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Ānanda K.

Coomaraswamy

La Dottrina Del Sacrificio

LUNI EDITRICE
IN COPERTINA: ŚIVA NATARAJA, INDIA DEL SUD, BRONZO, XI SECOLO.
ARCHIVIO LUNI EDITRICE.
Questa raccolta comprende una serie di saggi scritti da Ānanda Kentish
Coomaraswamy negli anni ’30 e ’40, pubblicati allora su diverse riviste e
ormai quasi introvabili. Gérard Leconte, il curatore di questa raccolta di
saggi, intende così divulgare una parte forse meno nota della vastissima
opera dell’autore anglo-indiano, famoso soprattutto per i suoi studi
sull’arte, mentre i suoi saggi sulla metafisica e il simbolismo sono rimasti
accessibili solo a un pubblico più ristretto.
I testi qui pubblicati si riferiscono a uno stesso tema fondamentale nelle
sue diverse varianti e sono raggruppati in quattro sezioni: le prime due
comprendono alcuni saggi che si basano sulla tradizione vedica e quella
arturiana, mentre gli articoli delle due parti successive riprendono l’argo-
mento in forma più generale.
Analizzando un simbolo che compare in tutte le tradizioni antiche - il tema
del Sacrificio primordiale che dà origine al mondo manifestato - Cooma-
raswamy ne approfondisce le variazioni principali. L’Autore inizia natu-
ralmente dalla tradizione vedica, in cui spiega ognuno dei simboli ricon-
ducibili a questo tema (i Deva, gli Asura, gli eroi, i Serpenti, il Sole, l’Au-
rora e molti altri) nel suo valore metafisico, per passare in seguito alla
letteratura occidentale, in cui gli stessi elementi entrano a far parte della
mitologia greca, celtica e nordica, trasformandosi nella lotta dell’Eroe con
il Serpente, ovvero il Drago, poi diventata un tema folkloristico o fiabesco
diffuso in tutto il mondo.
Nella parte finale l’Autore mette in luce anche l’altra interpretazione di
questo simbolo fondamentale, che costituisce il nucleo del suo studio: le
gesta dell’Eroe che infine sconfigge il Drago e lo decapita, tramandate
come figure mitico-letterarie, o addirittura come un motivo favolistico,
rappresentano in realtà il concetto ben più profondo e uni versale della
lotta dell'Anima contro l’ego, il sacrificio di se stessi per superare il limite
dell’individuo e ricongiungersi con l’Assoluto. Rappresentano dunque la
Liberazione del Sé dall’io. Grazie a questi saggi possiamo dunque cogliere
il significato autentico di innumerevoli archetipi della nostra cultura figu-
rativa, religiosa e letteraria, recuperandone il senso metafisico originario.
L’operazione forse potrà sembrare ardua, come si intuisce dallo stile
stesso dell’autore che, pur senza concedere nulla alla divulgazione e alle
semplificazioni, è però generoso di spiegazioni e di chiarimenti e ricom-
pensa il lettore a ogni passo con le sue straordinarie intuizioni.
Figlio di padre indù e di madre inglese, Ànanda Kentish Coomaraswamy
nasce a Colombo (Sri Lanka) nel 1877 e muore a Needham, nel Massa-
chusetts, nel 1947. Geologo e mineralogista di vaglia, era anche e
soprattutto uno studioso appassionato del pensiero indiano antico, nonché
delle manifestazioni artistiche del mondo indù. Dal 1916 gli vennero affi-
date importanti responsabilità presso il Museo di Belle Arti di Boston,
responsabilità che sostenne fino alla morte.
Di Coomaraswamy la Luni Editrice ha pubblicato anche: Buddha e la dot-
trina del Buddhismo, Tempo ed eternità e La danza di Siva.
€ 17.00
INTRODUZIONE
Ananda K. Coomaraswamy, che il lettore francese conosce soprat-
tutto per il suo Hindouisme et Bouddhisme1 ha lasciato un’opera con-
siderevole, molto apprezzata in India e nei Paesi di lingua inglese.
Si può notare tuttavia che la sua celebrità è dovuta soprattutto ai
libri sull’arte; i suoi studi sulla metafisica e il simbolismo, basati
principalmente sull’esegesi dei testi hindu, sembrano avere avuto
un pubblico più ristretto. Se questa situazione si spiega in parte con
l’atteggiamento reticente degli orientalisti (in particolare francesi),
disorientati dalla metafisica e rassicurati dalla filologia,2 bisogna cer-
carne una motivazione più generale nel fatto che, tra gli innumere-
voli articoli scritti da Coomaraswamy per diverse riviste indiane o
americane ormai da tempo introvabili, soltanto un numero relati-
vamente ristretto è stato raccolto in qualche volume, di cui tre sono
comunque consacrati all’arte.3 In ordine di pubblicazione, citiamo:
The Transfor- mation of Nature in Art (1943), Figures of Speech or Figures
of Thought (1946), libri che rappresentano una notevolissima trilogia
sull’arte tradizionale occidentale e orientale; The Religious Basis of the
Forms of Indian Society (1946), libretto che contiene tre studi sulla
società indiana antica e attuale; infine, Am I my Brother’s Keeper?
(1947), su certi aspetti dei rapporti tra Oriente e Occidente.
Coomaraswamy avrebbe preparato sicuramente altre raccolte se la
morte, avvenuta nel 1947 poco dopo aver compiuto 70 anni, non
avesse interrotto un lavoro straordinariamente fecondo.
Finora non è stato fatto alcun tentativo per colmare questa lacuna
e aggiornare i testi, e cogliamo l’occasione di questa traduzione per

1 A.K. Coomaraswamy, Induismo e Buddhismo, Rusconi, Milano 1973.


2 Coomaraswamy amava citare questa mirabile frase dell’indianista Arthur
Berriedale Keith: «Una conoscenza che non sia empirica non ha senso, e
non dovrebbe chiamarsi conoscenza».
3 In una bibliografia ancora inedita e che non ha la pretesa di essere esau-

stiva, il Dott. Rama Coomaraswamy ha recensito 627 tra libri e articoli


pubblicati.
tentare di far conoscere una parte poco nota della sua importantis-
sima opera.4
Il primo volume che risponde a questo progetto riprende otto arti-
coli che hanno come tema principale la dottrina del sacrificio. In-
torno a questo cardine si ritrovano gli argomenti spesso affrontati
da Coomaraswamy: i miti vedici, la cosmologia hindu, la distinzione
metafisica del Sé e dell’io, l’esegesi dei simboli, studi che determi-
nano considerazioni sull’interpretazione iconografica e la natura del
folklore.
Abbiamo suddiviso la raccolta in quattro parti. La prima riguarda
in particolare la tradizione vedica, mentre la seconda presenta, quasi
in parallelo, gli stessi temi all’interno della tradizione celtica e della
letteratura arturiana; vengono poi tre studi che riprendono le due
forme sacrificali principali esaminate: la decapitazione e il cambia-
mento di pelle; la raccolta termina infine con uno studio sul senso
interiore del rito sacrificale.
L’IMMAGINE VEDICA DEL SACRIFICIO
Questa prima parte comprende «Angeli e Titani» e «Il volto oscuro
dell’Aurora»; entrambi pubblicati nel 1935, l’uno è il seguito dell’al-
tro5. Basati soprattutto sui dati mitici contenuti nei Veda e nei Brāh-
mana, illustrano la concezione vedica del Sacrificio spiegando l’an-
tagonismo tra le potenze della luce e le potenze delle tenebre. «An-
geli e Titani» mette in scena i princìpi «maschili» della manifesta-
zione, e «Il volto oscuro dell’Aurora» la loro controparte femminile.
Nel primo testo, l’origine della manifestazione è identificata con il
sacrificio primordiale. Come scrive l’Autore in Hindouisme et

4 Segnaliamo tuttavia l’imminente pubblicazione, da parte dell’Università


di Princeton, di Selected Papers: due volumi che comprendono una cin-
quantina di articoli, di cui alcuni inediti. Il primo volume riprende la mag-
gior parte degli articoli che l’Autore aveva riuniti in Figures of Speech or
Figures of Thought.
5 «Angel and Titan», Journal of the American Orientai Society, vol. 55,1935;

«The Darker Side of the Dawn», Smithsonian Miscellaneous Collections, vol.


94, 1935.
Bouddhisme (p. 20):6 «in questo eterno inizio, non esiste che l’Identità
Suprema di ‘Questo Uno’ (tad ekam), senza distinzione tra essere e
non essere, luce e tenebre, o ancora senza separazione tra cielo e
terra. Il Tutto allora è contenuto nel Principio, che si può indicare
con i nomi di Personalità, Antenato, Montagna, Drago, Serpente
senza fine. Collegato a tale Principio come figlio o fratello minore
- come alter ego piuttosto che come principio distinto - compare
l’Uccisore del Drago, nato per soppiantare il Padre e prendere pos-
sesso del Regno, e che ne distribuirà i tesori ai suoi adepti. Infatti,
se deve esistere un mondo, bisogna che la prigione sia distrutta e le
sue potenzialità vengano liberate. Ciò può avvenire sia con la vo-
lontà del Padre, sia contro la sua volontà. Il Padre può “scegliere la
morte in favore dei suoi figli”, oppure gli Dei possono imporgli la
passione e farne la vittima sacrificale. Non si tratta di dottrine con-
traddittorie, ma di modi diversi di esporre una sola e medesima sto-
ria. In realtà, l’Uccisore e il Drago, il sacrificatore e la vittima sono
Uno in spirito dietro le quinte, dove non esistono contrari irriduci-
bili, mentre sono nemici mortali sul palcoscenico in cui si svolge la
guerra perpetua tra gli Dei e i Titani».
Diventato il nome stesso del Sacrificio e il modello archetipico del
sacrificatore, Prajāpati rappresenta l’immolazione volontaria di sé.
Solo, al principio, smembrò se stesso per dare origine all’universo.
Quando il sacrificio è imposto, entra in scena Indra per combattere
il Drago, che si chiama Namuci, Makha o Vŗtra. Smembra allora il
Titano che conteneva in sé le potenzialità nascoste, porta alla luce
il tesoro celato, libera le acque o fa sgorgare la luce. Più spesso,
Indra decapita l’avversario e la testa di quest’ultimo diventa il Sole.
L’articolo successivo, dedicato ai princìpi «femminili», illustra so-
prattutto il simbolismo del cambiamento di pelle. «I Serpenti sono
i Soli»; è cambiando la pelle, perdendo il carattere ofidico che il
principio originale svela la sua natura solare. In altre parole, ciò che
prima era «senza piedi» (apad = serpente) ottiene i piedi, e il cam-
minare è il segno stesso della progressione del principio di

6 Trad. it. cit., p. 20.


manifestazione. Questa trasformazione delle tenebre in luce è na-
turalmente paragonata al passaggio dalla Notte al Giorno, e l’Au-
tore studia quindi i celebri inni vedici dedicati all’Aurora; Ushas,
l’Aurora, perde la sua natura «sinistra» unendosi al Sole, così come
Apala è purificata da Indra per diventare sua sposa.

Nel tradurre questi due articoli abbiamo tenuto conto delle corre-
zioni inedite dell’Autore, e soprattutto delle numerosissime note
manoscritte di cui siamo venuti a conoscenza grazie alla cortesia di
suo figlio, il Dott. Rama P. Coomaraswamy. In questa importante
documentazione siamo stati costretti a fare delle scelte, anche per-
ché spesso si trattava di riferimenti laconici o di citazioni in san-
scrito,7 e le annotazioni erano evidentemente redatte non per una
riedizione immediata di questi articoli, ma «messe sulla carta» in vi-
sta di ricerche e di aggiunte ulteriori - alcune di esse sembrerebbero
essere state all’origine dei due articoli che qui costituiscono la se-
conda parte della raccolta (capitoli III e IV). Per questo, oltre a una
scelta tra i «cfr.» per i testi hindu che abbiamo potuto consultare,
abbiamo composto o allungato certe note, senza aggiungere nulla
di nostro, in base a frasi e citazioni sparse che l’Autore aveva anno-
tato a fronte del testo stampato. Per questi passaggi inediti non ab-
biamo utilizzato le virgolette d’uso, riservando queste ultime alle
note scritte da noi, che riteniamo in parte giustificate dal fatto che
Coomaraswamy generalmente scriveva per riviste di orientalistica.8

7 A rischio di aumentare il volume delle note, abbiamo già riportato a


fondo pagina i rimandi ai testi e le citazioni in sanscrito più lunghe di una
riga nell’originale; questo per non scoraggiare eccessivamente la celebre
categoria di lettori «che non leggono le introduzioni» e nemmeno le note
e che non sono abituati al modo particolarissimo di Coomaraswamy di
presentare un testo perché venisse studiato piuttosto che percorso.
8 Questa scelta di Coomaraswamy, facilitata negli Stati Uniti da una certa

qual «tolleranza» dello spirito universitario, ha avuto il risultato di influen-


zare in senso tradizionale certi orientalisti americani.
FONTI ARTURIANE: IL SACRIFICIO E IL MATRIMONIO DI GAUVAIN
Dieci anni dopo, Coomaraswamy riprende alcuni temi vedici ricol-
legandoli alla mitologia celtica e alla letteratura arturiana; si tratta
degli articoli intitolati «Sire Gauvain e il Cavaliere Verde» e «La
Sposa orribile».9
Ricordando la lotta tra Indra e Namuci e sottolineando l’impor-
tanza simbolico-rituale della decapitazione, l’Autore espone un’ese-
gesi propriamente vedica di un poema inglese del XIV secolo, Sir
Gawain and the Green Knight.10 Il Cavaliere Verde è il misterioso per-
sonaggio che, giunto alla corte di Re Arthur il primo giorno
dell’anno, «sfida un cavaliere a decapitarlo, alla condizione che
quest’ultimo si pieghi alla stessa sorte un anno dopo»).11 Però, quale
che sia il contesto mitico, la vittima non muore, e tocca al sacrifi-
cante pagare il suo debito offrendo in cambio la propria testa. In-
fatti lo scopo finale del Sacrificio è di riunire ciò che fu separato,
«dottrina mellifera» che Dadhyañc12 insegna segretamente ai «me-
dici degli Dei», gli Ashvin: è il rito vedico di Pravargya. Il suo senso
nascosto, che verrà poi illustrato da alcuni testi sufi, può essere così
riassunto: «la nostra testa, è il nostro io, e tagliarsi la testa è l’abban-
dono dell’io, la negazione dell’io, l’abnegazione; inversamente,
“fare tutto di testa propria” significa affermare la propria individua-
lità».
Nell’articolo seguente, dedicato al matrimonio di Gauvain, Cooma-
raswamy studia il significato di questa «sposa orribile» che l’eroe è
costretto a baciare, donna repellente di aspetto ofidi- co nella quale

9 «Sir Gawain and the Green Knight: Indra and Namuci», Speculum, vol.
19, 1944; «On the Loathly Bride», Speculum, vol. 20, 1945.
10 Questo testo è stato studiato e tradotto in francese da Emile Pons,

Aubier, 1946.
11 L’impresa di Gauvain è un adattamento arturiano di un racconto celtico

in cui il famoso eroe Cuchulainn decapitava il gigante Uath Mac Imo-


main.
12 Dadhyañc Atharvana, essere mitico dalla testa di cavallo che fu decapi-

tato da Indra; cfr. ŖV, I, 116, 12 e Sh. Br., XIV, 1,1, 18 segg.
si riconosceranno le giovani vergini descritte in «Il volto oscuro
dell’Aurora». Come Apāla, Sujātā (o Biancaneve), queste donne-
drago o sirene sono liberate dall’incantesimo il giorno in cui spo-
sano l’eroe solare (= Indra), unione talvolta simboleggiata nelle nar-
razioni occidentali dal «Fiero bacio». È con questo bacio che Indra
beve il Soma; l’Acqua di vita che la strega trae dal pozzo per offrirla
all’eroe che acconsente a baciarla non è altro che la «bevanda d’im-
mortalità» che si ottiene dopo avere messo a morte l’anima draco-
niana. Il tema dell’unione salvifica implica quello dell’impurità ori-
ginale della donna, che essa rivive periodicamente e da cui si libera
ogni volta grazie al «mistero» del matrimonio.
Che le fonti siano greche, celtiche o indiane, la «sposa orribile» rap-
presenta ugualmente la Terra Madre ed è la personificazione della
Sovranità che l’eroe deve conquistare malgrado la sua ripugnanza.
Lo studio si conclude, come il precedente, con alcune considera-
zioni sul mito e il folklore.
LA TRASFORMAZIONE SOLARE: PERDERE LA TESTA O CAMBIARE PELLE.
I tre articoli che costituiscono la terza parte (capitoli V - VII) ri-
guardano le due modalità sacrificali che abbiamo rilevato in prece-
denza: decapitazione e cambiamento di pelle, in altre parole la «ne-
gazione dell’io» («Chi vuole salvare la propria vita la perderà...») e
lo «spogliarsi dell’uomo vecchio».
In «I Maghi senza testa e l’Atto di Verità»,13 Coomaraswamy spiega
innanzitutto il senso del rito basato sulla potenza effettiva di una
parola vera. Il contesto vedico comprende un esempio di decapita-
zione, relativa qui al caso di quegli esseri «che fanno della loro testa
ciò che vogliono», cioè che hanno acquisito la libertà dei loro atti.
Oggetto di questo studio è la spiegazione di una particolarità ico-
nografica di una sepoltura buddhista.

13 «Headless Magicians and an Act of Truth», Journal of the American Orien-


tal Society, vol. 64, 1944.
Analogamente, è un motivo artistico il pretesto dello studio succes-
sivo, «Il ratto di una Nāgī»14 e qui ancora l’Autore sottolinea l’im-
portanza dell’esegesi simbolica dell’iconografia, che supera il carat-
tere indigente ed emotivo del semplice «senso estetico». Esami-
nando un sigillo di epoca gupta, riprende il tema dell’antagonismo
tra le tenebre e la luce, con il simbolo della lotta tra l’Aquila e il
Serpente, ovvero l’Uccello solare e la creatura «donna e serpente»
che esso strappa alla sua condizione oscura per purificarla, vale a
dire uccidere il suo male unendolo a sé.
Nella nota intitolata «Sarpabandha»,15 scritta per spiegare questo
termine sanscrito poco comune, Coomaraswamy ritorna sul sim-
bolismo della pelle di serpente; la nozione di «legame ofidico» (che
traduce sarpa-bandha) ha il suo parallelo «etico» nel legami parentali
che l’iniziato deve rompere per seguire la via che porta alla libera-
zione.
IL SENSO INTERIORE DEL SACRIFICIO.
Concludiamo la raccolta con la traduzione di «Atmayajña: il sacrifi-
cio di sé»,16 articolo in cui «l’idea principale è che ogni sacrificio in
realtà è un “sacrificio di se stessi” tramite l’identificazione del sacri-
ficante con la vittima o l’oblazione».
In questo studio gli esempi mitici visti altrove sono messi in rap-
porto con l’interiorizzazione della lotta o dell’offerta che presiede
al sacrificio. «D’altra parte, poiché il sacrificio è l’atto rituale per
eccellenza, tutti gli altri partecipano della sua natura e in qualche
modo vi si integrano, così che esso determina necessariamente
tutto l’insieme della struttura di una società tradizionale, in cui tutto
per ciò stesso si può considerare come un vero e proprio sacrificio
perpetuo. In questa interpretazione sacrificale della vita, gli atti,

14 «The Rapt of a Nāgī: An Indian Gupta Seal», Bulletin of the Museum of


Fine Arts di Boston, vol. 35, 1937.
15 «Sarpabandha», Journal of the American Orientai Society, vol. 62, 1942.
16 «Atmayajna: Self-Sacrifice», Harvard Journal of Asiatic Studies, vol. 6,

1942.
avendo un carattere essenzialmente simbolico, devono essere trat-
tati come supporti di contemplazione (dhiyālamba), il che presup-
pone che ogni pratica implica e include una teoria corrispon-
dente».17
Allo stesso tempo, «si richiede qualcosa di più degli atti puri e sem-
plici se si vuole realizzare il disegno ultimo di cui gli atti non sono
altro che i simboli. Si dice esplicitamente che “non è né con
l’azione, né con i sacrifici che Lo si può raggiungere”, Colui la cui
conoscenza è il nostro bene supremo. Allo stesso tempo si afferma
senza sosta che il Sacrificio non si compie solo in modo parlato e
visibile, ma anche in maniera “intellettuale” (manasa), silenziosa-
mente e invisibilmente, all’interno di noi stessi. In altre parole, la
pratica non è altro che il supporto esteriore e la dimostrazione della
teoria. Si impone una distinzione tra l’autentico sacrificatore di se
stesso (sadyaji, satishad, atmayaji) e colui che si accontenta semplice-
mente di essere presente al sacrificio (sattrasad) e di aspettare che la
divinità faccia tutto il lavoro reale (devayaji). Molto spesso si dice
anche che “chiunque comprenda queste cose e compia il buon la-
voro, o anche se comprende soltanto (senza compiere effettiva-
mente il rito) restituisce la divinità smembrata alla sua totalità e in-
tegrità”; è tramite la gnosi, non le opere, che si può raggiungere
questa realtà»18.
Teniamo a ringraziare le riviste che ci hanno autorizzati a pubbli-
care la traduzione degli articoli: Journal of the American Orientai Society,
Smithsonian Miscellaneous Collections, Bulletin of the Museum of Fine Arts
di Boston, Speculum, Harvard Journal of Orientai Studies, così come la
Princeton University Press che riedita in Selected Papers gli articoli
che qui formano i capitoli IV, VI e VIII; ringraziamo in particolare
Mr William Mc Guire e Mrs Margaret Case che ci hanno gentil-
mente comunicato il testo definitivo stabilito sull’esemplare cor-
retto dell’Autore. Infine ringraziamo calorosamente il Dott. Rama

17 Queste due citazioni sono estratte dalla recensione di René Guénon,


Etudes sur l’Hindouisme, p. 263; René Guénon, Studi sull’induismo, Luni Edi-
trice, Milano 1996, p. 261.
18 Hindouisme et Bouddhisme, p. 58-59; trad. it., p. 58.
P. Coomaraswamy per averci aiutati nel nostro compito, fornen-
doci i documenti e le autorizzazioni necessarie.
G. L.
SOMMARIO

1. L'IMMAGINE VEDICA DEL SACRIFICIO


ANGELI E TITANI
Introduzione. Gli Angeli e i Titani hanno la stessa essenza:
I. Indra e Namuci, Gli Angeli e i Titani un tempo erano amici. Ripu-
gnanza a uccidere l’avversario. Uccisione di Namuci. La testa di
Namuci diventa il Sole. Significato del «rotolamento».
II. Makha, La testa di Makha. La vecchia pelle di serpente. La testa del
Sacrificio: il pravargya. Assimilazione dell’eroe sconfitto.
III. Il Sacrificio del re Soma, «Soma allora era Vŗtra». Il ratto del Soma.
IV. Viśvarūpa e Vŗtra, Messa a morie di Viśvarūpa. La natura di Indra.
I suoi peccati di kshatriya. Vŗtra come avversario di Indra. Tutte le
cose erano allora contenute in Vŗtra. Il Sacrificio di Prajāpati e la
scissione del Principio.
V. Il Cinghiale, Varāha, Emusha. Il guardiano del tesoro dei Titani.
VI. Ahi-Vŗtra, Lo smembramento del Drago primordiale e l’atto di
creazione. Le tenebre avvolgenti e la folgore di Indra. Danu. Arya
e Dāsa. Mutilazione della Divinità. Agni e Ahi Budhnya. Il Sole «dal
piede unico». Il simbolismo del Ragno. La Divinità «addormentata
e sdraiata». Unità e molteplicità. Il Sacrificio di Purușa.
VII. La processione è una rotazione solare, Il corso del sole verso destra.
Giano e le direzioni opposte. Pensiero inverso o «controcorrente».
La «direzione opposta» è in avanti. Il movimento a spirale.
VIII. Il rigetto della pelle di serpente, il cambiamento di colore o di abbigliamento,
La trasformazione solare dei serpenti secondo il Ŗg-Vêda e i Brāh-
mana. La matrice divina. Liberarsi di Varuna. L’aspetto malefico di
Varuna. Varuna e Vŗtra.
IX. L’infinità di Agni, Il serpente che si morde la coda, immagine dell’in-
finito. La «testa» di Agni. L’Anno, come il Sāman, è «senza fine»
(ananta). La continuità dell’atto divino.
X. La traccia dell’«infinito» nell’arte, L’arte in quanto imitazione delle
«forme» celesti. L’iconografia indiana. Il motivo della spirale.
Conclusione, La duplice operazione divina in realtà non è altro che la
natura unica dell’Identità Suprema.
IL VOLTO OSCURO DELL’AURORA
Introduzione. I due aspetti di Dio. Il Drago della Tenebra e le Po-
tenze della Luce. - La trasformazione dei serpenti. La Notte e il
Giorno, o l’Aurora, sono due sorelle. I due aspetti del Sole. L’«in-
cesto» e la parentela dei princìpi manifestati. Ushas, potenza sini-
stra. L’Aurora in quanto Notte: suo carattere ofidico. Il matrimonio
di Suryā. Krityā. La veste di luce. Il matrimonio di Indra e Apālā.
La pelle di lucertola e la pelle solare: le tre purificazioni. Versione
buddhista del racconto: il matrimonio di Sujātā. La processione e il
matrimonio di Indranī.
2. FONTI ARTURIANE: IL SACRIFICIO E IL MATRIMONIO DI GAUVAIN
SIRE GAUVAIN E IL CAVALIERE VERDE: INDRA E NAMUCI. La Sfida del Cava-
liere Verde. Simbolismo solare della testa mozzata. Le forme del
«Costrittore» che combatte l’eroe solare. Il sezionamento del corpo
divino. La bisezione del Serpente e la separazione del Cielo e della
Terra. Il rifiuto della pelle. La morte sacrificale permette la libera-
zione dei princìpi imprigionati. Produzione e reintegrazione. La vit-
tima non viene uccisa ma «liberata dall’incantesimo» o liberata dal
male. La restituzione della Testa. La seconda decapitazione.
Dadhyañc e la «dottrina mellifera»
3. LA TRASFORMAZIONE SOLARE: PERDERE LA TESTA O CAMBIARE PELLE
I MAGHI SENZA TESTA E L'ATTO DI VERITÀ. L'Atto di Verità: un rito e un
Atto di Fede. Potere della Verità. Invocazione diretta contro i ma-
ghi senza testa. Il senso della decapitazione.
LOTTA DEL BODHISATTA CONTRO MĀRA. Applicazione all'iconografia.
UN RACCONTO IRLANDESE: il Figlio del Re d'Irlanda e il Gigante di
Loch Léin
IL RATTO DI UNA NĀGĪ. Descrizione di un sigillo indiano. L'Aquila e il
Serpente. Antagonismo della luce e delle tenebre, e carattere du-
plice della Nāgì. Purificazione della Sposa del Sole. La morte inflitta
da Dio. Esegesi iconografica e «senso estetico». L'universalità del
simbolismo e il problema della critica d'arte.
SARPABANDHA. Il «legame ofidico». Karados. Il motivo dei serpenti
intrecciati. Legami di parentela e liberazione.
4. IL SENSO INTERIORE DEL SACRIFICIO
ATMAYAJNA: il Sacrificio di sé
I frutti del sacrificio sono per questo mondo e per l’aldilà.
La vittima sacrificale è il sacrificante stesso. Il sacrificio del re Soma.
La duplice natura di Soma. L’uccisione di Vŗtra: la vittoria sul male.
Esegesi del termine giri; l’uomo è una montagna in cui Dio è «se-
polto». Il simbolismo della caverna e del tesoro nascosto. Morte
sacrificale e «riunione» dell’essere. Relazione feudale tra i soffi e il
Soffio. L’estinzione del fuoco di Vŗtra e la purificazione della
mente. Il sacrificio di sé. Identificazione delle «potenze dell’anima»
con i germogli di Soma. Il senso dell’Agnihotra interiore.
Gli Dei vinsero i Titani e diventarono immortali edificando il
Fuoco sacrificale in se stessi. La conoscenza dell’atto rituale. Indra,
primo sacrificante e «Costruttore universale» (viśvakarma). Interio-
rizzazione del sacrificio e libertà degli atti. Il dominio sull’io da
parte del Sé. Divisione primordiale e reintegrazione finale. Cono-
scere se stessi.
APPENDICE I. Sulla pace, p. 225. La «pacificazione» di Soma è il suo
quietus in quanto principio varunya. La «pace» è un diritto che si im-
pone e un accordo: la vittima acconsente a morire.
Appendice II Śeśa, Ananta, Anantaram, Il «residuo» del sacrificio di
Soma è inesauribile: «Quando al pieno è tolto il pieno, resta il
pieno». Il serpente Ananta, come Brahma, è «senza fine». Identità
dell’inizio e della fine. La storia di Karados.
APPENDICE III. Nakula: '0(ptopà%riq), L’uccisore di serpenti nel Veda
e nella Bibbia. Ofiomaco e icneumone. La mangusta indiana (na-
kula). La padronanza di sé in Filone Alessandrino e il combattente
solare per gli egiziani. Dividere e riunire: le «giunture» di Prajāpati
e le divisioni temporali.
ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI

ŖV, Ŗg-Vêda Samhitā. TS., Taittirīya Samhitā. AV, Atharva-Vêda Sa-


mhitā. VS., Vājasanêyi Samhitā. MS., Maitrāyanī Samhitā. Taitt. Br.,
Ait. Br., PBr., KBr., Sh. Br., JBr., JUB., GBr., i Brahmanā, rispetti-
vamente Taittirìya, Aitarêya, Paňcavimsha, Kaushītaki, Shatapatha, Jai-
minīya, Jaiminīya Upanishad e Gopatha. Ait. Ar., Aitarêya Aranyaka. Sh.
Ar., Shànkhàyana Aranyaka. Taitt. Ar., Taittiriya Aranyaka. BD., Bri-
had-Dèvatà. BUp., CUp., Kaush. Up., KUp., MUp., Mànd. Up.,
Mund. Up., Shvêt. Up., Taitt. Up., le Upanishad, rispettivamente
Brihadàranyaka, Chàndogya, Kaushìtaki, Katha, Maitri, Màndukya, Mun-
daka, Shvètàshvata- M e Taittiriya. Manu, Mànava Dharma Shàstra, Ap.
Sh. S., Apa- stamba Shrauta Sutra. Mbh., Mahàbhàrata. BG., Bhagavad-
Gità. HJ , Bbàgavata Puràna. YS., Yoga Sutra.
AN., DN., MN. e SN., e Nikàya, rispettivamente Anguttara, Dì- glia,
Majjhima e Samyutta. Dh., Dhammapada. J.,Jàtaka. BC., Buddhacarita.
SP., Saddharma Pundarika.
BEFEO., Bulletin de l’Ecole Frangaise d’Extrème-Orient. BM- LAB.,
Bulletin of the Museum of Fine Arts (Boston). BSOS., Bullettin of the
School of Oriental Studies. ET., Etudes Traditionnelles. HJAS., Harvard
Journal of Asiatic Studies. IHQ., Indian Historical Quarterly. JAOS Jour-
nal of the American Oriental Society. JISOA., Journal of the Indian Society
of Oriental Art. JRAS., Journal of the Royal Asiatic Society. PMPLA.,
Publication of the Modem Language Association. QJMS., Quarterly Journal
of the Mythic Society. SBB., Sacred Books of the Buddhism SBE., Sacred
Books of the East.
1. ANGELI E TITANI

Ekam vā idam vi babhūva sarvam, ŖV, VIII, 58, 2


Bhrātaram varunam agna ā vavritsva, ŖV, IV, 1, 2
Sarpyā vā ādityāh, PBr., XXV, 15, 4
Sarpavidyā vā veda, Sh. Br., XIII, 4, 3, 91

INTRODUZIONE
L’idea principale sviluppata nel presente studio è che i Dêva, gli
«Angeli», e gli Asura, i «Titani», rispettivamente potenze di Luce e
potenze di Tenebre nel Ŗg-Vêda, benché distinti e opposti nella loro
azione, sono nondimeno della stessa essenza, la loro distinzione
poggiando in realtà sulla loro orientazione, il loro cambiamento o
la loro trasformazione, come indica l’affermazione del Pancavimsha
Brāhmana: «I Serpenti sono i Soli» e l'impiego ripetuto di vrit, «gi-
rare», «rotolare», «compiersi», nel Ŗg-Vêda e nei Brāhmana, a propo-
sito dei rapporti tra Angeli e Titani. Il Titano è un Angelo in po-
tenza, l’Angelo è ancora un Titano per sua natura originaria; la Te-
nebra in atto è Luce, la Luce in potenza è Tenebra. Si possono dun-
que applicare queste due designazioni, Asura e Dêva, a una sola e
medesima entità secondo il suo modo operativo, come nel caso di
Varuna, così come si può indicare questa duplice azione per mezzo
di nomi diversi: «Tu (Agni) sei Trita per il fatto della tua operazione
interiore» (guhyêna vratêna, ŖV, I, 163, 3).
Vedremo anche che se gli Angeli sono rappresentati di solito sotto
forma di uomini e di uccelli, i Titani lo sono sotto forma di animali,

1 «Questo Uno diventa il Tutto»; «Volta da questa parte, o Agni, tuo fra-
tello Varuna» (cioè «Rivelati», poiché Agni è il «volto di Varuna», ŖV,
VII, 88, 2, Surya è il «volto» degli Angeli, di Mitra, di Varuna e di Agni, I,
115, 1); «i Serpenti sono i Soli»; «La scienza dei Serpenti è il Veda».
Le traduzioni seguenti non variano nel corso del testo: dêva, «Angelo»;
asura, «Titano»; ahi, «Serpente» (come anche sarpa, «Serpente», talvolta
senza maiuscola); Vŗtra, «Drago»; māyā, «Magia» e māyin, «Mago».
in particolare di serpenti (sarpyā). Queste considerazioni sono di
fondamentale importanza per capire l’iconografia e il «culto del ser-
pente». La tesi che abbiamo formulato è riassunta nelle citazioni
poste in epigrafe come «argomento». Per il momento prenderemo
in considerazione solo le potenze maschili, l’argomento del sarpatva
in rapporto alle potenze femminili corrispondenti sarà trattato in
«Il volto oscuro dell’Aurora».

1. INDRA E NAMUCI
La storia di Indra e del Titano Namuci, «Uncino»*, è stata oggetto
di un notevole studio da parte di Bloomfeld.2 Di questa lotta qui
manterremo solo gli elementi che si riferiscono al nostro argo-
mento. Indra e Namuci, il Titano e Mago la cui identità con Vŗtra

* Secondo Panini, Namuci significherebbe «colui che non lascia, che trat-
tiene».
2 The Story of Indra and Namuci, JAOS., 1895, p. 143 segg. Non seguo

l’opinione di Bloomfeld, secondo cui la «schiuma delle acque» che Indra


prende come arma significa necessariamente il «piombo». In Sh. Br., XII,
7, 3, 3, il vajra di Indra è veramente costituito dalla schiuma delle acque.
Si può anche interpretare che Indra taglia la testa di Namuci con la
schiuma «come con un vajra», seguendo Mahidhara nel commento a VS.,
X, 33, e per analogia con PBr., XV, 5,20: «con una canna come vajra», e
Jaim. Br., III, 266: «un filo d’erba nel quale Indra introduce il suo vajra».
In X, 61, 8, phēna = rētas. Se confrontiamo vajrēna (I, 103, 7) e vīryēna
(II, 11,2), rammentando che vīrya non è soltanto il «coraggio» ma anche
la «semenza» (come traduce Buhler nella sua versione delle Leggi di
Manu, I, 8), si vede in quale maniera - cioè con la «virtù seminale» come
vajra - Indra decapita Namuci (e produce così la vita). Questa osserva-
zione è confermata da PBr., XV, 5,20, ishīkām vajram, se poniamo l’equi-
valenza di ishìkā e di vētasa, poiché questo termine è impiegato in modo
significativo in X, 95, 4: shnathita vaitasēna, cfr. Sh. Br., IX, 1, 2, 22, in
cui il bambù (vētasa) è una specie di «acqua» utilizzata simbolicamente
per «spegnere» (shamayati) l’ardore interno di Agni, cioè per «allontanare
il suo male bruciante» (shucam asya pāpmānam apahanti, ibid., 20), ed è
appunto ciò che Indra fa a Namuci.
è evidente, erano stati buoni amici, vale a dire che ante principium
bevevano insieme il liquore detto surā. Viene stretto un patto, in
base al quale Indra non ucciderà Namuci «con nulla di asciutto o di
umido, né di giorno, né di notte», quindi apparentemente in nessun
caso.3 In effetti, da entrambe le parti c’è una marcata ripugnanza a
uccidere l’avversario; così, nella Maitrāyanī Samhitā, IV, 3, 4, Namuci
domanda: «Siamo tutti e due amici», a cui Indra risponde: «Io non
ucciderò». Questo rifiuto di nuocere ai Titani, che in effetti sono
imparentati con gli Angeli, riappare in tutta la letteratura tradizio-
nale; così anche il profondo disgusto di Mitra davanti all’uccisione
di Soma,4 l’esitazione di Arjuna nella Bhagavad-Gìtā 1,26 segg.,: «Io
non combatterò» (i suoi avversari, «antenati, parenti e amici» sono
di fatto i Titani vedici) e il tirarsi indietro di Indra nei Jātaka, testo
I, p. 202 - in cui il «no per l’impero» corrisponde al «no per l’autorità
sui tre mondi» della Bhagavad-Gìtā (I, 35), e in entrambi i casi il po-
tere in questione era quello che viene rovesciato in ŖV. X, 124, 4,
e infine conquistato dai Pāndava nel Mahābhārata.
Indra però trova il modo di uccidere Namuci, sfuggendo alle con-
dizioni dell’accordo per mezzo di un sotterfugio. La testa mozzata
del Titano insegue (anvavarta, «rotola dietro») Indra, rimproveran-
dogli amaramente di avere «tradito un amico» e di essere «il perfido
assassino di un eroe innocente».** Indra ripara al suo errore con un
sacrificio (senza dubbio il Pravargya, nel corso del quale la «testa del

3 La dichiarazione di Indra è riportata in PBr., XII, 6, 8 e Sh. Br., XII, 7,


3, 1. - Il tempo non definito si situa alla congiunzione (samdhi) dei tempi,
simbolicamente tra il Giorno e la Notte, cioè l’Aurora (vedi A.K.C.,
«Symplegades», n. 16); analogamente, un luogo indefinito sarà «nel luogo
di incontro dell’asciutto e dell’umido» (TS., VI, 4, 1, 5), «alla congiunzione
dell’oscurità e della luce» (ibid., 4, 2, 4).
4 Sh. Br., IV, 1, 4, 8 = TS., VI, 4, 8, 1: «Non io, poiché sono l’amico

(mitra) di tutti». Cfr. F. Cumont, Mithr. Mysteres, p. 135: Mithra, a cui il


Sole ha ordinato di uccidere il Toro, «ricevette contro la propria volontà
questa crudele missione».
** p. 24. Taitt. Br.,1,7, 1,7 e PBr., XII, 6, 9, cfr. Sh. Br., V, 4, 1,9, Mbh.,
IX, 2436.
sacrificio» viene simbolicamente rimessa al suo posto) e con un ba-
gno espiatorio nel fiume Arunā.
Secondo il Ŗg-Vêda, Indra, «cercando una via larga per Manu,
staccò la testa di Namuci torcendola (avartayah)... fece girare (ma-
thāyan) la testa di Namuci, cioè il brillante gioiello che gira» (ash-
mānam cit svaryam vartamānam, V, 30, 7-8); il «gioiello» è il Sole.5
Si noterà qui l’equivalenza di √vŗt e di √math, «far girare»; quest’ul-
tima radice è usata nel Ŗg-Vêda a proposito
1) della procreazione di Agni da parte di Mātariśvān (= Vāyu, Spi-
ritus)6 all’inizio, o dai sacrificanti nel corso di un rito analogo, e
2) del ratto di Soma da parte dell’Aquila (shyêna = Agni).
La natura del movimento in questione è la stessa in entrambi i casi:
si tratta di una rotazione, da cui la nostra traduzione con «far gi-
rare», poiché il senso di «burrificare» entra in gioco solo quando si
tratta di un liquido, come in samudra-mathana. I passi più importanti
che riguardano la produzione di Agni per mezzo di un «giramento»
sono 1.141, 3, in cui Mātariśvān «lo fa girare dal suo luogo d’origine
(budhnāt) dall’immagine del Bulalo (varpasah), mentre è nascosto»

5 Cfr. V, 47, 3, in cui Agni è una «gemma di diaspro», e VII, 104, 19, a
proposito di Indra in quanto uccisore di demoni: «Fece girare il gioiello
del Cielo»
(pra vartaya divo ashmānam). In AV., X, 4, 5, il Sole è descritto come
«sorto da Vŗtra».
6 La «natura eolica» di Mātariśvān (= Mātali) è studiata da Charpentier,

Kleine Beitràge zur indoiranischen Mythologie, 1911, p. 68-83. Charpentier con-


clude (nel senso dei commentatori indiani): «In fin dei conti, devo consi-
derare che la natura eolica di Mātariśvān-Mātali è secondaria rispetto alla
sua natura prometeica, e che è uno dei “Padri”» Mātariśvān è Vāta-Vāyu,
il Vento, il Vento aurorale (vasarhā... vātah, 1,122,3) che risveglia Agni;
ravviva la fiamma di Vita (VI, 6,3, in cui Agni è vātajutāsah). Cfr. lo «Spi-
rito», il «Vento» e il «Vento dell’Est» in Genesi, I, 2 e VIII, 1, ed Esodo,
XIV, 2. Si parla del vento che si alza in quasi tutte le natività, cfr. il tedesco
medievale: «Do in der Stāl kimt liberall der kalte Wind herein» [«là, nella
stalla, il vento freddo penetrava ovunque»].
(guhā santam = ab intra)7 - ci è dunque «portato dal Padre celeste»
(pituhparamāt)-, III, 9,5, in cui Mātariśvān porta «da laggiù a qui que-
sto Agni che era stato celato (tirohitam) ai nostri occhi; conduce dal
luogo degli Angeli colui che era stato fatto girare» (mathitam); e VI,
16, 13, in cui Atharvan «ti fece girare (nir amanthat), Agni, a partire
dal loto (pushkarāt = budhnāt più sopra),8 dalla testa di Viśva (-rūpa),

7 Varpas = rūpa (Sāyana); l’Agni manifestato è «la vera e propria immagine


di suo Padre che dimora in lui (cfr. PBr., VII, 6, 2)... la sua immagine, cioè
suo Figlio» (Eckhart); cfr. AV., X, 8, 28 (= JUB., III, 11): «è il loro mag-
giore o il loro minore? È loro Figlio o loro Padre? In verità, è lo stesso
Angelo che è entrato nell’intelletto, che nacque un tempo e che è ancora
adesso nell’embrione» cioè come in ŖV, III, 55, 7: «Benché avanzi per
primo, rimane nella sua origine».
8 Non c’è alcun bisogno di dimostrare qui (cfr. Elements of Buddhist Icono-

graphy, 1935, p. 19-21) che Sāyana spiega correttamente il loto (pushkara)


come l’origine dell’esistenza in tutti i mondi. Si può però aggiungere a
proposito del soprannome abja, «nato dall’acqua», equivalente di «loto»
(pushkara), che in VII, 34, 16, questo epiteto è applicato al Serpente: «Ce-
lebro con litanie il Serpente nato dall’acqua (ahjām... ahim, cfr. apām napāt
= Agni), che dimora in fondo ai fiumi, nel letto dei fiumi» (budhnē nadìnām
rajahsu shīdan - espressione alquanto complessa, che sicuramente equivale
a nadī-vritam, applicata altrove a Vŗtra), Serpente che nel versetto succes-
sivo è identificato più particolarmente con Ahi Budhnya. L’esegesi che
ne deriva è ottimale, perché possiamo dire che se Ahi è abja - non in
quanto loto, ma qui pari al loto, così come è all’origine di Agni - Agni
nato dal loto è abjaja. Si accorda con tutto ciò il passaggio secondo cui
Agni si trova «laddove, dalle acque, è salito strisciando sulla foglia del
loto» (adbhya upodāsriptam pushkaraparnē, Sh. Br., VII, 3, 2, 14), a cui si può
ugualmente paragonare la narrazione della processione di Arbuda
Kādravēya (figlio di Kadru, cioè della Regina Serpente, e probabilmente
identico ad Ahi, in ogni caso un ahi); «Il Profeta Serpente aveva compiuto
un incantesimo per mezzo del quale avanzò strisciando, e in effetti ciò si
chiama “l’avanzata strisciante di Arbuda”» (sarparshi mantrakrit yēnopoddsar-
pat... arbudodāsarpani nāma, Ait. Br., VI, 1, in cui Arbuda è ugualmente
chiamato serpente velenoso o basilisco, āshīvishah, equivalente sanscrito
dell'azhi-visha avestico in Azhivishapa; secondo PBr., IX, 8, 7-8, cfr. IV, 9,
4-6, ci si accorge che il mantra in questione è tratto da ŖV, X, 189, poiché
il sacerdote» (mūrdhno vishvashya vāghatah). I passi riguardanti la pro-
duzione di Soma girando sono
1. I, 93, 6, in cui «l'Aquila mescola (o “rimesta”, amathnāt) il Soma
dal Masso» (pari shyêno adrêh) e
2. IX, 77, Soma «che l’Aquila strappò dal Cielo» (yam divas pari shyêno
mathāyat).
Queste ultime citazioni sono da comprendere alla luce del leitmotiv
«Soma era Vŗtra» (Sh. Br., passim).

2. MAKHA
I riferimenti a un Titano Makha cacciato dai Bhŗgu (ŖV, IX, 101,
13), o la cui testa è mozzata da Indra (X, 171, 2), presuppongono
le versioni dei Brāhmana in cui la testa di Makha diventa il Sole. In
X, 171, 2, Indra «solleva dalla spoglia di Makha la testa furiosa», la
qual cosa precede la preghiera della strofa 4 che chiede di far tor-
nare dall’ovest all’est «il Sole, Vasha, che era stato nascosto agli An-
geli»: «la testa furiosa di Makha» corrisponde alla «testa furiosa di
Vŗtra» mozzata da Indra con la sua folgore a cento rami (VIII, 6,
6); «Vasha», questo «Vasha equino» che è aiutato dagli Ashvin
(1,112,10), e in VIII, 46, 33, è evidentemente il Sole; la «spoglia»
corrisponde alla «pelle nera che Indra detesta» (IX, 73, 5), la «vec-
chia pelle del Serpente» di IX, 86, 44, in cui Soma, «proprio come
Ahi, abbandona strisciando la sua vecchia pelle» (ahir najūrnām ati
sarpati tvacam), in accordo con il passaggio del Pancavimsha Brāhmana,
XXV, 15,4, in cui i serpenti, «abbandonando la loro vecchia pelle
(hitvājirnām tvacam) avanzano strisciando (atisarpanti), respingono la

è «per mezzo del versetto sarparājhyā che Arbuda ritira la sua pelle cor-
rotta», mritām tvacam apāhata).
Sul loto (= la terra) come luogo di nascita di Agni, cfr. anche VIII, 72,11,
in cui il soma è «versato nel loto» (nishiktam pushkarè), e Sh. Br., VIII, 6,3,
7, yo- nir vaipushkara-parnam. ŖV, VII, 33,11, in cui Vasistha (Agni) brah-
man... jā- tah pushkarē, corrisponde a GBr., I, 16, Brahmā ha vai brahmānam
pushkarē asrjiè. Il fatto che Agni esca dalle acque strisciando per salire sul
loto, corrisponde al simbolo gnostico della ninfa e dell’immagine.
Morte e diventano Āditya». Possiamo già notare, anticipando, che
la bisezione del Serpente può essere paragonata alla separazione del
Cielo e della Terra.
Consideriamo ora le versioni dei Brāhmana. Nel Pañcavimśa, VII,
5,6, Agni, Indra, Vāyu e Makha, bramando la gloria (yashas), parte-
cipano a una sessione sacrificale. Makha ottiene la gloria ma,
quando si appoggia al suo arco, l’estremità si rilascia improvvisa-
mente e gli taglia la testa, «che diventa il pravargya, perché Makha è
in effetti il sacrificio». Questo pravargya (o pravarga) è ugualmente
chiamato, nel rituale, mahāvira o gharma,* e «la testa del sacrificio».
Nel Taittirīya Aranyaka, V, 1, 1-5, Makha è chiamato Vaishnava
(Saumya in Sh. Br., XIV, 1, 2, 17); l’arco «proietta (la testa) fa-
cendo(la) girare» (udavartat) e questa allora gira intorno al Cielo e
alla Terra;** «il fatto “che avanzava girando” (prāvartata, cioè “pro-
grediva”, cfr. pravritti) è all’origine del termine pravargya; il termine
gharma è in relazione con il suo incendiarsi, e mahāvira con il suo
grande eroismo»9. Questo passaggio del Taittirīya Brāhmana, II,
6,13,1, sa bibhèda valam magham (cfr. ŖV, III, 34,10) suggerisce l’iden-
tità della «Caverna» personificata, Vala, e di Makha; che la lectio sia
magham e non makham (cfr. ŖV, IX, 20, 7) sottolinea l’unione del
coraggio temerario, della ricchezza e della generosità nell’eroe
ideale.
L’esposizione è più completa in Śatapatha Brāhmana, XIV, 1, 1; i
Dêva presenti sono Indra, Agni, Soma, Makha e Vişņu (forse biso-
gnerebbe leggere Soma-Makha o Makha-Vişņu). È la testa di Vişņu

* p. 26 [I termini mahāvira (letteralm. «grande eroe») e gharma («calore»,


«fuoco interiore») indicano nel rituale il calderone utilizzato per il Pravar-
gya - su questo rito, vedi infra, pp. 106-107. Miticamente, i tre termini si
collegano alla testa di Makha, che, mozzata, diventa il Sole].
** p. 26. Dyāvāprithivīanuprāvartata, cfr. ŖV, V, 30, 8, vartamānam rodasi. Lo
Sh. Br., XIV, 1,3,4-6, identifica il vaso Mahāvira con Yama, Makha e
Sūrya, poiché ciascuno di essi «brilla laggiù».
9 Nella sua assimilazione al Sole, Makha (o la sua testa) è quindi identico

al Pravargya, al gharma e al mahāvira; cfr. Sh. Br., XIV, 2, 2, 12-13, e l’inizio


della nota successiva.
a essere tranciata dall’arco, la cui corda è rosa dalle formiche, e que-
sta testa diventa «quel Sole là»; il resto del corpo rimane steso al
suolo (pravrij).10 Indra si scaglia sull’«eroe» (mahāvira) caduto, lo in-
ghiotte (tam paryagrihnāt, in altre parole lo divora, o piuttosto lo

10 È da pravrij che lo Sh. Br. fa derivare Pravargya, etimologia preferibile a


quella fornita da Taitt. Ar., citato più sopra. In R V, V, 30,15, si dice che
il gharma è infiammato pravrijē, «per il Pravargya». Strettamente legata
apravrij è l’espressione vedica pari vrij, «ri-gettare», «gettare lontano», così
spesso impiegata a proposito di Agni (ŖV, II, 13, 12, II, 15, 7, IV, 30, 16,
e probabilmente nello stesso senso in I, 112, 8). In I, 116, 24, Soma è
«come Rebha, pravriktam», mentre in X, 8, 9, para vrij, nella forma pari
vark, è utilizzato a proposito della decapitazione di Viśvarūpa; da cui si
può dedurre che le espressioni parāvrij e parāvrikta, applicate ad Agni e a
Soma, si riferiscono alla deposizione del corpo dopo la decapitazione. I
termini sono associati all’espressione «permettere al cieco di vedere, allo
zoppo di camminare» e se, come supponiamo, ciò significa «compiere la
processione del Sole», che era stato, per così dire, un «verme cieco», la
connessione delle idee è evidente; essendo infatti il Sole l'occhio» di Va-
runa, Varuna non si può considerare cieco se non quando il Sole è ancora
nelle tenebre, tamasā apagālham, guhā nihitam ecc. (cioè prima della decapi-
tazione del Serpente), e «strisciante», il che è espresso dicendo che il Sole
era all’origine «senza piedi» (apad, spesso sinonimo di «serpente», cfr. Sh.
Br., I, 6, 3, 9: «poiché egli (Soma) era senza piedi, era Ahi», ed è così finché
Varuna «gli faccia dei piedi perché possa avanzare», I, 24, 8). Sullo stesso
simbolismo applicato ai princìpi «femminili», vedi «Il volto oscuro
dell’Aurora» [qui cap. II]. Per un esame più completo del termine vrij o
varj nel Ŗg-Vēda, vedi Bloomfield, JAOS., 1915, p. 273 segg.; il primo
senso è quello di «fare», da cui l’espressione «sono fatto» = «sono per-
duto». Para vrij corrisponde anche a parāsa in IV, 18, 8 e a parāsyat in X,
72, 8.
A proposito delle definizioni di Agni come prishnir ashmā e del Sole come
vartamvnam ashmānam (da cui l’impiego nel rituale di una «pietra di dia-
spro», ashmānamprishnim, che rappresenta il «Sole», Sh. Br., IX, 2, 3, 14), si
può notare che queste formule, collegate al carattere ofidico della divinità
ah intra, spiegano l’origine di ciò che oggi (nella misura in cui il senso è
stato dimenticato) è a rigor di termini una superstizione, cioè l’idea che vi
sia una gemma nella testa dei serpenti.
beve, poiché in realtà è Soma), e così «divenne makhavat, poiché
Makhavat è colui che, metafisicamente (parokshêna) è Maghavat»;*
e d’altronde «Makha è identico a Vişņu... il sacrificio» (ibid., 12-13).11
E evidente che si impone un’espiazione [l’uccisione di Vŗtra, para-
gonabile a quella di Viśvarūpa, in effetti è uno dei peccati (kilbishāni)

* * p. 27 [Maghavat, «Potente» o «Generoso», è un epiteto di Indra].


11 Divorando Makha-Soma, o piuttosto, secondo il contesto, bevendolo,

Indra si impossessa delle qualità invidiabili dell’eroe sconfitto, tramite


un’incorporazione allo stesso tempo sacrificale ed eucaristica; cfr. Sh. Br.,
XIV, 2, 2, 42: «Noi ti mangiamo, dio Gharma»; Giovanni, VI, 56: «Colui
che mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me, e io in lui», e
Guillaume de Saint-Thierry: «L’uomo può mangiare il corpo di Cristo,
cioè diventare il corpo di Cristo». Era evidentemente il principio del can-
nibalismo, ed è degno di nota che sia sopravvissuto nei riti della comu-
nione vedica e cristiana.
I testi dei Brāhmana su questo argomento sono prefigurati da passi vedici
più concisi. Secondo IX, 20, 7, è chiaro che Makha è il sacrificio e la causa
necessaria della sua efficacia: «Tu, Soma, vai in modo gioioso (krīluh) nel
filtro, così come Makha prodigo di doni (makho na manhayuh), tu apporti
alla lode le sue virtù eroiche» (suvīryam); si può anche notare che krīluh (cfr.
l’uso di krīl net ŖV) implica lo stesso di lilāvatārana, in altre parole un
sacrificio volontario [sull’uso dei termini līlā e krīl, vedi l’articolo di
A.K.C., «Līlā», JAOS, 1941, trad. fr. ET., 1975, p. 13] In IX, 17, 6, Soma
è la «testa del sacrificio» (mārdhan yajnasya). In IX, 5-6, Soma è esplicita-
mente assimilato a Indra e a Prajāpati, e, in base alle espressioni usate, ad
Agni come in I, 13. In I, 134, 1, VIII, 7, 27 e VIII, 46,25, solo Vāyu, o i
Dēva tutti insieme, sono invitati a «spartirsi Makha» (makhasya davanti, o
forse meglio: «a prendere parte al sacrificio») e a «essere prodighi» (dāvanē)
a loro volta; il fatto che tutti in realtà si spartiscano la virtù di Makha può
essere dedotto dall’uso di makha, «coraggioso» (in battaglia, cfr. giganto-
machia) come epiteto non solo di Indra (III, 34, 2) ma anche di Pūshan,
Sāvitri, Agni, degli Ashvin e dei Marat.
Un pallido riflesso di questa dottrina si ritrova incidentalmente nel Bud-
dhismo pali, in cui si spiega che «Indra è chiamato Maghavā perché, in
uno stato umano, era stato un Brāhmana con questo nome» (Dialogues of
the Buddha, 2, p. 297, cit. SN., I, 230 e ]., IV, 403 = V, 137). Mukha, in
pali, significa «corruccio», «carattere spietato».
di Indra, Ait. Br., VII, 28]. Ma solo Dadhyañc Atharvan conosce il
modo per rimpiazzare la testa del sacrificio, e Indra, perfettamente
soddisfatto di ciò che è stato commesso, gli proibisce di rivelarlo.12

12 Dadhyañc stesso deve subire la decapitazione, dopo di che la sua testa


è sostituita con quella di un cavallo. Decapitazione paragonabile non solo
a quella che permette la processione di Agni-Surya, e che è seguita da una
restituzione simbolica nel rituale, ma anche a quella di Ganesha - che,
nella mitologia shivaita, è legato a Skand Kumāra, come Indra ad Agni
nel ŖV (relazione Brahmā-kshatra) - e che, avendo perduto la testa, riceve
quella di un elefante.
La dottrina del «mistero», del «miele», cioè del «soma» (cfr. X, 68, 8, ashnā-
pinaddam madhu) è quella del senso autentico del rito sacrificale; il suo si-
gnificato, come atto di espiazione e di reintegrazione, è la riparazione
dell’opera di disintegrazione con cui il mondo ha inizio. Questo mistero,
benché sia rappresentato nel rituale, deve essere rivelato soltanto a chi
possiede le qualifiche richieste (Sh. Br., loc. cit.).
La natura della «saporosa dottrina» nondimeno è indicata in maniera suf-
ficiente in Sh. Br., XIV, 1,2,18, e ancora più chiaramente in TS., VII, 3,1,4:
avendo preparato tre vasi Mahāvira, ci si rivolge a uno con la formula:
«Tu sei la testa di Makha», e all’altro silenziosamente; si spiega: «Per
mezzo di tutto ciò che si fa (karoti) con le formule Yajus, si costituisce
(samskaroti, «integra») questo aspetto (rūpam) di Prajāpati che è manifestato
e finito (niruktash caparimitash co) e per mezzo di tutto ciò che si fa silen-
ziosamente (tushnīm) si costituisce il suo aspetto non manifestato e infi-
nito», così che agendo nei due modi si costituisce Prajāpati nella sua to-
talità (sarvam kristsnam) e così lo si reintegra. Questa spiegazione si applica
per di più alla «recitazione silenziosa», per esempio manasā stavate in TS.,
VII, 3,1, 4, cfr. Sh. Br., II, 1, 4,29 e III, 9, 4, 6; cfr. anche le orationes secretae
nel sacrificio cristiano (la Messa) [vedi A.K.C., «The Vedic Doctrine of
“Silence”», Indian Culture, 1937]. La distinzione, nella pratica più tardiva,
tra l’adorazione in modo sottile (sukshma) e quella in modo grossolano
(sthula) è analoga. Quanto al rituale, non bisogna dimenticare che «l’osser-
vazione della regola è per il rituale come fu per la creazione» (Sh. Br., XIV,
1, 2, 26 e 3, 1, 36 ecc.); e poiché la «creazione» è, rigorosamente parlando,
eterna [cfr. ET., 1936, p. 13], si può enunciare a proposito del sacrificio
così come è considerato nei Brāhmana, quello che è stato detto a proposito
del sacrificio cristiano (la Messa): «Non è costretto o limitato dalle
Malgrado il divieto, Dadhyañc confida il segreto agli Ashvin (come
in ŖV, 1,116,12) e questi indicano ai Dêva l’uso corretto del vaso
Mahāvira, per «rimettere al suo posto la testa del sacrificio, restituire
l’integrità del sacrificio»; perciò gli Ashvin furono ammessi a pren-
dere parte al sacrificio.13 Lo Śatapatha Brāhmana, XIV, 1,2, 17, dà le
formule che permettono di costituire il vaso, le cui parti corrispon-
dono a quelle di una testa e, quando è terminato, ci si rivolge a lui
in questi termini: «Tu sei la testa di Makha».14 Nel Pañcavimśa Brāh-
mana, VI, 5, il Sole è emanato (asrijyata) dalla testa di Prajāpati:
«Egli15 mozzò la sua testa» e «quest’ultima diventò il drona-kalasha».
L’identità di Makha-Saumya e di Prajāpati è ugualmente palese in
Sh. Br., XIV, 1, 2, in cui entrambi sono ugualmente il sacrificio.**
A parte l’evidenza di questo paragone, in entrambi i casi la reinte-
grazione del creatore costituisce sempre lo scopo principale del ri-
tuale, quando questo creatore, disunito dalla manifestazione delle
creature, è caduto e non può risollevarsi.

condizioni del tempo e dello spazio» (B. Frost, The Meaning of Mass, 1934,
p. 63), e della sua portata, ciò che è stato detto del sacrificio ebraico:
«L’impulso del sacrificio mantiene i mondi», ed è grazie all’impulso del
fumo in basso che «la lampada (cioè il Sole) è infiammata in alto» (Zohar,
sezione Vayehi, II, 374, nella traduzione di Sperling e Simon). Qui come
altrove, il punto di vista vedico non è affatto particolare.
13 Al quale in origine non prendevano parte, come sappiamo dalla storia

di Cyavāna (P5r., XIV,, 6,10, Sh. Br., IV, 1,5, Jaim. Br., III, 120 segg. ecc.)
che identifichiamo con Prajāpati.
14 Formula tratta da VS., XXXVII, 8, mentre lo Sh. Br. aggiunge: «poiché

in verità è la testa di Makha Saumya», cioè quella di quel Makha che è o


era veramente Soma, cfr. p. successiva «Soma era Vŗtra».
15 «Egli» cioè «Indra». In Sh. Br., IV, 4, 3, 4 (Kànva), dèvàh... vyagrihnata

(Màdhyamdina) udvavarta.
** p. 27. Per Prajāpati, vedi Sh. Br., I, 6, 3,35-37, PBr., IV, 10,1, VI, 5, 1
ecc.
3. IL SACRIFICIO DEL RE SOMA
In Śatapatha Brāhmana, IV, 4, 3, 4, si ha: «Soma era allora Vritra.16
Quando gli Angeli lo colpirono, la sua testa si elevò girando (udva-
varta) e divenne il drona-kalasha», cioè il vaso di soma.17 Il fatto che
la testa diventi un vaso spiega perché certi vasi si chiamano kapāla,
«coppa fatta con un cranio», nel rituale e anche in altre circostanze.
Il «vaso degli Angeli» sarebbe il Sole, piuttosto che la Luna, che
allora sarebbe il vaso degli Asura.
La preparazione del soma rappresentava un sacrificio reale del Re
Soma, come mostra Sh. Br., IV, 3, 4, 1, cfr. IV, 4, 5, 21, in cui la
spremitura degli steli è detta l’uccisione di Soma; gli steli secchi
sono rigenerati simbolicamente tramite immersione nell’acqua, che
equivale alla linfa (rasa), che ha la funzione di atto espiatorio (cfr.
III, 9, 4, 2 e 7). La natura reale del sacrificio è ugualmente indicata
dall’uso della radice sham [«placare» o «uccidere», cfr. infra, p. 225] in
ŖV, V, 43, 4 «queste braccia che “danno il colpo di grazia” a Soma»
(somasya yê shamitārā).
Se si rammenta l’equivalenza tra vrit e math, è evidente che la fran-
tumazione degli steli di soma riflette la passione di Makha-Saumya
o di Vŗtra. L’ottenimento del soma è presentato come un ratto
compiuto dall’Aquila (Agni) a vantaggio di Indra, o come un furto
commesso da Indra in persona (un altro dei suoi kilbishāni), poiché
Soma, in quanto Re o in quanto Albero, all’origine era in mano ai
Titani (e da loro ben sorvegliato - cfr. X, 97, in cui Soma è il re delle
piante), il che si spiega col fatto che la loro esistenza era di molto
precedente a quella degli Angeli.18 Per quanto riguarda il sacrificio,

16 Cfr. Sh. Br., III, 4,3,13, III, 9,4,2, IV, 1,4, 8, IV, 2, 5,15. In ŖV, 1,191,
6, Soma è chiamato «fratello» dei serpenti.
17 Cfr. PBr., VI, 5, 7: «Il drona-kalasha è il vaso degli Angeli» [cioè il Sole;

in questo testo (ibid., 1) si tratta della testa di Prajāpati. Vedi la sezione


seguente (4) con Viśvarūpa e Vŗtra].
18 Come è noto, i Titani erano i primi possessori di Soma, grandi bevitori

di soma prima della nascita degli Angeli; «il Gandharva protegge il sog-
giorno (di Soma)» (IX, 83,4), per questo l’Aquila (Agni) lo porta a Indra,
si può ugualmente notare che i termini soma e purușa sono assimilati
in modo preciso in X, 51, 8, in cui «la Persona delle erbe» che riceve
Agni quando accetta il sacerdozio, non può essere altri che il Re
Soma.

o Indra lo sottrae per se stesso (ŖV, passim). Soma in quanto albero è il


re delle piante, l’Albero di Vita distinto dall’Albero di Morte, cfr. Genesi,
III, 22: «Che non prenda dell’albero della vita, ché non ne mangi e viva
in eterno». In quanto liquido, ottenuto quando l'«albero» è sacrificato, il
soma è la linfa (rasa), il sangue dell’albero, l’Acqua di Vita. D’altro canto,
la libagione di soma nei rituali terrestri non è mai quel vino di vita che,
grazie all’inebriamento che provoca, permette a Indra di vincere i Titani
e di provocare l’emanazione universale, è solo una bevanda d’immortalità
per analogia, rasa, amrita. Espressioni quali parvatāvridh (IX, 46, 1) o nābhā
prithivyā girishu (IX, 82, 3, cfr. V, 43, 4, IX, 72, 7 e Yashna XLII, 5) non
indicano affatto un habitat spaziale esistito all’origine, come se in seguito
questo luogo si fosse perduto.
Il soma è «perduto» in un altro senso: «Essi immaginano di bere il soma
medesimo quando la pianta è spremuta, ma ciò che i brahmani intendono
con Soma, nessuno mai lo gusta, nessuno che viva in questo mondo» (X,
85, 3-4, cfr. AV., XIV, 1, 5).
«Ciò che i brahmani intendono con Soma» non è certamente un liquido
fisico. Sotto questo aspetto, l’enunciazione esplicita di una dottrina della
transustanziazione (in Ait. Br., VII, 31) è significativa: «è metafisicamente
(parokshēna) che ottiene di bere il soma, non lo gusta letteralmente (pra-
tyaksham). Il Nyagrodha è metafisicamente il Re Soma; lo kshatrya ottiene
metafisicamente l’apparenza del potere spirituale (Brāhmana rūpam), in
qualche modo grazie al sacerdote, alla consacrazione e all’invocazione».
Soma, amrita, è divi... gulham, ŖV, VI, 44, 23-24. cfr. Sh. Br., III, 6, 2, 10-
11, in cui l’avvicinamento al Soma si compie solo con l’iniziazione (dikshà)
e l’ardore (tapas). Sulla transustanziazione, cfr. ancora KBr., XII, 5: «Lo
botri si rivolge a Soma: “Con la mente (manas) io ti mangio... ”: Così man-
gia questo cibo supremo di cui si nutrono i dêva»; BUp., I, 5,1: «Colui che
conosce questa indistruttibilità, colui mangia il cibo con pre-eminenza
(pratikēna), raggiunge gli Dei, vive d’ambrosia»; Ait. Br., II, 22: «Deve re-
citare: “La divina bevanda di Soma qui, al sacrificio, sul tappeto fiorito,
sull’altare, a tutto ciò partecipiamo”. Così il suo io spirituale non è escluso
dalla libagione di Soma».
È «alla maniera di Ahi che egli (Soma) abbandona strisciando la sua
vecchia pelle, ed è come uno scuro e robusto destriero che corre e
gioca»,* cosa che si accorda con «Soma era Vŗtra» e con la defini-
zione di Soma come «Cinghiale» (varāha, IX, 97, 7).

4. VIŚVARŪPA E VŖTRA
Viśvarūpa, «Onniforme», è contemporaneamente il nome di un Ti-
tano e un epiteto applicato a suo padre Tvaṣṭṛ, il creatore per artem.
In ŖV, II, 11, 19, X, 8, 7-9 e X, 99, 6 (abbiamo riunito questi dati),
vediamo Trita Āptya (cioè Agni ab intra, che arde di manifestarsi),
alleato a Indra, che uccide Viśvarūpa con tre teste,19 sei occhi, sette
raggi, e poi strappa violentemente (paravark) o porta via (ava... bha-
rat) le sue teste e fa razzia del suo bestiame. In II, 11, 19, Indra
consegna Viśvarūpa a «Trita, che è dalla nostra parte», e si può de-
durre che viene decapitato, perché nel verso successivo il Sole viene
messo in movimento (avartayat tūryo na cakram).20 In X, 99, 6, gli

* p. 28. ŖV, IX, 86, 44, ahir na jùrnàm ati tarpati tvacam atyo na krìlann asarad
vrishà harih.
19 Le tre teste di Viśvarūpa, come quelle del Sole, possono corrispondere

ai tre mondi, cfr. JUB., III, 11-12, dove è «con tre giri» (āvrīdhbir) del Gay
atra (Sāman) che Purușa conquista il Cielo, il mondo intermedio e questo
mondo, insieme a tutto ciò che essi contengono; il Gāyatra stesso è
tryāvrit. L’uso di āvrit risponde, qui e altrove, all’uso della radice vrit, così
come il senso particolare di āvritta, equivalente di pravritta, che significa
una venuta nei mondi.
20 La relazione tra Indra e il Sole talvolta è stata male interpretata; la sua

situazione è a rigor di termini quella di Lucifero prima della caduta. Indra


non è mai in guerra contro i suoi compagni, i dêva. E per loro che viene
supplicato di «spingere la ruota del Sole verso di noi» (pra sùrash cakram
vrihatàd abhikè, IV, 16, 12), è ai Titani - e per Kutsa allora combattente -
che Indra «sottrae la ruota solare» (cakram mushàya... suryam, IV, 30,4), così
come «cala» (ni khidat) la ruota e «ritira» (apa dhayi) la Vita Universale (vi-
shvāyu, cioè Agni) al Grande Demone (maho druhah, IV, 28, 2); un atto
simile di Indra è il ratto della Parola (vàcam mushayati, I, 130, 9), la cui
restituzione è domandata e compiuta (X, 109). In X, 23, 5, se egli «vince»
epiteti sono molto indicativi, ma il dāsa è chiamato Cinghiale (va-
raba), senza nessun altro nome.
Nelle versioni più estese della Taittirīya Samhitā, II, 4, 12, e 5, 1 segg.,
Viśvarūpa è il figlio di Tvaṣṭṛ da parte di «una sorella dei Titani»
Viśvarūpa è già stato messo a morte e Tvaṣṭṛ prepara un sacrificio
di soma da cui Indra è escluso. Ma Indra si appropria del soma con
la forza, così come riferiscono molti altri testi.21 Tvaṣṭṛ agita

(jayat) il Sole come a un gioco d’azzardo, è a danno dei Titani; in ogni


caso, non sconfigge il Sole, come pretende Macdonnel (Vedic Mythology,
p. 31). La grande rivolta di Indra contro il Padre, che provoca il rovescia-
mento del regno, ha luogo all’inizio. Nondimeno, nel Ŗg-Vēda Indra os-
serva in generale i rapporti legittimi tra kshatra e Brahmā, agisce come Fe-
dele Difensore (vratapd), il suo coraggio e la sua lealtà verso i compagni
non sono quelli di un individuo vile; il doppio Indrāgni mantiene addirit-
tura la riunione primordiale della regalità e del sacerdozio in una sola e
medesima persona. Nella letteratura tardiva (Brihad-Dēvatā, VII, 54-58),
però, particolarmente nel Buddhismo, sono sviluppate le possibilità insite
nel principio del potere temporale; Indra diventa Mammona. Evidente-
mente non bisogna confondere questo Indra, Lucifero e Satana, con la
«malefica» potenza delle Tenebre, la Morte (Mŗtyu, mura), la Deità, il «Pa-
dre malevolo». Tutta la misura dell’universo le separa, come separa le «te-
nebre esteriori» dalla Tenebra ab intra, «inaccessibile a ogni illuminazione,
celata a ogni conoscenza» (Dionigi l’Areopagita, Ep. ad Caium Monach.,
cit. da san Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, III, 92, 1), ma di cui san
Tommaso d’Aquino dice che è chiamata «Tenebra» «a motivo del suo
estremo splendore», cioè della sua luce accecante. Indra, benché di nascita
titanica come ogni altro diva, resta un Angelo anche nel suo orgoglio, es-
sendo come Satana «decaduto in natura, non in grazia». Invece il Padre-
Drago non fu né potrà mai essere «naturato»: è lui, che per sua natura,
natura tutte le cose.
21 Un altro dei numerosi kilbishāni di Indra. In ŖV, III, 48, 4, «Quando

alla nascita ebbe sconfitto (suo padre) Tvaṣṭṛ, Indra si impadronì


(āmushya) del soma e lo bevve»; in VI, 44,22, Indu (Indra, come in II, 22)
«sottrae le armi (ayudhāni) e le arti magiche (māyāh) al suo malevolo padre»
(pitur ashivasya - si noti l’idea contraria in X, 124,2-4, in cui Agni, benché
abbia scelto Indra e abbandonato il Padre, si dice malevolo e definisce
(avartayat) il resto del soma sul fuoco sacrificale, dicendo: «Salve!
Aumenta la tua crescita come avversario di Indra». Prende nascita
e gli danno il nome di Vŗtra, sia perché Tvaṣṭṛ lo «voltò» nel fuoco,
sia (etimologia più corretta) perché «avvolge» questi mondi.22 Vŗtra
compie un incantesimo su Agni e Soma, che così cadono sotto il
potere asurya. Indra e anche Tvaṣṭṛ (come in ŖV, I, 52, 10, e I, 80,
14) si allarmano. Tvaṣṭṛ affida la sua folgore a Indra23 e questi la
brandisce per uccidere Vŗtra, ma Agni e Soma gridano che essi
sono «in lui». Indra fa sbadigliare Vŗtra, allora Agni e Soma fuggono
dalla sua bocca.24 Il Cielo e la Terra sono estratti facendo una pro-
messa di luci al primo, e di belle forme (rupāni) alla seconda.25 È

benevolo il Padre). «Che cosa reclama Indra a sua Madre, al suo Padre
Progenitore che lo generò? (Domanda) ciò che provoca all’istante il suo
furore» (bere il soma), IV, 17,12. La rottura violenta dell’armonia preesi-
stente provocata da Indra e il trattamento brutale che infligge ai suoi ge-
nitori (come in IV, 18), benché in accordo con la provvidenza del Padre
spirituale [dhìtim pitur... parasya, X, 8, 7), diventano motivo di rimprovero;
a causa di queste offese, e di molte altre - e benché agisca spinto da un’in-
fallibile necessità e «faccia ciò che dev’essere fatto» - Indra talvolta è
escluso dal sacrificio, per esempio in Ait. Br., VII, 28, in cui si rammenta
il suo torto verso Bhŗaspati e Viśvarūpa, e «poiché rubò il soma di Tvaṣṭṛ,
ancora oggi il potere temporale (kshatra) è privo di soma». Agni, d’altro
canto, è il Redentore (kilbishasprit, X, 71, 10).
22 Sembra preferibile ricollegare i nomi Vŗtra e Varuna alla radice √vŗ,

«coprire», «rinchiudere», «dissimulare», piuttosto che a √vŗit.


23 Come viene detto più spesso, per esempio ŖV, I, 85, 9; ma in VI, 44,

22 Indù (Indra) «ruba al padre ostile le sue armi e la sua magia».


24 In X, 90, 13-14, Agni e Indra provengono dalla bocca di Purușa; la testa

di Purușa è «convertita» (sam avartata) in Dyauh, qui evidentemente il Sole


25 Analogamente, in PBr., XVIII, 9, 6, è da Vŗtra che il Cielo ottiene le

sue luci (nakshatrāni) e la Terra i suoi diversi aspetti (citrini rūpāni). I rūpāni
sono allora le «cose di ciascun genere», le «opere di distinzione, gli orna-
menti»; cfr. i pururūpā vapūmshī della Terra in ŖV, III, 55,5, vishvarūpāh-
pashuvah in VIII, 100, 11, sarvāni rùpāni in Ait. Br., V, 23, in relazione alla
Terra in quanto Regina Serpente, e Jaim. Br., I, 160, cfr. TS., II, 4, 6, dove
la Terra è citrā [«multicolore»]. La spartizione di Vŗtra, di Purușa, di
molto significativo il consiglio di Indra a Vişņu: «Vieni, imposses-
siamoci di ciò per mezzo di cui egli (Vŗtra) è questi mondi» (voyêna
ayam idam). In Śatapatha Brāhmana, I, 6, 3, il seguito delle azioni è
paragonabile; il soma è gettato nel fuoco: «Poiché lo giravano (var-
tamānah), divenne il Drago, poiché non aveva i piedi (apad), diventò
il Serpente».26 Ogni cosa, gli Angeli, le scienze, la gloria, il cibo e la
bellezza provengono da Vŗtra, che giaceva privato del suo conte-
nuto come un sacco vuoto, «ristretto e svuotato».27 Indra è pronto
a ucciderlo, ma l’altro gli dice: «Non farlo, perché ora tu sei ciò che
io (ero prima); spartiscimi soltanto».28 Indra lo taglia in due
(dvêdhānvabhinnat), facendo della parte che aveva contenuto il soma,
la luna, e dell’altra, la parte titanica, il ventre di tutte le creature -
cosa che fa dire agli uomini: «Vŗtra è in noi».29

Prajāpati, è l’atto di creazione che implica la separazione del Cielo e della


Terra. Sulla corrispondente divisione delle «luci» e delle «bellezze», cioè
della luce onniforme, «che porta le immagini» e dei fenomeni esemplifi-
cati, vedi A.K.C., The Vedic Doctrine of Exemplarism, trad. frane., E.J., 1976,
p. 49].
26 Su apad che designa il serpente, in opposizione a èkapad, padavì, vedi «Il

volto oscuro dell’Aurora».


27 II fatto che Vŗtra sia «svuotato» corrisponde all’espressione aricyata, uti-

lizzata a proposito di Prajāpati quando ebbe emesso le creature, per esem-


pio PBr., IV, 10,prajā asrijata so ’ricyata; e alle parole di Meister Eckhart:
«L’insieme di ciò che conosce, l’insieme di ciò che può offrire», ciò che
evidentemente è il suo aspetto finito e visibile, il suo «volto», poiché solo
un «quarto» del suo essere è «in divenire» (abhavat, ŖV, X, 90, 3-4), «i tre
quarti restano nascosti» (trinipadani nihità guhā, AV., II, 1, 2).
28 Risulta, dalla maggior parte dei testi, che il Drago non è stato messo a

morte, bensì gravemente ferito e reso impotente; è ugualmente il caso


anche di Prajāpati, il Sacrificio, che «sopravvisse a questa passione» (tām
va ayushārtim atyajivat, PBr., VI, 5) [allo stesso modo Iside rifiuta di far
perire Tifone: «ella gli rese la libertà» (cfr. Sh. Br., V, 2, 3, 7); Horus «non
distrusse interamente Tifone, ma gli tolse la forza e l’attività», Tifone è
evirato (Plutarco, Iside e Osiride, 19 e 55)].
29 Il cibo è la conditio sine qua non di ogni esistenza sotto qualsiasi modalità,

poiché l’anna-maya è il supporto di ogni modalità. Per questo motivo si


Nel Pañcavimśa Brāhmana, VII,5,20, Uśanas Kāvya, «che era il sacer-
dote dei Titani» viene persuaso a passare dalla parte degli Angeli,
che così vengono aiutati dal potere spirituale, cosa che spiega l’al-
lusione : «quando Uśanas venne a voi» (ŖV, V, 31, 8).30 Nel Jai-
minīya Brāhmana, I, 125, Bhŗaspati (altro figlio di Tvaṣṭṛ, RV, II, 23,
17) è il sacerdote degli Angeli, Uśanas Kāvya quello dei Titani; la
vittoria degli Angeli è assicurata quando quest’ultimo passa dalla

dice di Purușa, il Signore della Vita, che «egli si erge per mezzo del cibo»
(X, 90, 2); poiché il cibo è la prima manifestazione dello Spirito, «il soffio
vitale è modificato (-maya) dal cibo» (MUp., VI, 11).
Il fatto che Vŗtra sia «in noi», rispondendo al concetto di un fuoco o di
una combustione digestiva, suggerisce un parallelismo interessante. È tra-
mite lo «stomaco» che siamo incitati ad assumere il «cibo» (come fa notare
Sh. Br., I, 6, 3, 17), e se lo stomaco è identificato con il Drago o il Serpente,
allora si può dire che quando l’«uccello» mangia il frutto zuccherino del
fico (svādu pippalam alti, 1,164,20), «il Serpente lo tentò» - come in Genesi,
«Il Serpente mi ingannò e io ne mangiai». Al contrario, il digiuno si può
considerare non come un esercizio morale, ma come un rito metafisico,
un’imitazione dell’altro «uccello» che «non mangia dell’albero» ma si li-
mita a guardarlo (abbi cākashīti, ibid.) [secondo Ibn 'Arabi, «La fame pro-
cura la conoscenza di Satana» (La Parure des Abdāl, l'T., 1950, p. 302], Il
concetto di «cibo» comporta evidentemente numerose applicazioni, che
coprono tutti gli oggetti del desiderio, poiché la loro acquisizione deter-
mina il comportamento specifico dell’individuo. L’identificazione di
Vŗtra con il ventre - la somiglianza tra gli intestini e il serpente è palese -
corrisponde alla concezione diffusa nell’Antichità, che fa delle «viscere»
la sede delle emozioni, cioè del desiderio, distinte dal «cuore», in seno al
quale si effettuano le operazioni intellettive.
30 Qui la «persuasione» - che spesso è una corruzione - corrisponde alla

«conversione» effettuata altrove in maniera più violenta; in ŖV, 1,148, 1,


per esempio, è Agni che Mātariśvān «afferra con una forte stretta» (mathīd
yad im vishtah) per obbligarlo a essere «il sacerdote dai molteplici aspetti, il
sacerdote di tutti gli Angeli» (hotāram vishvāpsum vishvadēvyam, in cui vi-
shvāpsum - vaishvaraupyam). Cfr. Agni come «Sacerdote titanico» (VII, 30,3),
il Sole come «Sacerdote titanico degli Angeli» (VIII, 101,12). Si veda an-
che ŖV, X, 124.
loro parte. Nella versione del Bhāgavata Purāņa, VI, capitoli VII-
XIII, Vŗtra si comporta con grande nobiltà, ma accusa Indra di
avere commesso l’omicidio di un brahmano uccidendo il suo guru,
Viśvarūpa, qui fratello di Vŗtra. Indra impiega 360 giorni per ta-
gliare la testa a Vŗtra, atto che evidentemente costituisce un «Anno»
ciclico, durante il quale il Tempo, per così dire, si manifesta in
modo graduale. Cosa che in effetti riprende la narrazione della Tait-
tiriya Samhitā, in cui Viśvarūpa è un brahmano e in cui Indra è ac-
cusato dell’uccisione di un brahmano, errore di cui porta le conse-
guenze per un «Anno», vale a dire fino alla fine di un ciclo, fino al
«Giorno del Giudizio».*
La versione del sacrificio di Tvaṣṭṛ fornita nel Śatapatha Brāhmana,
II, 2,4,1-8 è di particolare interesse, e chiarisce molto bene la sua
importanza in quanto atto creatore. Qui il nome di Prajāpati sosti-
tuisce quello di Tvaṣṭṛ, e il concetto di creazione per generazione
quello di creazione per artem. Prajāpati all’inizio è solo e desidera mol-
tiplicarsi; egli espira Agni, il fuoco sacrificale, come ci si poteva at-
tendere da parte di colui che in realtà è il Drago. La Terra31 è «calva»,
senza vegetazione. Il Fuoco è divorante. Prajāpati ha paura: allora
la sua Onnipotenza (mahimā), o la sua Parola (vāc), lo abbandona
(apacakrāma); in altri termini, si produce la scissione del Principio
Primo, la separazione dell’Essenza e della Natura, del Cielo e della
Terra, che erano stati uniti.** Prajāpati «cerca di fare in lui stesso
un’offerta» (ātmann êva ābutim īsbā); «sfrega» (udamŗșta), e sfregò così
fortemente le mani l’una contro l’altra che ancora oggi i palmi delle
mani sono privi di peli (cfr. BUp., I, 4, 6). Ottiene (vivêda, «trovò»)
così un’offerta di «latte» (payas), che corrisponde evidentemente al
soma in TS., citato in precedenza. Getta questo «latte» nel fuoco e

* p. 30 [Vedi A.K.C., «Mahā-Pralaya and Last Judgement», The Cultural


World, 1932],
31 Prithivi = urvarā, ugualmente senza capelli in ŖV, VIII, 91, 5-6; cfr. PBr.,

XX, 14, 5.
** p. 30. Come in BUp., 1,4, 3, cfr. 17, ātmānam dvēdhāpātayat; JUB., 1,54, tē
vyadravatām; ŖV, X, 27, 23, krintatrād eshām ecc.
ne nascono le piante. Sfrega di nuovo e ottiene un altro fiotto. Esita
a fare un’offerta di quest’altro latte (che corrisponde al «resto di
soma» nella TS.) Allora prende la parola la sua Onnipotenza: «Fa’
l’offerta!» (juhudhi). Getta per la seconda volta il «latte» nel fuoco;
«allora il Sole apparve (udiyāya), il Vento si levò (pra babhūva), il
Fuoco fu allontanato» (agnih paran paryāvartata). Così Prajāpati «si
propaga superando il Fuoco, la Morte». Infine, questa Resurrezione
del Dio morente32 è, per chi la comprende, la promessa di una ana-
loga rigenerazione, «perché quando muore, e quando lo depongono
nel fuoco, allora egli (ri)nasce dal fuoco (agner adhijāyatê), il fuoco
non consuma che il suo corpo» (Sh. Br., loc. cit. 8); tutto ciò si ac-
corda con i dati degli inni funebri del Ŗg-Vêda, e una dottrina non
potrebbe essere più esplicita di così.
Si possono rilevare determinate caratteristiche comuni a Viśvarūpa,
Agni, Surya, come ad altri aspetti del principio della manifestazione.
Agni ab intra (pitror upasthê) ha, come Viśvarūpa, tre teste e sette
raggi (ŖV, I, 146, 1); Agni (II, 5,2) e il Sole (VIII, 72,16) hanno
ugualmente sette raggi; e «là ove sono questi sette raggi, risale la mia
parentela (nabhi, «ombelico»); Trita Āptya lo sa, lui che si rivolge
alla mia famiglia» (I, 105, 9; cfr. X, 64,13 e III, 5, 5). In III, 38, 4, è
sotto l’aspetto del Sole che si manifesta Viśvarūpa; «Quando (il
Sole) si innalzava si ornava di tutte le cose, luminoso da se stesso
avanzava pieno di gloria; la forma possente del Toro, del Titano, è
l’Onniforme che assume le sue eviternità». In Vājasanêyi Samhitā ci
si rivolge ad Agni come alla «luce onniforme» (jyotir asi viśvarūpam).*

5. IL CINGHIALE, VARĀHA, EMUŞA


Il Cinghiale - nei Purāņa un avatāra di Vişņu - che, al principio, fa
sorgere la Terra dalle Acque, è, nel Ŗg-Vêda, una potenza ostile che

32Cfr. PBr., XXV, 17, 2-3, in cui Prajāpati, «inebetito dall’età», compie il
sacrificio per essere di nuovo in atto, in quanto principio animatore
dell’universo, sarvasya prasavam agacchat.
* p. 31 [Per questo paragrafo, vedi «L’Exemplarisme védique», art. cit.]
rifiuta agli Angeli e agli uomini la possibilità di vivere; è identificato
con Viśvarūpa e con Vritra.33
In due passi del Ŗg-Vêda, Vişņu è associato a Indra nell’uccisione
del cinghiale. Nel primo (I, 61, 7), in cui si menziona il furto com-
messo durante una libagione di soma, Vişņu può essere un agget-
tivo qualificante Indra; nel secondo (VIII, 77, 10) è manifestamente
Vişņu che «porta (la pietanza) cotta». In generale, l’impresa è tipi-
camente quella di Indra, benché sia a vantaggio di Vişņu, come in
TS., II, 4, 12, già citato. Per esempio in ŖV, I, 121, 11, vediamo:
«Tu, il grande (Indra), addormenti con la tua folgore il Cinghiale, il
Drago (vritram... varāham) che giace (āshayamānam) nei corsi d’ac-
qua». Nella Taittirīya Samhitā, VI, 2, 4, 2-3, si dice che il cinghiale
Emușa è di guardia al tesoro dei Titani, oltre le sette montagne,
senza dubbio al di là dei sette mondi, d’accordo con il fatto che al
principio i Titani possedevano tutte le cose. Indra, incoraggiato da
Vişņu, trapassa le montagne (cfr ŖV, VIII, 77, 6 e 96, 2) ed entrambi
entrano in possesso del cibo e delle ricchezze, cioè come in ŖV,
VII, 5, 3 i Titani sono costretti a rinunciare ai loro «piaceri» (bho-
janāni). Nella Taittirīya Samhitā, VII, 1, 5, 1, il Cinghiale, che ora sol-
leva la Terra al di sopra delle Acque, è identificato con Prajāpati, il
Sacrificio, così come con la Morte e l’Anno (in Sh. Br., X, 4,3,1- 3).
Questo non deve stupire, non più del duplice ruolo svolto dal Cin-
ghiale o Vişņu, poiché tali apparenti contraddizioni sono la conse-
guenza inevitabile delle operazioni opposte* e del duplice aspetto
della divinità che si muove in due direzioni antitetiche (dvivartani,
X, 61, 20 ecc.), si trova all’incrocio dei sentieri (panthām visargê... ta-
sthau, X, 5, 6) e cambia aspetto a suo piacimento, passando dalla
sterilità alla generazione (VII, 101, 3).

33 ŖV, X, 99, 6 e I, 61, 6-8,1, 121, 11, cfr. I, 32, in cui Vŗtra è anche Vyāmsa
e il «primogenito dei serpenti», pratbasajām ahīnam, IV, 1, 11, in cui Agni
jāyataprathamah... budhnē... apad ashirshā guhamāno anta, cioè è Ahi Budhnya,
e X, 90, 7, Purușam jātam agratah.
* p. 32. ŖV, X, 23, 1, vivrata, III, 38, 9, virūpa kritāni ecc
6. AHI-VŖTRA
Abbiamo già esposto certi dati relativi a Vŗtra e, in base a A V, I,
32 e altri testi, non si può più mettere in dubbio l’equivalenza tra il
Drago, Vŗtra e Ahi,34 il Serpente.

34 Ahi corrisponde all’Azhi dell'Avesta - conosciuto anche con il nome di


Vishapa, «dalla bava velenosa» - e al Mūshussu sumerico, il drago a sette
teste ucciso da Ninurta, che divenne Tiàmat troncata da Marduk, di cui
la metà del corpo servì a quest’ultimo per fare il Cielo. «Sarebbe stato
strano che questa leggenda del tutto indiana e iraniana non fosse in ultima
istanza di origine sumerica» (Langdon, Semitic Mythology, p. 130 e fig. 57,
che si potrebbe benissimo descrivere come una rappresentazione di Indra
che uccide Ahi-Vŗtra con il suo vajra). Le stesse considerazioni sono
enunciate da Frankfort nel suo articolo «Gods and Myths in Sargonid
Seals», Iraq, 1934, p. 19, a proposito della tav. III, fig. h, cfr. tav. I, fig. a,
nella stessa rivista, e si potrebbero aggiungere le stesse osservazioni a pro-
posito di tali figure. Frankfort fa anche notare che i sigilli sumerici prefi-
gurano l’uccisione dell’Idra di Lerna da parte di Ercole; aggiungiamo che
nella mitologia greca, Zeus è rappresentato sia da un serpente, sia da un
toro, e che la lotta tra Ercole e l’Idra è in realtà quella del figlio contro il
padre, cfr. Harrison, Prolegomena to the Study of Greek Religion, p. 495.
Non si può mettere in dubbio la corrispondenza tra l'ahi, il sarpa e il
pridāku vedici e il nāga delle epoche successive; questo appare sicuramente
sia su base ontologica (la capacità propria dei nāga di assumere a piaci-
mento una forma «ofidica» oppure «umana», l’associazione tra i nāga e
Varuna, l’Ovest e il regno acquatico, e il modo in cui i nāga, spesso dotati
di sette teste, sono rappresentati nell’iconografia), sia nell’epiteto signifi-
cativo di ahi-nāga del Serpente vinto dal Buddha nel tempio del fuoco,
Mahavagga, 1,15, 7 (Vinaya Pitaka, I, 25).
Quanto a Varuna, l’assimilazione ad Ahi-Vŗtra è sviluppata nella sezione
successiva (7). Se il Ŗg-Vēda non lo descrive esplicitamente come ser-
pente, i testi e l’iconografia ulteriori sono unanimi nel riconoscere che
tale è la sua vera natura. Varuna è una vipera (pridāku, AV., XII, 3,57),
come i fiumi ab intra (pridākvah, ibid., I, 27, 1); Indra vince le vipere maschi
e femmine (ibid., X, 4, 17), cioè li purifica come fa per Apālā (ŖV, VIII,
91). I testi apotropaici che riguardano Varuna sono numerosissimi, per
es. ŖV, X, 97, 16, in cui Varuna è assimilato a Yama, e Sh. Br., XII, 7,2,17,
in cui Varuna è il «male» (pāpman), e lo scopo dell’offerta è di «convertirlo»
in Sāvitri secondo ŖV, VII, 101, 3. Questi ultimi tre testi sono indissolu-
bilmente legati. L’oceano, il regno proprio di Varuna, è la «dimora dei
nāga» (nāgānām ālayam, Mbh., 1,21,6 e 25,4), e a Bharhut i nāga sono rap-
presentati tra gli angeli della parte occidentale (JRAS., 1928, p. 392). Va-
runa e Sagara sono dei nāgarāja nel Mahāvyutpatti, nel Nīlamata Purāņa, Va-
runa-pancami sostituisce l'espressione più corrente nāga-pancami, in Nepal,
un Varuna a sette cappucci di cobra può occupare il centro di un nāga-
mandala. Nella cosmologia buddhista, Virūpāksha, che in quanto Reg-
gente dell’Ovest corrisponde a Varuna, è a sua volta un nāgarāja. Si noterà
che il termine virūpa non poteva significare in origine «deformato», senso
per il quale abbiamo dushkrita in un altro ordine di idee; nel ŖV, virūpa
implica sempre una dualità di aspetti, o un’alternanza di aspetti per ciò
che è in se stesso essenzialmente identico o consustanziale; per es.,
1,95,1,1,122,2, V, 1,4, in cui la Notte e l’Aurora sono virūpa , «di aspetto
differente», VII, 103, in cui le rane brahmane sono designate nello stesso
modo, e X, 95, 16, in cui Urvaśī soggiorna tra i mortali «sotto un altro
aspetto», virūpā. Virūpāksha significherà quindi «con gli occhi diversi», co-
sa che si applica a Varuna, i cui «occhi» sono il Sole e la Luna.
La leggenda del Buddha conserva una doppia versione della lotta di Indra
(a volte di Agni o di Bhŗaspati) contro Ahi-Vŗtra, che è anche Mŗtyu, il
principio della Morte. In primo luogo nel Mara Darśana, in cui si può
notare che Mari (= Mŗtyu) utilizza le armi caratteristiche di Ahi, che fa
ricorso al fulmine, al tuono e alla grandine (ŖV, I, 32, 13), o di Dāsa
Namuci, che «fa delle donne le sue armi» (ŖV, V, 30, 9) e «combatte il
Toro con le donne» (X, 27, 10), e che il Buddha è abbandonato dagli
Angeli spaventati, proprio come Indra nel Ŗg-Vēda, p. es. IV, 18, 11, VIII,
93, 14, VIII, 96, 7 («Fuggendo i ruggiti minacciosi di Vŗtra, tutti gli Angeli,
tuoi compagni, ti abbandonano») e in Alt. Br., III, 20 e IV, 5. in secondo
luogo, nella conversione dei Jatila (che sono anche dei Kashyapa, «Tarta-
rughe») in occasione della quale il Buddha trascorre la notte in un tempio
del fuoco, dimora del nāga Ahi (ahināgam in Mahāvagga, I, 15, 7) e lo scon-
figge, combattendo così il fuoco col fuoco (tējasà tējam). Nella tradizione
jaina, si ritrova questo racconto nell’episodio del conflitto tra Mahāvira
(nome che indica Indra nelle formulazioni vediche) e un avversario senza
nome, che appare sotto forma di un serpente (Hemacandra, Trishashti-
shalākā Purușacaritra, parva 10); altrove, comunque, questo serpente è
La decapitazione è indicata in 1,52,10** e, se si rammenta che śiras
= sānu,35 si vede che lo stesso avvenimento si verifica in I, 32, 7,
dove si tratta di un colpo alla nuca, seguito da uno smembramento.
Nei testi che citeremo, si noterà in modo particolare la suddivisione
di un principio «disteso» e «addormentato», unico all'origine.
Così IV, 19, 3: «Tu (Indra) smembrerai il Serpente (ahim = vŗtram)
senza parti (aparvan), l’insaziabile, senza risveglio (abudhyam), addor-
mentato (abudhyamānam) in un sonno profondo (sushupānam), di-
spiegato (viyatam), giacente (āshayānam) contro le sette scarpate»
(sapta prati pravatah);* II, 11,5: «Tu, il Campione (Indra), con la tua
forza virile (vīryêna) hai colpito il Serpente, il Mago oscuramente

chiamato Samgana, cioè Yama (per uno studio più completo, si veda
A.K.C., «The Conqueror’s Life in Jaina Painting», Journ. Ind. Soc. Or. Art.,
1935). Il nome di Jina, «Conquistatore», applicato a Mahāvira, non meno
di quello di Tirthamkara, rievoca la terminologia vedica.
Nella tradizione indiana, in effetti non c’è alcun aspetto del principio della
manifestazione che, all’inizio, non sia impegnato per necessità in una lotta
accanita contro la Morte.
In fin dei conti, il problema del carattere ario o non-ario dei nāga è stato
posto in maniera non del tutto corretta, cfr. Vogel, Indian Serpent Lore, p.
32,191, 225, 226. I serpenti sono per definizione non-arii, lo diventano
solo tramite «qualificazione» (arhana) e «strisciando al di là» (atisarpana, da
cui l’imitazione di questo movimento nel sacrificio rituale); d’altra parte,
la dottrina riguardante i serpenti fa necessariamente parte sia della tradi-
zione aria vedica, sia di tutta la tradizione non-aria, per esempio quella
sumerica. Si può facilmente capire l’importanza dell’uccisione del drago
in tutte le tradizioni, quando si sa che lo smembramento della potenza
ofidica è precisamente l’atto della creazione.
** p. 32. Egli «gli mozzò la testa», abhinac chirah, cfr. II, 11, 2, ava abhinat,
II, 20, 6, ava... shiro bharad dāsasya, VIII, 6, 6, shiro bibhēda.
35 35 La «testa» del vaso mahāvira, rispettivamente in Sh. Br., XIV, 1,2,17

e Ap. Sb. S„ XV, 2, 14.


* p. 33. Cfr. 1,67,7, varaham tiro adrim e 73, VI, 2,4,3, saptanam girinam.
nascosto, celato nel segreto delle Acque, lui che tratteneva le Acque
e la Luce del Cielo».36
Lo svolgimento dei fatti è esplicito in II, 19, 2-3, in cui «Il possente
Indra, tagliando a pezzi il Serpente che tratteneva il fiotto (arni vri-
tam)37 mise in movimento il flusso delle acque verso il mare (della
vita), fece nascere il Sole (ajanayat sūryam), scoprì il bestiame e con
il favore della notte compì l’opera dei giorni», cfr. I, 61, 10. Analo-
gamente in II, 11, 18: «Tu tagliasti in due l’aracneo Vŗtra, figlio di
Dānu,38 tu svelasti la Luce per l’Ariano (apa avrinor jyotir āryāya), tu

36 Guhā hitam guhyam gūlham apsv apīvritam māyinam kshiyantam, apo dyām ta-
stambhvānsam; come in numerosi testi, dyau qui equivale al «Sole». Quanto
alla radice stabh, è impiegata non nel senso positivo di «supporto», ma
come in ŖV, VI, 44, 22, in cui «Soma inchioda l’avaro al suolo» (panim
asthabhāyat).
37 Vritam, dalla radice √vŗ, «avvolgere», «ostruire», «trattenere», e senza

dubbio sottintendendo vritram, come dimostrano I, 52, 2 e VIII, 12, 26,


Vritram nadī-vritanv. «Il Drago che trattiene i fiumi e non li lascia scorrere».
A questo proposito, senza riprendere nei dettagli l’esegesi kabbalistica del
Genesi, e la corrispondenza tra, da un lato Faraone, Mosè, gli egiziani e gli
israeliti, e dall’altro Vŗtra-Namuci, Indra, gli Asura e gli ariani, si può ri-
cordare il testo degno di nota di Ezechiele (XXIX, 3): «Eccomi contro di
te, Faraone, re d’Egitto, grande Drago (tanim-il babilonese tiàmat), sdraiato
in mezzo ai suoi fiumi, che hai detto: Questo Fiume appartiene a me, per
me stesso l’ho fatto» [Cfr. ibid., XXXII, 2, 6 e 14: «Tu eri come un drago
nei mari... Innaffierò la terra con il tuo flusso, il tuo sangue, sulle monta-
gne, e i burroni saranno riempiti di te... allora farò scorrere i fiumi come
olio»].
38 Vritram dānum aurnavābham, poiché Vŗtra è anche Dānava in ŖV, I, 32,

9 e Sh. Br., I, 6, 3, 9.1 nomi si prestano alla confusione. In Sh. Br., loc. cit.,
Dānu e Danāyū, o Dānavī, ricevono Vŗtra ferito «come (se fossero stati)
sua madre e suo padre». Dānu non compare nel Ŗg-Vēda. Dānu, in II, 11,
18, è evidentemente un patronimico, o piuttosto un matronimico, nel
qual caso Dānu o Danu potrebbe essere il nome della madre. In I, 32, 9,
Dānu con Vŗtra-putrā deve essere la madre; il fatto che Indra li anneghi
entrambi - «la madre sopra e il figlio sotto, là giace Dānu come una vacca
con il suo vitello» (sahavatsd na dhēnuh) si accorda perfettamente con il
fatto che Dānu significa ugualmente «liquido», «umidità» o «bruma»,
facesti sprofondare il Dasyu»;39 il versetto seguente implica l’iden-
tificazione di Viśvarūpa e di Vŗtra, che altrove è detto suo fratello.
L’esposizione più completa, e forse più interessante, si trova in ŖV,
I, 32; Indra smembra Vyamsa «il più Vŗtra, primogenito dei

poiché si dice che i flutti scorrono sul corpo ferito di Vŗtra. «La vacca con
il suo vitello» rammenta Aditi-Vāc e Agni (cfr. I, 164, 17), qui questo Agni
che si rifugia nelle Acque (X, 51, 1 ecc.). Dānu in effetti è dello stesso
tipo degli Āditya Mitravarunā (dānunaspatī in 1,136, 3 e II, 41, 6) o degli
Ashvin (VIII, 8, 16), Ahi nasce dalle Acque (abjā in VII, 34, 16), Śuşņa è
figlio della bruma (miho napāt, V, 32, 4), Agni è figlio delle Acque, passim,
delle «Acque scintillanti» (dānucitrāh, V, 31, 6) delle «Acque la cui abbon-
danza» (rādhasā dānuh) si spande per Indra (I, 54, 7). I nomi Dānu e
Dānava, che abbiamo preso in esame, sono etimologicamente diversi dai
termini Dānu e dānava, dalla radice dā, «dare», il cui senso è «generoso».
Tali difficoltà si possono risolvere solo alla luce della dottrina dell’opera-
zione duale (vivrata), affermata chiaramente nel Ŗg-Vēda come in ogni al-
tro insegnamento tradizionale.
39 Arya e Dāsa, o Dasyu, nel Ŗg-Vēda sono sinonimi rispettivamente di

Deva, Manushya o Narya, e Asura, gli ariani essendo coloro che superano
le Acque e diffondono la Luce, questione analizzata nel nostro Ŗg-Vēda
as Land- Nāma-Bók [1935, s.v. Arya, p. 1]. È solo per analogia che questi
termini sono stati applicati alle società umane. Incidentalmente, diciamo
che l’incoerenza di una discriminazione sociale basata sulla pretesa esi-
stenza di un’etnia ariana diventa palese sapendo che siamo tutti ariani da
parte di padre e non ariani da parte di madre, perché il principio femmi-
nile nel Ŗg-Vēda è sempre di natura asurica; siamo figli del giorno e della
notte, del fuoco e dell’acqua, la nostra stessa esistenza proviene da un’eso-
gamia e da una generazione duplice, e di conseguenza ereditiamo una
simmetria bilaterale, cfr. la correlazione tra l’occhio destro e Indra, l’oc-
chio sinistro e Indrānī in Sh. Br., X, 5, 2 e le Upanişad. Eva, «la madre di
tutti i viventi», è tratta da un fianco di Adamo, cfr. Parśu, la «Costa» figlia
di Manu (X, 86,23), che è la madre dei figli degli uomini (Sh. Br., I, 8, 1,
8-11); mentre nello Shah Nāmah, che Buckler ha definito «un’epopea della
genealogia del regno di Dio sulla terra» la madre è sempre turanica, e più
di una dinastia indiana fa risalire la sua origine a una Nāgini; nell’Edda, le
spose di Aegir sono sempre di origine vana o titanica.
Serpenti, come si sega un albero in tondelli, così che giaceva evirato
(vrishno vadhrih),40 sparpagliato» (purutrā... vyastah). In I, 61, 10, Indra
fa a pezzi il bruciante Vritra;41 in VIII, 6,13, lo «squarta e conduce
le Acque verso il Mare»; in I, 130, 4, «impiega la folgore (contro
Ahi) come un coltello per tagliare» mentre in VIII, 7, 23, sono gli
alleati di Indra, i Marut, che «lo dilaniano» (vi vritam parvasho yayuh).
Restano da notare le corrispondenze e i contrasti più evidenti. Si
ammette in generale che Agni e Ahi Budhnya siano della stessa na-
tura; in I, 79, 1, Agni è un «serpente furioso» (ahir dhunir).42 L’Ai-
tarêya Brāhmana, III, 36, utilizzando una terminologia strettamente
tecnica, spiega che Ahi Budhnya è invisibilmente (paroksbêna) ciò
che Agni Gārhapatya è visibilmente (pratyaksha), così come la Vāja-
sanêyi Samhitā, V, 33, in cui Ahi Budhnya è identificato con Aja

40 «Evirato», che si accorda con le descrizioni del dio ab intra: cieco, zoppo
e impotente, e la definizione del principio femminile ab intra come Vadh-
rimatī: «Di volta in volta sterile o fecondo, modella il suo corpo a suo
piacimento» (starīr u tvad bhavati sūta u tvad, yathāvasham tanvam cakra ēshah,
ŖV, VII, 101,3), che corrisponde da una parte a AV., VI, 72, 1: «Per
mezzo della sua magia titanica il (serpente) nero si distende, assumendo
le forme (cioè «ofidiche» o «umane») che vuole» (yathāsitah prathayatē
vashān anu vapūmshi krinvann asurasya māyayā) - asita, il «nero» (serpente,
pelle o veste) rinvia all’aspetto ab intra di Agni o del Sole, come in AV.,
XII, 3, 55 e TS., III, 2, 2, 2 - e d’altra parte a ŖV, X, 168, 4, in cui «lo
Spirito degli Angeli si muove a piacimento» (ātmā dēvānām... yathā-vasham
carati). La dottrina dell’«impotenza della Divinità» è comune alla tradi-
zione vedica e all’esegesi cristiana (in particolare in Meister Eckhart), ma
richiederebbe uno studio più lungo e più completo di quello intrapreso
in questa sede.
L’assimilazione della caduta di Vŗtra all’abbattimento e al sezionamento
di un albero (cfr. X, 89, 7) ha la sua importanza relativamente alla domanda
posta in X, 31,7 = X, 81,4: «Qual era il legno, qual era l’albero a partire
dal quale modellarono il Cielo e la Terra?» e relativamente alla definizione
abituale di Agni e di Soma come vanaspati [«Signore della Foresta»].
41 Śuşantam indica un’identificazione con Śuşņa, l’«Aridità», come in VIII,

6, 14-15.
42 Dhuni è anche il nome di un Titano in VIII, 19,4 e X, 113, 9.
Ekapad,43 il Sole, poiché l’invocazione adopera un epiteto proprio
di Agni: adhvapati, «Signore della Via». Il vocabolario di ŖV, II, 11,
5 citato più sopra usa termini propri del Sole occultato: per esempio
V, 40, 6 segg., in cui, quando il Sole è colpito dalle tenebre del tita-
nico Svarbhānu, Atri «lo trova nascosto dalle tenebre e inattivo»;44
cfr. 1,117,4-3, dove Rêbha, avendo bisogno di aiuto, è assimilato al

43 A proposito del Sole come Ekapād, «Dal piede unico», vedi Dumont,
JAOS., 1933, p. 326 segg. Poiché in origine il Sole era privo di piedi, Va-
runa glieli dona perché possa avanzare, ŖV, I, 24, 8; Varuna stesso, come
Sole, «col piede brillante si inerpica sulla volta celeste» (arcināpadā nākam
āruhat, VIII, 41, 8). I piedi del Sole sono i suoi raggi; il suo piede unico,
che è di volta in volta scuro e brillante (Mbh., XII, 362, 7-8) coincide con
l’asse dell’universo (skambhēna vi rodasiajo nadyām adhārayat, VIII, 41,10); il
fatto che sia di volta in volta scuro e brillante (asita, shucina, Mbh., XII,
362, 7-8) corrisponde a ŖV, V, 62, 8, in cui il pilastro su cui salgono
Varuna e Mitra è d’oro all’aurora e di bronzo al crepuscolo, e ciò che
vedono dall’alto quando il pilastro è d’oro, è il finito (ditim), ciò che ve-
dono quando è di bronzo, è l’infinito (aditimi). Certo, il Sole ha anche
«mille piedi» (sahasrapādam, VIII, 69, 16), cioè un numero indefinito di
raggi, ciascuno dei quali è, dal punto di vista dell’individuo, corrispon-
dente a questo raggio, l’«unico piede» del Sole, e contemporaneamente il
pilastro (skambha = stauros) o il ponte (sētu = cinvad, bifröst ecc.) che allo
stesso tempo collega e separa il Cielo e la Terra, la luce e le tenebre.
Un’altra allusione al Sole come êkapad figura in VS., XXIII, 50, ēkēna an-
gina paryēni. Questa concezione dev’essere stata rappresentata visivamente
in una certa epoca, perché si è mantenuta nell’arte popolare fino ai nostri
giorni, si vedano le due rappresentazioni del «Castello del Sole» riprodotte
in A. N. Tagore, Bānglar Vrata, Calcutta, s.d., tav. 99, in cui per giunta
l’«unico piede» del Sole è portato da un’imbarcazione o da un’altalena (nau
e prēnkha inŖV. VII, 88, 3, cfr. VI, 58, 3, prènkha dorato in VII, 87, 5,
naunagara in Jaim. Br., I, 125).
44 Gūlham sūryam tamasā apavratèna... avindat, in cui apavrata = avrata, «sfac-

cendato», termine peggiorativo spesso applicato all’aspetto non ariano,


che indica binazione» divina; qui significa che il Sole non brilla, è oscu-
rato, apivritam, come in II, 11, 5.
«cavallo occulto (ashvam na gūlham)... dormiente in seno alla Distru-
zione,* al Sole soggiornante nelle Tenebre».45
Il termine aurnavābha, forma patronimica o semplicemente aggetti-
vale di Urnavābha, «filatore», cioè il «Ragno», non è priva di inte-
resse. In ŖV, VIII, 77, 1-2, i «forti e celeberrimi Aurnavābha e
Ahīshuva» sono destinati a essere sconfitti da Indra, cosa che av-
viene in VIII, 15,16, dove aurnavàbham qualifica vŗtram, come in II,
11, 18. Nei Brāhmana, Urnāyu è un Gandharva. In ŖV, VI, 15, 16,
l’altare, luogo di nascita di Agni, è un «nido unto e lanuginoso».46

* p. 34. Sushupvansām na nirritēr upasthe, cfr. I, 164, 32.


45 Suryam na tamasi ksiyantam, cfr. tamasi kshēsi, parole indirizzate ad Agni,

la cui processione è ritardata (X, 51, 5) e kshēti budhnah, termini applicati


ad Agni in quanto «resta nel suo luogo d’origine» anche quando avanza,
III, 55, 7. Tutte le associazioni di Agni con il termine budhna, nel Ŗg-Vēda,
implicano il suo budhnya, il suo carattere ctonio; la sua origine terrestre nei
mondi è sempre uguale alla sua nascita in seno all’essere divino. Si può
citare un’altra indicazione della consustanzialità di Agni e del Serpente ab
intra, in base all’identificazione di Mitra con il Titano Vamacitra o Vipra-
citti, il figlio maggiore di Danu, padre di Rahu o Namuci, come ha dimo-
strato Przyluski, «Un Dieu iranien dans l’Inde», Roczmk Orjentalisttyzny,
VII. Nelle Metamorfosi di Apuleio, lo sposo di Psiche, assimilabile peraltro
al Purūravas indiano, è descritto in questi termini, riportati come un ora-
colo di Mileto: «Non un essere del genere umano, ma il Serpente più or-
ribile e feroce che si possa immaginare, che vola con le ali... i neri fiumi,
i flutti mortali del dolore e delle tenebre avanzano e restano suoi schiavi».
46 Urnāvantam yonim kulāyinam ghritavantam, in cui Arnāvantam può essere

considerato sinonimo di aurnavābham, con in più un’allusione alla vulva


pubere, cfr. la preghiera di Apālā in VIII, 91,5, esaudita per Romashā [«Pe-
losa»] in I, 126, 7.
L’immagine del nido lanuginoso è sottintesa in V, 5, 4, in cui il barhis,
l’erba sparsa come un tappeto sul sito del sacrificio, è definita «dolce e
morbida come lanugine» (urnamradāh); la strofa seguente aggiunge: «Apri-
tevi, porte angeliche, siate di facile accesso» [dēvīr dvāro vi shrayadhvam su-
prāyanāh), che si avvicina a X, 18, 10-11, in cui si domanda alla «giovane
Terra Madre di essere dolce come lanugine per colui che dona la Pre-
benda» (dakshināvatē, Dakshinā essendo l’Aurora, I, 123, 1 e X, 107, madre
di Agni, III, 58, 1, come Indrānī, II, 11,21 e la Regina Serpente); il testo
prosegue: «Sii aperta [uc chvañcasva), o Terra, non essergli d’ostacolo (ma ni
bādhathah), sii per lui di facile accesso (sūpāyanā), coprilo di lanugine (abbi...
ūrnuhi, dalla radice √vŗ, come in urna) così come una madre ricopre suo
figlio con il lembo della veste», da cui si capisce che lo riveste con l’abito
di luce (nirnijam, drāpim hiranyam ecc.) che egli porta in occasione della sua
venuta nei mondi; «Sii aperta» non significa «pronta a ricevere» ma
«pronta a offrire». Sarebbe troppo lungo analizzare qui l’idea secondo cui
bisogna compiere una distinzione netta tra l’applicazione degli inni fune-
rari e la loro formulazione, poiché questa è in relazione solo a una nascita
e non a una sepoltura. Il tema della resurrezione non si adatta soltanto a
un requiem, al contrario, poiché il linguaggio degli inni funebri sottin-
tende la mors janua vitae. Il fatto che in genere li yogi e il samnyasī non siano
cremati, ma gettati in acqua o semplicemente sotterrati, è in accordo con
la logica più rigorosa, perché non hanno mirato alla resurrezione, ma alla
morte e alla sepoltura nella divinità.
A urnamradāh (barbis), citato più sopra, corrisponde esattamente lomāni
barhis in Sh. Br., I, 3, 37 e BUp., VI, 4, 3. Si può aggiungere che non può
esservi alcun dubbio sull’identità di ūmāvantam yonim kulāyinam ghritavantam
savitrē, Il luogo di nascita di Agni in ŖV. VI, 15,16 (cfr.Ait. Br. I,28, savitrē
kulōiyam... itrnāstukāh) e di vishvambhara kulaya, il «nido, supporto univer-
sale» di BUp., I, 4, 7 che Hume traduce, non letteralmente, ma corretta-
mente, con «supporto del fuoco», cioè luogo del fuoco o focolare (Thirteen
Principal Upanishads, P- 82). Ma non è questa (come suppone Hume) l’ori-
gine esatta del paragone vedantico «Come il fuoco è latente nel legno o
nelle braci coperte»; questo paragone deriva più direttamente da un con-
cetto vedico familiare, espresso in V, 11,6, in cui gli Aṅgirā scoprono
Agni che «si teneva nascosto in ogni ceppo» (guhā hitam... shi thriyānam
vanēvanē, cfr. X, 91,2 e numerosi passaggi analoghi).
L’immagine del «Ragno» è la fonte della celebre urna [termine che indica
la «tela del ragno» e] il «ciuffo di peli» o «la ciocca tra le sopracciglia»,
lakshana [«segno distintivo»] del Buddha come Mahāpurușa; questa urna,
in particolare nell'iconografia giapponese, è spesso rappresentata come
un neo, ma anche come la fonte dei raggi luminosi. Il fatto che, in un
certo senso, questa urna sia anche un «occhio», analogo al terzo occhio di
Shiva, sottolinea ancora più nettamente l’affinità solare di colui che è chia-
mato l’«occhio nel mondo» (cakkhum lokē), cioè questo «Occhio», il Sole,
che nel Ŗg-Vēda «sorveglia tutte le cose» (vishvam abbi cashtē).
Nello stesso senso, I, 105, 9, «Là dove sono tessuti (ātatāh) quei
sette raggi, ivi è il mio ombelico» (nābhih).47 Il senso di questo passo
è da avvicinare alla parola ūrnanābhi [letteralm. l’«ombelico» o il
«centro della ragnatela»] che di solito indica il Ragno nei Brāhmana
e nelle Upanişad; per esempio BUp., II, 1, 20, in cui si dice che tutte
le cose provengono dalla loro fonte «come un ragno avanza sul suo
filo (yathornanābhish tantunoccarêt), come le scintille sprizzano dal
fuoco», e Mundaka Up., I, 1, 7: «Così come un ragno emette e rias-
sorbe (srijatê ghrinatê, letteralm. «spande e prosciuga») [il suo filo],
tutto questo nasce da colui che non scorre» (aksbarāt sambhavati iha
vishvam). [Stesso paragone a proposito del Soffio in Brahmā Up., 1].
Come abbiamo già visto, il Sole brilla con sette raggi; oppure sono
i co-creatori (kavayah), operanti in senso sacrificale come cause me-
diate, che «filano i loro sette fili per formare la tela» (sapta tantūn vi
tantirê kavaya otavai, 1,164, 5); questi «sette raggi dipanati» (sapta ra-
smayash tatāh) appartengono all’Instauratore del Sacrificio (Agni o il
Sole), che, ottavo Āditya, «suscita tutte le cose» (vishvam invati, II,
5,2); questi sette raggi sono ugualmente quelli di Viśvarūpa.
Una gāthā sacrificale, citata nel Kaushtaki Brāhmana, XIX, 3, descrive
l’Anno, il Sole, come un ragno. Il «Ragno» è allora Agni o (e) il Sole,
Titano finché i raggi sono celati nel suo ventre, Angelo quando in-
vece fila la sua tela; ciascun filo - per chi sa distinguere i dettagli
dell'insieme - segue, per così dire, la via analogiae e, distinguendosi
dal tutto, sfila il tessuto e fornisce una via che riconduce all’origine.
Non occorre dire che la metafora del Ragno si fonda sulla celebre
dottrina del sutratman, come si può facilmente vedere confrontando
ŖV, X, 168,4, in cui il Sole è «il soffio degli Angeli» (ātmā dêvānām),
con Sh. Br., VIII, 7, 3, 10: «Quel Sole laggiù collega (samāvayatê)
questi mondi con un filo (sūtrè) che è il Vento» (vāyuh), cfr. BG., VII,
7: «Tutto questo universo è legato a Me come delle perle infilate su
un filo». Si può aggiungere che il simbolismo della ragnatela, i cui
fili sono raggi luminosi, non è che una forma particolare del

47L’ombelico ctonio di Agni, nābhih prithivyāh e l’ombelico dell’eviternità,


amrirītasya nābhih.
simbolismo più universale della filatura e della tessitura, impiegato
così spesso nei Veda e nelle altre forme della tradizione universale;*
così Dante:
«Così mi circunfulse luce viva;
E lasciommi fasciato di tal velo Del suo fulgor,
che nulla m’appariva» (Paradiso, XXX, 49-51).
Sono da notare i termini ahudhyam, sushupānam e āshayānam di IV,
19,3 (citato più sopra). Tutti e tre sottintendono un’idea che si ri-
trova quando si dice comunemente che il Sole alla sera «si corica» -
poiché «si corica» in effetti nella notte dei tempi. Abudhya significa
in primo luogo «assopito» e in seguito «stupido», caratteristica ben
nota dei giganti nel folklore; sushupānam e āshayānam «addormentato
e coricato», corrispondono all’idea ugualmente caratteristica della
«cova» di un tesoro. È significativo che in 1,103, 7, Indra «risveglia
il Serpente inerte con la sua folgore» (sasantam vajrêna abodhayo’him)
perché risvegliarsi (budh, jāgri) è un atto specifico degli Angeli, so-
prattutto di Agni, che è usharbudh, «risvegliato all’aurora», il risveglio
essendo simile a un incendio, cfr. V, 1, 1; e in IV, 23, 7-8: «Colpisce
il demone distruttore antitesi-di Indra (druham jighānsan dhvarasam
anindram)... La brillante lode cosmica48 trapassa i sordi orecchi della
Vita, risvegliandola»;* qui Ayus (la Vita) è propriamente Agni49 e
riconosciamo la descrizione di Agni, che è «una sorda vipera» ante

* p. 35. [Vedi R. Guénon, «Le Symbolisme du tissage» in Le Symbolisrne de


la Croix, cap. XIV; trad. it. Il Simbolismo della Croce, Luni Editrice, Milano
2003).
48 Ritasya, «cosmico», nel senso in cui il Kosmos greco è precisamente

l’«Ordine»,
* p. 36. Ritasya shloko badhirā tatarda karnā budhānah shucamāna ayoh.
49 Qui il nome Ayu è applicato ad Agni ab intra; il Gandharva Ūrnāyu

all'Interno è Viśvāyu all’esterno: sulla ragion d’essere del termine ūrna- in


questo contesto, vedi più sopra l’analisi del simbolismo del «Ragno», e su
quella di -àyu, la «Vita», cfr. Giovanni, I, 3-4: «Tutte le cose che sono state
fatte erano Vita (vita = ayus) in Lui», ed Ep. ai Colossesi, I, 16: «In Lui (il
Figlio) furono create tutte le cose», cfr. AV., XII, 3, 47: «Un mondo filiale
(kaumāra) è nato, un figlio».
principium. D’altra parte (I, 113, 4), è l’Aurora che risveglia i mondi,
o tutti gli esseri (ajigar bhuvanāni vishvā). Che Ahi sia colpito e risve-
gliato equivale a dire che il Serpente ctonio è «convertito» (samvrit)
o «esteriorizzato» (pravrit), le Tenebre sono letteralmente «capo-
volte» (udvrit) in Luce. Buddha, «risvegliato», significa ugualmente
«illuminato». È interessante notare che l’antico concetto del risve-
glio del serpente è ripreso nel pensiero buddhista, come per esem-
pio quando un commentatore spiega budh come «l’uscita dal sonno
da parte degli esseri ofidici».**
Ashayānam, «coricato», è un termine che si applica alla divinità ab
intra, in opposizione con l’atto di processione segnalato dal fatto di
essere seduto, alzarsi e muoversi.50 Distendersi e dormire, oppure
alzarsi e svegliarsi sono concetti che vanno di pari passo. Dal punto
di vista del karmakānda, la seconda condizione evidentemente è su-
periore, benché la prima la preceda in senso logico; dal punto di
vista dello jnānakānda, è vero il contrario - il celebre detto indiano
«è meglio stare in piedi che camminare, ed è preferibile sedersi, ma
ancora meglio è distendersi» è un buon esempio di ciò che si defi-
nisce un «ragionamento capovolto» o «controcorrente».
La processione divina implica un’apparente divisione, krama è dvitva
(TP., XXI, 16). Nei testi vedici che descrivono l’uccisione del drago,
colpisce l’importanza attribuita alla scissione o suddivisione del
principio ofidico che all’origine era privo di parti (aparvan). E pro-
prio in questo senso che il Ŗg-Vêda - pur indicando il carattere pro-
priamente «mentale» dell’atto - descrive la suddivisione di Questo
Uno (tad êkam, X, 129, 2), l’Integrale Molteplicità (vishvam êkam, III,
54, 8 - e una formula plotiniana), l’unità della Persona e della Parola
(purusha e vāc\ divisione effettuata nel corso del Primo Sacrificio.

** p. 36. Bujjhatī kilēsa-santāna-niddāya uttahati, Atthasālinì, 464, testo p.217.


50 «Essere seduto», sad, «alzarsi», sthd, in generale con urdbvā (cfr. sthitam

padārtham jātam, Sāyana) e «muoversi», car, da cui il fatto che i panca jana
[le «cinque nascite» o «classi di esseri viventi»] talvolta sono considerati
come carshanayah [«esseri in attività»].
«Per mezzo delle loro parole i cantori co-creatori (viprah kavayab)
lo concepiscono molteplice, lui che rimane Uno» (X, 114, 5),
«essi lo chiamano molteplice, lui che è Uno» (I, 164, 46),
cfr. Makha
«che la moltitudine non poteva vincere finché era uno» (Taitt.
Ar., V,1, 3).*
Analogamente, per quanto riguarda l’aspetto femminile:
«Grazie al sacrificio, seguirono le orme dei piedi (padaviyam =
vestigium pedis) della Parola, la trovarono che dava asilo ai Profeti;
la condussero e la suddivisero in molte parti; i Sette Cantori la
intonarono in ogni luogo» (X, 71, 3),
essa che dice di sé:
«Gli Angeli mi hanno divisa in molte parti» (ma diva vy adadhuh
purutrā, X, 125, 3).51
È significativo anche che nel Purușasūkta (X, 90, 11-14) si potrebbe
sostituire Vŗtra a «Purușa» senza apportare nessuna modifica es-
senziale di senso; in un brahmodya [dialogo sacro] si domanda:
«Quando divisero (vy adadhuh) la Persona (Purușa), quante parti
pensarono di ottenere?» (katidhā vy akalpayan).

* p. 37. [Dopo avere creato gli esseri viventi, Prajāpati volle entrare in
loro per animarli. «Ma finché era Uno, non poteva. Allora si divise in
cinque, detti Prāna, Apāna, Samāna, Udāna e Vyāna» (MUp., II, 6). Sul
rapporto tra l’Uno e il molteplice, si veda «L’Exemplarisme védique», art.
cit.]
51 Vy adadhuh equivale a «contratto e identificato nella diversità». [Su que-

sta immagine della «contrazione» e dell’«identificazione» che è il passaggio


dal non essere all’essere o la determinazione del punto, seguita dall’esten-
sione illusoria del punto nello spazio o l’apparizione del nome, si veda
A.K.C., Tempo ed eternità, Luni, 2003]. L’uso di vad, klp (come in samkalpa,
«nozione», per esempio Rena Up., 29-30, in cui la nozione che si ha della
divinità è opposta alla visione cieca della divinità così com’è in se stessa)
dev’essere compreso in funzione della dottrina vedica della creazione per
mezzo della denominazione (nāmadhēyd), vedi «L’Exemplarisme védique»,
art. cit., e Scharbau, Der Idee der Schópfung in der vedischen Literatur, p. 123-
132.
La risposta si conclude con queste parole:
«Concepirono così i mondi» (lokān akalpayan).
Un’altra corrispondenza è fornita nella strofa 14:
«Dalla sua testa fu tratto il Cielo (shīrshno dyauh sam avartata), dai
suoi piedi, la Terra»;52
si può concludere che Purușa ha già assunto un aspetto umano, ante
principium, o piuttosto lo assume in principio:
«Egli illumina questi mondi in quanto Persona»
(Purușarupêna, Ait. Ar., II, 2,1)
perché il Brahman-Yakşa
«sceglie la Persona per la processione» (JUB., IV, 23-24),
il Sacrificio è l’Uomo Universale, nostro Sire (yajno manuh... nah pila,
X, 100,5), cioè Agni
(«Sii Manu, genera la famiglia degli Angeli», X, 53, 6)
e l’Anno (Ait. Br., II, 17, Sh. Br., X, 4, 3,1-3 ecc.)
Il Sacrificio è un eterno Purușa-mêdha.
L'espressione «privo di piedi e di mani» (apād-ahastah) - che caratte-
rizza il serpente - applicata a Ahi-Vŗtra (1,32,7) e a Kunāru e Vŗtra
(III, 30, 8),53 rappresenta il contrario di ciò che si dice del Sole ma-
nifestato, Surya «dal piede unico» (êkapad) o Sāvitrī «dalle mani
d’oro» (hiranyahastah), e dell’Agni manifestato, «dotato di piedi» (pa-
davīh), per eccellenza «il saggio conduttore dotato di piedi» (vidvān
pathah puraêta, V, 46, 1), «il pastore sicuro che avanza sui suoi sen-
tieri» (1,164,31); ma «quando nacque per primo all’origine dello
spazio (budhnê rajasah, come Ahi Budhnya) [era] senza piedi né testa

52 Come nell’Edda, Grimnismal, 40: «La Terra fu prodotta dalla carne di


Ymir... e il Cielo dal suo cranio». Il racconto dell’esistenza anteriore del
Titano Ymir (Vòluspa, 3) corrisponde esattamente a ŖV, I, 129, 1 e 3.
Analogamente, nella leggenda babilonese, Marduk seziona Tiàmat, il
drago femmina, madre degli dei, e la sua parte superiore costituisce il
Cielo ecc.
53 In Sb. Br., I, 7, 1, 1, il guardiano del soma (cioè il Gandharva, la cui

consorte (Vāc) seduce spesso Indra, per esempio in Jaim. Br., I, 125) è un
«arciere senza piedi» (apad asta). Il Gandharva è allora il drago o il serpente
che custodisce l’Albero della Vita, come in altre mitologie.
e nascondeva le due estremità (apad ashīrshā guhamāno antā, cfr. X,
79,2) nella sua matrice, nel nido del Toro» (IV, 1, 11), cioè ante prin-
cipium, immediatamente prima di accendersi.

7. LA PROCESSIONE È UNA ROTAZIONE SOLARE.


Per quanto riguarda l’impiego del termine √vŗt, bisogna notare che
il movimento «rotante» si effettua sempre verso destra, poiché,
come in altre tradizioni, le potenze delle tenebre sono quelle della
sinistra, mentre quelle della luce sono della destra.* Dasyu, abbat-
tuto, «si accascia alla sinistra di Indra» (ŖV, II, 11, 18), «Indra trat-
tiene a forza i giganti con la mano sinistra e con la destra compie le
sue grandi imprese» (dakshinê sam gribhītā kritāni).
Poiché Dakșa è praticamente la mano destra di Dio, Dakșinā è la
«signora della destra»: nel Ŗg-Vêda l’Aurora, la vacca da latte madre
di Agni (I, 123, 1 e III, 58, 1) e nella Taittirīya Samhitā (VI, 1, 3, 6)
madre di Indra, ed è facile vedere l’origine del senso della dakşinā,
la «prebenda del sacrificio»: il Primo sacrificio è sempre un sattra
[sessione sacrificale] che gli officianti compiono a loro vantaggio, e
la ricca Aurora con le sue opulente ricchezze è la ricompensa. D’al-
tra parte, quando il principio femminile è considerato in funzione
della sua origine, come il Cielo è «sopra» e la Terra è «sotto», «egli»
è a destra ed «ella» è a sinistra; così, in Sh. Br., X, 5,2,9,BUp., IV,
2,2-3 e MUp., VII, 11, in cui la «persona» nell’occhio destro è Indra,
la «persona» nell’occhio sinistro Indranī o Virāj, e la loro unione ha
luogo nel «cuore» o, ritualmente, nel luogo (sadas) dissimulato del
sacrificio. Il sacrificante stesso si sposta a mo’ di sole: «Egli compie
una circumambulazione da sinistra a destra (prasalavyāvartati), al fine
di far girare questo Sole verso destra, e così questo Sole aggira que-
sti mondi da sinistra a destra» (Sh. Br., VII, 5, 1, 37). Analogamente,
la cintura di canapa è tessuta in modo solare, alla maniera «umana»

* p. 38 [Sulla direzione dei giri rituali, verso destra o verso sinistra, deter-
minata dalla natura «polare» o «solare» di una tradizione, si veda R.
Guénon, La Grande Triade, Adelphi, Milano 1980].
e, «se fosse tessuta al contrario del Sole,** sarebbe consacrata ai
Padri» (ibid., III, 2, 1, 13, cfr. I, 2, 1, 12).
L’idea di un principio unico che guarda in due direzioni opposte
(Giano nell’iconografia) è ampiamente sviluppata nel Ŗg-Vêda, per
esempio X, 5, 6, in cui Agni si tiene
«all’incrocio dei sentieri» (panthām visargê),
cioè sulla soglia della porta dei mondi (lokadvāra). L’orientamento
opposto dei mondi di luce e di tenebre fa sì che, per esempio,
«Coloro che vengono qui (arvañc), sono detti partire»
(parācah, I, 164, 19) e
«Questo incantesimo che gli Angeli pronunciano in avanti (ava-
stāt), i Titani lo pronunciano all’indietro»
(parastāt, Jaim. Br., I, 125).
Un atto analogo a questo è la trazione effettuata in senso opposto
dai Deva e dagli Asura in occasione della Burrificazione del Mare,
e non bisogna dimenticare che tale opposizione tra princìpi anta-
gonisti è indispensabile per ogni creazione.
Dal punto di vista karmakānda e kśatriya, il movimento favorevole
è diretto in avanti in senso rettilineo; invece,
dal punto di vista jnānakānda e Brāhmana il movimento favorevole
è diretto, non all’indietro, ma - in modo che necessita di una spie-
gazione - nondimeno in senso opposto.
Inevitabilmente opposto, perché quando si sono fatti i passi in
avanti, bisogna per così dire tornare sui propri passi, tutto ciò che
è stato affermato deve essere anche negato, tutto ciò che fu rubato
deve essere restituito, se il Viandante vuole raggiungere Questo
Uno «che in realtà mai si leva né si corica».*

** P- 38 [In inglese, widdershins, espressione che significa esattamente «al


contrario del sole»; to go widdershins, «andare nella direzione sbagliata», e to
go w. to that, «fare il contrario di-»].
* p- 39 [Tutto ciò di cui un essere, in quanto individuo, si è appropriato
nel campo della molteplicità, deve restituirlo all’Unico Possessore se
vuole raggiungere l’Unità; questa idea è sottintesa nella «povertà» spiri-
tuale e nel pellegrinaggio al Centro del Mondo. Si veda R. Guénon, «El-
Faqru», in René Guénon, Scritti sull’esoterismo islamico e il taoismo, Adelphi,
Di conseguenza, la coscienza esteriorizzata dev’essere interioriz-
zata, a questo alludono espressioni come pratyacêtanā, «pensiero in-
verso», definito come segue da Maniprabhā nel suo commento su-
gli Yoga Sūtra, I, 29:
«Si dice che il pensiero è rovesciato (pratyanc) allorché si volge
(ancati) controcorrente» (pratīpam),
«la qual cosa si verifica nel caso degli yogi» aggiunge Bhoja.
Il simbolismo della «corrente ascensionale» che si ritrova nel ter-
mine pali buddhista uddhamsota,
«colui che risale la corrente»,
fu, per quanto ne so, utilizzato per la prima volta in modo esplicito
nella Taittirīya Samhitā, VII, 5, 7, 4, pratikūla ivavā itah svargo lokah.
«Da qui, il mondo celeste è in certo modo controcorrente».
Come altro esempio di «pensiero rovesciato» si può citare la Bhaga-
vad-Gìtā, II, 69:
«Ciò che per tutti gli esseri è la notte, per il vero povero (sarmyāsi)
è il tempo del risveglio; quando gli altri esseri sono svegli, allora
è notte per il Saggio (muni) che vede»;
cfr. «La luce che è in voi è tenebre»
e l’esame del termine sushupānam (sopra, 6); rammentiamo infine
che sushupta, il «Sonno profondo», è opposto, nello jnānakānda, allo
«Stato di veglia» della coscienza in quanto le è superiore.
A questo proposito, è il caso di ricordare che la «direzione opposta»
non è all’indietro, ma in avanti (TS., VII, 2, 1, 3, prān iva hi suvargah).
Si suppone che il Viandante, sia che avanzi verso il dêvāyana o si
attardi nel pitriyāna, segua sempre il cammino circolare dell’Anno;
non gira verso sinistra per tornare indietro (gli incantesimi sono
ripetuti al contrario, e «widdershins»,E solo nella magia nera); tale
ritorno all’errore (avasarpana, il contrario di atisarpana) impliche-
rebbe non l’integrazione (samskarana) ricercata, ma una disintegra-
zione (vikarana, visranrana). Si aggiunga che la circumambulazione

Milano 1993. Nell’Islam si precisa anche che il pellegrino deve «saldare i


suoi debiti» prima della partenza, perché si capisca che «morirà»].
E in senso antiorario
dell’Anno, che corrisponde al pellegrinaggio individuale compiuto
a un certo livello, in un «mondo» (loka), può essere ugualmente con-
siderata come un movimento in avanti (pravŗtti) che parte dal centro
e si dirige verso la circonferenza, e in senso inverso (nivŗtti) questo
movimento segue innanzitutto un percorso discendente e in se-
guito ascendente su una spirale aperta il cui centro è l’asse dell’uni-
verso; i punti determinati dalla spirale, attraversando i piani succes-
sivi, in particolare quelli che rappresentano i «sette mondi», costi-
tuiscono i diversi stati occupati dal principio di individuazione nel
corso della sua trasmigrazione (paribrahmana) e della sua modifica-
zione (vritti). Il Viandante, quando la metà del cerchio è percorsa, o
la spirale è capovolta, ora si sposta in direzione contraria, «contro-
corrente».** Il punto di ritorno, così critico per l’individuo, corri-
sponde, nel campo della fede, al pentimento o, in modo più signi-
ficativo, alla conversione; in metafisica, è la «reversione della po-
tenza spirituale» (Brāhmana āvartah), il cui segno è l’impassibilità
(vairāgya). Il pellegrinaggio ha un senso per il pellegrino finché non
raggiunge la sua meta, finché non «torna a casa» (astam ēti), dove
nessuno gli chiederà da dove viene e dove va. Il pellegrinaggio inizia
con un’«avanzata strisciante» (prasarpana, upōdāsarpana) oltre i legami
di Varuna, della Morte, cosa che coincide con il levare del Sole,
«la Luce di coloro che si trovano nelle tenebre» (tamasi harmyē),
che incita coloro che dormono ad abbandonare il letto e mettersi
in cammino; termina con una «fuga al di là» (atisaypana), una «libe-
razione totale» (utimoksha) da
«tutti i mali che seguono il corteo della giovane sposa»
(X, 85, 31).
Questa liberazione è un ritorno a Varuna, alla Morte, non più da
prigioniero, ma da amico; qui il pellegrino vede di nuovo «Padre e
Madre» (I, 24, 1), Varuna e Aditi, il Cielo e la Terra, uniti nel nido
comune (X, 5, 2); Varuna è immortale (I, 164, 38) e la «Morte non
muore» (Sh. Br.t X, 5, 2, 3),

** p. 39. Cfr. Jaim. Br., III, 150 e PBr., XXV, 10,12-18. [Sul concetto di «pensiero
rovesciato» o «controcorrente», si veda A.K.C., «Une étude sur la Katha upanishad
(IV, 1)», EX, 1977, p. 76].
il Conoscente unito alla Morte «diventa l’Angelo unico, diventa
anche la Morte; allontana la Morte continua, la morte non lo
tocca» (RUp., I, 2, 7).
È indispensabile capire l’ontologia e la teologia così formulate nel
Ŗg-Vêda e nei testi ulteriori, per interpretare questi stessi testi.*

8. IL RIGETTO DELLA PELLE DI SERPENTE, IL CAMBIAMENTO DI


COLORE O DI ABBIGLIAMENTO.

La frase (già citata da PBr.):


«I Serpenti sono (consustanziali agli) Āditya»,
i «Soli» o figli di Aditi, può essere comprovata e sviluppata per
mezzo di altri testi. In R V, IX, 86, 44, per esempio,
Soma «come Ahi, strisciando avanza fuori dalla sua vecchia pelle»
(ahir na jurnām ati sarpati); in IV, 13, 4:
«Tu avanzi con i più potenti destrieri, rigettando la nera veste
(asitam... vasma): allorché il Sole distende la sua tela (tantum ava-
vyayan... rasmayah, sottintendendo la metafora del «ragno») i raggi
frementi affondano le tenebre nelle Acque, come (se fossero)
una pelle» (carmēva), cfr: VII, 63, 1;
vale a dire,
«quando la libagione dell’uomo mi porta alla bianca veste» (nir-
mijē, X, 49, 7), perché in verità Varuna «cambia con le sue opere
(anu vrata) le nere vesti in vesti bianche e pulite»
(VIII, 41, 10, in cui le sue opere sono l’operazione interiore, guhya,
ed esteriore, āvis,
«Agni talvolta alza, talvolta abbassa il suo coltello (vāshīm), come
il Titano con la sua bianca veste» (VIII, 19, 23, cfr; X, 20, 6,
agnim,... vāshimantam, «con la spada fiammeggiante»?).
In X, 63,4, gli Āditya

* p. 41. Kas tam pravēda... so asmin madēta (AV., IX, 1, 6), senza di che yas
lari na veda kim ricā karishyati (ŖV, I, 164, 39).
«dallo sguardo umano, gli occhi sempre aperti, hanno ottenuto
alla maniera degli Angeli e grazie alla loro qualificazione (arhanā)
un’alta eviternità; conducendo carri di luce (jyotirathah, il contra-
rio dei giovani fiumi che sono ancora «senza piedi né carro», X,
99, 4), avendo la magia dei serpenti pur essendo innocenti
(ahimāyā anāgasah, l’esatto equivalente di «prudenti come i ser-
penti e semplici come le colombe», Matteo, X, 16) si sono vestiti
di una gloriosa veste celeste».
Nel Jaiminīya Brāhmana, II, 134:
«Così come Ahi rigetta la sua pelle, o si estrae un filo d’erba dalla
sua guaina, egli (Indra) è liberato da ogni male».*
Nel Pañcavimśa Brāhmana, XXV, 15,4:
«Per mezzo di questa sessione sacrificale, i serpenti conquista-
rono la Morte; egli conquista la Morte, colui che segue la stessa
via. In questo modo, si disfecero della loro vecchia pelle e avan-
zarono strisciando, allontanarono la Morte e la conquistarono. I
serpenti sono gli Āditya. Colui che segue la medesima via brillerà
della gloria degli Āditya».
Secondo lo Śatapatha Brāhmana, II, 3, 1, 3 e 6, il Sole, al tramonto,
entra come un embrione (garbha) nella matrice che è Agni (agnāv
ēvayonau),54 nascosto dalla notte come sono nascosti gli embrioni; al
suo sorgere,

* p. 42. Yathāhir ahi-cchavyai nirmucyēta... ēva, sarvasmāt pāpmano nirmucyatē.


54 L’espressione «la matrice che è Agni» -1’Agni occultato, ab intra - ri-

chiede forse una spiegazione. In PBr., XXV, 10,10, «Questo Mitra depone
il suo seme in Varuna» (rētab varano sincati), e in Sh. Br., XII, 9, 1, 17, «Va-
runa è la matrice, Indra il seme e Sāvitri il produttore del seme»; in II, 4,
5 e II, 4, 4, 19 (vedi supra, p. 30), Agni, fuoco divorante (Vāc essendo
assente) riceve il seme di Prajāpati, che si riproduce in questo modo (cfr.
Ait. Br., II, 3, 7: il seme dell’uomo viene dal Sole, il sangue della donna
viene da Agni, e Bup., VI, 4, 3 in un’interpretazione sacramentale dell’atto
sessuale, il luogo ove Agni prende fuoco è analogicamente «al centro dei
testicoli», madbyatas tau mushkau). L’espressione si accorda ugualmente
con BG., XIV, 3: «La mia matrice (yoni) è il Grande Brahmā, all’interno
del quale depongo l’embrione» (garbham dadhāmi, cfr.ŖV. IX, 74, 5: «Soma
depone l’embrione nella matrice di Aditī», dadbāti garbham aditer upasthe); il
«Grande Brahmā» corrisponde alla «Natura trascendente» (para prakriti)
che è la «matrice di tutti gli esseri» (ētad yonīni bhutāni sarvāni, BG., VII, 5-
6), «questa Natura è mia, e quando ricorro a lei produco a sua volontà
tutto l’insieme di esseri privi di volontà indipendente» (ibid., IX, 8); cfr.
Meister Eckhart: «Il gioco (= līlā) eterno del Figlio proviene dal fatto che
il Padre abbraccia la sua propria natura»; anche la Mund. Up., III, 1, 3, in
cui l’Altissimo è a un tempo «Creatore, Signore, Persona e matrice di
Brahmā» (Brahmā-yoni), cfr. ŖV, X, 29, 14: Agni «nasce dalla matrice del
Titano» (asurasya jatharāt ajāyata) e Sh. Br., VI, 1, 2, 6-9, in cui Prajāpati
«porta in sé l’embrione».
Tutto ciò non è nulla di strano, neanche per la teologia cristiana, ma è
soltanto poco familiare: l’Identità Suprema, tad ēkam, è l’unità di un prin-
cipio congiunto, e se fosse diversamente non si potrebbe definire opera-
zione vitale la nascita del Figlio (san Tommaso d’Aquino, Summa Tbeolo-
gica, I, 27, 2) [vedi A,K.C., «La Doctrine tantrique de la bi-unité divine»,
ET., 1937]. Questa Identità Suprema si può designare con i nomi dell’uno
o dell’altro dei suoi princìpi congiunti, si può parlarne come di Varuna o
di Agni (di solito maschile, ma nei passaggi in oggetto, semanticamente
femminile), di Aditī o di Virāj (entrambi femminili, ma spesso anche ma-
schili), in altri termini, si può concepirla maschio o femmina, o entrambi.
Così Virāj [«l’Intelligenza cosmica in quanto regge e unifica nella sua in-
tegralità l’insieme del mondo corporeo» (R. Guénon)] dalla quale tutte le
cose ricavano la loro qualità propria, «Chi conosce la sua dualità pro-
creatrice?» (mithunatvam, AV., VIII, 9, 10), cfr. JUB., I, 54: i princìpi con-
giunti Sāman e Rik, cioè il Cielo e la Terra, «diventano Virāj» e - solo così,
nell’unione interiore» - «procreano» (tau viràd bhūtvā prājanayatām) il Sole;
dopo questa nascita, sono di nuovo separati (indicazione ripetuta nel ŖV,
per esempio X, 27, 23, krintatrād ēshàm uparā udāyan, «dalla loro separa-
zione, apparve ciò che viene in seguito»). Se colui che allo stesso tempo
«genera» e «mette al mondo» - troviamo nella dottrina cristiana espres-
sioni come «la messa al mondo da parte del Padre» - è un principio con-
giunto, ciò si riferisce alla sua essenza e alla sua natura, che in lui sono
identiche, di modo che parliamo indifferentemente della «essenza divina»
e della «natura divina». Cfr. Epifanio, Haer. XXXIV, 4: «Il Padre era in
travaglio»; vedi Baynes, Coptic Gnostic Treatise, 1933, p. 34, autogenes = colui
che si genera da sé solo = monogenes, cfr. p. 49. Può essere chiamato Padre
«Come Ahi, si libera della sua pelle (yathā ahis tvaco nirmucyēta), si
libera dalla notte, dal male» (pāpmanah)55

o Madre, come nell’espressione Natura naturans, Creatrix, Deus. La dottrina


della nascita eterna del Figlio implica in effetti non soltanto una madre
temporale, ma una maternità eterna in Dio, precisamente quella della «na-
tura divina» «tramite cui il Padre genera» (Summa Theol., I, 41, 5, cfr. S.
Giovanni Damasceno, De Fid. Orth., 1,18 e sant’Agostino, De Trin., XIV,
9). Il fatto che Dio sia dunque il Padre-Madre, o semplicemente i «Geni-
tori» (plur., duale) si può paragonare all’uso vedico per cui si parla degli
«Antenati» indifferentemente come «Madri» (mātāra) o «Padri» (pitarā) poi-
ché il sanscrito, avendo il vantaggio di poter ricorrere alle forme gram-
maticali duali, permette di evitare l’uso della congiunzione «e» pur speci-
ficando il duplice aspetto di una sola sostanza, per esempio Mitrāvarunau,
Indragni, in cui nel primo caso la relazione è tra Figlio e Padre, nel se-
condo tra Re e Sacerdote. Bisogna ricordare che dal punto di vista indiano
il «seme» è consustanziale al «seminatore», e anche che il padre è l’embrio-
ne, che rinasce in quanto figlio, come in ŖV, VI, 70, 3: «Rinasce di nuovo
nella sua progenie, tale è la legge» (pra prajābhir jāyatè dharmanas pari). Tutto
ciò dev’essere preso in considerazione a proposito della dottrina della
reincarnazione, spesso male interpretata e della confusione abituale tra
reincarnazione e trasmigrazione. Il padre in quanto entità individuale tra-
smigra e così rinasce in un’altra modalità dell’essere, ma in quanto padre è
riprodotto in suo figlio, e precisamente in quella modalità dell’essere nella
quale l’atto di paternità è stato suscitato dall’atto di filiazione. Il padre che
prima o poi muore - e questo vale sia per il Padre sia per ogni principio
di individuazione, poiché «Dio va e viene, Dio scompare» (Eckhart) - è
resuscitato nel figlio, che, facendo così nascere suo padre - nella misura
in cui la filiazione implica la paternità - è detto «padre di suo padre». La
resurrezione e la trasmigrazione sono dottrine vediche, ma non la «rein-
carnazione», in senso teosofista o sedicente «buddhista». Anche nella
Bhagavad-Gìtā (II, 22), bisogna vedere nell’«occupante-del-corpo» (dēhi)
che abbandona i suoi corpi usati (sharīrāni vihaya jīrnàni, riecheggiando
PBr., XXV, 15, 4, hitvā jirnām tvacam) un principio vivente in tutti gli esseri,
piuttosto che un principio individuale in quanto tale [cfr. BUp., IV, 4,1-7].
55 Cfr. Ait. Br., V, 25, in cui il Sole è detto «questo Angelo che riesce

meglio a distruggere il male».


Questa azione è imitata nel rituale [sarpana] quando gli officianti
«strisciano» (srip, con pra,prati, nih ecc.) recandosi al sadas o venendo
dal sadas.**
«Così come Ahi si libera della sua pelle, essi si liberano da ogni
male».
Rifiutare la pelle di serpente corrisponde così a
«spogliarsi dell’uomo vecchio» (cfr. MUp., II, 18).
Allontanare la Morte equivale a liberarsi di Varuna, cioè dei suoi
vincoli. La maggior parte delle difficoltà che si incontrano nell’in-
terpretazione di Varuna come «dio del giorno» o come «dio della
notte», derivano dal fatto che non ci si è accorti che è tutti e due
contemporaneamente, oppure a volte l’uno a volte l’altro «secondo
il suo modo d’azione» (anuvratā, VIII, 41, 10); quando è opposto a
Mitra - qui l’opposizione è tra Titano e Angelo, eterno e mortale,
notte e giorno («Mitra è il Giorno, Varuna la Notte», PBr., XXV,
10,10) - il Varuna non manifestato è la potenza tenebrosa, il padre
o il Fratello maggiore ab intra.56
Nello stesso modo Agni –
«Varuna nascendo, Mitra quando sei infiammato» (ŖV, V, 3, 1),
«Varuna in quanto Jātavedas,E Mitra in quanto sacerdote e amico
intimo» (III, 5,4),
«Tanunapat in quanto embrione titanico, la Gloria degli uomini
quando viene alla luce» (III, 29, 11)
- Agni da un primo punto di vista è un mangiatore d’uomini, un
divoratore di carne, una potenza a cui occorre sottrarsi a tutti i costi
(X, 16, 9 ecc.) e, sotto un altro aspetto, è l’araldo (dūta) degli Angeli,
l’Amico (mitra) e l’Ospite (atithi) dell’uomo, così come il suo

** p. 42. [Il luogo nascosto dell’area sacrificale]


56 Cfr. I, 164,38, X, 85,17-18, X, 132,4, e in particolare TS., II, 1, 7-9.

«Colui che dà un ordine alle stagioni e rinasce» (rītūnr anyo vi dadhaj jāyatēpu-
nah, X, 85, 18) non può essere, come dice Sāyana, la Luna, ma Agni o il
Sole, come si può vedere confrontando con X, 72, 9, prajāyai mrityavē tvat
punar mārtāndam ābharat, II, 38,4, in cui Sāvitri vi rītūnr adardhah, e X, 2,1 e
3, in cui si dice ad Agni vidvān rītūnr ritupatē... ritūn kalpayāti.
E Epiteto di Agni, «che conosce tutto», «che possiede tutte le creature».
equivalente nordico, Loki, è talvolta l’avversario, talvolta l’alleato di
Aegir.
In tutte le teologie, questi aspetti opposti di Dio sono rispettiva-
mente quello della Misericordia e della Giustizia; nella metafisica
islamica, per esempio, il Cielo è il riflesso del Suo Amore assoluto,
l’Inferno il riflesso della Sua assoluta Maestà. In questa sede trat-
tiamo il secondo aspetto di Varuna, quello del suo potere, di cui si
scongiurano le erbe di liberarci57
«Liberami dalla maledizione, quella di Varuna, dalla claudica-
zione di Yama».58
In X, 129,1, si domanda:
«Chi ricopriva?» o «Chi avviluppava?» (kim āvarīvar)
- prima di ogni distinzione tra l’essere e il non-essere, la vita e la
morte, il giorno e la notte. Le risposte più evidenti si trovano in
VIII, 100, 7:
«è Vŗtra che avviluppava» (yo vo avdvarīt vritrah)
e in X, 90, 1, in cui è Purușa - la cui identità con Ahi-Vŗtra è già
stata dedotta su altre basi – che
«circonda la Terra da tutte le parti e oltrepassa il dashāngulam»;*

57 Qui si implorano «le erbe» - il cui re è Soma - perché bevendo il Soma


Indra ha l’ispirazione e ottiene la forza di liberare i suoi amici.
58 X, 97, 16, in cui si può notare l’assimilazione di Varuna a Yama, e il

fatto di avere «i piedi legati» o di essere «zoppo» equivale a essere pratica-


mente «senza piedi». Padgribhi, «Aggancia-piedi» è il nome di un demone
nel Ŗg-Vēda (X,49,5).
Quanto al fatto di «liberarsi di Varuna» si può segnalare il «pensiero in-
verso» (pratyakcētanā) in VIII, 86,2, kadā nv untar varane bhuvāni, «Quando
sarò di nuovo in Varuna?», cioè sarò «morto e sepolto nella Deità» (Ec-
khart)?, cfr. VII, 88, in cui Varuna è allo stesso tempo amato e temuto. In
effetti è tramite Varuna stesso, quando mostra il suo volto (Agni, VII, 88,
2), quando diventa Sāvitri (Sh. Br., XII, 2, 7,17) che ci si libera dai vincoli
di Varuna; il Padre in quanto Figlio è il redentore di fronte al corruccio
del Padre.
* p. 43. Sa bhūmin vishvato vritvd aty atishthad dashāngulam - qui non è necessario
soffermarci sul senso di quest’ultimo termine. [Coomaraswamy ha studiato nei
o ancora nella Taittirīya Samhitā, II, 4,12:
«Poiché egli circonda questi mondi, è Vŗtra» (yad iman lokdn avri-
not tad vritrasya vritratvam)
- dato che l’etimologia che collega Vŗtra a √vŗ è preferibile a quella
che lo fa risalire a vrit, benché dal punto di vista del nirukta o dell’er-
meneutica, come da quello della semantica (poiché le due opera-
zioni coincidono in un fatto unico) siano valide entrambe le etimo-
logie.
In ogni caso, a parte la palese equivalenza funzionale, l’origine eti-
mologica comune (radice √vŗ) di «Varuna» e di «Vŗtra» suggerisce
che «Questo Uno» nel quale e dal quale sono nascoste tutte le cose
mentre egli «respira senza soffio» (ānīd avātam, X, 129, 2) debba es-
sere sia Varuna, sia Vŗtra.
In effetti, questo Varuna è una «chiusura» (varana), come indicano
diversi testi: varano vārayātai in AV., VI, 85, 1 e X, 3, 5, e varuno
vārayāt in Taitt. Ar., VI, 9,2; cfr. anche «vala» = vara, e varaha, ugual-
mente dalla radice √vŗ. Il Gopatha Brāhmana, I, 7, riprende i termini
di ŖV, X, 90, 1, con una leggera modifica; le acque timide scelgono
come re Brahmā e,
«nella misura in cui le chiude, è la loro cinta»
(yac ca vritvātishthans tad varano ’bhavat);
essendo una tale «recinzione», si deve conoscerlo anche come «Va-
runa» (tam vā ētarn varanam santam varuna ity ācakshatē), cioè metafisi-
camente. Per di più,
«In quanto fu separato dal mare (samudrād amucyata), divenne
“Mucyu”E e questo Mucyu è metafisicamente la “Morte”... Va-
runa, Mŗtyu; mentre penava e bolliva (srāntasya taptasya), la tin-
tura colava dalle sue membra come sudore (raso ’kshrat, so ’nga-
raso ’bhavantam), e questo “angarasa” è metafisicamente l’“Angi-
ras”».E

dettagli questo versetto nel suo articolo intitolato «Ŗg-Vēda, X, 90, aty atishthad
dashāngulam», JAOS., 1947].
E “che libera”, ”che delibera”.
E Aṅgiras, è un epiteto del progenitore, Prajāpati. Aṅgirā "lo Spumeg-
giante", manifestazione di Agni come un potere di illuminazione,
L’ultima parte di questo testo relativamente «tardo» corrisponde
esattamente a BUp., 1,2,2 ma, che la si consideri o meno come per-
fettamente esplicita nel Ŗg-Vēda, l’esegesi è assolutamente corretta.
Mucyu è certamente identico al Naga Mucalinda o Mucilinda bud-
dhista, cfr. Mucukunda nel Mahābhārata.
In ogni caso, è impossibile mettere in dubbio l’identità di Varuna
ab intra e dell’Asura-pitŗ, Ahi-Vŗtra e Mŗtyu = Mara, non più della
sua identità con le forme terrifiche di Agni e di Rudra - Noster Deus
ignis consumens est.59
Non si può neppure negare che Mitra, l’Agni incendiato, sia il
«volto» di Varuna e Sūrya il suo «occhio».
Il duale Mitrāvarunau è la loro unità in quella che ci pare essere
un’azione duplice, quella di un’attività e di un’inoperosità, di una
produttività e di un’impotenza, di una misericordia e di un giudizio,
di una durata e di un’eternità, i vishurupāni savratā di VI, 70, 3. In
questa identità, la coppia consustanziale o consanguinea, Mitra e
Varuna, uno reso manifesto e soggetto all’invecchiamento, l’altro
invisibile ed eterno (1,164,38 e X, 85,17-18) sono rispettivamente

simboleggiato dalla luce del lampo; nato dalla bocca di Brahmā, sposò
Śraddha, la Devozione Personificata.
59 Questa identità o coincidenza fu sostenuta da Bergaigne, ma messa in

dubbio da altri, tra cui Norman Brown (in JAOS., 1919, p. 108), che co-
munque mi fa sapere in una lettera che non nega assolutamente tale pos-
sibilità. In effetti, solo se omettiamo di aggiungere la qualificazione «ab
intra» all’affermazione enunciata più sopra «occorre un grande sforzo di
volontà per identificare due caratteri così diversi, nei Veda, come Varuna
e Vŗtra» (Brown, loc. cit.). Si può ugualmente notare che, pur trattandosi
di uno studioso che non si definisce cristiano, un’eredità cristiana mo-
derna e una preoccupazione «moralistica» gli hanno impedito di accettare
il punto di vista del vecchio insegnamento - per nulla sconosciuto anche
nell’Europa medievale - secondo cui il «bene» e il «male» hanno un senso
solo «sotto il sole» e «nei mondi», ma nell’Identità Suprema coincidono
senza opposizione né dualismo.
l'apara e il para Brahmā delle Upanişad, in una somiglianza e senza
alcuna somiglianza (BUp., II, 3).60

60 In questo studio abbiamo tratto i riferimenti, per quanto possibile, dal


Ŗg-Vēda piuttosto che dai testi «ulteriori». A questo proposito, siamo dello
stesso parere di Bloomfield quando dimostra che dobbiamo abbandonare
«la credenza secondo cui le allusioni alla storia si possono raccogliere par-
tendo dai mantra dispersi, è il solo materiale valido per ricostruirla» e,
come lui, siamo «sempre più inclini a credere che “mantra” e “Brāhmana”
non sono altro, per non dire di più, che delle distinzioni cronologiche, e
due modi di espressione che sono in buona parte contemporanei... Se-
condo le nostre conoscenze, le due forme esistono fianco a fianco fin dai
primissimi tempi» (JAOS., 1895, p. 144, cfr. Eggeling in SBE., XII, XXIV,
ed Edgerton in JAOS., 1916, p. 197). Noi però non pensiamo, come
Brown, che «il materiale ulteriore ha la tendenza a seguire delle idee che
non sono veramente contenute nel Ŗg-Vēda» (JAOS., 1931, p. 108). An-
che nelle Upanişad non vedo affatto lo sviluppo di nuove dottrine, ma
solo una differenza nell’espressione e nell’accentuazione. Quindi, a pro-
posito dell’identità di Varuna e di Brahmā: inizialmente, come ha notato
Grassmann (Wòrterbuch, s.v. brahman), «I germi della separazione ulteriore
sono già indicati nel Ŗg-Vēda» (affermazione certamente erronea quanto
a moderazione); in seguito, sarebbe molto difficile fare una differenza tra
la concezione di Mitrāvarunau - quest’ultimo [Varuna] essendo «['immor-
tale, il fratello uterino del mortale; gli uomini notano uno dei due, ma
l’altro sfugge loro» (ŖV, I, 164, 38) - e quella dei due aspetti di Brahmā,
apara e para, rispettivamente mortale e immortale, in una somiglianza e
senza nessuna somiglianza (BUp., II, 3). In questo caso, è importante il
riferimento e non il nome, e comunque la distinzione tra Brahmā e kshatra,
così come la loro coincidenza - esteriormente nel duale Indrāgni e inte-
riormente nell’Identità Suprema - sono sufficientemente esplicite.
Non si tratta, beninteso, di negare che ci sia stato uno sviluppo linguistico
nelle Upanişad, perché se le confrontassimo con il Ŗg-Vēda questa nega-
zione sarebbe assurda. Ma la storia letteraria e la storia della metafisica
sono due cose molto diverse, e si potrebbe addirittura dire che la philoso-
phia perennis non ha una storia e non può averla, che è anche l’opinione di
sant’Agostino. Come bisogna interpretare allora i «due modi di espres-
sione letteraria (appartenente alla) medesima corrente di pensiero»
(Bloomfield, loc. cit.)? Certo non i suoi modi «lirico» ed «epico-didattico»,
perché secondo noi il Ŗg-Vēda non è più «lirico» che «satirico», e se i Brāh-
mana sono in parte didattici (e dovremmo piuttosto definirli tecnici ed
esegetici), non sono certo «epici» in senso letterario. I diversi modi sono
quelli della liturgia da un lato e dell’insegnamento iniziatico dall’altro: le
parti esegetiche dei Brāhmana, e delle Upanişad in generale, trattano in
primo luogo della «genesi» (jātavidyā, bhāvavritta); sono attribuite al Brāh-
mana (e pretese da lui) che però non prende parte attivamente al rituale,
ma [«insegna la scienza della genesi»] jātavidyām vadati (X, 71,11) e che,
nelle occasioni richieste - nel corso di colloqui con altri brahmani o per
l’istruzione di un allievo qualificato - dà le risposte alle domande poste
negli inni brahmodya [sotto forma di dialoghi].
Per esprimere la cosa in altri termini, diciamo che il karma kānda, che
approva e consiglia l’azione, rappresenta la parte dei Veda che si rivolge
allo kshatra, o «potere temporale»; lo jhanakānda, «teorico» nel senso eti-
mologico del termine, è la parte che si rivolge al Brahmā, ovvero «autorità
spirituale». Nulla ci impedisce di supporre che quest’ultima all’origine non
sia stata «pubblicata», nemmeno in epoca tarda, quando si era già verifi-
cato uno sviluppo linguistico. I motivi di tale pubblicazione a quell’epoca
possono ricollegarsi alla ribellione kshatrya contro l’autorità spirituale, che
provocò innanzitutto la pretesa di un’uguaglianza, o addirittura di una
superiorità intellettuale, e in seguito portò a uno sviluppo eterodosso nel
Buddhismo e Jainismo.
Sia come sia, non possiamo attenderci di trovare in una liturgia una vasta
esposizione dottrinale, che sarebbe fuori luogo. È vero che la materia è
così vasta e congruente con se stessa («Ognuna delle sue parti sembra
essere cosciente di tutte le altre, e assimilata a essa», Bloomfield in JAOS.,
1909, p. 288) - e possiamo anche aggiungere, congruente con le dottrine
metafisiche delle tradizioni non indiane - che non è affatto impossibile
estrapolare dai mantra le dottrine che essi illustrano, così come sarebbe
possibile esporre le dottrine contenute nei Salmi e negli inni latini medie-
vali. Ciò che dimostra in effetti questa logica interna è il fatto che i com-
positori dei mantra, fossero uomini o esseri soprannaturali, erano senza
dubbio perfettamente coscienti di tutte le loro implicazioni; altrimenti sa-
rebbe come venire a conoscenza di straordinarie formule matema-
tiche e credere che siano state elaborate alla cieca, il che equivale a dire
per ispirazione verbale o teorica. Ora, è impossibile supporre che il Vèda,
nella sua forma attuale, possa avere preceduto, diciamo la conoscenza
9. L’INFINITÀ DI AGNI
Il Ŗg-Vêda (IV, 1,11-12 già citato alla fine di 6) descrive Agni
quando «nasce primo all’origine» (budhnē, cioè come Ahi Bud-
hnya): è «senza piedi né testa, nascondendo le due estremità»
(apād ashīrshā guhamāno antā).
Guhamāno antā è manifestamente l’equivalente di ananta, «senza
fine», «infinito», «eterno», «senza inizio né fine»: è anche il nome del
nāga a sette teste, Shēsha, «Residuo», che funge da giaciglio a
Nārāyana-Vişņu, quando questi è disteso sul fondo delle Acque pri-
mordiali, all’alba della creazione, all’inizio di un ciclo (Mbh., I, 36,
24 ecc.). L’espressione guhamāno anta implica inoltre una congiun-
zione di estremità, il contrario della separazione della testa e dei
piedi di Purușa (ŖV, X, 90, 14)61 all’inizio della creazione; implica
in altre parole la congiunzione delle estremità rappresentata dal ce-
lebre simbolo del serpente che si morde la coda o da certi intrecci,
la cui forma più semplice è il famoso simbolo dell’«infinito» mate-
matico: ∞. Quindi non stupisce che nel rituale - il cui senso prima-
rio è la reintegrazione simbolica del principio diviso, e tramite ciò
dell’officiante stesso - si insista con tanta forza sulla riunione delle
due estremità, come quelle dell’Anno, o l’inizio e la fine del Sāman,
le cui estremità sono separate nei mondi, il Cielo è separato dalla

della falegnameria, il che significa che l’ipsissima verba del Vēda, separato
dai suoi riferimenti, dev’essere considerato in qualche modo di origine
umana e temporale. Non è per le parole che l’esprimono che il sanātana
dharma è perpetuo; la perennità di una tradizione non ha nulla a che ve-
dere con la «datazione» presunta di un determinato testo, come il primo
millennio a.C.
61 Non si può prendere alla lettera l’affermazione di X, 90,1, secondo cui

Purușa, all’inizio ha mille teste, mille occhi e mille piedi; bisogna piuttosto
capire che questa indefinità è latente in lui, che è onniforme, cioè come
in VS., XIII, 41, in cui l’embrione solare (il Sole ab intra, «la notte», vedi
Sh. Br., II, 3, 1, 3, citato più sopra, p. 60) è detto «l’onniforme immagine
di mille» (sahasrasyapratimām vishvarūpamī, il Sole manifestato di conse-
guenza ha «mille piedi» (sahasrapad, VIII, 69, 16).
Terra o il Sole dalla Luna. Sotto questo aspetto, i testi rituali sono
del massimo interesse per la dottrina in questione, e forniscono così
una spiegazione intelligibile e legittima del senso dei simboli e del
contenuto delle arti tradizionali.
Così l'Aitarêya Brāhmana, III, 43: «L’Agniṣṭoma è (esteriormente un
rito e) metafisicamente Agni... E poiché lo pregano in quanto è una
Testa (mūrdhnam santam) e poiché è divenuto Luce (jyotis),62 e

62 Mūrdhnam santam jyotir bhūtam; in concordanza con tutto ciò che ho già
citato a proposito della trasformazione della testa del serpente nel Sole o
nel Cielo, e più precisamente con ŖV, X, 88, 6: «La notte, Agni è la Testa
dell’essere (mūrdhā bhuvo bhavati naktarn agnih), da qui, la mattina, nasce
come Sole levante» (tatab sūryo jāyatē prātar udyanī, questo testo dimostra
chiaramente che la cosiddetta dottrina dei Brāhmana - che è anche quella
di Sāyana (nel commento a I,103,1) - secondo cui il Sole entra in Agni
durante la notte, non è affatto nuova. Cfr. anche X, 8, 6: «Tu (Agni) alzi
la testa raggiante verso il Cielo».
Queste dottrine riguardanti la «Testa» si ritrovano nelle formulazioni gno-
stiche, cfr. l’inno valentiniano in siriaco compreso nel Panarion di Epifanio,
versetto 5: «Dalla Testa egli proclamava notizie del Padre»; a questo pro-
posito Newbold (in JAOS., 1918, p. 15) fa questa osservazione: «la “Te-
sta” è la prima emanazione dell’Abisso, di solito è chiamata Νους oppure
Mονογενής, ma più spesso Πατήρ o Aρχή... Era «dalla Testa» che la Luce
proclamava le notizie, essendo un’emanazione del Νους, che solo conosce
il Padre, e traeva da lui tutto ciò che proclamava agli Eoni». Analoga-
mente, la suddivisione dell’Uno, in cui abbiamo riconosciuto l’atto sacri-
ficale della creazione - autosacrificale nel momento in cui Egli si presta a
questa divisione, e «passione» subita quando per mezzo dell’uomo Egli è
simbolicamente disteso sul letto di Procuste del tempo e dello spazio,
nella crocifissione cosmica - la suddivisione dell’Uno è anche una dottrina
gnostica, per esempio nella «Apocalisse senza titolo» (Codice Brace): «Co-
lui le cui membra fanno innumerevoli miriadi di potenze, ciascuna delle
quali viene da lui». Il carattere gnostico della dottrina indiana del Sacrificio
fu segnalato da Eggeling in SBE., XLIII, XVII. Gli studiosi spesso hanno
riconosciuto che era difficile separare gli insegnamenti di Plotino da quelli
delle Upanişad, ma questo argomento troppo spesso è stato affrontato
(per esempio da Keith in Indian Culture, II, p. 135 segg.) come se la sola
alternativa fosse tra il prestito o l’origine indipendente. Però non è così
l’Agniṣṭoma è la preghiera della luce, lo chiamano Jyotishtoma, o
metafisicamente “Lode di luce”»... È l'archetipo del sacrificio (yajňa-
kratuh) senza inizio né fine (apūrvo anaparah, cfr. Dante, né prima né
poscia, Paradiso, XXIX, 20); l'Agniṣṭoma è come una ruota di carro,
senza fine (ananta),63 tale la sua venuta, tale la sua corsa in avanti*
(yathēva prāyanam Yathodayanam). A questo proposito si canta un ver-
setto sacrificale (yajňagāthā):64
«Ciò che è il suo inizio è anche la sua fine (yad arya pūrvam aparam
tad asya), analogamente, ciò che è la sua fine è anche il suo ini-
zio».65

che vengono considerate le somiglianze - che spesso consistono


nell’identità di scritti provenienti da civiltà molto distanti tra loro - da
coloro che parlano dell’«Antica Saggezza» - espressione che per quanto
abusata non è affatto priva di senso. Il vero significato si trova nell’inte-
grità di ciò che è stata chiamata «la tradizione universale e unanime». A
parte il confronto tra le formulazioni, tutto ciò dovrebbe essere evidente
per gli studiosi dei simboli, poiché i simboli visivi sono essenzialmente il
linguaggio della metafisica, cosi come le parole sono quello della filosofia.
63 Cfr. ŖV, V, 58, 5 e VIII, 20, 14: «Nessuno dei suoi raggi è l’ultimo».

* p. 45 [Questa espressione potrebbe prestarsi a una certa confusione, e


non è la traduzione troppo semplificata di Keith che può darne conto:
«As is its beginning so is its end». L’entrata o la «venuta» nei mondi è
tanto una nascita, quanto una morte, cosa che indica la notevole anfibo-
logia del termine prāyana. E la «corsa in avanti» (udayanam) è ugualmente
un ritorno, un «arrivo»; oppure, come abbiamo visto (p. 39-40) non è
tornando indietro, ma seguendo un percorso circolare (circumambula-
zione o movimento a spirale) che si ritorna all’origine].
64 La fonte di questa gāthā è sconosciuta, ma Sāyana dice che era «cantata

ovunque».
65 Cfr. Boezio, Consolazione della Filosofia, I, 6: «È possibile che se conoscete

l’inizio di tutte le cose (ser. jātavidyā), non ne conosciate anche la fine?»;


analogamente in san Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, I, 103, 2c;
Meister Eckhart (ed. Evans, I, p. 224): «In principio (scr. agre) significa
all’inizio di tutte le cose; ciò significa ugualmente la fine di tutte le cose,
poiché l’inizio primordiale è in vista della fine ultima... Che cos’è la fine
ultima? È il mistero della tenebra della Divinità eterna che è sconosciuta
Il movimento dello Shākala66 somiglia a quello di un serpente (ahēr
iva sarpanam), non si distingue quale delle due (estremità) è ante-
riore»
(cfr. Dante, «sanza distinzione in essordire», Paradiso, XXIX, 30).
Nel Jaiminīya Upanişad Brāhmana, I, 35,
«L’Anno è nel Sāman... L’Anno è senza fine (ananta), le sue due
estremità (antau) sono l’Inverno e la Primavera; è da ciò (anu)
che le due estremità di un villaggio sono unite, che i due capi di
una collana si congiungono, che il Serpente resta avvolto in-
torno ai suoi anelli; in verità, come una collana è posta da un
capo all’altro intorno (samantam... abhiparyakta) al collo, così il
Canto senza fine» (anantam sāma).
Lo stesso testo (I, 2) prescrive che il Gāyatra Sāman dev’essere can-
tato «secondo il movimento del Vento e delle Acque» (vāyosh ca apān
cānu vartma gēyam); il movimento del Vento viene
«dai quattro quadranti contemporaneamente, soffiando in modo
da provocare un turbine» (rēshmānaň janamāno nivēshtamānah) e il
movimento delle Acque «crea meandri, serpeggia e causa muli-
nelli» (ankānsi kurvāna nivēshtamānā āvartān shrijamānāh),67 in cui

(scr. anirukta ecc.), che mai è stata conosciuta e mai lo sarà»; Jeremias (Der
Anticbrist in Gescbichte und Gegenwart, 1930, p. 4): «L’Occidentale pensa in
modo lineare e progressivo, quindi meccanicamente, areligiosamente, in
maniera faustiana... L’Oriente e la Bibbia non pensano in modo lineare,
ma nello spazio e nel tempo, e in maniera piuttosto circolare, come se-
guendo delle spirali. La creazione evolve a spirale verso la perfezione... Il
magnifico simbolo del serpente che si morde la coda rappresenta l’Eone».
La circonferenza di un cerchio è allo stesso tempo «senza fine» e costituita
completamente da inizi e conclusioni che coincidono.
66 Sāyana dice che Shākala è «un nome di Ahi». Tutto ciò non è affatto

«assurdo» (come pensa Keith); nello stesso ordine di idee, lo shākala indi-
cava anche un rituale «ofidico», dello stesso tipo, per esempio, del Pri-
shthya Shadaha, descritto in Alt. Br., V, 22, in cui si recitano lodi alla
Regina Serpente.
67 Cfr. ŖV, X, 30,10, āvarvritatih... dvidhārāh;JUB., III, 33: quando «il soffio

ritorna sempre più in alto risuonando» (prānas svarya upary upari vartatē) si
questi due movimenti consistono nell’entrare e uscire contem-
poraneamente (cfr. TS., III, 2, 2), ma «senza andare avanti (parāň)
per timore di indebolirsi» (kshayād ēva bibhyāt, cfr. ŖV,VIII, 7, 16).
Analogamente, nell’ Aitarēya Brāhmana, V, 2,
«Essi avanzano a tappe di tre giorni senza fare soste» e ibid., III,
44, in cui si prescrive che l’Agniṣṭoma dev’essere celebrato
«senza fretta» e seguendo il corso del Sole «che, in realtà, mai si
leva né si corica» ma «gira su se stesso» (viparyasyatè),*
«in realtà, non si corica mai» (na ha vai nimrocati)68 e
«colui che comprende tutto ciò giunge a unirsi a Lui, perviene
alla Sua somiglianza e raggiunge il Suo stesso stato» (sāyujyam
sārūpatām salokyatāṁ).
In ŖV, I, 115, 5, si dice che lo splendore del Sole, benché di volta
in volta raggiante e cupo, è «senza fine» (ananta).69
La continuità senza fine dell’atto divino, che è l’atto dell’essere, è
spesso sottolineata nel Ŗg-Vēda; eccone alcuni esempi.
«Un solo e medesimo fa ascendere e discendere quest’Acqua
come un giorno succede a un altro» (I, 164, 51);
le Aurore, «l'una come l’altra, oggi, domani, seguono il cammino
incessante di Varuna»;

chiama «il ritorno del potere spirituale» (Brāhmana āvartah) e il valore at-
tribuito alle «volute benefiche» (nandyāvarta) nell’iconografia tarda.
* p. 46. Cfr. PBr., VII, 10, 3 e ā vavritsva in ŖV, IV, 1, 2.
68 Riecheggiando in CUp., III, 11, 3: «In realtà non sorge e non tramonta,

e per colui che lo comprende, è sempre mezzogiorno, tale è l’interpreta-


zione dell’incantesimo» [Vedi A.K.C., Le Temps et l’Eternité, p. 23].
69 Cfr. Vādhulasutra, trad. Caland, in Acta Orientalia, IV, p. 26-27, il giorno

e la notte sono dei loka: «Il giorno e la notte sono Mŗtyu (cioè Kāla): non
intaccano affatto la divinità Āditya (Sol invictus), poiché sono soltanto l’oc-
casione che permette a questa divinità di apparire e ripartire [anv astam
èti)»; cfr. Sh. Br., VIII, 6, 1, 18, le Apsara Pramlocanti e Anumlocanti, la
Notte e il Giorno.
«Ella segue diritta la via cosmica» (ritasya panthām anvēti sādhu, I,
124, 3);*
il Sole «avanza secondo la Legge» (īyatē dhtirmanā, I,160, l);70
i Fiumi di Vita «scorrono secondo l’ordine cosmico» (arshanti
ritavarī, IV, 18, 6) e (IV, 19, 7)
queste fanciulle «hanno la conoscenza dell’Ordine» (ritajnah, cioè
hanno la prescienza della loro via).71
I cammini del Giorno e della Notte sono «senza fine» (adhvā
anantah, 1,113,3); il movimento del Cielo e della Terra si effettua su
«cammini senza fine (ananta- sah... panthāh, V, 47, 2); la tela tessuta
dal Giorno e dalla Notte «non sarà mai disfatta né finita» (nāpa vri-
njātē na gamāto antam, AV, X., 7, 42, cfr. Dante, «che già mai non si
divina» (Paradiso, XXIX, 36). Tutto ciò si riassume nelle mirabili
strofe della Taittiriya Samhitā, III, 2, 2. Non è con voce incerta, ma
per mezzo della Parola stessa che «proclama ciò che porta la felicità
agli An- geli come agli uomini» X, 125, 5) che il Ŗg-Vēda afferma:
sicut erat in principio, est mine et semper erit, in saecula saeculorum.

10. LA TRACCIA DELL’«INFINITO» NELL’ARTE


A proposito di un passo, citato in precedenza, del Jaiminīya UP.
Brāhmana (I, 35), abbiamo fatto notare, in un altro studio, in quale
maniera tale passaggio illustri il concetto dell’arte in quanto imita-
zione delle «forme» celesti, così come lo espone per esempio

* p. 47. [E nella strofa seguente (4): «Ella (l’Aurora) arriva per prima tra quelle
che ritornano in successione indefinita»].
70 Cfr. «l’antica via scoperta un tempo», IV, 18, 1, e la stessa idea espressa in

termini simili nel racconto della nascita del Buddha, DN., XIV, 1,21 segg., in cui
si ripete dopo ciascun particolare: ayam ēttha dhammatā.
71 II simbolismo vedico della Fontana di Vita (utsa ecc.) con le sue correnti ine-

sauribili di acqua o di latte che sempre sgorgano (utsam duhanto akshitam, VIII, 7,
16, avatam akshitam, VIII, 72, 10) si ritrova in Plotino: «Immaginate una sorgente
che non ha altra origine che se stessa; essa si offre a tutti i fiumi senza mai essere
esaurita da ciò che essi prendono, ma rimane sempre integralmente ciò che era;
le correnti che ne derivano sono unite a lei prima di seguire le loro vie, benché
tutte, in un certo senso, sappiano prima quale letto riempiranno con il loro corso»
(Enneadi, III, 8, 10).
l'Aitarêya Brāhmana, VI, 27. Abbiamo anche mostrato a più riprese
- e ancora una volta in questa sede (6) a proposito dell'ūrnā - che è
quasi sempre possibile ricollegare il simbolismo e l'iconografia
dell’arte indiana a formulazioni vediche e che, ignorando queste
fonti, non si possono spiegare il simbolismo e l'iconografia, ma sol-
tanto descriverli. Si possono aggiungere alcuni esempi illustrativi,
in relazione al concetto d’infinità che abbiamo appena preso in
esame.
Se il canto vedico fu veramente ciò che indicano i Brāhmana, deve
essere possibile ritrovarne traccia nella musica indiana delle epoche
successive. Il genere a cui appartiene la musica indiana si è mante-
nuto in Europa solamente nel canto gregoriano, che a sua volta
rappresentava uno «stile» di alta antichità, forse di origine babilo-
nese (vedi Lachtnann, Musik des Orients, 1929,p. 9). Si può consta-
tare che gli ascoltatori europei hanno sovente notato le suite conti-
nue della musica indiana e l’assenza di crisi e di finale. Scrive Key-
serling: «Non è facile spiegare a parole che cosa significa la musica
indiana... né inizio, né fine; è l’ondulazione e il viavai del corso in-
cessante della vita» (Travet Diary, III, 30); e Fox-Strangways: «Non
sappiamo cosa dire di una musica che è trascinante senza essere
sentimentale, e che esprime la passione senza veemenza» (Music of
Hindustan, p. 2). Non molto tempo fa, un piccolo americano di cin-
que anni, ascoltando un disco di musica indiana, fece questa osser-
vazione in nostra presenza: «Questo tipo di musica gira senza fer-
marsi, va qua e là e poi ritorna». Sono esattamente le qualità formali
che i Brahmani attribuiscono al sāman vedico.
Se la philosophia perennis utilizza le immagini della spirale, come nel
caso dei turbini delle acque inesauribili, le possibilità dell’essere at-
tualizzate dal soffio aurorale della creazione e la luce del Sole che
sorge, si può benissimo affermare che le spirali e i meandri, ovun-
que appaiano nell’arte primitiva - vale a dire nell’«arte ideologica»
di un’epoca in cui l’uomo pensava in termini molto più astratti di
quelli a cui siamo abituati oggi - sono i segni e i simboli di queste
acque. Le nozioni di infinità, di eternità, di ricorrenza, sono impli-
cate non soltanto nel celebre simbolo del serpente che si morde la
coda, in questo senso «infinito», ma anche in tutti i motivi antichi
che rappresentano forme di serpenti e draghi intrecciati, nei quali
inizio e fine si confondono, e nei noti disegni di «intrecci» e di
«nodi»* il cui tracciato che li compone non ha né inizio né fine.72

11. CONCLUSIONE
Abbiamo dimostrato, in modo crediamo conclusivo, che il Padre e
il Figlio, il Drago e l’Eroe solare, benché apparentemente opposti,
sono segretamente uniti, sono una cosa sola, consustanziali. Quella
che esteriormente o logicamente dev’essere considerata come
un’operazione duplice, alternante il sonno e la veglia, la potenza e
l’atto, da un punto di vista interiore e autentico non è altro che la
natura unica dell’Identità Suprema (tad ēkam, sadasat). Poiché

* p. 48. [Vedi A.K.C., «The Iconography of Durer’s “Knots” and Leo-


nardo’s “Concatenation”», Art Quarterly, 1944].
72 Nell’arte cinese è il motivo del t’ao t’ie, che, con o senza corna di bufalo,

sembra rappresentare la testa senza mandibola di un drago (per esempio,


Eumorfopolos Cat., I, tav. XX, A, 26); si trovano esempi di drago che si
morde la coda (Relics of Han and pre-Han Dinasties, Tokyo, 1932, tav. LXI,
fig. 4 e Pelliot, Jades Archdiques de Chine, 1925, tav. XVII) o una concate-
nazione di draghi disposti in modo analogo (Eumorfopolos Cat., I, tav. LI,
A, 72). Se la forma del drago talvolta è rappresentata su uno sfondo di
spirali o di meandri, cosa potrebbero rappresentare se non il regno ac-
quatico di questi figli delle brume?
Sul t’ao t’ie, si veda R. Guénon, «Kāla-mukha» [Symboles fondamentaux de la
Science Sacrée, p. 356 (trad. it., Simboli della scienza sacra, Milano, 1975, p.
309)], C. Hentze, «Le Culte de l’ours et du tigre et le t’ao-t’ie» in Zalmoxis,
I, 1938. Sui draghi cinesi, si veda anche de Visser, The Dragon in China and
Japan, 1913; Werner, Dictionary of Chinese Mythology, 1932, s.v. lung-, Mac-
kenzie, The Migration of Symbols, 1928, in cui si noteranno anche, in rap-
porto con ciò che è stato detto più sopra a proposito del Faraone, nume-
rose rappresentazioni egiziane di serpenti che assediano le acque. Sulle
spirali e i draghi, si veda ancora Mackenzie, e sull’importanza del pro-
blema della spirale nell’arte, cfr. Cook, The Curves of Life, 1914 [e J. Puree,
La Spyrale mystique, 1974].
quest’ultima è un’identità di princìpi congiunti, si possono applicare
le stesse equivalenze allorché si considera la questione dal lato fem-
minile [come vedremo nel capitolo successivo]. Nel corso di questo
studio, abbiamo visto che l’ontologia vedica e i testi che la tradu-
cono non sono affatto peculiari del Ŗg-Vēda, e che si può ritrovarla
anche al di fuori delle forme indiane della «tradizione universale e
unanime». Abbiamo mostrato allo stesso tempo l’uniformità e la
continuità della trasmissione nella letteratura e nell’arte dell’India;
questa tradizione è sviluppata, piuttosto che deformata, dall’epo-
pea, i Purāņa e i Tantra; il nome di «Vyāsa», l’«autore» del
Mahābhārata, in realtà non vuol dire «compilatore» ma «colui che
sviluppa», poiché vyāsatas significa «in maniera dettagliata» «in modo
prolisso», «lungamente». Per quanto riguarda l’iconografia,
avremmo potuto dilungarci di più sul significato dei Nāga nell’arte,
ma il lettore potrà facilmente fare da sé i collegamenti.* Il celebre
motivo dei due Nāga intrecciati (come si vede sui Nāgakal e a
Konārak) rappresenta la coabitazione dei princìpi congiunti ab intra;
il motivo della lotta tra la Fenice (garuda) e il Nāga riflette l’opposi-
zione esteriore dei princìpi separati.73 Abbiamo dato alcune indica-
zioni sul senso delle caratteristiche principali della musica indiana,
l’impiego delle forma a spirale nell’«ornamentazione», e dell'ūrnā
come segno distintivo del Mahāpurușa - e notiamo, per finire, che

* p. 49. [E riferirsi qui al cap. VI].


73 A questo proposito, bisogna attirare l’attenzione sulla celebre figura etrusca

della Grotta dell’Orco (IV sec. a.C.) che rappresenta un «demone» alato con un
serpente, o, per parlare in termini indiani, un Garuda e un nāga. In questo di-
pinto, riprodotto e studiato da Evans (Palace of Minos, vol. IV, p. 188-190), non
bisogna vedere solo due teste di serpente che si elevano dalla testa d’uccello della
«Fenice» alata, ma, come ha notato Evans, il modello delle ali fornisce «lo stesso
disegno di spirali intervallate da punti caratteristico della dea(-ser- pente) mi-
noica». L’origine ofidica della potenza solare, che allo stesso tempo brandisce il
Serpente come «Giustizia immanente» non si poteva indicare in modo più chiaro.
Le due teste di serpente richiamano la forma pridāku-sānu di Indra rappresentata
nella celebre immagine di Mathurā [di cui parleremo nel capitolo successivo],
nota 30 (abbiamo già fatto notare l’equivalenza di sānu e shirri). Evans sostiene
che il modello è originario dell’Asia occidentale.
quest’ultimo, Sole spirituale, porta naturalmente sul dorso l’imma-
gine solare, mentre Shiva, potenza ab intra, come dimostrano i suoi
ornamenti di nāga - porta la Luna.

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