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Paper Title:

Preventing Violent Radicalisation: The Italian Case Paradox

Authors:
Diletta Berardinelli
Independent researcher and project coordinator at Fondazione Nuovo Villaggio del Fanciullo in
Ravenna

Luca Guglielminetti
Independent researcher, trainer and consultant at Fondazione Nuovo Villaggio del Fanciullo in
Ravenna, member of the experts pool at the Radicalisation Awareness Network RAN – Centre of
Excellence, and member of the board at the Leon Battista Alberti Association in Turin

E-mail: sodiletta@hotmail.it - luca.guglielminetti@gmail.com - fair@villaggiofanciullo.org

Abstract
Italy has not suffered terrorist attacks like those that occurred in many other European realities, but it is also
one of the few countries still lacking a national strategy to prevent and counter violent radicalization (P/CVE):
those policies and programmes structured with the support of local authorities and civil society that goes
beyond a strictly security perspective in facing with terrorism and extremism challenges. Is this a paradox?
The article initially and briefly describes the characteristics of the counter-terrorism policy and the Italian
context of radicalization phenomena to argue how Italy is in an anomalous situation but also privileged in the
European scenario thanks to its past experiences of terrorism over the XX century. Faced with the limited
risks that have arisen to date, the Authors propose a reflection on the medium and long-term prospects that
would lead the country to the optimal situation of activating policies and programs for the prevention of
radicalization without the status of emergency with which they were conducted in others European states.
The Authors, analyzing the activities of the European FAIR project and the piloting activities carried out until
now by awareness, training and prevention in Italian prison system, identify the main critical issues. Finally
they suggest some reccomandations of intervention, starting from the multi-agency approach that creates a
bridge of fruitful collaboration among national and local level, law enforcement and civil society.


Perché un paradosso?
L’Italia in questi anni non ha subito attacchi terroristici di matrice jihadista, con l’eccezione del fallito attentato
di un kamikaze, l’immigrato libico Mohammed Game, che cercò di farsi esplodere davanti alla caserma
“Santa Barbara” di Milano: quella dalla quale erano partiti i soldati italiani per le missioni ISAF in Afghanistan.
Al grido di: "Via dall'Afghanistan", l’ingegnere libico di 35 anni si dilania la mano e gli occhi, ferendo di
striscio il giovane caporale di guardia alla caserma.

In tutto il post 11 settembre 2001 e nell’Europa coinvolta nella War on Terrorism che veniva duramente
colpita a Madrid l’11 marzo 2004 e a Londra il 7 luglio dell’anno successivo, il nostro paese è assurto alle
cronache solo nel 2016, quando a Sesto San Giovanni, vicino a Milano, la Polizia italiana ha ucciso Anis
Amri, non lontano da dove aveva sequestrato il camion col quale aveva compiuto la strage al mercatino di
Natale a Berlino il 19 dicembre, provocando 12 morti e 56 feriti.

D’altra parte, nel corso tempo, non sono mancati molti arresti legati al terrorismo: da quelli della Direzione
distrettuale antimafia di Milano che, sei mesi prima degli attentati dell'11 settembre 2001, chiede e riesce ad
ottenere l'arresto di una cellula islamista che stava preparando un attentato al Duomo di Strasburgo; fino ai
recenti arresti di questa primavera a Bari e Torino. Arresti ed indagini che ci permettono di capire le
caratteristiche della minaccia terroristica in Italia: un fenomeno reale che dimostra, da una parte, un capacità
investigativa molto alta e specializzata per l’esperienza che il nostro paese ha sviluppato nella stagione del
terrorismo degli anni ’70 e ’80, dall’altra, come l’Italia sia utilizzata dal terrorismo islamista da supporto
logistico: «Un’area di non operatività militare in cui c’è una base forte che garantisce le attività di sostegno e
1
sussistenza delle azioni terroristiche», come lo definisce Ugo Maria Tassinari in un’intervista.

Quanto sopra denota come in Italia tutta la partita del contrasto e prevenzione del terrorismo sia monopolio
esclusivo delle forze dell’ordine, dell’intelligence e della magistratura. Anche dal punto di vista legislativo, il
Parlamento ha continuato fino al 2015 a legiferare in materia solo dal punto di vista penale per allargare gli
strumenti d’intervento del potere giudiziario ai nuovi ambiti di attività dei gruppi terroristici: il decreto legge 18
febbraio 2015, n. 7, convertito nella legge 17 aprile 2015, n. 43 intitolato “Misure urgenti per il contrasto del
terrorismo, anche di matrice internazionale”. Tali misure hanno introdotto una serie di reati prodromici, atti
cioè a permettere di configurare la natura terroristica di alcune attività precedenti il reclutamento, o l’auto-
reclutamento, e la violenza praticata dal terrorismo internazionale, come ad esempio, l’istigazione e
l’apologia del terrorismo su Internet o la preparazione di viaggi verso scenari bellici in cui siano attivi gruppi
terroristici.

In Europa, però, dal 2005 stava avanzando un nuovo approccio al contrasto del terrorismo: la “EU Strategy
on Radicalisation” adottata nel 2005 e rivista nel 2008 e nel 2014, pur riconoscendo che le azioni contro la
radicalizzazione e il terrorismo rientrano principalmente nelle competenze e le responsabilità degli Stati
membri dell’Unione europea, rilevava l’importanza e il valore aggiunto sia di creare una struttura a livello
Europeo, sia di sviluppare un ruolo attivo della società civile e delle comunità locali (“Programma di
Stoccolma per il periodo 2010-2014”). Gli studi sul processo di radicalizzazione violenta, da una parte, e i
fenomeni dei homeground terrorists e dei foreign fighters, dall’altra, hanno spinto la Commissione europea e
altri organizzazioni internazionali, come UN e OSCE, a promuovere politiche di prevenzione e contrasto
dell’estremismo violento (P/CVE).

La premessa di tali politiche è ben riassunta nella dichiarazione del febbraio 2015 al The White House
Summit to Counter Violent Extremism. The Ministerial Meeting Statement: «Reaffirmed that intelligence
gathering, military force, and law enforcement alone will not solve – and when misused can in fact
exacerbate – the problem of violent extremism and reiterated that comprehensive rule of law and
community-based strategies are an essential part of the global effort to counter violent extremism and, like
all measures aimed at addressing the terrorist threat, should be developed and implemented in full
compliance with international law, in particular international human rights law, International refugee law, and
2
international humanitarian law, as well as with the principles and purposes of the UN Charter».

Al posto del termine terrorismo, consapevoli delle sue accezioni politicamente equivoche e
strumentalizzabili, si introduce la nozione più ampia di estremismo violento. Si riconosce che gli strumenti di
“hard power” da soli non funzionano e, anzi, quando utilizzati al di fuori dello Stato di dirittto (Rule of law),
sono controproducenti e dannosi, e si affiancano quelli di “soft power”, che si concentrano nel:

- Disseminare sensibilizzazione sui processi di radicalizzazione violenza e di reclutamento;

- Contrastare le narrazioni estremiste, come la propaganda jihadista, con la promozione on-line di contro-
narrazioni promosse dalla società civile;

- Valorizzare gli sforzi delle comunità locali che intervengono consentendo di interrompere il processo di
radicalizzazione prima che un individuo si impegni in attività criminali.

Se a partire dal Regno Unito, in quasi tutti i paesi Europei i governi si dotano di strategie di contrasto alla
radicalizzazione, è proprio l’Italia uno dei pochissimi che ne è rimasta a tutt’oggi priva. Fin dal 2011 la
3
Commissione Europea ha costituito il RAN, Radicalization Awareness Network , proprio con la finalità di
promuovere politiche e programmi di prevenzione e contrasto dal basso che favorissero la resilienza delle
comunità verso il fenomeno, coinvolgendo nei suoi gruppi di lavoro migliaia di operatori (practitioners at the
ground level) attivi nei territori coi soggetti a rischio di radicalizzazione violenta. L’Italia prova ad avviarsi
sulla stessa strada ma fallisce. Solo nel 2016, infatti, il governo istituisce la “Commissione di studio sul
fenomeno della radicalizzazione e dell'estremismo jihadista”, presieduta dal Prof. Lorenzo Vidino, e in

1
Si veda https://www.lettera43.it/it/articoli/interviste/2016/12/23/terrorismo-perche-litalia-finora-non-e-stata-
colpita/207396/
2
Si veda https://2009-2017.state.gov/j/ct/cvesummit/releases/237673.htm
3
RAN è l’organizzazione ombrello istituita dalla Commissione euoprea nel 2011: si veda
https://ec.europa.eu/home-affairs/what-we-do/networks/radicalisation_awareness_network_en
Parlamento inizia l’iter della proposta di legge “Dambruoso-Manciulli” - intitolata Misure per la prevenzione
4
della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista (atto 3558) - che sarà approvata alla Camera il 19 luglio
2017 ma non al Senato e quindi decaduta al termine dell’ultima legislazione alla fine anno scorso.

Nel nostro paese, quindi, come ribadisce Lorenzo Vidino in una recente intervista: «Abbiamo ancora un
sistema prevalentemente repressivo, sicuramente efficace, che ha subito anche affinamenti ma tanta strada
deve essere percorsa sul tema della prevenzione. Sono pochi i programmi sviluppati, inclusi alcuni progetti
nel sistema carcerario, che però non hanno l’efficacia richiesta. Sarebbe necessario uno sforzo maggiore da
parte del legislatore e dell’esecutivo. La repressione, massiccia ed efficace, dovrebbe essere accompagnata
5
da un sistema preventivo più efficace».

Il concento di radicalizzazione, come processo verso l’attività terroristica, viene adottato dal Ministero della
Giustizia italiano fin dal 2010, ma solamente per un’attività di monitoraggio nelle carceri; nel contesto di una
attività di intelligence dove l’amministrazione penitenziaria si è dotata di strumenti di risk assessment e ha
iniziato a formare il suo personale interno.

Il livello di rischio italiano, così come emerge dalla relazione della Commissione Vidino, è basso, soprattutto
in confronto a molti altri paesi europei. Un centinaio di foreign fighters sono partiti dall’Italia per unirsi all’ISIS,
e poche centinaia sono i detenuti nel sistema penitenziario italiano considerati ad alto rischi radicalizzazione.
Inoltre, una politica urbana di non ghettizzazione dei migranti, il coinvolgimento soft negli scenari bellici
internazionali, un retaggio limitato sulla questione coloniale, e il fatto di avere comunità di migranti di prima
generazione ed ancora poche seconde generazioni, sono tutti fattori che hanno posto l’Italia in una specie di
condizione di vantaggio e di protezione nel contesto europeo.

Il paradosso italiano consiste nel fatto che introdurre politiche e programmi di prevenzione nel quadro
nazionale descritto, situerebbero il paese nella situazione ottimale di svolgere un’efficace funzione, sui tempi
medio e lunghi, in quando non si trova nello status emergenziale con cui le medesime politiche sono state
introdotte in altri paesi europei. Il caso francese è paradigmatico del fallimento delle misure di de-
6
radicalizzazione quanto introdotte tardivamente nell’emergenza. In Italia, invece, le attività di P/CVE, atte ad
aumentare la resilienza delle comunità rispetto ai fattori che agevolano il processo di radicalizzazione
7
violenta, sono state finora solamente oggetto di pochi progetti pilota locali ed europei.


4
Si veda http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/48213.htm

Si veda https://formiche.net/2018/03/terrorismo-radicalizzazione-prevenzione-lorenzo-vidino/
5

6
Si vedano a titolo esemplificativo i seguenti articoli: http://www.lastampa.it/2017/09/02/esteri/what-we-can-
learn-from-frances-failed-deradicalization-center-s126MYkCYw329OcwUd1UcJ/pagina.html e
https://www.france24.com/en/20170801-france-jihad-deradicalisation-centre-closes-policy
7
Nella relazione Vidino in relazione alle esperienze italiane, si legge: «Negli ultimi anni in Italia sono stati
condotti alcuni embrionali esperimenti di contrasto della radicalizzazione, non sempre e non solo di matrice
jihadista. Tra il 2012 e il 2014, ad esempio, alcuni progetti e corsi sono stati inseriti nella Collezione delle
buone prassi della RAN, come il progetto europeo attuato a Torino “Counternarrative for Counterterrorism” –
C4C e l’azione del Comitato promotore per RAN Italia. Nel 2016 invece, sono stati avviati nuovi corsi di
formazione con la L107/2015 art.1, comma 121- carta del docente (Corso per docenti. “Radici,
radicalizzazioni e terrorismo: una didattica di prevenzione” approvato dall’USR Piemonte e dall’USR Friuli
Venezia Giulia ed il Corso di formazione per dirigenti e docenti sull’Educazione alle differenze nell’ottica
della lotta ad ogni forma di estremismo violento promosso dall’USR Lombardia . Sono stati anche finanziati
dei progetti per la de-radicalizzazione e la creazione di un sistema di pre-allarme in contesto carcerario. Tra
questi, il progetto europeo Raising Awareness and Staff Mobility on Violent Radicalisation in Prison and
Probation Services (RASMORAD P&P) ed un progetto per la sicurezza degli enti locali “Local Institutions
against Violent Extremism II” . Altri progetti avviati con fondi di enti locali sono stati: 1) il progetto torinese
nelle scuole “Islam: radici, fondamenti e radicalizzazioni. Le parole e le immagini per dirlo” che utilizzava i
fondi del Consiglio regionale piemontese ai quali si aggiungerebbero per il progetto 2016-2017 quelli privati
di alcune fondazioni bancarie; 2) Il Progetto “Rete di sostegno contro gli abusi e le vessazioni nei gruppi”,
finanziato dalla L.R. del Friuli Venezia Giulia 11/2012 , che per gli anni 2016 e 2017 ha previsto anche
percorsi di uscita e recupero dai gruppi manipolativi ed estremisti».
Le pratiche italiane nel sistema penitenziario, il progetto europeo FAIR.
Nella storia di Anis Amri la sua radicalizzazione è stato appurato che sia avvenuta nelle carceri italiane,
quando da immigrato tunisino fu condannato a una pena di 4 anni per minacce aggravate, lesioni personali e
incendio doloso; così come già capitava nel terrorismo storico italiano degli Anni di piombo, quando non
furono pochi i piccoli delinquenti a politicizzarsi e ad essere reclutati in carcere nelle fila delle organizzazioni
del terrorismo rosso. Cesare Battisti, dei Proletari Armati per il Comunismo (PAC), per citare solo il caso più
famoso.

Tra i contesti d’innesto del processo di radicalizzazione violenta, quelli sui quali si sono dunque focalizzate le
maggiori attenzioni di ricercatori e decisori politici, sono stati, oltre la rete Internet, proprio le carceri. Infatti, la
relazione Vidino, nell'indicare misure CVE, afferma che: «due luoghi, uno fisico e uno virtuale, hanno negli
ultimi anni assunto un'importanza particolare nella diffusione e nell'assorbimento dell'ideologia jihadista, in
Italia come in altri Paesi: le prigioni e il web».

Qui di seguito osserveremo come l’ambito penitenziario italiano sia paradigmatico di quello che abbiamo
definito “paradosso italiano”. I progetti piloti svolti, e quelli in corso, descrivono una situazione diversificata
nella quale ad una diffusa concezione securitaria del problema radicalizzazione, si aprono dei varchi ancora
troppo stretti verso quell’approccio “multi-agenzia” alla base delle strategie di prevenzione più avanzate;
quelle dove forze dell’ordine, amministrazione penitenziaria e magistratura coinvolgono gli attori istituzionali
locali e la società civile.

Uno dei primi obiettivi del progetto FAIR è stato quello di analizzare i bisogni formativi, gli strumenti a
disposizione della società civile che opera all’interno del carcere nei confronti del fenomeno della
radicalizzazione violenta. I nove partner europei coinvolti nel progetto attraverso questionari, interviste semi-
strutturate a domanda aperte e round table hanno cercato di ottenere una fotografia dello stato di fatto
8
attraverso un campione rappresentativo .

In Italia l’analisi dei bisogni si è concentrata sulla casa circondariale (CC) di Torino “Lorusso-Cutugno” e
sulla casa circondariale di Forlì nello specifico target degli operatori della società civile che prestano servizio
9
di volontariato o formativo all’interno delle CC : insegnanti, assistenti spirituali come cappellani, imam,
personale sanitario, mediatori interculturali, formatori, volontari, garante delle persone private della libertà.
Un primo segnale di scarsa collaborazione con gli uffici centrali dell’amministrazione penitenziaria a Roma, il
10
DAP , è emerso nella lettera di risposta alla Fondazione Villaggio del Fanciullo che declinava ogni interesse
per una sinergica collaborazione sulle attività formative che il progetto FAIR voleva rivolgere anche al
personale interno alle due CC. Nello specifico, agli agenti penitenziari e al personale dell’area educativo-
trattamentale. Nonostante vi fosse un interesse nel progetto da parte delle due strutture penitenziarie locali,
il diniego dell’amministrazione centrale ci ha obbligato a definire il target delle azioni formative solamente sul
personale civile esterno e di procedere nelle ulteriori attività senza un coordinamento ufficiale.

Non tutti i mali vengono per nuocere, tuttavia. Il personale civile esterno all’amministrazione, infatti, è uno dei
soggetti che gode di un rapporto privilegiato con i detenuti, a differenza di quello talvolta conflittuale che
questi hanno con gli agenti di custodia, per il ruolo che rivestono, o di quello piuttosto scarno con gli
11
educatori a causa del loro esiguo numero rispetto la popolazione carceraria italiana.

È stata comunque premura dello staff della Fondazione Villaggio del Fanciullo, capofila del progetto, inviare
12
un report dei risultati della nostra inchiesta ai direttori dei carceri e al PRAP della regione Piemonte, Liguria
e Val d’Aosta per promuovere e abituare anche il nostro paese ad un approccio multi-agenzia. Così è stata


8
Per maggiori info: http://fair-project.eu/participatory-platform/.
9
CC sta per Casa Circondariale.
10
DAP sta per Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia italiano. Si veda
https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_12_3.wp
11
“Questo significa che 931 educatori si dovrebbero occupare dei percorsi individuali di 58.163 detenuti, che
corrisponde a una media di 62 detenuti per educatore” tratto dal XIV Rapporto Annuale di ANTIGONE,
“Carceri, una questione personale” F.Brioschi.
12
PRAP sta per Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria.
13
sempre nostra premura condividere con le CC e con il RAN , alcuni dei deliverables del progetto FAIR,
come, ad esempio, il manuale intitolato Inspiring Practices che contiene una descrizione del contesto
nazionale e delle pratiche pilota sulla prevenzione della radicalizzazione violenta e che andiamo brevemente
ad illustrare.

Nel manuale Inspiring Practices sono state raccolte tre pratiche sviluppate all’interno del sistema
penitenziario. Dopo aver inviato a tutte le case circondariali la richiesta di segnalarci le loro pratiche, in
risposta al centinaio di invii effettuati, abbiamo ricevuto solo una risposta, la quale affermava che non poteva
rilasciarci tale informazione. Un secondo segnale di scarsa collaborazione. L’individuazione è avvenuta
pertanto analizzando il materiale online e, soprattutto, attraverso le nostre conoscenze personali dirette e
indirette.

La prima pratica si intitola “Dustur”, la traduzione dall’arabo del termine ‘costituzione’. È stata attuata nella
CC “Dozza” di Bologna e ideata da Fra Ignazio della Comunità di Don Dossetti e coordinata da Yassine
Lafram, mediatore culturale e nel 2016 coordinatore della Comunità islamica di Bologna. Il progetto, che ha
14
visto anche la realizzazione dell’omonimo documentario del regista Marco Santarelli , prevedeva dei
laboratori alla presenza di giuristi arabofoni per avviare un confronto tra i detenuti sui valori su cui dovesse
fondarsi una costituzione ideale. Dustur ha dato vita ad un laboratorio di cittadinanza attiva nonostante i
pregiudizi culturali, politici e religiosi che un detenuto può avere nei confronti dell’altro o della società
ospitante. Una nuova “dustur”, una costituzione basata sulla non violenza ed il rispetto dell’altro è stato
l’output del progetto.

La seconda inspiring practice si è realizzata in nove istituti della regione Lombardia con la collaborazione di
diverse realtà religiose: dalla comunità ebraica all’unione buddista, dalla comunità islamica a quella cattolica.
Obiettivo del progetto è stato di contrastare l’analfabetismo religioso, decostruire pregiudizi promuovendo
un’adeguata conoscenza e gestione del pluralismo religioso che offra agli agenti penitenziari degli strumenti
cognitivi maggiori e ai detenuti offra la visione di un nuovo senso di cittadinanza all’interno di un processo
rieducativo alla non violenza, valore proprio di ogni spiritualità.

Infine, la terza pratica ha promosso una maggiore e regolare assistenza spirituale ai detenuti di fede
musulmana all’interno delle carceri. Tale esperienza pilota è stata portata avanti dalla volontà del direttore
15
all’interno della CC “Lorusso-Cutugno” di Torino . Dopo un anno il suo follow-up è stato un accordo
16
nazionale siglato tra il DAP e l’UCOII concernente otto istituti penitenziari italiani. Tale accordo ha cercato
di colmare l’esigenza dei detenuti musulmani di svolgere la preghiera del venerdì in un luogo proprio e
condotta da imam della società civile accreditati dal Ministero dell’Interno, contrastando così il fenomeno
degli imam auto-proclamatasi tali all’interno delle carceri, Quei detenuti che si arrogano il ruolo di condurre la
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salat , i cosiddetti imam ‘fai-da-te’ che ovviamente possono rivelarsi essere un leader pericoloso all’interno
dei padiglioni e veicolare un islam politicizzato e conflittuale nei confronti della società occidentale.

Suddette pratiche sono nate dall’intuizione di singoli attori dell’amministrazione penitenziaria o dalla società
civile, in quelli che sono stati i primi tentativi di un approccio multi-agenzia per giunta senza avere come
obiettivo principale la prevenzione alla radicalizzazione. Nonostante la loro efficacia, il paradosso italiano si
concretizza nella difficoltà di metter a sistema le pratiche dal livello locale a quello nazione per diventare
strategia nazionale che valorizzi le capacità professionali, organizzative e metodologiche emerse
localmente. Il principio di sussidiarietà verticale che dovrebbe ormai essere un principio assodato del modus
operandi nei soggetti della pubblica amministrazione europea, purtroppo in Italia non è ancora molto
operativo, creando un’altra situazione paradossale. Quella di trovarsi ad avere risorse finanziarie fornite
dall’UE a disposizione di un progetto come FAIR, e al contempo trovarsi in difficoltà a utilizzarle in sinergia
strategica con gli altri attori del sistema penitenziario italiano.


13
Si veda nota 3
14
Si veda il trailer del film documentario https://www.youtube.com/watch?v=XdwJv0knRow
15
Per maggiori info: https://www.reset.it/reset-doc/carceri-radicalizzazione-islam
16
UCOII sta per Unione delle Comunità islamiche d’Italia
17
L’Islam sunnita esige che la ṣalāt, la preghiera, sia adempiuta regolarmente per cinque volte nel corso
dell'intero giorno rivolgendosi verso la Mecca.
Raccomandazioni
La forte domanda formativa sul fenomeno della radicalizzazione violenta emersa dalla nostra indagine in
Italia; la mancanza di un organismo che coordini la direzione penitenziaria e il personale civile esterno
allorquando quest’ultimo venisse a contatto con detenuti radicalizzati o in via di radicalizzazione; la necessità
di strumenti cognitivi per comprendere un fenomeno complesso che richiede un inquadramento tanto
multidisciplinare quanto geopolitico del contesto nazionale ed internazionale; l’assenza di personale
specialistico e di strumenti pratici che permettano di confrontarsi con pratiche già attuate nei contesti europei
ed internazionali, sono solo alcune delle lacune da colmare urgentemente per affiancare e corroborare il
lavoro securitario che egregiamente l’intelligence italiana porta avanti grazie alla sua esperienza negli Anni
di Piombo.

Servirebbe quindi compiere dei passi importanti in sinergia tra soggetti della società civile e l’area educativo-
trattamentale dell’amministrazione per attuare e diffondere il concetto, la prassi e la metodologia della
18
sorveglianza dinamica che in altri paesi europei già sta portando ottimi frutti in una proficua collaborazione
tra gli agenti penitenziari e le aree trattamentali. È assodato, infatti, che non sia sufficiente imprigionare e
isolare i Violent Extremismt Offender (VEO) per combattere la radicalizzazione violenta, ma sia necessario
sviluppare, grazie un approccio multi-agenzia e multi-professionale, programmi individuali o di gruppo che
abbiano l’obiettivo di prevenire una lettura politica distorta dell’islam nel caso della radicalizzazione jihadista
e ad impedire ai detenuti radicalizzati di rafforzare le loro opinioni durante il loro periodo di detenzione e/o a
persuadere altri detenuti a unirsi ad azioni violente.

A tal riguardo, l'Unione Europea ha compreso l'importanza di finanziare tali progetti di prevenzione o di
disengagment con un ampio spettro di azioni: dal campo dell'istruzione nelle scuole alle politiche giovanili,
dalle contro-narrative online ai programmi per i sistemi penitenziari. Il sostegno dell'UE agli stati membri
nella loro lotta contro la radicalizzazione violenta è finanziato, infatti, da vari fondi, come il Fondo per la
sicurezza interna, Horizon 2020, DG Justice, Erasmus+ e il Fondo sociale europeo. A fronte di questi ingenti
investimenti europei, non possiamo mancare di segnale tuttavia le raccomandazioni emerse nella recente
relazione speciale n. 13/2018, intitolata “Contrastare la radicalizzazione che porta al terrorismo: la
Commissione ha affrontato le esigenze degli Stati membri, ma si osservano alcune carenze nel
19
coordinamento e nella valutazione” pubblicata dalla Corte dei conti europea. Lì emerge un paradosso
europeo: poiché si finanziano troppe azioni simili, viene evidenziato come sia viepiù necessario e urgente la
promozione di una rete virtuosa tra i vari progetti europei, per condividere i risultati ottenuti e per evitare
inutili overlapping di attività, ottimizzando così le risorse a disposizione ed aumentare l’impatto sulla
sicurezza e sulla rieducazione dei detenuti. È quindi anche per noi assai auspicabile che si crei un hub di
coordinamento europeo che promuova un dialogo virtuoso tra i progetti europei in atto, magari in
collaborazione con il RAN e il suo gruppo di lavoro “Prison & Probation”.

Parimenti a livello italiano occorrerebbe analogo coordinamento tra i diversi progetti europei, nazionali e
locali in materia di prevenzione contrasto alla radicalizzazione violenta, così come capita in molti paesi
europei e così come era previsto dalla suddetta proposta di legge e dalla relazione finale della Commissione
Vidino. Per evitare il paradosso della moltiplicazione di azioni che hanno lo stesso obiettivo ma che non
dialogano tra loro, l’unica soluzione è rappresentata dalla dimensione multi-agenzia che permetterebbe al
nostro paese di conciliare la visione securitaria del fenomeno con quella di prevenzione, contrasto e
disengagment, in generale e nel sistema penitenziario in particolare. Riteniamo, quindi, sia cruciale per le
sfide che le crisi internazionali ci pongono di fronte, soprattutto in prospettiva, che il quadro di esperienze,
iniziative e strumenti sopra descritto, siano catalogati, raccolti, analizzati, rielaborati e riproposti, dove
necessario, nel quadro di una collaborazione multi–agenzia che condivida linguaggi, metodi e approcci.

Ci auguriamo, infine, possibilmente prima che il progetto FAIR si concluda, tra un anno, che vi siano sempre
meno situazioni paradossali e sempre più organizzazione e coerenza nelle politiche italiane di P/CVE, e che,
nonostante la delicatezza e le riservatezza necessarie su una materia così sensibile, si creino sempre
maggiore fiducia e ponti per sviluppare dialogo, coordinamento e lavoro comune tra il sistema penitenziario
italiano e gli operatori sociali professionali, gli enti locali e la società civile.


18
G. Fabiani, Sorveglianza dinamica, questa sconosciuta. Come é cambiata la quotidianità detentiva e la
sicurezza nelle sezioni, un anno in carcere, XIV rapporto sulle condizioni di detenzione a cura di
associazione Antigone (2018). Si veda http://www.antigone.it/quattordicesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-
detenzione/
19
Si veda https://www.eca.europa.eu/Lists/ECADocuments/SR18_13/SR_RADICALISATION_IT.pdf

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