Escolar Documentos
Profissional Documentos
Cultura Documentos
Coomaraswamy
LUNI EDITRICE
IN COPERTINA: ŚIVA NATARAJA, INDIA DEL SUD, BRONZO, XI SECOLO.
ARCHIVIO LUNI EDITRICE.
Questa raccolta comprende una serie di saggi scritti da Ānanda Kentish
Coomaraswamy negli anni ’30 e ’40, pubblicati allora su diverse riviste e
ormai quasi introvabili. Gérard Leconte, il curatore di questa raccolta di
saggi, intende così divulgare una parte forse meno nota della vastissima
opera dell’autore anglo-indiano, famoso soprattutto per i suoi studi
sull’arte, mentre i suoi saggi sulla metafisica e il simbolismo sono rimasti
accessibili solo a un pubblico più ristretto.
I testi qui pubblicati si riferiscono a uno stesso tema fondamentale nelle
sue diverse varianti e sono raggruppati in quattro sezioni: le prime due
comprendono alcuni saggi che si basano sulla tradizione vedica e quella
arturiana, mentre gli articoli delle due parti successive riprendono l’argo-
mento in forma più generale.
Analizzando un simbolo che compare in tutte le tradizioni antiche - il tema
del Sacrificio primordiale che dà origine al mondo manifestato - Cooma-
raswamy ne approfondisce le variazioni principali. L’Autore inizia natu-
ralmente dalla tradizione vedica, in cui spiega ognuno dei simboli ricon-
ducibili a questo tema (i Deva, gli Asura, gli eroi, i Serpenti, il Sole, l’Au-
rora e molti altri) nel suo valore metafisico, per passare in seguito alla
letteratura occidentale, in cui gli stessi elementi entrano a far parte della
mitologia greca, celtica e nordica, trasformandosi nella lotta dell’Eroe con
il Serpente, ovvero il Drago, poi diventata un tema folkloristico o fiabesco
diffuso in tutto il mondo.
Nella parte finale l’Autore mette in luce anche l’altra interpretazione di
questo simbolo fondamentale, che costituisce il nucleo del suo studio: le
gesta dell’Eroe che infine sconfigge il Drago e lo decapita, tramandate
come figure mitico-letterarie, o addirittura come un motivo favolistico,
rappresentano in realtà il concetto ben più profondo e uni versale della
lotta dell'Anima contro l’ego, il sacrificio di se stessi per superare il limite
dell’individuo e ricongiungersi con l’Assoluto. Rappresentano dunque la
Liberazione del Sé dall’io. Grazie a questi saggi possiamo dunque cogliere
il significato autentico di innumerevoli archetipi della nostra cultura figu-
rativa, religiosa e letteraria, recuperandone il senso metafisico originario.
L’operazione forse potrà sembrare ardua, come si intuisce dallo stile
stesso dell’autore che, pur senza concedere nulla alla divulgazione e alle
semplificazioni, è però generoso di spiegazioni e di chiarimenti e ricom-
pensa il lettore a ogni passo con le sue straordinarie intuizioni.
Figlio di padre indù e di madre inglese, Ànanda Kentish Coomaraswamy
nasce a Colombo (Sri Lanka) nel 1877 e muore a Needham, nel Massa-
chusetts, nel 1947. Geologo e mineralogista di vaglia, era anche e
soprattutto uno studioso appassionato del pensiero indiano antico, nonché
delle manifestazioni artistiche del mondo indù. Dal 1916 gli vennero affi-
date importanti responsabilità presso il Museo di Belle Arti di Boston,
responsabilità che sostenne fino alla morte.
Di Coomaraswamy la Luni Editrice ha pubblicato anche: Buddha e la dot-
trina del Buddhismo, Tempo ed eternità e La danza di Siva.
€ 17.00
INTRODUZIONE
Ananda K. Coomaraswamy, che il lettore francese conosce soprat-
tutto per il suo Hindouisme et Bouddhisme1 ha lasciato un’opera con-
siderevole, molto apprezzata in India e nei Paesi di lingua inglese.
Si può notare tuttavia che la sua celebrità è dovuta soprattutto ai
libri sull’arte; i suoi studi sulla metafisica e il simbolismo, basati
principalmente sull’esegesi dei testi hindu, sembrano avere avuto
un pubblico più ristretto. Se questa situazione si spiega in parte con
l’atteggiamento reticente degli orientalisti (in particolare francesi),
disorientati dalla metafisica e rassicurati dalla filologia,2 bisogna cer-
carne una motivazione più generale nel fatto che, tra gli innumere-
voli articoli scritti da Coomaraswamy per diverse riviste indiane o
americane ormai da tempo introvabili, soltanto un numero relati-
vamente ristretto è stato raccolto in qualche volume, di cui tre sono
comunque consacrati all’arte.3 In ordine di pubblicazione, citiamo:
The Transfor- mation of Nature in Art (1943), Figures of Speech or Figures
of Thought (1946), libri che rappresentano una notevolissima trilogia
sull’arte tradizionale occidentale e orientale; The Religious Basis of the
Forms of Indian Society (1946), libretto che contiene tre studi sulla
società indiana antica e attuale; infine, Am I my Brother’s Keeper?
(1947), su certi aspetti dei rapporti tra Oriente e Occidente.
Coomaraswamy avrebbe preparato sicuramente altre raccolte se la
morte, avvenuta nel 1947 poco dopo aver compiuto 70 anni, non
avesse interrotto un lavoro straordinariamente fecondo.
Finora non è stato fatto alcun tentativo per colmare questa lacuna
e aggiornare i testi, e cogliamo l’occasione di questa traduzione per
Nel tradurre questi due articoli abbiamo tenuto conto delle corre-
zioni inedite dell’Autore, e soprattutto delle numerosissime note
manoscritte di cui siamo venuti a conoscenza grazie alla cortesia di
suo figlio, il Dott. Rama P. Coomaraswamy. In questa importante
documentazione siamo stati costretti a fare delle scelte, anche per-
ché spesso si trattava di riferimenti laconici o di citazioni in san-
scrito,7 e le annotazioni erano evidentemente redatte non per una
riedizione immediata di questi articoli, ma «messe sulla carta» in vi-
sta di ricerche e di aggiunte ulteriori - alcune di esse sembrerebbero
essere state all’origine dei due articoli che qui costituiscono la se-
conda parte della raccolta (capitoli III e IV). Per questo, oltre a una
scelta tra i «cfr.» per i testi hindu che abbiamo potuto consultare,
abbiamo composto o allungato certe note, senza aggiungere nulla
di nostro, in base a frasi e citazioni sparse che l’Autore aveva anno-
tato a fronte del testo stampato. Per questi passaggi inediti non ab-
biamo utilizzato le virgolette d’uso, riservando queste ultime alle
note scritte da noi, che riteniamo in parte giustificate dal fatto che
Coomaraswamy generalmente scriveva per riviste di orientalistica.8
9 «Sir Gawain and the Green Knight: Indra and Namuci», Speculum, vol.
19, 1944; «On the Loathly Bride», Speculum, vol. 20, 1945.
10 Questo testo è stato studiato e tradotto in francese da Emile Pons,
Aubier, 1946.
11 L’impresa di Gauvain è un adattamento arturiano di un racconto celtico
tato da Indra; cfr. ŖV, I, 116, 12 e Sh. Br., XIV, 1,1, 18 segg.
si riconosceranno le giovani vergini descritte in «Il volto oscuro
dell’Aurora». Come Apāla, Sujātā (o Biancaneve), queste donne-
drago o sirene sono liberate dall’incantesimo il giorno in cui spo-
sano l’eroe solare (= Indra), unione talvolta simboleggiata nelle nar-
razioni occidentali dal «Fiero bacio». È con questo bacio che Indra
beve il Soma; l’Acqua di vita che la strega trae dal pozzo per offrirla
all’eroe che acconsente a baciarla non è altro che la «bevanda d’im-
mortalità» che si ottiene dopo avere messo a morte l’anima draco-
niana. Il tema dell’unione salvifica implica quello dell’impurità ori-
ginale della donna, che essa rivive periodicamente e da cui si libera
ogni volta grazie al «mistero» del matrimonio.
Che le fonti siano greche, celtiche o indiane, la «sposa orribile» rap-
presenta ugualmente la Terra Madre ed è la personificazione della
Sovranità che l’eroe deve conquistare malgrado la sua ripugnanza.
Lo studio si conclude, come il precedente, con alcune considera-
zioni sul mito e il folklore.
LA TRASFORMAZIONE SOLARE: PERDERE LA TESTA O CAMBIARE PELLE.
I tre articoli che costituiscono la terza parte (capitoli V - VII) ri-
guardano le due modalità sacrificali che abbiamo rilevato in prece-
denza: decapitazione e cambiamento di pelle, in altre parole la «ne-
gazione dell’io» («Chi vuole salvare la propria vita la perderà...») e
lo «spogliarsi dell’uomo vecchio».
In «I Maghi senza testa e l’Atto di Verità»,13 Coomaraswamy spiega
innanzitutto il senso del rito basato sulla potenza effettiva di una
parola vera. Il contesto vedico comprende un esempio di decapita-
zione, relativa qui al caso di quegli esseri «che fanno della loro testa
ciò che vogliono», cioè che hanno acquisito la libertà dei loro atti.
Oggetto di questo studio è la spiegazione di una particolarità ico-
nografica di una sepoltura buddhista.
1942.
avendo un carattere essenzialmente simbolico, devono essere trat-
tati come supporti di contemplazione (dhiyālamba), il che presup-
pone che ogni pratica implica e include una teoria corrispon-
dente».17
Allo stesso tempo, «si richiede qualcosa di più degli atti puri e sem-
plici se si vuole realizzare il disegno ultimo di cui gli atti non sono
altro che i simboli. Si dice esplicitamente che “non è né con
l’azione, né con i sacrifici che Lo si può raggiungere”, Colui la cui
conoscenza è il nostro bene supremo. Allo stesso tempo si afferma
senza sosta che il Sacrificio non si compie solo in modo parlato e
visibile, ma anche in maniera “intellettuale” (manasa), silenziosa-
mente e invisibilmente, all’interno di noi stessi. In altre parole, la
pratica non è altro che il supporto esteriore e la dimostrazione della
teoria. Si impone una distinzione tra l’autentico sacrificatore di se
stesso (sadyaji, satishad, atmayaji) e colui che si accontenta semplice-
mente di essere presente al sacrificio (sattrasad) e di aspettare che la
divinità faccia tutto il lavoro reale (devayaji). Molto spesso si dice
anche che “chiunque comprenda queste cose e compia il buon la-
voro, o anche se comprende soltanto (senza compiere effettiva-
mente il rito) restituisce la divinità smembrata alla sua totalità e in-
tegrità”; è tramite la gnosi, non le opere, che si può raggiungere
questa realtà»18.
Teniamo a ringraziare le riviste che ci hanno autorizzati a pubbli-
care la traduzione degli articoli: Journal of the American Orientai Society,
Smithsonian Miscellaneous Collections, Bulletin of the Museum of Fine Arts
di Boston, Speculum, Harvard Journal of Orientai Studies, così come la
Princeton University Press che riedita in Selected Papers gli articoli
che qui formano i capitoli IV, VI e VIII; ringraziamo in particolare
Mr William Mc Guire e Mrs Margaret Case che ci hanno gentil-
mente comunicato il testo definitivo stabilito sull’esemplare cor-
retto dell’Autore. Infine ringraziamo calorosamente il Dott. Rama
INTRODUZIONE
L’idea principale sviluppata nel presente studio è che i Dêva, gli
«Angeli», e gli Asura, i «Titani», rispettivamente potenze di Luce e
potenze di Tenebre nel Ŗg-Vêda, benché distinti e opposti nella loro
azione, sono nondimeno della stessa essenza, la loro distinzione
poggiando in realtà sulla loro orientazione, il loro cambiamento o
la loro trasformazione, come indica l’affermazione del Pancavimsha
Brāhmana: «I Serpenti sono i Soli» e l'impiego ripetuto di vrit, «gi-
rare», «rotolare», «compiersi», nel Ŗg-Vêda e nei Brāhmana, a propo-
sito dei rapporti tra Angeli e Titani. Il Titano è un Angelo in po-
tenza, l’Angelo è ancora un Titano per sua natura originaria; la Te-
nebra in atto è Luce, la Luce in potenza è Tenebra. Si possono dun-
que applicare queste due designazioni, Asura e Dêva, a una sola e
medesima entità secondo il suo modo operativo, come nel caso di
Varuna, così come si può indicare questa duplice azione per mezzo
di nomi diversi: «Tu (Agni) sei Trita per il fatto della tua operazione
interiore» (guhyêna vratêna, ŖV, I, 163, 3).
Vedremo anche che se gli Angeli sono rappresentati di solito sotto
forma di uomini e di uccelli, i Titani lo sono sotto forma di animali,
1 «Questo Uno diventa il Tutto»; «Volta da questa parte, o Agni, tuo fra-
tello Varuna» (cioè «Rivelati», poiché Agni è il «volto di Varuna», ŖV,
VII, 88, 2, Surya è il «volto» degli Angeli, di Mitra, di Varuna e di Agni, I,
115, 1); «i Serpenti sono i Soli»; «La scienza dei Serpenti è il Veda».
Le traduzioni seguenti non variano nel corso del testo: dêva, «Angelo»;
asura, «Titano»; ahi, «Serpente» (come anche sarpa, «Serpente», talvolta
senza maiuscola); Vŗtra, «Drago»; māyā, «Magia» e māyin, «Mago».
in particolare di serpenti (sarpyā). Queste considerazioni sono di
fondamentale importanza per capire l’iconografia e il «culto del ser-
pente». La tesi che abbiamo formulato è riassunta nelle citazioni
poste in epigrafe come «argomento». Per il momento prenderemo
in considerazione solo le potenze maschili, l’argomento del sarpatva
in rapporto alle potenze femminili corrispondenti sarà trattato in
«Il volto oscuro dell’Aurora».
1. INDRA E NAMUCI
La storia di Indra e del Titano Namuci, «Uncino»*, è stata oggetto
di un notevole studio da parte di Bloomfeld.2 Di questa lotta qui
manterremo solo gli elementi che si riferiscono al nostro argo-
mento. Indra e Namuci, il Titano e Mago la cui identità con Vŗtra
* Secondo Panini, Namuci significherebbe «colui che non lascia, che trat-
tiene».
2 The Story of Indra and Namuci, JAOS., 1895, p. 143 segg. Non seguo
5 Cfr. V, 47, 3, in cui Agni è una «gemma di diaspro», e VII, 104, 19, a
proposito di Indra in quanto uccisore di demoni: «Fece girare il gioiello
del Cielo»
(pra vartaya divo ashmānam). In AV., X, 4, 5, il Sole è descritto come
«sorto da Vŗtra».
6 La «natura eolica» di Mātariśvān (= Mātali) è studiata da Charpentier,
2. MAKHA
I riferimenti a un Titano Makha cacciato dai Bhŗgu (ŖV, IX, 101,
13), o la cui testa è mozzata da Indra (X, 171, 2), presuppongono
le versioni dei Brāhmana in cui la testa di Makha diventa il Sole. In
X, 171, 2, Indra «solleva dalla spoglia di Makha la testa furiosa», la
qual cosa precede la preghiera della strofa 4 che chiede di far tor-
nare dall’ovest all’est «il Sole, Vasha, che era stato nascosto agli An-
geli»: «la testa furiosa di Makha» corrisponde alla «testa furiosa di
Vŗtra» mozzata da Indra con la sua folgore a cento rami (VIII, 6,
6); «Vasha», questo «Vasha equino» che è aiutato dagli Ashvin
(1,112,10), e in VIII, 46, 33, è evidentemente il Sole; la «spoglia»
corrisponde alla «pelle nera che Indra detesta» (IX, 73, 5), la «vec-
chia pelle del Serpente» di IX, 86, 44, in cui Soma, «proprio come
Ahi, abbandona strisciando la sua vecchia pelle» (ahir najūrnām ati
sarpati tvacam), in accordo con il passaggio del Pancavimsha Brāhmana,
XXV, 15,4, in cui i serpenti, «abbandonando la loro vecchia pelle
(hitvājirnām tvacam) avanzano strisciando (atisarpanti), respingono la
è «per mezzo del versetto sarparājhyā che Arbuda ritira la sua pelle cor-
rotta», mritām tvacam apāhata).
Sul loto (= la terra) come luogo di nascita di Agni, cfr. anche VIII, 72,11,
in cui il soma è «versato nel loto» (nishiktam pushkarè), e Sh. Br., VIII, 6,3,
7, yo- nir vaipushkara-parnam. ŖV, VII, 33,11, in cui Vasistha (Agni) brah-
man... jā- tah pushkarē, corrisponde a GBr., I, 16, Brahmā ha vai brahmānam
pushkarē asrjiè. Il fatto che Agni esca dalle acque strisciando per salire sul
loto, corrisponde al simbolo gnostico della ninfa e dell’immagine.
Morte e diventano Āditya». Possiamo già notare, anticipando, che
la bisezione del Serpente può essere paragonata alla separazione del
Cielo e della Terra.
Consideriamo ora le versioni dei Brāhmana. Nel Pañcavimśa, VII,
5,6, Agni, Indra, Vāyu e Makha, bramando la gloria (yashas), parte-
cipano a una sessione sacrificale. Makha ottiene la gloria ma,
quando si appoggia al suo arco, l’estremità si rilascia improvvisa-
mente e gli taglia la testa, «che diventa il pravargya, perché Makha è
in effetti il sacrificio». Questo pravargya (o pravarga) è ugualmente
chiamato, nel rituale, mahāvira o gharma,* e «la testa del sacrificio».
Nel Taittirīya Aranyaka, V, 1, 1-5, Makha è chiamato Vaishnava
(Saumya in Sh. Br., XIV, 1, 2, 17); l’arco «proietta (la testa) fa-
cendo(la) girare» (udavartat) e questa allora gira intorno al Cielo e
alla Terra;** «il fatto “che avanzava girando” (prāvartata, cioè “pro-
grediva”, cfr. pravritti) è all’origine del termine pravargya; il termine
gharma è in relazione con il suo incendiarsi, e mahāvira con il suo
grande eroismo»9. Questo passaggio del Taittirīya Brāhmana, II,
6,13,1, sa bibhèda valam magham (cfr. ŖV, III, 34,10) suggerisce l’iden-
tità della «Caverna» personificata, Vala, e di Makha; che la lectio sia
magham e non makham (cfr. ŖV, IX, 20, 7) sottolinea l’unione del
coraggio temerario, della ricchezza e della generosità nell’eroe
ideale.
L’esposizione è più completa in Śatapatha Brāhmana, XIV, 1, 1; i
Dêva presenti sono Indra, Agni, Soma, Makha e Vişņu (forse biso-
gnerebbe leggere Soma-Makha o Makha-Vişņu). È la testa di Vişņu
condizioni del tempo e dello spazio» (B. Frost, The Meaning of Mass, 1934,
p. 63), e della sua portata, ciò che è stato detto del sacrificio ebraico:
«L’impulso del sacrificio mantiene i mondi», ed è grazie all’impulso del
fumo in basso che «la lampada (cioè il Sole) è infiammata in alto» (Zohar,
sezione Vayehi, II, 374, nella traduzione di Sperling e Simon). Qui come
altrove, il punto di vista vedico non è affatto particolare.
13 Al quale in origine non prendevano parte, come sappiamo dalla storia
di Cyavāna (P5r., XIV,, 6,10, Sh. Br., IV, 1,5, Jaim. Br., III, 120 segg. ecc.)
che identifichiamo con Prajāpati.
14 Formula tratta da VS., XXXVII, 8, mentre lo Sh. Br. aggiunge: «poiché
(Màdhyamdina) udvavarta.
** p. 27. Per Prajāpati, vedi Sh. Br., I, 6, 3,35-37, PBr., IV, 10,1, VI, 5, 1
ecc.
3. IL SACRIFICIO DEL RE SOMA
In Śatapatha Brāhmana, IV, 4, 3, 4, si ha: «Soma era allora Vritra.16
Quando gli Angeli lo colpirono, la sua testa si elevò girando (udva-
varta) e divenne il drona-kalasha», cioè il vaso di soma.17 Il fatto che
la testa diventi un vaso spiega perché certi vasi si chiamano kapāla,
«coppa fatta con un cranio», nel rituale e anche in altre circostanze.
Il «vaso degli Angeli» sarebbe il Sole, piuttosto che la Luna, che
allora sarebbe il vaso degli Asura.
La preparazione del soma rappresentava un sacrificio reale del Re
Soma, come mostra Sh. Br., IV, 3, 4, 1, cfr. IV, 4, 5, 21, in cui la
spremitura degli steli è detta l’uccisione di Soma; gli steli secchi
sono rigenerati simbolicamente tramite immersione nell’acqua, che
equivale alla linfa (rasa), che ha la funzione di atto espiatorio (cfr.
III, 9, 4, 2 e 7). La natura reale del sacrificio è ugualmente indicata
dall’uso della radice sham [«placare» o «uccidere», cfr. infra, p. 225] in
ŖV, V, 43, 4 «queste braccia che “danno il colpo di grazia” a Soma»
(somasya yê shamitārā).
Se si rammenta l’equivalenza tra vrit e math, è evidente che la fran-
tumazione degli steli di soma riflette la passione di Makha-Saumya
o di Vŗtra. L’ottenimento del soma è presentato come un ratto
compiuto dall’Aquila (Agni) a vantaggio di Indra, o come un furto
commesso da Indra in persona (un altro dei suoi kilbishāni), poiché
Soma, in quanto Re o in quanto Albero, all’origine era in mano ai
Titani (e da loro ben sorvegliato - cfr. X, 97, in cui Soma è il re delle
piante), il che si spiega col fatto che la loro esistenza era di molto
precedente a quella degli Angeli.18 Per quanto riguarda il sacrificio,
16 Cfr. Sh. Br., III, 4,3,13, III, 9,4,2, IV, 1,4, 8, IV, 2, 5,15. In ŖV, 1,191,
6, Soma è chiamato «fratello» dei serpenti.
17 Cfr. PBr., VI, 5, 7: «Il drona-kalasha è il vaso degli Angeli» [cioè il Sole;
di soma prima della nascita degli Angeli; «il Gandharva protegge il sog-
giorno (di Soma)» (IX, 83,4), per questo l’Aquila (Agni) lo porta a Indra,
si può ugualmente notare che i termini soma e purușa sono assimilati
in modo preciso in X, 51, 8, in cui «la Persona delle erbe» che riceve
Agni quando accetta il sacerdozio, non può essere altri che il Re
Soma.
4. VIŚVARŪPA E VŖTRA
Viśvarūpa, «Onniforme», è contemporaneamente il nome di un Ti-
tano e un epiteto applicato a suo padre Tvaṣṭṛ, il creatore per artem.
In ŖV, II, 11, 19, X, 8, 7-9 e X, 99, 6 (abbiamo riunito questi dati),
vediamo Trita Āptya (cioè Agni ab intra, che arde di manifestarsi),
alleato a Indra, che uccide Viśvarūpa con tre teste,19 sei occhi, sette
raggi, e poi strappa violentemente (paravark) o porta via (ava... bha-
rat) le sue teste e fa razzia del suo bestiame. In II, 11, 19, Indra
consegna Viśvarūpa a «Trita, che è dalla nostra parte», e si può de-
durre che viene decapitato, perché nel verso successivo il Sole viene
messo in movimento (avartayat tūryo na cakram).20 In X, 99, 6, gli
* p. 28. ŖV, IX, 86, 44, ahir na jùrnàm ati tarpati tvacam atyo na krìlann asarad
vrishà harih.
19 Le tre teste di Viśvarūpa, come quelle del Sole, possono corrispondere
ai tre mondi, cfr. JUB., III, 11-12, dove è «con tre giri» (āvrīdhbir) del Gay
atra (Sāman) che Purușa conquista il Cielo, il mondo intermedio e questo
mondo, insieme a tutto ciò che essi contengono; il Gāyatra stesso è
tryāvrit. L’uso di āvrit risponde, qui e altrove, all’uso della radice vrit, così
come il senso particolare di āvritta, equivalente di pravritta, che significa
una venuta nei mondi.
20 La relazione tra Indra e il Sole talvolta è stata male interpretata; la sua
benevolo il Padre). «Che cosa reclama Indra a sua Madre, al suo Padre
Progenitore che lo generò? (Domanda) ciò che provoca all’istante il suo
furore» (bere il soma), IV, 17,12. La rottura violenta dell’armonia preesi-
stente provocata da Indra e il trattamento brutale che infligge ai suoi ge-
nitori (come in IV, 18), benché in accordo con la provvidenza del Padre
spirituale [dhìtim pitur... parasya, X, 8, 7), diventano motivo di rimprovero;
a causa di queste offese, e di molte altre - e benché agisca spinto da un’in-
fallibile necessità e «faccia ciò che dev’essere fatto» - Indra talvolta è
escluso dal sacrificio, per esempio in Ait. Br., VII, 28, in cui si rammenta
il suo torto verso Bhŗaspati e Viśvarūpa, e «poiché rubò il soma di Tvaṣṭṛ,
ancora oggi il potere temporale (kshatra) è privo di soma». Agni, d’altro
canto, è il Redentore (kilbishasprit, X, 71, 10).
22 Sembra preferibile ricollegare i nomi Vŗtra e Varuna alla radice √vŗ,
sue luci (nakshatrāni) e la Terra i suoi diversi aspetti (citrini rūpāni). I rūpāni
sono allora le «cose di ciascun genere», le «opere di distinzione, gli orna-
menti»; cfr. i pururūpā vapūmshī della Terra in ŖV, III, 55,5, vishvarūpāh-
pashuvah in VIII, 100, 11, sarvāni rùpāni in Ait. Br., V, 23, in relazione alla
Terra in quanto Regina Serpente, e Jaim. Br., I, 160, cfr. TS., II, 4, 6, dove
la Terra è citrā [«multicolore»]. La spartizione di Vŗtra, di Purușa, di
molto significativo il consiglio di Indra a Vişņu: «Vieni, imposses-
siamoci di ciò per mezzo di cui egli (Vŗtra) è questi mondi» (voyêna
ayam idam). In Śatapatha Brāhmana, I, 6, 3, il seguito delle azioni è
paragonabile; il soma è gettato nel fuoco: «Poiché lo giravano (var-
tamānah), divenne il Drago, poiché non aveva i piedi (apad), diventò
il Serpente».26 Ogni cosa, gli Angeli, le scienze, la gloria, il cibo e la
bellezza provengono da Vŗtra, che giaceva privato del suo conte-
nuto come un sacco vuoto, «ristretto e svuotato».27 Indra è pronto
a ucciderlo, ma l’altro gli dice: «Non farlo, perché ora tu sei ciò che
io (ero prima); spartiscimi soltanto».28 Indra lo taglia in due
(dvêdhānvabhinnat), facendo della parte che aveva contenuto il soma,
la luna, e dell’altra, la parte titanica, il ventre di tutte le creature -
cosa che fa dire agli uomini: «Vŗtra è in noi».29
dice di Purușa, il Signore della Vita, che «egli si erge per mezzo del cibo»
(X, 90, 2); poiché il cibo è la prima manifestazione dello Spirito, «il soffio
vitale è modificato (-maya) dal cibo» (MUp., VI, 11).
Il fatto che Vŗtra sia «in noi», rispondendo al concetto di un fuoco o di
una combustione digestiva, suggerisce un parallelismo interessante. È tra-
mite lo «stomaco» che siamo incitati ad assumere il «cibo» (come fa notare
Sh. Br., I, 6, 3, 17), e se lo stomaco è identificato con il Drago o il Serpente,
allora si può dire che quando l’«uccello» mangia il frutto zuccherino del
fico (svādu pippalam alti, 1,164,20), «il Serpente lo tentò» - come in Genesi,
«Il Serpente mi ingannò e io ne mangiai». Al contrario, il digiuno si può
considerare non come un esercizio morale, ma come un rito metafisico,
un’imitazione dell’altro «uccello» che «non mangia dell’albero» ma si li-
mita a guardarlo (abbi cākashīti, ibid.) [secondo Ibn 'Arabi, «La fame pro-
cura la conoscenza di Satana» (La Parure des Abdāl, l'T., 1950, p. 302], Il
concetto di «cibo» comporta evidentemente numerose applicazioni, che
coprono tutti gli oggetti del desiderio, poiché la loro acquisizione deter-
mina il comportamento specifico dell’individuo. L’identificazione di
Vŗtra con il ventre - la somiglianza tra gli intestini e il serpente è palese -
corrisponde alla concezione diffusa nell’Antichità, che fa delle «viscere»
la sede delle emozioni, cioè del desiderio, distinte dal «cuore», in seno al
quale si effettuano le operazioni intellettive.
30 Qui la «persuasione» - che spesso è una corruzione - corrisponde alla
XX, 14, 5.
** p. 30. Come in BUp., 1,4, 3, cfr. 17, ātmānam dvēdhāpātayat; JUB., 1,54, tē
vyadravatām; ŖV, X, 27, 23, krintatrād eshām ecc.
ne nascono le piante. Sfrega di nuovo e ottiene un altro fiotto. Esita
a fare un’offerta di quest’altro latte (che corrisponde al «resto di
soma» nella TS.) Allora prende la parola la sua Onnipotenza: «Fa’
l’offerta!» (juhudhi). Getta per la seconda volta il «latte» nel fuoco;
«allora il Sole apparve (udiyāya), il Vento si levò (pra babhūva), il
Fuoco fu allontanato» (agnih paran paryāvartata). Così Prajāpati «si
propaga superando il Fuoco, la Morte». Infine, questa Resurrezione
del Dio morente32 è, per chi la comprende, la promessa di una ana-
loga rigenerazione, «perché quando muore, e quando lo depongono
nel fuoco, allora egli (ri)nasce dal fuoco (agner adhijāyatê), il fuoco
non consuma che il suo corpo» (Sh. Br., loc. cit. 8); tutto ciò si ac-
corda con i dati degli inni funebri del Ŗg-Vêda, e una dottrina non
potrebbe essere più esplicita di così.
Si possono rilevare determinate caratteristiche comuni a Viśvarūpa,
Agni, Surya, come ad altri aspetti del principio della manifestazione.
Agni ab intra (pitror upasthê) ha, come Viśvarūpa, tre teste e sette
raggi (ŖV, I, 146, 1); Agni (II, 5,2) e il Sole (VIII, 72,16) hanno
ugualmente sette raggi; e «là ove sono questi sette raggi, risale la mia
parentela (nabhi, «ombelico»); Trita Āptya lo sa, lui che si rivolge
alla mia famiglia» (I, 105, 9; cfr. X, 64,13 e III, 5, 5). In III, 38, 4, è
sotto l’aspetto del Sole che si manifesta Viśvarūpa; «Quando (il
Sole) si innalzava si ornava di tutte le cose, luminoso da se stesso
avanzava pieno di gloria; la forma possente del Toro, del Titano, è
l’Onniforme che assume le sue eviternità». In Vājasanêyi Samhitā ci
si rivolge ad Agni come alla «luce onniforme» (jyotir asi viśvarūpam).*
32Cfr. PBr., XXV, 17, 2-3, in cui Prajāpati, «inebetito dall’età», compie il
sacrificio per essere di nuovo in atto, in quanto principio animatore
dell’universo, sarvasya prasavam agacchat.
* p. 31 [Per questo paragrafo, vedi «L’Exemplarisme védique», art. cit.]
rifiuta agli Angeli e agli uomini la possibilità di vivere; è identificato
con Viśvarūpa e con Vritra.33
In due passi del Ŗg-Vêda, Vişņu è associato a Indra nell’uccisione
del cinghiale. Nel primo (I, 61, 7), in cui si menziona il furto com-
messo durante una libagione di soma, Vişņu può essere un agget-
tivo qualificante Indra; nel secondo (VIII, 77, 10) è manifestamente
Vişņu che «porta (la pietanza) cotta». In generale, l’impresa è tipi-
camente quella di Indra, benché sia a vantaggio di Vişņu, come in
TS., II, 4, 12, già citato. Per esempio in ŖV, I, 121, 11, vediamo:
«Tu, il grande (Indra), addormenti con la tua folgore il Cinghiale, il
Drago (vritram... varāham) che giace (āshayamānam) nei corsi d’ac-
qua». Nella Taittirīya Samhitā, VI, 2, 4, 2-3, si dice che il cinghiale
Emușa è di guardia al tesoro dei Titani, oltre le sette montagne,
senza dubbio al di là dei sette mondi, d’accordo con il fatto che al
principio i Titani possedevano tutte le cose. Indra, incoraggiato da
Vişņu, trapassa le montagne (cfr ŖV, VIII, 77, 6 e 96, 2) ed entrambi
entrano in possesso del cibo e delle ricchezze, cioè come in ŖV,
VII, 5, 3 i Titani sono costretti a rinunciare ai loro «piaceri» (bho-
janāni). Nella Taittirīya Samhitā, VII, 1, 5, 1, il Cinghiale, che ora sol-
leva la Terra al di sopra delle Acque, è identificato con Prajāpati, il
Sacrificio, così come con la Morte e l’Anno (in Sh. Br., X, 4,3,1- 3).
Questo non deve stupire, non più del duplice ruolo svolto dal Cin-
ghiale o Vişņu, poiché tali apparenti contraddizioni sono la conse-
guenza inevitabile delle operazioni opposte* e del duplice aspetto
della divinità che si muove in due direzioni antitetiche (dvivartani,
X, 61, 20 ecc.), si trova all’incrocio dei sentieri (panthām visargê... ta-
sthau, X, 5, 6) e cambia aspetto a suo piacimento, passando dalla
sterilità alla generazione (VII, 101, 3).
33 ŖV, X, 99, 6 e I, 61, 6-8,1, 121, 11, cfr. I, 32, in cui Vŗtra è anche Vyāmsa
e il «primogenito dei serpenti», pratbasajām ahīnam, IV, 1, 11, in cui Agni
jāyataprathamah... budhnē... apad ashirshā guhamāno anta, cioè è Ahi Budhnya,
e X, 90, 7, Purușam jātam agratah.
* p. 32. ŖV, X, 23, 1, vivrata, III, 38, 9, virūpa kritāni ecc
6. AHI-VŖTRA
Abbiamo già esposto certi dati relativi a Vŗtra e, in base a A V, I,
32 e altri testi, non si può più mettere in dubbio l’equivalenza tra il
Drago, Vŗtra e Ahi,34 il Serpente.
chiamato Samgana, cioè Yama (per uno studio più completo, si veda
A.K.C., «The Conqueror’s Life in Jaina Painting», Journ. Ind. Soc. Or. Art.,
1935). Il nome di Jina, «Conquistatore», applicato a Mahāvira, non meno
di quello di Tirthamkara, rievoca la terminologia vedica.
Nella tradizione indiana, in effetti non c’è alcun aspetto del principio della
manifestazione che, all’inizio, non sia impegnato per necessità in una lotta
accanita contro la Morte.
In fin dei conti, il problema del carattere ario o non-ario dei nāga è stato
posto in maniera non del tutto corretta, cfr. Vogel, Indian Serpent Lore, p.
32,191, 225, 226. I serpenti sono per definizione non-arii, lo diventano
solo tramite «qualificazione» (arhana) e «strisciando al di là» (atisarpana, da
cui l’imitazione di questo movimento nel sacrificio rituale); d’altra parte,
la dottrina riguardante i serpenti fa necessariamente parte sia della tradi-
zione aria vedica, sia di tutta la tradizione non-aria, per esempio quella
sumerica. Si può facilmente capire l’importanza dell’uccisione del drago
in tutte le tradizioni, quando si sa che lo smembramento della potenza
ofidica è precisamente l’atto della creazione.
** p. 32. Egli «gli mozzò la testa», abhinac chirah, cfr. II, 11, 2, ava abhinat,
II, 20, 6, ava... shiro bharad dāsasya, VIII, 6, 6, shiro bibhēda.
35 35 La «testa» del vaso mahāvira, rispettivamente in Sh. Br., XIV, 1,2,17
36 Guhā hitam guhyam gūlham apsv apīvritam māyinam kshiyantam, apo dyām ta-
stambhvānsam; come in numerosi testi, dyau qui equivale al «Sole». Quanto
alla radice stabh, è impiegata non nel senso positivo di «supporto», ma
come in ŖV, VI, 44, 22, in cui «Soma inchioda l’avaro al suolo» (panim
asthabhāyat).
37 Vritam, dalla radice √vŗ, «avvolgere», «ostruire», «trattenere», e senza
9 e Sh. Br., I, 6, 3, 9.1 nomi si prestano alla confusione. In Sh. Br., loc. cit.,
Dānu e Danāyū, o Dānavī, ricevono Vŗtra ferito «come (se fossero stati)
sua madre e suo padre». Dānu non compare nel Ŗg-Vēda. Dānu, in II, 11,
18, è evidentemente un patronimico, o piuttosto un matronimico, nel
qual caso Dānu o Danu potrebbe essere il nome della madre. In I, 32, 9,
Dānu con Vŗtra-putrā deve essere la madre; il fatto che Indra li anneghi
entrambi - «la madre sopra e il figlio sotto, là giace Dānu come una vacca
con il suo vitello» (sahavatsd na dhēnuh) si accorda perfettamente con il
fatto che Dānu significa ugualmente «liquido», «umidità» o «bruma»,
facesti sprofondare il Dasyu»;39 il versetto seguente implica l’iden-
tificazione di Viśvarūpa e di Vŗtra, che altrove è detto suo fratello.
L’esposizione più completa, e forse più interessante, si trova in ŖV,
I, 32; Indra smembra Vyamsa «il più Vŗtra, primogenito dei
poiché si dice che i flutti scorrono sul corpo ferito di Vŗtra. «La vacca con
il suo vitello» rammenta Aditi-Vāc e Agni (cfr. I, 164, 17), qui questo Agni
che si rifugia nelle Acque (X, 51, 1 ecc.). Dānu in effetti è dello stesso
tipo degli Āditya Mitravarunā (dānunaspatī in 1,136, 3 e II, 41, 6) o degli
Ashvin (VIII, 8, 16), Ahi nasce dalle Acque (abjā in VII, 34, 16), Śuşņa è
figlio della bruma (miho napāt, V, 32, 4), Agni è figlio delle Acque, passim,
delle «Acque scintillanti» (dānucitrāh, V, 31, 6) delle «Acque la cui abbon-
danza» (rādhasā dānuh) si spande per Indra (I, 54, 7). I nomi Dānu e
Dānava, che abbiamo preso in esame, sono etimologicamente diversi dai
termini Dānu e dānava, dalla radice dā, «dare», il cui senso è «generoso».
Tali difficoltà si possono risolvere solo alla luce della dottrina dell’opera-
zione duale (vivrata), affermata chiaramente nel Ŗg-Vēda come in ogni al-
tro insegnamento tradizionale.
39 Arya e Dāsa, o Dasyu, nel Ŗg-Vēda sono sinonimi rispettivamente di
Deva, Manushya o Narya, e Asura, gli ariani essendo coloro che superano
le Acque e diffondono la Luce, questione analizzata nel nostro Ŗg-Vēda
as Land- Nāma-Bók [1935, s.v. Arya, p. 1]. È solo per analogia che questi
termini sono stati applicati alle società umane. Incidentalmente, diciamo
che l’incoerenza di una discriminazione sociale basata sulla pretesa esi-
stenza di un’etnia ariana diventa palese sapendo che siamo tutti ariani da
parte di padre e non ariani da parte di madre, perché il principio femmi-
nile nel Ŗg-Vēda è sempre di natura asurica; siamo figli del giorno e della
notte, del fuoco e dell’acqua, la nostra stessa esistenza proviene da un’eso-
gamia e da una generazione duplice, e di conseguenza ereditiamo una
simmetria bilaterale, cfr. la correlazione tra l’occhio destro e Indra, l’oc-
chio sinistro e Indrānī in Sh. Br., X, 5, 2 e le Upanişad. Eva, «la madre di
tutti i viventi», è tratta da un fianco di Adamo, cfr. Parśu, la «Costa» figlia
di Manu (X, 86,23), che è la madre dei figli degli uomini (Sh. Br., I, 8, 1,
8-11); mentre nello Shah Nāmah, che Buckler ha definito «un’epopea della
genealogia del regno di Dio sulla terra» la madre è sempre turanica, e più
di una dinastia indiana fa risalire la sua origine a una Nāgini; nell’Edda, le
spose di Aegir sono sempre di origine vana o titanica.
Serpenti, come si sega un albero in tondelli, così che giaceva evirato
(vrishno vadhrih),40 sparpagliato» (purutrā... vyastah). In I, 61, 10, Indra
fa a pezzi il bruciante Vritra;41 in VIII, 6,13, lo «squarta e conduce
le Acque verso il Mare»; in I, 130, 4, «impiega la folgore (contro
Ahi) come un coltello per tagliare» mentre in VIII, 7, 23, sono gli
alleati di Indra, i Marut, che «lo dilaniano» (vi vritam parvasho yayuh).
Restano da notare le corrispondenze e i contrasti più evidenti. Si
ammette in generale che Agni e Ahi Budhnya siano della stessa na-
tura; in I, 79, 1, Agni è un «serpente furioso» (ahir dhunir).42 L’Ai-
tarêya Brāhmana, III, 36, utilizzando una terminologia strettamente
tecnica, spiega che Ahi Budhnya è invisibilmente (paroksbêna) ciò
che Agni Gārhapatya è visibilmente (pratyaksha), così come la Vāja-
sanêyi Samhitā, V, 33, in cui Ahi Budhnya è identificato con Aja
40 «Evirato», che si accorda con le descrizioni del dio ab intra: cieco, zoppo
e impotente, e la definizione del principio femminile ab intra come Vadh-
rimatī: «Di volta in volta sterile o fecondo, modella il suo corpo a suo
piacimento» (starīr u tvad bhavati sūta u tvad, yathāvasham tanvam cakra ēshah,
ŖV, VII, 101,3), che corrisponde da una parte a AV., VI, 72, 1: «Per
mezzo della sua magia titanica il (serpente) nero si distende, assumendo
le forme (cioè «ofidiche» o «umane») che vuole» (yathāsitah prathayatē
vashān anu vapūmshi krinvann asurasya māyayā) - asita, il «nero» (serpente,
pelle o veste) rinvia all’aspetto ab intra di Agni o del Sole, come in AV.,
XII, 3, 55 e TS., III, 2, 2, 2 - e d’altra parte a ŖV, X, 168, 4, in cui «lo
Spirito degli Angeli si muove a piacimento» (ātmā dēvānām... yathā-vasham
carati). La dottrina dell’«impotenza della Divinità» è comune alla tradi-
zione vedica e all’esegesi cristiana (in particolare in Meister Eckhart), ma
richiederebbe uno studio più lungo e più completo di quello intrapreso
in questa sede.
L’assimilazione della caduta di Vŗtra all’abbattimento e al sezionamento
di un albero (cfr. X, 89, 7) ha la sua importanza relativamente alla domanda
posta in X, 31,7 = X, 81,4: «Qual era il legno, qual era l’albero a partire
dal quale modellarono il Cielo e la Terra?» e relativamente alla definizione
abituale di Agni e di Soma come vanaspati [«Signore della Foresta»].
41 Śuşantam indica un’identificazione con Śuşņa, l’«Aridità», come in VIII,
6, 14-15.
42 Dhuni è anche il nome di un Titano in VIII, 19,4 e X, 113, 9.
Ekapad,43 il Sole, poiché l’invocazione adopera un epiteto proprio
di Agni: adhvapati, «Signore della Via». Il vocabolario di ŖV, II, 11,
5 citato più sopra usa termini propri del Sole occultato: per esempio
V, 40, 6 segg., in cui, quando il Sole è colpito dalle tenebre del tita-
nico Svarbhānu, Atri «lo trova nascosto dalle tenebre e inattivo»;44
cfr. 1,117,4-3, dove Rêbha, avendo bisogno di aiuto, è assimilato al
43 A proposito del Sole come Ekapād, «Dal piede unico», vedi Dumont,
JAOS., 1933, p. 326 segg. Poiché in origine il Sole era privo di piedi, Va-
runa glieli dona perché possa avanzare, ŖV, I, 24, 8; Varuna stesso, come
Sole, «col piede brillante si inerpica sulla volta celeste» (arcināpadā nākam
āruhat, VIII, 41, 8). I piedi del Sole sono i suoi raggi; il suo piede unico,
che è di volta in volta scuro e brillante (Mbh., XII, 362, 7-8) coincide con
l’asse dell’universo (skambhēna vi rodasiajo nadyām adhārayat, VIII, 41,10); il
fatto che sia di volta in volta scuro e brillante (asita, shucina, Mbh., XII,
362, 7-8) corrisponde a ŖV, V, 62, 8, in cui il pilastro su cui salgono
Varuna e Mitra è d’oro all’aurora e di bronzo al crepuscolo, e ciò che
vedono dall’alto quando il pilastro è d’oro, è il finito (ditim), ciò che ve-
dono quando è di bronzo, è l’infinito (aditimi). Certo, il Sole ha anche
«mille piedi» (sahasrapādam, VIII, 69, 16), cioè un numero indefinito di
raggi, ciascuno dei quali è, dal punto di vista dell’individuo, corrispon-
dente a questo raggio, l’«unico piede» del Sole, e contemporaneamente il
pilastro (skambha = stauros) o il ponte (sētu = cinvad, bifröst ecc.) che allo
stesso tempo collega e separa il Cielo e la Terra, la luce e le tenebre.
Un’altra allusione al Sole come êkapad figura in VS., XXIII, 50, ēkēna an-
gina paryēni. Questa concezione dev’essere stata rappresentata visivamente
in una certa epoca, perché si è mantenuta nell’arte popolare fino ai nostri
giorni, si vedano le due rappresentazioni del «Castello del Sole» riprodotte
in A. N. Tagore, Bānglar Vrata, Calcutta, s.d., tav. 99, in cui per giunta
l’«unico piede» del Sole è portato da un’imbarcazione o da un’altalena (nau
e prēnkha inŖV. VII, 88, 3, cfr. VI, 58, 3, prènkha dorato in VII, 87, 5,
naunagara in Jaim. Br., I, 125).
44 Gūlham sūryam tamasā apavratèna... avindat, in cui apavrata = avrata, «sfac-
l’«Ordine»,
* p. 36. Ritasya shloko badhirā tatarda karnā budhānah shucamāna ayoh.
49 Qui il nome Ayu è applicato ad Agni ab intra; il Gandharva Ūrnāyu
padārtham jātam, Sāyana) e «muoversi», car, da cui il fatto che i panca jana
[le «cinque nascite» o «classi di esseri viventi»] talvolta sono considerati
come carshanayah [«esseri in attività»].
«Per mezzo delle loro parole i cantori co-creatori (viprah kavayab)
lo concepiscono molteplice, lui che rimane Uno» (X, 114, 5),
«essi lo chiamano molteplice, lui che è Uno» (I, 164, 46),
cfr. Makha
«che la moltitudine non poteva vincere finché era uno» (Taitt.
Ar., V,1, 3).*
Analogamente, per quanto riguarda l’aspetto femminile:
«Grazie al sacrificio, seguirono le orme dei piedi (padaviyam =
vestigium pedis) della Parola, la trovarono che dava asilo ai Profeti;
la condussero e la suddivisero in molte parti; i Sette Cantori la
intonarono in ogni luogo» (X, 71, 3),
essa che dice di sé:
«Gli Angeli mi hanno divisa in molte parti» (ma diva vy adadhuh
purutrā, X, 125, 3).51
È significativo anche che nel Purușasūkta (X, 90, 11-14) si potrebbe
sostituire Vŗtra a «Purușa» senza apportare nessuna modifica es-
senziale di senso; in un brahmodya [dialogo sacro] si domanda:
«Quando divisero (vy adadhuh) la Persona (Purușa), quante parti
pensarono di ottenere?» (katidhā vy akalpayan).
* p. 37. [Dopo avere creato gli esseri viventi, Prajāpati volle entrare in
loro per animarli. «Ma finché era Uno, non poteva. Allora si divise in
cinque, detti Prāna, Apāna, Samāna, Udāna e Vyāna» (MUp., II, 6). Sul
rapporto tra l’Uno e il molteplice, si veda «L’Exemplarisme védique», art.
cit.]
51 Vy adadhuh equivale a «contratto e identificato nella diversità». [Su que-
consorte (Vāc) seduce spesso Indra, per esempio in Jaim. Br., I, 125) è un
«arciere senza piedi» (apad asta). Il Gandharva è allora il drago o il serpente
che custodisce l’Albero della Vita, come in altre mitologie.
e nascondeva le due estremità (apad ashīrshā guhamāno antā, cfr. X,
79,2) nella sua matrice, nel nido del Toro» (IV, 1, 11), cioè ante prin-
cipium, immediatamente prima di accendersi.
* p. 38 [Sulla direzione dei giri rituali, verso destra o verso sinistra, deter-
minata dalla natura «polare» o «solare» di una tradizione, si veda R.
Guénon, La Grande Triade, Adelphi, Milano 1980].
e, «se fosse tessuta al contrario del Sole,** sarebbe consacrata ai
Padri» (ibid., III, 2, 1, 13, cfr. I, 2, 1, 12).
L’idea di un principio unico che guarda in due direzioni opposte
(Giano nell’iconografia) è ampiamente sviluppata nel Ŗg-Vêda, per
esempio X, 5, 6, in cui Agni si tiene
«all’incrocio dei sentieri» (panthām visargê),
cioè sulla soglia della porta dei mondi (lokadvāra). L’orientamento
opposto dei mondi di luce e di tenebre fa sì che, per esempio,
«Coloro che vengono qui (arvañc), sono detti partire»
(parācah, I, 164, 19) e
«Questo incantesimo che gli Angeli pronunciano in avanti (ava-
stāt), i Titani lo pronunciano all’indietro»
(parastāt, Jaim. Br., I, 125).
Un atto analogo a questo è la trazione effettuata in senso opposto
dai Deva e dagli Asura in occasione della Burrificazione del Mare,
e non bisogna dimenticare che tale opposizione tra princìpi anta-
gonisti è indispensabile per ogni creazione.
Dal punto di vista karmakānda e kśatriya, il movimento favorevole
è diretto in avanti in senso rettilineo; invece,
dal punto di vista jnānakānda e Brāhmana il movimento favorevole
è diretto, non all’indietro, ma - in modo che necessita di una spie-
gazione - nondimeno in senso opposto.
Inevitabilmente opposto, perché quando si sono fatti i passi in
avanti, bisogna per così dire tornare sui propri passi, tutto ciò che
è stato affermato deve essere anche negato, tutto ciò che fu rubato
deve essere restituito, se il Viandante vuole raggiungere Questo
Uno «che in realtà mai si leva né si corica».*
** p. 39. Cfr. Jaim. Br., III, 150 e PBr., XXV, 10,12-18. [Sul concetto di «pensiero
rovesciato» o «controcorrente», si veda A.K.C., «Une étude sur la Katha upanishad
(IV, 1)», EX, 1977, p. 76].
il Conoscente unito alla Morte «diventa l’Angelo unico, diventa
anche la Morte; allontana la Morte continua, la morte non lo
tocca» (RUp., I, 2, 7).
È indispensabile capire l’ontologia e la teologia così formulate nel
Ŗg-Vêda e nei testi ulteriori, per interpretare questi stessi testi.*
* p. 41. Kas tam pravēda... so asmin madēta (AV., IX, 1, 6), senza di che yas
lari na veda kim ricā karishyati (ŖV, I, 164, 39).
«dallo sguardo umano, gli occhi sempre aperti, hanno ottenuto
alla maniera degli Angeli e grazie alla loro qualificazione (arhanā)
un’alta eviternità; conducendo carri di luce (jyotirathah, il contra-
rio dei giovani fiumi che sono ancora «senza piedi né carro», X,
99, 4), avendo la magia dei serpenti pur essendo innocenti
(ahimāyā anāgasah, l’esatto equivalente di «prudenti come i ser-
penti e semplici come le colombe», Matteo, X, 16) si sono vestiti
di una gloriosa veste celeste».
Nel Jaiminīya Brāhmana, II, 134:
«Così come Ahi rigetta la sua pelle, o si estrae un filo d’erba dalla
sua guaina, egli (Indra) è liberato da ogni male».*
Nel Pañcavimśa Brāhmana, XXV, 15,4:
«Per mezzo di questa sessione sacrificale, i serpenti conquista-
rono la Morte; egli conquista la Morte, colui che segue la stessa
via. In questo modo, si disfecero della loro vecchia pelle e avan-
zarono strisciando, allontanarono la Morte e la conquistarono. I
serpenti sono gli Āditya. Colui che segue la medesima via brillerà
della gloria degli Āditya».
Secondo lo Śatapatha Brāhmana, II, 3, 1, 3 e 6, il Sole, al tramonto,
entra come un embrione (garbha) nella matrice che è Agni (agnāv
ēvayonau),54 nascosto dalla notte come sono nascosti gli embrioni; al
suo sorgere,
chiede forse una spiegazione. In PBr., XXV, 10,10, «Questo Mitra depone
il suo seme in Varuna» (rētab varano sincati), e in Sh. Br., XII, 9, 1, 17, «Va-
runa è la matrice, Indra il seme e Sāvitri il produttore del seme»; in II, 4,
5 e II, 4, 4, 19 (vedi supra, p. 30), Agni, fuoco divorante (Vāc essendo
assente) riceve il seme di Prajāpati, che si riproduce in questo modo (cfr.
Ait. Br., II, 3, 7: il seme dell’uomo viene dal Sole, il sangue della donna
viene da Agni, e Bup., VI, 4, 3 in un’interpretazione sacramentale dell’atto
sessuale, il luogo ove Agni prende fuoco è analogicamente «al centro dei
testicoli», madbyatas tau mushkau). L’espressione si accorda ugualmente
con BG., XIV, 3: «La mia matrice (yoni) è il Grande Brahmā, all’interno
del quale depongo l’embrione» (garbham dadhāmi, cfr.ŖV. IX, 74, 5: «Soma
depone l’embrione nella matrice di Aditī», dadbāti garbham aditer upasthe); il
«Grande Brahmā» corrisponde alla «Natura trascendente» (para prakriti)
che è la «matrice di tutti gli esseri» (ētad yonīni bhutāni sarvāni, BG., VII, 5-
6), «questa Natura è mia, e quando ricorro a lei produco a sua volontà
tutto l’insieme di esseri privi di volontà indipendente» (ibid., IX, 8); cfr.
Meister Eckhart: «Il gioco (= līlā) eterno del Figlio proviene dal fatto che
il Padre abbraccia la sua propria natura»; anche la Mund. Up., III, 1, 3, in
cui l’Altissimo è a un tempo «Creatore, Signore, Persona e matrice di
Brahmā» (Brahmā-yoni), cfr. ŖV, X, 29, 14: Agni «nasce dalla matrice del
Titano» (asurasya jatharāt ajāyata) e Sh. Br., VI, 1, 2, 6-9, in cui Prajāpati
«porta in sé l’embrione».
Tutto ciò non è nulla di strano, neanche per la teologia cristiana, ma è
soltanto poco familiare: l’Identità Suprema, tad ēkam, è l’unità di un prin-
cipio congiunto, e se fosse diversamente non si potrebbe definire opera-
zione vitale la nascita del Figlio (san Tommaso d’Aquino, Summa Tbeolo-
gica, I, 27, 2) [vedi A,K.C., «La Doctrine tantrique de la bi-unité divine»,
ET., 1937]. Questa Identità Suprema si può designare con i nomi dell’uno
o dell’altro dei suoi princìpi congiunti, si può parlarne come di Varuna o
di Agni (di solito maschile, ma nei passaggi in oggetto, semanticamente
femminile), di Aditī o di Virāj (entrambi femminili, ma spesso anche ma-
schili), in altri termini, si può concepirla maschio o femmina, o entrambi.
Così Virāj [«l’Intelligenza cosmica in quanto regge e unifica nella sua in-
tegralità l’insieme del mondo corporeo» (R. Guénon)] dalla quale tutte le
cose ricavano la loro qualità propria, «Chi conosce la sua dualità pro-
creatrice?» (mithunatvam, AV., VIII, 9, 10), cfr. JUB., I, 54: i princìpi con-
giunti Sāman e Rik, cioè il Cielo e la Terra, «diventano Virāj» e - solo così,
nell’unione interiore» - «procreano» (tau viràd bhūtvā prājanayatām) il Sole;
dopo questa nascita, sono di nuovo separati (indicazione ripetuta nel ŖV,
per esempio X, 27, 23, krintatrād ēshàm uparā udāyan, «dalla loro separa-
zione, apparve ciò che viene in seguito»). Se colui che allo stesso tempo
«genera» e «mette al mondo» - troviamo nella dottrina cristiana espres-
sioni come «la messa al mondo da parte del Padre» - è un principio con-
giunto, ciò si riferisce alla sua essenza e alla sua natura, che in lui sono
identiche, di modo che parliamo indifferentemente della «essenza divina»
e della «natura divina». Cfr. Epifanio, Haer. XXXIV, 4: «Il Padre era in
travaglio»; vedi Baynes, Coptic Gnostic Treatise, 1933, p. 34, autogenes = colui
che si genera da sé solo = monogenes, cfr. p. 49. Può essere chiamato Padre
«Come Ahi, si libera della sua pelle (yathā ahis tvaco nirmucyēta), si
libera dalla notte, dal male» (pāpmanah)55
«Colui che dà un ordine alle stagioni e rinasce» (rītūnr anyo vi dadhaj jāyatēpu-
nah, X, 85, 18) non può essere, come dice Sāyana, la Luna, ma Agni o il
Sole, come si può vedere confrontando con X, 72, 9, prajāyai mrityavē tvat
punar mārtāndam ābharat, II, 38,4, in cui Sāvitri vi rītūnr adardhah, e X, 2,1 e
3, in cui si dice ad Agni vidvān rītūnr ritupatē... ritūn kalpayāti.
E Epiteto di Agni, «che conosce tutto», «che possiede tutte le creature».
equivalente nordico, Loki, è talvolta l’avversario, talvolta l’alleato di
Aegir.
In tutte le teologie, questi aspetti opposti di Dio sono rispettiva-
mente quello della Misericordia e della Giustizia; nella metafisica
islamica, per esempio, il Cielo è il riflesso del Suo Amore assoluto,
l’Inferno il riflesso della Sua assoluta Maestà. In questa sede trat-
tiamo il secondo aspetto di Varuna, quello del suo potere, di cui si
scongiurano le erbe di liberarci57
«Liberami dalla maledizione, quella di Varuna, dalla claudica-
zione di Yama».58
In X, 129,1, si domanda:
«Chi ricopriva?» o «Chi avviluppava?» (kim āvarīvar)
- prima di ogni distinzione tra l’essere e il non-essere, la vita e la
morte, il giorno e la notte. Le risposte più evidenti si trovano in
VIII, 100, 7:
«è Vŗtra che avviluppava» (yo vo avdvarīt vritrah)
e in X, 90, 1, in cui è Purușa - la cui identità con Ahi-Vŗtra è già
stata dedotta su altre basi – che
«circonda la Terra da tutte le parti e oltrepassa il dashāngulam»;*
dettagli questo versetto nel suo articolo intitolato «Ŗg-Vēda, X, 90, aty atishthad
dashāngulam», JAOS., 1947].
E “che libera”, ”che delibera”.
E Aṅgiras, è un epiteto del progenitore, Prajāpati. Aṅgirā "lo Spumeg-
giante", manifestazione di Agni come un potere di illuminazione,
L’ultima parte di questo testo relativamente «tardo» corrisponde
esattamente a BUp., 1,2,2 ma, che la si consideri o meno come per-
fettamente esplicita nel Ŗg-Vēda, l’esegesi è assolutamente corretta.
Mucyu è certamente identico al Naga Mucalinda o Mucilinda bud-
dhista, cfr. Mucukunda nel Mahābhārata.
In ogni caso, è impossibile mettere in dubbio l’identità di Varuna
ab intra e dell’Asura-pitŗ, Ahi-Vŗtra e Mŗtyu = Mara, non più della
sua identità con le forme terrifiche di Agni e di Rudra - Noster Deus
ignis consumens est.59
Non si può neppure negare che Mitra, l’Agni incendiato, sia il
«volto» di Varuna e Sūrya il suo «occhio».
Il duale Mitrāvarunau è la loro unità in quella che ci pare essere
un’azione duplice, quella di un’attività e di un’inoperosità, di una
produttività e di un’impotenza, di una misericordia e di un giudizio,
di una durata e di un’eternità, i vishurupāni savratā di VI, 70, 3. In
questa identità, la coppia consustanziale o consanguinea, Mitra e
Varuna, uno reso manifesto e soggetto all’invecchiamento, l’altro
invisibile ed eterno (1,164,38 e X, 85,17-18) sono rispettivamente
simboleggiato dalla luce del lampo; nato dalla bocca di Brahmā, sposò
Śraddha, la Devozione Personificata.
59 Questa identità o coincidenza fu sostenuta da Bergaigne, ma messa in
dubbio da altri, tra cui Norman Brown (in JAOS., 1919, p. 108), che co-
munque mi fa sapere in una lettera che non nega assolutamente tale pos-
sibilità. In effetti, solo se omettiamo di aggiungere la qualificazione «ab
intra» all’affermazione enunciata più sopra «occorre un grande sforzo di
volontà per identificare due caratteri così diversi, nei Veda, come Varuna
e Vŗtra» (Brown, loc. cit.). Si può ugualmente notare che, pur trattandosi
di uno studioso che non si definisce cristiano, un’eredità cristiana mo-
derna e una preoccupazione «moralistica» gli hanno impedito di accettare
il punto di vista del vecchio insegnamento - per nulla sconosciuto anche
nell’Europa medievale - secondo cui il «bene» e il «male» hanno un senso
solo «sotto il sole» e «nei mondi», ma nell’Identità Suprema coincidono
senza opposizione né dualismo.
l'apara e il para Brahmā delle Upanişad, in una somiglianza e senza
alcuna somiglianza (BUp., II, 3).60
della falegnameria, il che significa che l’ipsissima verba del Vēda, separato
dai suoi riferimenti, dev’essere considerato in qualche modo di origine
umana e temporale. Non è per le parole che l’esprimono che il sanātana
dharma è perpetuo; la perennità di una tradizione non ha nulla a che ve-
dere con la «datazione» presunta di un determinato testo, come il primo
millennio a.C.
61 Non si può prendere alla lettera l’affermazione di X, 90,1, secondo cui
Purușa, all’inizio ha mille teste, mille occhi e mille piedi; bisogna piuttosto
capire che questa indefinità è latente in lui, che è onniforme, cioè come
in VS., XIII, 41, in cui l’embrione solare (il Sole ab intra, «la notte», vedi
Sh. Br., II, 3, 1, 3, citato più sopra, p. 60) è detto «l’onniforme immagine
di mille» (sahasrasyapratimām vishvarūpamī, il Sole manifestato di conse-
guenza ha «mille piedi» (sahasrapad, VIII, 69, 16).
Terra o il Sole dalla Luna. Sotto questo aspetto, i testi rituali sono
del massimo interesse per la dottrina in questione, e forniscono così
una spiegazione intelligibile e legittima del senso dei simboli e del
contenuto delle arti tradizionali.
Così l'Aitarêya Brāhmana, III, 43: «L’Agniṣṭoma è (esteriormente un
rito e) metafisicamente Agni... E poiché lo pregano in quanto è una
Testa (mūrdhnam santam) e poiché è divenuto Luce (jyotis),62 e
62 Mūrdhnam santam jyotir bhūtam; in concordanza con tutto ciò che ho già
citato a proposito della trasformazione della testa del serpente nel Sole o
nel Cielo, e più precisamente con ŖV, X, 88, 6: «La notte, Agni è la Testa
dell’essere (mūrdhā bhuvo bhavati naktarn agnih), da qui, la mattina, nasce
come Sole levante» (tatab sūryo jāyatē prātar udyanī, questo testo dimostra
chiaramente che la cosiddetta dottrina dei Brāhmana - che è anche quella
di Sāyana (nel commento a I,103,1) - secondo cui il Sole entra in Agni
durante la notte, non è affatto nuova. Cfr. anche X, 8, 6: «Tu (Agni) alzi
la testa raggiante verso il Cielo».
Queste dottrine riguardanti la «Testa» si ritrovano nelle formulazioni gno-
stiche, cfr. l’inno valentiniano in siriaco compreso nel Panarion di Epifanio,
versetto 5: «Dalla Testa egli proclamava notizie del Padre»; a questo pro-
posito Newbold (in JAOS., 1918, p. 15) fa questa osservazione: «la “Te-
sta” è la prima emanazione dell’Abisso, di solito è chiamata Νους oppure
Mονογενής, ma più spesso Πατήρ o Aρχή... Era «dalla Testa» che la Luce
proclamava le notizie, essendo un’emanazione del Νους, che solo conosce
il Padre, e traeva da lui tutto ciò che proclamava agli Eoni». Analoga-
mente, la suddivisione dell’Uno, in cui abbiamo riconosciuto l’atto sacri-
ficale della creazione - autosacrificale nel momento in cui Egli si presta a
questa divisione, e «passione» subita quando per mezzo dell’uomo Egli è
simbolicamente disteso sul letto di Procuste del tempo e dello spazio,
nella crocifissione cosmica - la suddivisione dell’Uno è anche una dottrina
gnostica, per esempio nella «Apocalisse senza titolo» (Codice Brace): «Co-
lui le cui membra fanno innumerevoli miriadi di potenze, ciascuna delle
quali viene da lui». Il carattere gnostico della dottrina indiana del Sacrificio
fu segnalato da Eggeling in SBE., XLIII, XVII. Gli studiosi spesso hanno
riconosciuto che era difficile separare gli insegnamenti di Plotino da quelli
delle Upanişad, ma questo argomento troppo spesso è stato affrontato
(per esempio da Keith in Indian Culture, II, p. 135 segg.) come se la sola
alternativa fosse tra il prestito o l’origine indipendente. Però non è così
l’Agniṣṭoma è la preghiera della luce, lo chiamano Jyotishtoma, o
metafisicamente “Lode di luce”»... È l'archetipo del sacrificio (yajňa-
kratuh) senza inizio né fine (apūrvo anaparah, cfr. Dante, né prima né
poscia, Paradiso, XXIX, 20); l'Agniṣṭoma è come una ruota di carro,
senza fine (ananta),63 tale la sua venuta, tale la sua corsa in avanti*
(yathēva prāyanam Yathodayanam). A questo proposito si canta un ver-
setto sacrificale (yajňagāthā):64
«Ciò che è il suo inizio è anche la sua fine (yad arya pūrvam aparam
tad asya), analogamente, ciò che è la sua fine è anche il suo ini-
zio».65
ovunque».
65 Cfr. Boezio, Consolazione della Filosofia, I, 6: «È possibile che se conoscete
(scr. anirukta ecc.), che mai è stata conosciuta e mai lo sarà»; Jeremias (Der
Anticbrist in Gescbichte und Gegenwart, 1930, p. 4): «L’Occidentale pensa in
modo lineare e progressivo, quindi meccanicamente, areligiosamente, in
maniera faustiana... L’Oriente e la Bibbia non pensano in modo lineare,
ma nello spazio e nel tempo, e in maniera piuttosto circolare, come se-
guendo delle spirali. La creazione evolve a spirale verso la perfezione... Il
magnifico simbolo del serpente che si morde la coda rappresenta l’Eone».
La circonferenza di un cerchio è allo stesso tempo «senza fine» e costituita
completamente da inizi e conclusioni che coincidono.
66 Sāyana dice che Shākala è «un nome di Ahi». Tutto ciò non è affatto
«assurdo» (come pensa Keith); nello stesso ordine di idee, lo shākala indi-
cava anche un rituale «ofidico», dello stesso tipo, per esempio, del Pri-
shthya Shadaha, descritto in Alt. Br., V, 22, in cui si recitano lodi alla
Regina Serpente.
67 Cfr. ŖV, X, 30,10, āvarvritatih... dvidhārāh;JUB., III, 33: quando «il soffio
ritorna sempre più in alto risuonando» (prānas svarya upary upari vartatē) si
questi due movimenti consistono nell’entrare e uscire contem-
poraneamente (cfr. TS., III, 2, 2), ma «senza andare avanti (parāň)
per timore di indebolirsi» (kshayād ēva bibhyāt, cfr. ŖV,VIII, 7, 16).
Analogamente, nell’ Aitarēya Brāhmana, V, 2,
«Essi avanzano a tappe di tre giorni senza fare soste» e ibid., III,
44, in cui si prescrive che l’Agniṣṭoma dev’essere celebrato
«senza fretta» e seguendo il corso del Sole «che, in realtà, mai si
leva né si corica» ma «gira su se stesso» (viparyasyatè),*
«in realtà, non si corica mai» (na ha vai nimrocati)68 e
«colui che comprende tutto ciò giunge a unirsi a Lui, perviene
alla Sua somiglianza e raggiunge il Suo stesso stato» (sāyujyam
sārūpatām salokyatāṁ).
In ŖV, I, 115, 5, si dice che lo splendore del Sole, benché di volta
in volta raggiante e cupo, è «senza fine» (ananta).69
La continuità senza fine dell’atto divino, che è l’atto dell’essere, è
spesso sottolineata nel Ŗg-Vēda; eccone alcuni esempi.
«Un solo e medesimo fa ascendere e discendere quest’Acqua
come un giorno succede a un altro» (I, 164, 51);
le Aurore, «l'una come l’altra, oggi, domani, seguono il cammino
incessante di Varuna»;
chiama «il ritorno del potere spirituale» (Brāhmana āvartah) e il valore at-
tribuito alle «volute benefiche» (nandyāvarta) nell’iconografia tarda.
* p. 46. Cfr. PBr., VII, 10, 3 e ā vavritsva in ŖV, IV, 1, 2.
68 Riecheggiando in CUp., III, 11, 3: «In realtà non sorge e non tramonta,
e la notte sono dei loka: «Il giorno e la notte sono Mŗtyu (cioè Kāla): non
intaccano affatto la divinità Āditya (Sol invictus), poiché sono soltanto l’oc-
casione che permette a questa divinità di apparire e ripartire [anv astam
èti)»; cfr. Sh. Br., VIII, 6, 1, 18, le Apsara Pramlocanti e Anumlocanti, la
Notte e il Giorno.
«Ella segue diritta la via cosmica» (ritasya panthām anvēti sādhu, I,
124, 3);*
il Sole «avanza secondo la Legge» (īyatē dhtirmanā, I,160, l);70
i Fiumi di Vita «scorrono secondo l’ordine cosmico» (arshanti
ritavarī, IV, 18, 6) e (IV, 19, 7)
queste fanciulle «hanno la conoscenza dell’Ordine» (ritajnah, cioè
hanno la prescienza della loro via).71
I cammini del Giorno e della Notte sono «senza fine» (adhvā
anantah, 1,113,3); il movimento del Cielo e della Terra si effettua su
«cammini senza fine (ananta- sah... panthāh, V, 47, 2); la tela tessuta
dal Giorno e dalla Notte «non sarà mai disfatta né finita» (nāpa vri-
njātē na gamāto antam, AV, X., 7, 42, cfr. Dante, «che già mai non si
divina» (Paradiso, XXIX, 36). Tutto ciò si riassume nelle mirabili
strofe della Taittiriya Samhitā, III, 2, 2. Non è con voce incerta, ma
per mezzo della Parola stessa che «proclama ciò che porta la felicità
agli An- geli come agli uomini» X, 125, 5) che il Ŗg-Vēda afferma:
sicut erat in principio, est mine et semper erit, in saecula saeculorum.
* p. 47. [E nella strofa seguente (4): «Ella (l’Aurora) arriva per prima tra quelle
che ritornano in successione indefinita»].
70 Cfr. «l’antica via scoperta un tempo», IV, 18, 1, e la stessa idea espressa in
termini simili nel racconto della nascita del Buddha, DN., XIV, 1,21 segg., in cui
si ripete dopo ciascun particolare: ayam ēttha dhammatā.
71 II simbolismo vedico della Fontana di Vita (utsa ecc.) con le sue correnti ine-
sauribili di acqua o di latte che sempre sgorgano (utsam duhanto akshitam, VIII, 7,
16, avatam akshitam, VIII, 72, 10) si ritrova in Plotino: «Immaginate una sorgente
che non ha altra origine che se stessa; essa si offre a tutti i fiumi senza mai essere
esaurita da ciò che essi prendono, ma rimane sempre integralmente ciò che era;
le correnti che ne derivano sono unite a lei prima di seguire le loro vie, benché
tutte, in un certo senso, sappiano prima quale letto riempiranno con il loro corso»
(Enneadi, III, 8, 10).
l'Aitarêya Brāhmana, VI, 27. Abbiamo anche mostrato a più riprese
- e ancora una volta in questa sede (6) a proposito dell'ūrnā - che è
quasi sempre possibile ricollegare il simbolismo e l'iconografia
dell’arte indiana a formulazioni vediche e che, ignorando queste
fonti, non si possono spiegare il simbolismo e l'iconografia, ma sol-
tanto descriverli. Si possono aggiungere alcuni esempi illustrativi,
in relazione al concetto d’infinità che abbiamo appena preso in
esame.
Se il canto vedico fu veramente ciò che indicano i Brāhmana, deve
essere possibile ritrovarne traccia nella musica indiana delle epoche
successive. Il genere a cui appartiene la musica indiana si è mante-
nuto in Europa solamente nel canto gregoriano, che a sua volta
rappresentava uno «stile» di alta antichità, forse di origine babilo-
nese (vedi Lachtnann, Musik des Orients, 1929,p. 9). Si può consta-
tare che gli ascoltatori europei hanno sovente notato le suite conti-
nue della musica indiana e l’assenza di crisi e di finale. Scrive Key-
serling: «Non è facile spiegare a parole che cosa significa la musica
indiana... né inizio, né fine; è l’ondulazione e il viavai del corso in-
cessante della vita» (Travet Diary, III, 30); e Fox-Strangways: «Non
sappiamo cosa dire di una musica che è trascinante senza essere
sentimentale, e che esprime la passione senza veemenza» (Music of
Hindustan, p. 2). Non molto tempo fa, un piccolo americano di cin-
que anni, ascoltando un disco di musica indiana, fece questa osser-
vazione in nostra presenza: «Questo tipo di musica gira senza fer-
marsi, va qua e là e poi ritorna». Sono esattamente le qualità formali
che i Brahmani attribuiscono al sāman vedico.
Se la philosophia perennis utilizza le immagini della spirale, come nel
caso dei turbini delle acque inesauribili, le possibilità dell’essere at-
tualizzate dal soffio aurorale della creazione e la luce del Sole che
sorge, si può benissimo affermare che le spirali e i meandri, ovun-
que appaiano nell’arte primitiva - vale a dire nell’«arte ideologica»
di un’epoca in cui l’uomo pensava in termini molto più astratti di
quelli a cui siamo abituati oggi - sono i segni e i simboli di queste
acque. Le nozioni di infinità, di eternità, di ricorrenza, sono impli-
cate non soltanto nel celebre simbolo del serpente che si morde la
coda, in questo senso «infinito», ma anche in tutti i motivi antichi
che rappresentano forme di serpenti e draghi intrecciati, nei quali
inizio e fine si confondono, e nei noti disegni di «intrecci» e di
«nodi»* il cui tracciato che li compone non ha né inizio né fine.72
11. CONCLUSIONE
Abbiamo dimostrato, in modo crediamo conclusivo, che il Padre e
il Figlio, il Drago e l’Eroe solare, benché apparentemente opposti,
sono segretamente uniti, sono una cosa sola, consustanziali. Quella
che esteriormente o logicamente dev’essere considerata come
un’operazione duplice, alternante il sonno e la veglia, la potenza e
l’atto, da un punto di vista interiore e autentico non è altro che la
natura unica dell’Identità Suprema (tad ēkam, sadasat). Poiché
della Grotta dell’Orco (IV sec. a.C.) che rappresenta un «demone» alato con un
serpente, o, per parlare in termini indiani, un Garuda e un nāga. In questo di-
pinto, riprodotto e studiato da Evans (Palace of Minos, vol. IV, p. 188-190), non
bisogna vedere solo due teste di serpente che si elevano dalla testa d’uccello della
«Fenice» alata, ma, come ha notato Evans, il modello delle ali fornisce «lo stesso
disegno di spirali intervallate da punti caratteristico della dea(-ser- pente) mi-
noica». L’origine ofidica della potenza solare, che allo stesso tempo brandisce il
Serpente come «Giustizia immanente» non si poteva indicare in modo più chiaro.
Le due teste di serpente richiamano la forma pridāku-sānu di Indra rappresentata
nella celebre immagine di Mathurā [di cui parleremo nel capitolo successivo],
nota 30 (abbiamo già fatto notare l’equivalenza di sānu e shirri). Evans sostiene
che il modello è originario dell’Asia occidentale.
quest’ultimo, Sole spirituale, porta naturalmente sul dorso l’imma-
gine solare, mentre Shiva, potenza ab intra, come dimostrano i suoi
ornamenti di nāga - porta la Luna.