molto diverso dagli al-
tri, – mi assicura la manager, una trentenne tutta elegante
e compita, con il tailleur e il trucco, le mani, i capelli: tut-

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Maafushi 

to impeccabile. – Il Beachwood propone moltissime attivi-


tà, – dice. – Per tutti i gusti e tutte le età –. Sulla bacheca
all’ingresso, in effetti, sono appesi tre fogli fitti fitti. Tra le
battute di pesca e le immersioni, c’è anche la gita a un re-
sort: per  dollari, puoi guardare i ricchi tutto il giorno.
Perché puoi stare solo in spiaggia: non puoi usare le struttu-
re del resort. – Ma è lo stesso, – dice. – Ti senti come loro.
E nel prezzo sono inclusi bibita e tramezzino.
C’è anche la Sand Bank, anche nota come Sex Beach. So-
stanzialmente, è un banco di sabbia in mezzo all’oceano: su
cui fare sesso fino allo sfinimento.
Ti lasciano lí, e poi passano a riprenderti.
– La sera? – dico.
– Dopo la preghiera del tramonto, – dice.
La migliore delle guesthouse probabilmente è il Crystal
Sands, che piú che una guesthouse è un vero e proprio ho-
tel, un quattro stelle con tanto di ristorante internazionale.
È a pochi metri dal mare. Ed è molto bello, obiettivamen-
te: anche se non ha niente che sia vagamente riconducibile
alle Maldive. Un posacenere, una lampada, un cucchiaino.
Niente. Ha  stanze. Prezzo medio  dollari. Il ragazzo
che mi mostra una doppia, una doppia rifinita in ogni det-
taglio, ampia, luminosa, silenziosa, è del Bangladesh, ed è
qui da due anni. Provo a chiedergli qualcosa, ma tace. Im-
barazzato. – Gradisce un caffè magari, – mi dice. – Posso
offrirle un caffè?
– No, grazie. Volevo solo sapere un po’ come si vive, qui.
Mi guarda.
– Magari gradisce una spremuta d’arancia.
– No, no, sto bene, grazie. Ma mi chiedevo, invece: tu,
come stai?
– Sto bene, signora. Se lei sta bene. Sta bene?
Ha  anni.
– Hotel come il Crystal Sands sono un’esperienza uni-
ca, – mi assicura il manager, un trentenne tutto elegante e
compito, con la cravatta e la camicia, i gemelli, il tono della

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 Ma quale paradiso?

voce: tutto impeccabile. – In un resort, stai su un’isola in mez-


zo all’oceano. Stai su un’isola magnifica, certo, ma potrebbe
essere anche l’oceano Pacifico. Anche un altro oceano, – di-
ce. – Solo qui hai l’opportunità di vivere come si vive alle
Maldive. Di stare tra i maldiviani –. E in un certo senso, dice
il vero. C’è uno spiazzo di sabbia con delle palme, di fronte
all’entrata, e appese alle palme, delle sedie di corda di quelle
caratteristiche di qui, con l’intelaiatura in ferro. Tre uomini
sui settant’anni, in tunica e barba, si dondolano all’ombra.
Saluto deferente in arabo.
Fissano accigliati un’australiana in bikini alle mie spalle.
Mi guardano un attimo.
E poi mi ignorano.
– Se stai cercando una vera guesthouse, una guesthouse
gestita da una famiglia, l’unica qui è la Sunshine View, – di-
ce il proprietario di un negozio di souvenir. – Queste si chia-
mano guesthouse, ma hai visto: sono un’altra cosa –. Vende
essenzialmente conchiglie. Collane di conchiglie, spille di
conchiglie, cornici di conchiglie. Scatole di conchiglie. Con-
chiglie dipinte. Conchiglie posacenere, conchiglie portasapo-
ne, conchiglie zuccheriere. Conchiglie apribottiglia.
Anche koala di conchiglie.
Conchiglie calamita. Borse di conchiglie.
Gufi di conchiglie.
Magliette. Delfini di plastica.
Un delfino felice, un delfino triste.
Un delfino perplesso.
Il rompicapo israeliano che ho comprato ad Atene.
Berretti da baseball.
– Sono delle cavallette, – dice. Parla degli imprenditori di
Male. – Hanno fiutato l’affare, e si sono già comprati tutta
la prima fila di case sul mare. Uno, due anni: e diventeran-
no hotel. Da un piano a quattro piani. E per tutti noi sarà
finita, – dice. – Offriranno ai turisti la sauna e la palestra.
Lo yoga e la piscina. Anch’io affitto una stanza: ma al piú,
ai turisti posso offrire la grigliata di pesce di mia moglie –. E

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Maafushi 

comunque, qui è difficile anche solo ristrutturare una stan-


za. Aprire un negozio. Negli anni di Gayoom, la Banca del-
la Maldive ha prestato il , per cento delle sue rufiyaa a
due soli clienti. Gasim Ibrahim e Ahmed Shiyam. Due de-
putati. Per tutti gli altri, l’unica, per avviare un’impresa, è
rivolgersi a gente cosí.
E cioè pagare tassi da usura.
– Stiamo in mezzo. Abbiamo da una parte i poveri del
Bangladesh, in basso, e dall’altra, in alto, i ricchi di Male.
Stiamo in mezzo. Ogni giorno piú stretti.
– Però forse uno può cercarsi un socio straniero, – dico.
Un socio normale. Perché dipende dal tipo di guesthouse che
si ha in mente, ovviamente, e dipende dall’isola, però si parla
di cifre abbastanza contenute. Per una guesthouse di quelle
a cui pensava Nasheed, si parte dai   euro. Con  
euro a Roma non ti compri neppure un interrato.
– Ma poi i profitti vengono divisi il  per cento allo stra-
niero, e il  per cento al maldiviano, – dice. – Anche se il
maldiviano è quello che sta qui. E fa tutto. Ma non ha il ca-
pitale. Vecchia storia, voi bianchi.
«Voi bianchi»: dice proprio cosí.
La Sunshine View è in una traversa della strada centrale,
ed è una bella casa con il pavimento un po’ in sabbia un po’
in legno, l’arredamento in bambú. All’ingresso maschere, pin-
ne e boccagli. Ha quattro stanze, tutte al piano di sopra. Al
piano terra invece abitano i proprietari, marito moglie e due
figli, due ragazzi. Entrambi studenti. Costa  dollari a notte.
– In un mese, le camere in media sono occupate per una
ventina di giorni. Qui è sempre alta stagione. E quindi, no-
nostante un  per cento complessivo di tasse, con una guest-
house una famiglia può vivere. E vivere bene, – dice Mo-
hamed Shafeeq, il titolare. Che però, per prudenza, non ha
lasciato il suo lavoro, né lo stipendio, di professore. Perché
per ora i conti tornano: ma le tasse sono state appena au-
mentate. Oltre alla mancanza di infrastrutture, sono l’altro
modo, il modo vero, con cui il governo cerca di ostacolare

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 Ma quale paradiso?

le guesthouse. – Adesso le tasse sono uguali, sia per noi sia


per i resort. Sono uguali in valore assoluto. Tot dollari. Che
però ovviamente incidono molto di piú sui ,  dollari di
tariffa di una guesthouse che sui , , o anche 
dollari di tariffa di un resort, – dice. – Per ora, resistiamo.
Ma molto, onestamente, dipenderà dai nuovi hotel in co-
struzione. Dai prezzi che avranno. Sono di quel genere di
imprenditori che possono permettersi prezzi sottocosto per
mesi, all’inizio, – dice. – Cosí da spazzare via la concorrenza.
Perché tanto possono bilanciare i conti con introiti di al-
tra natura. Di altra origine.
– Si discute tanto di una spiaggia piú ampia. Di concer-
ti, teatri. Ed è chiaro che anche io, per esempio, vorrei tra-
sporti migliori, trasporti veri, perché al momento Maafushi
è collegata solo a Male e a un’altra isola qui vicino. Per tutto
il resto, bisogna organizzarsi con una barca privata: e fini-
sce che paghi  dollari la stanza, magari, ma  dollari il
motoscafo per l’aeroporto, – dice. Che è un’altra eredità di
Gayoom. Del suo tentativo di controllare la popolazione: è
stato Nasheed a introdurre i collegamenti tra le isole. E an-
cora oggi, non è mai possibile andare e tornare da un’isola
nello stesso giorno. Se non in motoscafo: se non a un costo
che possono permettersi solo i turisti. – Però il problema non
è questo, – dice. – Il problema qui non è vendere o meno
alcol. Il problema non è l’Islam, né quanto è larga la bikini
beach. Il problema è l’illegalità.
– O si combatte l’illegalità o tutto questo, – dice, – sarà
inutile. Chiuderemo. E chiameremo guesthouse quelle che
in realtà sono un’altra cosa.
– Nonostante tutto, però, in questi anni le cose sono
molto migliorate, – dice il proprietario di un terzo negozio
di souvenir. Vende essenzialmente noci di cocco. Shampoo di
noce di cocco. Latte di noce di cocco. Olio di noce di cocco.
Sapone di noce di cocco.
Mestoli di noce di cocco.
Acquerelli su noci di cocco.

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Maafushi 

Candele dentro noci di cocco. Borse di noci di cocco.


Anche lampade di noci di cocco.
Magliette. Infradito con Bob Marley.
Infradito con Che Guevara.
Il flauto irlandese che ho comprato ad Amsterdam.
Berretti da baseball.
– All’inizio non è stato semplice, è vero. Erano tutti dif-
fidenti. E anch’io: temevamo di diventare la Las Vegas dei
tropici, – dice. Con il McDonald’s sul mare. – Però la verità
è che con le guesthouse le cose sono migliorate. Prima qui
non c’era niente. Ma proprio niente. Niente e nessuno. Pe-
scavi tutto il giorno, e la sera fumavi eroina. Sniffavi colla.
Benzina. Qualsiasi cosa. Eravamo arrivati cosí in basso che
lo tsunami ha travolto tutto. – Lo tsunami? – dico. – Lo tsu-
nami. Certo, – dice. – Non a caso, è stato il  di dicembre.
Il  dicembre . Il giorno dopo Natale. Perché ormai
molti musulmani festeggiano il Natale con i cristiani. Ormai
anche tra musulmani: si beve, si sta insieme ragazzi e ragaz-
ze. Si pensa piú a sé, alla propria carriera, che alla famiglia.
Ma Dio ci ha richiamato a una vita autenticamente islamica.
– Una vita, – dice, – secondo i valori di una volta.
– In effetti, – dico. – Qui non si trova piú manco un cap-
pello.
– Un cappello?
– Un cappello di foglie di palma.
– Sono lí in fondo.
Mi indica una pila di cappelli di paglia.
– No, non paglia. Palma. Volevo il cappello tipico di qui.
– In che senso, tipico?
– Il cappello quello di una volta.
– Hai una foto?
– No. È per un amico. Per un amico a cui compro un cap-
pello da ogni paese in cui sono. Volevo un cappello tipo, non
so: tipo il colbacco in Russia, il fez in Turchia. Un cappello,
no?, che uno non può sbagliarsi, che uno dice: questo viene
dalle Maldive.

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 Ma quale paradiso?

Mi guarda.
– Un cappello che è un po’ un simbolo?
– Diciamo un simbolo. Sí.
– Allora questo, – dice.
E tira fuori un cappello a forma di Nemo. Il pesce. Quel-
lo del film della Disney. Il pesce arancione.
Piú che un cappello tra l’altro è un berretto. Un berretto
a forma di Nemo.
– Ma questo è Nemo.
– No che non è Nemo.
– Sí che è Nemo.
Mi guarda.
– Vedi? – dice. – È proprio il simbolo delle Maldive. Que-
sto pesce è nostro, – dice. – Non vostro.
Lo guardo.
– Di chiunque sia: questo pesce è Nemo.
– E invece no. Per niente. Questo pesce non è Nemo: è
il nostro pesce piú comune. Ma arrivate, e vi appropriate di
tutto. E trasformate tutto in un mondo a vostro uso e con-
sumo. Ma è tutto finto. Il vostro mondo è tutto finto. Non
esiste. Questo pesce non è Nemo. Cercavi il simbolo delle
Maldive? – dice. – Eccolo.
– Venite qui e credete di essere stati alle Maldive. E in-
vece non siete mai stati alle Maldive. Non siete mai stati da
nessuna parte, – dice.
– Forse gli altri, – dico. – Ma io sto a Male. Non sto in
un resort.
– E che differenza fa? – dice. – Tu guardi: mica vivi. Tu
non sai cosa significa davvero.
– O pensi di sapere cosa significa sudare tutta una vi-
ta, – dice, – tutto il giorno, tutti i giorni, sempre, ed essere
costretti a chiedere l’elemosina a un deputato per pagarti un
medico? Con questi ricchi sfondati, in televisione, che dico-
no: Mi sono guadagnato tutto fino all’ultimo centesimo. Mi
sono meritato tutto. Come se fossero stati piú bravi di te. E
invece sono solo stati piú ladri.

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Maafushi 

– Ma Dio, per fortuna, è stato chiaro, – dice. – E ci ha


richiamato a una vita autenticamente islamica.
– Non che mi sembri molto islamica, onestamente. E la
Sand Bank? – dico. – Cioè, qui tutta l’economia si basa su
un tipo di turismo che è agli antipodi del Corano. A parte
che poi il fine settimana state tutti in Sri Lanka a fare festa.
– E che significa? – dice. – Nei momenti di cambiamen-
to è sempre cosí. Sono momenti complicati. Confusi. Ma è
solo questione di tempo. Solo questione di abituarsi. Le cose
cambiano, – dice. – Le cose si risolvono da sole.
Non che mi sembri cosí chiaro.
Dopo tutto lo tsunami. Dio poteva anche spiegarsi meglio.
In che senso abituarsi? Abituarsi a cosa? All’alcol? Al
Corano?
A tutti e due?
Entra un gruppo di turisti cinesi. – Comunque guar-
da, – dice. – Vai in un’isola tipo Himandhoo. Per il cappel-
lo, – dice.  – Se è una cosa tradizionale, a Himandhoo c’è.
– Imandu?
– Himandhoo. Con la h.
Subito dopo i cinesi, entrano dei libanesi. E perché poi
in effetti, adesso che ci penso, gli orologi, qui, negli hotel,
quegli orologi, no?, tondi, delle reception, quelli che indi-
cano l’ora delle città del mondo: qui non indicano l’ora di
Londra. Di New York. Indicano l’ora di Pechino. Di Istan-
bul. Di Mosca. Di Riyad. Ed è un po’ quella sensazione di
quando arrivi a Fiumicino, al controllo passaporti, e tro-
vi due file: una per i cittadini dell’Unione Europea, e l’al-
tra per il resto del mondo. E quella dell’Unione Europea è
sempre piú corta.
Perché siamo sempre di meno.
Siamo solo il  per cento della popolazione mondiale, or-
mai. E la verità forse è che non importa piú quello che noi
pensiamo degli altri: importa quello che gli altri pensano di noi.
Perché sono molti di piú.
Miliardi di piú.

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 Ma quale paradiso?

E perché poi cosa significa, adesso, che è solo questione


di tempo?
Che nel tempo si impara a conoscersi, e a non temersi? Si
impara ad accettarsi? O che nel tempo i musulmani saranno
la maggioranza?
E di questa storia del bikini non parlerà piú nessuno?
Uno dei libanesi, comunque, compra il cappello di Nemo.
– E poi, – dico, – le cose non è che mi sembrano cosí mi-
gliorate. Tra un hotel e l’altro, alcune case sono case di stuoie
e lamiere, sembrano rifugi di sfollati. Con alveari di bambini,
finestre con gli stracci invece dei vetri. Non capisco, – di-
co, – perché in questo paese nessuno protesti. Ora vi rubano
anche le guesthouse: e però nessuno si oppone.
– Qui o sei un pescatore o sei un dipendente pubblico, – di-
ce. – Se sei un dipendente pubblico, e protesti, vieni licen-
ziato. Se sei un pescatore, e protesti, la sera non ceni. Tut-
to qui, – dice. – Ma onestamente, non è necessario arrivare
a tanto. Arrivare alla forza. Abbiamo paura, certo. Parlare,
qui, è pericoloso: ti hanno raccontato, no?, di quel ragazzo.
Rilwan. Il messaggio non è sfuggito a nessuno. Ma alla fine,
siamo pochi. Vai da un deputato, ti fai firmare un assegno:
e finisce lí. E se è un problema piú generale, invece, un’an-
nata di pesca andata male, è sufficiente chiedere una dona-
zione a un paese amico.
– O a una Ong pronta ad aiutare questi maldiviani sotto-
sviluppati, – aggiunge il figlio. Che sta qui, in questi giorni,
ma studia economia. – Nessuna Ong dice mai che la povertà
ha ragioni politiche, non vogliono complicarsi la vita. E quin-
di trattano la povertà come un fenomeno naturale. Come lo
smog e la malaria. Non indagano sulla Banca delle Maldive:
ti concedono il microprestito per vendere boccette di sabbia.
Sai come dicono, all’università: Non regalategli pesci, ma in-
segnategli a pescare. Ecco, ora ti insegnano a pescare. Il pro-
blema è che tu non è che non sai pescare, anzi, sai pescare
meglio di uno che è nato a Londra e si è laureato in antropo-
logia. Il problema è che ti hanno rubato la canna da pesca.

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Maafushi 

– E comunque, – dice, – non è vero che nessuno si oppo-


ne, qui. Che nessuno sta provando a cambiare le cose.
– Tanti vanno in Siria, – dice.
– I jihadisti sono ragazzi normali. Ragazzi come noi, – di-
ce Ailam. Ha  anni, fa l’avvocato. E suo fratello è in Siria
con l’Isis. – Alcuni hanno dei problemi, è vero. Sono in fu-
ga: se non proprio in fuga dalla polizia, in fuga da se stessi.
Ma mio fratello, per esempio, aveva la sua vita. Una vita di
amici, serate fuori. Ragazze. Siamo una famiglia come mille
altre. Siamo musulmani, ovviamente, ma siamo quattro so-
relle, piú mio fratello, e abbiamo tutte studiato: non siamo
mai state segregate in casa da mio padre o cose simili. Abbia-
mo vissuto come tutti i ventenni. Qui nessuno ti costringe a
niente, – dice. – Non siamo estremisti. Questa non è certo
l’Arabia Saudita.
– Né è la Francia, – aggiunge.
– E anche mio fratello, – dice. – Era come tutti. Poi ha
iniziato a interessarsi alla Siria, e un po’ alla volta, è cambiato.
Anche perché ha iniziato a lavorare in un resort, nello stesso
periodo. E nei resort, sí, hai uno stipendio, ma stai lí per me-
si, lontano da tutto, e o servi i clienti o stai nella tua stanza,
a fine turno ti è proibito girare sull’isola: ti senti uno zero.
Non è che non avessero notato niente, mi dice: – Non
parlava che della Siria, dell’oppressione dei musulmani. E
non leggeva che il Corano. E io gli dicevo: ma l’oppressione
è ovunque, non è una questione cosí semplice, musulmani
contro non musulmani. E poi, se vuoi combattere l’ingiusti-
zia, gli dicevo, perché non vai in Palestina? La Palestina è
l’origine di tutto. Israele.
– Ma il Corano dice di cominciare dalla Siria, – dico.
– Ma no, – replica, – il Corano non dice di cominciare
dalla Siria. Il Corano dice di cominciare da se stessi. Mica
di ammazzare gli altri. Se vuoi una società migliore, tu devi
essere migliore. Dio è onnipotente: se avesse voluto, avreb-
be creato un mondo di soli musulmani. Un mondo senza cri-
stiani, senza ebrei. Invece l’ha voluto cosí: con il giorno e la

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 Ma quale paradiso?

notte, i tonni e gli orsi. I cristiani e gli ebrei. Chi siamo noi
per saperne piú di Dio? Mio fratello non è andato a Gerusa-
lemme semplicemente perché Israele a Gerusalemme non ti
fa entrare. Poi possono raccontarla come vogliono: ma van-
no in Siria perché in Siria li lasciano andare.
– Perché poi ogni tanto ho sbirciato i suoi libri. E one-
stamente, sono identici ai nostri. Ai nostri libri di univer-
sità, – dice. – Spiegano l’Islam in modo sostanzialmente
corretto. Però poi c’è tutta la parte sulla jihad che è un po’
qui un po’ lí, un po’ sullo sfondo di tutto. Non è trattata in
modo organico. E l’Islam si può interpretare in molti modi:
ma non in ogni modo. Il concetto di jihad è abbastanza pre-
ciso. Per quanto tu possa ampliarlo, non puoi prendere un
tir e schiantarti sulla gente. Ma in quei libri la jihad è come
fuori contesto.
– È come se dicessero: il mondo è ingiusto, reagisci, – dice.
– Comunque non è questione di libri, onestamente. Qua-
lunque cosa sia scritta in quei libri: è che tutti i suoi amici
andavano in Siria. E quando uno è morto al fronte, è sta-
ta la fine. A quel punto non parlava d’altro, – dice. – Stava
sempre lí con il Corano. Vestito come un arabo –. Poi però,
per un po’, è tornato il ragazzo di sempre. E hanno abbassa-
to la guardia. – Ha ricominciato a nuotare. A correre. Cosí.
All’improvviso. Ogni mattina, come prima. E ha cambiato
lavoro. Non parlava piú di Siria. Non avremmo mai imma-
ginato che invece si stava allenando per combattere, e con
quel nuovo lavoro voleva pagarsi il biglietto per la Turchia.
Quando è sparito, abbiamo capito subito. E abbiamo tele-
fonato alla polizia, perché venisse fermato a Istanbul: ma
niente. Non hanno neppure richiamato. E mio fratello è ri-
comparso su Facebook con un kalashnikov.
In famiglia è l’unica a parlargli ancora. – Sta con altri ra-
gazzi di qui, e con altri stranieri. Gli unici che non vedo, nelle
foto, sono i siriani che sostiene di aiutare. E però… Però un
po’ ho paura a sentirlo, confesso. Perché temo mi convinca.
A volte penso: e se invece avesse ragione? Stiamo qui come

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Maafushi 

se niente fosse, mentre in Siria muoiono tutti. Non posso non


avere dubbi, è mio fratello. E so che non è uno squilibrato.
Lo squilibrato in Siria è Assad.
– La sera, quando torno a casa… – dice. – Guardo le noti-
zie da Aleppo, perché temo sempre che sia stato ucciso: que-
ste notizie sempre uguali, perché muoiono tutti, ad Aleppo,
muoiono e basta – e se vuoi un mondo migliore, no?, penso:
tu devi essere migliore. Tu per primo.
– E invece stiamo qui. Come se niente fosse, – dice. – E
penso: forse lui non ha ragione. Ma di sicuro non ho ragio-
ne nemmeno io.
– Penso… Non so, – dice.  – Non so cosa penso.
Mi guarda.
Dice: – Non so chi sono. Non è solo che non so chi è dav-
vero mio fratello. Non so piú chi sono io. Nessuno di noi,
qui, sa piú chi è.

Anche se niente di tutto questo arriva ai turisti.


Niente. – Aleppo? – mi fa uno spagnolo in spiaggia. – Stai
ad Aleppo? Scusa, ma Gheddafi non è stato ucciso? Si com-
batte ancora?
In isole come Maafushi i turisti stanno fra i maldiviani,
sí, e i maldiviani fra i turisti: ma senza mai parlarsi, in realtà.
Senza mai neppure sfiorarsi. Il personale addetto ai clienti è
europeo, i turisti si imbattono solo in altri occidentali. Altri
bianchi. Gli immigrati cucinano, lavano vetri e pavimenti.
Scaricano bagagli. Ma alla reception poi trovi un francese,
un inglese. I turisti stanno tutti lí nella loro riserva indiana,
nella loro bikini beach, in questo scorcio di spiaggia con una
staccionata di bambú intorno, e un caffè e un ristorante e
un bancone dove noleggiare una canoa: come se il resto di
Maafushi non esistesse. Quando si avventurano fuori, gira-
no in costume e pareo, pareo trasparente, e cioè in costume
e basta, con un rispetto per la cultura locale che è formale
quanto l’accettazione della cultura occidentale da parte dei
maldiviani. Al fondo, non è che un rapporto commerciale. Da

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 Ma quale paradiso?

entrambe le parti. Nessuno, qui, è minimamente interessato


all’altro. Si coesiste senza alcuna interazione. Impermeabili
gli uni agli altri.
Non insieme: semplicemente nello stesso posto.
Cosí. Per caso.
Su Youtube c’è ancora il matrimonio di una coppia euro-
pea, nel . Una coppia di svizzeri. Al Vilu Reef Resort.
La classica cerimonia sul mare. Scalzi, con la collana di fio-
ri. Il tramonto. Le candele.  dollari. Con gli indigeni in
costume tradizionale, ovviamente, che parlano solo in dhi-
vehi: «Non siete che fornicatori infedeli, è vero?» dicono.
«Bastardi».
I due sorridono felici.
«Sí», giurano. «Sí».
Quattro napoletani vagano in spiaggia sperduti. Sono ar-
rivati ieri, tutti e quattro sui quarant’anni, variamente sepa-
rati o divorziati. Non avevano idea che le Maldive fossero
un paese musulmano. – E sono anche una tana dell’Isis, – di-
co. – Maronn, – sgrana gli occhi Roberto. Poi fa a uno degli
amici: – Guagliò, hai sentito? Ci sta l’isís, qui. Nun ce sta
manco ’na femmena.
A parte la spiaggia, e la moschea, Maafushi davvero non
ha che un paio di caffè. – La sera, il solo svago è la corsa dei
granchi, – dice Roberto sconsolato. – Paghi il marchio e ba-
sta. Giusto per dire che sei stato alle Maldive. Giusto per
postare due foto su Facebook e dire a tutti che tu mica stai
a Cesenatico: tu hai fatto i soldi. Mica stai a mare dalla suo-
cera, – dice, e guarda il resort che sta di fronte a Maafushi:
avevano pensato di trasferirsi lí, ma sono  dollari a not-
te. – Qui paghiamo  dollari, abbiamo detto: e il mare è
lo stesso. Ma per  dollari, ci hanno detto, possiamo al piú
vedere i pesci, – dice. – E solo per un’ora, – dice.
– Se volevo vedere i pesci, – dice, – mi compravo il dvd
di Quark.
Ugualmente deluso uno spagnolo. – Per quello che costa,
– dice, – considerato che qui a costarti molto è il volo, ha piú

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Maafushi 

senso il mar Rosso. Dove hai lo stesso tipo di mare: ma hai


anche tutto il resto. E poi, – dice, – qui è tutto un cantiere.
Stanno costruendo ovunque. Tra quattro, cinque anni, – di-
ce, – sarà come Ibiza. Ma soprattutto, vengono da noi, e
pretendono di nuotare con… come si chiama: il burkini. Poi
veniamo qui, e c’è solo il cocco. Cocco, cocco, cocco. Ma io
pago. Questi campano grazie a me. Ho diritto a una birra.
– Ma qui sono musulmani, – dico.
– E io sono il cliente, – dice. – Il cliente ha sempre ragione.
– Comunque, – dice, – non parliamo di Maldive. Parlia-
mo di Siria. Quando mai mi ricapita di parlare con una che è
stata in Siria? – dice. – Ma in Siria si può venire? Cioè, per-
ché una volta vorrei vedere la guerra. Secondo me un uomo
non è completo se non è mai stato in guerra. Se non è mai
stato sul punto di morire. Non può dirsi uomo.
– Mah, – dico. – In questo momento la Siria è un po’ pre-
caria. Un po’… Un po’ dura.
– Ma io, – dice, – mi adatto. Mi adatto a tutto. Ho viag-
giato tanto in camper.
La birra, comunque, in realtà c’è. C’è una barca, al lar-
go, su cui si vende alcol. Però cosí a Maafushi nessuno vende
alcol: e il Corano è rispettato. Ma i napoletani non l’hanno
ancora scoperto: uno dei quattro si aggira nel minimarket a
torso nudo, controlla a una a una ogni bottiglia di succo di
frutta alla disperata ricerca di un goccio d’alcol. Siamo da-
vanti alla moschea. Gli uomini lo fissano torvi. Capisce co-
sa sto pensando. – Fa caldo, – dice. – E poi ho tutto il sale
sulla pelle. La maglietta s’appiccica –. Passa una donna sotto
un niqab, si volta imbarazzata. – Iamme, che si’ nu scorfa-
no, – dice. – Ma chi ti vuole –. Guarda il marito. – Tinatill!

Anche se in realtà, non è neppure questione di moschea.


Jamal e Firas sono tunisini, e stanno in un hotel a duecen-
to metri da quello dei napoletani. In cui invece sta Kareem,
egiziano. Tre turisti come tutti gli altri. Solo che di mestie-
re sono jihadisti.

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 Ma quale paradiso?

In tre, sono veterani di sette guerre.


I tunisini hanno cominciato con la Bosnia, l’egiziano, che
è un po’ piú giovane, con l’Iraq. Anche se hanno un modo
di contare diverso dal mio. Non mi elencano i paesi. Non
mi dicono: la Libia, la Siria. La Cecenia. Mi elencano le sin-
gole battaglie a cui hanno partecipato. Come fosse un’unica
guerra. Un unico obiettivo. Da Fallujah a Parigi.
Sono qui per parlare con Abu Yasser, che ha iniziato
dall’Afghanistan, invece, ed è un po’ il decano. E anche se
è nato in Iraq, dice: – Sono nato a Baghdad. L’Iraq non so
cosa sia.
– L’Iraq, – dice, – è un’invenzione degli inglesi.
Sono qui per quello che definiscono un appuntamento
d’affari.
– In un’isola delle Maldive, – dico interrogativa.
Dico: – È veramente l’ultimo dei luoghi a cui avrei pensato.
– Appunto, – dice Abu Yasser.
Sono qui perché nessuno immagina.
E probabilmente, perché nessuno controlla.
Sono dei logisti, fondamentalmente. O comunque, cosí
si definiscono. Diciamo che si occupano di uomini e armi. E
non sono né al-Qaeda né Isis. O forse sono entrambe le cose:
perché in realtà le differenze, e soprattutto, le relazioni, tra le
due organizzazioni non sono ancora molto chiare. A noi no di
sicuro. Ma forse neppure a loro. Tecnicamente, lo Stato isla-
mico in origine era al-Qaeda in Iraq. Poi nel , durante
la guerra in Siria, è diventato indipendente, e soprattutto, è
diventato uno Stato, rispetto ad al-Qaeda che si è formata in
Afghanistan, invece, non nell’Afghanistan che resisteva agli
americani, ma prima, in quello che resisteva ai sovietici dopo
l’invasione del : ed è stata a lungo un gruppo terroristico
e basta. Un gruppo terroristico tradizionale. Non voleva, cioè,
avere un suo territorio. Cambiare la mappa del Medio Orien-
te. Voleva condizionare i governi esistenti. Non sostituirli.
Al-Qaeda aveva nel mirino sia i governi occidentali sia
quelli arabi: il primo nemico di Bin Laden non erano gli Stati

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Maafushi 

Uniti, era l’Arabia Saudita. Dall’Undici settembre, dal ,


fino al , le vittime del terrorismo sono state  . Per
il  per cento, in paesi non occidentali.
Tutto questo, comunque, in teoria. Perché poi invece sul
terreno le cose sono sempre piú ambigue, e gli uomini che
incontri sono quasi tutti cosí. Come Jamal, Firas, Kareem.
Abu Yasser. Passano non solo da un paese all’altro, ma da
un’organizzazione all’altra, da una sigla all’altra, a seconda
dei momenti, dell’andamento di una guerra: e a seconda dei
finanziamenti. E non passano mai semplicemente da al-
Qaeda all’Isis. O dall’Isis ad al-Qaeda. I gruppi jihadisti
sono centinaia, sono centinaia in ogni singolo paese, piú o
meno radicali. E sono riuniti in alleanze, e poi alleanze di
alleanze, e poi alleanze di alleanze di alleanze: e solo infine
affiliati ad al-Qaeda o all’Isis. O a niente. E a volte gover-
nano, a volte combattono. Soprattutto, a volte si combat-
tono. A volte invece si fondono. O si tollerano, si riparti-
scono il territorio.
Né uniti né divisi.
E il problema è che questo è vero anche per i loro nemici.
Che poi saremmo noi. In teoria, siamo tutti schierati con-
tro il terrorismo: però, sul terreno, le cose sono sempre piú
ambigue. A volte la priorità è un altro nemico. E il nemico
del mio nemico, invece, non importa se stermina gli yazidi.
Se usa il fosforo. I gas. Per Erdoğan la priorità sono i curdi.
Per Assad i ribelli. Per noi il petrolio.
Sostanzialmente, i jihadisti vengono usati da tutti.
E usano tutti.
Sostanzialmente, è un casino. Gli analisti hanno sempre
queste mappe tutte colorate, ordinate, queste mappe molto
rassicuranti, il blu è l’esercito, il rosso i ribelli, il verde è al-
Qaeda. Il nero è l’Isis. Queste mappe gruppo a gruppo. Qui
i sunniti, lí gli sciiti. Qui gli islamisti, lí i laici. Qui il bene, lí
il male. E tu invece hai sempre queste mappe tipo quei fogli,
nelle cartolerie, su cui provi le penne. Queste mappe coman-
dante a comandante. Checkpoint a checkpoint.

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 Ma quale paradiso?

Tutte dello stesso colore. Perché tanto non sai mai chi
trovi.
E cosa pensa, con chi sta. Per cosa combatte.
Se ti spara o no.
I musulmani in genere ti parlano di salafiti e basta, quale
che sia il gruppo a cui si riferiscono. Ti parlano di islamisti,
cioè, che predicano l’Islam delle origini, l’Islam dei tempi
di Maometto – dei salafi, appunto: degli antenati. Oppure,
ti parlano semplicemente di al-Qaeda. Perché tra l’altro, al-
Qaeda non è un termine coniato dai jihadisti. Cioè, non è
stata al-Qaeda a chiamarsi al-Qaeda: è stata la Cia, negli anni
Novanta, a chiamarla cosí. E in un certo senso, a crearla, a
crearsela cosí. Nel solo modo in cui avrebbe potuto affron-
tarla. Perché in arabo al-qaeda ha piú significati. Può essere
tradotto come «la base», in senso materiale, una base mi-
litare, una base operativa, ma anche in senso piú astratto,
come «le fondamenta». I principî di base. E anche come
avanguardia, in senso gramsciano: la minoranza che sta in
prima linea, e anticipa e guida la maggioranza che seguirà.
Il significato che i musulmani non ti citano mai, è quello che
invece ti citano gli occidentali: un’organizzazione. Un’orga-
nizzazione a rete, magari, fluida, ma comunque un’organiz-
zazione. Perché come dice Kareem, l’egiziano: – Al-Qaeda
è un modo di stare al mondo –. E però come combatti un
modo di stare al mondo?
Nei nostri sistemi giuridici per spiccare un mandato d’ar-
resto per cospirazione, per esempio, che è il capo d’accusa
tipico contro chi sta pianificando un attentato, è necessaria
l’appartenenza a un’organizzazione. Non puoi fermare qual-
cuno per quello che pensa.
Per la sua visione del mondo.
Anche se è quello che al-Qaeda è, invece.
Molto piú di un’organizzazione. Un modo di essere.
Un’interpretazione del mondo.
In senso letterale: di tutto il mondo. – Quando con una
ruspa abbiamo abbattuto il confine tra Siria e Iraq, come

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Maafushi 

primo atto del califfato, siete subito corsi a bombardarci.


Ma perché, l’Europa, come l’avete fondata, sessant’anni fa?
L’avete fondata cosí, – dice Abu Yasser. – Se per voi non
ha senso un confine tra un polacco e un portoghese, perché
per noi dovrebbe avere senso un confine tra un siriano e un
iracheno, che parlano la stessa lingua? Avete questa fissa-
zione dell’inviolabilità delle frontiere. Ora, dimentichiamo
anche che sono state tracciate a tavolino per dividere e co-
mandare, che poi adesso ci ritroviamo con questi paesi, tipo
la Libia, il Libano, che non hanno senso. Ma il punto non
è tanto questo: è che indipendentemente dalle frontiere, gli
Stati sono in crisi ovunque. Siete i primi a dire che oggi i
problemi sono globali, ma la politica è locale, e che questo è
il disastro, perché le imprese invece sí, sono globali, e si tra-
sferiscono dove è piú conveniente, si trasferiscono in con-
tinuazione, perché trovano sempre un paese che è piú con-
veniente, per cui sono meglio di niente, ed evadono le tas-
se, evadono la legge, evadono tutto. E guadagnano di piú di
tutta l’Australia. E allora, – dice, – che differenza c’è tra il
mio califfato e la tua Unione Europea? Alla fine, vogliamo
la stessa cosa, – dice. – Vogliamo riprenderci il controllo sul-
le nostre vite.
– Poi in concreto il califfato può essere molte cose, – di-
ce. – E per quanto mi riguarda, non riconosco questo califfo
che si è autonominato. Ma non ha senso giudicarci con gli
stessi criteri con cui uno giudica, non so, quattro anni di go-
verno di Obama. Stiamo sotto bombardamento, stiamo tra le
macerie: prima che alla sharia, dobbiamo pensare all’acqua e
all’elettricità. Poi se il califfato sarà una federazione o altro,
si vedrà. Il califfato è un principio. Ma difendere le frontiere
cosí, a priori, le frontiere invece che le persone, non ha senso.
– Per me il califfato, prima ancora che una soluzione, è il
riconoscimento di un problema, – dice.
Abu Yasser viene da una famiglia beduina. – E da noi, se
chiedi: di dove sei? da dove vieni?, uno ti risponde: Da mio
padre, e dal padre di mio padre. Non ti risponde: Dall’Iraq.

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 Ma quale paradiso?

Vengo da Dio, e da quelli che mi hanno reso quello che sono.


Vengo da quelli che mi hanno amato e da quelli che mi han-
no tradito. Vengo da tante cose, – dice, – ma non dall’Iraq.
Perché il problema, – dice, – è che tu quando pensi allo Sta-
to, pensi agli ospedali, alle autostrade. Alla pensione. Pensi a
una cosa che ti protegge, – dice. – Io penso a una cosa da cui
devo proteggermi.
In effetti, a Baghdad nessuno conosce il nome del sindaco.
Che esiste. Però se hai un problema, a Baghdad, un problema
pratico, se si fulmina un lampione, se i tombini sono intasati,
se il mercato sotto casa tua lascia ogni sera tutto in disordine,
tutti gli imballaggi in giro, non vai in Comune: per ogni pro-
blema, per ogni tipo di problema, e per ogni zona, hai una fa-
miglia di riferimento. Come fossero gli assessori, piú o meno.
Piú o meno.
– Volete imporci proprio le due cose che criticate di
piú, – dice Kareem. – Lo Stato nazionale e la democrazia.
State sempre lí a ripetere che la democrazia è in crisi, che il
potere vero ormai è delle banche, delle multinazionali. Che
i parlamenti non contano piú niente. E in effetti, pensa i
greci: possono eleggere chi vogliono, tanto decide Bruxelles
mica i greci – e allora perché noi dovremmo volere la demo-
crazia? Un sistema che siete i primi a dire che non funziona?
Difendete i numeri invece che i valori. I principî. Ma cosa
è piú importante: decidere bene, o decidere come decide la
maggioranza? Che poi non è neppure la maggioranza vera: è
solo la maggioranza di quella minoranza che va a votare – di-
ce. – E che spesso manco sa cosa ha votato. Perché allora è
vietato cercarsi un metodo migliore? – dice.
Dice: – Perché è vietato provare la sharia?
– Ma tanto, – dice, – non avete idea di cosa sia: né la sha-
ria né la democrazia. Nessuno qui ha voglia di stare in guerra.
Chiedilo a chiunque. A un jihadista, a un marine. A chiun-
que. Un uomo non può piú dirsi un uomo, dopo essere stato
in guerra. Dio solo sa cosa ho visto. E quando Morsi è stato
eletto presidente, allora, mi sono detto: ma sí, forse è il mo-

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Maafushi 

mento di crederci. Per me Morsi non era la scelta ideale. E


non parlo della sharia, parlo dell’esercito, che in Egitto è il
vero problema: perché stiamo alla fame e l’esercito controlla
due terzi dell’economia. Piú che controlla: possiede. In Egit-
to tutte le principali imprese sono di proprietà dell’esercito.
E Morsi non avrebbe cercato lo scontro con l’esercito, ma il
compromesso. Perché i Fratelli musulmani sono dei riformi-
sti. Dei gradualisti. Ma mi sono detto: forse è il momento di
crederci. Di provarci. E invece l’avete subito rovesciato con
un colpo di Stato. E non perché altrimenti entrava in vigore
la sharia: la sharia in Egitto è in vigore da sempre. Non l’a-
vete rovesciato per difendere gli egiziani, ma i vostri affari.
I vostri amici generali.
– No, – dice. – Non ha senso credere nella democrazia.
– La democrazia, – dice, – non esiste.
E in realtà non è un caso che Kareem, che è egiziano, fi-
nisca per parlarmi di Egitto. Alla fine, è sempre cosí. I ceceni
ti parlano di Cecenia, gli afghani di Afghanistan. Gli inglesi
di Blair. Il confine tra Siria e Iraq è stato abbattuto, è vero,
e per i jihadisti adesso è un unico paese: ma non è un’unica
guerra. Per niente. I jihadisti sono profondamente influenzati
dai contesti nazionali. L’Iraq, al fondo, paga le conseguenze
dell’occupazione americana. Il Ba’th, il partito di Saddam, è
stato dichiarato fuorilegge, e tutti i dipendenti pubblici legati
al partito sono stati licenziati. Solo che il regime di Saddam
era un po’ come il fascismo, quando senza tessera di partito
non lavoravi: da un giorno all’altro, l’Iraq si è ritrovato senza
professori nelle scuole, ingegneri negli acquedotti. Medici negli
ospedali. Lo Stato è svanito. Da un giorno all’altro. Mentre gli
americani scioglievano anche l’esercito: e migliaia di uomini
si ritrovavano in mezzo a una strada. Senza stipendio. Senza
piú niente: tranne un’arma. In Iraq, al fondo, i jihadisti di og-
gi sono i sunniti che erano al potere con Saddam, e che con la
caduta di Saddam hanno perso tutto. E sono finiti nel mirino
degli sciiti e delle loro rappresaglie. Ma già a pochi chilometri
di distanza, in Siria, non è questione di sunniti o sciiti. È que-

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 Ma quale paradiso?

stione di Assad: in Siria o sei con Assad o sei contro Assad.


E se sei contro Assad, sei cosí solo che sei pronto a tutto. Sei
pronto ad accettare chiunque ti aiuti. Anche al-Qaeda. In Si-
ria ti dicono: La priorità ora è Assad. Ad al-Qaeda penseremo
dopo. Perché con i jihadisti, ti dicono, se non altro sai cosa è
permesso e cosa è proibito. Sai quali sono le regole, ti dicono.
Ma con Assad non esistono regole. Con Assad si muore e basta.
E veramente si muore e basta.
Stimare, sí, è complicato: ma in Siria si ha un morto piú
o meno ogni  minuti.
Poi invece arrivi in Tunisia, per esempio, e scopri che
in Tunisia non è una questione politica, ma economica. Si
parte per la Siria come un tempo si partiva per Lampedusa.
Per l’Europa.
In cerca di lavoro.
Arrivi in Tunisia, e vedi delle persone, per strada. In cir-
colo. Delle persone, e un ragazzo, su un tetto. E ti fermi, per-
ché pensi sia un artista, pensi sia una cosa di arte contempo-
ranea, un reading di poesia, o magari un comizio, un comizio
improvvisato, tipo Londra, tipo l’Hyde Park Corner, perché
la Tunisia, no?, è l’esempio di successo della primavera araba,
in Tunisia c’è la democrazia: c’è la libertà, adesso. E invece il
ragazzo sta lí per suicidarsi. Perché non ha niente, ha un dot-
torato in astrofisica e manco i soldi per comprarsi le sigarette.
E la gente, giú, che cerca di fermarlo.
– Però appunto, – dico. – Con gli attentati al museo del
Bardo e poi alla spiaggia di Sousse, nel , avete affos-
sato l’economia della Tunisia. Qual è il senso di operazio-
ni di questo tipo? Avete ucciso dei turisti occidentali: ma
avete soprattutto ridotto sul lastrico migliaia di lavoratori
musulmani. Gli hotel sono vuoti. Gli hotel, i negozi. I ri-
storanti. Non c’è piú nessuno.
– Non abbiamo affossato proprio niente, – dice Jamal. – Ma
hai visto come vivono qui? – dice. – Lavori tutto il giorno, e
non ti paghi l’affitto di casa. Non ti paghi il dentista. E queste
sono le Maldive. Che hanno turisti pronti a pagare  dollari

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Maafushi 

per un aperitivo: i nostri turisti per  dollari vogliono l’inte-


ra vacanza. E quando paghi  dollari una settimana in Tu-
nisia, volo incluso, chiediti un po’ quanto viene pagato il tuo
cameriere. Non perdi niente, se perdi quel tipo di turismo. Ma
proprio niente. Gli unici a guadagnarci sono i tour operator.
E anzi, – dice, – stare sulla soglia di sopravvivenza, stare sul
filo, è la cosa piú pericolosa. Perché comunque stai dentro il
sistema. Comunque hai uno stipendio. E ti illudi che magari
se sali di livello, no?, se da lavapiatti diventi caposala, le cose
migliorano. Ti convinci che invece che disobbedire, ti convie-
ne obbedire ancora di piú. Ma la verità è che se hai vent’anni
e sei tunisino, non hai niente da perdere.
– Sei stata a Zarzis? – dice.
Dice: – Mio fratello sta a Zarzis.
Zarzis è sulla costa. È davanti a Lampedusa, è la città da
cui si parte per l’Europa. C’è un punto, al largo, a cui i pe-
scatori non si avvicinano piú. Perché peschi cadaveri. Cam-
mini lungo il mare, a Zarzis, cammini sulla sabbia, e trovi
scarpe. Decine e decine di scarpe.
Scarpe, e relitti di barca.
– Mio fratello sta a Zarzis, – dice. – Sta sulla spiaggia di
Zarzis. Mentre voi state sulla spiaggia di Sousse.
– E comunque ogni paese è diverso, – dice Firas. – Qui,
per esempio, nessuno ha mai attaccato i turisti. E non solo i
turisti: qui non è mai successo niente, – dice.
– Solo quella volta di Himandhoo, – dice. – Anni fa.
– Himandhoo?
– Himandhoo, sí. Esplose una bomba a Male. E la poli-
zia andò a indagare a Himandhoo, che qui è un po’ il centro
dei salafiti. È l’isola da cui viene il piú famoso predicatore
delle Maldive. E quindi la polizia andò lí. Ma fu accolta con
pietre e spranghe.
– A Himandhoo? Con la h?
– Himandhoo. Sí. Con la h. È uno di quei luoghi di cui
si parla poco. Anche perché all’ultimo dei giornalisti che ci
ha provato, se ricordo bene, hanno tagliato un dito.

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 Ma quale paradiso?

– E ha proprio la h.
– Himandhoo. Sí.
– E comunque, – dice Firas, – il Bardo, Sousse: combat-
tiamo con i mezzi che abbiamo. Che non sono i vostri dro-
ni, è vero. I vostri missili. Non possiamo sconfiggervi. Non
possiamo cambiare le cose, – dice. – Però possiamo rendervi
la vita impossibile: e costringere voi a cambiarle.
– Sono finiti, – dice, – i tempi in cui eravate i padroni.
– Niente, – dice, – è come prima.

Anche se a Maafushi, in realtà, la vita per ora continua


uguale a sempre. È sera, gli occidentali passeggiano su e giú
lungo i loro trecento metri di spiaggia, aspettano la corsa
dei granchi, la musica di Rihanna già a tutto volume. Un
ragazzo stringe ai fianchi due ragazze bionde in shorts e
nient’altro, tutti e tre sfatti, scalzi. Ridono. Il ragazzo suc-
chia l’orecchio dell’amica alla sua destra, barcolla, la mano
negli shorts dell’amica alla sua sinistra. Dietro, tre ragazze
maldiviane in abito da sera argentato, con i ricami rossi.
L’hijab celeste. Incedono come su una passerella.
Poi una sorride: è completamente sdentata.
Guardo le ultime notizie da Aleppo. Jabhat al-Nusra, che
poi sarebbe al-Qaeda, sta provando a rompere l’assedio, è la
fine, ormai, è quasi un anno che la Russia bombarda, bom-
barda tutto: o questo o la resa. I jihadisti si stanno schian-
tando contro le linee di Assad farciti di tritolo. Si vede un
uomo, in un filmato, un uomo di una sessantina d’anni, se-
duto su un marciapiede. Accanto a un sacco nero. E parla
al sacco, gli dice: – Andiamo, andiamo a casa.
Gli dice: – Dài, è tardi. Andiamo.
È suo figlio.
Passa un americano. Un giornalista. Americano per me-
tà, in realtà. La famiglia è di Beirut. Ci siamo incontrati
piú volte, in questi anni. Ma con la primavera araba ha gua-
dagnato abbastanza, mi ha detto ieri, e ora per sei mesi è
in vacanza. – Ancora con questa Siria? – dice. – Finiscila,

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Maafushi 

su, – dice. – Non è colpa mia, – dico. – È la guerra che non


finisce. – Fottitene, – dice. – Tanto quando torni, anche se
torni tra tre anni, stanno ancora lí a spararsi.
Domani si sposta alle Seychelles.
Passa uno dei napoletani. – Ma dove eri? – dice. – Vieni,
vieni, – dice, – che abbiamo trovato la birra. Per una volta
che non stai in mezzo ad al-Qaeda, dài: vieni a berti un goc-
cio. Stiamo lí in fondo, – dice. – Dove finisce la strada. Do-
ve c’è quel muro grigio.
In realtà la strada non finisce lí. Quello è il muro del car-
cere.
C’è Humam, lí dietro. Il fratello di Kinan.
In attesa di essere giustiziato.

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Himandhoo

Il viaggio è interminabile. La barca è una barca in legno


di una ventina di metri, con un vecchio motore che a trat-
ti cede, e si spegne, sono oltre dieci ore, dieci ore di mare
aperto, e pioggia e vento, lo scafo che a stento para le onde,
è un mare di metallo, selvaggio.
Come selvaggia è Himandhoo.
Non c’è nessuno.
Solo due donne, in un angolo, completamente coperte.
Completamente in nero.
Mi fissano, da sotto il niqab, mentre i due marinai sca-
ricano sul molo scatole di conserve, delle bottiglie d’acqua,
sacchi di riso, di zucchero. La posta. Sono l’unica passegge-
ra. Non c’è nessuno e non c’è nulla: solo queste palme verde
intenso, e questi alberi che non ho idea di che alberi siano,
con delle foglie larghe, spesse, degli alberi alti, enormi, che
non somigliano a nessuno dei nostri alberi, e ti si serrano so-
pra la testa, densi, tra gli strilli dei corvi.
Non ho mai visto niente del genere.
Non c’è nulla. Assolutamente nulla, neppure una strada.
Passo tra oggetti sparsi, e solo poi capisco che sono cortili,
interni di case. Una canoa gialla, sbiadita, un’amaca celeste.
Tre bicchieri, per terra. Una tovaglia appesa a un filo. Ma
non è il bucato: è una finestra.
Non c’è una strada, ti fai largo cosí. Tra i rami.
E non c’è nessuno.
Assolutamente nessuno.
Trovare la guesthouse in cui ho prenotato, comunque, e
che poi è l’unica guesthouse, qui, non è complicato: è l’uni-

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 Ma quale paradiso?

ca vera casa. C’è uno spiazzo di sabbia, a un certo punto, tra


gli alberi, e nello spiazzo un dondolo. E davanti al dondolo,
un tavolo. E davanti al tavolo, una porta. Una porta blu. Il
ragazzo alla reception, o piú che alla reception, all’ingresso,
non parla inglese. E non aveva idea che ci fosse un’ospite in
arrivo. – Moment, – dice. Dice: – Wait –. Mi tolgo lo zaino,
intanto, e tiro fuori il taccuino. Il taccuino e le cartucce della
penna. Ho finito l’inchiostro. Il ragazzo mi guarda. – You,
ok? – dice. – Sí, – dico. – Grazie. Ok.
Svito la penna.
È una penna degli anni Cinquanta. Una penna d’argento.
Il ragazzo continua a guardarmi.
Guarda la penna, in realtà. Le cartucce.
Poi corre in cucina.
Torna con un bicchiere d’acqua e un fazzoletto.
E del disinfettante. Pensa sia qualcosa tipo l’insulina. Una
cosa per fare un’iniezione.
Non ha mai visto una stilografica.
Sulla strada principale, o meglio, piú larga, non c’è che
un negozio. Un negozio minuscolo, buio e minuscolo, per-
ché non c’è la luce, non c’è l’elettricità, e la signora alla cas-
sa, sotto il suo niqab, si intravede appena. Un’ombra scura
come tutto il resto. Non ci sono neppure dei biscotti. Solo
della pasta, del tonno, dei barattoli di legumi, shampoo. Filo
da pesca. L’unica cosa commestibile sono delle specie di pa-
tatine che però non sono patatine, sono delle banane, credo.
O forse foglie. Foglie fritte. Il proprietario della guesthouse
comunque, Kyle, mi recupera subito: difficile, qui, non es-
sere notati. Mi guardano tutti. Passo, e si fermano. E mi fis-
sano. Ma senza nessuna espressione. Cosí. Non sorridono,
non salutano, niente: mi fissano e basta.
Con queste donne completamente coperte.
Completamente in nero.
Anche le bambine.
Kyle parla italiano perfettamente, l’ha imparato a orec-
chio, nei resort. E ora ha anche sposato una ragazza toscana.

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Himandhoo 

È con lei che ha aperto il Palm Heaven. Andrea e Stefania


sono nella stanza davanti alla mia, sono di Milano e sono qui
perché sono loro amici, vengono alle Maldive da anni. Cono-
scono ogni isola. Ogni fondale. Andrea è un appassionato di
immersioni. Laura e Alessandro, invece, sono nella stanza a
fianco, e sono di Napoli, è la loro prima volta alle Maldive:
hanno scelto Himandhoo perché volevano stare in un’isola
vera. Tra i maldiviani.
E in effetti, qui non è come Maafushi: qui stai davvero
tra i maldiviani.
Proprio qui che sono tutti jihadisti.

Perché anche se siamo solo a  chilometri da Male, sia-


mo in un altro paese, in realtà: per i suoi seicento abitanti,
questa non è un’isola, è l’emirato di Himandhoo.
Himandhoo è il bastione dell’Islam radicale, qui. Quell’at-
tentato terroristico di cui mi hanno parlato, il primo e l’ulti-
mo, nella storia delle Maldive, è stato nel . Era il  lu-
glio, e un ordigno artigianale fabbricato con una bombola di
gas e dei pezzi di lavatrice esplose nel centro di Male, feren-
do due turisti. Il  agosto, la polizia sbarcò qui in cerca dei
responsabili. Himandhoo era sotto osservazione da tempo,
perché i suoi abitanti si erano costruiti una moschea alterna-
tiva a quella statale: e in tanti erano partiti per l’Afghanistan.
La polizia si trovò davanti decine di uomini a volto coperto,
armati di spranghe, pietre e coltelli. E fu costretta alla fuga.
A un agente fu mozzata una mano.
Sull’albero piú alto, tra i rami, c’è ancora un ramo che in
realtà non è un ramo, è un’asta: c’era la bandiera di al-Qaeda.
Il Palm Heaven ha aperto due anni fa. – E ancora oggi,
non è semplice, – dice Kyle. – Continuiamo a essere dei sor-
vegliati speciali. All’inizio erano tutti contrari. Dicevano che
Himandhoo non sarebbe piú stata Himandhoo: che avreb-
be perso la sua identità. Anche se in realtà l’Islam, qui, o se
non altro questa forma di Islam, cosí estrema, – dice, – è un
fenomeno relativamente nuovo. Trent’anni fa, quando ero

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 Ma quale paradiso?

bambino, era tutto molto diverso. Festeggiavamo l’Eid, e il


venerdí si andava in moschea: un po’ come in Italia, quan-
do la domenica vai a messa, e poi sul corso per l’aperitivo.
Piú per stare con gli altri, no?, che per stare con Dio, – di-
ce. – Mia madre, per esempio: non aveva il velo. Ora hanno
tutte il niqab. Ora l’alcol è vietato. La musica è vietata. Non
so dirti perché, onestamente, è quello che mi chiedono tut-
ti. Ma credo non abbiano una risposta neppure i musulmani.
L’unica cosa chiara è che qui nessuno è costretto a niente.
Non siamo in Iran. Tutto quello che vedi, qui, è libera scelta.
Che poi è quello che ti dicono ovunque, in Medio Orien-
te. A Baghdad. Al Cairo.
Ti dicono: L’identità. La tradizione.
E però poi ti dicono: – Mia madre, per esempio. Non
aveva il velo.
– Tutto è iniziato negli anni Settanta, – dice Kyle. – Tutto
è iniziato con Gayoom. Non aveva una reale legittimazione
popolare. Non aveva radicamento, consenso. Non era nes-
suno. Però aveva studiato ad al-Azhar. E chi avrebbe mai
contestato l’interpretazione dell’Islam di uno che veniva da
al-Azhar? – dice. Fu approvata una costituzione. E non so-
lo l’Islam fu dichiarato religione di Stato, ma il presidente
fu dichiarato autorità ultima in materia di Islam. – Gayoom
giustificava ogni sua decisione come una decisione dettata
dal Corano. Gayoom non governava: Gayoom attuava la pa-
rola di Dio. Non decideva: eseguiva. Il problema è che dopo
alcuni anni cominciarono a rientrare alle Maldive molti ra-
gazzi che erano andati a studiare all’estero. In Pakistan. In
Arabia Saudita, – dice. – O magari in Egitto. Ad al-Azhar.
Male ha una piccola università. Ancora oggi, l’unica, in
realtà, è studiare all’estero. E l’unica, per studiare all’estero,
è avere un finanziamento. – E cioè rivolgersi ai ricchi paesi
del Golfo: è la cosa piú facile, – dice. – E soprattutto, è piú
facile se decidi di studiare sharia, piuttosto che cinema. An-
cora oggi, – dice, – è per questo che cosí tanti studiano sharia.
Perché è l’unica facoltà che possono permettersi.

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Himandhoo 

– In questo, comunque, la storia delle Maldive è la storia


di molti altri paesi, – dice. Nel  l’Egitto di Nasser cercò
la guerra con Israele, certo di cancellarlo alla fine dalla mappa
del Medio Oriente. E invece Israele non solo vinse, e rapi-
damente, ma occupò tutto quello che ancora rimaneva del-
la Palestina. Per moltissimi musulmani, ovunque, la Guerra
dei sei giorni fu la prova che gli arabi come Nasser, gli arabi
laici, non sarebbero mai stati capaci di eliminare Israele, e
con Israele, il dominio occidentale sul Medio Oriente: fu la
prova che era necessario tornare all’Islam. Il  fu visto
come un segno di Dio. Come un richiamo di Dio. Dopo po-
chi anni, poi, dall’impennata dei prezzi del petrolio arriva-
rono miliardi di dollari. E dall’invasione sovietica dell’Af-
ghanistan, una base logistica. Una terra di nessuno in cui
addestrare centinaia e centinaia di combattenti. – Insomma,
negli anni Settanta tantissimi andarono a studiare, o lavora-
re, nei paesi del Golfo. E quando tornarono, Gayoom capí
subito che erano un pericolo. Molto piú dei laici. I laici po-
teva liquidarli come infedeli. Ma loro? Conoscevano l’Islam
quanto Gayoom. Con loro, Gayoom non poteva dire: Si fa
cosí perché cosí dice il Corano.
– E a quel punto, – dice, – è stato un disastro. Perché a
quel punto sia chi aveva il potere sia chi voleva il potere, – di-
ce, – sosteneva di agire secondo il Corano. Di attuare la pa-
rola di Dio. Ognuno accusava l’altro di non essere un vero
musulmano. Ma in realtà non era una battaglia per l’Islam.
Era una battaglia per il potere.
– E però, – dice, – quello che da fuori è difficile capire,
è che la forza dei salafiti è stata proprio questa. Non erano
visti come degli estremisti. Proprio perché non era una que-
stione di religione. Non si aveva una contrapposizione tra
estremisti e moderati, ma tra la libertà e l’oppressione, la giu-
stizia e l’ingiustizia: tra un regime e i suoi nemici. Gayoom
si è inventato i resort: e con i resort, in un certo senso, si è
inventato le Maldive. Questo gli viene riconosciuto da tut-
ti. I resort non erano un’idea sbagliata. Anzi. Qui non c’era

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 Ma quale paradiso?

niente. E però sono stati gestiti in modo sbagliato. I salafiti


si battevano per salari veri. Per scuole, ospedali. Diritti. Di-
gnità, – dice. – Fino a pochi anni fa, per esempio, qui non
esistevano neppure le pensioni: dipendevi dai tuoi figli. E
cosí poi è ovvio, – dice, – che i legami di sangue sono piú
importanti. Che lo Stato ti rimane estraneo.
Perché è uno Stato da cui non hai niente.
– Piú che l’Islam, i salafiti per molti hanno rappresentato
l’opposizione a Gayoom, – dice. – Anche perché sono sta-
ti tutti arrestati. A uno a uno. E spesso torturati, uccisi. E
trasformati in eroi. Non erano visti come estremisti, erano
visti… Erano visti per quello che erano: dissidenti.
– Non so perché le Maldive sono diventate cosí, onesta-
mente, – dice. – Perché poi qui nessuno è costretto a niente,
non siamo in Iran: l’Islam è una libera scelta. Cioè, se doman-
di in giro, tutti ti rispondono che è giusto proibire l’alcol. Pe-
rò poi il fine settimana quelli che possono permetterselo so-
no tutti in Sri Lanka a bersi un whisky. E mi dico: che senso
ha? L’unica cosa che mi è chiara, però, è che è tutto molto
piú complesso di quanto sembra. Il problema non è l’Islam.
Il problema… Il problema in realtà sono mille problemi. L’e-
conomia, certo. Gayoom. La politica. E anche l’Islam: certe
interpretazioni del Corano piuttosto che altre – come negare
che l’Islam abbia un ruolo in tutto questo? Ma poi c’è anche
il ruolo, per esempio, dei predicatori. Dei singoli. Tipo Fa-
reed, che è uno dei piú carismatici e ha vissuto a lungo qui.
E si è trascinato dietro centinaia e centinaia di seguaci. E poi
certo, l’eroina. I problemi personali. L’Islam come salvezza.
Ma anche, per esempio, la pressione sociale: in queste isole
cosí piccole, in cui tutti conoscono tutti, tutti osservano tutti
e giudicano tutti. Ed essere diverso è cosí difficile. Mille ra-
gioni. Ragioni pubbliche e private. Interne e internazionali.
Lo tsunami, – dice. – E ora quest’altro tsunami che è la Siria.
– E questo è il risultato, – dice.
– Ma chi l’avrebbe mai immaginato? – dice. – Mia ma-
dre, per esempio. Non aveva neppure il velo.

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Himandhoo 

– Chi l’avrebbe mai immaginato, – dice, – trent’anni fa?


Che saremmo stati qui, un giorno, a parlare di Siria, tutti di
Siria, – dice, – e Dio solo sa dov’è la Siria.

In realtà è difficile immaginarlo anche adesso. Immagi-


nare che da un’isola come questa, un’isola in mezzo al nulla,
in tanti siano partiti per la Siria. E non solo. Per la Libia,
per l’Iraq. Per l’Afghanistan. Difficile immaginare che in
case cosí abiti uno come il padre di Hassan Shifazee, ucciso
al fronte con l’Isis. Ai giornalisti ha detto solo: «Sono orgo-
glioso di mio figlio».
Himandhoo ha un’aria cosí semplice. Soprattutto per chi,
come me, arriva dal Medio Oriente. Non hai il rancore, qui,
il risentimento, le ferite aperte che hai in Iraq, in Afghani-
stan, in Yemen: i conti aperti, la sete di rivalsa, di rivincita,
di vendetta, in questi paesi in cui con chiunque parli sono
sempre storie di fratelli uccisi, padri spariti nel nulla, madri
stuprate: da generazioni, solo storie di guerre, di morti, di
fughe. Di paura. Questa non è Baghdad, in cui hai cinque,
sei, sette autobombe al giorno. Entri in un caffè, a Baghdad,
e d’istinto, ti siedi in fondo, spalle al muro: dovesse all’im-
provviso esploderti tutto addosso – mentre gli americani,
intanto, gli occidentali, e i loro alleati al governo, stanno al
sicuro nella Zona Verde. Nelle loro ambasciate. Nei loro mi-
nisteri. E non escono mai. Mai, lí al sicuro, e hanno tutto,
lí dentro: mentre noi non abbiamo niente. No. Questa è so-
lo Himandhoo. Solo un’isola in mezzo all’oceano. Da Alep-
po torni che ti scaglieresti contro chiunque, tanto è feroce
quello che hai visto, e, soprattutto, l’indifferenza: tanto tut-
ti ti sembrano complici, colpevoli. Da Aleppo torni che odi
il mondo, odi tutti, torni che devi chiuderti in casa, e stare
solo, solo e basta: o aggredisci il primo che ti trovi davan-
ti – ma questa è solo un’isola di pescatori. In mezzo al nulla.
Solo un’isola di palme, di sabbia, e solo questi negozi minu-
scoli, di pochi metri quadri, e, un po’ come gli empori di una
volta, con questi oggetti improbabili, a seconda delle barche

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 Ma quale paradiso?

di passaggio: uno ha pile e pile di cuscini, un altro un intero


scaffale di nastro adesivo. Un paralume, ciabatte, antifurti
per bicicletta. Un ferro da stiro. Ma non hai una sensazione
di povertà. Hai la sensazione di un’isola in cui si vive come
si viveva una volta, non di un’isola povera.
Un’isola ferma nel tempo. Nient’altro.
Di Male diresti povera, ma di Himandhoo no.
Di Himandhoo diresti semplice.
E invece.
Invece queste donne che ti guardano, furtive, da sotto
il niqab.
Completamente coperte.
Completamente in nero.
Anche le bambine.
Ti guardano, e scompaiono in casa.
A dire: Sono orgogliosa di mio figlio.
Anche se neppure Himandhoo, comunque, è cosí sem-
plice, cosí ferma nel tempo da avere ancora un cappello. Un
cappello di foglie di palma. L’unico che sa fabbricarlo, mi
dicono, abita di fronte all’albero della bandiera di al-Qaeda,
ma in casa c’è solo un nipote, o qualcosa di simile, un uomo
di una sessantina d’anni, con la canottiera bianca, l’asciuga-
mano al collo e la moglie che gli sta tagliando i capelli. Lo
zio è in coma.
– In coma? – dico. – In che senso?
– Perché? Lo conosceva?
– No. Mi spiace… Ma… Il coma è un po’ eccessivo. Ma-
gari è solo un’influenza.
– Ha novant’anni.
– Ma che sfiga.
– Ma no, è stato un uomo fortunato. Ha avuto una vi-
ta serena.
– No, intendevo… Scusi. Senta, ma lei non è che in que-
sti anni ha imparato a… a cucire…
– Il cappello?
– Il cappello, sí. Sono venuta veramente da molto lontano.

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Himandhoo 

– No, mi spiace.
– E sono quasi affondata. C’era un mare terribile.
– Mi spiace.
– E suo zio non ha lasciato… Non so, degli appunti.
Mi guardo intorno. La stanza trabocca degli oggetti piú
svariati, il pavimento cosparso di ami, lenze, ciotole di pla-
stica, rotoli di corda, rotoli di stoffa, un forno. In un angolo
c’è anche il motore di un gommone, cosí, poggiato come si
poggia un ombrello.
– Degli appunti?
– Tipo… Tipo un quaderno, ha presente? Il quaderno
con la ricetta della parmigiana. Le polpette. Mia nonna ha
scritto tutto. Tutto a stampatello. Preciso. Magari anche
suo zio: ha lasciato…
Mi guarda.
– … la ricetta. No? Del cappello.
– No. Mi spiace. Ma da dove sei venuta? Sembri araba.
– Magari c’è un cappello avanzato, qui. Ha controllato?
Qui in mezzo, magari… No, non sono araba. Però vivo in
Medio Oriente. Magari lí dentro, in quella specie di…
– In Medio Oriente?
– Sí. Lavoro con i profughi siriani. Lí, vede, in quella
specie di…
– Con i siriani! Che Dio ti benedica, figliola. Brava. Aves-
si l’età, andrei in Siria anch’io.
In Siria?
Dov’è che andrebbe, questo?
– Ma io veramente non…
Entra un vicino.
– Hai sentito? Questa ragazza. Senti che brava. Sta con
i siriani.
– Stai con al-Nusra?
– Io… Io… No, cioè, io: aiuto i profughi. Non combatto.
– Brava, figliola. Brava. Però ricorda: non basta aiutare
i profughi, bisogna impedire che diventino profughi. Un fe-
rito non è un ferito: è una vittima.

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 Ma quale paradiso?

– Ricorda, – dice. – È Assad che deve andarsene, non i


siriani.
– Che Dio ti benedica, – dice.
– Avessi l’età, – dice, – starei in prima linea.
E mi guarda dritto negli occhi. Come a dire: Coraggio.

E onestamente, è la cosa che piú mi colpisce. Non solo


di Himandhoo, ma di tutte le Maldive: quanto sia normale,
qui, parlare di Siria.
Parlare di jihad. Senza neppure abbassare la voce.
Parlare della battaglia di Aleppo come della finale di
Coppa.
D’altra parte: ieri in Siria è stato ucciso un altro maldi-
viano. Il terzo, da quando sono arrivata. Il terzo in meno di
un mese. Poi il governo nega.
Dice che in Siria non c’è nessun maldiviano.
Eppure è vero, come dice Kyle, che tutto questo è un feno-
meno relativamente nuovo. L’Islam è arrivato alle Maldive nel
XII secolo, insieme a dei mercanti: si è innestato sul buddismo.
Il paese piú vicino, qui, il paese che domina l’area, è l’India.
Nel  il museo di Male è stato assaltato, e ogni reperto di
epoche precedenti è stato demolito a martellate. Ma è suffi-
ciente entrare nelle moschee piú vecchie per ricostruire: come
quella che c’è in una traversa della strada piú larga, qui. Una
piccola costruzione bianca, in uno slargo d’erba. Non è in di-
rezione della Mecca, ma del sole. Era un tempio: la Mecca è
indicata dal pavimento aggiunto dopo, e montato in diagonale.
E però oggi solo un musulmano può essere cittadino del-
le Maldive.
È vietato avere una Bibbia. Una Torah.
E a scuola la materia principale, in ogni ordine e grado,
si chiama: Praticare l’Islam. Con i libri di testo che ti inse-
gnano che la democrazia è pericolosa, perché consente di di-
scutere di qualsiasi argomento: e invece non tutto può essere
discusso, dicono. Non tutto può essere deciso. Alcune cose
sono cosí e basta. Perché cosí è la volontà di Dio.

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Himandhoo 

La scuola di Himandhoo è a pochi metri dalla moschea, ed


è una bella scuola tenuta alla perfezione, tutta colorata. Blu,
rossa, gialla. Con queste aule ampie e luminose. Ha persino
il prato: sembra un hotel. Con gli ombrelloni, le poltroncine
di vimini. Entrano quattro maestre.
Una ha una radio, una di quelle piccole radio per ascoltare
la partita. Ma non ascoltano la partita, ascoltano il Corano.
Tutte e quattro completamente coperte.
Completamente in nero.
Razan insegna Islam. E fosse per lei, non sarebbe la ma-
teria principale: sarebbe l’unica materia. Perché l’Islam ha
una soluzione a tutto, mi dice: – L’Islam è molto diverso da
come è descritto, – dice. – Non è un fossile. Al contrario.
Il Corano è immutabile, ma la sharia no, la sharia è estre-
mamente flessibile, – dice. – Molto piú flessibile del vostro
diritto. Perché sostanzialmente è un prodotto della società,
invece che dello Stato. La sharia non si basa sulla legge, ma
sulla fatwa. Il parere dell’esperto del Corano. O piú esatta-
mente, le fatwa. Al plurale. Perché non sono pareri vinco-
lanti, sono pareri tanto piú ascoltati, e tanto piú usati dai
giudici, quanto piú sono autorevoli. La sharia non ha bi-
sogno di aspettare il parlamento: si evolve costantemente.
Non ha padroni. Non è di questa o quella maggioranza: è
di tutti. Soprattutto, – dice, – perché è accessibile a tutti.
Chiunque può chiedere una fatwa. Perché poi, scusa, che
senso hanno le leggi, se sono cosí complicate che alla fine
non sai da che parte cominciare? Se non sai neppure che
esistono? E non prevale chi ha ragione, ma chi ha l’avvo-
cato piú scaltro? – dice.
– Il vostro diritto non è uno strumento di coesistenza,
ma di dominio, – dice.
– Ma in realtà, – dice, – la sharia non è solo un diritto di-
verso: è proprio una diversa idea della vita. In sostanza, l’I-
slam è la convinzione che tutto è volontà di Dio. Che tutto
ha un senso. Una spiegazione. Anche gli errori, – dice. – Nel-
la sharia l’obiettivo è sempre la mediazione. L’accordo tra

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 Ma quale paradiso?

le parti, piú che una sentenza. Perché tutti abbiamo una re-
sponsabilità in quello che accade. La vita non è mai in bian-
co e nero. Il problema non è condannare: è capire. Impara-
re. Capire cosa ha voluto dirci Dio, e cambiare. Migliorare.
– E possibilmente, – dice, – migliorare tutti insieme. Per-
ché anche dopo il peggiore dei crimini, siamo comunque te-
nuti a vivere insieme. A condividere questo mondo. Questo
tempo che ci è dato. La vostra, invece, è una società violen-
ta, – dice. – Che esclude. Avete il bene e il male. Si sta den-
tro o si sta fuori. E casualmente, – dice, – poi fuori stanno
sempre i poveri. I neri.
– I musulmani, – dice.
– E la sharia è sufficiente. Una società non ha bisogno
d’altro. Perché l’Islam ha una soluzione a tutto. Certo, non
nei dettagli, – dice. – Però indica la direzione. Una direzio-
ne inequivocabile: perché il Corano ha segnato un progresso
in tutti i campi. Considera i non musulmani. In cambio di
una tassa, vivevano liberi: in un’epoca in cui l’Europa ave-
va l’Inquisizione. Mentre l’Europa aveva Hitler, Baghdad
aveva una maggioranza ebraica.
– In realtà, – dice, – abbiamo tutti una religione. Dei
principî indiscussi. Non credere è un atto di fede quanto
credere. Che differenza c’è tra l’Iran, che prescrive l’hijab,
e ti copre per forza, e la Turchia invece, che vieta l’hijab, e
ti scopre per forza? – dice.
– Ma qui, – dico, – è molto piú di un hijab. Siete tut-
te in nero. Fino a terra. Ho provato il niqab, e giuro, – di-
co, – non si cammina.
– Però, – dice, – con il tacco di  centimetri invece hai
imparato? Anche con il tacco di  centimetri non si cammi-
na. Nessuno mi obbliga a coprirmi. Sono io a obbligare, è il
contrario: sono io a obbligare chi mi parla a giudicarmi per
quello che sono, e non per quello che sembro.
– Tu, – dice, – dipendi dagli uomini molto piú di me. Voi
volete liberarci, – dice, con questa sua voce gentile. – E noi
vogliamo liberarvi.

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Himandhoo 

– Tutto qui, – dice.
E mi offre una specie di palla verde con un foro, e poi
una cannuccia: da cui deduco che è una cosa che si beve. In
realtà, la mia attenzione è tutta su un planisfero. Le Maldive
sono al centro. E quindi l’Europa è a sinistra, e l’America è
a destra. – Sembra un altro mondo, – dico.
Dice: – È un altro mondo.
E ha ragione.

Himandhoo è palme, solo palme e sabbia, indecifrabile:


con il dentro che è come sovrapposto al fuori, indistinto,
capisci che c’è una casa, qui, solo da un lenzuolo sdrucito
che ondeggia al vento, non è un lenzuolo, è una porta. E
dietro, questi cortili che sembrano rigattieri: un secchio,
una ruota, una canoa, un cestello di lavatrice, boe, corde,
ciabatte, una radio, una tanica gialla, tutto alla rinfusa, cosí,
come resti di una mareggiata. Sotto un rubinetto, due pa-
delle e della schiuma da barba. Una mela. Nessuno ha mai
potato gli alberi, qui, né sfoltito cespugli e arbusti, né spaz-
zato via i rami e le foglie, le noci di cocco: ti addentri nel
verde, su questa sabbia venata di radici, e a tratti, sempli-
cemente, sei in una casa.
Con queste donne che ti guardano, furtive, da sotto il
niqab.
Completamente coperte.
Completamente in nero.
Anche le bambine.
Ti guardano, e scompaiono in casa.
In una casa che spesso non è una casa, in realtà, è un ag-
glomerato di mattoni di cemento e un po’ quello che capita,
lamiere, travi. Stuoie. Pannelli di compensato. Tra questi ru-
mori strani, che non hai mai sentito, questi versi di animali
che non hai mai visto.
Delle specie di criceti con le ali, e poi serpenti, iguane,
corvi. Centinaia di corvi.
Granchi.

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 Ma quale paradiso?

Ogni conchiglia, ogni sasso, qui, in realtà, vive.


Di giorno sono tutti in mare a pescare. Di giorno, Hi-
mandhoo è deserta. Ci sono solo questi tre, quattro nego-
zi minuscoli, che vendono un po’ di tutto, riso, lenticchie,
ventagli, cornici, un paio di pattini, senza alcuna logica, dei
tergicristalli. E poi un caffè. Un caffè dalle pareti blu, cor-
rose dal sale. Piccolo: un caffè di due stanze e un giardino,
con i tavolini di plastica e un bancone con quattro vaschette
e quattro tipi di torta.
Tutti e quattro al cocco. Oppure panini al pesce.
Non c’è altro.
L’unico svago qui, è un minimo di sport. Ragazzi e ragaz-
ze separati, ovviamente. I maschi giocano a pallone, le fem-
mine invece a bashi. Sono due squadre, e un campo rettan-
golare con una rete in mezzo, bassa, tipo un campo da ten-
nis. Somiglia un po’ al baseball, una squadra deve afferrare
la pallina tirata dalla battitrice della squadra avversaria, che
sta di spalle nell’altra metà del campo, su una pedana. Con
una racchetta.
Una racchetta e il niqab.
Non c’è altro, a Himandhoo.
Avere vent’anni, qui, deve essere micidiale.
La sera non c’è nessuno in giro. Solo il rumore del mare,
e questa strana luce, perché le case sono sotto la coltre del
verde, degli alberi, e non vedi finestre, non vedi lampade
accese: solo il chiarore delle stelle riflesso nelle parabole sa-
tellitari, come un’aria d’argento.
Solo questa luce che non è giorno, non è notte.
Come tutto, qui: solo questa luce che in realtà non sapre-
sti dire che luce sia.
Anche Kyle sta tutta la sera su internet. Su Skype. La
moglie è rientrata in Italia per la nascita del loro primo fi-
glio, Jacopo. E ha deciso di non tornare. Chiuderebbe il Palm
Heaven domani, fosse per lui, domani mattina, e si trasfe-
rirebbe in Italia, se per la moglie è meglio l’Italia, anche se
in Italia dovrebbe ricominciare da zero, da non si sa bene

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Himandhoo 

cosa, con la crisi che c’è: ma è pronto a chiudere tutto, e in-


ventarsi un’altra vita, una vita da cameriere, da muratore,
qualsiasi cosa: l’importante è che sia una vita vicino al figlio.
Ma finora, non ha potuto neppure riconoscerlo. Dargli il suo
cognome. Da quanto ho capito, la moglie teme che Kyle, un
giorno, possa portarselo via. In fondo, no?, è musulmano:
quante storie si sentono di madri barricate nelle nostre am-
basciate? Di figli rubati dai padri. E quindi, per non farsi
rubare il figlio, uno se lo ruba per primo.
Kyle sta ogni sera davanti a Skype. Ogni sera. Tutta la sera.
Ad aspettare che squilli.
In realtà sono stati Andrea e Stefania a dirmi tutto. Kyle,
schivo, ti dice solo: – Controllo la posta. Controllo le pre-
notazioni, un momento, e vado a dormire –. Ti dice che è
preoccupato per questa nuova legge di cui si discute, un’al-
tra delle leggi per ostacolare le guesthouse: impone di avere
un minimo di dieci stanze. E qui sono solo tre.
Dice che deve farsi un po’ di conti.
E ti mostra la calcolatrice. Le cartelline con fatture e
bollette.
Ma lo vedi che sta lí, fino a notte. L’una. Le due.
Davanti allo schermo. Ad aspettare che squilli.
Anche se non è il solo, in realtà.
Perché sono tutti su Skype, qui, la sera.
A parlare con altri paesi, però. A parlare con l’Afghani-
stan, il Pakistan.
La Siria.
– Chiamami Mohammed, – mi dice da Aleppo un ragaz-
zo di un’isola qui vicino: come mi disse un altro veterano
della Siria, a Sarajevo, le stesse parole, un ragazzo che mi
disse: «Chiamami Mohammed. Tanto per voi siamo tutti
uguali. Tutti i musulmani», mi disse. «Per voi siamo tutti
violenti, ignoranti. Solo dei fanatici». – E però tu alla fi-
ne, perché sei andata in Siria? – mi dice il Mohammed di
adesso. – Per fermare la guerra, – dico. – O insomma, una
cosa del genere. Perché qualcuno sapesse, e potesse fermar-

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 Ma quale paradiso?

la, – dico. E come il Mohammed di Sarajevo, mi dice: – Ve-


di? Siamo andati in Siria per la stessa ragione. Solo che io
alle parole preferisco le azioni.
E poi dice: – Solo che tu sei bianca, e sei un’eroina. Io
sono un assassino.
– Perché sono musulmano, – dice.
– Perché è questa l’unica differenza, – dice. – Perché
qui, non siamo mica gli unici stranieri. Però gli europei che
combattono con i curdi, per voi combattono per la liber-
tà. E invece combattono la loro guerra. Come noi. Come
tutti, – dice. – I curdi vogliono uno Stato, nient’altro. E
in cambio dell’autonomia sono stati pronti ad allearsi con
Assad. A tradire tutti. E perché? Per costruire uno Stato
democratico? Perché hanno il petrolio. Solo perché han-
no il petrolio. E vogliono gestirselo da soli. Tutto qui. E
per questo, – dice, – sono vostri amici, non perché sono i
paladini della libertà: perché hanno il petrolio –. Perché il
petrolio sta quasi tutto nel Nord dell’Iraq. – E ai tempi di
Saddam saranno anche stati perseguitati e sterminati: ma
adesso che è il loro turno, si liberano degli arabi allo stesso
modo. Combattono solo dove gli conviene combattere. E
non sono l’unico a dirlo, – dice. In effetti, a dirlo è anche
Amnesty International. I curdi hanno combattuto contro i
jihadisti solo all’interno dei confini di quello che vorrebbero
fosse il loro Stato. E sembra che alcune città, a maggioranza
araba, siano state incendiate dopo essere state riconquistate.
Non prima. Per evitare che i profughi tornassero. – Tutti a
scrivere delle ragazze curde. Delle ragazze al fronte. Avessi
mai letto di Sulaymaniyya. Tu hai mai scritto di Sulayma-
niyya? – dice. – No, – dico. – Però avrei voluto. – E però
non hai scritto niente, – dice. – Avresti voluto, – dice. – E
però non era una tua priorità –. Sulaymaniyya è in Iraq,
ed è un po’ la capitale culturale dei curdi. E dell’infibula-
zione: è praticata su moltissime donne. – Queste cose non
sono mai la vostra priorità, – dice.
È una tradizione locale.

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Himandhoo 

Non dei curdi. Una tradizione dell’area di Sulaymaniyya.


– Contro Assad siete rimasti a guardare. Per cinquecento-
mila morti: siete rimasti guardare. Ma appena è stata tocca-
ta Mosul, siete intervenuti tutti. E perché? Perché a Mosul
c’è il petrolio. Perché questa è la vostra priorità. Il petrolio.
– Avessimo fondato il califfato in Angola, non l’avrebbe
saputo nessuno, – dice.
E si sente un aereo, passargli vicino.
Si sentono dei colpi di artiglieria. Delle voci.
Un’esplosione.
– Su Sulaymaniyya non hai mai scritto, – dice. – E però
sicuramente hai scritto di Abu Sakkar, – dice. Che non era
un jihadista, in realtà. Abu Sakkar combatteva con i ribelli.
Con l’Esercito Libero. E la sua foto ha girato il mondo, sí:
una foto in cui banchettava con il cuore di un nemico mor-
to. Ho scritto di Abu Sakkar, è vero. Tutti abbiamo scrit-
to di Abu Sakkar. Come tutti abbiamo scritto del tipo di
Birmingham che si è comprato il bignami di sharia in aero-
porto. Prima di partire. O quella che ha chiesto se a Raqqa
c’era la lavatrice. O il jihadista di cui leggevo ieri: in Gior-
dania, aveva organizzato un attentato in un cinema a luci
rosse, e però si è distratto, tutto rapito dal film: la bomba
gli è esplosa addosso. Ha finito per essere l’unico ferito. Sí,
ho scritto di Abu Sakkar. Anche se poi quelli che incontri,
in Siria, in Iraq, in Bosnia, nove volte su dieci sono come
Mohammed, e però ho scritto di Abu Sakkar, e del tipo del
bignami, e della tipa della lavatrice, perché – perché cosí è
il giornalismo, oggi.
Il mondo non è cosí: ma è cosí chi lo racconta.
– Vi concentrate sempre sui casi speciali. Sugli idioti.
Gli squilibrati. Come se l’esercito americano fosse tutto co-
me quei soldati di Abu Ghraib. Poi è chiaro, questa è una
guerra. E la guerra è guerra. Rappresaglie. Esecuzioni. Ma
noi non siamo mica piú brutali di altri, – dice. – Per nien-
te –. Dice: – Avessimo i droni, staremmo anche noi ad ab-
battervi con il telecomando. Senza uno schizzo di sangue.

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 Ma quale paradiso?

Ma la pena di morte, per esempio. O le frustate. Sono usate


tanto piú frequentemente quanto meno lo Stato è consoli-
dato: perché è un momento di anarchia generale, e non hai i
mezzi per pattugliare ogni strada, per controllare tutto. Fu-
cilando uno, avverti tutti. Poi nel tempo, – dice, – i metodi
cambiano: perché cambia la società. E quindi la pena non
importa se è dura, – dice. – Importa se segue una regola. E
con noi sai perfettamente cosa è proibito e cosa è consenti-
to. Tu eri qui quando Aleppo era governata dallo Stato isla-
mico: e nessuno ti ha mai toccato.
– Tu sei la prova di cos’è la sharia, – dice.
In realtà, era il . Era lo Stato islamico: ma non era
ancora il califfato. E soprattutto, eravamo allo stremo: l’u-
nica, per avere un pezzo di pane, era andare in moschea. I
jihadisti avevano tutto. Avevano il riso, lo zucchero. Avevano
persino la carne. Persino l’acqua: noi avevamo solo l’acqua
piovana. Però è vero: quelli che vivono sotto i jihadisti ti di-
cono cosí. Ti dicono che, se non altro, le regole sono chiare.
E che se rispetti le regole, nessuno ti tocca. Però poi, one-
stamente, dicono anche un’altra cosa. Dicono: Lasciateli go-
vernare, che governano cosí male che si sconfiggono da soli.
Dicono: Non c’è bisogno di bombardare. Tempo tre mesi, e
gli si rivoltano tutti contro.
– È presto per dirlo. Quello che è certo, è che neppure
Assad governa. Né ora né prima. Di che stiamo parlando?
Quando è iniziata la guerra, i siriani erano alla fame, – di-
ce. – Ed è per questo, – dice, – che poi inizia una guerra.
– E Gayoom? – dice. – Governa? E al-Sisi? In Egitto fai
la fame, se protesti sparisci… Governa, al-Sisi? Cosa gover-
na? I suoi affari.
– Però, – dico, – ormai siete in ritirata ovunque. Perdete
una città dopo l’altra. Ma senti? – dico. 
– Cosa? – dice.
Le esplosioni: è un’ora che parliamo, ed è un’ora che gli
esplode tutto intorno, ma è come se niente fosse. Neppure
l’ha notato.

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Himandhoo 

– A un certo punto Mosul cadrà, certo, – dice. – Come


cadrà anche Raqqa. E magari anche Aleppo, un giorno: ab-
biamo contro tutto il mondo. E allora? – dice. – Quella che
conta non è la cronaca, è la storia. La direzione della storia.
Prima dell’Undici settembre, per voi l’Islam non esisteva: oggi
siamo sulle prime pagine di tutto il mondo. Oggi Hamtramck
ha una maggioranza musulmana. Ed è vicino a Detroit: è una
città americana. Non guardare alla cronaca, guarda alla sto-
ria, – dice. – Perché la direzione della storia è chiara.
– In fondo, da dove arriva al-Baghdadi? – dice. – Dalla
sconfitta di Bin Laden. Ma nessuno all’inizio avrebbe scom-
messo un centesimo su Maometto, e nei primi anni tanto fu
perseguitato che fu costretto ad andare via dalla Mecca. Per
trionfare a Medina: è la nostra storia. La sconfitta non è la
perdita di una città, fosse anche una capitale, non è la per-
dita di un califfo, né di un intero esercito: è la perdita della
volontà di combattere.
– State tutti a chiamare Israele, – dice. – Tutti a studiare
i suoi metodi. A comprare la sua tecnologia, i suoi sistemi di
sorveglianza. E in effetti, – dice, – è proprio il paese da cui
imparare. Sono settant’anni che controlla i palestinesi a uno
a uno. Ha spie, telecamere. Checkpoint ovunque. Sa tutto
di tutti. E non ha limiti: nessuno gli dice niente, può sparare
a chiunque. Eppure, è ancora lí: incapace di fermare dei ra-
gazzini con delle pietre, – dice. – Sí, sí, è proprio il paese da
cui imparare… perché in guerra non vince il piú forte. Mai.
Alla fine, vince chi ha ragione.
– L’Undici settembre è costato   dollari. Parigi,
Bruxelles, pochi proiettili. La sicurezza non viene dalle ar-
mi, è inutile, – dice. – Viene dalla giustizia.
– Ma tu com’eri, – dico, – prima dell’Islam? Cioè. Prima
di diventare praticante. Diciamo cosí. Visto che vorreste fos-
simo tutti musulmani. Che ci convertissimo tutti. Tu com’e-
ri? – Ero come te, – dice. – Vagavo. Vagavo, vagavo. Era
tutto davanti a me, era tutto lí, chiaro: eppure non capivo.
Pensavo di essere io il problema. Di essere io quello sbaglia-

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 Ma quale paradiso?

to, quello che non trovava spazio. E invece il problema era


il sistema. Non io, – dice. – Il sistema.
Dice: – Sei stata in Grecia?
Esplodono tre bombe, in batteria.
Vicine. Sento anche un crollo, urla. Una mitragliatrice
di risposta.
Un aereo, basso. Un’altra bomba.
Un’altra, ancora.
– In Grecia? – dico. – Con i siriani?
– No, – dice. – Con i greci –. Dice: – Sei stata in Grecia?
– Sono stata in Grecia, sí.
Sono stata in Grecia per i profughi.
Solo che poi all’alba, al porto, ad Atene, al Pireo, attrac-
cavano questi traghetti in arrivo dalle isole. E i siriani, gli
iracheni, gli afghani andavano rapidi verso la metropolitana,
verso il centro, per ripartire subito per il Nord, per la Ger-
mania. La Svezia. Dopo un paio d’ore, nelle strade intorno,
per terra, al sole, ancora addormentati sui cartoni, non re-
stavano che i greci. Magri, malconci, con questa pelle logo-
ra: racimolavano spiccioli rivendendo un po’ tutto quello
che trovavano. Vecchie radio, vecchi telefoni, vecchi vesti-
ti, scarpe sfondate, un phon. Un trapano. Una boccetta di
profumo consumata a metà.
Sono stata in Grecia, sí.
E a mezzogiorno erano tutti in fila davanti a una chie-
sa. A una mensa. Tutti identici a te, in fila senza parlare, lo
sguardo basso: con le All Star e lo zainetto Eastpak come il
tuo. C’era un signore distinto, che sembrava un professore
universitario, con l’abito grigio, la cartella di pelle. E una ra-
gazzina che avrà avuto non piú di  anni. Con gli occhiali, i
capelli neri, un libro sotto il braccio: l’aria di una passata di
lí all’uscita da scuola. Passata a mendicare la sua vaschetta
di riso e pollo e un pezzo di pane.
Sono stata in Grecia. Sí.
– E invece quella non è la Grecia, – dice. – Quella è l’Eu-
ropa. Quella è la tua generazione. Tutti senza lavoro, senza

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Himandhoo 

diritti: e però tutti zitti. Tutti servi. Tutti l’uno contro l’al-
tro, – dice. – Oggi nel mondo una minoranza della popola-
zione possiede tutto. Quanto sarà? Il  per cento? E però
voi non è che pensate che il mondo, cosí, non può funziona-
re: pensate che volete essere in quel  per cento. Poi dici a
me: violento. Tu hai la guerra in casa.
– Poi forse falliremo, – dice. – Ma intanto noi ci abbia-
mo provato.
Un’altra esplosione.
– Cinquecentomila morti, e stai a chiedermi: perché. Per-
ché sto qui, – dice.
– Ecco, com’ero. Ero come te. – dice. – Non capivo.
– Era tutto davanti a me, era tutto lí, chiaro. Ma io nien-
te, – dice, – non capivo.
– Proprio non capivo. Ero come te, – dice. – Proprio
non capivo.

Anche se poi, in realtà, a Himandhoo non tutti ci stanno


provando cosí, andando in Siria. Alcuni ci stanno provando
rimanendo qui.
E aprendo un caffè.
Si chiama Chucks, ed è quasi finito. Tutto in legno, in
legno chiaro. Su due piani. Quattro ragazzi stanno inchio-
dando le ultime assi e montando i tavoli. Avrebbero voluto
un impianto stereo, ma gli hanno detto di no. La musica qui
è vietata. – E obbediremo, perché non abbiamo alternati-
va, – mi dice uno di loro in un angolo, mezzo nascosto. Non
potremmo parlare: non siamo sposati. – E però molto di-
pende da voi, – dice. – Da voi occidentali. C’è ancora molta
diffidenza, è vero. Ma c’è anche la consapevolezza che non
è piú possibile vivere di sola pesca. Vivere di niente. Se ver-
rete qui come a Maafushi, con quella testa lí, se verrete qui
a dire: Pago io, e quindi si fa come dico io, saremo costret-
ti a chiudere, – dice. – Ma se sarete un minimo attenti alla
nostra cultura, disposti a capirla, a rispettarla, ci aiuterete a
salvarla, – dice.

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 Ma quale paradiso?

Perché per cultura non intende l’Islam. O meglio: non so-


lo l’Islam. Sulle banconote da  rufiyaa, qui, c’è il tamburo
tradizionale delle Maldive.
La musica è parte delle Maldive quanto l’Islam.
– Quando ero piccolo, – dice, – organizzavamo feste.
Sempre.
– Ti ricordi? – dice. – Le cassette. Avevo tutte le casset-
te dei Queen. I Doors.
Dice: – Mia madre, per esempio. Non aveva il velo.
Dice: – Avessi visto Himandhoo, vent’anni fa. Quanto
era diversa.
– Quanto era viva, – dice.
E un po’, mentre parla, mi ricorda Gaza. Un giorno, du-
rante l’ultima guerra. Nel . Un giorno che pensai di cer-
care delle vecchie foto di Gaza, perché tempo prima, per caso,
avevo visto questa foto di una ragazza, negli anni Sessanta, in
un caffè. Una ragazza con la minigonna, la sigaretta. Quei ca-
pelli di quegli anni lí. A Gaza: sembrava Parigi. La Sorbona.
E invece era Gaza. E quindi avevo pensato a questi ritratti di
palestinesi: con una loro vecchia foto in mano, la stessa per-
sona, nello stesso luogo, ma tra le macerie della guerra, ades-
so. E di Hamas. Della vita sotto Hamas. E però non trovai
neppure una foto. Tra bombardamenti e demolizioni, trasfe-
rimenti, fughe, a Gaza nessuno aveva piú una foto. Nessuno.
Neppure una.
E a quel punto è semplice per Hamas, per al-Qaeda, per
chiunque, dire: Torniamo al passato. Alla tradizione. Dio ci
ha richiamato alla vita di una volta.
Torniamo a quando tutte avevano il velo.
– Solo che, – dico, – qui non c’è stata nessuna guerra.
Nessuna fuga. Nessuna demolizione.
– Perché è cosí facile, qui, cambiare la storia? Reinven-
tarsi la storia? – dico.
– Perché non tiri fuori una foto di tua madre? – gli chiedo.
– Non c’è stata la guerra, – dice, – ma c’è stata l’Arabia
Saudita.

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Himandhoo 

Moltissime scuole, qui, sono finanziate dall’Arabia Sau-


dita.
– Che poi, – dice, – è ancora piú insensato perché non
è necessario. Non siamo mica la Somalia. Abbiamo milioni
e milioni di dollari. Abbiamo uno dei piú sofisticati osser-
vatori astronomici del Sudest asiatico. E però non è per gli
studenti, né per gli studiosi: è per i turisti.
Sta in un resort.
E però il problema non è l’Islam, dice: – Nei giorni di
piazza Tahrir, i primi giorni della primavera araba, eravate
tutti sorpresi che i ventenni al Cairo parlassero inglese, fos-
sero laureati. Vestiti uguali a voi. Erano i ragazzi, no?, «oc-
cidentalizzati». I migliori dell’Egitto. E la stessa cosa qui,
con Nasheed. Con i suoi sostenitori, – dice. – E invece no.
Essere contro al-Qaeda non significa essere dalla vostra par-
te. Perché mai dovremmo esserlo? Per voi non esiste altro.
Solo il vostro stile di vita, il vostro tipo di economia. Di so-
cietà. Tutto il resto, non conta. Tutto il resto è arretratez-
za. Ma il vostro modello non funziona. Se voi avete tutto, è
perché gli altri non hanno niente. Non perché siete i piú in-
telligenti, ma perché siete i piú forti. Perché siete i padroni.
E usate solo per voi le risorse di tutti. Non voglio stare nella
massa degli sfruttati. Ma onestamente, non voglio neppure
appartenere alla minoranza degli sfruttatori.
– Non condivido niente di al-Qaeda. Niente, – dice. – Ma
il califfato, gli attentati, sono tutte soluzioni sbagliate a pro-
blemi giusti, – dice. – Problemi veri.
– Non guardare alle risposte dei jihadisti, – dice. – Guar-
da alle domande. Perché sono le domande di tutti.
– Sai qual è, se non sei bianco, una delle cose piú umi-
lianti? – dice. – Che tutti ti chiedono se vorresti vivere in
Europa. Anzi, – dice, – è implicito. Gli occidentali pensano
tutti che se sei cortese, è perché speri poi in un aiuto per
trasferirti in Europa. Ma io non vorrei mai vivere in Germa-
nia. In Svezia. Vorrei sciare, sí. Non ho mai visto la neve.
Ma quanti di voi vorrebbero trasferirsi qui? Sono società

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 Ma quale paradiso?

cosí diverse. Sceglierei l’India, al piú. Ma non l’Europa. Il


mondo è molto di piú. Non siete il sogno di tutti. Non sie-
te perfetti. Secondo te, voglio solo un iPhone come il tuo
dalla vita? Secondo te è veramente tutto qui, – dice, – il
cambiamento che voglio? Non siete i migliori, – dice. – So-
prattutto, non siete gli unici.
– Il problema, qui, non è l’Islam. Il problema siete
voi, – dice.
Dice cosí. Netto.
«Il problema siete voi».

E però ha questo modo strano di dirlo: con gentilezza,


in un certo senso. Mentre due donne mi fissano, da sotto il
niqab. Al solito. Completamente coperte.
Completamente in nero.
A Male hanno tutti paura di Himandhoo. Ti dicono tutti
di non venire. Ti dicono: È pericoloso. Poi però arrivi, e tro-
vi quattro italiani. Quattro italiani in vacanza. Stanno sem-
pre con Kyle, tutto il giorno. E anche la sera: mai da soli. E
però alla fine sono qui. Vivi.
In vacanza.
Tra queste case indecifrabili. La moschea di Fareed è sul
mare, è proprio davanti al molo, è una specie di capannone
in cemento. Rettangolare. Non è piú una moschea, ora, è
un magazzino. Le finestre murate da pannelli di compen-
sato. Difficile immaginare che anni fa abbiano proclamato
un emirato, qui dentro: tra questi sacchi di iuta tutti sfilac-
ciati, su questo pavimento di sabbia e farina. È un po’ co-
me Molenbeek. A Bruxelles. Perché alla fine a Molenbeek
sei a venti minuti dal centro: c’è una strada, dritta, che tra
l’altro è anche una delle strade piú alla moda di Bruxelles,
e in venti minuti sei nella Grand Place: Molenbeek non è
periferia – per niente, è un quartiere come mille altri. E
però sono tutte moschee. Non ti accorgi di niente. Perché
non hanno cupole, non hanno minareti, sono appartamenti
normali: poi alzi la testa, invece, il venerdí, e al secondo,

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Himandhoo 

al terzo piano, ti accorgi che sono tutti in ginocchio verso


la Mecca.
Sono tutte sale da preghiera.
E onestamente, è la cosa che piú ti colpisce. Ogni vol-
ta. Non solo a Molenbeek. Perché ogni volta ti aspetti che
sia un luogo pericoloso. Con Jihadi John, lí, dietro l’angolo,
pronto a decapitarti. E perché in fondo, sarebbe molto piú
rassicurante, in un certo senso, no?, se fossero tutti come
Abu Sakkar. Se ti stessero davanti con il bignami di sharia,
a chiederti se a Raqqa c’è la lavatrice. Tutti dei mezzi squi-
librati. Sarebbe molto piú facile.
E invece stanno lí a discutere di Grecia.
E tu, in un modo o nell’altro, stai qui.
Anche se intorno a te chissà con chi parlano, la sera, su
Skype.
Kyle è sempre lí. Davanti allo schermo. – Ma perché non
chiami un avvocato? – gli dico. – Sei il padre. Conti quanto
la madre: è un tuo diritto riconoscere tuo figlio –. Mi guar-
da. – In che senso? – mi chiede. Parla italiano: ma non ha
mai vissuto in Italia. Conosce le nostre leggi quanto noi le
leggi delle Maldive. – Vai da un avvocato, – gli dico. – Non
è un caso complicato.
Gli dico: – È un tuo diritto.
Mi dice: – Non so da che parte cominciare.
Mi dice: – La legge, in realtà, dipende. Dipende se hai la
forza per poterla applicare.
– Ma tu invece, – dice, – perché non dormi?
– Aleppo, – dico. – Sto leggendo le notizie da Aleppo.
Che poi sono sempre uguali.
Sono cinque anni che non dormo.
Apro il libro che ho comprato a Male. Muhammad Salih
al-Munajjid, Problems and Solutions. I problemi che risolve,
in realtà, sono solo cinque. Però il quarto è: «Stare svegli fi-
no a tardi». Che è un problema serio, dice il libro: perché poi
salti la preghiera del mattino. Secondo il Corano, comunque,
in alcune circostanze sei giustificato. Per esempio se sei in

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 Ma quale paradiso?

viaggio. O se sei di guardia. Se sei un jihadista. Ma se inve-


ce stai sveglio a guardare la televisione o a giocare alla play-
station, o peggio, dice, cose che non vogliamo neppure no-
minare, dice, è un serio problema: salti la preghiera, o stai
lí ma manco capisci l’imam cosa dice. E poi sbadigli tutto il
tempo. Sei stanco a scuola. Stanco in ufficio. L’elettricità,
dice, è un disastro. Prima con il buio eri costretto a dormi-
re: ora accendi la luce. E questo altera il ciclo della notte e
del giorno.
Altera la volontà di Dio.
E dunque. Le soluzioni. Sposati, che cosí tua moglie ti
obbligherà a stare con lei, e non potrai piú andartene in giro
con gli amici. Ma soprattutto, dice, occupati dei problemi
del mondo. Cosí capirai che non c’è tempo da perdere. Che
all’alba bisogna essere tutti svegli e pronti.
Altro che dormire.
E in effetti, non è poi cosí tardi, e però non c’è già piú
nessuno, in giro, quando torno sul mare. Dentro quest’aria
come d’argento. Setaccio la sabbia, sottile, chiara, questa
sabbia diafana nella luce fragile della sera, mentre dallo scuro
degli alberi, a tratti, ancora filtrano fruscii, gracidii. Perché
poi ogni conchiglia, ogni sasso, qui, in realtà, vive.
In questa sabbia che mi si dilegua tra le dita. E invece è
un mondo.
Oggi, proprio qui, c’era una madre con le due figlie. Due
bambine sui quattro, cinque anni, con il secchiello e la paletta,
e tutte le formine, una con una maglietta bianca a righe blu,
l’altra con una maglietta gialla, e i codini con l’elastico rosso.
La madre completamente coperta. Completamente in nero.
Mi ha sorriso, gentile, non parlava inglese, cioè, in realtà io
non parlavo dhivehi, e quindi mi ha sorriso, gentile, mentre
giocava con le figlie, ridevano, allegre, tutte e tre, si tirava-
no tutta la sabbia addosso, e… e chi sono io, per giudicare?
Per decidere che non è libera, una donna cosí? Perché, io?
Le mie scelte: quanto sono davvero mie?
E comunque: cosa so di lei, alla fine? Di tutto questo?

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Himandhoo 

Non so niente.
A un certo punto, intravedo una ragazza. O piú che al-
tro, un’ombra, nell’ombra. Sotto il niqab. Mi si avvicina, e
mi dice: – Sei tu che volevi il cappello, vero?
– Il cappello?
– Il cappello tradizionale delle Maldive, sí. Sei tu, vero?
È pronto.
– Ma davvero? – dico. – Grazie.
E dire che sono venuta qui per caso. Solo perché ero an-
cora sveglia.
E invece.
Tutto ha un senso.
– Grazie, – dico. – Grazie, davvero.
E mi dà un cappello bianco. Una taqiyah.
Il cappello… Il cappello quello dei salafiti. Quello che
usava Maometto.
Bianco. Di cotone.
Mi guarda. Mi dice: – Torni in Siria, adesso?
– Coraggio, – mi dice.
Mi dice: – Che Dio ti benedica.

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Male, di nuovo

– Ehi… Ehi, scusa!


Un ragazzo mi ferma, per strada. – Ma sei tu? – dice.
Dice: – Mi avevano detto che eri alle Maldive. Posso chie-
derti una firma? – dice. E tira fuori dalla borsa il mio libro
su Aleppo.
Mi passa una penna.
– Posso chiederti anche un’altra cosa?
– Certo.
– Un consiglio. Sai, perché sono all’ultimo anno, ormai.
Ho finito.
– Cosa studi?
– Economia. Sí, so che è una cosa un po’ diversa. Ma
pensavo…
– Ma in realtà, no, non è quello. Neppure io ho studiato
giornalismo. No, è che… Non so, è un momento un po’ di
crisi. Dipende. Ma scrivi? O fai foto?
Mi guarda.
– Pensavo di andare in Siria.
Sbircia la dedica.
– Ma forse, che dici? Forse è meglio aspettare.
In effetti, Aleppo sta per cadere.
Sta per cadere tutto, qui.
Lo guardo.
– Ma magari mi laureo, prima, – dice.
– Con una laurea, – dice, – poi sono piú utile.
Male è quella di sempre. Torrida, colma di uomini e mo-
torini. Frastorna.

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 Ma quale paradiso?

Sentivo qualcosa che mancava, però. E adesso, all’improv-


viso, capisco cosa: manca il mare, qui. Le strade sono cosí
strette, sono vicoli, piú che strade, e sono cosí occupate, cosí
gremite, senza un centimetro libero, che non vedi il mare.
Vedi solo cemento.
Anche se in questi giorni Male non è proprio quella di
sempre. Nelle scorse settimane c’era una troupe di al-Jazeera,
in giro, e ieri è andata in onda un’ora di inchiesta sul presi-
dente Yameen e i suoi fedelissimi. Su violenza e corruzione.
Non si parla d’altro, in città: in molti dicono che è tutto un
complotto per rovesciare Yameen. Anche se è Yameen, in
realtà, a essere arrivato al potere con un colpo di Stato. Cioè:
dopo un colpo di Stato. Perché è stato eletto, sí, ma dopo il
colpo di Stato che ha rovesciato Nasheed. Che ora si è rifu-
giato a Londra – e appunto, da Londra è accusato di inviare
qui giornalisti stranieri. Nel  è stato condannato a 
anni per terrorismo. Due dei giudici sono stati anche testi-
moni. Non sono stati ammessi testimoni a sua difesa: tan-
to, ha detto la corte, nessuno avrebbe mai potuto confutare
prove cosí evidenti.
Dal momento però che siamo alle Maldive, mica in un
regime qualunque, l’avvocato di Nasheed è Amal Clooney.
Quello del governo, Cherie Blair.

L’appuntamento con Ibrahim Waheed, noto come Asward,


è in un caffè vicino al parlamento. Entriamo, e d’istinto,
senza dirci niente, andiamo al tavolo in fondo: schiena al
muro. Asward è uno dei piú noti giornalisti delle Maldive.
Ed essere giornalisti, alle Maldive, significa questo: guar-
darsi le spalle.
In realtà, sembra un diplomatico. Ha una bellissima ca-
micia celeste a nido d’ape, è elegantissimo, i bottoni cuciti
con del filo rosso. La giacca di sartoria. Due anelli. È uno
di quelli a cui ti verrebbe da chiedere dove ha comprato
l’orologio, un orologio di acciaio, nero, minimale, che ne
vorresti uno cosí anche tu. È uno di quelli con cui ti ver-

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Male, di nuovo 

rebbe da parlare di questo, di moto, di barche: di vita. Poi


però si passa una mano sulla tempia, distratto, e intrave-
di le cicatrici. Ha perso un occhio. Ha un polso fuori uso.
Problemi al ginocchio.
E ha  anni.
Aveva scritto un pezzo su Gayoom. Sono cominciate le
solite telefonate anonime, le solite minacce, ma prima che
potesse valutare quanto fossero serie, è stato assalito a spran-
gate. Nel filmato che è ancora su Youtube, è su una barella
tutto fasciato, violaceo. Semincosciente. Sembra a stento un
uomo. L’hanno caricato su un elicottero e spedito in ospedale
in Sri Lanka, convinti che sarebbe morto. E invece non solo
è sopravvissuto: è tornato a Male.
Ed è tornato a scrivere.
Nel secondo filmato che mi mostra, c’è un ragazzo, in
piazza, che guarda una manifestazione. È lui. Ma si accorge
che è lui anche un poliziotto: dal nulla, gli si avventa addos-
so, subito seguito da altri poliziotti. Lo pesta a sangue. Gli
domando quante volte è stato arrestato, e come gli attivisti
di tutto il mondo, mi dice: – Non ricordo. Sei, credo. O for-
se sette. Non saprei. Se vuoi controllo e ti dico.
– Le nostre Maldive, – dice, – sono completamente diver-
se dalle vostre. Molti di noi non sono mai stati in un resort.
Non sono mai stati neppure fuori dall’atollo in cui sono nati:
il trasporto pubblico qui fino a pochi anni fa non esisteva.
Le nostre Maldive sono Male. Sono il cemento. Il cemen-
to e la violenza. La scuola dell’obbligo finisce a  anni. E
quindi prima di iniziare l’università hai due anni liberi: due
anni in cui molti, semplicemente, stanno in strada tutto il
giorno. Anche perché le case, hai visto, che case che sono.
In genere non sono case. Ti ritrovi in una gang anche senza
volerlo: la gang è l’organizzazione sociale dei ventenni. E
ogni gang è legata a un certo politico, ogni politico è legato
a un certo imprenditore: è tutto un sistema. Si intascano i
milioni di dollari del turismo, e si comprano il silenzio e la
connivenza generale attraverso mance e tangenti.

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 Ma quale paradiso?

– Quella che vedi, – dice, – è una falsa economia.


In effetti, in questi ultimi anni dalle casse dello Stato sono
spariti oltre  milioni di dollari. I giornalisti di al-Jazeera
sono entrati in possesso di tre iPhone di Ahmed Adeeb, il
vicepresidente. Un tipo dall’aria poco raccomandabile, ora in
carcere. Ha solo  anni, ma è già stato ministro del Turismo:
il dicastero chiave delle Maldive. Nei messaggi, si definisce
«il capo di tutte le gang». «Sono la mia flotta», scrive. «Ope-
rano ai miei comandi». È un tipo grassoccio, sudaticcio, im-
pomatato, carico di oro: fa molto Scarface. Nei mille selfie
che si è scattato, gioca a pallone in spiaggia con dei bermu-
doni rossi a fiori. Sostanzialmente, negli ultimi anni le isole
sono state cedute in concessione agli imprenditori stranieri
sottocosto. In cambio di tangenti. Maagau, per esempio: è
stata pagata , milioni di dollari, un quarto del suo valore.
E senza asta pubblica.
Il denaro è stato versato a una società intestata a un pa-
rente di Ahmed Adeeb.
Ora tre dei ragazzi che consegnavano pacchi di dollari in
giro per Male per conto del gruppo di Yameen hanno rac-
contato tutto davanti alle telecamere di al-Jazeera. In realtà,
erano cose note, qui. Ma nessuno ha mai indagato. Cioè: ha
indagato il presidente della Corte dei conti. Che però, non
immaginando il livello della collusione, ha consegnato tutte
le carte proprio a Yameen. Ed è stato subito rimosso. Ahmed
Adeeb scrive al capo delle forze speciali. E lo scambio è piú
o meno questo: «Concentrati un po’ su questo tipo», gli di-
ce. «Certo», gli risponde quello. «Forse dovremmo bruciar-
gli l’ufficio», dice Ahmed Adeeb. «No, gli dice il capo delle
forze speciali. Ha troppe telecamere». «Vabbe’, vedete voi
come fare. Fatelo saltare in aria».
È un ufficio in cui lavorano duecento persone.
D’altra parte. A chi consegnare le carte? Con chi parlare?
Il presidente della Corte suprema Ali Hameed, un tipo con
una specie di parrucchino rosso, il tipo che si vede in un al-
tro filmato, in mutandoni bianchi in una stanza di hotel, in

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Male, di nuovo 

Sri Lanka, insieme a due prostitute, e per una donna sareb-


bero state cento frustate, a questo punto, e proprio davanti
al tribunale di cui è presidente, proprio sotto le sue finestre,
scrive: «Non lasceremo che distruggano Yameen».
«Rimarremo soldati fino alla fine della missione».
E per quelli cosí, il pericolo numero uno sembrano es-
sere i giornalisti. Nel 2013, la redazione di Raajje Tv viene
incendiata. Ma dopo un po’, le trasmissioni ricominciano.
Ahmed Adeeb chiede al capo della polizia di colpirla di
nuovo. E quello gli risponde che no, è inutile. Che ha piú
senso minacciare i finanziatori. E Ahmed Adeeb non è che
ha niente da obiettare. Si fa passare l’elenco.
Sei completamente vulnerabile, qui.
Completamente solo.
Rilwan scompare, e Yameen un giorno scrive al ministro
degli Interni. Ma non gli dice di indagare: gli dice di non
stare a pensarci troppo.
– Chiunque si oppone, qui, viene punito. Chiunque.
Queste sono le nostre Maldive: un paese in cui abbiamo
tutti paura. E ora capisci, – dice Asward, – perché i jihadi-
sti sono cosí forti. Negli anni di Gayoom, sono stati tutti
arrestati. Tutti con la stessa accusa: di violare il Corano. Di
non essere dei veri musulmani. Ti hanno raccontato, no?, di
Fareed? Non abita piú a Himandhoo, abita qui, ora. Chie-
di in giro. Chiedi chi è Fareed: nessuno ti dirà del califfa-
to. Ti diranno che è uno che è stato maltrattato e umiliato
per anni. Uno a cui in carcere radevano la barba, e poi ci
strofinavano su il peperoncino. Per molti, uomini come Fa-
reed erano e ancora sono il simbolo della battaglia contro
Gayoom. E adesso, contro Yameen, – dice. – La battaglia
contro il sistema.
Una sola cosa, qui, è piú rischiosa che occuparsi di poli-
tica. Occuparsi di Islam.
L’Islam è l’unico tema che Asward non tocca mai.
Neppure Asward.

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 Ma quale paradiso?

Zaheena Rasheed ha  anni, e dirige «Minivan News».


Sta infilando tutto alla rinfusa in uno zaino, diretta di cor-
sa verso l’aeroporto. Verso il primo aereo che trova: com-
pare nel documentario di al-Jazeera. Ma non ha paura a ri-
peterlo: – Alle Maldive lo Stato è tipo la mafia. Qui paghi
mazzette per qualsiasi cosa, – dice. Non solo per aprire un
resort, ma anche per avere una visita dall’oncologo: per ave-
re quello che è tuo diritto avere, – dice. – La corruzione è
endemica. E il problema è che le elezioni sono inutili, non
cambiano niente. In campagna elettorale, nelle isole arriva-
no queste barche cariche di decine e decine di pacchi. Da
dove vengono, secondo te, tutti questi televisori al plasma?
Tutti questi telefonini? I condizionatori? Il parlamento non
rispecchia minimamente la volontà popolare. Qui è tutta una
compravendita di voti e consenso. Poche centinaia di persone
vivono bene, – dice. – Quelle vicine ai cinque, sei oligarchi
che si sono impadroniti dell’economia. Per tutti gli altri, non
rimane che subire. Perché non puoi sfidarli in parlamento.
Né puoi sfidarli in tribunale. I giudici sono parte del siste-
ma. Il problema di fondo è questo. Non hai contrappesi. I
giudici blindano il sistema.
– Non è un’isola, questa, è un confino. Sei in trappo-
la, – dice.
– E poi, – dice, – su tutto questo, adesso, l’Islam.
Il rimosso collettivo.
Per il governo, il fondamentalismo qui non esiste. Nel
, alla notizia dei primi due maldiviani uccisi in Siria,
Yameen ha declinato ogni responsabilità. «Abbiamo sempre
raccomandato ai nostri connazionali all’estero di comportar-
si bene», ha dichiarato.
Degli uomini dell’attentato del , ti dicono laconici:
Erano ubriachi.
Anche se ora sono tutti in Siria.
Dopo un’amnistia approvata da Nasheed, tra l’altro.
Perché sull’Islam, qui, sono ambigui tutti.

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Male, di nuovo 

Sull’Islam non si espone nessuno.


– Ma se si è pronti ad andare persino in Siria, per non rima-
nere qui, è evidente che qualcosa non funziona, – dice. – Hai
tutti questi ventenni senza un lavoro, e soprattutto, senza
competenze per trovarne uno, e spesso, tra l’altro, tossicodi-
pendenti, con precedenti penali: ragazzi stigmatizzati: bollati
come dei falliti. Partono per la Siria, o una jihad qualsiasi, in
cerca di una vita diversa. Visti da qui, non sono degli squili-
brati. Anche perché sono i nostri compagni di scuola, i nostri
vicini di casa. Sono ragazzi che conosciamo: nessuno può dire
che siano degli squilibrati. I nove, dieci che conosco io, per
esempio, no. Garantisco. Sono ragazzi come mille altri.
– Poi però, – dice, – quella della Siria non è solo una scelta
individuale. Ed è importante guardare a chi parte, ma anche
a chi fa partire. Perché qui ormai operano molte organizza-
zioni di volontariato islamiche che nessuno controlla. Girano
voci di campi di addestramento, nelle isole piú lontane. Ma-
gari sono solo voci: ma il punto è che nessuno sa niente delle
loro attività. E questo, in un paese di trecentocinquantamila
abitanti. In un paese in cui il governo sa tutto di tutti. E però
nessuno è mai stato fermato in aeroporto. Nessuno di questi
ragazzi che non è mai stato in un atollo diverso da quello in
cui è nato, e ora, all’improvviso, chiede un passaporto, e par-
te per la Turchia. Ma sono cose di cui nessuno parla. E inve-
ce: chiediamoci chi sono. Dire che non sono degli squilibrati
non significa condividere le loro idee. Cercare di capire chi
sono significa cercare di capire chi siamo noi.
– Riflettono a lungo prima di arruolarsi, – dice. – Per
mesi. E non è vero che non conoscono l’Islam. E come po-
trebbero? In paesi come il nostro, l’Islam a scuola è la mate-
ria principale. Abbiamo tutti una conoscenza approfondita
dell’Islam. Quella che non conoscono, al piú, è la Siria. Perché
della Siria, e in generale, del mondo, hanno solo l’immagine
costruita dal governo. Credono che sia tutta un’operazione
della Cia, qualsiasi cosa accade, è sempre tutto un complotto,
c’è sempre Israele di mezzo, è sempre tutto un attacco contro

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 Ma quale paradiso?

i musulmani: musulmani che però resistono, e, anzi, in Eu-


ropa ormai sono quasi la maggioranza, perché Mohammed a
Londra è già il nome piú diffuso e cose cosí. Però no. Non
sono degli squilibrati.
– In realtà, – dice, – sono semplicemente ragazzi. In fon-
do, chiedergli del califfato, dello Stato islamico, del futuro
del mondo, è un po’ come chiedere a un marine della strategia
americana in Medio Oriente. Della crisi dei mutui subprime.
Non ha molto senso, – dice.
Ogni soldato è cosí, – dice. – Un soldato: nient’altro.
– Il problema vero è che noi giornalisti apparteniamo a
un altro mondo, – dice, – perché è anche molto una questio-
ne di classe. Frequentiamo una Male diversa da quella dei
jihadisti. Fisicamente. Luoghi diversi. E quindi è difficile
per noi comprendere come vivono. Cosa provano. Come ci
si sente, a sentirsi esclusi. Perché noi siamo esclusi dal pote-
re, ma non dalla società.
– E soprattutto, – dice, – il problema è che se tocchi l’I-
slam, qui, muori.
Dice: – Come Rilwan.
– Non avevo capito che si occupava di jihadisti, – di-
co. – Ho letto le sue cose su Gayoom.
– Non è che si occupava di jihadisti. Era un jihadi-
sta, – dice.
– Rilwan?
– Rilwan, sí. Poi è diventato laico. Ma era un jihadista.
E proprio un jihadista: non ha mai combattuto, ma il suo
gruppo era nell’orbita di al-Qaeda, e alcuni dei suoi compa-
gni erano già stati coinvolti in una serie di attentati all’este-
ro. Era un po’ un predicatore, distribuiva il Corano. Ma si
preparava a partire.
– Rilwan?
– Rilwan, sí. A parte che poi era un cronista a trecentoses-
santa gradi, e quindi era esposto su tutto: scriveva della cri-
minalità come dell’erosione delle spiagge, della tortura nelle
carceri, delle frustate come di calcio e Palestina, di pesca e

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Male, di nuovo 

tangenti. Ma, alla fine, si è ritrovato nel mirino perché veniva


da quel mondo. Poi un po’ alla volta, leggendo, perché era un
lettore onnivoro, era molto colto, un po’ alla volta, cosí come
si era avvicinato all’Islam, aveva cambiato idea. E come era
lui: in modo radicale. Senza mezze misure. Aveva questo blog:
«Secular Maldives». In un paese in cui la costituzione dice che
puoi essere cittadino maldiviano solo se sei musulmano. E che
hai libertà di opinione, sí, ma solo se è un’opinione compati-
bile con il Corano. Quando è sparito, erano settimane ormai
che su Facebook si discuteva di quanto fosse giusto eliminarlo.
– E qui l’unica, – dice, – quando finisci nel mirino, è an-
dare via.
Prendere il primo aereo che trovi.
– Perché qui nessuno ti protegge. E anzi, i poliziotti, i
magistrati, quelli pagati per proteggerti, in realtà sono quelli
pagati per eliminarti. Stiamo attenti a non girare da soli, cose
cosí. A non avere le spalle scoperte. Ma è inutile.
Sei completamente vulnerabile. Completamente solo.
– Come tutti, però, – precisa. – Non solo i giornalisti.
Stiamo tutti sul filo, qui.
– Né in realtà è questione di essere laici o meno, – dice.
Anticipando la mia domanda: perché non ha l’hijab. – E per
quelle come te, – dico, – non è anche piú rischioso? – No.
Anzi, – dice. – A volte è molto piú rischioso essere musul-
mani, nel senso, praticanti, perché a quel punto la critica,
come nel caso di Rilwan, arriva dall’interno, – dice. – E ti
costringe a ribattere nel merito. A misurarti sui contenuti.
Voi occidentali, – dice, – vi concentrate sulle ragazze come
me. Sulle ragazze senza hijab. Come se fossimo un’icona
dell’emancipazione. Ma l’hijab non significa niente. Conta-
no le tue idee, quello che pensi. E soprattutto, quello che fai.
Conta quello che c’è dentro la testa, non sopra.
– Conta solo se sei nel sistema o contro il sistema, – dice.
Che poi forse in Medio Oriente è la prima cosa che im-
pari. Che l’hijab non uniforma. Non rende le donne tutte
uguali, al contrario: varia moltissimo, varia a seconda del

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 Ma quale paradiso?

paese, a seconda dell’età, della classe sociale. Dell’impegno


sociale, se si è piú o meno militanti. E varia a seconda del ti-
po di Islam, naturalmente. Sunniti o sciiti, o una delle mille
altre correnti, mille altre interpretazioni del Corano. Varia a
seconda della moda, soprattutto. Un hijab dice moltissimo.
Non nasconde: svela. E poi impari subito che spesso è simbolo
di battaglia, non di sottomissione. Come in Egitto, come in
Turchia: negli anni Settanta, l’hijab è tornato come simbo-
lo di un’identità islamista in opposizione a governi laici che
però piú che laici, al solito, erano semplicemente autoritari.
Come simbolo di dissidenza, prima ancora che di religione.
L’esatto opposto della sottomissione.
È forse la prima cosa che impari, sí. Che conta quello che
c’è dentro la testa. Non il resto.
Anche se in realtà, è curioso. Soprattutto per un’occiden-
tale della mia generazione: figlia di una femminista. Non do-
vrei averlo già imparato?
– Qualsiasi cosa dici, qui, ti accusano di non essere un
vero musulmano. Parli delle strade tutte sconnesse, tutte da
riasfaltare, e ti dicono: Non sei un vero musulmano. In un
paese, tra l’altro, in cui il sesso, l’alcol, la carne di maiale,
tutto quello che è vietato, è consentito ai turisti. E non so-
lo ai turisti: un paese in cui se paghi, chi se ne frega del Co-
rano, – dice Zaheena Rasheed. – Ma qualsiasi cosa dici, ti
saltano addosso.

In questi giorni, in effetti, Male è letteralmente isterica


per questa storia di al-Jazeera. Sono ferma a un angolo con il
taccuino in mano, mentre cerco la moschea vecchia, quando
un energumeno fuori da una cartoleria mi urla:  – Che stai
scrivendo? Non sarai mica una giornalista? – sbraita. – Via
di qui!, o chiamo la polizia. Via!
Sto solo provando le cartucce della penna per capire se
ho comprato quelle giuste.
Sto andando al Centre for the Holy Quran, in realtà. Ma
secondo la mia Lonely Planet, la moschea vecchia di Male è

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Male, di nuovo 

lungo la strada, ed è molto bella. Secondo la mia Lonely Planet,


per la verità, ci passo davanti ogni giorno: ma onestamente,
non mi sembra di avere mai visto una moschea, da queste parti.
E non mi sembra di vederla neppure adesso: anche se è esat-
tamente dove sto. Non l’avrei mai riconosciuta: il minareto
è bianco con delle righe blu, tipo un faro – e poi non è alto e
stretto, tipo un campanile, è largo: credevo fosse una cabina
elettrica. E invece è la moschea piú antica delle Maldive. Una
di quelle moschee che però una volta erano un tempio bud-
dista, e ora invece hanno il pavimento montato in diagonale
verso la Mecca: ma qui, ovviamente, ti assicurano che è una
moschea da sempre. Perché qui è esistito sempre e solo l’Islam.
Anche se è a forma di pagoda.
Non l’avrebbe riconosciuta neppure al-Baghdadi.
In realtà non so se posso entrare, perché l’ingresso è vieta-
to ai non musulmani: è necessaria un’autorizzazione del mi-
nistero degli Affari islamici. Ma non c’è nessuno con cui par-
lare. – Non preoccuparti, – dice un uomo nella portineria del
palazzo di fronte. – Vieni con me. – Ma cosí? – dico. – Mi han-
no raccomandato di non entrare senza autorizzazione. – Tran-
quilla, – dice. – Quello che conta è il cuore puro. E poi sembri
araba. Da dove vieni? – dice. – Dalla Palestina, – dico. Si il-
lumina: – Allora hai il cuore purissimo –. E mentre mi spiega
il soffitto intarsiato, i muri di corallo, i tappeti, tutta l’archi-
tettura, tutto gentile si informa se sono sposata o no: anche se
prima di dirmi che neppure lui è sposato, e invitarmi a cena,
perché tutto ha un senso, no? tutto ha una spiegazione, perché
Dio altrimenti mi avrebbe indirizzato al ministero degli Affari
islamici, mica al palazzo di fronte, mi chiede quanto guadagno,
e se casa mia è proprio mia, di mia proprietà, e soprattutto, se
è in Italia. – Non è che è a Gaza, vero?
Il mio promesso sposo ha una sessantina d’anni e quat-
tro denti, ma mentre io insisto a parlare di Maometto, sta
già pianificando le nostre nozze. – Ma il Corano, qui, cosa
dice? – chiedo indicando i versetti incisi alle pareti. – Dice
che stasera ceniamo insieme, – giura.

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 Ma quale paradiso?

– Altrimenti, perché saresti venuta nel palazzo di fronte?


Tutto ha un senso.
Tutto ha una spiegazione.
Il Centre for the Holy Quran è un centro per lo studio
del Corano finanziato dal governo. Ha una bella biblioteca
tutta in legno, foderata di libri fino al soffitto. I corsi sono
gratuiti. Sono sia corsi di Corano sia corsi di arabo, perché
il Corano in arabo ha un’infinità di significati e sfumatu-
re che nelle traduzioni finiscono per perdersi: è per questo
che anche in Europa nelle moschee si usa l’arabo. Il signor
Taj, l’addetto stampa del centro, è un signore molto corte-
se. Un po’ singolare, perché è nato in Sudan. Ed è albino.
Vive qui dal , sua moglie è delle Maldive. Ha un’aria
semplice, e una settantina d’anni, sembra un po’ un testi-
mone di Geova, o il vicino fissato che prova a convincer-
ti ad andare in chiesa. – La cosa piú importante è legge-
re, – dice. – Leggere il piú possibile, e cercare la verità da
soli. Perché se segui un maestro, soprattutto all’inizio, co-
me puoi essere sicuro che quello che hai scelto sia davvero
un maestro? – dice.
– Non fidarti di nessuno, – dice. – Neppure di me. Non
sono la verità. Sono solo Taj.
L’Islam, a differenza del cristianesimo, non ha il clero.
Il messaggio dell’Islam è un messaggio che si rivolge diret-
tamente al fedele. Senza mediazioni. – E oggi è un proble-
ma, – dice, – perché oggi molti imam non hanno mai stu-
diato alla Mecca, o ad al-Azhar, insieme a maestri autore-
voli. Sono stati a stento fuori dal proprio paese: e quindi
confondono religione e tradizione. Regole e abitudini. Per
questo leggere è piú importante che mai, – dice. – L’imam
non è la verità. La sola verità è il Corano. Il primo dovere
di ogni musulmano è leggere il Corano. Leggerlo e rilegger-
lo. E riflettere. Perché ognuno decide la propria interpre-
tazione dell’Islam.
– Non fidarti di nessuno, – dice. – Neppure di me.
– Non sono l’Islam. Sono solo Taj, – dice.

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Male, di nuovo 

E, in effetti, ha ragione. Perché a rifletterci è proprio


l’opposto di quello che sembra. Sembra la libertà, il pensie-
ro critico, l’autonomia individuale: e invece è l’Islam come
strumento di controllo e potere. Perché non seguire nessun
imam, limitarsi a pregare, significa in realtà astenersi da ogni
iniziativa politica, limitarsi all’Islam come mezzo per la sal-
vezza personale, dimenticando il suo potente richiamo al cam-
biamento sociale. All’azione collettiva. Se arrivi dal Medio
Oriente, è un tipo di Islam che conosci bene. Perché in Me-
dio Oriente c’è sempre un Islam di Stato e un Islam, diciamo
cosí, di opposizione, che non è necessariamente al-Qaeda, è
anche per esempio, in Egitto, l’Islam dei Fratelli musulmani
rispetto all’Islam di Sadat, che veniva usato per indebolire
i laici. Non perché fossero laici, non perché, al fondo, fosse
una questione di religione: ma perché erano vicini all’Unio-
ne Sovietica. Perché erano comunisti.
A parte che è una differenza che conosci bene anche se
arrivi dall’Italia: tra il Vaticano e la Chiesa. Tra il cattolice-
simo di Stato e quello di strada.
I preti banchieri e i preti operai.
– L’Islam è semplice. Nell’Islam sei tu con Dio. Nessun
altro, – dice. – E tutto deriva da pochi principî. Al fondo,
da un principio solo: il principio dell’unicità di Dio. Allah è
il solo Dio e Maometto il suo profeta. Tutto deriva da qui.
Un musulmano osserva la parola di Dio: solo la parola di Dio.
Non venera falsi idoli. Non cerca il denaro, la fama. Il po-
tere. E questo significa anche che non esiste altra autorità.
Il presidente, il parlamento, la polizia: nessuno ha titolo per
contraddire Dio. Le leggi sono legittime nella misura in cui
attuano la volontà di Dio.
– Ma allora, – dico, – i resort? Non mi sembrano molto
compatibili con la volontà di Dio. – Le regole hanno sempre
un’eccezione: lo stato di necessità. Se non hai alternative, ti
è consentito violare le regole. E le Maldive non hanno alter-
native, – dice Taj. – I resort, in realtà, sono una cosa giusta.
Perché minimizzano il danno. Non possiamo vivere che di

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 Ma quale paradiso?

turismo: ma cosí, se non altro, il contatto con i non musul-


mani è limitato.
– Donne e bambini stanno in altre isole, e sono protet-
ti, – dice.
– Senta, – dico. – Mi dispiace essere un danno. Non vo-
levo. Però io, che sono una ragazza, perché dovrei conver-
tirmi all’Islam? E essere inferiore a un uomo? – Ma non è
vero, – dice. – Per l’Islam uomo e donna sono uguali. Esiste
una diversità biologica, per cui è evidente che certe cose, tipo
fare il camionista, non sono fisicamente alla vostra portata.
O la guerra. La guerra non è mica adatta alle donne, – dice.
Non è adatta a nessuno, in realtà. – Ma per il resto, siamo
tutti uguali, – dice. – Ognuno nei limiti della propria natura.
E poi non c’è costrizione, – dice. – Il marito se non condivi-
de qualcosa, per esempio che la moglie lavori in un hotel in
cui si serve alcol, è tenuto a spiegare le sue ragioni. E al piú,
tutto si risolve con la mediazione della famiglia. Anche per-
ché non possono esserci dubbi, – dice. – Il Corano è chiaro.
Se fossimo tutti musulmani, veri musulmani, non solo non
avremmo bisogno di giudici e tribunali, ma neppure di leggi
e parlamenti, perché il Corano disciplina ogni aspetto della
vita. Ed è chiaro. Il Corano non lascia dubbi.
– Il problema, – dice, – è che c’è Dio ma c’è anche Satana:
e Satana è sempre all’opera. La vita è uno scontro infinito tra
il bene e il male: sta a te scegliere da che parte stare. Satana
ti tenta, in ogni momento. Ma tu non devi mai cedere. Mai.
Devi stare saldamente dalla parte del bene. Per questo chi
compie attentati in Europa non è un vero musulmano. Sono
come i crimini degli americani in Iraq. In Afghanistan. Esat-
tamente la stessa cosa. I jihadisti sono dei ragazzi ingannati
e manipolati: l’Isis è tutta una manovra della Cia.
– E comunque qui non abbiamo jihadisti, – dice. – Nep-
pure uno.
– Per la verità, quelli che stanno in Siria hanno anche un
nome, – dico. – Bilad al-Sham.
– Stanno su Twitter, su Facebook. Su Youtube, – dico.

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Male, di nuovo 

– E chi ti dice che siano veramente di qui? – mi chiede.


– Che non sia la Cia? – dice.
– Nessuno è perfetto. Oggi non c’è paese che sia real-
mente islamico: non è sufficiente introdurre la sharia per
conformarsi alla volontà di Dio. Eppure, questo non ti au-
torizza a ribellarti. A tentare di realizzare quello che ritieni
essere il vero Islam. Né con la violenza né senza la violenza:
non sta a te cambiare le cose. La vita è mista, è bene e ma-
le insieme. Avremo il vero Islam in terra solo alla fine dei
tempi. Non è in tuo potere cambiare il mondo, cambiare il
tuo paese: puoi cambiare solo te stesso. Puoi solo, nel tuo
piccolo, essere giusto. E cioè, – dice, – riflettere. Sempre.
Davanti a ogni cosa, chiederti: Cosa ha voluto dirmi Dio?
Davanti a te che non credi, per esempio, il mio obbligo di
musulmano è parlarti. Spiegarti il messaggio di Dio. Ma è
anche chiedere a me stesso: perché sei qui? Che senso hai?
Perché Dio ti ha mandato da me?
– Secondo te, – dice, – perché Dio ti ha mandato qui?
– Non saprei, – dico. – Ho parlato solo con il mio capo.
– Ma non puoi non interrogarti su te stessa, – dice. E cosí
io su di te: è mio compito capire perché sei qui. Capire il tuo
significato sulla terra.
– Il mio significato? – dico.
– Sí, – dice.
– E ci riesce? Voglio dire, in genere capisce uno che sen-
so ha nel mondo?
– Spesso, – dice.
Mi guarda.
– Molto spesso, – dice.
Lo guardo.
– Comunque, – dico, – ha il mio numero di telefono, vero?
– Lascia perdere la Siria. Tanto o ci sei o non ci sei, la
guerra non finisce. Nessuno sa piú neppure perché sta com-
battendo. Non puoi cambiare le cose. Ma non sei in pena
per te stessa? Guardati. Ma come puoi sprecare cosí i tuoi
anni migliori?

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 Ma quale paradiso?

– Ma in Siria muoiono tutti. Non posso andare via.


– E pensi che se stai lí muoiono di meno? In una guerra
che coinvolge l’Arabia Saudita, l’Iran, la Russia, la Turchia:
una guerra che coinvolge tutti? Pensi di contare?
– Ma davvero muoiono tutti.
– E morirai anche tu.
– E io neppure verrò a saperlo, – dice, – tanto la tua mor-
te sarà irrilevante.
Mi guarda.
– Allora magari, – dico, – torno in Palestina.
– La Palestina, – dico, – è piú sicura.
– Peggio!
– Peggio?
– Sono settant’anni che ci provano tutti. E pensi di ri-
solverla tu?
– Ma neppure la Palestina?
– Lascia perdere. Il mondo è complesso. Non capisci? Il
mondo ti usa.
– Ma Gerusalemme. Maometto. Almeno la Palestina.
Ma Maometto, non è andato in cielo, lí, dall’arcangelo, da
Gerusalemme?
– Nel mondo si soffre ovunque. E allora perché la Siria
sí, e l’Etiopia, la Nigeria, il Congo no? Chi sta in Congo ti
accuserebbe di indifferenza, come tu accusi altri di indiffe-
renza sulla Siria. L’unica pace è quella dell’anima. Dedicati
a tuo marito.
– Non ho un marito, – dico.
– Non hai un marito? – dice.
– Tanto, – dico, – dopo un giorno mi direbbe: Meglio
che te ne stai in Siria.
Mi guarda costernato.
– In Occidente non c’è piú rispetto per le donne.

Anche se quello che piú mi colpisce di uomini come Taj,


qui, in realtà non è quello che dicono o non dicono dell’I-
slam. L’Islam di Stato, e cose di questo tipo. No. Mi colpi-

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Male, di nuovo 

sce che siano molto diversi da quelli che li contestano, dagli


Asward: e però allo stesso tempo molto simili.
Perché, in un certo senso, alle Maldive mi sembrano esi-
stere tre categorie. C’è questa minoranza di integrati che be-
neficia del sistema dei resort, chi piú chi meno, e quindi è sal-
damente schierata con il governo – o piú esattamente, con lo
status quo: non con Yameen in quanto Yameen, ma con
Yameen per gli interessi che tutela. E poi c’è questa mino-
ranza di dissidenti, costantemente sotto attacco. Sono i due
gruppi che occupano l’intero spazio, alla fine, l’intero spazio
politico e sociale, o se non altro, lo spazio visibile: lo spazio
ufficiale. E sono anche polarizzati: o stai con Nasheed o stai
con Gayoom, qui. O bevi Illy o bevi Lavazza. Sono divisi
anche su cose cosí. E però in realtà non sono che una mino-
ranza. Occupano tutto lo spazio, ma la maggioranza è un’al-
tra: ed è la maggioranza da cui partono quelli per cui tutto è
meglio delle Maldive. Anche la Siria.
Con gli amici, i fratelli, che magari non condividono la
loro scelta, ma alla fine non hanno niente da obiettare: per-
ché non si sentono parte della società.
E mentre quelli si azzuffano su Illy e Lavazza, bevono
Nescafé.
Sono tre gruppi ma solo due mondi, in realtà.
E non si incrociano mai.
I tre fratelli Jameel sono stati tra i primi a trasferirsi nel
califfato. Sono partiti con mogli e figli. Il maggiore, Aatifu, la-
vorava all’ufficio immigrazione, quello di mezzo, Samihu, era
un pescatore, mentre il piú piccolo, Aataru, era disoccupato.
Quando gli hanno chiesto perché fossero andati a Raqqa, il pa-
dre, laconico, ha risposto: «Si erano sposati, avevano ognuno la
propria famiglia. Ma vivevano ancora tutti in un’unica stanza».
E comunque – sono alle Maldive: ma forse potrei esse-
re ovunque.

– Ehi… Ehi, scusa!


Un ragazzo mi ferma, per strada. – Ma sei tu? – dice.

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 Ma quale paradiso?

Dice: – Mi avevano detto che eri alle Maldive. Volevo


tu avessi questo, – dice. E tira fuori dalla borsa un Corano
in dhivehi.
– E poi volevo chiederti un consiglio, – dice.
– La Siria, dico.
– Sí. Volevo capire i siriani cosa pensano di noi.
– Di voi?
– Degli stranieri, sí. Se ci vogliono.
– Voglio aiutare i siriani, – dice. – Ma voglio essere sicu-
ro che i siriani vogliano essere aiutati.
– Un po’, no?, come quando ti iscrivi all’università, – di-
ce. – Che vuoi essere sicuro di iscriverti alla facoltà giusta.
– Guarda, – gli dico. – Non è semplice. Non è vero che
arrivi lí e siete tutti fratelli. Intanto per via della lingua. Non
tutti parlano arabo. Anzi. In realtà, – dico, – alla fine si sta
molto con quelli del proprio paese. I ceceni, per esempio, stan-
no solo tra ceceni. Anche perché combattono molto meglio di
tutti gli altri, e uno svedese, un olandese, al fronte, uno che
si è addestrato alla playstation, è un intralcio e basta. E co-
munque, è stato cosí anche ai tempi dell’Afghanistan. I com-
battenti stranieri erano molto diversi dagli afghani, venivano
dalle città, avevano studiato. Avevano storie diverse. Moti-
vazioni diverse. Gli afghani venivano da una società rurale. E
cosí oggi in Siria. Non è vero che sono tutti fratelli. Per niente.
Anche perché gli stranieri sono pagati di piú, e gli occidentali,
per esempio, si occupano soprattutto dei media: e quindi sono
accusati di rischiare di meno. Di essere solo degli avventurieri.
– Di non essere dei veri musulmani, – dico.
– Però, – dico, e giuro, è l’ultima cosa al mondo che vor-
rei dire, soprattutto a questo ragazzo, ma è la verità, – però,
i siriani vi sono grati.
– Davvero? – dice.
– Sí, – dico.
Perché è la verità.
E vorrei che non fosse cosí, giuro, vorrei potergli dire: i si-
riani dicono di starvene tutti dove state, che gli avete distrutto

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Male, di nuovo 

la rivoluzione, gli avete distrutto tutto, non volevano la sha-


ria, volevano la democrazia, e ora guardate che casino, invece:
avete distrutto tutto – ma non è vero: molti siriani sono cosí
disperati che sono grati a chiunque sia disposto ad aiutarli.
Anche i laici.
Ti dicono: Poi penseremo all’Islam. Ma ora la priorità è
Assad.
– Sí, – dico. – I siriani vi sono grati.
Certo. «I siriani». Ormai in Siria siamo tutti stranieri.
I siriani sono tutti profughi.
Profughi o cadaveri.
E comunque, anche Assad vi è molto grato, vorrei aggiun-
gere. Il piú grato di tutti.
Cosí ha potuto dire al mondo che o lui o al-Qaeda.
Ha potuto bombardare tutto.
Mi guarda.
– Ma tu, – dice, – fossi in me: andresti?
– Fossi in te? – dico.
– Fossi in me.
– Lascia perdere. Tanto o ci sei o non ci sei, la guerra
non finisce.
– Ma in Siria muoiono tutti. Non posso non andare.
– Non puoi cambiare le cose. Il mondo è complesso. Il
mondo… Il mondo ti usa.
– E non è questione di Islam, – dico.
Di tutto è questione in Siria, tranne che di Islam.
Mi guarda.
– Senti, – dice, – se muoio: scrivi una cosa di me?
Dice: – Scrivi che sapevo quello che facevo.
– E che non è vero che non capivo niente di Islam, – dice.
– Perché non è vero, – dice, – che non è questione di
Islam.

Anche se in realtà, il problema forse è che bisognerebbe


parlare di Islam al plurale.
E di sharie.

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 Ma quale paradiso?

Mushfique Mohamed ha  anni, è un avvocato. – Intan-


to una premessa, – dice. – Di base, la sharia copre il diritto
di famiglia e il diritto penale: non copre che una parte del
diritto. Le norme per esempio del diritto civile, del diritto
amministrativo, del diritto commerciale, sono tutte norme
statali. Qui alle Maldive poi, – dice, – quanto al diritto pena-
le, la sharia è limitata a quei reati previsti esplicitamente dal
Corano, e per cui è il Corano a fissare le pene. I cosiddetti
hudud. L’adulterio, la fornicazione, e cioè il sesso fuori dal
matrimonio, l’apostasia, il furto, la rapina, e il consumo di
alcol e altre sostanze simili. Ma l’ per cento dei processi
qui è per reati di droga: reati che non sono disciplinati dalla
sharia. Quando parliamo di sharia, quindi, non parliamo mai
del diritto nella sua interezza. Parliamo di norme che inte-
ragiscono con altre norme: di norme islamiche che interagi-
scono con norme di altra natura.
– E che da queste norme di altra natura, – dice, – sono
profondamente cambiate.
– Si parla di sharia, senza altre specificazioni. Ma la sha-
ria, – dice, – è sempre e solo la sharia di un certo paese. Non
è in vigore la sharia, qui: è in vigore la sharia delle Maldi-
ve, – dice. – Ogni sharia è radicata in un suo contesto. E que-
sto contesto oggi non è costituito semplicemente dagli usi e
dai costumi: è lo Stato. Il problema di fondo è che la sharia
è pensata per una società senza Stato. Ai tempi di Maomet-
to lo Stato non esisteva. Lo Stato qui, e in mezzo mondo, è
arrivato con gli inglesi. Con gli olandesi. Con il colonialismo.
E ha sostanzialmente sfigurato la sharia. Perché la sharia è
un diritto che si basa sull’esperto, – dice, – non sul giudi-
ce. Ma con lo Stato, i ruoli si sono invertiti, e la figura cen-
trale è diventata quella del giudice. Non piú, cioè, un uomo
espressione della società, – dice, – ma un funzionario dello
Stato. Espressione del potere.
– Un diritto è dato dalle norme, – dice, – ma anche dal re-
troterra che produce queste norme. E che produce pesi e con-
trappesi. Se gli togli il retroterra, gli togli i pesi e i contrappesi.

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Male, di nuovo 

Gli togli le garanzie.


– Tanti ti spiegano che la sharia si basa sull’esperto di Islam,
e anzi, sugli esperti di Islam, su una discussione, una riflessio-
ne costante. E in teoria, sí, è vero. Ma ai tempi di Maometto:
non oggi. Non in pratica. Perché il problema oggi è: chi deci-
de qual è la sharia? Cosa è consentito e cosa no? Perché sí, c’è
il Corano. Ma poi c’è tutto il resto. C’è la Sunna, c’è la giuri-
sprudenza: e tutto il resto si impone non perché è vero, non
perché è dimostrabile come una formula matematica, ma per-
ché è socialmente e politicamente opportuno. O conveniente.
Conveniente a qualcuno.
– Chiunque, – dice, – può chiedere una fatwa, è vero.
Ma non è questo il punto: il punto, – dice, – è che chiunque
può emetterla.
Ad Abu Dhabi hanno anche un numero verde.
Il Fatwa Call Centre.
La sharia, qui, è in vigore da sempre. Ma è stata codificata
solo nel : solo con il nuovo codice penale. Che si ispira a
quello del Sudan. – Ed è interamente rimessa alla discrezione
del giudice, – mi spiega. – Cioè, è il singolo giudice, in ogni
singolo caso, a stabilire cosa dice la sharia: un’arbitrarietà
che è ovvio, lascia spazio a ogni tipo di abuso.
– Non è il regno di Dio: è il regno del giudice, – dice.
E di chi paga il giudice.
La sharia qui è politica da sempre. Nei primi mesi da
presidente, Nasheed si consolidò il consenso con una serie
di riforme a lungo attese: l’edilizia popolare, i trasporti,
l’assicurazione sanitaria. Le guesthouse. E i suoi opposito-
ri, a quel punto, si giocarono la carta dell’Islam. Accusa-
rono Nasheed di non essere un vero musulmano, chieden-
do cose tipo la chiusura dei centri massaggi, che spesso in
realtà, soprattutto a Male, sono centri della prostituzione,
e organizzando una manifestazione in difesa dell’Islam.
Il  dicembre . La piú partecipata della storia delle
Maldive. Per come si ragiona qui, era implicito che non si
stesse parlando dei centri massaggi dei resort, frequenta-

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 Ma quale paradiso?

ti dai turisti. E quindi Nasheed sfidò gli islamisti sul loro


stesso terreno, ordinando la chiusura dei centri massaggi:
però tutti. Senza eccezioni. Poi chiese alla Corte suprema
se vendere alcol ai turisti non fosse per caso contrario al-
la sharia. E si salvò cosí: perché la Corte suprema, messa
all’angolo, decise di non decidere.
E tutto fu archiviato.
L’Islam è ovunque, qui. E allo stesso tempo, da nessu-
na parte.
Perché poi, appunto: il fine settimana vanno in Sri Lanka.
– La sharia qui ha un’evidente connotazione politica, – di-
ce. – Per esempio: la fornicazione. Le donne frustate in piaz-
za. E in mezzo a una folla che approva, e anzi, chiede pene
piú severe. Quelle donne non sono certo le donne benestan-
ti di Male: perché la prova della fornicazione è il figlio nato
fuori dal matrimonio, e le donne ricche, e istruite, usano i
contraccettivi. Usano l’aborto. Le frustate sono la tipica pu-
nizione che alla fine colpisce solo i poveri. Hanno una forte
componente di classe –. Sono quei reati, che si ritrovano in
ogni ordinamento, in realtà, in ogni paese, che per come so-
no strutturati, per come sono definiti, colpiscono solo una
certa parte della popolazione. Solo i neri. Solo gli immigrati.
Sono quei reati che tengono unita la società: perché creano
l’Altro. L’Altro rispetto a cui si è migliori. L’Altro a cui ad-
dossare ogni colpa.
– E infatti sono reati, – dice Mushfique Mohamed, – con
una forte dose di ipocrisia. Perché qui nessuno si sogna di ar-
restare i turisti. Eppure il sesso fuori dal matrimonio è vietato
a tutti. L’unica differenza è nella pena. Le frustate per i citta-
dini delle Maldive, i domiciliari per gli stranieri. Per gli stra-
nieri musulmani: perché gli stranieri non musulmani dovreb-
bero essere solo espulsi dal paese. Ma non è mai stato espul-
so nessuno, – dice. – Potresti pensare che sia tolleranza. No.
Non è tolleranza, è ipocrisia. Perché per stranieri musulmani,
non si intendono gli sceicchi sauditi. Quelli non finiscono mai
ai domiciliari. Si intendono solo i camerieri del Bangladesh.

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Male, di nuovo 

– Non è questione di essere musulmani o meno, – dice, – è


questione di essere ricchi o poveri.
O potenti. Perché il presidente della Corte suprema, il
tipo con i mutandoni bianchi filmato in Sri Lanka insieme a
due prostitute, non è mai stato arrestato. Anche se per i citta-
dini delle Maldive, gli hudud sono un reato anche all’estero.
La scrivania davanti a quella di Mushfique Mohamed è
la scrivania di Shahindha Ismail, la piú nota tra gli attivisti
per i diritti umani delle Maldive. Ha  anni, ed è in prima
linea da quasi quindici. Dal . Dalla primavera di Ma-
le, cosí simile a quella che poi sarebbe stata la primavera
araba: un ragazzo di  anni, Evan Naseem, fu torturato
a morte in carcere e la madre scelse di non tacere: espose
in piazza il cadavere martoriato del figlio, innescando cosí
la rivolta prima dei detenuti, e poi di tutto il paese. E per
Gayoom fu il capolinea. – Fu costretto a concedere libertà
di associazione e discussione, – dice Shahindha Ismail. – Il
partito di Nasheed, che era un partito clandestino, fu le-
galizzato. Ma non solo. All’improvviso, tutto sembrava
possibile. Tutto sembrava nostro. Il paese, il futuro: fu un
momento di infinita energia. Organizzammo dei forum te-
matici, per decidere tutti insieme le riforme. I cambiamenti
necessari. Fu un momento straordinario, – dice. – Ma dopo
un po’, – dice, – Gayoom reagí. E reagí arrestando tutti.
E poi un giorno, mentre lo scontro era ancora in corso, an-
cora aperto, ci piombò addosso lo tsunami. E a quel pun-
to, non era certo il momento di parlare ancora della nuova
costituzione. Di elezioni. Era il momento di montare ten-
de, distribuire acqua e coperte. E tutto si fermò lí, – dice.
– Tutto rimase incompiuto.
A metà del guado.
E non solo perché per molti lo tsunami era stato una pu-
nizione di Dio. Con lo tsunami, arrivarono gli aiuti dell’Ara-
bia Saudita. Che non sono mai aiuti disinteressati, mi spiega,
spiegandomi cose che mi sono già state spiegate in Bosnia:
un paese in cui negli anni Novanta, durante la guerra, circa il

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 Ma quale paradiso?

 per cento delle moschee fu distrutto, per essere ricostru-


ito in larga parte con dollari sauditi. E con caratteristiche
saudite: la moschea Re Fahd di Sarajevo ora ha due ingressi
separati per uomini e donne. E due piani separati.
Una cosa che in Bosnia non si era mai vista.
– Ricordo quando ero piccola. Il bucato steso ad asciu-
gare: tutto colorato. Ora è tutto nero. L’Islam di oggi non è
affatto un ritorno alla tradizione. Perché questo è l’Islam dei
paesi del Golfo: non è l’Islam delle Maldive, – dice.
Anche il suo primo marito è diventato un salafita. Dopo che
suo fratello è stato ucciso al fronte in Afghanistan. E soprat-
tutto, dopo che si è trasferito per alcuni mesi a Londra. – E a
Londra l’unico riferimento, per i nuovi arrivati, un po’ spersi,
era la moschea, – mi racconta. – Ha iniziato a dire che anche
nostra figlia doveva usare l’hijab. Ma dal momento che è sem-
pre stato il tipico padre assente, gli ho detto: Come preferisci.
Però viene a vivere con te. Ed è sparito subito.
– L’Islam è ovunque, qui. E allo stesso tempo, – dice, – da
nessuna parte.
– Ma proprio da nessuna parte, – dice.
– Ma sai cos’è, – dice, – in tutto questo, la cosa che piú
mi fa male? La cosa, – dice, – che proprio non so accettare?
Che siamo solo trecentocinquantamila. Non siamo l’India.
La Cina. Un miliardo e trecento milioni. Siamo una città,
piú che un paese. Con il turismo, con questo tipo di turismo,
tra l’altro, da  dollari a notte, potremmo vivere tutti.
Ti dicono sempre che non ci sono abbastanza risorse, che è
la crisi del capitalismo: la globalizzazione, gli immigrati del
Bangladesh. Ma non è vero, – dice. – Non è questione di po-
vertà ma di disuguaglianza.
È una questione di ingiustizia.
E in effetti – sono alle Maldive: ma forse potrei essere
ovunque.

L’appuntamento successivo non è molto lontano. È al


caffè Seagull.

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Male, di nuovo 

Ma sono in anticipo, e ciondolo un po’ nei paraggi. Tra


i negozi di souvenir. In uno c’è una coppia di russi, a cui
stanno provando a vendere una conchiglia per  dollari.
E i due russi vogliono comprarla davvero.
– Ehi… Ehi, scusa!
Un ragazzo mi ferma, per strada. – Ma sei tu? – dice. Di-
ce: – Ma stai andando lí?
Indica il Seagull.
Dice: – Ma sai quanto costano, lí dentro, due caffè? 
rufiyaa, piú o meno.  euro.
Dice: – Quanto una visita dal dentista.
– Vieni, – dice. – Cambiamo caffè. E con quelle  ru-
fiyaa, paghi il dentista a un bambino.
– Comunque, – dice, – volevo tu avessi questo. E tira fuori
dalla borsa un pezzo di stoffa. Una bandiera delle Maldive.
Sopra, in dhivehi, c’è scritto: «Gaza libera».
– E poi volevi chiedermi un consiglio, – dico.
Dico: – La Siria.
– Sí, – dice. Non sa se è meglio arruolarsi nell’Isis o con
al-Qaeda. La differenza principale, gli hanno detto, sono gli
sciiti: per l’Isis sono nemici come gli altri. Mentre per al-
Qaeda sono musulmani come gli altri. E quindi è indeciso.
Perché qui sono tutti sunniti. Non ha un’opinione precisa
sugli sciiti: non ne ha mai visto uno.
– Secondo te sono degli infedeli? – dice.
– Non saprei, – dico.
– Hanno moschee diverse, – dico. – Tutto qui. Pregano
in posizione diversa.
Quella tra sunniti e sciiti è una scissione che risale alla
morte di Maometto. Che non indicò un successore: né in-
dicò come individuarlo. Secondo i sunniti, doveva essere
il migliore dei fedeli, il piú carismatico, doveva essere scel-
to, doveva essere eletto, mentre secondo gli sciiti doveva
essere un discendente di Maometto. Oggi non c’è analisi
sul Medio Oriente che non abbia un paragrafo su sunniti e
sciiti. Su Iran e Arabia Saudita. Ma tutto, appunto, è ini-

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 Ma quale paradiso?

ziato cosí. Con la morte di Maometto. Al solito: con uno


scontro per il potere.
Le differenze di dottrina sono venute dopo.
Per giustificare lo scontro.
Per legittimarlo.
– Ma poi, – dico, – Dio è onnipotente, no? Avesse volu-
to, avrebbe creato un mondo di soli sunniti. Un mondo sen-
za sciiti. Invece, – dico, – l’ha voluto cosí. Con il giorno e la
notte. I tonni e gli orsi.
– I tonni?
– Cioè: con i sunniti e gli sciiti. Entrambi.
– Tutto ha un senso, no? – dico.
Mi guarda.
– O forse, – dice, – Dio ha voluto gli sciiti come prova.
Come l’alcol, – dice. – Come le donne. Come una specie di
tentazione, no? Per capire se cedi o resisti. Se ti lasci con-
vincere. Forse Dio ha voluto gli sciiti per capire se siamo dei
veri musulmani.
Ci pensa un po’.
– Comunque guarda, – dico. – La differenza è anche che
con al-Qaeda, se cambi idea, sei libero di andartene. Con
l’Isis no. Non cambi idea. L’Isis fucila i disertori.
– Allora è meglio al-Qaeda.
Anche se comunque lui non pensa di tornare. – Dopo, – di-
ce, – sarà il turno della Palestina.
La televisione, qui, parla di Palestina ogni giorno. Ogni
ora. E la diffidenza nei confronti di Israele è cosí forte che
nel  una Ong di oculisti dall’incauto nome Eye from Zion
è venuta a offrire operazioni gratuite, e si è sparsa voce che
estraevano organi per poi rivenderli al mercato nero. La Ja-
miyyathu Salaf, un centro islamico che ha fama di essere lo
snodo del reclutamento dei jihadisti, ha denunciato il chiaro
tentativo sionista di impadronirsi delle Maldive, e ha chiesto
al governo di organizzare addestramenti militari d’urgenza.
– Non sarà facile, – dice, – ma cancelleremo Israele dal-
la mappa.

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Male, di nuovo 

No, non sarà facile.


Pensa di entrare in Israele dal Sudan.

Comunque il Seagull, in effetti, è molto bello. Molto ele-


gante. Ha una specie di giardino interno con una palma e del-
le piante tropicali, la sabbia. I tavolini in tek. E all’ingresso,
un frigorifero cromato con delle torte come quelle dei cartoni
animati. Alte, tonde. Con tutti i riccioli di panna. Girano su
se stesse, tra mille luci: chissà se suona – è un frigorifero che
da solo costa piú di tutti i mobili di una qualsiasi delle case
che ho visto. Delle case qui intorno.
Mariyath Mohamed ha  anni, è una giornalista. – Ma
qui è tutta apparenza, – dice. Ti senti a Parigi, in un caffè
come questo: e invece sei in Salvador. Sei in Messico. A
Scampia. – Qui in realtà tutto è di proprietà di cinque, sei
imprenditori. E tutto è un circolo vizioso, – dice. – Vive-
re in dieci in due stanze significa vivere in un inferno, un
inferno di eroina e violenza. Vuoi solo andartene di casa
il prima possibile, qui. E quindi ti sposi. Ti sposi subito,
con il primo che capita: le Maldive hanno il tasso di divor-
zi piú alto al mondo, – dice. E il tasso piú alto al mondo di
famiglie con a capo una donna: il  per cento. – Cresci in
famiglie disastrate, – dice. – Cresci solo. In mezzo a una
strada. Per molti, la vera famiglia qui è la gang.
Ha  anni, ed è al terzo marito.
Il marito guadagna molto, ha un’impresa di cantieristica
navale. Ma persino una come Mariyath Mohamed, che può
avere tutto, qui, può permettersi tutto, si sente derubata del
proprio paese. – I resort sono strutture private, in cui chiun-
que, pagando, può entrare. Ma i maldiviani di fatto non so-
no ammessi. Non è una legge, ma una prassi, – dice. – Ti
rispondono sempre che è tutto esaurito –. Le isole qui sono
classificate come abitate o non abitate, e l’accesso è libero
solo in quelle abitate. Quelle non abitate o sono utilizzate dal
governo, per esempio per l’agricoltura, e per andarci è neces-
saria un’autorizzazione, oppure sono resort, e per andarci è

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 Ma quale paradiso?

necessaria una prenotazione. – Quei pochi di noi che possono


pagarsi i resort sono sempre guardati male. Le tariffe sono le
stesse: ma finiamo ogni volta relegati nell’ala cinese, – dice,
che è l’espressione con cui qui indicano la parte peggiore di
un resort, – diciamo: meno bella. Magari con dei lavori in
corso. Dal , il primo paese per numero di turisti non è
piú la Gran Bretagna, ma la Cina: ma i cinesi non sono mol-
to amati, perché spendono poco.
E perché pretendono cucina cinese.
Stanno solo tra cinesi.
Perché non si integrano con la cultura locale, dicono.
– Ma non solo l’economia: anche l’Islam, – dice, – è piú
apparenza che altro.
– Intanto perché qui se paghi, – dice, – tutto è permesso.
Ma poi per diventare cittadino delle Maldive, per esempio:
devi convertirti. E cioè, superare un esame di Islam. Devi
recitare a memoria alcune pagine del Corano. Ma non è che
verificano se sai cosa significano: tanto piú che sono in ara-
bo. Poi ti chiedono: Pensi che i musulmani siano tutti ter-
roristi? E tu, ovviamente, dici: No, e ti assegnano un nuovo
nome: e sei musulmano.
Per la verità, negli Stati Uniti sono ancora piú esigenti:
ti chiedono se sei uno di sani principî morali.
– Ma soprattutto, – dice, – non dimenticarti che le Mal-
dive sono isole. Sono comunità piccole, cioè. E chiuse. Qui
essere diversi dagli altri è difficile: c’è una forte pressione
sociale. Tutti sanno tutto di te. E tutti parlano di te. Non è
lo Stato che ti obbliga, qui: né il Corano: è la società, piutto-
sto, che ti induce. Tutte usano l’hijab: e anche tu usi l’hijab.
Alla fine, – dice, – i jihadisti non vengono reclutati tanto
nelle moschee, o in carcere, su internet: quelli che contano
di piú, – dice, – sono gli amici. Parte uno, e partono tutti.
Che è una cosa, in effetti, che si nota anche in Europa.
Piú che da certi paesi, o certe città, i jihadisti partono da cer-
ti quartieri. Da certi condomini.
Tutti insieme. Come altri, altrove, partono per l’Interrail.

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Male, di nuovo 

– E però il problema, qui, non è l’Islam, – dice. – Il pro-


blema è questo tipo di Islam. L’Islam dei paesi del Golfo.
La scuola di mia figlia è finanziata dall’Arabia Saudita, e
per la festa di fine anno, hanno detto ai bambini di vestir-
si da guerrieri beduini. Nessuno aveva idea di come fosse
un guerriero beduino. Siamo andati a vederci i film della
Disney. Aladdin.
– Questo Islam sarà anche un ritorno alla tradizione, – di-
ce, – ma alla tradizione di altri.

Comunque gli analisti, in tutto questo, concordano: e


non pensano che qui esista un particolare rischio di attenta-
ti contro i turisti occidentali. Nel giugno del , è vero,
su Youtube è apparso un video di avvertimento del gruppo
che sta in Siria, Bilad al-Sham, ma secondo gli analisti, il ri-
schio qui è lo stesso rischio che ormai esiste ovunque: niente
di piú, dicono. Anzi. Secondo Azra Naseem, che è di Male,
ma ora insegna all’università di Dublino, ed è una speciali-
sta di jihadisti, gli islamisti non hanno alcun interesse a im-
padronirsi del potere. Attraverso l’Adhaalath Party sono già
nell’alleanza di governo: ed è molto meglio avere influenza
che potere. Responsabilità. Una volta al governo, gli islami-
sti hanno sempre fallito.
Ha molto piú senso cosí, secondo Azra Naseem.
Hanno un consenso sempre piú ampio. Perché forzare
le cose?
Che è piú o meno quello che mi ha detto uno dei jihadi-
sti. Perché forzare le cose?
«Yameen lavora per noi».
Tra l’altro, alle Maldive non circolano armi. Armi da
fuoco. Solo coltelli. In Medio Oriente, invece, ogni città ha
un mercato delle armi. Nel senso proprio di un mercato. Si
vendono cosí: per strada. In mezzo alle arance e alle mele.
E non solo fucili, pistole: al mercato delle armi di Baghdad,
trovi tutto, ti dicono con orgoglio. Tranne un aereo.
Poi magari, non avessero armi, si prenderebbero a testate.

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 Ma quale paradiso?

Ma diciamo che avere tutti un kalashnikov in casa non


semplifica le cose.
Qui invece, hai solo coltelli, fortunatamente.
E per strada, tutti questi ragazzini che ti ricordano un
po’ Napoli. Una certa Napoli: le paranze. Con i motorini,
le Nike, i Ray-Ban, tutti griffati, e quest’aria annoiata, uno
viene strattonato, a un certo punto, spinto a terra: gli spen-
gono una sigaretta addosso e tutti, intorno, che guardano il
telefono. Fingono di non essere lí.
Attentissimi. Ma pronti a giurare, se interrogati, di non
essersi accorti di niente.
Si riuniscono intorno a un caffè, o a un campo da calcio,
a una sala giochi. Sul muro, il logo della gang. Di quello che
per loro è semplicemente il gruppo: come le Young Eagles,
con quest’aquila nera, e poi, in rosso, «Greed, Pride and An-
ger». Rabbia e orgoglio e avidità.
Come a dire: Vogliamo tutto.
Oppure solo: Bosnia. Con le spalle a un palo, una lattina
di Red Bull in mano: e già te li immagini al fronte, in Siria,
con quest’aria spaccona, carichi di adrenalina, tutti elettri-
ci all’idea di partire, qui, e anche di parlare, la prima vol-
ta nella vita che una giornalista viene a cercarli, non sono
nessuno, e ora invece all’improvviso hanno un’identità, un
ruolo, hanno un senso: ora sono dei jihadisti: ora abbiamo
tutti paura di loro: tutto il mondo, con il loro coltellino, i
loro cinque centimetri di lama, e li guardo, per strada, e già
me li immagino, al fronte come carne da cannone, loro co-
me tutti, mentre ti giurano: No che non ho paura. E cosa
mai ne sai, della Siria? della guerra? tu che ora mi guardi,
ragazzo, e con quell’aria di sfida: non tornerai, non torne-
rai mai dalla Siria, né vivo né morto: e non importa perché
stai andando, se stai andando per le mie stesse ragioni, o
per l’Islam, per la giustizia, per un amore finito male, non
tornerai mai, mai, ma quale paradiso?, ti sognerai Aleppo
fino all’ultimo dei tuoi giorni, ragazzo, e vedrai una ferocia
che non avrai mai visto, e sarai solo, solo, altro che fratelli,

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Male, di nuovo 

sarai solo, in Siria, solo per sempre. Ognuno pensa a sé, in


Siria e ovunque, è la prima cosa che imparerai, l’unica: che
non puoi fidarti di nessuno, che ti tradiranno tutti, è que-
sta la Siria, questa la guerra, e odierai tutto: tutto. Tutto.
Salvati, ragazzo. Salvati.
– Ehi… Ehi, scusa.
Un ragazzo mi chiama.
– No, guarda. Ma quale Siria? È persa. È persa, hai ca-
pito? È persa!
– Che?
– Che cazzo vai in Siria? Ma stai di fuori? Ma che pen-
si, che vinci la guerra con un coltello? Ma che è? la rapina
al tabaccaio? Assad ha gli aerei! Assad ha i gas! Ma l’hai vi-
sto, Putin?
– Putin?
– Ma che cazzo vai in Siria?
– In Siria? E chi ci vuole andare?
– Come non vuoi andare in Siria.
– E che sono scemo?
Lo guardo.
Ha con sé un cappello.
– Mi avevi chiesto un cappello. Eccolo.
Ha con sé un cappello di foglie di palma.
Ma proprio di foglie di palma.
– Grazie, – dico. – Scusa, io… Grazie. Ma è veramente
di foglie di palma.
Grazie.
Mi rigiro il cappello tra le mani. È un cappello a falde.
Verde. Verde brillante.
A volte verde un po’ piú chiaro.
Ma non è tanto il colore. Profuma.
Profuma tipo di un bosco, d’estate. Dopo la pioggia.
Di quell’aria, di quei giorni lí. Di quando il meglio non
è ancora già venuto.
O forse, sai solo ancora tenerlo dentro di te.
– Grazie, – dico.

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 Ma quale paradiso?

– Però, senti… – dico. Alla fine non è che questo cappel-


lo sia cosí tradizionale.
– Come no, – dice.
– Nessuno sa cosa sia. E comunque nessuno sa piú fab-
bricarlo.
– Ma è uguale alla foto che avevi.
– Appunto. Quello era di un tipo in Guatemala, – dico.
O in Honduras, cosa diavolo era.
Mi guarda.
– Senti, compro un’altra cosa, magari. Compro… Com-
pro tutte le conchiglie che hai. Mi dispiace. Sei stato cosí
gentile. Ma io volevo un cappello vero.
– Piú vero di questo.
– Ma non lo usa nessuno.
– La tradizione, qui, è che il cliente ha sempre ragione.
– Intendevo un altro genere di tradizione.
Mi guarda.
Dice: – Ma tu sai che quello che cerchi, in realtà non è
un cappello, vero?
– Tu per prima… – dice. – Mica sei tu.
Lo guardo.
– Siamo quello che gli altri vedono, – dice. – Quello che
gli altri dicono. Sono gli altri a crearci. E pretendi che questo
cappello sia un cappello? Questo cappello sei tu.
– Io?
– Certo.
– Ma io mica sono un cappello.
– Tu sei te stessa?
– Ma di sicuro non sono un cappello.
– Ma l’hai visto? – dice. Prende il cappello. – Guarda, – di-
ce. – Questo ora è verde, ma tra un mese è giallo. E tra sei
mesi è polvere. Si disfa.
– Oddio. Tra un mese devo cercarne un altro? Tutto da
capo?
– Un oggetto, qualsiasi oggetto, piú che un oggetto è una
storia, no? Una storia che conosci solo tu. Che è solo tua. Per

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Male, di nuovo 

altri quello stesso oggetto ha un altro significato. O magari


nessun significato. Chissà per il tuo amico cosa sarà questo
cappello. Forse niente.
– Niente?
– O magari sarà piú di un cappello.
– Ma un cappello e basta, qui, non c’è?
– E come potrebbe esserci? – dice. – Non esiste un signi-
ficato comune. Non esiste una tradizione. Da nessuna par-
te. Esistiamo noi: quello che siamo ora. In questo momento.
Tutto qui. Siamo quello che decidiamo di essere.
– Ma non eravamo quello che decidono gli altri?
Mi guarda.
– Siamo quello che siamo adesso. Tra sei mesi è polvere.
– Piú che un cappello, – dico, – una filosofia.
–  dollari, grazie.
Infila il cappello in una busta.
– Tra un mese, – dice, – se vuoi, sai dove mi trovi.
– E mi raccomando, – dice, – va innaffiato ogni mattina.
Che a questo punto mi sembra la cosa piú normale di
questo paese.

Anche se non è che sia necessario, onestamente: diluvia


da giorni. Acqua ovunque.
Non c’è verso di rimanere asciutti.
Male con i monsoni è impraticabile. Completamente
allagata. E comunque la pioggia è cosí forte, cosí implaca-
bile che l’unica è stare al chiuso. Ma al chiuso dove, qui?
In dieci in due stanze, sotto un soffitto marcio? Ho girato
per ore in cerca della casa di Riley, la ragazza con il suocero
malato e i due figli piccoli, e la cucina con tutte le chitarre
e i tamburi. Avevo promesso di tornare per un caffè, per
un po’ d’ossigeno, ma tra le auto, il buio, il fango fino alle
caviglie, non si capisce piú niente, a Male. Mi sono infilata
nel palazzo sbagliato. Nell’unica vera casa, tra l’altro, in
cui sono entrata finora. Erano in sei, una coppia con quat-
tro figli. Avevano quest’ampio open space con soggiorno

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 Ma quale paradiso?

e cucina, un soggiorno vero, con le librerie, i divani, un


tavolino basso in vetro, e una cucina tipo quelle dei film,
con l’angolo bar.
Tutti i colori perfettamente abbinati. Un tappeto per-
siano.
Era la casa di un deputato.
Riley mi aveva detto: subito dopo il parco. E però per
parco intendeva il cimitero, intendeva uno spiazzo d’erba con
delle lapidi: e quindi ho tirato dritto. E ho girato per ore, e
ore, con tutti che mi dicevano: Ma sí, il parco. Lí in fondo.
Alla fine comunque l’ho trovata. E però Riley mi sembra
cosí diversa, stasera. O forse sono io che sono cosí stanca.
E poi c’è questa giornalista che continua a telefonarmi, una
giornalista che è qui per una rivista di viaggi, per un servizio
su un resort: le ho detto che io invece ero qui per i jihadisti,
e mi ha chiesto se era possibile incontrarne uno. E ora mi
chiama dieci volte al giorno.
«Sarebbe veramente figo», dice.
Anche se non si era manco accorta di essere in un paese
musulmano.
E ora sta qui, dieci volte al giorno, a dirmi: «Un jihadi-
sta. Sarebbe veramente figo».
E quindi forse sono io, ma Riley mi sembra cosí diver-
sa, stasera.
– Il problema qui è l’Islam, – dice. – Ma certo che è l’I-
slam. E hai anche dei dubbi? Ti sembra normale che per qual-
siasi cosa, stiamo qui a domandarci cosa dice in proposito il
Corano? Che poi è cosí vago, ma l’hai mai letto?, il Corano
dice: Dio ti osserva! Attento, dice solo questo, alla fine, è cosí
vago, che puoi interpretarlo come ti pare: a Maometto puoi
fargli dire quello che ti pare, – dice. – E allora, – dice, – non
possiamo discutere e basta? E lasciare perdere questo Corano?
Ma ti sembra normale parlare tutto il tempo di Islam? Tutti
quanti? – dice. – Tutto il mondo? Perché la cosa piú insen-
sata, – dice, – è che in piú è un finto Islam. È tutta apparen-
za: se paghi, qui, tutto è permesso. Ma poi tutti giudicano

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Male, di nuovo 

tutti. Accompagno mia figlia all’asilo, e ogni santo giorno, le


altre madri mi dicono che dovrei avere l’hijab. Ma vogliamo
parlare d’altro? Vogliamo parlare degli stipendi, degli ospe-
dali, delle pensioni? O anche: vogliamo parlare di un libro?
Di un disco? O vogliamo sprecare cosí la nostra unica vita?
Certo che il problema, qui, è l’Islam. E hai anche dei dub-
bi? – dice. – Fossero almeno coerenti, – dice. – E invece è
tutta apparenza –. Lavorava in un resort: ed era una molestia
continua. Ha finito per licenziarsi. – Perché qui se non sei
sposata, è come se fossi di tutti. A disposizione, – dice. – Ti
rispettano solo se sei sposata. E cioè non perché rispettano te:
ma perché rispettano l’uomo che hai accanto, che altrimen-
ti gli spacca una bottiglia in testa, – dice, e sembra il ritrat-
to dell’emancipazione, cosí: e del coraggio. Testardamente
laica. Sola contro tutti. E invece anche questa è apparenza.
O forse è Male: qui non si capisce piú niente. Perché poi in
realtà è suo marito a volere che stia in casa a occuparsi di fi-
gli e suocero. Lei no. Lei ha studiato. Ha sempre lavorato.
Ha sempre avuto mille amici.
E ora invece no. Ora sta qui tutto il giorno. Tutto il gior-
no con figli e suocero.
– È tutto cosí triste, – dice. – Cosí vuoto.
E però dice solo: – Lo amo.
Ma forse è Male. Che è sempre cosí diversa.
Che sfugge a ogni classificazione.
O se non altro alle nostre.
Perché raggiungo Ahmed Nazeer, poi. Che ha  anni e
i Ray-Ban a goccia, i capelli da musicista reggae: è un altro
degli attivisti piú noti delle Maldive. Scriveva per «Mini-
van News». La sua scrivania era accanto a quella di Rilwan.
Ora si sta specializzando in diritto internazionale. Ma è an-
che il miglior amico di Ali. Uno dei ragazzi in partenza per
la Siria: il primo che ho incontrato. Si conoscono da sem-
pre, sono molto legati. Parlano spesso di Siria. Eppure, non
sta provando a fermarlo. – Non posso giudicare la sua scel-
ta, – dice. – Per me, semplicemente, è una battaglia persa.

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 Ma quale paradiso?

Con questo califfo, tra l’altro, che si è autonominato, e che,


a differenza di Maometto, che stava al fronte insieme a tut-
ti gli altri, che combatteva, sta nascosto. Al sicuro. Non ha
senso. Non hanno alcuna possibilità di vincere, – dice. Cioè.
Non dice che è una guerra sbagliata in sé: ma che è una guer-
ra sbagliata solo perché è destinata alla sconfitta.
E quindi, in realtà: dice che è una guerra giusta.
Persino uno come Ahmed Nazeer. E non è il solo, qui, a
pensarla cosí. – Tutti si chiedono perché i jihadisti non siano
bloccati in aeroporto, – dice. – Ma il governo un po’ evita lo
scontro, un po’ in realtà condivide certe idee. Come tutti,
d’altra parte. Perché magari ti dicono che quel jihadista era
un alcolizzato, che quell’altro era orfano. O disoccupato. Ma
nessuno, qui, contesta l’ideologia di fondo, – dice. – Nessuno
ha voglia di accettare questo mondo. Questa vita.
– La verità, – dice, – è che non fermerai mai i jihadisti,
se non hai un’alternativa da offrirgli.
Sta cercando un PhD in Europa. In realtà, è bravo, e si
vede: è uno con un’intelligenza fuori dal comune. Qui trove-
rebbe lavoro subito. Ma è laureato in giurisprudenza, e non ha
intenzione di diventare un giudice o un avvocato: di diventare
parte del sistema. – Ho scelto giurisprudenza per imparare a
difendere i diritti umani, – dice, – non per imparare a violarli.
E poi comunque qui non puoi studiare, – dice. – Letteralmen-
te. I turisti hanno a disposizione intere isole, e noi invece non
abbiamo mezzo metro quadro di silenzio per concentrarci su
un libro. Poi ogni tanto ti sbarcano in ciabatte davanti casa, e
fotografano la tua miseria chiamandola folklore.
– Ma guarda dove stiamo, – dice.
Stiamo sulla spiaggia di Male.
Che è una spiaggia artificiale. Avvelenata, tra l’altro,
dagli scarichi dell’ospedale. – Non ci è rimasto neppure il
mare, – dice. – Che alternativa abbiamo? Tutto è meglio di
questa vita. Se puoi permettertelo, ti paghi l’università all’e-
stero. Altrimenti vai in Siria.

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Thilafushi

Poi una mattina.


Questa musica di pianoforte, all’improvviso.
Pianoforte solo.
Alla radio, al porto: mentre entro, tra queste sedie di pla-
stica e salsedine, e queste donne in nero, fino alle caviglie, e
gli uomini, alcuni in tunica altri no, ma tutti comunque con
questa loro lingua che non somiglia a nessuna delle lingue che
conosco, e questa pelle nocciola, uno legge il Corano, le don-
ne da una parte gli uomini dall’altra. E questo invece è Satie.
Erik Satie.
La Gymnopédie numero .
Potrei suonarla a memoria ancora adesso, e penso so-
lo – all’improvviso, penso solo: come sono finita qui?
Quando sono arrivata in Medio Oriente, dieci anni fa,
piú o meno, appena laureata, avevamo tutti paura di Ha-
mas, oggi intervisti un assessore di Hamas e parli di tasse,
di elettricità, di banda larga e incentivi alle imprese: oggi
firmi il tuo libro a uno di al-Qaeda. Come sono finita qui? in
mezzo a questa musica, ora, che risuona di tutto un mondo,
del mio mondo prima di questo, prima del Medio Oriente,
dell’Undici settembre, prima della Siria e dell’Iraq: il mon-
do prima del mondo, quando studiavo pianoforte, e leggevo
Philip Roth e giravo in vespa, e la notte le città avevano le
luci accese, perché nessuno bombardava, avevano le libre-
rie, avevano i cinema. Potevi vestirti come volevi, incon-
trare chi volevi, dire cosa volevi, e ora perché sono qui? A
parlare solo di Islam, di Islam, di Islam, con gli uni e con

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 Ma quale paradiso?

gli altri: con chi attacca e con chi si difende, e i ruoli si in-
vertono, si invertono di continuo, e tu qui, stretta tra due
ossessioni, tra due sottomissioni, perché poi in realtà vo-
gliono tutti certezze, certezze e nient’altro, mentre sei qui
a provare a spiegare i jihadisti, a capire le loro ragioni, tu
che poi in Siria, però, e ovunque, vivi guardandoti le spal-
le, e anche qui, a spiegare i jihadisti camminando rasente
ai muri: e che senso ha? Ma d’altra parte, anche in Europa:
con i musulmani, tutti i musulmani, senza distinzioni, che
ormai sono i neri, sono gli ebrei di questo secolo, e sembra
che non abbiano una qualità, una cosa positiva, una cosa
bella, una cosa da cui imparare, niente: sembra che siano
un problema e basta, in questa Europa in cui provi a spie-
gare i jihadisti, e sei anche tu un terrorista. E ti è vietato
anche solo scrivere «Stato islamico», perché significa rico-
noscerlo, ti dicono, e legittimarlo: significa accettarlo – esat-
tamente come gli islamisti, che sono settant’anni, e anco-
ra stanno qui a parlarti di «entità sionista»: sono convinti
che sia sufficiente non nominare Israele perché un giorno
scompaia. Uguali.
Uguali e contrari. E tu in mezzo.
In questo mondo che non è mai il tuo.

Come siamo finiti qui?

E poi un po’ anche mi imbarazza, stare qui all’imbarco


per Thilafushi. Perché Thilafushi è un’isola artificiale: è la
discarica delle Maldive. Non è di sabbia. Il suolo è spazza-
tura. E però secondo la Lonely Planet, è da non perdere. E
quindi sono qui, ad aspettare il traghetto seduta sulla mia
sedia di plastica sbiadita: e il resto sono tutti uomini, uo-
mini consumati di lavoro, con una maglietta e le finte Nike
e quelle mani degli operai da cui il nero non va piú via, lo
sguardo incolore di chi domani sarà qui come oggi, e anche
dopodomani, e anche dopo dopodomani: e questa è tutta la
sua vita. Hanno con sé cavi di rame, batterie d’auto, sacchi

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Thilafushi 

di cemento. Secchi di vernice. Ma per la Lonely Planet, tut-


to questo è un’attrazione turistica. Tipo, no?, quelli che si
scattano il selfie a Scampia, alle Vele, quelli che dormono
al cimitero abitato del Cairo, o a Hebron prenotano il tour
delle case demolite, quelli che in Libano girano per i campi
profughi: dicendo a se stessi, naturalmente, che è il solo mo-
do per conoscere davvero un paese.
Perché queste, no?, sono le vere Maldive.
Thilafushi è  chilometri a ovest di Male, è una striscia,
sottile: è lunga , chilometri e larga  metri. Aumenta di
un metro quadro al giorno: ogni giorno di  tonnellate di
rifiuti. Le Maldive non hanno un inceneritore. Costa troppo.
Costa intorno ai  milioni di dollari: quanto dieci nuove
stanze in un resort.
E quelle  tonnellate, tra l’altro, sono prodotte preva-
lentemente dai turisti. Ognuno produce , chili di rifiuti al
giorno:  volte piú di un maldiviano.
In realtà, tutto è iniziato da Thilafushi. Alcuni mesi fa,
mi sono imbattuta per caso in alcune foto di Francesco Zizo-
la. E in una c’era questa bambina con i capelli lunghi, neri, e
un vestito rosso, su uno scivolo giallo: in un campo incolto,
scalza, su questo vecchio scivolo, contro un tramonto magni-
fico. Pensavo fosse una sfollata. E poi invece ho letto la di-
dascalia: le Maldive. E poi c’era un’altra foto, subito dopo.
Un uomo, dentro un fumo scuro, come un pompiere, su una
cosa come crollata. Thilafushi. E poi, ancora, un ragazzo, con
la camicia a righe. Un cadavere. Nell’acqua. In quest’acqua
trasparente. E mi sono detta: le Maldive?
E però poi mi sono detta: in effetti, cosa so delle Maldive?
Non so neppure dove sono.
E allora ho cercato un po’ su Google: ho trovato un pez-
zo di Jason Burke, del «Guardian», uno dei massimi esper-
ti di al-Qaeda. E raccontava dei jihadisti delle Maldive. E
mi sono detta: le Maldive? Perché in realtà, diciamo sempre
che i foreign fighters arrivano da tutto il mondo. Ed è vero.
Però: da quale mondo?

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 Ma quale paradiso?

Vieni da Roma, sí. Ma vieni da Trastevere o da Tor Bel-


la Monaca?
Che sono quelle cose che non è che puoi scriverle, tanto
sono scontate: ma è cosí che finisce un giorno che vieni dalle
Filippine, e però sei filippino non di nascita ma di mestiere.
Filippino di destino.
Thilafushi oggi è anche la zona industriale delle Maldive.
Ha un cementificio, dei cantieri navali, uno stabilimento per
imbottigliare il gas in bombole, e una serie di piccole officine
meccaniche e laboratori per la lavorazione del legno e dell’al-
luminio. Sono tutti operai, qui. Non c’è l’asfalto, per terra,
e neppure la sabbia: solo questo fango chiaro che è un po’ di
tutto, è terra, è sabbia, è acqua, è cemento, intriso di stracci,
di pezzi di cartone, pezzi di plastica, pezzi di ferro, a tratti
un po’ d’erba, nell’aria densa di diossina. Sembra Taranto.
Sembra l’Ilva di Taranto. Respiri cancro.
Con questi capannoni in amianto, i vetri logori nei telai di
ruggine. E lungo le strade, vecchie auto, vecchi furgoni, scafi
di pescherecci, vecchie betoniere: invece delle marce, accanto
al sedile del guidatore, un cespuglio con dei fiori gialli. E gli
operai dormono qui. Abitano qui: nel retro delle officine. O
nelle barche. Nelle barche che riparano. Sono aperte, le ca-
bine smontate: dentro vedi il bucato steso ad asciugare. Poi
hanno tutti gli stivali da infortunistica, il caschetto e la polo
con il logo dell’impresa, ti sembrano tutti operai normali, as-
sunti nel rispetto della legge: ma solo perché i padroni hanno
bisogno di uomini forti e sani. Ti pagano il caschetto. Ti pa-
gano i guanti, dovessi tagliarti e stare fermo una settimana.
Ma per il resto puoi vivere cosí, in spiaggia. Senza neppure
un rubinetto per la doccia.
Tanto c’è il mare.
L’unica cosa che viene protetta, qui, è la loro capacità
di lavorare.
Sono tutti operai: e sono tutti del Bangladesh. Molti non
parlano inglese, né parlano dhivehi: non sono mai andati nep-
pure a Male. E stanno qui da anni. Per anni. Ogni giorno

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Thilafushi 

uguale all’altro. Ma non solo trovano tutto questo normale:


si sentono fortunati. Perché a Thilafushi praticamente non
hanno spese, e quindi inviano alle famiglie tutti i  dolla-
ri di stipendio. Non è da qui che arrivano i jihadisti, dai piú
poveri dei poveri, che come sempre, nella storia, sono trop-
po poveri, troppo impegnati a sopravvivere per battersi per
una vita migliore: o anche solo per immaginarla. No. Non
solo non c’è indignazione né frustrazione, qui. Non c’è ras-
segnazione. Non c’è un senso di sconfitta, perché non c’è un
senso della battaglia.
Anzi. Ti offrono il tè, allegri, ti spiegano come si control-
la che un timone funzioni.
Perché questa è la vita, punto.
Anche se a stento si respira.
– Un po’ è dura, – mi dice un ragazzo con la polo blu.
Sta sagomando delle assi che un altro ragazzo svernicia, e
gli passa, nell’aria di sale e acquaragia. Ha  anni, e calcola
di tornare in Bangladesh tra quindici anni, piú o meno, e di
comprarsi una casa. – Una casa bellissima, – dice. – Come
sarà? – dico. – Avrà tre stanze, – dice. – Avrà tutto. Avrà il
frigorifero, – dice, – avrà il forno.
– Avrà le finestre, – dice.
E mi sorride, e ricomincia a piallare.
Non sa che tra quindici anni sarà morto.
Che poi in realtà è un po’ la storia di tutte le Maldive.
Perché le Maldive sono a filo d’acqua. Il punto piú alto è a
, metri sul livello del mare: sono il paese piú basso al mon-
do. Un metro e mezzo, in media. E secondo le previsioni
dell’Onu, secondo le previsioni minime, il mare entro la fi-
ne di questo secolo salirà di  centimetri.
Sommergendo tutto, qui.
A causa di un cambiamento climatico causato dagli altri.
Con i ricavi del turismo, il governo sta valutando di com-
prare terra in Australia. Perché alla fine di tutto questo,
semplicemente, saranno tutti costretti a trasferirsi altrove.
I laici e gli islamisti. Yameen e i suoi nemici.

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 Ma quale paradiso?

Chi ha rubato e chi ha subito.


Alla fine, qui tutti avranno perso tutto.
Mentre già adesso, a stento si respira. A poche decine di
metri da fabbriche e cantieri, Thilafushi si dissolve. Letteral-
mente. Si dissolve: all’improvviso, si fa tutto bianco. Bianco
e acido. I rifiuti vengono bruciati, cataste e cataste: in un’aria
cosí tossica che nonostante quintali di avanzi di ogni tipo, non
c’è un gatto randagio. Non c’è un gabbiano. Un cane, un topo.
Niente. Solo questi operai in motorino, in furgoncino, in bi-
cicletta, che si infilano nella nebbia e svaniscono, fischiettan-
do, tre, quattro, allegri, con la tuta rossa e il caschetto giallo.
Anche se il rischio, qui, non è certo che ti cada un mattone in
testa. Uno si gira, mi saluta. Mi fa il segno della vittoria, dal
suo furgoncino, mentre dietro, tutto brucia, come un jihadi-
sta una volta, dentro la moschea vecchia di Aleppo, dentro ai
suoi resti: con quella stessa espressione, in mezzo alle macerie.
Tutto a terra, in pezzi. I cecchini alle sue spalle.
E lui lí, che sorrideva.
Con questa stessa espressione.
Dopo mezz’ora, inizi a sentirti male. Ad avere il fiato
corto.
Mi si affianca un fuoristrada grigio metallizzato. Sono
gli addetti della Thilafushi Corporation, la società che gesti-
sce l’isola. Pattugliano i cantieri. Come ronde: sorvegliano
gli operai. – Che fai qui? – mi dice uno dei due. Mostro la
Lonely Planet.
L’altro, che non parla inglese, gli chiede: – Al-Jazeera?
– No, – gli dice. – Una turista.
Tossisco.
– Di dove sei? – dice. – Italia, – dico. – Vai al mare, – dice.
– Ma che fai qui? Con quanto ti costano le Maldive, – di-
ce, – vieni a Thilafushi? E poi qui non è adatto alle femmine.
Qui non è adatto a nessuno, in realtà.
Sputo sangue.
Ogni venti, trenta minuti, ti passa in testa un idrovolante.
E a me viene sempre in mente Bauman. Zygmunt Bauman.

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Thilafushi 

Tutti i suoi libri sulla globalizzazione. Sugli imprenditori, gli


operai. Su come dipendevano gli uni dagli altri, un tempo,
perché condividevano un paese, un territorio: e quindi gli
imprenditori avevano potere, sí, molto piú potere, ma non
un potere assoluto, perché avevano comunque bisogno degli
operai, alla fine, e di operai capaci non solo di produrre, ma
anche di comprare quello che producevano. E adesso invece
no. Adesso il capitale è libero di spostarsi: le fabbriche, di
trasferirsi. Di imporre le proprie condizioni.
Perché imprenditori e operai non vivono piú nello stesso
spazio. Nello stesso mondo.
E mentre qui giú ci si azzuffa sull’Illy e il Lavazza, l’ac-
qua sale.
L’acqua sale. Sale e basta.
Mentre loro ti passano sulla testa, a caccia di nuove isole.
Che importa se queste affondano?
Non c’è niente, a Thilafushi. Solo un piccolo spaccio di
alimentari. Di aranciata e patatine. I pochi che hanno una ca-
sa, invece che una stuoia in cantiere, abitano tra i rottami, in
stanze minuscole e senza finestre, i muri che sono una ragna-
tela di crepe. La cucina è un fornello da campeggio, un paio
di piatti di plastica. Una vecchia brocca. Lavori e basta, qui.
Qui ti ammali e basta.
– Ma la sera, – chiedo a un ragazzo, – quando finite, cosa
si fa, qui? Dove ci si incontra?
Mi indica un piccolo edificio basso, chiaro, in una mac-
chia d’alberi. Un caffè. Con un tetto di tegole rosse, all’in-
gresso delle pile di cuscini.
Mi avvicino per comprare un po’ d’acqua.
Non è un caffè, è una moschea.

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Nota al testo.
Mi era ormai abbastanza chiaro che alle Maldive la libertà di espres-
sione non fosse un principio particolarmente tutelato. Ma quando il re-
portage che poi è diventato questo libro è stato pubblicato, prima in
italiano da «Internazionale», e poi in varie altre lingue, incluso l’ingle-
se, la reazione a Male è stata feroce, come era stata feroce quella contro
al-Jazeera: secondo tanti lettori, la nostra non era che una cospirazione
straniera per demolire il turismo, l’economia, e rovesciare il governo.
L’obiettivo, in realtà, era cambiare le Maldive. Occidentalizzarle. Era
tutta una crociata. Ma piú che le minacce, piú che le intimidazioni, one-
stamente, mi hanno colpito i messaggi che mi sono arrivati in privato.
Molti iniziavano cosí: «Sei musulmana?» E a un certo punto ho prova-
to, e ho detto: «Sí». «Scusa», mi sono sentita rispondere, «ma allora ho
frainteso. Allora sei dei nostri».
Non mi era mai capitato, in tanti anni di Medio Oriente.
Ma soprattutto, per settimane, è stata caccia aperta a chiunque mi
avesse parlato. O anche solo incontrato. Chiunque mi avesse aiutato. Ero
tranquilla in Europa a scrivere il mio libro, lontana, al sicuro: mentre tutti
quelli che l’avevano reso possibile invece erano lí terrorizzati. Ho visto tan-
to nella mia vita: sono una corrispondente di guerra. Eppure sono stati tra
i miei giorni piú duri. Perché poi per quanto, ovviamente, avessi cambiato
nomi, omesso dettagli, le Maldive sono un paese cosí piccolo: tutti cono-
scono tutti. E in piú, sono un paese in cui ti è difficile capire chi proteggere
da chi. Perché non è questione di essere con o contro i jihadisti: qualsiasi
cosa dici, in un paese cosí, qualcuno è pronto ad attaccarti.
E non nel senso di criticarti.
Nel senso proprio di aggredirti.
Naturalmente, sia detto per inciso, alcuni adesso potrebbero pensare
che questo non sia il momento migliore per un viaggio alle Maldive. In
realtà, in questo libro ho provato semplicemente a capire le ragioni per
cui un paese ha un alto numero di jihadisti: è un’analisi molto diversa da
quella delle ragioni per cui un paese finisce nel mirino dei jihadisti.

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 Nota al testo

Comunque, nel libro ho modificato non solo i nomi, ma ogni minimo


particolare che potesse consentire l’identificazione dei personaggi a rischio.
Alcuni, gli attivisti per esempio, parlano con il proprio nome e cognome:
ma perché si sono già esposti. Non dicono niente che non abbiano già det-
to pubblicamente. E cosí anche alcuni personaggi che chiamo con il solo
nome, o soprannome, ma la cui storia è nota. Kinan, per esempio. Tutti gli
altri, però, sono assolutamente e volutamente non riconoscibili. In un caso,
non ho avuto altra scelta che spostarli da un’isola a un’altra.
Questo non significa, è evidente, che il libro sia meno vero. Il nostro
mestiere, in fondo, sarebbe semplice se per raccontare il mondo fosse suf-
ficiente girare con un registratore acceso. Restituire la realtà di quello che
si vede e si ascolta è un’operazione molto piú complessa di quanto in ge-
nere si immagina. Quello che ha piú condizionato il mio lavoro, sincera-
mente, è un vincolo a monte, che per chi legge è difficile percepire: molti
non sapevano che ero lí per scrivere un libro. O l’hanno saputo alla fine.
Qualcuno mi avrebbe detto di meno, qualcuno mi avrebbe detto di piú.
Ma non avevo alternative.
Sarei stata controllata passo passo.
E per questo è stata una fortuna che mentre ero alle Maldive, tra lu-
glio e agosto , fossero lí, per caso, anche i giornalisti di al-Jazeera.
Molte delle notizie di cronaca, soprattutto cronaca giudiziaria, vengono
dalla loro inchiesta, e dalle inchieste di «Minivan News», il cui archi-
vio è tutto online. Per cifre e statistiche, invece, oltre alle fonti citate,
ho usato i report periodici dell’Onu e delle sue agenzie, e gli studi di
Aishaat Ali Naaz, la psicologa di Male. Ho usato molto anche il libro
The Maldives. Islamic Republic, Tropical Autocracy di JJ Robinson, l’au-
straliano che si è ritrovato con il machete conficcato nella porta. E natu-
ralmente, la Lonely Planet.
Con al-Jazeera, e con «Minivan News», abbiamo lavorato a storie di-
verse, ma abbiamo finito per rinforzarci reciprocamente. Perché il giorna-
lismo per me non è un’avventura individuale. Insieme, siamo piú completi.
E cioè piú veri. Il giornalismo per me è un’impresa collettiva, e soprattut-
to, un’impresa che si basa sui cronisti locali. E sul loro coraggio. Grazie
quindi a tutti gli straordinari giornalisti delle Maldive senza cui non avrei
mai scritto questo libro. E grazie a uno su tutti: Rilwan.
Questo libro avrebbe dovuto essere il suo.
Grazie ai giornalisti siriani, che intanto resistevano. E grazie a Jan
Egeland, mediatore dell’Onu, che intanto tentava il possibile. Da quando
è stato nominato, con la delega agli aiuti umanitari, gli aiuti umanitari han-
no infine iniziato a essere distribuiti: grazie perché mi ricorda ogni giorno
che ognuno di noi, nel suo piccolo, può fare la differenza.
Grazie a Concita De Gregorio, che mi ricorda che fuori, nonostante
tutto, è primavera.

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Nota al testo 

Grazie a Francesco Zizola, per l’idea. E a Yuri Kozyrev, per l’esempio.


Grazie a Emanuele Arciuli e Ludovico Einaudi, sulla cui musica ho
scritto queste pagine.
E a israeliani e palestinesi. Sempre.
E grazie a Roberto Saviano, naturalmente.
F.B.
 marzo .

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Stampato per conto della Casa editrice Einaudi
presso ELCOGRAF S.p.A. - Stabilimento di Cles (Tn)
nel mese di maggio 

C.L. 
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          

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