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Giuseppe Barreca

Osservazioni sui “Canti”


di Giacomo Leopardi

2016
Indice

Premessa 3
All’Italia 5
Ad Angelo Mai, quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica 11

Bruto minore 21
Alla primavera, o delle favole antiche 30
Ultimo canto di Saffo 36
Il primo amore 42
Il passero solitario 47
L’infinito 53
La sera del dì di festa 63
Alla luna 67
Il sogno 70
La vita solitaria 77
Alla sua donna 83
Il risorgimento 87
A Silvia 95
Le ricordanze 103
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia 115
La quiete dopo la tempesta 126
Il sabato del villaggio 131
Il pensiero dominante 138
Amore e morte 147
A se stesso 153
Aspasia 155
Palinodia al marchese Gino Capponi 164
Il tramonto della luna 176
La ginestra o il fiore del deserto 180
Bibliografia 197
Premessa
Queste riflessioni sui Canti di Giacomo Leopardi non hanno
pretese di scientificità, né intendono porsi quale meditato e maturo
contributo critico. Esse nascono da una mia personale lettura dei
Canti (o meglio, di alcuni di essi), e si pongono perciò come
contributo individuale, ma sentito, alla conoscenza di questo
autore. È un tentativo di dar voce a Leopardi stesso, sia leggendo
le sue poesie, sia le sue opere, tra le quali spicca lo Zibaldone, che
è il contraltare degli altri scritti da lui composti. Per questo, alla
riflessione sui Canti accompagnerò spesso ampi stralci dello
Zibaldone e, in misura minore, delle Operette morali; non si
tratterà di citazioni estrinseche, bensì della volontà di dar conto del
continuo gioco di rimandi tra i testi in versi e quelli in prosa.
Sovente, infatti, le pagine del “diario” di Giacomo contengono, in
forma più ampia ed esaustiva, temi e pensieri che sono alla base
delle sue composizioni poetiche.
Naturalmente ho cercato di tenere presenti alcuni contributi
critici di rilievo, per evitare il rischio di “lanciarmi” in
interpretazioni azzardate e senza senso. Credo infatti sia
impossibile trascurare del tutto tali studi, peraltro sterminati,
sulla poesia e sul pensiero di Leopardi. Tuttavia, come ho
accennato all’inizio, non sarebbe stata possibile, né era mia
intenzione condurla a termine, una ricognizione di tale immensa
mole di analisi letterarie.
Spero che chi leggerà potrà gradire la genuinità delle parole,
l’abbondanza di citazioni in versi e il continuo gioco di rimandi
con lo Zibaldone. Qualunque inesattezza e imprecisione non sarà
dovuta alla volontà di affermare qualcosa di inedito sulla poesia
di Leopardi, bensì solo a disattenzione e umana distrazione.
Non ho commentato tutti i Canti, ma ho cercato di scegliere
quelli che, per tradizione e conoscenza consolidata, risultano i più
rappresentativi della sua produzione poetica. Si tratta perciò di
una scelta personale, tesa a mostrare quale sia stata l’evoluzione
della poesia di Leopardi, sia in relazione alla sua autobiografia,

3
sia alla progressione del suo pensiero. Al di là di un giudizio di
valore che rischierebbe di apparire arbitrario e, in generale, anti-
letterario, i brani selezionati svelano il faticoso percorso di
conoscenza di sé e del destino umano compiuto da Giacomo,
all’interno di una biografia di per sé assai problematica, sia per
ragioni esistenziali, sia per motivi prettamente fisici. La scelta,
come si vedrà, è stata comunque ampia, proprio per non mutilare
l’amplissima produzione poetica di Leopardi, stabilendo divisioni
senza fondamento critico e letterario. D’altra parte, Giacomo fu
poeta eccelso e filosofo disperato. E l’amore per la poesia non
l’abbandonò mai, come si legge nello Zibaldone a p. 4302 (15
aprile 1828): “Uno de’ maggiori frutti che io mi propongo e spero
da’ miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore
della mia gioventù; è di assaporarli in quella età, e provar qualche
reliquia de’ miei sentimenti passati, messa quivi entro, per
conservarla e darle durata, quasi in deposito”.
In ultimo un’avvertenza. I brani tratti dalla poesie di Giacomo
Leopardi o dai suoi scritti in prosa, sono ovviamente citati sic et
simpliciter, ossia senza alcun intervento di “correzione”
ortografico. Giacomo utilizzava sempre l’accento grave, dunque
scriveva “perchè” e non “perché”, “nè” e non “né” e così via.
Inoltre, non accentava il “se” quando veniva impiegato come
pronome. La medesima cosa accadeva nelle edizioni a stampa
delle sue opere. Ecco, in tutti questi casi non sono intervenuto,
salvaguardando la genuinità e spontaneità del dettato
leopardiano.

4
All’Italia

Il canto è stato composto tra l’estate e l’autunno del 1818 e


venne stampato a Roma all’inizio del 1819, assieme a quello
intitolato Sopra il monumento di Dante che si preparava in
Firenze. In una lettera del 31 agosto 1818 a Pietro Giordani
(1774-1848) vi è l’annuncio di entrambe le canzoni. Giacomo
infatti scrive, mentre attende la visita a Recanati dell’amico:
“Fra tanto v’aspetterò io, e con me un opuscolo molto sudato,
che sebbene, dovendo uscire alla luce, non vorrebbe aspettar
tanto, e anche mi preme a bastanza, a ogni modo non lo voglio
nè pur toccare se prima non ne ho sentito il giudizio vostro e
consultato con voi se si debba pubblicare o no”1.
Nella lettera del 18 ottobre, Leopardi chiede all’amico un
aiuto per pubblicare le canzoni, aggiungendo che intende
dedicarle a Vincenzo Monti: “Vorrei che lo faceste stampare
costì o dove meglio credete [...] perchè la spesa dovendosi fare
dal mio privato erario, bisogna che sia molto sottile, a
volernela spremere: e vedrete che o grande o piccolo che sia il
sesto, il numero delle pagine non può essere altro che uno.
Vedrete similmente ch’io dedico il libricciuolo al Monti”. Le
due canzoni saranno invece pubblicate a Roma, come
testimoniano le lettere scambiate con il cardinale Francesco
Cancellieri tra la fine del 1818 e l’inizio del 1819.
In All’Italia, Leopardi mette in pratica alcune affermazioni
presenti nel Discorso di un italiano attorno alla poesia romantica
(1818), nel quale si dichiarava a favore di una poesia che
sapesse imitare la natura, come già facevano gli antichi, e che,
a differenza della poesia a lui contemporanea, s’ispirasse al
patetico autentico: “quel ridurre pressoché tutta la poesia ch’è

1
Cfr. G. Leopardi, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Bollati-
Boringhieri, Torino 1998, 2 voll. Tutte le lettere verranno citate da questa
edizione.

5
imitatrice della natura, al sentimentale, come se la natura non
si potesse imitare altrimenti che in maniera patetica; come se
tutte le cose rispetto agli animi nostri fossero sempre
patetiche; come se il poeta non fosse più spinto a poetare da
nessuna cosa, eccetto la sensibilità, o per lo meno senza
questa”2.
La canzone possiede due caratteri: il primo, rievocativo dei
grandi quadri della storia italiana; il secondo più personale,
concretizzantesi in un affetto “che accompagna e commenta
quelle rievocazioni, esaltando la presenza di un soggetto lirico
in prima persona coi suoi movimenti concitati o accorati, il
quale finisce col porsi come il vero protagonista poetico delle
due canzoni”3.
Il primo verso contiene un’allocuzione, mentre la prima
strofa descrive il rimpianto per la perduta gloria d’Italia,
nazione “le genti a vincer nata/ e nella fausta sorte e nella ria”
(vv. 19-20): Scrive Leopardi nell’Argomento di una canzone
sullo stato presente dell’Italia: “Nata l’Italia a vincer tutte le
genti così nella felicità come nella miseria”. Il poeta si

2 La riflessione sul ruolo della poesia nella società contemporanea è un tema


costante nello Zibaldone. Si legga il brano dell’8 marzo 1821 (pp. 734-735): “La
poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di questo secolo,
come la vera e semplice (voglio dire non mista) poesia immaginativa fu
unicamente ed esclusivamente propria de’ secoli Omerici, o simili a quelli in
altre nazioni. Dal che si può ben concludere che la poesia non è quasi propria
de’ nostri tempi, e non farsi maraviglia, s’ella ora langue come vediamo, e se è
così raro non dico un vero poeta, ma una vera poesia. Giacchè il sentimentale è
fondato e sgorga dalla filosofia, dall’esperienza, dalla cognizione dell’uomo e
delle cose, in somma dal vero, laddove era della primitiva essenza della poesia
l’essere ispirata dal falso. E considerando la poesia in quel senso nel quale da
prima si usurpava, appena si può dire che la sentimentale sia poesia, ma
piuttosto una filosofia, un’eloquenza, se non quanto è più splendida, più
ornata della filosofia ed eloquenza della prosa. Può anche esser più sublime e
più bella, ma non per altro mezzo che d’illusioni, alle quali non è dubbio che
anche in questo genere di poesia si potrebbe molto concedere”.
3 L. Blasucci, Morfologia delle “Canzoni”, in: I tempi dei “Canti”. Nuovi studi

leopardiani, Einaudi, Torino 1996, p. 16.

6
domanda chi abbia vilipeso e sconfitto l’Italia, facendo
scomparire la gloria di cui godevano gli antichi italiani4:

di catene ha carche ambe le braccia;


sì che sparte le chiome e senza velo
siede in terra negletta e sconsolata,
nascondendo la faccia
tra le ginocchia, e piange (vv. 15-18).

L’immagine dell’Italia che si nasconde la faccia tra le


ginocchia e piange è molto efficace, giacché indica
un’inconsolabile disperazione, e ricorda l’atto di sottomissione
degli eroi omerici, che si mettevano in tale posizione per
chiedere pietà al nemico pronto a dare loro il colpo di grazia.

l’elogio stesso delle antiche età si riconnette a quel contrasto


fra natura e ragione, fra passato ricco di generose illusioni e
presente decaduto e immeschinito, che non è puro movimento di
nostalgia evasiva, poiché il poeta aspira profondamente a
rinnovare, con la sua azione e con la sua poesia, quell’età di
entusiasmo e di attività5.

Nei versi successivi il lamento per la perduta gloria d’Italia


prosegue attraverso un crescendo intenso e genuino, carico di
eloquenza, che porta alla celebre (e sbeffeggiata dal
Tommaseo) promessa di combattere per la patria:

Nessun pugna per te? non ti difende


nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo
combatterò, procomberò sol io.

4 Cfr. i versi 7-10 della canzone Sopra il monumento di Dante: “O Italia, a cor ti
stia/ Far ai passati onor; che d’altrettali/ Oggi vedove son le tue contrade,/ Nè v’è
chi d’onorar ti si convegna”.
5 W. Binni, Leopardi. Scritti 1964-1967, Il Ponte, Firenze 2004, p. 78.

7
dammi, o ciel, che sia foco
agl’italici petti il sangue mio (vv. 36-40).

I celebri versi: “L’armi, qua l’armi: io solo/ combatterò,


procomberò sol io” (vv. 37-38), impreziositi da echi virgiliani,
esprimono la volontà di lottare e di sacrificarsi per l’Italia da
parte del poeta, il quale vorrebbe porsi come esempio per
quegli italiani che combatterono all’estero per altri popoli (per
esempio in Russia, aggregati all’esercito napoleonico), ma non
lottarono sul suolo italiano per la loro patria:

A che pugna in quei campi


l’itala gioventude? O numi, o numi:
pugnan per altra terra itali acciari (vv. 50-53).

Di fronte ai tanti compatrioti incapaci di combattere per il


proprio paese perché dimentichi della sua gloria passata, il
poeta offre la sua vita alla sua nazione, con un atto titanico:
“Alma terra natia,/ la vita che mi desti ecco ti rendo” (vv. 58-
59).
La parte più “alta” della canzone è costituita dalla quarta
strofa, laddove vi è il recupero del canto del poeta greco
Simonide di Ceo (556-468 a.C.), grazie al quale Leopardi può
esaltare gli atti che i soldati greci compirono combattendo i
Persiani alle Termopili, contrapponendoli al pavido
comportamento dei suoi contemporanei. Il confronto tra il
coraggio dei greci e l’ignavia degli italiani di inizio XIX secolo
è impietoso, dato che i greci andavano alla morte come si
recassero a una festa, consci di scarificare se stessi per la
propria patria: “La vita umana non fu mai più felice che
quando fu stimato poter essere bella e dolce anche la morte, nè
gli uomini vissero più volentieri che quando furono
apparecchiati e desiderosi di morire per la patria e la gloria”
(Cfr. Zibaldone, p. 3029, nota del 25 luglio 1823):

8
Come sì lieta, o figli,
l’ora estrema vi parve, onde ridenti
correste al passo lacrimoso e duro?
Parea ch’a danza e non a morte andasse
ciascun de’ vostri, o a splendido convito:
ma v’attendea lo scuro
Tartaro, e l’onda morta (vv. 91-97)

Le strofe dedicate al canto di Simonide assumo un tono


elegiaco che consente a questa poesia di prendere il volo,
colorandosi di immagini di vivo spessore letterario; la
descrizione della battaglia tra greci e persiani ricalca topos
omerici, ma senza retorica, utilizzando invece in modo
intelligente le fonti letterarie, impiegate non come modello
astratto, bensì quale sorgente di calda e vivida immaginazione.
A fronte delle promesse di sacrificio di sé che il poeta ha
esposto nei versi precedenti, il canto di Simonide appare ben
più elevato e poeticamente efficace: perciò il centro del
componimento non è da rintracciarsi nel patriottismo di
Leopardi, bensì nel richiamo alle virtù dell’età antica, da lui
giudicate, a inizio ‘800, definitivamente perdute. Il poeta
rende omaggio a quegli antichi combattenti, sostenendo di
voler essere, come loro, sepolto e circondato di gloria nel
ricordo della posterità:

Ecco io mi prostro,
o benedetti, al suolo,
e bacio questi sassi e queste zolle,
che fien lodate e chiare eternamente
dall’uno all’altro polo.
Deh foss’io pur con voi qui sotto, e molle
fosse del sangue mio quest’alma terra.
che se il fato è diverso, e non consente
ch’io per la Grecia i moribondi lumi

9
chiuda prostrato in guerra,
così la vereconda
fama del vostro vate appo i futuri
possa, volendo i numi,
tanto durar quanto la vostra duri (vv. 121-130).

Si chiude in questo modo una canzone che fu accolta nei


circoli liberali come il canto di un giovane patriota (si veda in
proposito l’epistolario, le lettere con il Giordani, Giuseppe
Montani e Leonardo Trissino) e che, proprio per questo,
suscitò timori e preoccupazioni in Monaldo Leopardi e nello zio
materno Carlo Antici. In realtà All’Italia non è una canzone
politica, sebbene ci siano dichiarazioni di patriottismo o
esortazioni agli italiani a combattere per la propria nazione. Il
cuore del componimento, difatti, è costituito dalla
rievocazione del canto di Simonide che celebra gli eroi morti
alle Termopili; per Leopardi è una rievocazione della Grecia
antica, delle sue eroiche virtù, da contrapporre alla decadenza
e alla mancanza di valore degli uomini a lui contemporanei:
“l’epilogo non lascia campo alla speranza ma al rimpianto e
all’indignazione: All’Italia si chiude con lo sguardo rivolto al
mito aureo e per sempre svanito dell’antica Grecia; Sopra il
monumento di Dante, sulla cupa nota dello sdegno per la
codardia presente, si chiude con l’immagine atterrita di
un’Italia inerte, ‘vedova’ e spopolata”6.

6 G. Tellini, Leopardi, Salerno Editore, Roma 2001, p. 86.

10
Ad Angelo Mai, quand’ebbe trovato i libri di
Cicerone della Repubblica

La canzone è dedicata al filologo bergamasco Angelo Mai


(1782-1854) che nel 1819 aveva ritrovato i libri del De
republica di Cicerone7. Leopardi da due anni era in contatto
epistolare con Mai: nel 1817, infatti, il filologo, assieme ad altri
letterati quali Pietro Giordani e Vincenzo Monti, aveva
apprezzato la traduzione leopardiana del secondo canto
dell’Eneide di Virgilio.
La canzone fu scritta nel gennaio 1820 (come attestato
dall’autografo), quando il Mai si era trasferito a Roma per
assumere l’incarico di primo custode della Biblioteca Vaticana,
essendo stato scelto per questa mansione nell’ottobre 1819 da
papa Pio VII. Dopo aver appreso la notizia, Leopardi scrisse al
Mai il 10 gennaio 1820: “V.S. ci fa tornare ai tempi dei
Petrarca e dei Poggi, quando ogni giorno era illustrato da una
nuova scoperta classica, e la maraviglia e la gioia de’ letterati
non trovava riposo”. Il Mai risponderà, ringraziando
affettuosamente, il 20 dello stesso mese. La canzone fu
pubblicata nel luglio 1820 a Bologna grazie a Pietro Brighenti
(cfr. lettera del 26 maggio 1820) e dedicata al conte vicentino
Leonardo Trissino. La lettera che annuncia per la prima volta
l’invio di questa poesia al Brighenti è stata scritta da Giacomo
il 4 febbraio 18208.

7 Nella lettera del 23 febbraio 1820, Pietro Giordani scrive a Giacomo: “Avrai
inteso de’ frammenti della repubblica di Cicerone, trovati dal nostro Mai in un
palimpsesto bobbiese della Vaticana; ma la stampa appena uscirà entro
quest’anno”. Leopardi sapeva già della scoperta.
8 A partire dal 1820, Pietro Brighenti (1775-1858) divenne spia della polizia

austriaca, all’insaputa di Leopardi. Fu proprio per opera del Brighenti che la


canzone dedicata al Mai venne proibita nel territorio del Lombardo-Veneto.
Nelle lettere scritte a Leopardi, il Brighenti loda più volte la poesia,
unitamente alle capacità letterarie di Giacomo. Di contro, egli scrisse questa

11
Con questa canzone, Leopardi celebra l’antico passato
dell’Italia senza esplicite professioni di patriottismo: rispetto
alla poesia All’Italia, non c’è un attivismo combattivo, bensì
“l’atteggiamento di un uomo di cultura e di un poeta che
propone una ripresa di attività, attraverso un risveglio più
generale di attenzione alla voce di una antica gloriosa civiltà e
a tutta una concezione della vita illuminata dal contatto con
la natura e con le generose e poetiche illusioni”9. Come scrive
ancora Binni: “La canzone può dividersi in due parti
fondamentali: la prima, formata dalle prime quattro strofe,
più direttamente legata all’occasione del componimento e al
suo alto significato, e sostanzialmente più faticosa, e la
seconda sino alla fine, più densa di poesia e di movimento
interno”10.
Le prime strofe esaltano la scoperta del Mai, “Italo
ardito”, il quale, grazie alla filologia, restituisce agli italiani
d’oggi le immortali opere dei loro avi latini; ciò significa che il
cielo vuole ancora bene all’Italia, consentendo che, tramite un
suo cittadino, i suoi abitanti possano leggere le opere degli
autori classici e seguire gli esempi delle loro gesta:

… Ancora è pio
dunque all’Italia il cielo; anco si cura
di noi qualche immortale:

relazione al direttore generale della Polizia in Venezia, denotante grande


capacità dissimulatoria: “Questa poesia odora di quello spirito di liberalismo,
che pare abbia accecato qualche infelice regione del nostro suolo. Sotto le
spoglie di un altro oggetto, cioè quello della decadenza dell’Italia letteraria
[…] si vorrebbe forse propagarne il veleno nelle nostre province. Questo è uno
di quei malefici libricciuoli, che per essere di poco volume e poco costo, può
esser letto da tutti, tanto più apparendo sotto un titolo improprio, ed a prima
giunta non allarmante. Io sarei quindi del rispettoso sentimento che
quest’operetta dovess’essere soppressa” (citata in G. Leopardi, Epistolario, cit.,
p. 2167).
9 W. Binni, Leopardi. Scritti 1964-1967, cit., p. 101.
10 Ibidem, p. 104.

12
ch’essendo questa o nessun’altra poi
l’ora da ripor mano alla virtude
rugginosa dell’itala natura,
veggiam che tanto e tale
è il clamor de’ sepolti, e che gli eroi
dimenticati il suol quasi dischiude,
a ricercar s’a questa età sì tarda
anco ti giovi, o patria, esser codarda (vv. 20-30)

In questi versi esiste un’esortazione alla patria affinché


essa non sia codarda e ascolti gli esempi di virtù eroiche e
nobili presenti nelle opere degli autori antichi. Leopardi però
sa che questo non accadrà: l’amarezza per il misero presente
dell’Italia diventa uno dei motivi alla base anche dell’infelicità
esistenziale del poeta; questi versi rispecchiamo altresì le
amare parole che Giacomo scriveva nelle lettere disperate del
periodo 1819-1820. Si veda in proposito le parole scritte a
Pietro Giordani il 19 novembre 1819:

Non ho lena di concepire nessun desiderio, neanche della


morte, non perch’io la tema in nessun conto, ma non vedo più
divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a
consolarmi neppure il dolore. Questa è la prima volta che la noia
non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera
come un dolor gravissimo; e sono così spaventato dalla vanità di
tutte le cose, e della condizione degli omini, morte tutte le
passioni, come sono spente nell’animo mio, che ne vo fuori di
me, considerando ch’è un niente anche la mia disperazione.

Nella poesia queste parole sono eloquenti:

Io son distrutto
nè schermo alcuno ho dal dolor, che scuro
m’è l’avvenire, e tutto quanto io scerno
è tal che sogno e fola
fa parer la speranza (vv. 34-38).

13
Il seguito della strofa riprende argomenti più generali,
ribadendo che non c’è speranza che gli italiani d’oggi imparino
dagli antichi; anzi, ogni valore saldo, onorato dagli antichi,
ogni parola solenne, è nel tempo presente sprezzato, dileggiato.
Si legge nello Zibaldone, p. 877: “Osservate i nostri tempi. Non
solo non c’è più amor patrio, ma neanche patria. Anzi neppur
famiglia. L’uomo, in quanto allo scopo, è tornato alla
solitudine primitiva. L’individuo solo, forma tutta la sua
società” (30 marzo – 4 aprile 1821). Leopardi per questo si
rivolge agli antichi, raccontando loro che la loro progenie è una
“immonda plebe”, che spregia le virtù d’un tempo:

Anime prodi,
ai tetti vostri inonorata, immonda
plebe successe; al vostro sangue è scherno
e d’opra e di parola
ogni valor; di vostre eterne lodi
nè rossor più nè invidia; ozio circonda
i monumenti vostri; e di viltade
siam fatti esempio alla futura etade (vv. 38-45).

L’andamento della canzone, in questa prima parte, appare


faticoso: l’omaggio al Mai, che riproduce alcuni passi della
lettera del 10 gennaio 1820, sembra non decollare, irretito da
una versificazione retorica, sorretta solo dal furore per il
tradimento che si compie dei valori d’un tempo. La seconda
parte, trattando temi più intimi, seppure nel contesto di una
riflessione civile, è invece più piacevole. Leopardi ricorda, con
tono elegiaco, il grande Petrarca, la sua poetica, la sua
sfortunata passione amorosa, che però gli diede la possibilità di
scrivere versi sublimi. E dichiara essere preferibile il dolore che
Petrarca ha provato, la sua vita di “pianto”, al tedio, alla noia
che Giacomo sperimenta quotidianamente (“E pur men grava
e morde/ il mal che n’addolora/ del tedio che n’affoga”, vv. 70-

14
72). Si legge in proposito nello Zibaldone, p. 72: “Anche il
dolore che nasce dalla noia e dal sentimento della vanità delle
cose è più tollerabile assai della stessa noia”.
Successivamente vengono ricordati altri italiani che
condussero a termine imprese notevoli, in campo artistico e
civile. Cristoforo Colombo (personaggio che tornerà nelle
Operette morali), per esempio, scoprì un nuovo mondo, con
coraggio, ampliando le conoscenze umane. Tuttavia,
argomenta Leopardi, la conoscenza razionale, in un certo
senso, “restringe” il mondo, perché toglie materia alla fantasia
e all’immaginazione, facoltà assai vive invece nei popoli
antichi:

Ahi ahi, ma conosciuto il mondo


non cresce, anzi si scema, e assai più vasto
l’etra sonante e l’alma terra e il mare
al fanciullin, che non al saggio, appare (vv. 86-90)

La scienza distrugge i principali piaceri dell’animo nostro


perchè determina le cose, e ce ne mostra i confini, benchè in
moltissime cose, abbia materialmente ingrandito d’assaissimo le
nostre idee. Dico materialmente, e non già spiritualmente,
giacchè p.e. la distanza dal sole alla terra, era assai maggiore
nella mente umana, quando si credeva di poche miglia, nè si
sapeva quante, di quello che ora che si sa essere di tante precise
migliaia di miglia. Così la scienza è nemica della grandezza delle
idee, benchè abbia smisuratamente ingrandito le opinioni
naturali. Le ha ingrandite come idee chiare, ma una piccolissima
idea confusa, è sempre maggiore di una grandissima, affatto
chiara (Zibaldone, pp. 1464-1465, 7 agosto 1821).

Questo concetto viene ribadito nella strofa che segue


attraverso versi molto sentiti ed eleganti, i quali raffigurano il
sentimento di amarezza e nostalgia per un’età mai vissuta ma
vagheggiata come migliore di quella che Leopardi sta vivendo,
un’età dove l’uomo cercava di spiegare quel che vedeva

15
ricorrendo alla fantasia e all’immaginazione (cfr. il Saggio sugli
errori popolari degli antichi); al contrario, nell’epoca a lui
contemporanea, il mondo è tutto figurato in “breve carta” e
ogni spiegazione viene affidata alla scienza e alla razionalità.
Questo non significa che quel che gli antichi credessero fosse
vero, naturalmente; ciò che il poeta rimpiange, in realtà, è la
loro capacità di illudersi, di inventare storie, capacità che li
avvicina ai fanciulli:
Nostri sogni leggiadri ove son giti
dell’ignoto ricetto
d’ignoti abitatori, o del diurno
degli astri albergo, e del rimoto letto
della giovane Aurora, e del notturno
occulto sonno del maggior pianeta?
Ecco svaniro a un punto,
e figurato è il mondo in breve carta;
ecco tutto è simile, e discoprendo,
solo il nulla s’accresce. A noi ti vieta
il vero appena è giunto,
o caro immaginar; da te s’apparta
nostra mente in eterno; allo stupendo
poter tuo primo ne sottraggon gli anni;
e il conforto perì de’ nostri affanni. (vv. 91-105).

Nella strofa successiva c’è un omaggio a Ludovico Ariosto,


“cantor vago dell’arme e degli amori/ , che in età della nostra
assai men trista/ empier la vita di felici errori” (vv. 108-110).
Quelle storie di dame e cavalieri, frutto della fantasia, erano
certamente errori poiché si basavano su credenze non vere,
però allietavano chi le ascoltava, e perciò sono definite “felici”.
Questa riflessione è un riconoscimento del ruolo fondamentale
che la vera poesia possiede ed è un modo per affermare che, a
inizio ‘800, vi è ancora spazio per la poesia, nonostante il
trionfo delle scienze, dell’economia e della statistica. D’altra

16
parte per Giacomo la poesia deve muovere l’animo, non
lasciarlo inerte né a riposo: “per il Leopardi la poesia [era] una
potente integrazione dell’attività, dell’eroismo, un incentivo
delle generose illusioni, entro una visione ardentemente
vagheggiata della vita in cui attività e fantasia si integrano
(Colombo e Ariosto) e ben lontana da una pura
contemplazione ‘idillica’ da ‘ultimo pastorello di Arcadia”11.
Nella strofa seguente questo omaggio all’alta poesia si
sublima nella rievocazione di Torquato Tasso, che Leopardi
avvertiva assai vicino a sé per come si svolse la sua vita12.
Perché il Tasso, “misero”, fu un grande poeta che soffrì per
“l’immondo/ livor privato e de’ tiranni” (vv. 127-128), fu
ingannato da Amore, credette nel “nulla”, nel quale vide
sciogliersi il mondo e, durante la sua esistenza, non ricevette la
gloria che avrebbe meritato. Il parallelo che Leopardi sentiva
con la vita del Tasso può apparire azzardato in un giovane
ventunenne, ma Giacomo già prefigurava davanti a sé una
condizione esistenziale ardua, caratterizzata da uno “smodato”
desiderio di gloria, giudicato però impossibile da soddisfare13,
da un desiderio d’amore destinato a non essere mai esaudito, e
dalla consapevolezza della nullità di tutte le cose:

O Torquato, o Torquato, a noi l’eccelsa


tua mente allora, il pianto
a te, non altro, preparava il cielo.
Oh misero Torquato! il dolce canto

11 W. Binni, Leopardi. Scritti 1964-1967, cit., p. 110.


12 Durante il soggiorno romano, Leopardi scrive una lettera al fratello Carlo il
15 febbraio 1823, dove dice: “Venerdì … fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci
piansi. Questo è il primo e unico piacere che ho provato in Roma. … Tu
comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto tra la
grandezza del Tasso e l’umiltà della sua sepoltura”. Cfr. altresì lo Zibaldone a
p. 141.
13 Nella lettera a Pietro Giordani del 21 marzo 1817 per esempio si legge: “Io

ho grandissimo, forse smoderato e insolente desiderio di gloria”.

17
non valse a consolarti o a sciorre il gelo
onde l’alma t’avean, ch’era sì calda,
cinta l’odio e l’immondo
livor privato e de’ tiranni. Amore,
amor, di nostra vita ultimo inganno,
t’abbandonava. Ombra reale e salda
ti parve il nulla, e il mondo
inabitata piaggia. Al tardo onore
non sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno,
l’ora estrema ti fu. Morte domanda
chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda (vv. 121-135).

Giacomo si rivolge al Tasso anche per raccontargli che quel


che lui aborrì in vita, ossia la tristezza e la meschinità dei
tempi, non è scomparso dal mondo. Anzi, nei secoli successivi,
fino a giungere al XIX nel quale Leopardi vive, la situazione è
peggiorata: “Assai da quello/ che ti parve sì mesto e sì
nefando,/ è peggiorato il viver nostro” (vv. 139-140). Oggi,
dice Leopardi, ciò che è grande e raro viene ritenuto “folle”:
non c’è spazio per la grandezza, per la grande poesia, e nessuno
premia i poeti con l’alloro, come si faceva una volta.
Nella penultima strofa Leopardi afferma che, dall’epoca
del Tasso, è nato solo un uomo che si è distinto rispetto agli
altri, riuscendo a non sprofondare nella meschinità dei tempi,
essendo “di sua codarda etate indegno” (v. 154): si tratta di
Vittorio Alfieri (1749-1803), il quale era per Leopardi un punto
di riferimento sia poetico sia esistenziale, anche perché in vita
subì disinteresse e calunnia, proprio per il suo essere grande e
raro:

Ei primo e sol dentro all’arena


scese, e nullo il seguì, che l’ozio e il brutto
silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto
Disdegnando e fremendo, immacolata
trasse la vita intera,

18
e morte lo scampò dal veder peggio.
Vittorio mio, questa per te non era
età nè suolo. Altri anni ed altro seggio
conviene agli alti ingegni. Or di riposo
paghi viviamo, e scorti
da mediocrità: sceso il sapiente
e salita è la turba a un sol confine,
che il mondo agguaglia (vv. 163-174).

Nell’ultima strofa il poeta sembra quasi rallegrarsi che la


morte colse l’Alfieri prima di “veder peggio”, prima di
osservare la decadenza dell’Italia, l’età mediocre che è nata
con l’avvento del XIX secolo. Il “peggio” è l’epoca della
Restaurazione e della Santa Alleanza, l’epoca di un’inerzia e di
un riposo vile, di un conformismo culturale che impedisce il
sorgere di personalità eroiche ed eccezionali. Oggi, dice
Giacomo, si vive una bieca esistenza, “di riposo/ paghi
viviamo, e scorti/ da mediocrità” (vv. 171-173). Non era
questo il tempo adatto per un grande ingegno come quello
dell’Alfieri: “Vittorio mio, questa per te non era/ età nè suolo.
Altri anni ed altro seggio/ conviene agli alti ingegni” (vv. 169-
171). Oggi il “sapiente” è “sceso”, ossia ignorato, mentre è
elevata d’importanza la massa, “la turba a un sol confine,/ che
il mondo agguaglia” (vv. 174-175), poiché vuol rendere gli
uomini tutti uguali, ignorando le loro differenze e le loro più
alte qualità:
mentre le nazioni per l’esteriore vanno a divenire tutta una
persona, e oramai non si distingue più uomo da uomo, ciascun
uomo poi nell’interiore è divenuto una nazione, vale a dire che
non hanno più interesse comune con chicchessia, non formano
più corpo, non hanno più patria, e l’egoismo gli ristringe dentro
il solo circolo de’ propri interessi, senza amore nè cura degli
altri, nè legame nè rapporto nessuno interiore col resto degli
uomini. Al contrario degli antichi, che mentre le nazioni per
l’esteriore erano composte di diversissimi individui, nella

19
sostanza poi, e nell’importante, o in quel punto in cui giova
l’unità della nazione, erano in fatti tutta una persona, per
l’amor patrio, le virtù, le illusioni ec. che riunivano tutti
gl’individui a far causa comune, e ad essere i membri di un sol
corpo (Zibaldone, pp. 148-149, 3 luglio 1820).

Questa parte della canzone, dedicata alle glorie dell’Italia


d’un tempo, è senza dubbio la più efficace e accorata del
componimento, quella in cui l’amore verso i classici si mostra
non frutto di erudizione filologica e letteraria, bensì quale
scaturigine da un autentico sentimento di ammirazione e di
inguaribile nostalgia verso un mondo non vissuto, ma
conosciuto e amato attraverso i libri. Pertanto la canzone

com’è stato detto a cominciare dallo stesso autore, è una


canzone a doppio fondo: patriottica e civile nella cornice, epocale e
‘filosofica’ nel suo nucleo centrale … I due aspetti convivono nello
stesso lessico negativo della canzone, dove a termini indicanti
l’indegnità degl’Italiani contemporanei … si affiancano termini
designanti il negativo esistenziale (tedio, nulla, vero, duolo, ecc.),
con una oscillazione di fondo tra responsabilità degli uomini e
ineluttabilità dei tempi14.

Nell’epilogo Leopardi si rivolge di nuovo ad Angelo Mai,


esprimendo la speranza che la sua opera di filologo possa
risvegliare l’anima più profonda e gagliarda dell’Italia:

O scopritor famoso,
segui; risveglia i morti,
poi che dormono i vivi; arma le spente
lingue de’ prischi eroi; tanto che in fine
questo secol di fango o vita agogni
e sorga ad atti illustri, o si vergogni (vv. 175-180).

14 L. Blasucci, I tempi dei “Canti”. Nuovi studi leopardiani, cit., p. 22.

20
Bruto minore

La canzone è stata scritta nel dicembre 1821, quando in


Giacomo l’atteggiamento verso il mondo e la vita appare
delinearsi nei termini della progressiva e definitiva perdita
delle illusioni. Alla base della poesia vi è la convinzione
secondo cui i valori nobili d’un tempo, l’antica virtù, siano
stati traditi e siano irrecuperabili.
Dal punto di vista sintattico, la poesia è una delle prime a
contenere un fenomeno tipico del verseggiare leopardiano,
ossia “un giro sintattico protratto e fortemente subordinativo,
dove la subordinazione, e complessa, precede la principale”15.
Per esempio, la proposizione principale della prima strofa è ai
vv. 7-8: “a spezzare le inclite mura / chiara i gotici brandi”. In
precedenza una serie di subordinate (procedimento ipotattico)
prepara l’atmosfera della stanza, tramite la quale il poeta
individua nella battaglia di Filippi il segno della decadenza
romana, poiché a combattere si trovarono romani contro
romani. Dopo questa battaglia, “Bruto per l’altra notte in
erma sede / … gl’insesorandi / numi e l’averno accusa, / e di
feroci note/ invan la sonnolenta aura percote” (vv. 11-15). Lo
sconforto di Bruto per la percezione della fine del mondo
romano e delle sue virtù, simboleggiate dall’arrivo, secolo
dopo, dei barbari (“i gotici brandi” al v. 9), è descritto nella
seconda strofa:

Stolta virtù, le cave nebbie, i campi


dell’inquiete larve
son le tue scole, e ti si volge a tergo
il pentimento. A voi, marmorei numi,
(se numi avete in Flegetonte albergo

15 P. V. Mengaldo, Sonavan le quiete stanze. Sullo stile dei “Canti” di Leopardi,


il Mulino, Bologna 2006, p. 47.

21
o su le nubi) a voi ludibrio e scherno
e la prole infelice
a cui templi chiedeste, e frodolenta
legge al mortale insulta.
dunque tanto i celesti odii commove
la terrena pietà? dunque degli empi
siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
per l’aere il nembo, e quando
il tuon rapido spingi,
ne’ giusti e pii la sacra fiamma stringi (vv. 16-30)

La disperazione di Bruto dopo la sconfitta di Filippi


diviene in Leopardi materia per una riflessione sulla
condizione dell’uomo. Assieme alla decadenza politica,
corrispondente per Giacomo al tramonto della repubblica, i
romani, dilaniati da lotte fratricide, vivevano anche la fine
delle loro virtù. Questo è il pensiero che Leopardi trasferisce
nel lamento di Bruto, il quale, prima di trafiggersi a morte,
secondo Cassio avrebbe esclamato: “O virtù miserabile, eri una
parola nuda, e io ti seguiva come tu fossi una cosa: ma tu
sottostavi alla fortuna”. Nella Comparazione delle sentenze di
Bruto Minore e Teofrasto vicini a morte, che accompagnava
questa canzone e che poi fu soppressa divenendo un
frammento delle Operette morali, Leopardi scrive: “Quei
moltissimi che si scandalezzano di Bruto e gli fanno carico
della detta sentenza, danno a vedere l’una delle due cose; o che
non abbiano mai praticata familiarmente colla virtù, o che
non abbiano esperienza degl’infortuni, il che, fuori del primo
caso, non pare che si possa credere”16.

16Nell’Introduzione al Ritratto di Leopardi di C. A. Sainte-Beuve, a cura di C.


Carlino, Donzelli, Roma 1996, Antonio Prete osserva che l’atteggiamento di
Leopardi verso l’antico consiste “in un sentimento in certo modo ambivalente,
in una sorta di ossimoro del pensiero: avvertire, nello stesso tempo, il
rimpianto per le perdute ‘passioni nobili e forti’, per le virtù antiche, e il senso

22
È vero che Bruto fu l’assassino di Cesare, ma fu anche
colui che denunciò il declino di un intero mondo di valori e che
tentò, attraverso il suicidio, di lanciare una protesta contro
tale decadenza. In una lettera a Pietro Giordani del 26 aprile
1819 questa idea appare ben definita, allorché Giacomo scrive:
“Ma questa medesima virtù quante volte io sono quasi
strascinato di malissimo grado a bestemmiare con Bruto
moribondo. Infelice, che per quel detto si rivolge in dubbio la
sua virtù, quand’io veggo per esperienza e mi persuado che sia
la prova più forte che ne potesse dar egli, e noi recare in favor
suo”. La protesta di Bruto è una rivolta contro l’insensatezza
del vivere, contro le vacue consolazioni di una religione che
non consola: “Leopardi … si muove in una sfera notevolmente
più alta, quella cioè che fa della maledizione di Bruto, della
sconfitta patita e della sua decisione di levarsi la vita, l’unica
forma che all’uomo rimane di ribellarsi all’insensatezza del
vivere, di protestare contro il destino … e di liberarsi da una
‘condizione’ che, ormai svelata, riesce insopportabile a
un’anima davvero grande”17.
La condizione dell’uomo è tale perché egli è stato tradito
da se stesso, dalle leggi che hanno soffocato la sua natura
primigenia, autentica. La sua libertà è stata cancellata dalla
civilizzazione. Ma non solo: anche la divinità trascendente è
lontana dall’uomo: non è infatti possibile cercare consolazione
in una divinità lontana e inconoscibile.

L’intelligenza umana, progredendo attraverso i secoli, ha


scoperto la nudità e quasi lo scheletro delle cose; il cristianesimo
ha mutato il punto di vista della saggezza; ed esse consiste nel
denunciare all’uomo la propria miseria, piuttosto che nel coprirla

della vanità di quelle stesse virtù, insomma tener viva l’ammirazione per
l’antica sapienza e insieme sentire la vanità di ogni sapienza”.

23
o nel dissimularla. Ma non era così presso gli antichi, abituati,
secondo gli insegnamenti della natura, a credere che le cose
fossero delle realtà e non delle ombre, e che la vita umana era
destinata a qualcosa di meglio che la sofferenza18.

Nell’età antica il dolore era vissuto diversamente, ossia


come un impedimento alla felicità, che gli antichi ritenevano
raggiungibile. Non c’era ricerca di consolazione, perché una
sventura, una catastrofe naturale, provocava un dolore
disperato, “senza medicina”, scrive Leopardi nello Zibaldone.
Nell’antichità l’infelice era guardato raramente con
compassione, più spesso invece con astio, come fosse
intrinsecamente colpevole della propria miseria. Non vi era
alcuna “dolce” rassegnazione al dolore, come accade nei
moderni, che hanno costruito una fede che consola, che vuole
rendere accettabile passivamente il dolore e che predica la
compassione verso i sofferenti. “Quindi il dolor loro [degli
antichi] era disperato, come suol essere in natura, e come ora
nei barbari e nelle genti di campagna, senza il conforto della
sensibilità, senza la rassegnazion dolce alle sventure da noi,
non da loro, conosciute inevitabili, non poteano conoscere il
piacer del dolore, nè l’affanno di una madre, perduti i suoi figli,
come Niobe, era mescolato di nessuna amara e dolce tenerezza
di se stesso ec. ma intieramente disperato” (Zibaldone, p. 77).
Secondo Leopardi, solo l’uomo plebeo, ma non l’uomo
nobile, accetta in silenzio l’inevitabilità della triste sorte
dell’umanità (vv. 34-35). Si legge a p. 504 dello Zibaldone:
Soltanto l’uomo vile, o debole, o non costante, o senza forza
di passioni, sia per natura, sia per abito, sia per lungo uso ed
esercizio di sventure e patimenti […]; soltanto costoro cedono
alla necessità, e se ne fanno anzi un conforto nelle sventure,

17 U. Dotti, Lo sguardo sul mondo. Introduzione a Leopardi, Laterza, Roma-

Bari 1999, p. 55.


18 C. A. Sainte-Beuve, Ritratto di Leopardi, cit., pp. 36-37.

24
dicendo che sarebbe da pazzo il ripugnare e combatterla ec. Ma
gli antichi, sempre più grandi, magnanimi, e forti di noi,
nell’eccesso delle sventure, e nella considerazione della necessità
di esse, e della forza invincibile che li rendeva infelici e gli
stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi
e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato, e
bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del
cielo, impotenti bensì, e incapaci di vittoria o di vendetta, ma
non perciò domati, nè ammansati, nè meno, anzi tanto più
desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e la necessità era
maggiore (15 gennaio 1821).

L’uomo grande e nobile, l’uomo antico, non può


rassegnarsi e deve ribellarsi in qualche modo, come fa Bruto,
che offre la propria vita quale estremo gesto di protesta:

Non fra sciagure e colpe,


ma libera ne’ boschi e pura etade
natura a noi prescrisse,
reina un tempo e Diva. Or poi ch’a terra
sparse i regni beati empio costume,
e il viver macro ad altre leggi addisse;
quando gl’infausti giorni
virile alma ricusa,
riede natura, e il non suo dardo accusa? (vv. 52-60)

Il suicidio diviene un atto eroico, qualcosa che avvicina


l’uomo a Giove, dato che l’uomo è l’unica creatura che può
concepire l’idea di uccidersi (cfr. Zibaldone, p. 814, 19 marzo
1821: “La nostra condizione oggidì è peggiore di quella de’
bruti anche per questa parte. Nessun bruto desidera
certamente la fine della sua vita, nessuno per infelice che possa
essere, o pensa a torsi dalla infelicità colla morte, o avrebbe il
coraggio di proccurarsela. La natura che in loro conserva tutta
la sua primitiva forza, li tiene ben lontani da tutto ciò. Ma se
qualcuno di essi potesse desiderar mai di morire, nessuna cosa

25
gl’impedirebbe questo desiderio. Noi siamo del tutto alienati
dalla natura, e quindi infelicissimi. Noi desideriamo bene
spesso la morte, e ardentemente, e come unico evidente e
calcolato rimedio delle nostre infelicità”). In tale condizione
risiedono, al contempo, la grandezza e la piccolezza dell’uomo.
Il tema del suicidio viene qui trattato poeticamente: in
Leopardi esso è un argomento frequente, spesso messo in
relazione con la speranza: “La speranza, cioè una scintilla, una
goccia di lei, non abbandona l’uomo, neppur dopo accadutagli
la disgrazia la più diametralmente contraria ad essa speranza,
e la più decisiva” (Zibaldone, 18 ottobre 1820, p. 285). Inoltre,
nella nota del 23 giugno 1822 (p. 2492) Leopardi aggiunge:

È cosa assurda che secondo i filosofi e secondo i teologi, si


possa e si debba viver contro natura (anzi non sia lecito viver
secondo natura) e non si possa morir contro natura. E che sia
lecito d’essere infelice contro natura (che non avea fatto l’uomo
infelice), e non sia lecito di liberarsi dalla infelicità in un modo
contro natura, essendo questo l’unico possibile, dopo che noi
siamo ridotti così lontani da essa natura, e così irreparabilmente.

Il suicidio è pertanto un atto contrario alla natura ma


perfettamente razionale: essendo l’infelicità stessa contro
natura, non si può condannare il gesto di darsi la morte per
sfuggire ad essa. Giacomo ne parlerà anche nel 1824 nel
Dialogo tra Plotino e Porfirio. Nello Zibaldone troviamo
quest’altra riflessione assai acuta del 23 luglio 1820:

La speranza non abbandona mai l’uomo in quanto alla


natura. Bensì in quanto alla ragione. Perciò parlano stoltamente
quelli che dicono … che il suicidio non possa seguire senza una
specie di pazzia, essendo impossibile senza questa rinunciare alla
speranza ec. Anzi tolti i sentimenti religiosi, è una felice e
naturale, ma vera e continua pazzia, il seguitar sempre a sperare,
e a vivere, ed è contrarissimo alla ragione, la quale ci mostra
troppo chiaro che non v’è speranza nessuna per noi (p. 183, 3).

26
L’atto del suicidio è contro natura, se per “natura”
s’intende un’entità benevola. Tuttavia, già all’epoca della
composizione del Bruto minore, in Leopardi l’opinione sulla
natura stava cambiando per volgersi verso l’immagine di una
natura indifferente, se non ostile, verso l’umanità. Per Bruto è
sin troppo facile, scorgendo il tramonto dell’antica virtù,
preconizzare i tempi bui che sorgeranno durante il lungo
tramonto dell’epoca romana, quando il popolo italico sarà
progressivamente assoggettato al “barbaro piede” (v. 89). Vi è
un parallelismo con la condizione politica dell’Italia dell’inizio
del XIX secolo, l’epoca della Restaurazione: la conclusione di
Bruto appare perciò una profezia funesta e amara.

Non io d’Olimpo o di Cocito i sordi


regi, o la terra indegna,
e non la notte moribondo appello;
non te, dell’atra morte ultimo raggio,
conscia futura età. Sdegnoso avello
placàr singulti, ornàr parole e doni
di vil caterva? In peggio
precipitano i tempi; e mal s’affida
a putridi nepoti
l’onor d’egregie menti e la suprema
de’ miseri vendetta. A me dintorno
le penne il bruno augello avido roti;
prema la fera, e il nembo
tratti l’ignota spoglia;
e l’aura il nome e la memoria accoglia (vv. 106-120)

Bruto è inconsolabile poiché prevede la decadenza futura:


gli dei e la natura appaiono impotenti se non ostili ed è
inevitabile che, in tale contesto, i valori più alti vengano
disonorati. Questa idea “investiva durissimamente ogni idea
provvidenziale, benefica, teleologica, cosi come ogni idea di
compenso immortale ultraterreno solo frutto di ‘tenebroso

27
ingegno’ … nemico degli uomini e della loro liberazione
suicida, osteggiata dalla stessa maligna natura, gelosa del
proprio potere di carnefice e persecutrice delle sue creature” 19.
La battaglia di Filippi simboleggia quindi la fine, senza
appello né possibilità di recupero, non solo di un’epoca, ma di
una concezione del mondo, che tramonta perché
l’immaginazione inizia a cedere il passo alla ragionevolezza: da
quel momento il dolore per l’infelicità dell’uomo non viene più
virilmente affrontato, bensì sfuggito, additando all’individuo
come unico conforto una fede trascendente, che per Leopardi
non può offrire nessuna consolazione, oppure costruendo
sistemi filosofici razionali aridi: “lo sviluppo del sentimento e
della melanconia, è venuto soprattutto dal progresso della
filosofia, e della cognizione dell’uomo, e del mondo, e della
vanità delle cose, e della infelicità umana, cognizione che
produce appunto questa infelicità, che in natura non
dovevamo mai conoscere” (Zibaldone, pp. 78-79). Si legge nella
Comparazione:

possiamo dire che i tempi di Bruto fossero l’ultima età


dell’immaginazione, prevalendo finalmente la scienza e
l’esperienza del vero e propagandosi anche nel popolo quanto
bastava a produr la vecchiezza del mondo. Che se ciò non fosse
stato, nè quegli avrebbe avuta occasione di fuggir la vita, come
fece, nè la repubblica romana sarebbe morta con lui. Ma non
solamente questa, bensì tutta l’antichità, voglio dir l’indole e i
costumi antichi di tutte le nazioni civili, erano vicini a spirare
insieme colle opinioni che gli avevano generati e gli
alimentavano. E già mancato ogni pregio a questa vita,
cercavano i sapienti quel che gli avesse a consolare, non tanto
della fortuna, quanto della vita medesima, non riputando per
credibile che l’uomo.

19 W. Binni, Leopardi. Scritti 1964-1967, cit., pp. 75-76.

28
Il Bruto minore non è un componimento secondario nella
produzione leopardiana. Benché non possieda una tensione
poetica uniforme, esso restituisce un’immagine del poeta quale
pensatore maturo, avviato sulla strada della elaborazione della
teoria del piacere e della concezione negativa del ruolo della
natura. Non è caso che dieci anni dopo, avendo saputo che in
Germania (e non solo in quel paese), molti giustificavano la
sua produzione letteraria non ricorrendo ad argomentazioni
filosofiche bensì alle sole sue malattie, Leopardi, nella lettera a
Louis De Sinnier il 24 maggio 1832, scriveva: “Le mie
convinzioni nei confronti del destino sono sempre rimaste
quelle che ho espresso nel Bruto minore. È stato col coraggio
conseguente a quelle mie ricerche che mi hanno condotto a una
filosofia senza speranza, che io non ho esitato ad abbracciare
nella sua interezza”.
In conclusione, si può affermare che questa canzone:
“rappresenta […] l’atteggiamento definitivo di Leopardi verso
il destino ed esalta, nel suo nero sorriso, la prerogativa umana
del suicidio fino all’aperta blasfemia (non fora/ tanto valor ne’
molli petti eterni)”, dal momento che, secondo il poeta, “Non
resta … all’anima nobile e forte altra possibilità che quella di
ergersi contro la ‘ferrata Necessità’, vincendo la ‘terribile e
quasi barbara allegrezza’ del suicidio (Zibaldone, p. 87) – tema
già alfieriano e foscoliano ma che, in Leopardi, al di là di ogni
motivazione etico-politica, acquista il significato di un puro
dramma metafisico”20.

Cfr. G. Leopardi, Poesie e prose, vol. 1, a cura di M. A. Rigoni, Mondadori,


20

Milano 1987, p. 928.

29
Alla primavera, o delle favole antiche

La canzone è stata scritta nel gennaio 1822 e racchiude in


embrione alcuni temi (il ruolo della natura, l’importanza della
facoltà dell’immaginazione, la vita degli antichi contrapposta
a quella degli uomini moderni) che saranno alla base delle
composizioni poetiche più riuscite di Leopardi. A differenza di
altri canti giovanili, lo stile di Alla primavera appare meno
autentico: forse per questo il De Sanctis sostenne che la
canzone è composta con “animo di erudito”, ossia con meno
pathos di altre.
In effetti in essa abbondano i riferimenti alla mitologia
greca, i quali non rivestono solo un ruolo retorico, come fossero
mostra di (sterile) erudizione, giacché risultano funzionali a
costruire l’idea di un passato nel quale il rapporto uomo-
natura era più autentico, grazie al fatto che gli antichi
spiegavano i fenomeni naturali ricorrendo all’immaginazione e
non alla ragione (perciò Leopardi parla di “favole antiche”).
La capacità di illudersi non era una semplice fuga dal reale,
bensì un autentico modo di affrontare la vita: come Leopardi
scrive ne L’inno ai patriarchi, o de’ principii del genere umano,
anche se l’età dell’oro non è mai realmente esistita nelle forme
descritte dai poeti, ci fu un’età in cui gli uomini credevano
d’essere felici, perché le illusioni li proteggevano dal fato: “Non
che di latte/ onda rigasse intemerata il fianco/ delle balze
materne, o con le greggi/ mista la tigre ai consueti ovili/ nè
guidasse per gioco i lupi al fonte/ il pastorel; ma di suo fato
ignara/ e degli affanni suoi, vota d’affanno/ visse l’umana
stirpe” (vv. 92-99).
In Alla primavera, tuttavia, sussiste la consapevolezza che
il passato vagheggiato sia irrimediabilmente perduto: “torna la
stagione primaverile, ma non torna né quella primavera della
vita individuale che è la giovinezza né quella primavera del
mondo che fu l’antichità, quando l’universo era un’intatta e

30
sacra unità, palpitante di una vita insieme materiale e
arcana”21.
La prima strofa, caratterizzata da un insieme di
quattordici proposizioni subordinate, celebra il ritorno della
primavera: tuttavia, il risveglio degli animali, dei boschi, dei
fiori, non consola l’uomo, cui un rimane solo un destino di
infelicità: “Ottenebrati e spenti/ di febo i raggi al misero non
sono/ in sempiterno?” (vv. 14-16). Non vi è dunque
consolazione nella primavera per un cuore “gelido” che, anche
in gioventù, è infelice e immagina un futuro senza speranza né
gioia:

… ed anco,
primavera odorata, inspiri e tenti
questo gelido cor, questo ch’amara
nel fior degli anni suoi vecchiezza impara? (vv. 16-19).
La seconda strofa pone l’interrogativo che sta alla base del
componimento, chiedendo alla natura se oggi, come un tempo,
essa sia in comunione con l’uomo, oppure se viva per sé,
indifferente all’uomo:

Vivi tu, vivi, o santa


natura? vivi e il dissueto orecchio
della materna voce il suono accoglie?
Già di candide ninfe i rivi albergo,
placido albergo e specchio
furo i liquidi fonti. Arcane danze
d’immortal piede i ruinosi gioghi
scossero e l’ardue selve (oggi romito
nido de’ venti): e il pastorel ch’all’ombre
meridiane incerte ed al fiorito
margo adducea de’ fiumi
le sitibonde agnelle, arguto carme

21 Ibidem, p. 931.

31
sonar d’agresti Pani
udì lungo le ripe; e tremar l’onda
vide, e stupì, che non palese al guardo
la faretrata Diva
scendea ne’ caldi flutti, e dall’immonda
polve tergea della sanguigna caccia
il niveo lato e le verginee braccia (vv. 20-38)22

La strofa presenta diversi miti celebri, quello di Diana, di


Dafne tramutata in alloro, di Filli e Climene, mostrando un
livello di erudizione assai alto ma sfuggendo l’oggetto della
domanda rivolta alla natura all’inizio della strofa. L’epoca di
questi personaggi mitologici era un’età gagliarda, nella quale
la natura viveva in comunione con gli uomini, i quali erano
spinti dall’immaginazione a creare storie e miti fecondi. La
terza strofa, parlando del “grave amor” di Eco per Narciso, e
poi di Filomena che, violata dal cognato Tereo, fu tramutata
in usignolo, raggiunge aspetti di liricità maggiori e più vividi,
sfiorando, nel finale, i temi che Leopardi toccherà nell’operetta
morale Elogio degli uccelli e nella poesia Il passero solitario.

Nè dell’umano affanno,
rigide balze, i luttuosi accenti
voi negletti ferìr mentre le vostre
paurose latebre Eco solinga,
non vano error de’ venti,
ma di ninfa abitò misero spirto,
cui grave amor, cui duro fato escluse

22 Cfr. Zibaldone, 63-64: “Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva
secondo l’immaginazione umana e viva umanamente cioè abitata o formata di
esseri uguali a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che
abitassero le belle Amadriadi e i fauni e i silvani e Pane ec. ed entrandoci e
vedendoci tutto solitudine pur credevi tutto abitato e così de’ fonti abitati
dalle Naiadi ec. e stringendoti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare fra
le mani credendolo un uomo o donna come Ciparisso ec. e così de’ fiori ec. come
appunto i fanciulli”.

32
delle tenere membra. Ella per grotte,
per nudi scogli e desolati alberghi,
le non ignote ambasce e l’alte e rotte
nostre querele al curvo
etra insegnava. E te d’umani eventi
disse la fama esperto,
musico augel che tra chiomato bosco
or vieni il rinascente anno cantando,
e lamentar nell’alto
ozio de’ campi, all’aer muto e fosco,
antichi danni e scellerato scorno,
e d’ira e di pietà pallido il giorno (vv. 58-76).

Dice il poeta: in lontana età, i rivi e le fonti furono albergo o


specchio di candide ninfe; una rievocazione confortata da un
vagheggiamento rivelato dalle parole ‘Placido albergo’;
un’adesione compiaciuta a questo periodo lontano della vita
umana, in cui la natura era animata, aveva un rapporto, diceva
qualcosa agli uomini, non era deserta, muta come nei tempi
moderni. Il poeta rimanda sempre più indietro l’età felice delle
illusioni, ora non più l’epoca della fervente libertà latina, ma
un’epoca addirittura mitica23.
Nell’epoca moderna l’usignolo (il “musico augel”) continua
a celebrare con il suo canto, liberamente, il ritorno della
primavera, ma ora gli animali sono divisi dagli umani: i primi
hanno mantenuto la loro naturalità e spontaneità, mentre
l’uomo è voluto divenire ragionevole, tradendo se stesso. “Ma
non cognato al nostro/ il gener tuo” (vv. 77-78), dice il poeta
rivolgendosi all’usignolo. Tale distacco è avvenuto poiché
l’immaginazione, che permane ancora nei fanciulli fino a che
essi non crescono (ed è sradicata in loro dal contatto con la
società degli adulti)24, è oggi bandita dal mondo; nondimeno il

23W. Binni, Leopardi. Scritti 1964-1967, cit., pp. 200-201.


24Cfr. Discorso di un italiano sopra la poesia romantica, in: G. Leopardi, Poesie e
prose, vol. II, a cura di R. Damiani, Mondadori, Milano 1988, p. 479:

33
poeta, almeno in questa canzone, non sembra perdere la
speranza. Egli infatti chiede alla natura di restituire all’uomo
quelle antiche favole, domandandole di nuovo se essa sia
quantomeno spettatrice delle vicende e degli affanni umani,
dato che è chiaro che non ne prova compassione:

… e la favilla antica
rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
e se de’ nostri affanni
cosa veruna in ciel, se nell’aprica
terra s’alberga o nell’equoreo seno,
pietosa no, ma spettatrice almeno (vv. 90-95).
La natura non risponde alle domande. Essa tace, come
tacerà la luna di fronte alle domande del pastore errante
dell’Asia. In questa poesia Giacomo non appare ancora del
tutto convinto della indifferenza della natura verso il destino
umano. Questa incertezza si riverbera sul componimenti, assai
inferiore per stile e tensioni poetica a quelli che lo precedono e
lo seguono immediatamente. L’idea dell’indifferenza della
natura, peraltro, appariva già assodata nel Bruto minore, e
sarà ancor più definita nell’Ultimo canto di Saffo, inserita, lo si
ripete, all’interno di un componimento ben più efficace ed
eccelso di Alla primavera.
In conclusione, si può aggiungere che l’argomento della
poesia è presente, in diverse parti dello Zibaldone. Uno dei

“Imperocché quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu
il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e
partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle
credenze e di quella sterminata operazione della fantasia; quando il tuono e il
vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e le mura de’ nostri alberghi,
ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata
nessuna; quando ciascun oggetto che vedevamo ci pareva che in certo modo
accennando, quasi mostrasse di volerci favellare; quando in nessun luogo soli,
interrogavamo le immagini e le pareti e gli alberi e i fiori e le nuvole, e
abbracciavamo sassi e legni, e quasi ingiuriati malmenavamo e quasi
beneficati carezzavamo cose incapaci d’ingiuria e di benefizio…”.

34
passi più interessanti in proposito è questo del 22 dicembre
1820 (pp. 441-442):

E come l’uomo perde la felicità naturale, così pure, anzi


precedentemente, perde la forza attuale dell’istinto, e dei mezzi
ingeniti di ottener questa felicità. Perciò è un vero acciecamento
il dire che il bruto ha dalla natura tutta quella istruzione che gli
bisogna per esistere: l’uomo no: e dedurne ch’egli dunque ha
bisogno di ammaestramento, di società ec. insomma ch’egli esce
imperfetto dalle mani della natura, e conviene che si perfezioni da
se. Anche l’uomo aveva naturalmente tutto il necessario; se ora
non sente più d’averlo, viene che l’ha perduto; ha perduto la
perfezione volendosi perfezionare, e quindi alterandosi e
guastandosi. Osserviamo l’uomo primitivo, il bambino, e
proporzionatamente l’ignorante, e vedremo quanto essi o
sappiano di quello che noi abbiamo scoperto; o credano di quello
che noi non crediamo più, ma dovevamo credere, e avrebbe
servito ai nostri bisogni veramente.

Secondo Bandini, Leopardi rimpiange la facoltà


dell’immaginazione, assai fervida negli antichi, e nei moderni
ormai perduta, eccetto che nei fanciulli: “mentre la visione
della primavera ne suscita il fervido ricordo [della facoltà
dell’immaginazione], c’è quasi un dubbio del poeta sul
definitivo tramonto della stupenda illusione, un desiderio di
riacquistare, attraverso l’esperienza poetica, una favilla di
quell’antica sentimento”25.

25G. Leopardi, Canti, introduzione, note e commento cura di F. Bandini,


Garzanti, 2015, p. 69.

35
Ultimo canto di Saffo

Composta nel maggio 1822, questa canzone riprende


alcune tematiche del Bruto minore in modo più placido eppure
non meno drammatico. È una delle più intense e belle di
Leopardi, sia dal punto di vista della materia poetica sia per
l’uso sapiente della versificazione. Come scrive l’autore
nell’Annuncio alle Canzoni, uscito nel “Nuovo Ricoglitore” del
1825, la poesia: “intende di rappresentare l’infelicità di un
animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un
corpo brutto e giovane”.
L’Ultimo canto di Saffo contiene un riferimento
autobiografico: nella lettera del 2 marzo 1818 a Pietro
Giordani, Giacomo scrive:

mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la


vita, e rendutomi l’aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta
quella gran parte dell’uomo, che è la sola a cui guardano i più; e
coi più bisogna conversare in questo mondo: e non solamente i
più, ma chicchessia è costretto a desiderare che la virtù non sia
senza qualche ornamento esteriore, e trovandonela nuda affatto,
s’attrista, e per forza di natura che nessuna sapienza può vincere,
quasi non ha coraggio d’amare quel virtuoso in cui niente è bello
fuorché l’anima26.

Nella prima strofa c’è una descrizione d’ambiente,


condotta con stilemi idillici e versi delicati, raffigurante l’alba
e la luna che tramonta: “Placida notte, e verecondo raggio/
della cadente luna; e tu che spunti fra la tacita selva in su la
rupe, / nunzio del giorno” (vv. 1-4). Il resto della strofa
riproduce invece un paesaggio mitologico, che ha in sé
qualcosa di selvaggio (nell’annuncio del temporale), nel quale i

26Cfr. la lettera scritta al fratello Carlo, a fine luglio 1819, al momento della
fuga (poi fallita) da Recanati.

36
giovani eroi di questa epoca, tra cui Saffo, spendono il loro
tempo. La poetessa usa il pronome “noi” per rimarcare la sua
appartenenza alla schiera di giovani. Ma la sola e infelice
protagonista della canzone è lei, che subito afferma che
“ignote mi fur l’erinni e il fato” (v. 5), tratteggiando in un
verso rapido ed eloquente la sua infelicità, descrivendola come
una condizione decisa per lei dal fato sin dalla nascita.
Nella seconda strofa si comprende in modo più chiaro
l’amaro destino di Saffo. La poetessa infatti contrappone la
sua bruttezza al fascino della natura, che è bella anche quando
è distruttrice27. Ella supplica la natura di donarle bellezza, ma
invano: a Saffo le spiagge non sorridono, né il sole al mattino
la bacia, né gli uccelli cantano per lei, e l’erba e i salici
sembrano scostarsi al passaggio del suo “lubrico piè” (v. 34):

Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella


sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
infinita beltà parte nessuna
alla misera Saffo i numi e l’empia
sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
vile, o natura, e grave ospite addetta,
e dispregiata amante, alle vezzose
tue forme il core e le pupille invano
supplichevole intendo. A me non ride
l’aprico margo, e dall’eterea porta
il mattutino albor; me non il canto
de’ colorati augelli, e non de’ faggi
il murmure saluta: e dove all’ombra
degl’inchinati salici dispiega

27 Cfr. Zibaldone, p. 2118, nota del 18 novembre 1821: “Piace l’essere


spettatore di cose vigorose ec. ec. non solo relative agli uomini ma comunque.
Il tuono, la tempesta, la grandine, il vento gagliardo, veduto o udito, e i suoi
effetti ec. Ogni sensazione viva porta seco nell’uomo una vena di piacere,
quantunque ella sia per se stessa dispiacevole, o come formidabile, o come
dolorosa ec.”

37
candido rivo il puro seno, al mio
lubrico piè le flessuose linfe
disdegnando sottragge,
e preme in fuga l’odorate spiagge (vv. 19-36).

Nella terza strofa la poesia tocca probabilmente i vertici


dal punto di vista della bellezza artistica; questa strofa
possiede una tensione poetica uniforme e nobile, che si
sostanzia nei lamenti che Saffo innalza al cielo e nella capacità
di rappresentare la l’infelicità della donna non come
un’esperienza personale, bensì come un destino amaro che
abbraccia l’intera specie umana. È interessante seguire il
passaggio dalla considerazione dell’infelicità personale a quella
universale. Si tratta di una consapevolezza progressiva che di
certo ricalca il percorso che Leopardi aveva compiuto. Nei vv.
37-44 il lamento di Saffo riguarda ancora la sua sfortunata
condizione individuale: ella si domanda perché soffra tanto,
per quale colpa o mancanza commessa da bambina il suo
destino si sia rivelato così amaro:

Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso


macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
di misfatto è la vita, onde poi scemo
di giovanezza, e disfiorato, al fuso
dell’indomita Parca si volvesse
il ferrigno mio stame? (vv. 37-44).

Tuttavia, successivamente, attraverso la riflessione e una


più affinata conoscenza del mondo e degli uomini, Saffo
comprende che l’infelicità è una condizione che riguarda
l’intera specie umana. Testimonianza di questa più ampia
consapevolezza è il celeberrimo verso: “Arcano è tutto,/ fuor
che il nostro dolor” (vv. 46-47). L’acquisizione della coscienza

38
che la sofferenza coinvolge tutta l’umanità è una conquista
fondamentale per Saffo. L’umanità dunque è una “negletta
prole” nata “al pianto”, e né gli dei, né la natura paiono
curarsi della sua sofferenza. Il padre Giove ha donato a Saffo
grandi virtù ma un “disadorno ammanto”, ossia un corpo
senza bellezza, tradendo le sue speranze giovanili e
condannandola a un destino senza gioia, dal momento che una
virtù senza ornamento esteriore non colpisce quasi mai gli
animi altrui.
Il destino tragico dell’eroina appare qui in tutta la sua
crudezza: in un animo nobile, colmo di virtù, l’infelicità è
maggiore perché s’accompagna a una più elevata coscienza di
sé e del mondo. Per questo la sofferenza di Saffo è più acuta:
ella non solo si rende conto della sua triste condizione di donna
che ama non riamata, ma capisce altresì che tale modo
d’essere, sebbene comune a tutti gli uomini, non viene
percepito dagli altri alla stessa maniera. Gli altri, dotati di una
minore sensibilità e profondità d’animo, soffrono meno di lei,
avendo una minor consapevolezza del loro stato. Nello
Zibaldone, alle pp. 2410-2411, si legge:

Dalla mia teoria del piacere segue che per essenza naturale e
immutabile delle cose, quanto è maggiore e più viva la forza, il
sentimento, e l’azione e attività interna dell’amor proprio, tanto
è necessariamente maggiore l’infelicità del vivente, o tanto più
difficile il conseguimento d’una tal quale felicità. Ora la forza e il
sentimento dell’amor proprio è tanto maggiore quanto è
maggiore la vita, o il sentimento vitale in ciascun essere; e
specialmente quanto è maggiore la vita interna, ossia l’attività
dell’anima, cioè della sostanza sensitiva, e concettiva (2 maggio
1822).

L’ultima strofa della canzone inizia in modo alto. Quel


“Morremo” seguito dal punto è solenne, ponendosi come
ineluttabile destino per qualsiasi uomo, bello e felice (se mai

39
esiste) o brutto e infelice. E Saffo augura a colui che non
l’amò, ossia a Faone, di essere felice: “se felice in terra/ visse
nato mortal” (vv. 61-62). Lei non ha potuto mai godere della
felicità perché le illusioni della sua fanciullezza sono state
presto tradite. I giorni lieti della giovinezza, dice Leopardi
esprimendo un concetto che tornerà in altre poesie, passano in
fretta, portano via con sé le illusioni. Gli ultimi sei versi (vv.
66-71), in poche battute, raffigurano con forza e immediatezza
l’inesorabile correre del tempo, la malattia, il decadimento, la
vecchiaia cui va incontro ogni corpo, fino a giungere nel
Tartaro, alla morte:

Morremo. Il velo indegno a terra sparto,


rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
e il crudo fallo emenderà del cieco
dispensator de’ casi. E tu cui lungo
amore indarno, e lunga fede, e vano
d’implacato desio furor mi strinse,
vivi felice, se felice in terra
visse nato mortal. Me non asperse
del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perìr gl’inganni e il sogno
della mia fanciullezza. Ogni più lieto
giorno di nostra età primo s’invola.
sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
della gelida morte. Ecco di tante
sperate palme e dilettosi errori,
il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno
han la tenaria Diva,
e l’atra notte, e la silente riva (vv. 55-72).

A proposito dell’accenno al Tartaro, scrive Leopardi in


una nota a margine alla poesia: “queste tante speranze e questi
errori così piacevoli si vanno a risolvere nella morte: di tanta
speranza, e di tanti amabili errori, non esce, non risulta, non si
realizza altro che la morte”. In conclusione, si può affermare

40
che la “protesta” di Saffo è svolta in modo più delicato e tenue
rispetto a quanto accade nel Bruto minore, laddove si trattava
di un lamento per la fine di una grande civiltà; qui Saffo
suggerisce con delicatezza e rassegnazione che la natura è
indifferente ai destini umani:

la spinta protestataria, antiprovvidenzialistica, atea (o


meglio quasi teistica) violentemente impostata nel Bruto minore,
ben riaffiora nell’Ultimo canto di Saffo e la stessa eccezionalità
enorme del suo caso tanto più intimo e astorico (valido dunque
anche nel pieno delle età antiche e naturali prima della loro
caduta e dell’intervento della ragione corruttrice), la stessa
delicatezza più indifesa del personaggio femminile e ricco di
tensione affettuosa, permettono una più profonda e intensa
corrosione del significato della natura madre benevola, anche se
quel caso potrebbe ancora apparire come uno di quegli
‘inconvenienti necessari28.

I toni aspri, amari, senza speranza di Bruto lasciano il


posto a un lamento che si disfa nello struggimento, nella
sofferenza quasi rassegnata, amarissima, tanto che l’atto finale
del suicidio non appare un gesto di protesta, bensì un atto di
arrendevole sofferenza e muto dolore: “Il tormento della
deformità fisica connota Saffo di scoperti riflessi
autobiografici: dal ‘disadorno ammanto’ non deriva … il
pessimismo del poeta, ma egli ne ha saputo trarre nondimeno
un lucido spiraglio sulla tragicità del reale”29.

28 W. Binni, Leopardi. Scritti 1964-1967, cit., p. 78.


29 G. Tellini, Leopardi, cit., p. 128.

41
Il primo amore

Composta tra il 15 e il 16 dicembre 1817, è la prima


poesia d’amore scritta da Giacomo. Essa nasce in seguito
all’incontro con la cugina Gertrude Cassi (1797-1858), che
soggiornò con il marito a Recanati dall’11 al 14 dicembre 1817.
Verso la donna Leopardi avvertì un sentimento forte, mai
sperimentato prima, assimilabile all’amore.
Questo è il motivo che lo spinse a vergare, nella lettera a
Pietro Giordani del 22 dicembre 1817, tali parole: “mi è
accaduto per la prima volta in vita mia di essere alcuni giorni
per cagione non del corpo ma dell’animo incapace e
noncurante degli studi in questa mia solitudine”. E in una
lettera del 16 gennaio 1818, diretta sempre al Giordani, si
legge: “Ha sentito qualche cosa questo mio cuore per la quale
mi par pure ch’egli sia nobile […] chè posso ben io farmi
glorioso presso me stesso, avendo ogni cosa in me”. L’incontro
rivelò a Giacomo la forza del sentimento amoroso, spingendolo
ad analizzare, con un’acutezza sorprendente vista la giovane
età e l’inesperienza in materia, tutte le evoluzioni e le
sfaccettature di tale passione.
Pochi giorni dopo la partenza della cugina, Giacomo
compose il Diario del primo amore, nel quale racconta in questo
modo il sorgere della passione:

io mi sentiva il cuore molto molle e tenero, e alla cena


osservando gli atti e i discorsi della Signora, mi piacquero assai, e
mi ammollirono sempre più; e insomma la Signora mi premeva
molto: la quale nell’uscire capii che sarebbe partita l’indomani,
nè io l’avrei riveduta. Mi posi in letto considerando i sentimenti
del mio cuore, che in sostanza erano inquietudine istintiva,
scontento, malinconia, qualche dolcezza, molto affetto, e
desiderio non sapeva nè so di che, nè anche fra le cose possibili
vedo niente che mi possa appagare. Mi pasceva della memoria

42
continua e vivissima della sera e dei giorni avanti, e così vegliai
sino al tardissimo e addormentatomi, sognai sempre come un
febbricitante, le carte il giuoco la Signora…30.

Leopardi rivela una propensione forte, eccessiva,


all’auto-analisi, allo scavo dentro di sé, all’esplorazioni dei
recessi più nascosti della propria anima. Egli, dopo la partenza
della cugina, scrive Pietro Citati,

conobbe tutte le potenzialità dell’amore. L’amore è una cosa


terribile, una cosa amarissima, una passione sovrana: non sta, come
crediamo, dentro il nostro cuore, che lo accoglie come un ospite; ma
è una forza esterna, che irrompe violentemente in noi, si
impadronisce della nostra mente e la possiede, senza lasciare
nemmeno un angolo libero31.

Nel Diario e nella poesia il tema dominante è quello della


difficoltà d’amare ed essere amato, come si evince da quel che
si legge nella prima pagina del Diario:

Se questo è amore, che io non so, questa è la prima volta


che io lo provo in età da farci sopra qualche considerazione; ed
eccomi di diciannove anni e mezzo, innamorato. E veggo bene
che l’amore dev’esser cosa amarissima, e che io purtroppo (dico
dell’amor tenero e sentimentale) ne sarò sempre schiavo.

Al di là di tutte le sottili analisi del sentimento, quel che


Leopardi ha ben presente, sin dall’inizio, è che l’amore è e sarà
per lui fonte d’infelicità e di insoddisfazione, ma anche, per

30 Nota Walter Binni: “Sono pagine di singolare finezza e mostrano uno


scrittore capace di una estrema lucidità e sensibilità nel cogliere e rendere la
complessa, ambigua genesi di un sentimento, le sfumature della vicenda e dei
suoi riflessi nell’animo del protagonista, le sottili gradazioni del passaggio dalla
fredda contemplazione della bellezza, all’inquietudine e alla scontentezza”
(Cfr. Leopardi. Scritti 1964-1969, cit., p. 63).
31 P. Citati, Leopardi, Mondadori, 2010, p. 123.

43
altri aspetti, possibilità di una maggiore conoscenza di sé:
“l’amore, vissuto come occasione per assimilare impressioni su
se stesso, come contemplazione dilungata su quel ‘caro dolore’
lentamente svaporato, passione cui manca la fiamma per
essere sostenuta e così perde il suo primitivo vigore” 32.
La poesia Il primo amore è vivificata da suggestioni
petrarchesche sin dall’incipit (cfr. Petrarca, Rime,
CCCXXXVI, 1), sia nella forma metrica, sia nell’uso delle
espressioni per descrivere il travaglio d’amore. Essa dimostra
che, in età giovanissima, Leopardi ha già stabilito il legame tra
amore e sofferenza, connesso a sua volta all’idea dell’amore
come sentimento irraggiungibile nella sua pienezza. Nella
poesia Leopardi è in grado di descrivere con dovizia di
particolari la gamma delle sofferenze d’amore: l’atteggiamento
dell’amante che non ha coraggio di guardare la donna amata
(“Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi,/ io mirava colei
ch’a questo core / primiera il varco ed innocente aprissi”, vv.
4-6), il desiderio e il dolore causati dal sentimento (“Perchè
seco dovea sì dolce affetto / recar tanto desio, tanto dolore? /
e non sereno, e non intero e schietto, / anzi pien di travaglio e
di lamento / al cor mi discendea tanto diletto?”, vv. 8-12); il
travaglio notturno, l’insonnia, la sofferenza, fisica e spirituale
assieme, come esperienza totalizzante:

Tu inquieto, e felice e miserando,


m’affaticavi in su le piume il fianco,
ad ogni or fortemente palpitando.
E dove io tristo ed affannato e stanco
gli occhi al sonno chiudea, come per febre
rotto e deliro il sonno venia manco.
Oh come viva in mezzo alle tenebre
sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi

32 R. Minore, Leopardi. L’infanzia, le città, gli amori, Bompiani 1999 e 2015, p.

170.

44
la contemplavan sotto alle palpebre!
Oh come soavissimi diffusi
moti per l’ossa mi serpeano, oh come
mille nell’alma instabili, confusi
pensieri si volgean! qual tra le chiome
d’antica selva zefiro scorrendo,
un lungo, incerto mormorar ne prome (vv. 19-33).

Più avanti, la poesia rievoca il momento del distacco, la


partenza della carrozza della donna, che coincide con la sua
perdita definitiva, soffermandosi poi sull’amarezza del ricordo,
perché è il ricordo di un sentimento non corrisposto o
comunque irrealizzabile, e sulla sofferenza dell’amante deluso
che spregia ogni altro piacere o interesse, compreso lo studio,
un tempo amatissimo. Esempio primario di questa sofferenza
d’amore è proprio il disinteresse per gli studi, fino a quel
momento unico vero diletto di Giacomo:

Ned io ti conoscea, garzon di nove


e nove Soli, in questo a pianger nato
quando facevi, amor, le prime prove.
Quando in ispregio ogni piacer, nè grato
m’era degli astri il riso, o dell’aurora
queta il silenzio, o il verdeggiar del prato.
anche di gloria amor taceami allora
nel petto, cui scaldar tanto solea,
che di beltade amor vi fea dimora.
nè gli occhi ai noti studi io rivolgea,
e quelli m’apparian vani per cui
vano ogni altro desir creduto avea.
Deh come mai da me sì vario fui,
e tanto amor mi tolse un altro amore?
Deh quanto, in verità, vani siam nui!
solo il mio cor piaceami, e col mio core
in un perenne ragionar sepolto,

45
alla guardia seder del mio dolore (vv. 67-84).

L’epilogo della poesia racconta che il piacere d’amare si


trasforma in “veleno” e che il rimpianto per un amore
“incontaminato e puro” si unisce alla tristezza per i giorni che
sono passati senza che quel piacere fosse goduto. In linea con
una tradizione trecentesca, Leopardi sostiene che l’amore è un
sentimento puro e nobilitante, che non si deve mischiare con
pulsioni “basse”, e che si nutre dell’immagine angelicata della
donna amata:

Vive quel fuoco ancor, vive l’affetto


spira nel pensier mio la bella imago,
da cui, se non celeste, altro diletto
giammai non ebbi, e sol di lei m’appago (vv. 100-103).
Nel Diario del primo amore si legge in proposito questa
definizione molto alta dell’amore provato per la cugina: “puro
e platonico ed eccessivamente e stranissimamente schivo
d’ogni menomissima ombra d’immondezza”.
In questa poesia l’amore possiede già le connotazioni
negative che avrà in componimenti più maturi, nonché nelle
pagine dello Zibaldone. Tuttavia, nell’immobilità della sua
esistenza di ragazzo diciannovenne recluso e isolato a
Recanati, l’incontro con la cugina fu per Giacomo una piccola
scossa positiva, perché, al fondo, la malinconia d’amore è un
sentimento attivo, “dolce”, e non è paragonabile alla
malinconia tetra dovuta alla noia, vero spettro della vita di
Giacomo. Le malinconie dolci sono “da distinguere da quelle
che producono noia, e [Leopardi] parla di afflizione per ben
altre cose ‘che per le infermità’, di liberazione della ‘noia’, di
noncuranza per la propria ‘solitudine’”33.

33R. Urraro, “Questa maledetta vita”. Il romanzo autobiografico di Giacomo


Leopardi, Olschki, Firenze 2015, p. 33.

46
Il passero solitario

Il componimento apparve nel 1835 nell’edizione


napoletana dei Canti e venne posto quale primo degli Idilli
scritti nel 1819. Tuttavia non v’è certezza sulla data di
composizione, dal momento che “il metro della canzone a
strofe libere lo colloca … accanto ai grandi Idilli composti tra
il 1828 e il 1830”34. In effetti, sia per ragioni stilistiche che di
contenuto, Il passero solitario quasi certamente appartiene al
periodo lieto del soggiorno pisano (quello di A Silvia,
composta nel 1828). Può essere dunque che la poesia sia stata
vergata in un primo tempo attorno al 1819 e che poi sia stata
rimaneggiata negli anni:

Questa elaborazione laboriosa, molto verosimilmente lunga


e ripresa a distanza di tempo, sembra convalidare la genesi non
facile della poesia. Che […] da un lato imposta in modo parziale e
unilaterale la situazione leopardiana a Recanati e dall’altro lato
pur pertiene senza dubbio alla zona pisano-recanatese, sia per
l’uso del criterio della doppia vista (il passero che suggerisce la
situazione del poeta) sia in particolare per la dolce malinconia che
vi è trasfusa35.

Un passo dello Zibaldone, datato 2 dicembre 1828, tratta


un tema assai affine a quello della poesia: “Sempre mi
desteranno dolore quelle parole che soleva dirmi l’Olimpia
Basvecchi riprendendomi del mio modo di passare i giorni
della gioventù, in casa, senza vedere alcuno: che gioventù! che
maniera di passare cotesti anni! Ed io concepiva intimamente
e perfettamente anche allora tutta la ragionevolezza di queste

34 Per le questioni relative alla datazione della poesia cfr. W. Binni, Scritti
leopardiani 1964-1969, cit., pp. 409-410 nonché l’introduzione al canto curata
da F. Bandini, nella già citata edizione dei Canti, pp. 109-110.
35 W. Binni, Scritti leopardiani 1964-1969, cit., p. 410.

47
parole. Credo però nondimeno che non vi sia giovane,
qualunque maniera di vita egli meni, che pensando al suo
modo di passar quegli anni, non sia per dire a se medesimo
quelle stesse parole” (p. 4422).
A differenza delle canzoni, gli idilli scritti nei primi anni
mostrano una diversa cifra stilistica e tematica. Gli argomenti
degli idilli sono infatti più intimi e personali, e vengono
affrontati attraverso l’uso di un linguaggio poetico meno
arcaicizzante e solenne, in genere privo di metafore ardite ed
oscure. Il testo degli idilli è più scorrevole e leggibile, mentre
nelle canzoni predomina l’ipotassi, la subordinazione delle
proposizioni, talvolta a discapito della agilità di lettura. Questi
caratteri sono invece più sfumati ne Il passero solitario, il quale
presenta una raffinatezza di meditazioni e una maturità
poetica che lo rendono affine ai grandi idilli composti tra il
1828 e il 1830.
Il passero solitario è una che istituisce un confronto tra
l’animo schivo e solitario del poeta e l’atteggiamento del
passero che non partecipa ai “giochi” e ai “canti” dei suoi
simili, preferendo starsene in disparte: “D’in su la vetta della
torre antica” (v. 1). In questo verso vi è un’eco petrarchesca, si
vedano i versi: “Passer mai solitario in alcun tetto / non fu
quant’io”, Rime, CCXXVI, vv. 1-2, nei quali l’autore toscano
accennava sia alla somiglianza tra il poeta e il passero sia alla
loro differenza. Inoltre, nell’Elogio degli uccelli, Leopardi,
riprendendo idee del naturalista francese Buffon, nota che il
canto degli uccelli dona gioia a chi l’ascolta: “sapientemente
[la natura] operò che la terra e l’aria fossero sparse di animali
che tutto dì, mettendo voci di gioia risonanti e solenni, quasi
applaudissero alla vita universale, e incitassero gli altri viventi
ad allegrezza, facendo continue testimonianze, ancorché false,
della felicità delle cose”. Il mondo allegro e spensierato degli
uccelli rappresenta, per Leopardi, la natura nella sua forma
incontaminata e allegra:

48
Nell’orrore del mondo e nel male che impregna le cose che
sono, c’era l’eccezione: il regno degli uccelli. Lì c’era felicità,
gioia, riso, volo, leggerezza, velocità, vita, sguardo: il suo dovere
di scrittore era quello di esplorare anche questa eccezione, di
raccontarla e portarla alla luce. Nessuno aveva stabilito che egli
fosse, per decreto divino, pessimista e materialista. Nessuno
poteva soffocare in lui la forza irresistibile del riso e della
leggerezza36.

Nella poesia il passero osserva il mondo circostante che


vive e si muove; mentre gli altri uccelli godono della bellezza
della natura, “festeggiando il lor tempo migliore”, il passero
sta in disparte, riflessivo e pensoso, come fa il giovane poeta:
“tu pensoso in disparte il tutto miri;/ non compagni, non voli,
/ non ti cal d’allegria, schivi gli spassi: canti, e così trapassi /
dell’anno e di tua vita il più bel fiore” (vv. 12-16).
Nella seconda strofa il paragone tra l’atteggiamento del
passero e il poeta, già implicito nei versi precedenti, viene alla
luce in maniera palese. Leopardi infatti si rivede
nell’atteggiamento dell’uccello, che definisce “german di
giovinezza” (v. 20), ossia fratello; anch’egli poco avvezzo al
“sollazzo e riso”, amante della vita solitaria, condannato a
sentirsi “strano / al mio loco natio” (vv. 24-25). Come il
passero, dunque, egli non gode della bellezza della primavera e
dei giochi, dei canti, della vicinanza dei suoi compagni. Mentre
tutta Recanati è in festa, e i giovani lasciano le case per andare
a divertirsi, il poeta rimane “solitario in questa / rimota parte
della campagna” (vv. 36-37), evitando ogni “diletto e gioco”,
dedicandosi ad altre occupazioni, mentre il giorno che
tramonta è metafora della gioventù “beata” che si dilegua. Si
tratta di un momento “alto” della poesia, come scrive Binni:
“tra i passi più alti di questa poesia, l’immagine del tramonto

36 P. Citati, Leopardi, cit., pp. 269-270.

49
costruita secondo il procedimento della doppia vista che
ritrova nel dileguarsi luminoso e malinconico del sole il venir
meno della giovinezza”37.

Tutta vestita a festa


la gioventù del loco
lascia le case, e per le vie si spande;
e mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
Io solitario in questa
rimota parte alla campagna uscendo,
ogni diletto e gioco
indugio in altro tempo: e intanto il guardo
steso nell’aria aprica
mi fere il Sol che tra lontani monti,
dopo il giorno sereno,
cadendo si dilegua, e par che dica
che la beata gioventù vien meno (vv. 32-44).

La terza strofa parla con amarezza di quanto sia triste il


destino umano, che è comune a quello degli altri animali (ossia
l’invecchiamento e la morte), ma che, nell’essere umano, è più
crudo perché accompagnato dalla consapevolezza del
deperimento e della fine di ogni cosa. Questo tema tornerà nel
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, mentre, a
proposito della decadenza dell’individuo, Leopardi scriverà
queste parole nello Zibaldone il 1 luglio 1827: “È ben trista
quella età nella quale l’uomo sente di non ispirar più nulla. Il
gran desiderio dell’uomo, il gran mobile de’ suoi atti, delle sue
parole, de’ suoi sguardi, de’ suoi contegni fino alla vecchiezza,
è il desiderio d’ispirare, di communicar qualche cosa di se agli
spettatori o uditori” (p. 4284).

37 W. Binni, Scritti leopardiani 1964-1969, cit., p. 413.

50
Tu, solingo augellin, venuto a sera
del viver che daranno a te le stelle,
certo del tuo costume
non ti dorrai; che di natura è frutto
ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro,
quando muti questi occhi all’altrui core,
e lor fia vóto il mondo, e il dì futuro
del dì presente più noioso e tetro,
che parrà di tal voglia?
Che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro (vv. 45-59).

L’uomo ha ben presente l’amarezza del proprio destino, a


differenza degli altri animali, che soffrono senza rendersene
conto. Leopardi ha la consapevolezza che invecchierà e che
s’accrescerà il rimpianto per non aver goduto la giovinezza.
Egli sa che, invecchiando, il mondo per lui diverrà privo di
attrattive, ancor più desolato di quanto sia stato il presente
(chiaro il senso dei termini “noioso” e “tetro”); e per questo si
domanda cosa rimarrà di sé, sapendo comunque che si pentirà
di non aver vissuto intensamente. Allora, forse, si volgerà
indietro, ma invano, a contemplare un’età spensierata che non
c’è più e che è passata in un lampo senza quasi lasciare tracce.
Soffrirà come coloro che non hanno pienamente goduto la
propria giovinezza:

vivono e muoiono disperati e infelici, tanto più quanto e’


credono felici gli altri, e che la loro infelicità, il lor soffrire, il loro
non godere, o il non aver mai goduto e sempre sofferto, sia
provenuto da loro, e ch’essi avessero potuto altrimenti se
avessero voluto; la quale opinione e il qual pentimento è la più

51
amara parte che possa trovarsi in qualunque abituale o attuale
infelicità o sventura o privazione ec. e il colmo dell’infelicità
(Zibaldone, p. 3841, 5 novembre 1823).

52
L’infinito
Il più celebre degli Idilli leopardiani venne composto a
Recanati quasi sicuramente nel settembre 1819, alla
conclusione di un periodo assai travagliato per il poeta,
culminato nel fallito tentativo di fuga avvenuto in estate e
nella frustrazione che seguì questo tentativo, esemplificata
dalle lettere scritte tra fine luglio e agosto 1819. La sensazione
di essere stato ingannato da chi avrebbe dovuto aiutarlo (il
padre), la coscienza della propria solitudine, dell’impossibilità
di evadere dal “carcere” di Recanati38 (così viene definita la
cittadina marchigiana in una lettera a Pietro Giordani del 27
novembre 1818), unitamente al desiderio di libertà, sono alcuni
dei motivi alla base di questo componimento mirabile per
forma e contenuto. Si tratta di una poesia che possiede una
valenza poetica assai più alta delle altre composte da
Leopardi: in quel periodo “tutto concorre a dare l’impressione
che L’infinito sia sorto imprevedibilmente da un altrove della
parola, che sia emerso ad un tratto dall’oscura maturazione
poetica dell’adolescenza, come riconoscimento di una voce e,
altrettanto radicalmente, estranea”39.
Il 1819, oltre a essere un anno di travagli sia morali che
fisici (tra cui la comparsa di una malattia agli occhi che negli
anni a venire angustierà sovente Giacomo), è altresì l’anno
della cosiddetta “conversione filosofica”, ovvero del passaggio
dalla rappresentazione del “bello” al “vero”, come si legge in
un passo dello Zibaldone del 1 luglio 1820:

38 Per la ricostruzione del tentativo di fuga, si leggano, oltre alle lettere al


fratello Carlo del 26 luglio 1819 e al padre Monaldo dello stesso giorno (lettera
mai recapitata e resa pubblica nel 1878 dalla seconda moglie di Carlo), le
missive scritte a Saverio Broglio d’Ajano (legato pontificio a Macerata a cui
Giacomo s’era rivolto per ottenere il passaporto) dell’agosto successivo. Cfr. R.
Urraro, “Questa maledetta vita”. Il romanzo autobiografico di Giacomo Leopardi,
cit., pp. 65-67.
39 M. Orcel, Il suono dell’Infinito, Liguori Editore, Napoli 1993, p. 131.

53
La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico
al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819, dove
privato dell’uso della vista, e della continua distrazione della
lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più
tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere
profondamente sopra le cose (in questi pensieri ho scritto in un
anno il doppio quasi di quello che avea scritto in un anno e
mezzo, e sopra materie appartenenti sopra tutto alla nostra
natura, a differenza dei pensieri passati, quasi tutti di
letteratura), a divenir filosofo di professione (di poeta ch’io era),
a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e
questo anche per uno stato di languore corporale, che tanto più
mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni.

Come scrive Gino Tellini: “La rivelazione del ‘vero’, e


della vita come null’altro che dolore, fu un’autentica crisi di
disperazione (prossima al suicidio), resa più acuta da un grave
esaurimento fisico nella primavera del 1819, con forte
indebolimento della vista, e poi dal fallito tentativo di fuga da
casa”40. Secondo W. Binni:

Il giovane reagiva così alla sua forzata solitudine e alla


frustrazione pratica dei suoi intensi desideri di vita con questi
‘piaceri dell’immaginazione’, con questa ricca e acutissima vita
della sensibilità, proiezione concreta della sua maturante idea del
valore delle illusioni riportate dall’ambito eroico e pubblico entro
una più privata forma di compenso della sensibilità ‘poetica’ e
cioè etimologicamente creatrice di sensibili piaceri del cuore e
della mente, coinvolti in una prospettiva di alto edonismo e
basati su di una sottile ed acutissima esplorazione della realtà e
dei suoi riverberi e sviluppi fantastici e sentimentali41.

40 G. Tellini, Leopardi, cit., p. 29.


41 W. Binni, Scritti leopardiani 1969-1997, Il Ponte, Firenze 1998, p. 50.

54
Alla base de L’infinito c’è una duplice ispirazione. Una
puramente poetica, nutrita da un’immaginazione molto
sviluppata e dalla sete di indefinitezza, l’altra più filosofica,
connessa a considerazioni, peraltro molto attuali, sulla “teoria
del piacere” e sul ruolo dell’immaginazione stessa. Alcuni passi
dello Zibaldone, in particolare quelli delle pp. 165-66 sulla
teoria del piacere e quelli della p. 171 sul ruolo
dell’immaginazione, possono essere considerati affini alla
tematica trattata in questo idillio. Queste pagine sono state
scritte nel luglio 1820, e rappresentano un affinamento e una
esplicazione filosofica delle idee alla base de L’infinito. È come
se nella poesia Leopardi avesse dato un assaggio delle idee che
stava maturando in quel periodo e che avrebbe chiarito a se
stesso nei mesi successivi.
A fondamento della poesia, in primo luogo, vi è il
desiderio dell’infinito che nasce, nell’uomo, della sua innata
tendenza a ricercare un piacere e una felicità che non può
raggiungere:
Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza
di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso
un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione
semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e
così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e
mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla
felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo
desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o
congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o
quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina
colla vita. E non ha limiti 1. nè per durata, 2. nè per estensione42.

42Zibaldone, p. 141: “Il dolore o la disperazione che nasce dalle grandi passioni
e illusioni o da qualunque sventura della vita, non è paragonabile
all’affogamento che nasce dalla certezza e dal sentimento vivo della nullità di
tutte le cose, e della impossibilità di esser felice a questo mondo, e dalla
immensità del vuoto che si sente nell’anima. Le sventure o d’immaginazione o
reali, potranno anche indurre il desiderio della morte, o anche far morire, ma

55
Non si tratta solo di una privazione di piacere, bensì
dello scarto tra piacere e dolore: “non è dunque la privazione
… a costituire la condizione del rapporto tra piacere e dolore:
il dolore è iscritto nella condizione stessa del piacere. Una
condizione nella quale il piacere non può mai fare esperienza di
se stesso, della sua ‘pienezza’, e si scopre sempre in scarto con il
desiderio”43.
In secondo luogo, come a supplire a questo impedimento
al raggiungimento della felicità, impossibilità che la ragione
mostra chiaramente, esiste nell’anima la facoltà
dell’immaginazione, che è per essenza illimitata ed estesa
all’infinito:
La cagione è la stessa [dello sviluppo dell’immaginazione],
cioè il desiderio dell’infinito, perchè allora in luogo della vista,
lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima
s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe,
quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio
immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si
estendesse da per tutto, perchè il reale escluderebbe
l’immaginario. Quindi il piacere ch’io provava sempre da
fanciullo, e anche ora nel vedere il cielo ec. attraverso una
finestra, una porta, una casa passatoia, come chiamano. Al
contrario la vastità e moltiplicità delle sensazioni diletta
moltissimo l’anima. Ne deducono ch’ella è nata per il grande ec.
Non è questa la ragione. Ma proviene da ciò, che la moltiplicità
delle sensazioni, confonde l’anima, gl’impedisce di vedere i

quel dolore ha più della vita, anzi, massimamente se proviene da


immaginazione e passione, è pieno di vita, e quest’altro dolore ch’io dico è
tutto morte; e quella medesima morte prodotta immediatamente dalle sventure
è cosa più viva, laddove quest’altra è più sepolcrale, senz’azione senza
movimento senza calore, e quasi senza dolore, ma piuttosto con un’oppressione
smisurata e un accoramento simile a quello che deriva dalla paura degli spettri
nella fanciullezza o dal pensiero dell’inferno” (27 giugno 1820).
43 A. Prete, Il pensiero poetante. Saggi su Leopardi, Feltrinelli, Milano 1996, p.

19.

56
confini di ciascheduna, toglie l’esaurimento subitaneo del piacere,
la fa errare d’un piacere in un altro senza poterne approfondare
nessuno, e quindi si rassomiglia in certo modo a un piacere
infinito.

“Questa pagina è una sussunzione concettuale della


situazione già rappresentata nella lirica in forma evocativa e
narrativa: il tema della ‘veduta ristretta’ è offerto come uno
dei corollari particolari della ‘teoria del piacere’. E si noti che
anche qui la situazione è presentata entro una serie di altre
possibili (‘quell’albero, quella siepe, quella torre’)”44.
La poesia è breve, oltre che assai nota. È scritta in
endecasillabi sciolti. È un componimento dotato di
compattezza e unità, e testimonia non solo l’elevatezza
dell’ispirazione che ha mosso Leopardi, ma anche la
competenza poetica che, a ventuno anni, egli aveva raggiunto.

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,


e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo’ comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare. (vv. 1-15)

44L. Blasucci, Quattro modi di approccio allo “Zibaldone”, in: I tempi dei
“Canti”. Nuovi studi leopardiani, cit., p. 234.

57
L’incipit tratteggia una situazione spaziale definita: il
colle Tabor a Recanati, presso il quale Giacomo si recava di
frequente: ecco perché il poeta usa l’avverbio “sempre”. Il
colle è quindi “caro” al poeta, familiare, ed è “ermo”, ossia
solitario, perciò adatto a uno spirito appartato e riflessivo. La
siepe che chiude l’orizzonte è un simbolo della reclusione nel
carcere di Recanati. La siepe è un ostacolo reale, chiudendo la
vista dell’orizzonte e spingendo lo sguardo del poeta oltre lei,
ma è anche un ostacolo simbolico, perché diviene vestigia di
quel che non permette a Giacomo di abbandonare Recanati.
Egli non ama il luogo natio: vorrebbe abbandonarlo per
osservare il mondo, conoscere i letterati con cui è in contatto
epistolare e poter, almeno nella sua immaginazione, soddisfare
il desiderio di gloria.
Si tratta di temi ampiamente trattati nelle lettere degli
anni 1817-1819, in particolare in quelle scambiate con Pietro
Giordani. Se in estate il tentativo di fuga era stato vanificato
con il raggiro, ora, nella finzione poetica, nulla può opporsi alla
mente libera del poeta che è in grado, grazie
all’immaginazione, di superare qualunque ostacolo.
Nondimeno, L’infinito non è una poesia di evasione; al
contrario, essa è intessuta di dolce sofferenza e profonde
riflessioni. Infatti, tutto quel che il poeta s’immagina oltre
quell’ostacolo che chiude l’orizzonte (gli “interminati spazi”, i
“sovrumani silenzi”, “la profondissima quiete”) non dona
sollievo alle sue angustie, dato che gli trasmette l’idea della
vastità incommensurabile del mondo. Il mondo è allora
qualcosa di indefinito, oltre che infinito, un luogo immenso
dove l’uomo può smarrirsi, perdere la propria persona, e
divenire un essere anonimo. Ecco perché il “cor si spaura” di
fronte al pensiero dell’infinito, similmente a quel che Pascal
sostiene nel pensiero 206: “Il silenzio degli spazi infiniti mi

58
sgomenta”45. Per Giacomo la brama di fuggire, finché rimane
irrealizzata, nutre la fantasia e nutre se stessa, non esaurendosi
mai; tuttavia, la prospettiva di attuare effettivamente il
proposito reca con sé sia il timore di perdersi nel mondo, sia la
consapevolezza che spesso le cose appaiono più attraenti
quando non le possediamo, dal momento che, una volta
raggiunte, possono rivelarsi deludenti e inferiori alle attese.
In questi versi si esplica una “dialettica” tra indefinito e
infinito poiché, come s’è detto, l’infinito è inconoscibile in
quanto indefinito: e l’uomo si smarrisce di fronte a esso, come
di fronte al desiderio della felicità, altro luogo irraggiungibile
eppure agognato da chi possiede una sensibilità sviluppata.

Alla facoltà conoscitiva, e alla stessa capacità


immaginativa, l’infinito è assolutamente negato. La finitezza del
mondo, la finitezza della materia, che ci esonerano da ogni seria
prospettiva religiosa, ci rendono del tutto incapaci di pensare e di
immaginare l’infinito. [L’infinito] agevolmente, incarna, in
qualche modo, la favola delle favole leopardiane, giacché descrive
l’esperienza di questo sublime e angoscioso scambio tra due
incompatibili e aliene categorie, quali sono appunto indefinitezza
e infinità46.

Lo smarrimento per la percezione dello scacco tra


indefinito e infinito non è sublimato dall’immaginazione,
intesa come facoltà che crea una realtà alternativa, consolante.
Il cuore del poeta, al contrario, s’immerge, e si nutre di questa
impossibilità conoscitiva: egli cerca di portare a termine
un’operazione ardua, proibitiva, ossia cogliere una sorta di
distillato di infinito, un’idea pura. Per questo gli spazi
“interminati” non vengono popolati da figure da sogno: egli

45 B. Pascal, Pensieri e altri scritti, a cura di G. Auletta, Mondadori, Milano


1994.
46 E. Sanguineti, Il nulla in Leopardi, ora in: Il chierico organico. Scritture e

intellettuali, Feltrinelli, Milano 2000, p. 105.

59
non intende muoversi in questo modo, perché l’infinito, come
detto, non raffigura una dimensione della realtà, benché
inattingibile; esso è una suggestione purissima e sublime, una
pura essenza, una quiddità rarefatta e quasi assoluta: “C’è
qualcosa di tremendo in questo tentativo, come se uno di noi
cercasse di immaginare Dio al di fuori di ogni parola, di ogni
tempo, di ogni eternità, di ogni numero: un punto fermo e
invisibile nel cielo”47.
Non è facile seguire questo tentativo, e il poeta stesso,
forse, se ne accorge, giacché a metà del verso ottavo egli
introduce, grazie alle parole : “E come…”, un elemento
terreno, il vento, che, materialmente, fa muovere le foglie e i
rami delle piante: “vera e propria chiave di volta dello
svolgimento della lirica, per cui il motivo dell’infinito spaziale
… trapassa in quello dell’infinito temporale”48. L’infinità
possiede al contempo una dimensione spaziale e temporale:
come Leopardi scrive nei versi successivi, il poeta si raffigura
tutte le “morte stagioni” del mondo, tutte le età passate,
persino l’eternità stessa, come qualcosa di assolutamente
indefinito e irraggiungibile, come qualcosa che attrae e
atterrisce al tempo stesso. Torna un riferimento temporale
concreto, un “qui” che interrompe il sogno dell’infinito a cui il
poeta si era abbandonato. Ma poiché la poesia è intessuta da
un continuo gioco di rimandi, subito torna nella mente del
poeta la forza della pulsione verso l’infinito, già sperimentata
prima e adesso paragonata alla voce del vento, come a voler,
disperatamente, ancorare la tensione verso l’indefinito a un
elemento terreno e naturale.
Quel che accade in seguito è quasi sorprendente: questa
comparazione apre al poeta le porte della memoria, ma a un
livello superiore rispetto alla dimensione personale. Si tratta

47 P. Citati, Leopardi, cit., p. 177.


48 L. Blasucci, I tempi dei “Canti”. Nuovi studi leopardiani, cit., p. 193.

60
infatti di una visione rarefatta (“mi sovvien”) di tutte le età
passate, perfino dell’eternità, di tutte le “stagioni” della vita
umana che un tempo furono presenti e vivide e che ora,
inevitabilmente, sono “morte”. Infine, si tratta del “suon”
della stagione in cui il poeta vive, del presente destinato presto
a scomparire anch’esso, morendo e svanendo come tutto quel
che appare al mondo. In questo modo il poeta sperimenta
un’ulteriore impossibilità: quella di poter rammentare ogni
cosa, anche le epoche che non ha vissuto, e quella di poter
rivivere realmente i suoi stessi ricordi, raffigurandoseli come
vividi. Questa cosa non può accadere: la memoria inganna, sia
perché è labile, sia poiché talvolta fa credere come realmente
esistite cose ed epoche mai vissute nel modo con cui sono
ricordate. Le età passate sono, appunto, “passate” e il poeta
non può far altro che provare una nostalgia vaga e indefinita
per cose che non ha vissuto direttamente, ma solo conosciuto
leggendo o studiando i libri. Tuttavia, a differenza di altre
poesie, non pare esserci qui dolore nella constatazione
dell’inevitabile spegnersi del proprio tempo. In questa poesia
infatti domina il tempo passato, mentre manca qualsiasi
riferimento all’avvenire.
Con echi che si potrebbero pensare tratti dai Pensieri di
Pascal, il poeta chiude il componimento descrivendo ancora
una volta il proprio smarrimento di fronte alla percezione di
questa immensità, contrapposta alla sua piccolezza in quanto
uomo. Ma non c’è amarezza in questa sensazione di
inadeguatezza: l’uomo, infatti, possiede, unico tra gli esseri
viventi, la possibilità di percepirsi piccolo e incapace di
raggiungere l’infinito. Naturalmente, questa capacità
percettiva così sviluppata è allo stesso tempo fonte di grande
infelicità, stante l’inevitabile scacco della sua ricerca del
piacere. E Leopardi ha scritto nello Zibaldone che quando in
un uomo la sensibilità è più marcata, o le facoltà intellettuali
sono più affinate, egli avvertirà con maggior forza degli altri

61
sia l’impulso verso il piacere, sia la frustrazione per la
lampante impossibilità di ottenerlo.
La celebre chiusa de L’infinito, nella sua bellezza soffusa
di pace, sembra suggerire che vi sono momenti in cui è quasi
bello, anzi “dolce” abbandonarsi alla percezione di tale
vacuità, di questo “mare” infinito, come a voler scordarsi di
tutte le sofferenze e le tristezze del momento, e naufragare
nella percezione della propria piccolezza a fronte
dell’incoscienza di stare al mondo che alberga in tutti gli altri
esseri viventi. Non è questo un abbandono mistico, nota
Bandini, bensì un lasciarsi andare tra le braccia della fantasia,
immaginando “un piacere che l’anima non possa abbracciare,
cagione vera per cui l’infinito le piace (Zibaldone, p. 180, 12-23
luglio 1820).

62
La sera del dì di festa

Questo canto venne composto con ogni probabilità nel


1820. Fino all’edizione napoletana dei canti del 1835 ebbe
come titolo La sera del dì festivo. Ancora una volta, come ne
L’infinito, una situazione ambientale e temporale particolare
(la sera che segue il giorno festivo a Recanati), diventa il
presupposto per riflessioni filosofiche e personali sui temi cari a
Leopardi in quel periodo: l’amore infelice, la volatilità del
tempo giovanile, l’irrecuperabilità dei bei giorni perduti, il
destino di sofferenza dell’uomo, il ruolo della natura. Un
accenno all’atmosfera notturna di pace, con cui la canzone
inizia, si può trovare in una lettera a Pietro Giordani del 6
marzo 1820: “poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta
la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel
raggio di luna, e sentendo un’aria tiepida e certi cani che
abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini
antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi
a gridare come un forsennato domandando misericordia alla
natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo”.
È una notta “chiara” e “senza vento”: il paesaggio è
idilliaco, quieto, e la luce della luna “di lontan rivela / serena
ogni montagna” (vv. 3-4). Ma quest’atmosfera di pace è
interrotta subito dal tema che più preme al poeta:
l’invocazione alla “donna mia” (non si sa chi sia, ma non è
necessario saperlo), che di certo in quel momento dorme
tranquilla nel suo letto, mentre il poeta, osservando la scena
notturna, avverte in sé la sofferenza dovuta a un amore
infelice, causato dalla donna, che non sa, lui le dice, “quanta
piaga m’apristi in mezzo al petto” (v. 10). È viva dunque la
contrapposizione tra l’amata che riposa serena e il tormento
che rende insonne la notte del poeta. La sofferenza d’amore è
tuttavia solo una parte della sofferenza universale dell’uomo,

63
dovuta alla natura (“l’antica natura onnipossente”) che lo
condannò a patire e a ricercare un piacere irraggiungibile:

Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno


appare in vista, a salutar m’affaccio,
e l’antica natura onnipossente,
che mi fece all’affanno. A te la speme
nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
non brillin gli occhi tuoi se non di pianto (vv. 11-16).

Si è spenta da poco l’eco dei festeggiamenti: al poeta


resta solo la malinconia poiché non ha partecipato alla festa (si
ricordino i versi de Il passero solitario), e non ha potuto parlare
con la “sua” donna, la quale, pensa egli con amarezza, sarà
piaciuta a molti; non solo, di certo, qualche giovane sarà
piaciuto a lei. Egli scrive che non spera di piacere alla ragazza
e si limita a evocarla solo col pensiero. Ma la sofferenza non
tace perché l’amore non è controllabile, e questa delusione
amorosa punge il suo cuore, che pensa allo scarso tempo che gli
rimane da vivere, e rimpiange di dover soffrire in un’età,
quella della giovinezza, dove dovrebbero prevalere l’allegria e
la spensieratezza:

… Intanto io chieggio
quanto a viver mi resti, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
in così verde etate! (vv. 24-27).

La sofferenza del poeta si stacca presto dal motivo


dell’amore impossibile per porsi su un piano più elevato:
mentre ascolta “il solitario canto / dell’artigian, che riede a
tarda notte, / dopo i sollazzi, al suo povero ostello” (vv. 27-
29), egli riflette sulla velocità con la quale il tempo fugge via.
Passarono le epoche passate, quella gloriosa dei Romani,

64
apparvero e scomparvero le grandi civiltà antiche, e di loro
rimangono labili tracce, pronte anch’esse un giorno a svanire:
“Tutto è pace e silenzio, e tutto posa / il mondo, e più di loro
non si ragiona” (vv. 38-39). Questi due versi sono amari nella
loro immediatezza, e paragonano il silenzio della notte festiva
al silenzio caduto sulle vicende, eroiche o vili, di quegli antichi
popoli. Si avverte qui un’eco delle “morte stagioni” di cui
Leopardi parla ne L’infinito, anche se allora tale espressione
era declinata in forme più vaghe. Parole simili sono espresse
nello Zibaldone, alle pp. 50-51: “Dolor mio nel sentire a tarda
notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de’
villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente,
ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti
avvenimenti ora passati ch’io paragonava dolorosamente con
quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere
del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco”.
Questo motivo viene riproposto nel finale del canto,
attraverso versi più dimessi e teneri, per mezzo dei quali
Leopardi ricorda quando, fanciullo, attendeva con
trepidazione il giorno festivo. Scrivendo versi che torneranno
in altra forma ne Il sabato del villaggio, il poeta ricorda come le
aspettative di cui si caricava il dì festivo venivano
prontamente disattese, e come, passata la festa, egli si trovasse
“doloroso” a letto, conscio di non essersi divertito e di aver
sprecato il giorno tanto atteso. La malinconia era resa più
acuta dall’avvertire, nella notte, un canto per i sentieri, canto
che pian piano si affievoliva e scompariva nel buio. Nel
dissolversi lento di questo canto, il poeta vede il destino di
tutte le cose umane, che è quello di scomparire a poco a poco.
E la percezione di questo destino così crudo lo riempie di
tristezza, stringendogli il cuore in una morsa di malinconia
inconsolabile:

65
Nella mia prima età, quando s’aspetta
bramosamente il dì festivo, or poscia
ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
premea le piume; ed alla tarda notte
un canto che s’udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco,
già similmente mi stringeva il core (vv. 40-46)

66
Alla luna
Questo breve idillio è stato composto nel 1819 ed è
dedicato a un corpo celeste molto amato dal poeta. È una
poesia della “rimembranza”, come altre che seguiranno in anni
successivi, nella quale il ricordo diviene materia per una
riflessione esistenziale. D’altra parte, prima di intitolarsi Alla
luna, la poesia s’intitolava significativamente La ricordanza. Il
titolo venne mutato per l’edizione fiorentina dei canti del 1831.
Tra i diversi passi che nello Zibaldone Leopardi dedica al
valore della “rimembranza” e del ricordo, si può citare la
riflessione del 25 ottobre 1821, che, alle pp. 1987-1988, recita
così:
Per la copia e la vivezza ec. delle rimembranze sono
piacevolissime e poeticissime tutte le imagini che tengono del
fanciullesco, e tutto ciò che ce le desta (parole, frasi, poesie,
pitture, imitazioni o realtà ec.). Nel che tengono il primo luogo gli
antichi poeti, e fra questi Omero. Siccome le impressioni, così le
ricordanze della fanciullezza in qualunque età, sono più vive che
quelle di qualunque altra età. E son piacevoli per la loro vivezza,
anche le ricordanze d’immagini e di cose che nella fanciullezza ci
erano dolorose, o spaventose ec. E per la stessa ragione ci è
piacevole nella vita anche la ricordanza dolorosa, e quando bene
la cagion del dolore non sia passata, e quando pure la ricordanza
lo cagioni o l’accresca, come nella morte de’ nostri cari, il
ricordarsi del passato ec.

In queste parole alberga una duplice riflessione. La


prima è lirica, e sostiene che le immagini che richiamano la
fanciullezza sono poetiche di per sé, per il loro carattere vivido,
che le rende adatte a essere trasfigurate nei versi. La seconda
riflessione è esistenziale: il ricordo spesso sfuma le sensazione
negative, tanto che la stessa ricordanza dolorosa può divenire
fonte di poesia. Infine, Leopardi nota che le immagini della
fanciullezza sono in genere così bene impresse nella memoria
da risultare sovente vivide e quasi reali a distanza di anni.

67
O graziosa luna, io mi rammento
che, or volge l’anno, sovra questo colle
io venia pien d’angoscia a rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva
siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
il tuo volto apparia, che travagliosa
era mia vita: ed è, nè cangia stile,
o mia diletta luna. E pur mi giova
la ricordanza, e il noverar l’etate
del mio dolore. Oh come grato occorre
nel tempo giovanil, quando ancor lungo
la speme e breve ha la memoria il corso,
il rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che l’affanno duri! (vv. 1-16)
L’incipit rappresenta una situazione temporale e
geografica definita. Il poeta rammenta che un anno prima (“or
volge l’anno”), egli saliva sul colle (probabile lo stesso de
L’infinito) ad ammirare la luna. Ora si rivolge direttamente
all’astro, come fosse qualcosa di familiare, poiché ad esso
allora affidava i lamenti per la sua infelice condizione e le
speranze in una esistenza migliore. Ma dopo dodici mesi non è
cambiato nulla: le lacrime che il poeta versava in quel tempo,
pensando alla sua vita infelice, non sono cessate: “travagliosa /
era mia vita: ed è, nè cangia stile, / o mia diletta luna” (vv. 9-
11). Tuttavia, nei versi successivi, quasi ad anticipare il
pensiero espresso nello Zibaldone il 25 ottobre 1821, Leopardi
afferma che ricordare il tempo trascorso, per esempio quello
della fanciullezza, non è sbagliato, perché di quel tempo si
rammenta in genere l’entusiasmo, i giochi, la spensieratezza:
“Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un
suono ec. un racconto, una descrizione, una favola,
un’immagine poetica, un sogno, ci piace e diletta, quel piacere
e quel diletto è sempre vago e indefinito: l’idea che ci si desta è

68
sempre indeterminata e senza limiti: ogni consolazione, ogni
piacere, ogni aspettativa, ogni disegno, illusione ec. (quasi
anche ogni concezione) di quell’età tien sempre all’infinito: e ci
pasce e ci riempie l’anima indicibilmente, anche mediante i
minimi oggetti” (Zibaldone, p. 514, 16 gen. 1821). Sappiamo
peraltro che la fanciullezza di Giacomo ebbe lampi di letizia,
grazie ai giochi con i fratelli Carlo e Paolina49. Durante la
giovinezza, “quando ancor lungo / la speme e breve ha la
memoria il corso” (vv. 13-14), il ricordo delle sensazioni
provate nella fanciullezza dona sollievo perché accende la
speranza che esse possano tornare oppure fa pensare che, in un
tempo ormai lontano e passato, la felicità sia stata vicina.
I versi “nel tempo giovanil, quando ancor lungo / la
speme e breve ha la memoria il corso” furono aggiunti da
Giacomo poco prima della sua morte, ed apparvero
nell’edizione dei Canti che Antonio Ranieri curò nel 1845. Essi
conferiscono uno spessore più marcato a una poesia che non
raggiunge le vette di rarefazione, di perfezione e di intensità
drammatica de L’infinito: “Ma anche con l’aggiunta tarda
l’idillio ha in sé una forza più gracile, inerente del resto allo
stesso tema centrale ben leopardiano, ma più esiguo, non così
centrale e assoluto come è quello della grande scoperta e del
possesso del sentimento dell’infinito nella poesia omonima”50.

49 Cfr. R. Minore, Leopardi. L’infanzia, le città, gli amori, cit., pp. 45 e sgg. Cfr.
altresì R. Urraro, “Questa maledetta vita”. Il romanzo autobiografico di Giacomo
Leopardi, cit., p. 9, che cita le parole di Carlo Leopardi, pubblicate
nell’appendice all’Epistolario di Giacomo Leopardi, a cura di P. Viani, Le
Monnier, Firenze 1925, III, p. 478: “la fanciullezza di Giacomo passò fra
giuochi e capriole e studj; studj, per la sua straordinaria apprensiva, incredibili
in quell’età […]. Nei giuochi e nelle finte battaglie romane, che noi fratelli
facevamo nel giardino, egli si metteva sempre per primo. Ricordo ancora i
pugni sonori che mi dava”.
50 W. Binni, Scritti leopardiani 1964-1969, cit., p. 96.

69
Il sogno

Questa poesia venne composta, si pensa, nel 1819,


oppure tra il 1820 e il 1821. Apparve per la prima volta
nell’edizione bolognese dei Canti del 1825. Essa contiene alcuni
temi cari al giovane Leopardi: il valore della rimembranza, la
fugacità del tempo giovanile, l’impossibilità dell’amore, il
sogno e le illusioni quale “seconda vita”:

Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle


illusioni. Io considero le illusioni come cosa in certo modo reale
stante ch’elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura
umana, e date dalla natura a tutti quanti gli uomini, in maniera
che non è lecito spregiarle come sogni di un solo, ma propri
veramente dell’uomo e voluti dalla natura, e senza cui la vita
nostra sarebbe la più misera e barbara cosa ec. Onde sono
necessari ed entrano sostanzialmente nel composto ed ordine delle
cose (Zibaldone, p. 51).

Il tema della gioventù non goduta è un argomento assai


presente anche nella corrispondenza degli anni 1820-1821. A
titolo esemplificativo ecco le amare parole contenute in una
lettera a Pietro Brighenti del 21 aprile 1821: “In 21 anno,
avendo cominciato e pensare e a soffrire da fanciullo, ho
compito il corso delle disgrazie di una vita, e sono moralmente
vecchio, anzi decrepito, perchè fino il sentimento e
l’entusiasmo ch’era il compagno e l’alimento della mia vita, è
dileguato in me in un modo che mi raccapriccia. È tempo di
morire. È tempo di cedere alla fortuna”.

Era il mattino, e tra le chiuse imposte


per lo balcone insinuava il sole
nella mia cieca stanza il primo albore;
quando in sul tempo che più leve il sonno
e più soave le pupille adombra,

70
stettemi allato e riguardommi in viso
il simulacro di colei che amore
prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.
Morta non mi parea, ma trista, e quale
degl’infelici è la sembianza. Al capo
appressommi la destra, e sospirando,
vivi, mi disse, e ricordanza alcuna
serbi di noi? Donde, risposi, e come
vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto
di te mi dolse e duol: nè mi credea
che risaper tu lo dovessi; e questo
facea più sconsolato il dolor mio.
Ma sei tu per lasciarmi un’altra volta?
Io n’ho gran tema. Or dimmi, e che t’avvenne?
Sei tu quella di prima? E che ti strugge
internamente? Obblivione ingombra
i tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno (vv. 1-22).

Il sogno è un componimento complesso, elaborato che,


come altri, comincia con una precisa caratterizzazione
temporale: il poeta sta per svegliarsi, il mattino si intravvede
tra le imposte. Nella sua stanza, che è “cieca”, ossia ancora
buia, appare una donna. Si tratta di un’immagine onirica, di
una visione che il poeta accoglie senza sorpresa. Si è ipotizzato
che l’oggetto della visione sia Gertrude Cassi, la donna de Il
primo amore, oppure Teresa Fattorini (morta nel 1818), colei
che verrà trasfigurata poeticamente nella celebre poesia A
Silvia; altri hanno ritenuto che non sia necessario identificare
questa donna, essendo costei una sorta di simbolo e simulacro.
Luigi Russo ha scritto che: “la donna del Sogno più che
allusione a una vicenda biografica, è il perpetuo
idoleggiamento della giovinezza acerbamente spenta”.
Al poeta appare all’alba, il “simulacro di colei che amore
/ prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto” (v. 8); questo

71
simulacro non compare con le fattezze di una donna
scomparsa, bensì nelle sembianze di una infelice, come a voler
dire che il vero dramma dell’esistenza non è la morte, bensì il
vivere nella tristezza e nel dolore. Il poeta è ancora vivo, e la
donna gli chiede se si ricorda di lei, se rammenta che è esistita
e che poi è scomparsa. Il poeta appare stupito dal lamento
della donna. Allora ella sapeva del suo amore per lei? E lui
rammenta quanto dolore provò per non aver potuto esternare
un sentimento che credeva destinato alla sconfitta. E adesso,
chiede con angoscia, “sei tu per lasciarmi un’altra volta?/ Io
n’ho gran tema. Or dimmi, e che t’avvenne?” (vv. 18-19). Non
c’è dunque pace in amore: in vita ella non amò il poeta, né
seppe mai d’essere amata da lui, e ciò provocò in Giacomo un
gran dolore. Ora, nella morte, ella torna brevemente a
visitarlo, giacché presto scomparirà di nuovo. E la donna
rimprovera il poeta, vittima dell’“obblivione”, perché ha
scordato non solo lei, bensì anche la sua immagine: “Leopardi
sapeva che la donna era morta: aveva sofferto e soffriva per
lei: ma ignorava se era morta anche l’immagine che, sognando,
gli parlava”51.
La giovane del sogno rivela a Leopardi quanto sia fugace
la giovinezza, quanto la morte sia in agguato, pronta a
spegnere per sempre ogni speranza di felicità: “ma sconsolata
arriva/ la morte ai giovanetti, e duro è il fato/ di quella speme
che sotterra è spenta” (vv. 31-33). La morte dei giovani appare
un controsenso solo a chi crede che la natura e il fato siano
benevoli con gli uomini. Questa credenza si rivela infondata,
ma è difficile accettarla, perché la morte di una persona
giovane è più sconvolgente rispetto alla necessità di accettare
la gratuità totale del nostro esistere:

51 P. Citati, Leopardi, cit., p. 132.

72
Vano è saper quel che natura asconde
agl’inesperti della vita, e molto
all’immatura sapienza il cieco
dolor prevale (vv. 34-36).

È inevitabile, d’altra parte, per un giovane, credere che il


mondo sia bello e fatto per la felicità, e sovente quando egli
s’accorge del contrario la disillusione è grave. Il poeta stesso,
ben conscio del carattere doloroso della vita, non riesce ancora
a credere che una donna così giovane sia scomparsa, non si
capacita che il fato l’abbia destinata alla morte precoce, lei
così ignara del dolore, e abbia invece lasciato in vita lui, già
così consapevole del carattere amaro dell’esistenza.
L’ultima parte della canzone insiste con il parallelo tra
l’infelice condizione della donna morta giovane e la gioventù
non lieta del poeta; tale gioventù, non essendo stata vissuta
appieno, è già di per sé una condizione mortale, una specie di
morte in vita:

Giovane son, ma si consuma e perde


la giovanezza mia come vecchiezza;
la qual pavento, e pur m’è lunge assai.
Ma poco da vecchiezza si discorda
il fior dell’età mia. Nascemmo al pianto,
disse, ambedue; felicità non rise
al viver nostro; e dilettossi il cielo
de’ nostri affanni …” (vv. 51-58).

La giovinezza di Giacomo è quindi paragonabile alla


vecchiaia, mentre la vita infelice del “carcere” di Recanati è
per lui affine alla morte: il rimpianto per lo sperpero del fiore
della sua vita, la giovinezza, è solo in parte attenuato dalla
consapevolezza di possedere una coscienza alta dei mali della
vita. La donna morta afferma che loro, come tutto il genere

73
umano, sono accomunati dal destino di “nascere al pianto” e di
non essere amati dalla natura, né dal cielo, né dal fato. Eppure
Giacomo ha già detto che preferirebbe non avere così chiara in
mente la consapevolezza dell’infelice condizione umana e
godere della bellezza della gioventù: l’eccessiva sapienza
sottrae fascino alle illusioni, mentre i giovani preferiscono
credere ai romanzi:

Mirabile disposizione della natura! Il giovane non crede alle


storie, benchè sappia che son vere, cioè non crede che debbano
avverarsi ne’ particolari della sua vita, degli uomini ch’egli
conosce, e tratta, o conoscerà e tratterà, e spera di trovare il
mondo assai diverso, almeno in quanto a se stesso, e per modo di
eccezione. E crede pienamente a’ poemi e romanzi, benchè sappia
che sono falsi, cioè se ne lascia persuadere che il mondo sia fatto e
vada in quel modo, e crede di trovarlo così. (Zibaldone, pp. 1437-
1438, 2 agosto 1821).

La chiusa della poesia tocca punti di alta drammaticità e


di struggimento, che si svelano nel dialogo tra il poeta e la
donna sognata. Il poeta confessa alla donna l’amore che provò
verso di lei, il travaglio che questo sentimento gli donò, oltre al
dubbio (“vano dubitar”), se il suo amore fu ricambiato o
meno:

Dimmi: d’amore
favilla alcuna, o di pietà, giammai
verso il misero amante il cor t’assalse
mentre vivesti? Io disperando allora
e sperando traea le notti e i giorni;
oggi nel vano dubitar si stanca
la mente mia” (vv. 61-67).

Ma dopo la morte il sentimento dell’amore non esiste più;


vi è solo, nella fanciulla, la pietà per la sfortunata condizione

74
degli uomini, che il poeta condivide, condizione che ora,
essendo morta, lei ha potuto conoscere appieno. Il desiderio
che il poeta mostra nella chiusa, quello di poter baciare la
mano destra della donna, è molto terreno, in parte tenero e in
parte ingenuo, come a voler trattenere il tempo che scorre
inesorabile. Non è possibile però toccare un fantasma:

Per le sventure nostre, e per l’amore


che mi strugge, esclamai; per lo diletto
nome di giovanezza e la perduta
speme dei nostri dì, concedi, o cara,
che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto
soave e tristo, la porgeva. Or mentre
di baci la ricopro, e d’affannosa
dolcezza palpitando all’anelante
seno la stringo, di sudore il volto
ferveva e il petto, nelle fauci stava
la voce, al guardo traballava il giorno.
Quando colei teneramente affissi
gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,
disse, che di beltà son fatta ignuda?
e tu d’amore, o sfortunato, indarno
ti scaldi e fremi. Or finalmente addio (vv. 76-91)

Lei è scomparsa e ha perduta la sua bellezza. Lui, il


poeta, ha perduto l’amore: tutto è vano, tutto è un’illusione,
un bel sogno che scompare nel momento in cui crediamo di
stringere finalmente colei che abbiamo amato. Non c’è
speranza, né sollievo per il dolore dovuto a questa perdita: le
due anime, della donna sognata e del poeta, “son disgiunte in
eterno. A me non vivi / e mai più non vivrai” (vv. 93-94). Alla
fine Leopardi può soltanto abbandonarsi alla disperazione e
alle lacrime. In questo modo, egli dice, “dal sonno mi sciolsi”, e
della donna amata appena sognata rimase, nei suoi occhi, solo

75
un’immagine assai vaga, indefinita, destinata a sparire dalla
sua mente con il progredire del giorno.

76
La vita solitaria

La poesia è stata composta a Recanati probabilmente


nell’estate del 1821 ed è compresa nell’edizione bolognese dei
Canti del 1826. La prima strofa, come in altri componimenti, si
apre con un’immagine ben situata nel tempo e nello spazio. Il
poeta si trova nella sua stanza, mentre una leggera pioggia
bagna il mattino; la vita del borgo si risveglia, il sole “nasce” e
“saetta” (qui F. Bandini richiama un verso del Purgatorio, II,
55-56: “da tutte parti saettava il giorno / lo sol”) e il paesaggio
attorno appare lieto:

La mattutina pioggia, allor che l’ale


battendo esulta nella chiusa stanza
la gallinella, ed al balcon s’affaccia
l’abitator de’ campi, e il Sol che nasce
i suoi tremuli rai fra le cadenti
stille saetta, alla capanna mia
dolcemente picchiando, mi risveglia (vv. 1-7)

Ma nei versi 11-12 vi è una virata in negativo: la


dolcezza del paesaggio mattutino circostante si contrappone
alle “cittadine infauste mura”, che recano solo tedio al poeta,
perché nel suo paese chi soffre è odiato, sbeffeggiato. Questo
tema è ricorrente, sia nell’epistolario, sia nelle canzoni. A
Recanati egli vive nel dolore, per questo esclama: “e tal morrò,
deh tosto!” (v. 14). La parte finale della prima strofa accentua
il taglio amaro, riflettendo sul disinteresse che la natura
dimostra verso gli uomini, ai quali, sulla terra, l’unica
consolazione sembra essere il suicidio (“il ferro”).

…. Alcuna
benchè scarsa pietà pur mi dimostra
natura in questi lochi, un giorno oh quanto

77
verso me più cortese! E tu pur volgi
dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
le sciagure e gli affanni, alla reina
felicità servi, o natura. In cielo,
in terra amico agl’infelici alcuno
e rifugio non resta altro che il ferro (v. 14-22).

Nella seconda strofa la solitudine assoluta del poeta,


paragonabile anche qui a quella del passero solitario, viene
resa attraverso una serie di immagini che raffigurano un
paesaggio naturale quieto e sereno, dove non c’è nemmeno
vento,

La sua tranquilla imago il Sol dipinge,


ed erba o foglia non si crolla al vento,
e non onda incresparsi, e non cicala
strider, nè batter penna augello in ramo,
nè farfalla ronzar, nè voce o moto
da presso nè da lunge odi nè vedi.
tien quelle rive altissima quiete;
ond’io quasi me stesso e il mondo obblio
sedendo immoto; e già mi par che sciolte
giaccian le membra mie, nè spirto o senso
più le commova, e lor quiete antica
co’ silenzi del loco si confonda (vv. 27-38)

In questo ambiente quieto il poeta cerca di dimenticare il


mondo, i propri patimenti e se stessi (significativa l’espressione
“il mondo obblio”52), in maniera simile a quanto accadeva ne

52Cfr. Zibaldone, pp. 172-173: “un assopimento dell’anima è piacevole. I turchi


se lo proccurano coll’oppio, ed è grato all’anima perchè in quei momenti non è
affannata dal desiderio, perchè è come un riposo dal desiderio tormentoso, e
impossibile a soddisfar pienamente; un intervallo come il sonno nel quale se
ben l’anima forse non lascia di pensare, tuttavia non se n’avvede. 2. la vita

78
L’infinito. Immerso nella natura, il poeta sembra sciogliersi
nell’immota quiete del luogo, fino a confondersi con il silenzio.
Tuttavia il risultato poetico, in questo componimento, è
inferiore a quello ottenuto nell’idillio. Infatti, allora il
“naufragare” era l’epilogo, mentre qui è una parentesi tra i
diversi tormenti, com’è chiaro dall’attacco della strofa
successiva. In questa seconda strofa Leopardi afferma che
solitudine diventa una salvezza per l’uomo d’oggi perché lo
ritempra donandogli la carezza delle illusioni. Di contro, la
ragione e la conoscenza del vero sono fonte di infelicità. Manca
dunque il placido abbandono de L’infinito, la volontà di
perdere se stesso, ed è ugualmente assente l’emozione
spontanea presente nell’idillio del 1819. In questa poesia,
invece, l’amore per la solitudine è accostabile alla riflessione
che si può leggere alle pagine 681-682 dello Zibaldone:

Il giovanetto ancora chiuso fra le mura domestiche, o in


casa di educazione, o soggetto all’altrui comando, è felice nella
solitudine per le illusioni, i disegni, le speranze di quelle cose che
poi troverà vane o acerbe: e questo ancorchè egli sia d’ingegno
penetrante, e istruito, ed anche, quanto alla ragione, persuaso
della nullità del mondo. L’uomo disingannato, stanco, esperto,
esaurito di tutti i desideri, nella solitudine appoco appoco si rifà,
ricupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena, e più o meno
vivamente, a ogni modo risorge, ancorchè penetrantissimo

continuamente occupata è la più felice, quando anche non sieno occupazioni e


sensazioni vive, e varie. L’animo occupato è distratto da quel desiderio innato
che non lo lascerebbe in pace, o lo rivolge a quei piccoli fini della giornata (il
terminare un lavoro il provvedere ai suoi bisogni ordinari ec. ec. ec.) giacchè li
considera allora come piaceri (essendo piacere tutto quello che l’anima
desidera), e conseguitone uno, passa a un altro, così che è distratto da desideri
maggiori, e non ha campo di affliggersi della vanità e del vuoto delle cose, e la
speranza di quei piccoli fini, e i piccoli disegni sulle occupazioni avvenire o
sulle speranze di un esito generale lontano e desiderato, bastano a riempierlo, e
a trattenerlo nel tempo del suo riposo, il quale non è troppo lungo perchè
sottentri la noia; oltre che il riposo dalla fatica è un piacere per se” (12-23
luglio 1820).

79
d’ingegno, e sventuratissimo. Come questo? forse per la
cognizione del vero? Anzi per la dimenticanza del vero, pel
diverso e più vago aspetto che prendono per lui, quelle cose già
sperimentate e vedute, ma che ora essendo lontane dai sensi e
dall’intelletto, tornano a passare per la immaginazione sua, e
quindi abbellirsi (20 febbraio 1821).

Questo spiega perché l’uomo che conosce il mondo e gli


altri uomini non ami più l’umanità, né si stupisce della nullità
di tutte le cose; quel che invece salva ancora nell’individuo
l’idea che non esista solo l’infelicità è la fiducia nella natura,
nei suoi ritmi. Ma non si tratta della natura matrigna, che ha
fatto nascere gli uomini al pianto, bensì della condizione
sociale primitiva che precedette la nascita della civiltà:

Ma la natura, e le cose inanimate sono sempre le stesse.


Non parlano all’uomo come prima: la scienza e l’esperienza
coprono la loro voce: ma pur nella solitudine, in mezzo alle delizie
della campagna, l’uomo stanco del mondo, dopo un certo tempo,
può tornare in relazione con loro benchè assai meno stretta e
costante e sicura; può tornare in qualche modo fanciullo, e
rientrare in amicizia con esseri che non l’hanno offeso, che non
hanno altra colpa se non di essere stati esaminati, e sviscerati
troppo minutamente, e che anche secondo la scienza, hanno pur
delle intenzioni e de’ fini benefici verso lui (Zibaldone, p. 1550, 23
agosto 1821).

Questi clima idilliaco ha però vita breve perché la terza


strofa, ex abrupto (“Amore, Amore, assai lungi volasti…”)53,
mette in campo la principale fonte della sofferenza, ossia
l’amore, che, al solito, è tratteggiato da Leopardi come una
presenza fugace, un’occasione perennemente mancata,

53“Transizione brusca, giustificata a posteriori nei vv. 59 e sgg.; la sensazione


di forte stacco è aumentata dalla perentorietà del vocativo nei confronti del
precedente stato di quiete e di sonno (F. Bandini in G. Leopardi, Canti, cit., p.
144).

80
qualcosa che l’ha toccato un tempo e che di certo non lo
toccherà più.

Amore, amore, assai lungi volasti


dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,
anzi rovente. Con sua fredda mano
lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto
nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
che mi scendesti in seno. Era quel dolce
e irrevocabil tempo, allor che s’apre (vv. 39-45)
…………….
Al garzoncello il core
di vergine speranza e di desio
balza nel petto; e già s’accinge all’opra
di questa vita come a danza o gioco
il misero mortal. Ma non sì tosto,
amor, di te m’accorsi, e il viver mio
fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
non altro convenia che il pianger sempre (vv. 48-55)

Sembrano versi scritti da un uomo maturo; sono invece


riflessioni di un ragazzo di 23 anni, già sfiduciato dalla vita e
deluso dall’amore. Ed è un uomo giovane che confessa che,
quando incontra una “vaga donzelletta” per la campagna
oppure ode il canto di una “fanciulla” intenta al lavoro di
notte a casa, “a palpitar si move / questo mio cor di sasso: ahi,
ma ritorna / tosto al ferreo sopor” (vv. 67-68). Dunque, il
cuore non tace, ma il ricordo doloroso delle delusione d’amore
vuol porre fine a ogni passione.
Nonostante il pathos che traspare da questi versi, va
rimarcato che in questa poesia l’amore è trattato in modo
freddo, un po’ retorico nel suo ripetuto legame con la
delusione; diversa era l’atmosfera de Il primo amore, laddove la
passione non provata, ma comunque avvertita acutamente,

81
donava al componimento un carattere palpitante e genuino.
L’idea di una consolazione dai tormenti dell’esistenza e
dell’amore da ritrovarsi nell’abbandono alla natura benigna
rende La vita solitaria un componimento debole, retorico,
anche perché questa fiducia nella natura non appare affatto un
modo per trovare sollievo. La stessa chiusa della poesia, con
l’accenno alla luce lunare che per molti è nefasta, mentre per il
poeta è segno benefico, appare ammantata di retorica e poco
convincente.

Or sempre loderollo, o ch’io ti miri


veleggiar tra le nubi, o che serena
dominatrice dell’etereo campo,
questa flebil riguardi umana sede.
Me spesso rivedrai solingo e muto
errar pe’ boschi e per le verdi rive,
o seder sovra l’erbe, assai contento
se core e lena a sospirar m’avanza (vv. 100-107)

Scrive Walter Binni: “Versi eleganti, ma deboli, che


attraverso un atteggiamento descrittivo più chiaramente
idillico e pittoresco conducono a una conclusione debole e di
ripiegamento: non una reazione energica o un’ardente tensione
alla vita piena, poetica, attiva, ma l’appagamento di una
relativa, minima possibilità di lieve ripresa del cuore e della
vitalità”54.

54 W. Binni, Leopardi. Scritti 1964-1967, cit., p. 122

82
Alla sua donna

La poesia è stata composta nel 1823 e pubblicata


nell’edizione bolognese dei Canti del 1824. È un componimento
molto bella e di alto valore letterario. Esso segna inoltre
l’arresto temporaneo della produzione poetica leopardiana,
alla vigilia della composizione delle Operette morali. Non è
necessario identificare la donna della canzone con un
personaggio reale, ma è sufficiente leggere quel che Leopardi
scriveva nell’Annuncio delle Canzoni sul “Ricoglitore”: “La
donna, cioè l’innamorata, dell’autore, è una di quelle
immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e di virtù celeste e
ineffabile, che ci occorrono spesso nella fantasia, nel sonno e
nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli, e poi qualche
rara volta nel sonno, o in una quasi alienazione di mente,
quando siamo giovani”.
La prima strofa, svolta attraverso una serie di antitesi
(per esempio “Lunge m’inspiri o nascondendo il viso” al v. 2),
contiene un’invocazione a questa immagine d’amore, che al
poeta compare sempre appunto “nascondendo il viso”, tranne
quando gli appare in sogno oppure tra la ridente natura dei
campi (altra antitesi). Dunque il sogno e il momento della
comunione con la natura sono i soli autentici attimi in cui
questa immagine d’amore, che vola via come un’anima lieve,
appare al poeta senza nascondersi.
Nella seconda strofa Leopardi, esprime la convinzione di
non poter mai più amare ed essere riamato in vita (“Viva
mirarti omai/ nulla speme m’avanza”, vv. 12-13), anche
perché è consapevole che nessun volto terreno di donna
potrebbe pareggiare la bellezza della donna sognata, dato che
tale volto avrebbe tutte le imperfezioni delle donne terrene:
Ma non è cosa in terra
che ti somigli; e s’anco pari alcuna

83
ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
saria, così conforme, assai men bella (vv. 19-22)

Il poeta pensa che l’amore per la donna avrebbe un


sapore divino perché chi potesse amarla in terra sarebbe beato,
dato che tale amore renderebbe celestiale la triste e amara vita
mortale. È una dichiarazione notevole sulla forza dell’amore,
un’affermazione di sapore quasi stilnovistico, che però non
muta le idee di Leopardi sulla vita, dal momento che egli sta
parlando di una donna immaginaria. Ed è solo questa “alta
specie”, questa immagine sublime, quella che gli fa palpitare il
cuore, in mezzo alle valli, tra i monti e i colli, mentre tutto il
resto lo rende tetro e le illusioni giovanili (“giovanile error”) lo
abbandonando:

Fra cotanto dolore


quanto all’umana età propose il fato,
se vera e quale il mio pensier ti pinge,
alcun t’amasse in terra, a lui pur fora
questo viver beato:
e ben chiaro vegg’io siccome ancora
seguir loda e virtù qual ne’ prim’anni
l’amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
e teco la mortal vita saria
simile a quella che nel cielo india (vv. 23-33)

L’ultima strofa celebra il valore ideale di questa donna


figurata con un accenno alle idee di Platone (“eterne idee”). La
donna è difatti pensata come fosse illuminata da una stella più
bella del sole. Ella possiede la purezza di un’idea, e sdegna le
fattezze terrene, perché vive in uno spazio lontano:

84
Se dell’eterne idee
l’una sei tu, cui di sensibil forma
sdegni l’eterno senno esser vestita,
e fra caduche spoglie
provar gli affanni di funerea vita;
o s’altra terra ne’ superni giri
fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
e più vaga del Sol prossima stella
t’irraggia, e più benigno etere spiri;
di qua dove son gli anni infausti e brevi,
questo d’ignoto amante inno ricevi.

In questa poesia Leopardi esprime una sua convinzione


profonda, ovvero quella della differenza incolmabile tra gli
oggetti dei propri sogni, che sono belli e perfetti, e la loro
immagine reale. Questa idea è particolarmente solida quando
si applica all’immagine della donna amata, che appare più
desiderabile quando è lontana da noi, sia fisicamente che
spiritualmente. Un concetto simile, che tornerà possente nei
componimenti del “ciclo” di Aspasia, è presente anche nel
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, allorché il
Genio, di fronte ai lamenti del Tasso per la lontananza della
donna amata, ribatte: “Sappi che dal vero al sognato, non
corre altra differenza, se non che questo può qualche volta
essere molto più bello e più dolce, che in quello non può mai”.
Interessante in proposito è la lettera del 23 giugno del 1823
scritta da Giacomo ad André Jacopssen:

Nell’amore, tutte le gioie che provano le anime volgari, non


valgono il piacere che dà un solo istante di rapimento e
d’emozione profonda. Ma come fare in modo che questo
sentimento sia durevole o che sovente si rinnovi durante la vita?
o trovare un cuore che gli corrisponda? più volte ho evitato per
qualche giorno di incontrare l’oggetto che m’aveva affascinato in
un sogno delizioso. Sapevo che questo fascino sarebbe stato

85
distrutto avvicinandosi alla realtà. Nello stesso tempo pensavo
sempre a questo oggetto, ma non lo consideravo se non come era;
lo contemplavo nella mia immaginazione così come mi era
apparso nel mio sogno.

86
Il risorgimento
Nel 1828, durante il lieto soggiorno a Pisa, Leopardi
torna alla poesia. Dal 1824 aveva scritto in versi solo l’epistola
al conte Pepoli, dedicandosi invece alla composizione delle
Operette morali. Nel frattempo, nel 1822 e soprattutto dal 1825
in poi, aveva viaggiato (Milano, Bologna, Firenze, Pisa),
conoscendo i suoi amici letterati, allontanandosi da Recanati,
ma scoprendo altresì che la sua inquietudine, le sue infelicità, i
suoi guai fisici non lo abbandonavano mai. A Pisa però
Giacomo trovò un’atmosfera di quiete che sembrava giovargli.
Per questo, nella calma effimera del soggiorno pisano,
compose, tra il 7 e il 13 aprile 1828, Il risorgimento, poesia che,
già nel titolo, indica una rinascita poetica dell’autore. A questo
componimento seguiranno altre celebri poesie, ossia i grandi
idilli del biennio 1828-1830. Per molti critici tali poesie
rappresentano i vertici della poetica leopardiana, sia perché in
essi il poeta inserisce inediti ed efficaci elementi di prosaicità,
sia perché in essi egli riesce a creare un tono esistenziale che lo
rende molto affine alla moderna sensibilità. Inoltre, come
scrive Bandini: “Leopardi [in essi] è riuscito a sconfiggere la
lucida consapevolezza dell’impossibilità della poesia nel mondo
moderno affidandosi al calore della memoria, rivivendo le
speranze e le illusioni che nascono sul limitar di gioventù,
sentimenti nei quali si configura, per tratti intermittenti, la
capacità di sogni e di entusiasmo degli antichi”55.
In particolare, Il risorgimento è una poesia che opera una
sorta di “bilancio” sugli anni trascorsi, sui travagli patiti, e che
analizza altresì la nuova condizione di precario e temporaneo
sollievo che Giacomo avvertiva dentro sé. In una lettera alla
sorella Paolina del 2 maggio 1828 si legge: “dopo due anni, ho
fatto dei versi quest’aprile; ma versi veramente all’antica, e

55 Dall’introduzione a G. Leopardi, Canti, cit., p. XXVII.

87
con quel mio cuore d’una volta”. Nello Zibaldone, in data 19
gennaio 1828, egli aveva scritto: “La privazione di ogni
speranza succeduta al mio primo ingresso nel mondo, appoco
appoco fu causa di spegnere in me quasi ogni desiderio. Ora,
per le circostanze mutate, risorta la speranza, io mi trovo nella
strana situazione di avere molto più speranza che desiderio, e
più speranze che desiderii” (p. 2416). In questo periodo,
sempre nello Zibaldone (in data 15 aprile 1828), vi è un altro
pensiero molto significativo in relazione a quel che Leopardi
pensa sul ruolo della poesia nella sua vita:

Uno de’ maggiori frutti che io mi propongo e spero da’ miei


versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore della mia
gioventù; è di assaporarli in quella età, e provar qualche reliquia
de’ miei sentimenti passati, messa quivi entro, per conservarla e
darle durata, quasi in deposito; e di commuover me stesso in
rileggerli, come spesso mi accade, e meglio che in leggere poesie
d’altri; oltre la rimembranza, il riflettere sopra quello ch’io fui, e
paragonarmi meco medesimo (p. 4302).

Il risorgimento testimonia questa rinascita, o tentativo di


rinascita, raccontando la storia di un cuore che credette, per
proteggere se stesso, di divenire freddo e arido, ma che invece
si è scoperto, ancora una volta, palpitante e insaziabile: “l’idea
di una storia è implicita nello stesso Risorgimento, una sorta di
ripensamento-riepilogo della propria vita, o meglio della vita
del proprio ‘cuore’, alla luce della recente ripresa. Lo
svolgimento della lirica si distribuisce così in due tempi, di cui
il primo contiene la storia del progressivo inaridirsi del cuore, il
secondo celebrante l’insperata rinascita”56.
Il risorgimento è una canzonetta assai agile in veri
settenari, composta da diciannove strofe dotate di ritmo
musicale e intessuta di rimandi a Petrarca (cfr. i vv. 1-3:
“Credei ch’al tutto fossero/ in me, sul fiore degli anni,/ mancati

56 L. Blasucci, I tempi dei “Canti”, cit., p. 199.

88
i dolci affanni”, che rimanda al Petrarca, Rime, LXI, 5: “et
benedetto il primo dolce affanno”), grazie alla quale Giacomo
“non si concilia con il mondo o con la natura … ma con se
stesso, con la sua vita fantastica, col suo cuore”57. Nelle prime
strofe la vita di un cuore viene esposta ricordando come, sin da
fanciullo, a lui sono mancati i “moti del cor profondo /
qualunque cosa al mondo / grato il sentir ci fa” (vv. 7-8). In
gioventù il suo cuore si è raffreddato presto perché orfano
dell’amore e delle gioie (per quanto illusorie) giovanili, finché il
periodo di sofferenza acuta vissuto in gioventù (il periodo
1819-1821 circa) non ha spento del tutto l’atmosfera da idillio
presente nei primi componimenti.

Credei ch’al tutto fossero


in me, sul fior degli anni,
mancati i dolci affanni
della mia prima età:
i dolci affanni, i teneri
moti del cor profondo,
qualunque cosa al mondo
grato il sentir ci fa.

Quante querele e lacrime


sparsi nel novo stato,
quando al mio cor gelato
prima il dolor mancò!
mancàr gli usati palpiti,
l’amor mi venne meno,
e irrigidito il seno
di sospirar cessò! (vv. 1-16)
Naturalmente, la capacità di commuoversi, di sperare, di

F. Cannici/ M. La Rosa, Giacomo Leopardi – Saggio di analisi testuale, Conte


57

Editore, Napoli 1994, p. 35.

89
immaginare, è rimasta presente nell’animo del poeta quale
retaggio della fanciullezza; nondimeno, a poco a poco, durante
i travagliati anni della scoperta dell’infelicità umana,
dell’elaborazione della teoria del piacere, anch’essa si spense:

Fra poco in me quell’ultimo


dolore anco fu spento,
e di più far lamento
valor non mi restò.
Giacqui: insensato, attonito,
non dimandai conforto:
quasi perduto e morto,
il cor s’abbandonò (vv. 33-40).

In quegli anni il “cor profondo” non donava la felicità,


ma il poeta non poteva ignorare i palpiti e le passioni che
nascevano in lui senza sosta, benché consci di non poter mai
essere soddisfatti. La percezione di questa insaziabilità non
recava gioia, ma solo affanni, sebbene “dolci”. Col passare del
tempo, constatando di vivere una giovinezza senza gioie, il
poeta aveva maturato una nuova consapevolezza. Evaporati
gli anni giovanili, egli si era accorto che le bellezze della natura
(le stagioni, i loro colori, la “rondinella vigile”) non lo
smuovevano più, né i suoi occhi (“voi de’ gentili amanti /
primo, immortale, amor” vv. 59-60) riuscivano a destarlo dal
suo “sopor”, dal momento che egli aveva (o credeva di aver)
raggiunto una posizione di placidità senza gioia, definendosi al
v. 65 “d’ogni dolcezza vedovo”, non essendo più in grado di
attuare il proponimento di porre fine alla propria esistenza.
Egli allora conduceva il suo “aprile”, ossia la sua giovinezza, in
questo modo, come se fossero già gli anni della quieta
vecchiaia:

Qual dell’età decrepita


l’avanzo ignudo e vile,

90
io conduceva l’aprile
degli anni miei così:
così quegl’ineffabili
giorni, o mio cor traevi,
che sì fugaci e brevi
il cielo a noi sortì (vv. 73-80).

Ma dalla strofa successa tutto cambia. Perché qualcosa,


dopo un po’ di tempo trascorso immerso nel sopore, torna a
colpirlo: “moti soavi, immagini,/ palpiti, error beato” (vv. 85-
86). Allora il poeta si stupisce nell’osservare che tutto quello
che fino a poco tempo prima non destava più attenzione in lui,
torna a incuriosirlo: “tutto un dolor mi spira, / tutto un piacer
mi dà” (vv. 95-96). Il riprendere a vivere “dopo cotanto
oblio”, l’avvertire ancora il cuore muoversi, non reca con sé
felicità, né sollievo, ma solo la consapevolezza della persistenza
in lui di una viva facoltà di sentire e di illudersi. La visione del
paesaggio attorno lo smuove nuovamente ed egli ritorna a
sentir palpitare il cuore, proprio quando, ormai adulto,
credeva che non avrebbe mai più sparso lacrime per
alcunché58:

Meco ritorna a vivere


la piaggia, il bosco, il monte;
parla al mio core il fonte,
meco favella il mar.
Chi mi ridona il piangere

58 Cfr. Zibaldone, p. 4138: “ Quanto più l’uomo cresce (massime di esperienza e


di senno, perchè molti sono sempre bambini), e crescendo si fa più incapace di
felicità, tanto egli si fa più proclive e domestico al riso, e più straniero al
pianto. Molti in una certa età (dove le sventure sono pur tanto maggiori che
nella fanciullezza) hanno quasi assolutamente perduta la facoltà di piangere.
Le più terribili disgrazie gli affliggeranno, ma non gli potranno trarre una
lagrima. Questa è cosa molto ordinaria. Tanta occasione ha l’uomo di farsi
familiare il dolore. (12. Maggio 1825.)

91
dopo cotanto obblio?
E come al guardo mio
cangiato il mondo appar? (vv. 97-104).

Questo ritorno della capacità di palpitare non è un


evento gradevole; sembra un altro inganno della natura, la
quale non dà requie al poeta, dal momento che si sa che i suoi
desideri sono destinati allo scacco. Egli infatti è consapevole
che questa capacità, che è “ingenita” (v. 112), di provare
emozioni, è una dote naturale; ma, appunto, non è qualcosa
che rallegra, perché Leopardi sa che tale tendenza innata,
instillata dalla natura nell’uomo, a ricercare la felicità, spinge
l’individuo a desiderare qualcosa che la stessa natura gli nega.
Si tratta di un vicolo cieco: nulla può quietare la pulsione a
emozionarsi, a palpitare, ma nulla può soddisfare questa
tendenza: ed ecco qui scritto nei versi per la prima volta in
modo esplicito l’atto di accusa alla natura (mentre in prosa cfr.
il Dialogo della Natura e di un Islandese): “so che natura è
sorda, / che miserar non sa” (vv. 119-120), perché non è
interessata alle sorti degli uomini, donando loro una facoltà
che li spinge a desiderare qualcosa che non potranno mai
raggiungere.
Il cuore ha ripreso dunque a palpitare, ma non vi è in
Giacomo alcun ripensamento in relazione alle sue convinzioni
più profonde sul senso dell’esistenza: l’infelicità, il dolore,
l’assenza di ogni piacere nella vita, permangono come
fondamenti della vita. La natura è indifferente alle sorti
umane, essendo impegnata nell’eterno ciclo di generazione e
distruzione:

L’uomo (e così gli altri animali) non nasce per goder della
vita, ma solo per perpetuare la vita, per comunicarla ad altri che
gli succedano, per conservarla. Nè esso, nè la vita, nè oggetto
alcuno di questo mondo è propriamente per lui, ma al contrario
esso è tutto per la vita. - Spaventevole, ma vera proposizione e

92
conchiusione di tutta la metafisica. L’esistenza non è per
l’esistente, non ha per suo fine l’esistente, nè il bene dell’esistente;
se anche egli vi prova alcun bene, ciò è un puro caso: l’esistente è
per l’esistenza, tutto per l’esistenza, questa è il suo puro fine
reale. Gli esistenti esistono perchè si esista, l’individuo esistente
nasce ed esiste perchè si continui ad esistere e l’esistenza si
conservi in lui e dopo di lui. Tutto ciò è manifesto dal vedere che
il vero e solo fine della natura è la conservazione delle specie, e
non la conservazione nè la felicità degl’individui; la qual felicità
non esiste neppur punto al mondo, nè per gl’individui nè per la
specie (Zibaldone, p. 4169, Bologna, 11 marzo 1826).

Che non del ben sollecita


fu, ma dell’esser solo:
purchè ci serbi al duolo,
or d’altro a lei non cal.
so che pietà fra gli uomini
il misero non trova;
che lui, fuggendo, a prova
schernisce ogni mortal.

Che ignora il tristo secolo


gl’ingegni e le virtudi;
che manca ai degni studi
l’ignuda gloria ancor.
E voi, pupille tremule,
voi, raggio sovrumano,
so che splendete invano,
che in voi non brilla amor (vv. 121-136)

Le pupille tremule non brillano d’amore, il secolo


“tristo”, ossia l’800, continua a ignorare la gloria letteraria,
perché è un secolo misero e povero. La critica al secolo XIX,
già svolta nel Dialogo di Tristano e di un amico, tornerà in versi
nella Palinodia al marchese Gino Capponi. In realtà, ciò che

93
Leopardi torna a sentire battere in sé sono “gl’inganni aperti e
noti” (v. 146), i quali ora sono riconosciuti come tali, ossia
come illusioni che dimostrano che il suo cuore non sa stare
spento, dovendo invece continuare a sentire, e sentendo a
soffrire. E sebbene il cuore sopravviva, se la rammemorazione
del passato diventi ponte per un futuro diverso, ma non lieto,
Giacomo non ha paura: benché alla sua anima manchino la
fortuna (sebbene essa sia “alta, gentile e pura”, v. 154), il
favore della natura, la bellezza, la conoscenza del mondo, egli
non chiamerà “spietato” chi (persone o cose) causerà in lui i
sospiri, i moti del cuore di certo dolorosi perché colmi di
infelicità ma che, in qualche modo, lo fanno sentire vivo:

La grandezza del Risorgimento sta nel fatto che la


Resurrezione, che Leopardi annuncia, si forma su un paradosso. I
termini opposti della contraddizione continuano ad esistere:
perché Leopardi vive da tempo nel luogo dove il principio di non
contraddizione è scomparso. La natura è insieme benefica e
spietata: la speranza cieca scorge il futuro: il cuore morto o
moribondo è vivissimo; l’oblio è memoria e la memoria oblio.
Leopardi non sceglie perché, per lui, non può esserci scelta59.

Mancano, il sento, all’anima


alta, gentile e pura,
la sorte, la natura,
il mondo e la beltà.
Ma se tu vivi, o misero,
se non concedi al fato,
non chiamerò spietato
chi lo spirar mi dà (vv. 153-160)

59 P. Citati, Leopardi, cit., pp. 340-341.

94
A Silvia

A Silvia è una delle poesie italiane più famose e recitate.


Venne composta tra il 19 e il 20 aprile 1828 a Pisa, seguendo di
pochi giorni Il risorgimento. Nella Silvia del componimento è
adombrata la figura di Teresa Fattorini (1797-1818), figlia del
cocchiere di casa Leopardi, spentasi di tisi nel 1818. Ma a Pisa
Leopardi aveva conosciuto un’altra giovane donna con lo
stesso nome, Teresa Lucignani (1807-1898), cognata di colui
che gli affittava la stanza, con la quale aveva intessuto un
rapporto d’amicizia. A ogni modo, si può dire che la poesia non
sia dedicata esattamente a una donna vissuta e morta da
ragazza, bensì, più in generale, a coloro che muoiono giovani:
la scomparsa di un giovane, infatti, ha stupito sempre
Giacomo, che vedeva un tale fenomeno l’esemplificazione
dell’indifferenza della natura verso la condizione umana. Come
scrive lui stesso: “Storia di Teresa da me poco conosciuta e
interesse ch’io ne prendeva come di tutti i morti giovani in
quello aspettar la morte per me”.
La visione di una fanciulla in fiore provoca nell’animo di
un uomo degli effetti che Giacomo ha ben descritto nello
Zibaldone alle p. 4310-4311:

una giovane dai 16 ai 18 anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti,
nelle sue voci, salti ec. un non so che di divino, che niente può
agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o
malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore
purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza
vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel
guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria d’innocenza,
d’ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti;
quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste
cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in
voi un’impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che
voi non vi saziate di guardar quel viso, ed io non conosco cosa che

95
più di questa sia capace di elevarci l’anima, di trasportarci in un
altro mondo, di darci un’idea d’angeli, di paradiso, di divinità, di
felicità. Tutto questo, ripeto, senza innamorarci, cioè senza
muoverci desiderio di posseder quell’oggetto (30 giugno 1828).

Le strofe iniziali della poesia rievocano un’età lieta e


leggera; il poeta si rivolge direttamente alla donna, secondo
uno stratagemma letterario presente in diversi suoi canti:

Silvia, rimembri ancora


quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi? (vv. 1-6)
Quel “rimembri” posto nel primo verso è un verbo forte,
che trasmette l’idea di una comune rievocazione del passato.
La donna allora era bella, e piena di speranza come tutti i
giovani. Eppure questa prima strofa non è colorata da
un’atmosfera del tutto lieta. Il poeta infatti parla di una “vita
mortale”, della ragazza che era “lieta e pensosa”, impiegando
aggettivi negativi che smorzano il tono lieto. D’altra parte,
l’intera canzone è: “un compianto, una commemorazione
funebre, dove però la morte è morte poetica, metaforica, che
finge all’opposto il nucleo germinale del desiderio minacciato e
punito, un desiderio che trova finalmente i migliori filtri
linguistici e letterari, filtri colorati, che vagamente ne
avvicinano il focus”60.
La prima parte della poesia ha in generale un tono
malinconico-idillico-elegiaco, raccontando la gioventù della
donna e la sua vita colma di speranze. In quel momento Silvia
è ignara di ogni dolore, e conduce la propria vita sognando e

60 N. Bonifazi, Leopardi. L’immagine antica, Einaudi, 1991, p. 171.

96
sperando come fanno tutti i giovani, senza pensieri gravi: “i
giovani non hanno patito nulla, non hanno idea sufficiente
delle infelicità, le considerano quasi come illusioni, o certo
come accidenti d’un altro mondo, perchè essi non hanno negli
occhi che felicità” (Zibaldone, p. 4287, 23 luglio 1827).

Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno (vv. 7-14).

È un’atmosfera tranquilla, nella quale la donna giovane


splende di bellezza, nei suoi occhi “ridenti e fuggitivi”, ossia
occhi che sanno ridere ma che mostrano anche timidezza e
modestia. E il poeta, spesso lasciando gli “studi leggiadri” e le
“sudate carte”, dove egli spendeva la parte migliore di sé, ossia
si rovinava la salute e perdeva la gioventù (in questi versi ci
sono echi della lettera del 2 marzo 1818 al Giordani, nella
quale Giacomo racconta come si è rovinato la salute e
l’animo), si volge talora ad ascoltare il canto di Silvia, intenta
“all’opre femminili” (v. 9), che sono sì faticose (“faticosa tela”
al v. 22), ma vissute dalla ragazza con levità, con quieta
rassegnazione. È interessante l’opposizione che il poeta pone
tra gli studi, che sono definiti “leggiadri”, poiché lo mettono in
comunicazione con gli spiriti universali delle lettere, e le carte,
che sono invece “sudate”, poiché simboleggiano la fatica di chi
cerca di apprendere e di riprodurre, da sé, le universali bellezze
delle grandi opere letterarie.
Giacomo, ad ogni modo, benché si distragga volentieri
udendo il canto della donna, non abbandona il “paterno
ostello”: egli vive rinchiuso in esso, limitandosi ad ascoltare e a

97
guardare attraverso una finestra (“i veroni del paterno
ostello”, v. 19) la piazza antistante palazzo Leopardi, verso il
lato dove si trovava l’abitazione della ragazza:

Io gli studi leggiadri


talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela (vv. 15-22).

Di fronte a questo spettacolo di una donna giovane e


bella, di un paesaggio primaverile e sereno, il poeta avverte un
moto lieto del cuore, che però non sa definire a parole (“lingua
morta non dice”), anche perché non si tratta solo di amore per
Silvia, “ma [di] partecipazione con lei al profondo sentimento
della vita che è proprio della giovinezza”61:

Mirava il ciel sereno,


le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno (vv. 23-27).

La quarta strofa pone una netta cesura rispetto al tono


idillico dei versi precedenti. Il tempo torna quello dell’oggi, del
momento in cui Leopardi scrive. La rievocazione di un passato
che appariva lieto forse solo perché colmo di ingenue
aspirazioni, è terminata. Giacomo infatti, ripensando a quel
periodo, non può che rimpiangere le “speranze” (parola chiave

61 F. Bandini in G. Leopardi, Canti, cit., p. 188-189.

98
del componimento) che allora muovevano i cuori giovani del
poeta e della donna. Ma le rimpiange non tanto perché esse
non si sono realizzate (dato che non vi erano dubbi su questo
fatto), bensì perché allora i loro cuori avevano quantomeno
qualcosa cui aspirare. Entrambi non hanno avuto nulla di quel
che sognavano: la ragazza è morta di tisi, il poeta soffre
ancora, sempre più consapevole della infelicità umana e non
più sorretto dalla fede nella natura benefica. È dunque ormai
assodata la convinzione del ruolo nefasto che la natura svolge
nel determina la vita umana. Questa consapevolezza, afferma
già nelle poesie giovanili e nelle Operette morali (celebre da
questo punto di vista è il Dialogo tra la Natura e un Islandese),
è mostrata, tra gli altri passi, da quel che si legge nello
Zibaldone, p. 4133 (nota del 9 aprile 1825): “La natura tutta, e
l’ordine eterno delle cose non è in alcun modo diretto alla
felicità degli esseri sensibili o degli animali. Esso vi è anzi
contrario”.
Nel Dialogo citato, l’Islandese incalza la Natura,
chiedendole perché ella faccia soffrire gli uomini, perché li
faccia nascere al dolore; ma la Natura risponde mostrando che
per lei tali questioni non sussistono, dato che è indifferente al
destino dell’uomo: “Tu mostri di non aver posto a mente che la
vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione
distruzione, collegato ambedue tra se di maniera, che
ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla
conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o
l’altra di loro, verrebbe parimenti in dissoluzione”62.
In A Silvia vi è una eco più sfumata di queste riflessioni

62 “Quando sussisteva il mito della natura benefica, il ‘male’ appariva come un


‘inconveniente o un ‘errore’ nel sistema universale delle cose (cfr. Zibaldone,
365-366, 1 dicembre 1820) … Caduto il mito della natura benefica, il ‘male’
non appare più accidentale ma regolare, diventa ‘essenziale’ e rientra nell’
‘ordine’ delle cose (cfr. Zibaldone, 4511, 17 maggio 1829)” (cfr. G. Tellini,
Leopardi, cit., p. 107)”.

99
filosofiche, che si manifesta nella pacata, ma non meno aspra,
invettiva contro la natura cattiva e indifferente:

O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? Perché di tanto
inganni i figli tuoi? (vv. 35-39).

Pensando alle speranze e alle illusioni giovanili tradite, il


poeta avverte dentro di sé un dolore cupo, disperato, “un
affetto mi preme / acerbo e sconsolato” (vv. 34-35), che lo
costringe a tornare alla sua solita disperazione, che nasce dalla
contemplazione dell’infelice destino degli uomini. La
malinconia e il dolore diventano allora struggenti; è forte il
contrasto tra le leggere speranza giovanili e la morte che
cancella ogni cosa, uccidendo il “fior degli anni tuoi”, come un
inverno perenne: ora la gioventù è scomparsa definitivamente,
e la ragazza (“tenerella” perché ignara di ogni cosa) giace
defunta, senza vita, non più sorretta dalle speranze giovanili,
dalla gioia di vivere, dagli sguardi degli innamorati, dalle lievi
chiacchiere con le altre ragazze con le quali, nei giorni di festa,
ella “ragionava” d’amore.

Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,


da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
nè teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore (vv. 40-48).

Nell’ultima strofa l’atmosfera di dolore copre ogni cosa.

100
Il poeta e la giovane donna tornano a essere accomunati non
più dalla condizione giovanile (allorché Silvia era per Leopardi
“cara compagna dell’età mia nova” v. 54), bensì da un comune
destino di morte e sofferenza. La speranza ha da tempo
abbandonato il poeta: a lui il fato ha negato le gioie della
giovinezza; non è stata la morte fisica a precludergli tali gioie,
bensì una morte morale, rappresentata dalla reclusione nel
carcere di Recanati, tra i suoi studi intensi e difficili. Forse la
ragazza è stata più “fortunata” perché non ha dovuto subire
l’onta della disillusione, il dolore nel rendersi conto della totale
vanità d’ogni speranza. “All’apparir del vero”, cioè di fronte
alla consapevolezza della reale condizione dell’uomo, tutte le
aspirazioni, le gioie sognate, si sono rivelate cosa vana, pronta
a dileguarsi in breve tempo senza quasi lasciare traccia di sé.
Il poeta si domanda infine se questo sia il mondo, se
tanto infelice sia la sorte “dell’umane genti”, se così doloroso
sia il destino dei “diletti, l’amor, l’opre, gli eventi/ onde
cotanto ragionammo insieme” (vv. 58-59). A questa domanda
non c’è risposta, o forse la sola risposta, amarissima, è la mano
della ragazza morta che, da lontano, mostra una tomba
“ignuda”, simbolo e destino dell’umanità intera, delle sue
aspirazioni vane, della sua vita misera:

Anche peria fra poco


la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero

101
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano (vv.48-63).

Si chiude qui questo mirabile componimento, uno dei


vertici della poesia leopardiana, per l’ordine metrico, la
musicalità, e il dosaggio tra speranza e dolore, tra la
rievocazione di un passato colmo di letizia (o che almeno tale
appare trasfigurato dal ricordo) e l’affermazione di un presente
amaro e doloroso:

[nella poesia] tutto trae il suo impulso centrale e la sua


misura tensiva e perfetta dal profondo motivo bipolare della
ricordanza che recupera il passato della fanciulla scomparsa e
delle speranze perdute del poeta … e sembra poter superare
luminosamente la barriera della morte e poi – urtando contro
questa e il desolato presente – convalida l’inesorabile cesura del
‘mai più’, ne scopre l’invalicabile muraglia e rivela la tragica
caducità di tutti gli uomini, nati per la morte e per il dolore,
sfatando significativamente la stessa religione foscoliana dei
sepolcri “onorati di pianto” e di ‘gloria’63.

63 W. Binni, Leopardi. Scritti 1964-1967, cit., p. 127.

102
Le ricordanze

Questa poesia è stata scritta a Recanati tra il 26 agosto e


il 12 settembre 1829. Leopardi si trovava a casa, dopo aver
lasciato Firenze, sin dal novembre 1828. Il ritorno a Recanati
fu travagliato, e il soggiorno nella cittadina natale sofferto,
tanto che Giacomo nella corrispondenza del periodo si dichiara
desideroso di allontanarsene presto. Per esempio, nella lettera
a Giacomo Tommasini del 30 gennaio 1829 scrive: “non posso
nè anche vivere in questo infame paese, sepoltura di vivi”. La
sua attività poetica, dopo i canti “pisani”, si arresta
nuovamente, finché, alla fine dell’estate 1829, scrive Le
ricordanze, canzone che si pone forse quale realizzazione in
versi della vagheggiata e mai scritta Storia di un’anima. È una
poesia arricchita da echi foscoliani, oltre che da suggestioni
tratte dal Werther di Goethe.
Il titolo mostra quel è il tema del componimento, ovvero
il valore esistenziale e poetico del ricordo. Nello Zibaldone, alla
p. 4426 (nota del 14 dicembre 1828, dunque di qualche mese
anteriore alla composizione della poesia), Giacomo spiega
quale sia secondo lui la funzione poetica della rimembranza:

Un oggetto qualunque, p. e. un luogo, un sito, una


campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza,
non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un
oggetto qualunque, affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a
rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel
sentimento poetico, non per altro, se non perchè il presente, qual
ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro
modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel
vago.

Il 30 novembre 1828, alla p. 4418, Leopardi aveva


enunciato una sorta di “teoria” della rimembranza:

103
All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono
vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il
mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli
occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono
d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà
un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo
secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle
cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che
non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli
soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la
sensazione.

La prima strofa definisce una situazione temporale e


spaziale: Giacomo, dopo anni, torna a osservare le “Vaghe
stelle dell’Orsa” dal giardino di casa sua, luogo che nel ricordo
non diventa lieto perché quello è il posto (“albergo”), dice
Leopardi, “ove abitai fanciullo / e delle mie gioie vidi la fine”
(vv. 5-6). L’aggettivo “vaghe”, è un topos della produzione
poetica leopardiana, dal momento che per lui il poetico, come
si legge nel citato brano dello Zibaldone (p. 4426), consiste
appunto nell’indefinito e nel vago. D’altra parte, il ricordo non
può mai essere preciso e netto.

E la lucciola errava appo le siepi


e in su l’aiuole, sussurrando al vento
i viali odorati, ed i cipressi
là nella selva; e sotto al patrio tetto
sonavan voci alterne, e le tranquille
opre de’ servi. E che pensieri immensi,
che dolci sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che varcare un giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte

104
questa mia vita dolorosa e nuda
volentier con la morte avrei cangiato (vv. 14-27).

La strofa prosegue rievocando l’atmosfera quieta d’un


tempo, i moti dei piccoli animali (la rana, la lucciola), le voci
indistinte che il poeta ascoltava nel suo palazzo, il desiderio di
fuggire da quella casa, ispiratogli dalla vista del mare in
lontananza e dei monti azzurri. Fu forse osservando quei
monti lontani, quel mare, che il giovane Giacomo trovò
ispirazione per comporre L’infinito anni prima. Quella vista
chiusa dall’orizzonte di Recanati fece sì che l’immaginazione
del giovane poeta creasse aspettative, illusioni (”arcani mondi,
arcana / felicità fingendo al viver mio!” vv. 23-24), oltre al
pensiero che, lontano dall’ostello paterno, egli potesse
raggiungere la felicità. Ma Leopardi non conosceva ancora
appieno il proprio triste destino, la sofferenza fisica e spirituale
pronta a ghermirlo ovunque egli si trovasse.
La seconda strofa contiene la “celebre” invettiva contro i
suoi concittadini, i cui prodromi possono essere rintracciati in
alcune lettere giovanili (si prenda ad esempio la missiva del 30
aprile 1817 scritta a Pietro Giordani64). Ma in questi versi,
scritti nella maturità non prevale la rabbia: al fondo s’avverte
invero un rimpianto inconsolabile per aver perduto in mezzo a
quelle persone, in quella cittadina, il fiore della vita:

Nè mi diceva il cor che l’età verde


sarei dannato a consumare in questo
natio borgo selvaggio, intra una gente

64 “Qui [a Recanati] tutto è morte, tutto è insensataggine e stupidità….


Letteratura è un vocabolo inudito. I nomi del Parini dell’Alfieri del Monti, e
del Tasso, e dell’Ariosto e di tutti gli altri han bisogno di commento. Non c’è
uno che si curi d’essere qualche cosa, non c’è uno a cui il nome di ignorante
paia strano. Se lo danno da loro sinceramente e sanno di dire il vero. Crede Ella
che un grande ingegno sarebbe qui apprezzato? Come la gemma nel letamaio”.

105
zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
argomento di riso e di trastullo,
son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
per invidia non già, che non mi tiene
maggior di se, ma perchè tale estima
ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
a persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
senz’amor, senza vita; ed aspro a forza
tra lo stuol de’ malevoli divengo:
qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
e sprezzator degli uomini mi rendo,
per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola
il caro tempo giovanil; più caro
che la fama e l’allor, più che la pura
luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
senza un diletto, inutilmente, in questo
soggiorno disumano, intra gli affanni,
o dell’arida vita unico fiore (vv. 28-49).

Infatti, nonostante Leopardi dal 1822 abbia lasciato


Recanati per lunghi periodi, non è riuscito ad amare la sua
città, perché non ha potuto dimenticare le sofferenze patite in
gioventù sia per l’atteggiamento del padre, sia per l’ostilità dei
suoi concittadini, i quali sono “zotica/ gente vil”, senza
cultura, che prende in giro chi si definisce poeta, e che lo
sprezza e lo invidia non perché lo ritenga superiore a essa, ma
perché crede che lui si ritenga superiore a lei. Questo
atteggiamento negativo da parte dei recanatesi è, come detto,
di vecchia data. In una lettera del 5 dicembre 1817 indirizzata
a Pietro Giordani, Giacomo scrive per esempio: “In Recanati
io poi son tenuto quello che sono, un vero e pretto ragazzo, e i
più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo di filosofo d’eremita e
che so io”. In quel “rio borgo selvaggio”. Leopardi ha sprecato

106
la sua età verde, la giovinezza, giungendo per questo a divenire
“sprezzator degli uomini”; e non si è reso conto, ma non per
colpa sua, che nel frattempo la giovinezza, l’età delle speranze,
l’unico fiore dell’arida vita, se ne andava “senza un diletto,
inutilmente, in questo / soggiorno disumano, intra gli affanni”
(vv. 47-48). Perché il fiore della vita è qualcosa che gli è più
caro di qualsiasi gloria poetica: “più caro/ che la fama e l’allor”
(vv. 44-45).
Dal verso successivo avviene uno stacco temporale: il
poeta non è più al tramonto o all’inizio della sera, come nella
prima strofa, ma in piena notte: “Viene il vento recando il
suon dell’ora / dalla torre del borgo…” (vv. 50-51). E questo
suono reca con sé il ricordo delle notti in cui egli, bambino,
attendeva il mattino con trepidazione, stretto da “assidui
terrori”. Come si legge nello Zibaldone a p. 36: “Sento dal mio
letto suonare (battere) l’orologio della torre. Rimembranze di
quelle notti estive nelle quali essendo fanciullo e lasciato in
letto in camera oscura, chiuse le sole persiane, tra la pura e il
coraggio sentiva battere tale orologio”. Da questo ricordo
sonoro prende piede, nella poesia, una rievocazione dolente del
tempo fanciullo, che si palesa nella consapevolezza che il
desiderio e le aspirazioni d’allora oggi non ci sono più. Scrive
infatti il poeta: “io fui”.
Egli ricorda il palazzo paterno, i momenti trascorsi in
esso, il vento che sibilava alle finestre, la neve che copriva il
paesaggio, il “Sol che nasce/ su romita campagna” (vv. 63-64),
che facevano da corollario al suo “possente errore”, ovvero alla
sua capacità di creare illusioni, come accade al “garzoncel,
come inesperto amante,/ la sua vita ingannevole vagheggia,/ e
celeste beltà fingendo ammira” (vv. 74-76), ossia che ammira
una bellezza che è solo frutto della sua fantasia. Ora il poeta
invece sa che quelle immaginazioni, quell’ineffabile che
andava cercando, non esistevano né allora, quando intatta era
la capacità di provare desideri, né esistono nel tempo presente,

107
allorché egli è divenuto un uomo maturo, che ha conosciuto gli
uomini, il mondo e la vita:

Quando gli uomini sono ben conosciuti, non è più possibile


sentir niente per loro; ogni moto del cuore è languido, e oltracciò
s’estingue appena nato. L’affetto è incompatibile colla
conoscenza della malvagità dell’uomo, e della nullità delle cose
umane. L’uomo disingannato non ha più cuore, perchè i
sentimenti ancorchè destati da tutt’altro, hanno sempre relazione
o vicina o lontana co’ nostri simili. E come può l’uomo riscaldarsi
per cose di cui conosce o la perversità o la total vanità?
(Zibaldone, pp. 1550-1551, 23 agosto 1821).

All’inizio della strofa seguente tale agra consapevolezza è


dichiarata senza reticenze:

O speranze, speranze; ameni inganni


della mia prima età! sempre, parlando,
ritorno a voi; che per andar di tempo,
per variar d’affetti e di pensieri,
obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
son la gloria e l’onor; diletti e beni
mero desio; non ha la vita un frutto,
inutile miseria. E sebben vóti
son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
il mio stato mortal, poco mi toglie
la fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
a voi ripenso, o mie speranze antiche,
ed a quel caro immaginar mio primo;
indi riguardo al viver mio sì vile
e sì dolente, e che la morte è quello
che di cotanta speme oggi m’avanza (v. 77-92)

Il poeta ormai sa che i sogni di gioventù, quale ad


esempio la gloria letteraria, sono “fantasmi”, e dunque,

108
secondo ragione, egli non dovrebbe più rimpiangere le cose
sognate e non raggiunte, perché esse non potevano essere
ghermite. Ma il sentimento del poeta si ribella a questo
destino, e la speranza non lo abbandona del tutto, benché la
ragione dimostri l’infondatezza di certe aspirazioni. Sembra
riecheggiare nei versi vv. 88-90 un passo dello Zibaldone
risalente al giugno 1820, nel quale Giacomo accennava al
contrasto tra sentimento e ragione: “rivedendo a caso le mie
carte e i miei studi, e ricordandomi la mia fanciullezza e i
pensieri e i desideri e le belle viste e le occupazioni
dell’adolescenza, mi si serrava il cuore in maniera ch’io non
sapea più rinunziare alla speranza, e la morte mi spaventava?
non già come morte, ma come annullatrice di tutta la bella
aspettativa passata” (p. 137, 2).
Egli dunque pensa ancora a quelle speranze, che oggi non
esistono più e afferma, riprendendo in parte un verso di
Petrarca (Rime, CCLXVIII), che “la morte è quello/ che di
cotanta speme oggi m’avanza” (vv. 91-92). Eppure egli sa che,
quando la morte giungerà,
quando la terra
mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
fuggirà l’avvenire” (vv. 98-99)
Il ricordo di quelle speranze lo farà ancora sospirare,
aumentando il rimpianto per “l’esser vissuto indarno”,
turbando perciò la dolcezza “del dì fatal”:

nelle Ricordanze il rimpianto è acutissimo: nel tempo della


morte, l’immagine delle speranze antiche lo farà sospirare di
desiderio e gli renderà doloroso il fatto di essere vissuto
inutilmente. Non modererà l’affanno della morte: anzi, mescolerà
di affanni la dolcezza della morte. La memoria ha
definitivamente fallito: il ricordo non consola, come l’orologio
della torre di Recanati consolava i terrori infantili della notte, ma

109
accresce l’angoscia65.

Questa memoria che non dà sollievo è accompagnata,


nella strofa successiva, dal ricordo dei pensieri sul suicidio che
il poeta ha fatto in gioventù, allorché “morte chiamai più
volte, e lungamente/ mi sedetti colà su la fontana/ pensoso di
cessar dentro quell’acque/ la speme e il dolor mio” (vv. 106-
108). Leopardi qui rievoca un episodio giovanile, così riferito
nello Zibaldone a p. 82: “Io era oltremodo annoiato della vita,
sull’orlo della vasca del mio giardino, e guardando l’acqua e
curvandomici sopra con un certo fremito, pensava: s’io mi
gittassi qui dentro, immediatamente venuto a galla, mi
arrampicherei sopra quest’orlo, e sforzandomi di uscir fuori
dopo aver temuto assai di perdere questa vita, ritornato illeso,
proverei qualche istante di contento per essermi salvato, e di
affetto a questa vita che ora tanto disprezzo, e che allora mi
parrebbe più pregevole”.
Ma questo desiderio della morte presto venne meno a
causa delle malattie che lo colpirono sin da giovinetto, e che gli
fecero rimpiangere “la bella giovanezza, e il fiore/ de’ miei
poveri dì” (vv. 111-112), come accade agli anziani che
sembrano amar la vita maggiormente man mano che
s’avvicina il suo termine. È perciò impossibile rievocare la
giovinezza, l’età della speranze, “senza sospiri” (v. 119), ed è
per questo che il ricordo non consola affatto, ma diventa
doloroso, pensando ai giorni

vezzosi, inenarrabili, allor quando


al rapido mortal primieramente
sorridon le donzelle” (vv. 120-123).
Al giovane il mondo appare sorridere, aprirgli ogni

65 P. Citati, Leopardi, cit., pp. 368-369.

110
strada, scusare perfino i suoi errori66, ma quei giorni lieti
passano in un lampo, recando dopo sé dolore e disillusione:

Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo


son dileguati. E qual mortale ignaro
di sventura esser può, se a lui già scorsa
quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta? (vv. 131-135).

L’ultima strofa introduce un personaggio femminile,


Nerina (nome tratto dall’Aminta del Tasso), sulla cui figura si
esemplifica il rimpianto del tempo trascorso e l’infelicità della
condizione umana. Nerina è stata identificata con Teresa
Fattorini, la Silvia dell’omonima poesia, oppure con Maria
Belardinelli, una recanatese morta in giovane età nel 1827.
Tuttavia anche in questo caso il riferimento biografico è
secondario, perché quel che vale è il simbolo: la ragazza un
tempo era bella, felice, cantava dalla finestra di casa sua, piena
di aspettative e di speranze, e tale canto faceva “scolorare”
(verbo dantesco) il volto del poeta. Ora invece:

Più non ti vede


questa Terra natal: quella finestra,
ond’eri usata favellarmi,
ed onde mesto riluce delle stelle il raggio,
è deserta (vv. 140-144).
Dunque il poeta è tornato a osservare le stelle e per

66 Cfr. Zibaldone, p. 1555: “Consideriamo la natura. Qual è quell’età che la


natura ha ordinato nell’uomo alla maggior felicità di cui egli è capace? Forse la
vecchiezza? cioè quando le facoltà dell’uomo decadono visibilmente; quando
egli si appassisce, indebolisce, deperisce? Questa sarebbe una contraddizione,
che la felicità, cioè la perfezione dell’essere, dovesse naturalmente trovarsi nel
tempo della decadenza e quasi corruzione di detto essere. Dunque la gioventù,
cioè il fior dell’età, quando le facoltà dell’uomo sono in pieno vigore ec. ec” (24
agosto 1821).

111
questo rimpiange il tempo trascorso in un lampo, quando
Nerina era felice, o almeno pensava di esser tale perché
Ivi danzando; in fronte
la gioia ti splendea, splendea negli occhi
quel confidente immaginar, quel lume
di gioventù, quando spegneali il fato, e giacevi (vv. 153-157).
Quel “confidente immaginar”, quelle speranze in un
futuro lieto, è trascorso, perché, come scrive il poeta rivolto a
Nerina con una parola che si staglia solenne nella strofa:
“Passasti”. I suoi giorni sono trascorsi: “Ma rapida passasti; e
come un sogno/ fu la tua vita” (vv. 151-152). Il verbo,
“passasti”, simboleggia qualcosa di definitivo, doloroso; la
donna, suo amore d’allora, oggi non si acconcia più per le feste
di paese, né, nel mese di maggio, per lei alcun giovane reca
ramoscelli in segno d’amore. Il ricordo di quel tempo lieto è
crudo e per questo, nell’ultimo verso, il poeta dice che “la
rimembranza è acerba” (v. 173). Perché egli sa che per ogni
giorno di sole, di pioggia che lui trascorre, Nerina non vive più.
L’immagine di lei accompagna, dolorosamente, il suo “vago
immaginar”. Non c’è più speranza, né illusione, solo un ricordo
amaro, una malinconia senza fine:

Nerina non c’è più, è un vuoto, un’assenza, ma non era


presente o reale, o vera e attuale, nemmeno da viva, era piuttosto
un simulacro, una sembianza che veniva dalla memoria nascosta:
tutto quello che di reale le aggiunge il poeta, la finestra, la voce, le
parole, sono residui fantasmatrici di un’altra figura sognata e
sperata, alla quale appartiene l’aggiunta fondamentale,
l’inverosimiglianza principale, ossia quell’’antico amor’ che ancora
gli regna nel cuore67.

Dico: Nerina mia, per te non torna


primavera giammai, non torna amore.

112
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,
dico: Nerina or più non gode; i campi,
l’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
sospiro mio: passasti: e fia compagna
d’ogni mio vago immaginar, di tutti
i miei teneri sensi, i tristi e cari
moti del cor, la rimembranza acerba (vv. 164-173).
“In tutta l’ultima e più lunga lassa del Canto, insistita
variazione elegiaca su questo tema struggente, Leopardi
proietta in realtà la figura stessa del congedo, del sipario che,
inavvertito e fatale, cala sulla sua e su ogni esperienza”68.
Le ricordanze rappresenta il congedo di Leopardi da una
stagione lunga e dolorosa della sua vita, culminata con
l’acquisizione piena della consapevolezza dell’infelicità
costitutiva del genere umano e la maturazione dell’idea della
natura matrigna. Queste idee non nascono dai libri, bensì dalle
esperienze di vita che lui ha avuto. La conoscenza diretta degli
uomini ha confermato in Giacomo le sue idee sull’infelicità
della specie umana, sull’assenza del piacere, sul predominio,
nei rapporti umani, dell’invidia e dell’ipocrisia, e sulla generale
indifferenza degli uomini verso le idee brillanti. Leopardi si
sente sempre più inattuale, distaccato rispetto a un secolo
dove predominano le idee di vacuo progresso, dove impera la
scienza statistica, dove si pensa che la felicità dell’uomo possa
essere garantita da un (presunto) miglioramento delle
condizioni materiali di vita.
La sua filosofia prescinde dalla sua sfortunata condizione
individuale, come si legge nel Dialogo di Plotino e di Porfirio,
allorché Porfirio non sa spiegare perché desideri la morte: “ti
dirò che questa mia inclinazione non procede da alcuna

67 N. Bonifazi, Leopardi. L’anima antica, cit., p. 177.


68 Cfr. G. Leopardi, Poesie e prose, vol. 1, cit., p. 964.

113
sciagura che mi sia intervenuta, ovvero che io aspetti che mi
sopraggiunga: ma da un fastidio della vita; da un tedio che io
provo, così veemente, che si assomiglia a dolore e a spasimo;
da un certo non solamente conoscere, ma vedere, gustare,
toccare la vanità di ogni cosa che mi occorre nella giornata”.
La poesia testimonia l’abbandono definitivo delle
speranze e delle illusioni giovanili, oltre al distacco da
Recanati, cittadina che Leopardi lascerà il 29 aprile 1830 per
non tornarvi mai più. A differenza de Il risorgimento, dove il
cuore continuava a mostrarsi palpitante benché disilluso, qui
appare un distacco più amaro rispetto agli anni trascorsi.
Rispetto ad A Silvia vi è un atteggiamento più radicale nei
confronti del rapporto con i ricordi, poiché in Giacomo c’è un
adesso un rimpianto inconsolabile: “Ora il ricordo non giunge
gradito ma crudele, perché non si separa dalla disperata
coscienza dell’oggi, senza luce di speranza, e proprio il
radicamento ineludibile all’infelicità attuale colora d’inedita
suggestione la rievocazione del passato e ne acuisce il
rimpianto”69. Le differenze più evidenti con A Silvia sono
dunque sia di ordine contenutistico che formale: “Una di esse è
certamente il carattere consolatorio che la nuova poesia vuole
consapevolmente produrre: la celebrazione cioè della memoria
come risarcimento delle sofferenze della vita; una seconda è
data dalla scelta del metro, l’endecasillabo sciolto adagiato in
sette strofe di diversa lunghezza – ossia una struttura, non solo
metrica ma sintattica, che non presuppone un’ispirazione
subitanea tutta raccolta attorno a un’immagine-simbolo come
avveniva in A Silvia, ma una struttura, per così dire, che si
prolunga nel tempo”70.

69 G. Tellini, Leopardi, cit., p. 187.


70 U. Dotti, Lo sguardo sul mondo. Introduzione a Leopardi, cit., pp. 96-97.

114
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
La poesia ha avuto una lunga gestazione, essendo stata
composta a Recanati tra il 22 ottobre 1829 e il 9 aprile 1830. È
l’ultima poesia prima della definitiva partenza dal luogo
natale, che avverrà il 29 aprile 1830: essa trabocca di
“filosofia” leopardiana, della sua concezione della vita
dell’uomo, del suo destino e del rapporto con la natura.
Questa poesia appartiene alla fase matura del pensiero di
Leopardi, ponendo, con maggior nettezza e ampiezza che nelle
Operette morali (cfr. Dialogo della Natura e di un Islandese),
l’atto di accusa contro la natura che, perduta qualsiasi
parvenza di bontà, è ormai apertamente accusata d’essere
indifferente non solo ai destini dell’uomo, bensì a quelli di
tutte le specie viventi. Già nel 1829, nello Zibaldone, p. 4512,
Leopardi scrive: “Ma che epiteto dare a quella ragione e
potenza che include il male nell’ordine, che fonda l’ordine nel
male? Il disordine varrebbe assai meglio: esso è vario,
mutabile; se oggi v’è del male, domani vi potrà esser del bene,
esser tutto bene. Ma che sperare quando il male è ordinario?
dico, in un ordine ove il male è essenziale?” (9 maggio 1829).
Il Canto notturno conclude la stagione creativa dei canti
“pisano-recanatesi”, quella che aperta con Il risorgimento; la
conclude, s’è detto, con la consapevolezza dell’infelicità umana
e della indifferenza della natura verso tutte le specie viventi:

Spetta a questo canto conclusivo una scoperta


rivoluzionaria: la conquista di uno spazio assoluto e di un tempo
assoluto, tali da coinvolgere l’‘innumerabile famiglia’ (v. 92) che
abita l’intero creato. Dalla radiografia del proprio ‘cuore’ (Il
risorgimento), l’io lirico è giunto, sotto sembianza del ‘pastore
errante’, all’elegia della sofferenza universale71.

71 G. Tellini, Leopardi, cit., p. 202.

115
Le figure del poeta e del filosofo coincidono nella persona
del pastore che, nella sua apparente semplicità, pone domande
esistenziali profonde: “Il filosofo sa quanto il pastore, e
potremmo dire, capovolgendo la frase, il pastore sa ed esprime
le stesse amare verità cui perviene il filosofo”72.
In questa poesia torna protagonista un elemento
naturale amato da Leopardi: la luna, a cui il pastore rivolge
interrogativi che non avranno risposta. Non solo perché la
luna è un oggetto inanimato, ma soprattutto perché essa,
appartenendo alla natura, non può interessarsi alle vicende
dell’uomo73. La predilezione per l’astro lunare si può motivare
con la riflessione dello Zibaldone del 20 settembre 1821 (pp.
1744-1745):
Da quella parte della mia teoria del piacere dove si mostra
come degli oggetti veduti per metà, o con certi impedimenti ec. ci
destino idee indefinite, si spiega perchè piaccia la luce del sole o
della luna, veduta in luogo dov’essi non si vedano e non si scopra
la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da
essa luce; il riflesso di detta luce, e i vari effetti materiali che ne
derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov’ella divenga
incerta e impedita, e non bene si distingua, come attraverso un
canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ec. ec.; la detta luce
veduta in luogo oggetto ec. dov’ella non entri e non percota
dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo
od oggetto ec. dov’ella venga a battere74.

72 W. Binni, Leopardi. Scritti 1964-1967, cit., p. 426.


73 Già nel Dialogo tra la Terra e la Luna, l’astro celeste si mostra molto lontana
dalle cose terrene, le quali non appaiono affatto essere al centro dell’universo.
Dice la luna a un certo punto alla terra: “tu mi riesci peggio che vanerella a
pensare che tutte le cose di qualunque parte del mondo sieno conformi alle tue;
come se la natura non avesse avuto altra intenzione che di copiarti
puntualmente da per tutto. Io dico di essere abitata, e tu da questo conchiudi
che gli abitatori miei debbono essere uomini”.
74 Il brano prosegue poco dopo: “Per lo contrario la vista del sole o della luna

in una campagna vasta ed aprica, e in un cielo aperto ec. è piacevole per la

116
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale? (vv. 1-21)

Il primo verso itera il “che fai” rivolto alla luna: sarà una
caratteristica stilistica del brano la presenza di tali iterazioni.
Nella prima strofa del Canto notturno vi è un paragone tra la
vita del pastore e la luna: (“Somiglia alla tua vita/ la vita del
pastore/ . Sorge in sul primo albore,/ move la greggia oltre del
campo, e vede/ greggi, fontane ed erbe;/ poi stanco si riposa in
su la sera:/ altro mai non ispera” vv. 9-15). L’uomo ha una

vastità della sensazione. Ed è pur piacevole per la ragione assegnata di sopra,


la vista di un cielo diversamente sparso di nuvoletti, dove la luce del sole o
della luna produca effetti variati, e indistinti, e non ordinari. ec. È
piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città, dov’ella è
frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in molti luoghi col chiaro,

117
vita sempre uguale a se stessa, poiché che percorre le stesse
strade seguendo il gregge e compie le stesse azioni. Ma egli è al
contempo un uomo che pensa, spera, che si pone domande e
interrogativi. La luna invece segue un corso immutabile, ma
solo perché è un astro naturale che non prova sentimenti o
speranze: la differenza tra la luna e il pastore è quindi
rilevante: mentre l’uomo è mortale, ha una vita breve e
“vaga” (aggettivo centrale nella poetica leopardiana), ossia
incerta e senza una direzione definita, la luna è immortale, e il
suo corso lo è altrettanto perché regolato dalle immutabili
leggi dell’universo.
La seconda strofa descrive con termini crudi l’esistenza
umana: Leopardi paragona la vita dell’uomo alla traversata di
luoghi impervi e difficili, che si conclude, dopo sofferenze
fisiche e dolori dell’animo, con la morte, che sembra dunque
essere una specie di salvezza. Questa idea si può far risalire a
un pensiero dello Zibaldone scritto a Bologna il 17 gennaio
1826: “Che cosa è la vita? Il viaggio di un zoppo e infermo che
con un gravissimo carico in sul dosso per montagne ertissime e
luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, alla neve, al gelo,
alla pioggia, al vento, all’ardore del sole, cammina senza mai
riposarsi dì e notte uno spazio di molte giornate per arrivare a
un cotal precipizio o un fosso, e quivi inevitabilmente cadere”
(pp. 4162-63).

Vecchierel bianco, infermo,


mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, 25
al vento, alla tempesta, e quando avvampa

dove la luce in molte parti degrada appoco appoco, come sui tetti, dove alcuni
luoghi riposti nascondono la vista dell’astro luminoso ec. ec.” (p. 1745).

118
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale (vv. 21-37)

Nella terza strofa i versi descrivono la sofferenza umana


rievocando le tappe che l’uomo deve percorrere durante la sua
esistenza. Tale sofferenza appartiene a ogni momento della
vita dell’individuo: alla nascita (“Nasce l’uomo a fatica,/ ed è
rischio di morte il nascimento”, vv. 39-40), alla crescita, alla
fanciullezza, laddove i genitori non hanno altro ufficio che
consolarlo “dell’esser nato” (v. 44). Su questo tema è
interessante leggere lo Zibaldone alla p. 2607: “Così tosto come
il bambino è nato, convien che la madre che in quel punto lo
mette al mondo, lo consoli, accheti il suo pianto, e gli
alleggerisca il peso di quell’esistenza che gli dà. E l’uno de’
principali uffizi de’ buoni genitori nella fanciullezza e nella
prima gioventù de’ loro figliuoli, si è quello di consolarli,
d’incoraggiarli alla vita” (13 agosto 1822).
Nella seconda parte della strofa, il pastore rivolge alla
luna le domande che gli stanno più a cuore: perché la natura
ha fatto nascere una genìa tanto sventurata, destinata solo a
soffrire, con l’unica possibilità di essere forse consolata, ma
non sollevata dal dolore? E poi ecco l’interrogativo centrale
della riflessione leopardiana, ai vv. 55-56: “Se la vita è
sventura,/ perché da noi si dura?”.

119
Il pastore però presto s’accorge che non otterrà risposta;
la luna infatti è “intatta”, ossia non toccata dalla miseria
umana, poiché non vive nello “stato mortale”. Perciò, di
fronte al silenzio dell’astro celeste, la conclusione è amara,
inevitabile, appena mitigata da un “forse”:

Ma tu mortal non sei,


e forse del mio dir poco ti cale (vv. 59-60).

L’uomo tuttavia, benché disilluso e angustiato dalla


vita, non riesce a smettere di sperare, né di essere curioso; per
questo i dubbi e le domande non abbandonano il pastore, il
quale s’immagina che la luna, benché non gli risponda,
conosca le ragioni delle cose che accadono, il significato del
sofferto vivere terreno dell’uomo e anche “che sia questo
morir, questo supremo / scolorar del sembiante,/ e perir della
terra, e venir meno/ ad ogni usata, amante compagnia” (vv.
65-68). Ella di certo sa perché ci sia la primavera, perché le
stagioni si succedano sempre uguali a se stesse: “Mille cose sai
tu, mille discopri,/ che son celate al semplice pastore” (vv. 77-
78). Il pastore invece ignora ogni cosa: egli osserva i diversi
fenomeni naturali, il trascorrere della vita umana, e si
domanda il senso di tutto quel che vede. Ciò che lo stupisce per
prima cosa è l’insieme delle stelle nel firmamento, l’infinità
dell’orizzonte: egli si chiede perché esistano queste cose
infinite. Ma poi passa a esaminare la condizione umana, e si
chiede: “che vuol dir questa/ solitudine immensa? ed io che
sono?” (vv. 88-89).
Dunque i dubbi che riguardavano il firmamento si
tramutano in dubbi circa la sua condizione di uomo; egli, che
vede le stelle e il cielo cambiare colore mentre porta il suo
gregge al pascolo finché, trascorso un certo numero di ore, le
stelle e il cielo ritornano dello stesso aspetto del giorno prima,
non sa intuire il significato di quel che osserva ogni giorno. Il

120
pastore pensa invece che la luna possieda tali conoscenze, ma
sa altresì che egli è solo un uomo e non potrà mai veder
dissipati i suoi dubbi. Una cosa soltanto gli appare certa,
incontrovertibile: la sofferenza umana che non smette mai,
come è chiaro dal verso 104:

… Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male (vv. 98-104).

Non si tratta ora più di sapere se la natura sia benefica o


malefica, ma di comprendere quali siano i suoi disegni. Tali
disegni appaiono oscuri all’uomo il quale attorno a sé non
scorge altro che sofferenza e infelicità. “La natura […] è
essenzialmente regolatrice e perpetuamente persecutrice e
nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni genere e specie,
ch’ella dà alla luce; e comincia a perseguitarli dal punto
medesimo in cui li ha prodotti” (Zibaldone, pp. 4485-86, 11
aprile 1829).
Quel che la filosofia può conoscere e descrivere è il
funzionamento dei fenomeni naturali, non quale sia il fine
della natura, né qual è il rapporto tra le sue diverse parti.
Questa conoscenza, che la scienza persegue, è inattingibile,
anche perché sarebbe comunque appannaggio della filosofia.
Tuttavia, scrive Leopardi nello Zibaldone, tale conoscenza è
inattingibile per l’uomo, che sia filosofo o scienziato:
Ma il tutto di essa, il fine e il rapporto scambievole di esse
parti tra loro, e di ciascuna verso il tutto, lo scopo di questo
tutto, e l’intenzion vera e profonda della natura, quel ch’ella ha
destinato, la cagione (lasciamo ora star l’efficiente) la cagion
finale del suo essere e del suo esser tale, il perchè ella abbia così

121
disposto e così formato le sue parti, nella cognizione delle quali
cose dee consistere lo scopo del filosofo, e intorno alle quali si
aggirano insomma tutte le verità generali veramente grandi e
importanti, queste cose, dico, è impossibile il ritrovarle e
l’intenderle a chiunque colla sola ragione analizza ed esamina la
natura” (pp. 3338-3339, 23 agosto 1823).

Di fronte al carattere inspiegabile delle proprie angosce e


della propria sofferenza, al mistero oscuro rappresentato dai
fenomeni naturali, il pastore è muto anche perché, come detto,
la luna e gli astri nulla gli possono dire. Allora il suo sguardo si
rivolge al proprio gregge, tranquillo e mansueto, ignaro di quel
che accade attornio a sé, non spinto da desideri, ambizioni o
aspettative e, per questo, incapace di sofferenza75.
Il poeta costruisce qui un paragone tra gli animali, che
vivono “senza noia” (v. 116) e la condizione umana. Questa
strofa risente certamente della convinzione di Leopardi
secondo la quale la ragione, la facoltà che l’uomo ha
sviluppato al massimo grado, sia per lui causa di infelicità,
perché lo costringe a disperdere le sue energie in vane ricerche
e occupazioni; al contrario, gli animali usano pienamente le
proprie limitate facoltà, al solo scopo di raggiungere i fini loro
necessari. Nel Dialogo della Natura e dell’Anima, la Natura
dice proprio questa cosa all’Anima:
la finezza del tuo proprio intelletto, e la vivacità
dell’immaginazione, ti escluderanno da una grandissima parte
della signoria di te stessa. Gli animali bruti usano agevolmente ai
fini che eglino si propongono, ogni loro facoltà e forza. Ma gli

75“Il vocativo si trasferisce dalla luna al gregge con una transizione lirica che
sottende però un passaggio argomentativo. La luna rappresenta una
conoscenza delle cose del mondo priva di angoscia, vergine di souffrance; il
gregge costituisce un’altra ipotesi di felicità, quella della non-conoscenza,
dell’incoscienza beata; ad ambedue le entità, la luna e il gregge, il pastore
oppone il proprio stato di infelicità” (F. Baldini, commento al canto, in G.
Leopardi, Canti, cit., p. 211).

122
uomini rarissime volte fanno ogni loro potere; impediti
ordinariamente dalla ragione e dall’immaginativa; le quali creano
mille dubbietà nel deliberare, e mille ritegni nell’eseguire.

Tutte quelle condizioni nelle quali vi è un una


limitazione o sospensione dell’influenza della ragione sembrano
favorire la genuinità dell’uomo: la fanciullezza, l’ubriachezza o
la follia. Ciò accade perché la civilizzazione ha limitato le forze
dell’uomo, spingendolo a coltivare la ragione nell’illusione,
folle, di conoscere ogni cosa. Questa corsa alla razionalità ha
condotto l’uomo a una doppia sconfitta: da un lato, egli ha
perduto la sua forza e la sua gagliardia; dall’altro, si è posto
nelle mani di una facoltà razionale che non gli ha permesso
quasi nessun progresso in campo conoscitivo, ma gli ha reso
lampante la propria condizione infelice (cfr. altresì Zibaldone,
p. 4079, 23 aprile 1824). In realtà, come si vedrà analizzando
l’ultima strofa del Canto notturno, questa convinzione sui
“vantaggi” della vita dei bruti in Leopardi è, nel 1830, meno
solida rispetto agli anni precedenti, dal momento che ora
anch’essi, per il poeta, risultano coinvolti nella sofferenza
universale, benché non ne abbiano consapevolezza perché non
consapevoli della noia76. Si legge nello Zibaldone, p. 4306:

La noia non è sentita che da quelli in cui lo spirito è


qualche cosa. Agli altri ogni insipida occupazione basta a tenerli
contenti; e quando non hanno occupazione alcuna, non sentono
la pena della noia. Anche gli uomini sono, la più parte, come le
bestie, che a non far nulla non si annoiano; come i cani, i quali ho
ammirati e invidiati più volte, vedendoli passar le ore sdraiati,
con un occhio sereno e tranquillo, che annunzia l’assenza della

76 Un primo accenno al carattere totalizzante della sofferenza, al suo


appartenere a qualunque cosa nasca, appare nel celebre passo dello Zibaldone
dell’aprile 1825, quello che contiene la metafora del giardino (pp. 4133-34),
laddove Leopardi include tutti gli esseri viventi, persino le piante, nella
condizione di infelicità, aggiungendo però che più un essere è capace di
sensibilità, maggiore sarà la sua sofferenza.

123
noia non meno che dei desiderii (15 maggio 1828).

Il pastore, nella sua semplicità, non ha certamente la


capacità speculativa di un filosofo; tuttavia, egli osserva il
diverso comportamento del gregge rispetto a lui, e da ciò
conclude che gli animali sanno vivere più quietamente. Egli
infatti, quando si trova in riposo senza fare nulla, non riesce a
trovare pace, perché “un fastidio m’ingombra/ la mente, ed
uno spron quasi mi punge/ sì che, sedendo, più che mai son
lunge da trovar pace o loco” (vv. 117-121). E ciò accade anche
quando egli è del tutto tranquillo, non punto da alcun
desiderio. Così non succede agli animali: il pastore non sa se il
suo gregge sia felice, ma di certo gli appare più fortunato,
perché non è angustiato, come accade agli uomini, da una
inquietudine perenne (la noia e il tedio), che sovente non ha
motivi d’essere:

Se tu parlar sapessi, io chiederei:


dimmi: perchè giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? (vv. 128-132).

Il canto si conclude con la sesta strofa, nella quale la


meditazione del pastore s’affina, facendosi può generale e, per
certo aspetti, meno colma di dubbi. Egli si domanda se
potrebbe essere più felice nel caso fosse capace di volare tra le
nubi, contare le stelle e i tuoni, osservando il mondo dall’alto
come fa la luna. Ma questo volo pindarico non attenua la sua
sofferenza; anzi, questo pensiero è illusorio e forse, si chiede il
pastore in chiusura, la condizione di dolore e sofferenza è
davvero universale e non risparmia nessuno, che sia astro
celeste, uomo o animale. È una conclusione amara, ma
coerente con la convinzione leopardiana della nullità di tutte le
cose.

124
Forse s’avess’iol’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale (vv. 133-143).

Questa strofa è attraversata da diversi “forse”. Essi


testimoniano come Leopardi in questo canto non abbia
certezze da rivelare, ma inquietudini e dubbi. Tali incertezze
ben si attagliano a una poesia che è una sorta di riepilogazione
del pensiero leopardiano, sorretta dalla volontà di mettere
ordine tra le sue idee più mature. Scrive D. De Robertis: “La
strofa 6 … benché movente (poeticamente) dal punto più ‘alto’
della meditazione lirica del canto, corrisponderebbe a un
bisogno di mettere ordine non le processo che dà vita al canto,
bensì […] del proprio pensiero (quell’O forse correttivo del v.
139), a un’esigenza di coerenza concettuale (traducentesi nel
riordinamento delle strofe) che oltrepassa il canto stesso e che,
salve al solito le ragioni della parola poetica, rinuncia a quelle
del discorso attraverso cui questa ha preso forma”77.

77 D. De Robertis, La composizione del “Canto notturno”, in: Leopardi. La


poesia, Clueb, Bologna 1993, pp. 243-244.

125
La quiete dopo la tempesta

Questa celebre poesia è stata composta a Recanati tra il


17 e il 20 settembre 1829, come da annotazione manoscritta. È
un componimento breve, formato da tre strofe, la prima
dedicata a una situazione ambientale definita (la ripresa delle
attività umane dopo un temporale), le altre due caratterizzate
da considerazioni più filosofiche.

Passata è la tempesta:
odo augelli far festa, e la gallina,
tornata in su la via,
che ripete il suo verso. Ecco il sereno
rompe là da ponente, alla montagna;
sgombrasi la campagna,
e chiaro nella valle il fiume appare.
ogni cor si rallegra, in ogni lato
risorge il romorio
torna il lavoro usato.
L’artigiano a mirar l’umido cielo,
con l’opra in man, cantando,
fassi in su l’uscio; a prova
vien fuor la femminetta a còr dell’acqua
cella novella piova;
e l’erbaiuol rinnova
di sentiero in sentiero
il grido giornaliero.
ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
per li poggi e le ville. Apre i balconi,
apre terrazzi e logge la famiglia:

126
e, dalla via corrente, odi lontano
tintinnio di sonagli; il carro stride
del passegger che il suo cammin ripiglia (vv. 1-25).

La prima strofa sembra un quadro: passata la tempesta,


l’uomo e la natura riprendono le loro attività solite. Il
momento della buriana è stato un attimo di sospensione
forzata del ritmo dell’esistenza. È come se il tempo si fosse
arrestato e, in quell’attimo sospeso, ognuno avesse cercato
riparo. Passata la tempesta, la vita torna al suo usuale ritmo.
L’artigiano, “l’erbaiuol”, “la femminetta”, sono tutte figure
umane sfuggenti, appena schizzate, colte nell’attimo di breve
letizia che coglie l’uomo quando un affanno è appena passato.
La natura stessa appare più lieta e benevola.
Si tratta nondimeno di un attimo di gaiezza breve e
labile. La seconda strofa infatti esplicita il senso delle
immagini metaforiche presenti nella prima. Il poeta si
domanda quando l’uomo sia davvero allegro o quando si senta
sollevato. La risposta è impietosa: ciò avviene solo quando
l’uomo è appena scampato a un pericolo, a una situazione
negativa. È questa la “tesi” del canto, una tesi filosofica:
Leopardi afferma, tramite un celebre verso (“piacer figlio
d’affanno”), che il piacere non esiste in sé e per sé, bensì solo
come parentesi, temporanea, di una situazione dolorosa. Nello
Zibaldone, pp. 2601-2602, si legge:

le convulsioni degli elementi e altre tali cose che cagionano


l’affanno e il male del timore all’uomo naturale o civile, e
parimente agli animali ec. le infermità, e cent’altri mali
inevitabili ai viventi, anche nello stato primitivo, (i quali mali
benchè accidentali uno per uno, forse il genere e l’università loro
non è accidentale) si riconoscono per conducenti, e in certo modo
necessarii alla felicità dei viventi, e quindi con ragione contenuti
e collocati e ricevuti nell’ordine naturale, il qual mira in tutti i
modi alla predetta felicità. E ciò non solo perch’essi mali danno

127
risalto ai beni, e perchè più si gusta la sanità dopo la malattia, e
la calma dopo la tempesta: ma perchè senza essi mali, i beni non
sarebbero neppur beni a poco andare, venendo a noia, e non
essendo gustati, nè sentiti come beni e piaceri, e non potendo la
sensazione del piacere, in quanto realmente piacevole, durar
lungo tempo ec (7 agosto 1822).

Si rallegra ogni core.


sì dolce, sì gradita
quand’è, com’or, la vita?
Quando con tanto amore
l’uomo a’ suoi studi intende?
O torna all’opre? o cosa nova imprende?
Quando de’ mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d’affanno;
gioia vana, ch’è frutto
del passato timore, onde si scosse
e paventò la morte
chi la vita abborria;
onde in lungo tormento,
fredde, tacite, smorte,
sudàr le genti e palpitàr, vedendo
mossi alle nostre offese
folgori, nembi e vento. (vv. 25-41)

La felicità è insomma qualcosa che nasce da


un’interruzione, illusoria e breve, del dolore. Chi ha corso un
pericolo mortale, chi si è trovato in una situazione pericolosa,
chi si è trovato nel mezzo di una tempesta e ne è uscito
indenne, prova un grande sollievo. E crede che tale sollievo sia
un’esperienza di piacere autonoma, mentre si tratta solo di una
contentezza transitoria e breve, dovuta alla consapevolezza
dello scampato pericolo, dal momento che il destino dell’uomo
è quello di essere infelice, benché continuamente spinto dalla
natura alla ricerca della felicità. Nello Zibaldone c’è un

128
pensiero del 27 maggio 1829 affine a questi versi: “La natura
non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il
bisogno; vero bisogno, come quel di cibarsi. Perchè chi non
possiede la felicità, è infelice, come chi non ha di che cibarsi,
patisce di fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la
possibilità di soddisfarlo, senza nemmeno aver posto la felicità
nel mondo. Gli animali non han più di noi, se non il patir
meno; così i selvaggi: ma la felicità nessuno” (p. 4517).
Nell’ultima strofa vi è un’accusa diretta alla natura,
ossia a colei che condanna gli uomini a un destino tanto
amaro, reso ancora più crudele dalla innata tendenza
dell’uomo a desiderare la felicità. La natura sparge a piene
mani pene e dolori, e il piacere è una breve parentesi, figlia
come detto della momentanea cessazione della sofferenza. Solo
il dolore possiede esistenza autonoma, mentre il piacere
possiede un’esistenza accidentale. Soltanto la morte, conclude
il poeta, può porre fine a questa dialettica crudele:

Nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana


prole cara agli eterni! assai felice
se respirar ti lice
d’alcun dolor: beata
se te d’ogni dolor morte risana (vv. 50-54).

Leggendo questi versi viene in mente la frase contenuta


nel Dialogo di Plotino e di Porfrio: “la natura ci destinò per
medicina di tutti i mali la morte: la quale da coloro che non
molto usassero il discorso dell’intelletto, saria poco temuta;
dagli altri desiderata. E sarebbe un conforto dolcissimo nella
vita nostra, piena di tanti dolori, l’aspettazione e il pensiero
del nostro fine”. Non sembra esserci insomma spazio per il
sollievo dal dolore: alla conclusione dell’ultimo soggiorno
recanatese, e in una fase matura della propria riflessione,
Leopardi non coltiva più alcuna speranza. Accomunando La

129
quiete a Il sabato del villaggio, W. Binni scrive: “non manca ai
due canti più ‘idillici’ un severo nesso con le verità essenziali
giunte a conclusioni essenziali, e la loro poesia pur nasce
sempre da una dialettica di rappresentazione e di conoscenza
inseparabili, e non da un momento di intuizione felice e di
sopraggiunta riflessione intellettualistica, che il quadro e
simbolo concreto della verità e questa sgorga, con la stessa
voce poetica, dal sottile attrito della rappresentazione iniziale
e dalla sua interna rappresentazione”78.

78 W. Binni, Leopardi. Scritti 1964-1967, cit., p. 130.

130
Il sabato del villaggio

La poesia è stata scritta a Recanati nel settembre 1829


(fu terminata il 29 settembre), e venne pubblicata nell’edizione
fiorentina dei Canti del 1831. Si tratta di un componimento
breve, nel quale Leopardi adotta un linguaggio ricco di
vocaboli arcaici e rari; la poesia contiene in sé l’idea
dell’impossibilità della felicità, della fugacità dei piaceri, della
labilità delle belle sensazioni. Il poeta compara il sabato, che è
un giorno di solito allegro perché precede la festa tanto attesa,
alla giovinezza, ossia all’età in cui si creano aspettative,
speranze e piacevoli illusioni. Ma la domenica, similmente alle
età che seguono la giovinezza, frustrerà le aspettative di gioia:
in essa presto subentrerà il pensiero dell’indomani, del lavoro e
delle preoccupazioni quotidiane pronte a ghermire la mente, e
non vi sarà più traccia della gioia e della felicità attese.
La prima strofa, più lunga rispetto alle altre, presenta
diverse somiglianze con le idilliache immagini de La quiete dopo
la tempesta. Infatti, benché il tema del canto sia, al fondo,
drammatico, le immagini costruite da Giacomo trasmettono
una certa gaiezza: egli ritrae in modo mirabile, con tocchi
veloci e precisi, una scena recanatese, allorché i suoi abitanti si
preparano al dì festivo, affrettando la fine dei lavoro e delle
occupazioni quotidiane.
La scena si apre con la celeberrima immagine della
“donzelletta” che reca un “mazzolin di rose e di viole”
tornando dalla campagna, apprestandosi a ornarsi il petto e i
capelli. Vi è in seguito la “vecchierella” che, assieme alle sue
compagne di ciance, lavora al telaio, rammentando la propria
giovinezza (“il suo buon tempo”), quando, nei giorni di festa,
si agghindava, si preparava per i balli essendo “ancor sana e
snella”. Poi giunge la sera del sabato: l’aria diventa più scura,

131
“tornan l’ombre/ giù da’ colli e da’ tetti”, e la campana dà il
segno dell’arrivo della festa. I ragazzini si raccolgono sulla
piazza “in frotta”: il loro baccano è tuttavia “lieto”. Infine, lo
zappatore torna a casa fischiettando, pensando che l’indomani
potrà riposare e smettere il suo duro lavoro. Questa serie di
personaggi e di immagini crea un quadro di lietezza e
tranquillità raramente presente nelle poesie di Leopardi. Ecco
la strofa per intero:

La donzelletta vien dalla campagna,


in sul calar del sole,
col suo fascio dell’erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e di viole,
onde, siccome suole,
ornare ella si appresta
dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dì della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch’ebbe compagni dell’età più bella.
Già tutta l’aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
giù da’ colli e da’ tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,

132
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore:
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dì del suo riposo (vv. 1-30).

A proposito dell’immagine della “donzelletta” che reca


“un mazzolin di rose e di viole”, Giovanni Pascoli, in una
conferenza del 1896 dedicata al giovane Leopardi, notava
come tale binomio floreale fosse senza logica, dal momento che
le rose e le viole non fioriscono nello stesso periodo. La
puntualizzazione, che può apparire capziosa, serve in realtà a
Pascoli per rimarcare come anche Leopardi, benché avesse
notevolmente innovato la lirica italiana, fosse legato a
determinati stereotipi poetici classicistici, avulsi rispetto alla
lingua del popolo.

‘Donzellette’ non vidi venire dalla campagna col loro fascio


d’erba: non ancora la lupinella insanguinava i campi. Avrei
voluto vedere il loro mazzolino, se era proprio ‘di rose e di viole’!
Rose e viole nello stesso mazzolino campestre d’una villanella, mi
pare che il Leopardi non le abbia potute vedere. A questa, viole
di marzo, a quella, rose di maggio, sì, poteva; ma di aver già
vedute le une in mano alla donzelletta, ora che vedeva le altre, il
poeta non doveva qui ricordarsi. Perchè il poeta qui rappresenta
a noi cose vedute e udite in un giorno, anzi in un’ora; e bene le
rappresenta, come non solevano i poeti italiani del suo tempo e
dei tempi addietro79.

Senza entrare in un tema complesso e difficile qual è


quello del rapporto, nella letteratura italiana, tra registro
poetico e registro popolare, si può affermare che per Leopardi,

79G. Pascoli, Il sabato, II, in Pensieri e discorsi 1895-1906, Zanichelli, Bologna


1914, dal testo della conferenza tenuta a Firenze il 24 marzo 1896.

133
come per molti altri poeti, “il problema era duplice: da una
parte la sua educazione classicista lo indirizzava verso lo
stereotipo letterario, dall’altra come tradurre quei fiori nella
linea della tradizione, occhiutamente vigilata dai gendarmi
cruscanti?”80. Leopardi tenta di risolvere il problema cercando
un arduo connubio tra la capacità di osservare la realtà hic et
nunc, riproducendola nella sua immediatezza, e il ricorso a un
linguaggio “alto”, classico, spesso petrarchesco, nella
convinzione dello stacco necessario tra il linguaggio poetico e
la lingua quotidiana. Questo “iato” tra i due registri era
giustificato dalla necessità di affrancarsi da una poesia
romantica giudicata non autentica, e dalla volontà di ribadire
l’importanza dello scrivere poetico in uno scorcio di secolo
tutto volto alla ricerca dell’utile, al trionfo della scienza e
dell’economia. Inoltre nello Zibaldone, p. 2304, Giacomo nota
che “I diminutivi sogliono esser sempre graziosi, e recar grazia
e leggiadria ed eleganza al discorso, alla frase ec. Riferite
quest’osservazione alla grazia che nasce dalla piccolezza” (29.
Dic. 1821), intendendo sostenere che la creazione poetica può
ben prescindere dalla precisione scientifica. Nella poesia del
Pascoli vi è invece una forte attenzione ai nomi di erbe e
uccelli.
Tornando alla poesia di Leopardi, si può dire che nella
seconda strofa c’è la descrizione degli ultimi preparativi per la
festa: dopo il crepuscolo, nel silenzio della sera, c’è chi si
affretta a terminare i lavori in sospeso (il fabbro, il falegname)
per finirli prima dell’alba e poter godere del giorno festivo.
Anche queste due figure appartengono al mondo del lavoro, e
sono quelle che, più di altre, potranno godere del sospirato
riposo, che viene a essere una sorta di ricompensa per la fatica
spesa durante la settimana. Anch’esse, tuttavia, si illudono,

80F. Brevini, La letteratura degli italiani. Perché molti la celebrano e pochi la


amano, Feltrinelli, Milano 2010, p. 95.

134
perché quasi certamente la domenica non recherà rilassamento
e riposo. Nel mettere in risalto queste figure “umili”, Leopardi
intende promuovere un profondo senso di solidarietà, inteso a
superare la concezione di una società basata su una classe
privilegiata che aveva il dominio sugli altri; dal punto di vista
esistenziale, tutti gli uomini, infatti, sono accomunati dallo
stesso destino, che è quello di vivere una vita caratterizzata
dal fatto che “è funesto a chi nasce il dì natale”; l’unico piacere
che l’uomo prova è figlio dell’affanno passato, ovvero il piacere
non è mai raggiunto se non per fugaci attimi nelle temporanee
sospensione della sofferenza.

Che la vita nostra, per sentimento di ciascuno, sia


composta di più assai dolore che piacere, male che bene, si
dimostra per questa esperienza. Io ho dimandato a parecchi se
sarebbero stati contenti di tornare a rifare la vita passata, con
patto di rifarla nè più nè meno quale la prima volta. L’ho
dimandato anco sovente a me stesso. Quanto al tornare indietro a
vivere, ed io e tutti gli altri sarebbero stati contentissimi; ma con
questo patto, nessuno; e piuttosto che accettarlo, tutti (e così, io
a me stesso) mi hanno risposto che avrebbero rinunziato a quel
ritorno alla prima età, che per se medesimo, sarebbe pur tanto
gradito a tutti gli uomini. Per tornare alla fanciullezza,
avrebbero voluto rimettersi ciecamente alla fortuna circa la lor
vita da rifarsi, e ignorarne il modo, come s’ignora quel della vita
che ci resta da fare. Che vuol dir questo? Vuol dire che nella vita
che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti
abbiam provato più male che bene; e che se noi ci contentiamo,
ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per
l’ignoranza del futuro, e per una illusione della speranza, senza la
quale illusione e ignoranza non vorremmo più vivere, come noi
non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti (Zibaldone, p.
4283,8, Firenze, 1 Luglio. 1827)

Nella strofa successiva, la penultima, l’atmosfera lieta e


leggera del canto si muta in un’aria più cupa: si trova qui il

135
centro della riflessione leopardiana, l’assunto filosofico su cui si
regge l’intera poesia.

Questo di sette è il più gradito giorno,


pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno (vv. 38-42).

Il giorno festivo non farà altro che acuire gli usuali mali
dell’uomo: “tristezza” e “noia”; man mano che le ore
passeranno e che la fine del giorno di riposo si avvicinerà, gli
uomini avvertiranno la labilità e la sconfitta delle speranze
nutrite il giorno prima, l’inevitabilità della tristezza, della
sofferenza e del ritorno della fatica. Per questo il “sabato” è il
giorno più gradito della settimana, dal momento che è “pien di
speme e di gioia”, colmo di promesse e di illusioni; per questo si
può affermare, come si diceva all’inizio, che il sabato è
paragonabile alla giovinezza della vita umana, dal momento
che è di solito l’età delle speranze, delle aspettative, della
illusioni, della felicità promessa. Tale paragone, che percorre
sottotraccia l’intero canto, si esplicita nei versi successivi, nei
quali il poeta si rivolge al giovane che vive lieto, appellandolo
“garzoncello scherzoso” (v. 37), rammentandogli che la sua
giovinezza è simile a “un giorno d’allegrezza pieno, giorno
chiaro e sereno” (vv. 39-40) che lo condurrà alla pienezza della
sua vita, o almeno a ciò che egli si illude possa essere tale
pienezze.
L’ultima strofa conclude il percorso ricordando al
fanciullo di “godere” il più possibile la sua giovinezza, la lieta
stagione della vita, poiché è probabile, se non certo, che sarà
l’unico momento di letizia della sua esistenza. Ma in questa
poesia, a differenza di altre, il momento della disillusione non è
drammaticamente accentuato. Il poeta, infatti, si limita ad

136
avvertire il giovane, senza dirgli esplicitamente che il piacere
non esiste.

Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave (vv. 43-51)
Infatti, in questo canto è presente pure il momento
positivo dell’illusione, tanto che l’attimo del disvelamento del
vero è più conciso e pacato, meno amaro del solito, e dona a
questo canto una sorprendente unità musicale. “L’io non ha
fatto sentire la propria voce, ma i modi della sua figurazione
pittorica, mentre esprimono il sentimento aereo e fiabesco
della speranza, comunicano anche, per via allusiva, il
sentimento della sua labilità”81. Naturalmente, la strofa
conclusiva è connessa alla teoria del piacere sviluppata da
Leopardi; in particolare, tra le tante, si può citare questa
riflessione contenuta nello Zibaldone (p. 2629, 2), vergata il 2
ottobre 1822: “Da quello che altrove ho detto e provato, che il
piacere non è mai presente, ma sempre solamente futuro, segue
che propriamente parlando, il piacere è un ente (o una qualità)
di ragione, e immaginario”.

81 G. Tellini, Leopardi, cit., p. 201.

137
Il pensiero dominante

La poesia, pubblicata nell’edizione napoletana dei Canti


del 1835, è stata scritta a Firenze nella primavera-estate 1831
ed è la prima del ciclo dei canti ispirati dall’amore per Fanny
Targioni Tozzetti (1801-1889), colei che verrà chiama
“Aspasia”, conosciuta a Firenze nel maggio 1830. Leopardi
giunse a Firenze da Recanati il 10 maggio 1830: vi mancava da
un anno e mezzo 82. Nel periodo fiorentino Giacomo
approfondisce altresì l’amicizia con Antonio Ranieri (1805-
1888), anch’egli innamorato, e quasi certamente ricambiato, di
Fanny.
Il pensiero dominante racconta la fase iniziale
dell’innamoramento: dai suoi versi traspare un barlume di
entusiasmo, o quantomeno di letizia, che lo rende diverso da
altre poesie dedicate all’amore. Benché il suo sentimento non
fosse esplicitamente ricambiato, a Leopardi l’amicizia con
l’“angelica beltade” doveva dare conforto e sollievo, almeno
nella sua fase iniziale.
Il canto ha una struttura agile, rapida, ed è arricchito da
richiami danteschi e petrarcheschi sin dall’incipit. Nel canto
non c’è più l’idillica atmosfera de La quiete dopo la tempesta e
de Il sabato del villaggio, né i versi armoniosi di questi
componimenti, bensì

una costruzione tesa in strofe compatte, energiche,


ascendenti, in cui il motivo dominante preme dall’interno di un
centro irradiante e si traduce nello scatto intenso dei versi, nella

82 Per il soggiorno a Firenze cfr. D. De Roberto, Leopardi e Firenze, in:


Leopardi. La poesia, cit., pp. 249-278 e R. Urraro, “Questa maledetta vita”…,
cit., pp. 179-200 e pp. 215-334. Nota Urraro che “Fanny si era innamorata del
bel Ranieri che spesso andava a incontrarsi con lei…” (p. 259).

138
impostazione frontale delle strofe, nella risoluta forza delle parole
che rilevano e staccano continuamente un presente più sicuro e
pieno, un senso di certezza del proprio valore e della propria
persuasione, vivi nell’inseparabile unita semantica, figurativa e
fonica della parola83.

In questo componimento Leopardi mostra una notevole


maturità creativa, connettendo il tema dell’amore sfortunato,
o comunque difficile, ai temi più generali, quali lo sprezzo del
mondo moderno, delle idee di progresso materiale o economico,
e al rifiuto di un atteggiamento utilitaristico, giustificato con
un ritorno a un vacuo spiritualismo. L’attacco della poesia è
questo:

Dolcissimo, possente
dominator di mia profonda mente;
terribile, ma caro
dono del ciel; consorte
ai lúgubri miei giorni,
pensier che innanzi a me sì spesso torni
di tua natura arcana
chi non favella? il suo poter fra noi
chi non sentì? Pur sempre
che in dir gli effetti suoi
le umane lingue il sentir proprio sprona,
par novo ad ascoltar ciò ch’ei ragiona84. (vv. 1-12)

Questa forza ultraterrena dell’amore ricorda un passo


della Storia del genere umano: “E non sarà dato alla Verità,
quantunque potentissima e combattendolo [l’amore] di

83W. Binni, Scritti leopardiani 1969-1997, cit., pp. 139-140.


84Questo verso contiene una doppia citazione dantesca, cfr. la canzone Voi che
‘ntendendo, 2-3: “udite il ragionar ch’è nel mio core,/ ch’io nol so dire altrui, sì

139
continuo, né sterminarlo mai dalla terra, né vincerlo se non di
rado”. L’amore si presenta subito come un sentimento
possente, capace di allontanare ogni pensiero dalla mente di
chi lo prova: dell’amore si parla sempre, da secoli, e se ne parla
ogni giorno. Chi lo sperimenta non solo dismette ogni altro
pensiero, ma giudica come meno importanti le attività
quotidiane, gli svaghi, la compagnia delle altre persone.

Che divenute son, fuor di te solo,


tutte l’opre terrene,
tutta intera la vita al guardo mio!
Che intollerabil noia
gli ozi, i commerci usati,
e di vano piacer la vana spene,
allato a quella gioia,
gioia celeste che da te mi viene! (vv. 21-28)

Benché Leopardi conosca da tempo gli aspetti


drammatici dell’amore, in questo componimento egli sembra
investito da un quieto entusiasmo. L’amore è paragonato a un
campo verde che il pellegrino, in cammino da giorni sui monti
(“scabro Apennino”), scorge da lontano come luogo di pace e
di ristoro. Non solo: Leopardi si domanda come egli abbia
potuto, fino a quel momento, sopportare “la vita infelice” e il
“mondo sciocco”, oppure sospirare, durante la sua vita, per
altri desideri, i quali non sono affatto paragonabili al desiderio
d’amore.
Ma dov’è la donne amata nella canzone? Ella non è
ancora apparsa, perché il poeta racconta di se stesso e dei
pensiero amorosi. L’innamorato è dunque solo, come in un
deserto, nel quale l’unico oggetto che vede è il suo sentimento:

mi par novo”, e l’incipit di una canzone del Convivio “Amor che ne la mente mi
ragiona”.

140
egli si bea della sola contemplazione della passione, della
visione della sua forza, della sua pervasività, della sua capacità
di sconvolgere la vita di una persona, stravolgendo il suo modo
di giudicare il mondo e la realtà:

Quasi incredibil parmi


che la vita infelice e il mondo sciocco
già per gran tempo assai
senza te sopportai;
quasi intender non posso
come d’altri desiri,
fuor ch’a te somiglianti, altri sospiri (vv. 37-43).

Va notata, ai vv. 42-43 la rima baciata tra “desiri” e


“sospiri”, che ricalca la stessa rima contenuta nella canzone
del Convivio di Dante: Amor che ne la mente mi ragiona, vv. 35-
36, “ché ‘n sue bellezze son cose vedute/ che li occhi di color
dov’ella luce/ ne mandan messi al cor pien di desiri,/ che
prendon aire e diventan sospiri”85. Si ricorda, per la presenza
dei medesimi termini, altresì il celebre canto V dell’Inferno
della Divina Commedia, allorché Dante domanda a Francesca
da Rimini quando ella e il suo amato s’accorsero del momento
in cui era iniziato tra di loro l’amore: “al tempo dei dolci
sospiri/ a che e come concedette amore/ che conosceste i
dubbiosi disiri?” (vv. 118-120).
Il sentimento d’amore induce altresì l’innamorato a
contemplare con un “sorriso” le minacce della morte (vv. 51-
52. Cfr. anche una lettera al padre Monaldo del 3 luglio 1832,
nella quale Leopardi confessa “come ad ogni leggera speranza
di pericolo vicino o lontano, gli brilli il cuore per l’allegrezza”);
il poeta si sente perciò rafforzato da tale sensazione e come
proiettato in una dimensione superiore, che lo distacca dal

85 D. De Robertis, Leopardi. La poesia, cit., pp. 314-315.

141
mondo quotidiano, popolato da “codardi” e “alme/
ingenerose” (vv. 53-54), da “questa età superba,/ che di vote
speranze si nutrica, / vaga di ciance, e di virtù nemica” (vv. 59-
60). Nulla sembra poterlo turbare, né invidia, né falsità, né
un’epoca tutta volta alla ricerca dell’utile, incapace di rendersi
conto quanto la vita divenga scarna e vuota, e decisa a
disprezzare la poesia, decretandone la morte nell’epoca
dell’industria. Il poeta, rafforzato dal sentimento, disprezza
questo giudizio umano, limitato, e “calpesta” il volgo, nemico
dei pensieri nobili e leggiadri:

Sempre i codardi, e l’alme


ingenerose, abbiette
ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno
subito i sensi miei;
move l’alma ogni esempio
dell’umana viltà subito a sdegno.
di questa età superba,
che di vote speranze si nutrica,
vaga di ciance, e di virtù nemica;
stolta, che l’util chiede,
e inutile la vita
quindi più sempre divenir non vede;
maggior mi sento. A scherno
ho gli umani giudizi; e il vario volgo
a’ bei pensieri infesto,
e degno tuo disprezzator, calpesto (vv. 53-68).

L’amore è superiore a qualunque altra passione, giacché


esso è un “prepotente signore” che ha dato le leggi “all’uman
core”. Solo grazie a esso, scrive Leopardi, il fato può essere
discolpato per aver preparato per gli uomini un’esistenza di
sofferenza e priva di felicità. Solo grazie all’amore a volte la
vita può apparire preferibile alla morte. Ma questo sentimento

142
non è alla portata di tutti: è necessario che la persona non sia
“stolta” e che abbia un “cor non vile”:

Pregio non ha, non ha ragion la vita


se non per lui, per chi ch’all’uomo è tutto;
sola discolpa al fato,
che noi mortali in terra
pose a tanto patir senz’altro frutto;
solo per cui talvolta,
non alla gente stolta, al cor non vile
la vita della morte è più gentile (vv. 80-87).

L’ultimo verso ricorda queste parole dello Zibaldone, p.


59: “Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando,
benchè tutto il resto del mondo fosse per me come morto.
L’amore è la vita e il principio vivificante della natura, come
l’odio il principio distruggente e mortale. Le cose son fatte per
amarsi scambievolmente, e la vita nasce da questo. Odiandosi,
benchè molti odi sono anche naturali, ne nasce l’effetto
contrario, cioè distruzioni scambievoli, e anche rodimento e
consumazione interna dell’odiatore”.
Il sentimento d’amore dunque è capace di elevare
l’animo di chi lo prova: Leopardi chiama “paradiso” il luogo
dove lo “stupendo incanto” dell’amore lo innalza. Dopo questi
tono stilnovistici, egli fa seguire una riflessione che definisce
l’amore, per la sua bellezza, la sua eccezionalità e forza,
paragonabile ai “sogni/ degl’immortali” (vv. 107-108). Forse è
vero che l’amore stesso è solo un sogno, una specie di errore del
pensiero e della sensazione: eppure esso contribuisce, seppure
per poco, ad abbellire la realtà. Ed è un errore “leggiadro”,
che, unito a un sentimento tenace, non viene sconfitto dalla
verità e si spegne solo con la morte. Questa riflessione appare
assai acuta: pur cosciente della labilità del sentimento
d’amore, l’uomo non è capace di smettere d’amare, perché

143
nessuna verità logica o argomento razionale può spegnere
l’amore:

Tali son, credo, i sogni


degl’immortali. Ahi finalmente un sogno
in molta parte onde s’abbella il vero
sei tu, dolce pensiero;
sogno e palese error. Ma di natura,
infra i leggiadri errori,
divina sei; perchè sì viva e forte,
che incontro al ver tenacemente dura,
e spesso al ver s’adegua,
nè si dilegua pria, che in grembo a morte (vv. 107-116).

Finalmente, nelle ultime due strofe, appare la donna


amata, la cui figura prima non è stata nominata. Ma non
compare la parola “donna”, e tale mancanza non è casuale. La
comparsa sorprende quasi il lettore: tale donna, infatti, non ha
l’aspetto sofferente, mortale ed evanescente di Silvia o di
Nerina, né è circondata dall’aura di sogno della donna delle
poesie Il sogno e Alla sua donna. La donna esiste realmente ed
è colei che fa delirare il poeta, oltre che dargli gioia:

… Quanto più torno


a riveder colei
della quale teco ragionando io vivo,
cresce quel gran diletto,
cresce quel gran delirio, ond’io respiro. (vv. 125-129)

La donna è reale e tuttavia si colora di sembianze


angeliche, alla maniera stilnovistica. Essa ha sia i tratti del
sogno, della bella finzione (“quasi una finta imago”), sia della
realtà, essendo essa la “sola fonte/ d’ogni altra leggiadria, sola
vera beltà parmi che sia”, vv. 133-135). Nella strofa finale la

144
donna è presente in maniera più solida perché il poeta le
rivolge una serie di interrogativi, quasi incalzandola; ma non
sono domande poste per sapere qualcosa, perché la risposta il
poeta la conosce già: essa è implicita in quel che il
componimento ha descritto:
La donna amata è vera: rivederla accresce in lui il piacere e
il delirio, la mania platonica che 1o fa esistere; e dunque la realtà
non incrina e non indebolisce in nessun modo la sua
immaginazione amorosa. Anzi, la trasforma (quasi) in un’idea. Se
Leopardi vede altre donne, gli sembrano immagini dipinte, che
imitano il volto della donna amata, copie di una realtà insieme
reale e trascendente, copie di un modello86.

Da che ti vidi pria,


di qual mia seria cura ultimo obbietto
non fosti tu? quanto del giorno è scorso,
ch’io di te non pensassi? ai sogni miei
la tua sovrana imago
quante volte mancò? Bella qual sogno,
angelica sembianza,
nella terrena stanza,
nell’alte vie dell’universo intero,
che chiedo io mai, che spero
altro che gli occhi tuoi veder più vago?
altro più dolce aver che il tuo pensiero? (vv. 136-147)

Le risposte si conoscono già: perché è lei la donna, unico


oggetto delle sue attenzioni, che occupa quotidianamente il
pensiero e i sogni dell’amato, il quale non chiede altro che
poter vedere sempre gli occhi amati. Ma nell’ultimo verso la
donna scompare di nuovo e unico protagonista del
componimento torna a essere il pensiero, come se la massima
soddisfazione per l’innamorato fosse avere sempre con sé il

86 P. Citati, Leopardi, cit., p. 381.

145
pensiero della donna amata:

La donna scompare: ritorna il pensiero, che aveva generato


ed emanato la donna: la realtà evocata, la fonte d’ogni altra
leggiadria, la sola vera beltà, la sovrana imago, l’angelica
sembianza, che erano uscite fuori dal pensiero, ora ritornano
dentro di lui, che è il solo vero rifugio e conforto che esse
posseggono87.

87 Ivi, p. 82.

146
Amore e morte

La poesia è stata scritta a Firenze nel 1832 e pubblicata


nell’edizione napoletana dei Canti del 1835: fa anch’essa parte
del “ciclo” di Aspasia ed nobilitata da un alto sentimento
poetico, da una grande fede nella forza dell’amore, che salva
sia dalla meschinità dei tempi e degli uomini, sia dalla paura
della morte. La canzone mette in relazione, con toni romantici,
l’amore e la morte, individuandoli come due poli di una
medesima totalità. Il primo verso richiama i versi 99-100 di
un’altra canzone appartenente al circolo di Aspasia, Consalvo,
nella quale Leopardi dice: “Due cose belle ha il mondo:/ amore
e morte”. Nella lettera del 16 agosto 1832 a Fanny, Leopardi
scrive: “certamente l’amore e la morte sono le sole cose belle
che ha il mondo, e le solissime degne di essere desiderate”.
Amore e morte sono “infatti sono “fratelli” (v. 1), e sono
le cose più belle che esistono “quaggiù”, dato che la morte
“Bellissima fanciulla” (v. 10) “gode il fanciullo Amore/
accompagnar sovente (vv. 13-14), ossia spesso accompagna
l’amore. Entrambi, invero, seppur in modo assai differenti,
hanno un ruolo positivo:

Nasce dall’uno il bene,


nasce il piacer maggiore
che per lo mar dell’essere si trova;
l’altra ogni gran dolore,
ogni gran male annulla (vv. 5-9).

Dunque l’amore, Leopardi lo sa bene, può dare il piacere


più grande che si può provare al mondo (si ricordano nel
Pensiero dominante i versi: “Pregio non ha, non ha ragion la
vita/ se non per lui, per chi ch’all’uom è tutto;/ sola discolpa al
fato,/ che noi mortali in terra/ pose a tanto patir senz’altro

147
frutto”, vv. 80-84). L’amore è pure la fonte del coraggio e della
saggezza (“Né cor fu mai più saggio/ che percosso d’amor, né
mai più forte/ spezzò l’infausta vita, né per altro signore/ come
per questo a perigliar fu pronto”, Amore e morte, vv. 17-21),
ma sa essere anche terribile, generare grande sofferenza e
condurre alla morte: ecco allora che la morte è benefica
allorché “annulla” il dolore dovuto al sentimento non
corrisposto.
La strofa successiva contiene una mirabile
rappresentazione degli effetti dell’amore e della sua
connessione indissolubile con la morte. Un’anticipazione di
tale descrizione può essere rintracciata in un passo giovanile
dello Zibaldone, allorché si legge:

Quando l’uomo concepisce amore tutto il mondo si dilegua


dagli occhi suoi, non si vede più se non l’oggetto amato, si sta in
mezzo alla moltitudine alle conversazioni ec. come si stasse in
solitudine, astratti e facendo quei gesti che v’ispira il vostro
pensiero sempre immobile e potentissimo senza curarsi della
maraviglia nè del disprezzo altrui, tutto si dimentica e riesce
noioso ec. fuorchè quel solo pensiero e quella vista. Non ho mai
provato pensiero che astragga l’animo così potentemente da tutte
le cose circostanti, come l’amore, e dico in assenza dell’oggetto
amato, nella cui presenza non accade dire che cosa avvenga, fuor
solamente alcuna volta il gran timore che forse forse gli potrà
essere paragonato (p. 59).

All’epoca delle poesie del “ciclo” di Aspasia, Leopardi è


un uomo maturo che si ritiene lontano dalla passione giovanile
descritta nel Diario del primo amore e nella poesia Il primo
amore; benché in quel caso l’analisi del sentimento fosse già
assai acuta, essa non era disgiunta dalla presenza di una certa
ingenua passionalità. In Amore e morte, invece, gli effetti
dell’amore sembrano descritti con maggior distacco, come se il
poeta, alla soglia dei trent’anni, fosse ben cosciente di tali
effetti.

148
Quando novellamente
nasce nel cor profondo
un amoroso affetto,
languido e stanco insiem con esso in petto
un desiderio di morir si sente:
come, non so: ma tale
d’amor vero e possente è il primo effetto (vv. 27-33).

Dunque, il sorgere del sentimento d’amore nel cuore non


è disgiunto dalla nascita di un sottile desiderio di morte. Ciò
accade perché l’amore è il più forte e coinvolgente delle
emozioni e perché amare è sempre un rischio, dato che esiste la
possibilità che tale sentimento non venga corrisposto. E chi
ama sa già che non potrà fare a meno di amare seppure non
trova d’essere corrisposto: per questo egli si prefigura una
possibile, immensa felicità, ma sa anche che l’amore può
causare una grave tempesta in lui e allora spesso “brama
quiete,/ brama raccorsi in porto/ dinanzi al fier disio,/ che già,
rugghiando, intorno intorno oscura” (vv. 41-44). Questa
riflessione sul legame tra amore e morte, tra il desiderio e la
sua insoddisfazione che conduce all’infelicità, è un corollario
della tesi secondo cui l’uomo è un essere infelice, proprio
perché non può mai esaudire i propri desideri, ma non può
nemmeno smettere di bramare il piacere: per questo egli è
infelice. Nello Zibaldone, a p. 3444, Leopardi riflette sugli
effetti che produce la visione della bellezza, la quale atterrisce
chi l’osserva, dal momento che “lo spavento viene da questo,
che allo spettatore o spettatrice, in quel momento, pare
impossibile di star mai più senza quel tale oggetto, e nel tempo
stesso gli pare impossibile di possederlo com’ei vorrebbe” (16
settembre 1823).
Nella terza strofa il tema del suicidio per amore diventa
dominante: Leopardi sa che, quando la passione amorosa è
invincibile, spesso “l’affannoso amante” implora la morte “con

149
desiderio intenso”, arrivando talvolta a invidiare i defunti, chi
muore e “tra gli spenti ad abitar sen giva” (v. 61). Questa
connessione tra il desiderio d’amore e la morte è diffusa tra
tutti gli uomini: infatti, anche “l’uom della villa”, che non
conosce di certo la sapienza, “la donzelletta timidetta e
schiva” (v. 64), può pensare a suicidarsi di fronte a una
delusione d’amore. Per questo, dice Leopardi, “Tanto alla
morte inclina/ d’amor la disciplina” (vv. 74-75). E in effetti,
quando non si può più resistere al dolore causato dall’amore,
sia il “villanello ignaro” che “la tenera donzella” ricorrono al
suicidio, cercando così di porre fine alla sofferenza d’amore ed
evitando il lento decadimento che conduce l’uomo alla
vecchiaia: “Passati i venticinque anni, ogni uomo è conscio a
se stesso di una sventura amarissima: della decadenza del suo
corpo, dell’appassimento del fiori de’ suoi giorni, della fuga e
della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù”
(Zibaldone, p. 4287,1, 23 luglio 1827).

La gentilezza del morir comprende.


tanto alla morte inclina
d’amor la disciplina. Anco sovente,
a tal venuto il gran travaglio interno
che sostener nol può forza mortale,
o cede il corpo frale
ai terribili moti, e in questa forma
pel fraterno poter Morte prevale;
o così sprona Amor là nel profondo,
che da se stessi il villanello ignaro,
la tenera donzella
con la man violenta
pongon le membra giovanili in terra.
Ride ai lor casi il mondo,
a cui pace e vecchiezza il ciel consenta (vv. 73-87)

150
Nei versi 88-95 vi è un’invocazione all’amore e alla
morte, “dolci signori, amici/ all’umana famiglia”, affinché il
fato conceda l’uno o l’altro “Ai fervidi, ai felici,/ agli animosi
ingegni” (vv. 88-89); perché l’amore e la morte hanno un
potere immenso nell’universo, inferiore solo a quello del
destino. Per questo l’autore invoca la morte, chiedendole di
chiudere “alla luce omai/ questi occhi tristi, o dell’età reina”
(vv. 106-107), dal momento che Giacomo sa che per lui la
dolcezza dell’amore è irraggiungibile. Egli tuttavia ama, ma
evidentemente l’amore per Fanny si è già rivelato impossibile,
ed ecco perché c’è questa richiesta alla Morte, che è definita
“bella”, e alla quale Leopardi ricorda d’aver reso un servizio,
rammentandole di averla difesa dalla fama cattiva che il volgo
le attribuisce (“se celebrata mai/ fosti da me, s’al tuo divino
stato/ l’onte del volgo ingrato/ di compensar tentai” vv. 100-
103). Il poeta assicura che si farà trovare pronto
all’appuntamento con la morte, non mostrerà viltà, né
cercherà alcun vano conforto, dato che è solo la morte che
desidera, come unico modo per porre fine alle proprie
sofferenze: “null’altro in alcun tempo/ sperar, se non te sola;/
solo aspettar sereno/ quel dì ch’io pieghi addormentato il
volto/ nel tuo virgineo seno” (vv. 121-124).
L’atteggiamento di Giacomo non è dovuto solo alla
delusione d’amore, ma soprattutto alla stanchezza che
provava per le continue sofferenze fisiche a cui il suo corpo era
sottoposto da anni e che, durante l’ultimo soggiorno fiorentino
si erano acuite: “L’ultimo soggiorno fiorentino del Leopardi fu
una lunga e penosa sofferenza. Il suo corpo, come al solito, e
più del solito, non rispondeva alle sollecitazioni della mente
che, anzi, veniva tormentata, mortificata, avvilita, diremmo
anche umiliata, da un organismo troppo sofferente che ne

151
condizionava il normale lavoro intellettuale”88. La sofferenza
fisica (Leopardi soffrì di oftalmia e di febbri reumatiche) non è
un dramma solo in sé e per sé, ma lo è anche perché priva
Giacomo della possibilità di studiare, di scrivere, di meditare,
di dedicarsi alle relazioni sociali. Perciò la morte viene quasi
attesa, invocata, e Giacomo si prepara ad affrontarla con
coraggio, almeno nelle intenzioni, creando in sé un
atteggiamento filosofico doloroso ma sincero, come scrive nella
coeva operetta Dialogo di Tristano e di un amico: “so che,
malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto
ogni consolazione e ogn’ignanno puerile, ed ho il coraggio di
sostenere la privazione di ogni speranza, mirare
intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna
parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze
fisiche di una filosofia dolorosa, ma vera”.

88R. Urraro, “Questa maledetta vita”. Il “romanzo autobiografico” di Giacomo


Leopardi, cit., p. 312.

152
A se stesso
È stata scritta a Firenze prima del settembre 1833 e
pubblicata nell’edizione napoletana dei Canti del 1835: fa
parte del ciclo di Aspasia, rappresentando la fine dell’illusione
d’amore verso Fanny. La poesia, molto breve, è intessuta di
considerazioni amare sul destino dell’uomo, sulla sua assoluta
infelicità, condensate nei versi “Amaro e noia/ la vita, altro
mai nulla; e fango è il mondo” (vv. 10-11), versi terribili e
definitivi, più chiari di tante riflessioni filosofiche elaborate.
La poesia ha una grande tensione esistenziale e non
rappresenta solo la delusione d’amore, ma pure il commiato da
una vita di sofferenza e tedio. È una canzone commovente,
nella quale la retorica lascia il posto al cuore sofferente,
all’uomo deluso, disilluso e pronto alla morte.

Or poserai per sempre,


stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, nè di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
t’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto (vv. 1-16).

La delusione d’amore fa sì che il poeta chieda al proprio


cuore di riposarsi: esso è infatti “stanco” per aver palpitato

153
vanamente e senza requie. Anche la capacità di desiderare
sembra ormai spenta, fiaccata dalla delusione: ma non c’è
alcuna cosa in terra, nemmeno l’amore, ormai, che valga i
palpiti del cuore né i sussulti del desiderio. Il destino dell’uomo
è amaro e nulla si può fare perché esso non sia tale: “Al gener
nostro il fato/ non donò che il morire”, scrive Leopardi. È
tempo di disprezzare tutto: sia se stesso, sia la natura, che è
chiaramente matrigna, sia, infine, il “brutto poter”, quello che
nell’operetta Dialogo di Tristano e di un Amico è definito come
“la misteriosa e coperta crudeltà del destino”.
Questa poesia pare un epitaffio posto sul sepolcro di
Leopardi, come dice Citati, il quale aggiunge: “Di tutto quello
in cui Leopardi aveva creduto – o immaginato di credere –
negli ultimi anni fiorentini non resta più niente. Aveva
immaginato l’amore, il quale perisce. Aveva creduto nella
morte, quella bellissima fanciulla che consolava, sorvolava la
vita terrena, nasceva languidamente in petto … Ora, la morte
non è che l’unico dono del fato: un dono insignificante”89.
Dunque nemmeno la morte è qualcosa che consola. Assieme
all’amore, la stessa speranza della morte consolatrice si è
infranta sugli scogli di un’amara realtà. La conclusione è
amara e non è una novità. Si legge nello Zibaldone a p. 4174:
“Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna
cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male;
l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il
male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale
dell’universo non sono altro che male, nè diretti ad altro che al
male. Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di
buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose
sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi
che esistono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in
metafisica” (22 aprile 1826).

89 P. Citati, Leopardi, cit., pp. 384-385.

154
Aspasia

Scritta a Napoli nella primavera del 183490, venne


pubblicata nell’edizione dei Canti del 1835; segna l’epilogo
dell’amore per Fanny e il distacco dalla donna: “Or
quell’Aspasia è morta/ che tanto amai. Giace per sempre…”
(vv. 70-71). “Aspasia” era il nome di una famosa eterea
ateniese, amica di Pericle e Socrate: in tale contesto, nota M.
Fubini, tale appellativo “suona ammirazione e irrisione”.
Come scrive Emilio Peruzzi, Leopardi nella poesia “dà corpo
all’inferiorità morale e intellettuale della donna, e a lei dà il
nome, classico e infamante della pornè concubina di Pericle”.
La poesia racconta la disillusione subita da poeta dopo la
certezza che Fanny non lo amava. Tale disillusione dovette
essere assai acre, anche se, nel 1835, era ormai vista come cosa
passata. Tuttavia non si trattava solo dell’addio all’amore per
una donna, bensì, per Giacomo, più in generale del congedo
dalla vita: il legame tra amore e morte dovette apparirgli
ancora più solido in un periodo in cui i malanni fisici
divenivano sempre meno sopportabili e assidui. Mancavano
due anni alla sua scomparsa: “Era mutato. Profondamente. I
tanti malanni, ormai cronici – l’insonnia, la cattiva digestione,
la difficoltà di respiro – lo avevano reso di umore ancora più
vario, in preda a improvvisi furori e a vere e proprie instabilità
comportamentali. Nel ventre molle di Napoli […] la sua
disperazione s’era trasformata in sarcasmo, impazienza,
rabbia, attesa indefinita”91.
Nella prima strofa, nella tenera rievocazione del primo
incontro, avvenuto nel maggio 1830, la passione sembra

90 Giacomo aveva lasciato Firenze, in compagnia di Antonio Ranieri, alla fine


di settembre del 1833: dopo una sosta a Roma, giunge a Napoli il 2 ottobre
1833, come si evince dalla lettera a Monaldo Leopardi del 5 ottobre 1833.
91 R. Minore, Leopardi. L’infanzia, le città, gli amori, cit., p. 185.

155
ancora viva, poiché il poeta rammenta bene l’atmosfera
primaverile di quel giorno, e l’associazione che subito si stabilì,
nella sua mente, tra quella stagione e l’incontro con Fanny.
Mentre la primavera esprime un’atmosfera quieta e allegra,
legata alla rinascita, l’amante avverte esplodere dentro di sé il
grande tumulto della passione:

E mai non sento


mover profumo di fiorita piaggia,
nè di fiori olezzar vie cittadine,
ch’io non ti vegga ancor qual eri il giorno
che ne’ vezzosi appartamenti accolta,
tutti odorati de’ novelli fiori
di primavera, del color vestita
della bruna viola, a me si offerse
l’angelica tua forma, inchino il fianco
sovra nitide pelli, e circonfusa
d’arcana voluttà (vv. 10-20).

Si tratta di una scena idilliaca, nella quale la donna ha


una forma “angelica”, ed è circondata da fiori e da odori
sublimi: ci sono certamente immagini stilnovistiche, grazie alle
quali il poeta non accenna mai a una passione sensuale, né
attribuisce alla donna una posa voluttuosa in senso terreno (la
voluttà è “arcana”). Questa trasfigurazione della donna
prosegue nella descrizione dell’innamoramento, quando la
donna appare porgere il suo “niveo collo” ai figli affinché essi
lo bacino; poi Fanny stringe al petto “ascoso e desiato” i
bambini, creando un’immagine muliebre alta e pura, ma che,
con quel riferimento al petto, tradisce l’inevitabile aspetto
“carnale” che l’amore reca con sé. Da quel momento, scrive il
poeta, l’amore è scoccato: ma esso non reca felicità, perché da
allora è come se uno “stral” si fosse conficcato nel fianco
“inerme” del poeta, facendolo soffrire per due anni.

156
Così nel fianco
non punto inerme a viva forza impresse
il tuo braccio lo stral, che poscia fitto
ululando portai finch’a quel giorno
si fu due volte ricondotto il sole (vv. 28-32).

In questi versi è presente l’idea della potenza assoluta


dell’amore che colpisce una persona indifesa, inerme, senza
darle possibilità di difesa; e vi è altresì la concezione per cui
solo un cuore ben disposto, ovvero “gentile”, è adatto a
ricevere gli “strali” dell’amore: “Io non ho mai sentito tanto di
vivere quanto amando, benchè tutto il resto del mondo fosse
per me come morto. L’amore è la vita e il principio vivificante
della natura, come l’odio il principio distruggente e mortale.
Le cose son fatte per amarsi scambievolmente, e la vita nasce
da questo. Odiandosi, benchè molti odi sono anche naturali, ne
nasce l’effetto contrario, cioè distruzioni scambievoli, e anche
rodimento e consumazione interna dell’odiatore” (Zibaldone, p.
59,3).
La seconda strofa presenta la bellezza femminile come un
ideale divino, riprendendo i temi della poesia Alla sua donna:
spesso l’innamorato ama un’immagine figurata della donna
più che la donna reale, tanto che, pure nel momento dell’amore
fisico (“corporali amplessi”), l’uomo pensa all’immagine
idealizzata della donna amata, la quale è sublime poiché
produce gli stressi effetti della musica, svelando all’uomo un
ignoto paradiso:

Raggio divino al mio pensiero apparve,


donna, la tua beltà. Simile effetto
fan la bellezza e i musicali accordi,
ch’alto mistero d’ignorati Elisi
paion sovente rivelar. Vagheggia
il piagato mortal quindi la figlia

157
della sua mente, l’amorosa idea,
che gran parte d’Olimpo in se racchiude,
tutta al volto ai costumi alla favella
pari alla donna che il rapito amante
vagheggiare ed amar confuso estima.
Or questa egli non già, ma quella, ancora
nei corporali amplessi, inchina ed ama (vv. 33-45).

Nei versi 33-34 c’è un paragone tra l’effetto che la


bellezza delle forme femminili produce nell’uomo e la bellezza
della musica. Questo effetto, dice Leopardi in accordo con le
teorie sensistiche, non è dovuto a una qualità insita
nell’oggetto che attrae, bensì a qualcosa che è interno a chi lo
percepisce, benché non lo sia in modo innato. “L’armonia nella
musica, come la convenienza nelle forme umane, produce
realmente un vivissimo e straordinario e naturalissimo effetto,
ma solo in virtù del mezzo per cui essa giunge a’ nostri sensi
(cioè suono o canto, e forma umana), o vogliamo dire del
soggetto in cui essa armonia e convenienza si percepisce. Tolto
questo soggetto, l’armonia e convenienza isolata, o applicata a
qualunque altro soggetto, non fa più di gran lunga la stessa
impressione. Bensì ella è necessaria perchè quel soggetto faccia
un’impressione assolutamente, pienamente, e durevolmente
piacevole” (Zibaldone, p. 1785, 24 settembre 1821).
L’uomo ben presto s’accorge che la bellezza vagheggiata
è diversa da quella della donna terrena: e, benché si adiri con
la donna, non trova soluzione a questo inganno. Ma è
realmente questo un inganno? In realtà si tratta di qualcosa di
inevitabile, di cui la donna non ha consapevolezza, perché lei
non è capace di elevarsi alla visione ideale della bellezza: “Non
cape in quelle/ anguste fronti ugual concetto” (vv. 52-53). Vi è
in questi versi una svalutazione delle capacità intellettive della
donna, la quale non sarebbe capace né di assurgere a una
contemplazione ideale della bellezza (a differenza dell’uomo),

158
né di comprendere che l’amato possa sentirsi ingannato dal
raffronto tra la beltà immaginata e quella reale, quella che la
donna gli offre quotidianamente. A questo proposito si legga,
nei Pensieri, la riflessione LXV: “Nessuna compagnia è
piacevole al lungo andare, se non di persone dalle quali importi
o piaccia a noi d’essere sempre più stimati. Perciò le donne,
volendo che la loro compagnia non cessi di piacere dopo breve
tempo, dovrebbero studiare di rendersi tali, che potesse essere
desiderata durevolmente la loro stima”.

La sua stessa beltà, donna non pensa,


nè comprender potria. Non cape in quelle
anguste fronti ugual concetto. E male
al vivo sfolgorar di quegli sguardi
spera l’uomo ingannato, e mal richiede
sensi profondi, sconosciuti, e molto
più che virili, in chi dell’uomo al tutto
Dd natura è minor. Che se più molli
e più tenui le membra, essa la mente
men capace e men forte anco riceve. (vv. 51-60)

Nella terza strofa il poeta contrappone nuovamente la


donna reale a quella ideale, affermando, in sostanza, che
l’amore vero egli lo ha provato solo per l’immagine idealizzata
della donna, che sovrasta per bellezza la sua personificazione
reale. La donna terrena, infatti, non conosce i pensieri sublimi,
né gli affanni tremendi, né il grande amore che ha suscitato nel
cuore dell’innamorato. Vi è in questi versi un’evidente
misoginia, un astio verso le donne che non giova ai versi che
Giacomo scrive. La donna secondo lui ignora i pensieri sublimi
sia perché non è in grado di percepirle appieno, sia perché,
come nel caso di Fanny, non ha corrisposto al sentimento del
poeta.

159
Nè tu finor giammai quel che tu stessa
inspirasti alcun tempo al mio pensiero,
potesti, Aspasia, immaginar. Non sai
che smisurato amor, che affanni intensi,
che indicibili moti e che deliri
movesti in me (vv. 61-66).

Ora questi pensieri non esistono più. Adesso


quell’Aspasia è morta perché è scomparso il sentimento che
elevava l’animo del poeta, e dunque l’amore per
quell’immagine alta di donna ideale.

Or quell’Aspasia è morta
che tanto amai. Giace per sempre, oggetto
della mia vita un dì: se non se quanto,
pur come cara larva, ad ora ad ora
tornar costuma e disparir (vv. 70-74)

La donna reale vive ancora naturalmente, ed è la più


bella di tutte, questo il poeta non lo nega, ma, aggiunge
“Perch’io te non amai, ma quella Diva/ che già vita, or
sepolcro, ha nel mio core” (vv. 78-79). Ma oggi quella stessa
“Diva” (che richiama “l’amorosa idea” del v. 39) non esiste
più, poiché l’immagine di lei è svanita. Il poeta aggiunge che la
bellezza della donna divinizzata riluceva negli occhi della sua
immagine terrena, come se quest’ultima fosse solamente un
mezzo, uno strumento, attraverso il quale la bellezza ideale
poteva essere rappresentata. Di nuovo egli sembra imputare
alla donna reale la sua incapacità di corrispondere
all’immagine idealizzata di lei che il poeta s’era formato. Per
questo Leopardi si dice cosciente “dell’arti e delle frodi” (v. 83)
tipiche delle donne; nonostante questo, egli ha continuato ad
amare la donna terrena, ma solo perché, dice, “pur ne’ tuoi
contemplando i suoi begli occhi (v. 84)”; in altre parole,

160
Aspasia è una donna da amare solo perché riflette la bellezza
della donna ideale, di colei che viene vagheggiata. Giacomo la
guardava con desiderio non perché ingannato dalle malie della
donna terrena, bensì perché affascinato da quella “dolce
somiglianza” (v. 87) con la figura celeste dell’amata.

Al parer mio, che tutte l’altre avanzi.


pur quell’ardor che da te nacque è spento:
perch’io te non amai, ma quella Diva
che già vita, or sepolcro, ha nel mio core.
Quella adorai gran tempo; e sì mi piacque
sua celeste beltà, ch’io, per insino
già dal principio conoscente e chiaro
dell’esser tuo, dell’arti e delle frodi,
pur ne’ tuoi contemplando i suoi begli occhi,
cupido ti seguii finch’ella visse,
ingannato non già, ma dal piacere
di quella dolce somiglianza un lungo
servaggio ed aspro a tollerar condotto (vv. 76-88)

Questo raffronto tra la donna ideale e quella reale mostra


quanto il sentimento dell’amore fosse giudicato da Leopardi
sublime ed elevato, non si diretto verso la donna “carnale”,
bensì verso un’immagine ideale e perciò, per sua natura,
irraggiungibile. A questo proposito è interessante rammentare
il Dialogo tra Torquato Tasso e il suo Genio familiare, laddove il
Tasso lamenta la propria stanchezza per la vita, la cui scintilla
è sopita, e s’accende solo al ricordo della sua Leonora, ossia
Eleonora d’Este, sorella del duca Alfonso II. Nondimeno, il
Genio gli mostra che egli desidera più immaginare che vedere
effettivamente la donna, dal momento che in genere le
immagini del sogno recano molta più consolazioni di quelle
reali. Perciò il Genio ricorda che spesso quando si sogna la
donna amata, essa appare tanto bella e desiderabile da non

161
volerla più vedere nella realtà, poiché se ne rimarrebbe delusi:
‘Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se
non che questo può qualche volta essere molto più bello e più
dolce, che in quello non può mai’”.
L’ultima strofa della poesia è composta da due temi. Nei
versi 89-112 il poeta riepiloga le fasi del suo amore, ricordando
quanto il suo sentimento fosse totalizzante, tanto da indurlo a
porgere il suo cuore all’amata, a rivolgersi a lei quasi come un
supplice, a tremare di fronte a lei, a spiare con trepidazione
ogni suo gesto e parola, impallidendo o arrossendo
ogniqualvolta ella gli rivolgeva la parola, sempre aspettando
un cenno che potesse ricambiare il suo amore. In questi versi i
patimenti d’amore sono descritti con efficacia, esponendo la
natura ambivalente del sentimento d’amore, il suo essere sia
fonte di piacere immenso sia di totale prostrazione.

Or ti vanta, che il puoi. Narra che sola


sei del tuo sesso a cui piegar sostenni
l’altero capo, a cui spontaneo porsi
l’indomito mio cor. Narra che prima,
e spero ultima certo, il ciglio mio
supplichevol vedesti, a te dinanzi
me timido, tremante (ardo in ridirlo
di sdegno e di rossor), me di me privo,
ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto
spiar sommessamente, a’ tuoi superbi
fastidi impallidir, brillare in volto
ad un segno cortese, ad ogni sguardo
mutar forma e color. Cadde l’incanto,
e spezzato con esso, a terra sparso
il giogo: onde m’allegro. E sebben pieni
di tedio, alfin dopo il servire e dopo
un lungo vaneggiar, contento abbraccio
senno con libertà. Che se d’affetti

162
orba la vita, e di gentili errori,
è notte senza stelle a mezzo il verno,
già del fato mortale a me bastante
e conforto e vendetta è che su l’erba
qui neghittoso immobile giacendo,
il mar la terra e il ciel miro e sorrido (vv. 89-112).

Infatti, dopo qualche tempo il poeta s’è accorto che


anche quest’ultimo amore è solo fonte di amarezza.
L’“incanto” è caduto e lui si rallegra di essersi liberato da
questo “giogo”. Sebbene adesso la sua vita sia “d’affetti/ orba”
e priva di “gentili errori” (vv. 106-107), egli sembra contento
di sedere sull’erba in silenzio, indolente (“neghittoso”), non più
perseguitato dall’amore, ammirando con un sorriso il cielo il
mare e la terra. La poesia dunque si conclude con un “sorriso”
che è, come si legge in Zibaldone, 87,1, “l’ultima espressione
della estrema disperazione e della somma infelicità”. Scrive W.
Binni: “con quella poesia, culminata nel sorriso finale come
vendetta sulle cose e sulla brutta realtà e prova di superiorità
forse sin troppo acre e compiaciuta, il poeta si riapriva la
strada ad un ulteriore sviluppo della sua poesia dell’esperienza
di sé e dell’eroica persuasione, riportandosi - con tutta la forza
sperimentata nel ciclo amoroso - nel folto della sua
meditazione esistenziale e della sua battaglia - nella poesia e
con la poesia – ideologica e culturale, morale e pratica”92.

92 W. Binni, Scritti leopardiani 1969-1997, cit., p. 145.

163
Palinodia al marchese Gino Capponi

Questa palinodia (o “ritrattazione”) è stata a scritta a


Napoli nella primavera 1835 ed è l’ultimo brano dei Canti
pubblicati nell’edizione napoletana di quell’anno. La
ritrattazione delle proprie idee e convinzioni, redatta in forma
ironica e sarcastica, è indirizzata a uno degli “amici”
fiorentini, ovvero Gino Capponi (1792-1876), il quale non gradì
d’essere preso a esempio di un progressismo cieco e ingenuo.
Scrisse a Niccolò Tommaseo (storico nemico di Leopardi) nel
novembre 1835: “Il Leopardi m’ha scaricato addosso certi suoi
sciolti, dove gentilmente mi cogliona come credente a’ giornali,
a’ baffi, a’ sigari, alla sapienza e alla beatitudine del secolo. E
poi prova al solito, come quattro e quattr’otto, che la natura ci
attanaglia, e chi l’ha fatta è un boja. Io gli ho risposto in prosa
gentilmente ringraziandolo”. Sempre nel novembre 1835 scrive
al Vieussuex: “Ora bisogna che io scriva a quel maledetto
gobbo, che s’è messo in capo di coglionarmi, e per quella volta
almeno, Dio sa s’io me lo meritavo, che è proprio un’idea
storta”.
Tuttavia vi è una lettera del 24 novembre 1835, scritta
da Capponi a Leopardi, nella quale non v’è traccia di astio.
Certo, il Capponi non tace la sua distanza dalle idee di
Giacomo, ma gli rammenta come egli stesso sapesse che la
natura umana difficilmente muta, nonostante il progresso e il
benessere: “Il mondo a un bel circa sarà lo stesso, gli sbocchi
del male non si potranno mai né tappare né restringere, ed i
beni materiali diffondendosi, non per questo aggiungeranno, io
credo, pure un atomo alla massa di felicità umana”.
Alcuni critici sostengono che questa lettera cortese sia
una dissimulazione anche perché rimase senza replica. Eppure
si trattò di una risposta meditata, diversa dalle parole di sfogo
indirizzate dal Capponi al Tommaseo e al Vieusseux. Infatti
nella lettera scritta a Giacomo, il Capponi non nasconde le

164
radicali differenze tra le sue idee e quelle di Leopardi ma,
appunto, non tace nemmeno la sua convinzione sulla
mancanza di felicità nel mondo, nonché la sua scarsa fede sulla
sua perfettibilità dell’uomo. Il Capponi non cerca il consenso
di Leopardi, ma “vuole […] confermare un habitus interiore,
un costume di vita, un’attitudine di pensiero che gli sono
abituali e lo distinguono dall’orgoglioso ottimismo che,
nell’ambiente fiorentino, s’accompagna al mito del progresso
liberale”93.
Sin dalla prima strofa il tono della Palinodia è
ironicamente amaro, perché Leopardi dichiara
immediatamente di aver sbagliato: “Errai, candido Gino; assai
gran tempo,/ e di gran lunga errai”, (vv. 1-2): la sua idea che la
vita sia infelice, vana, e che l’età presente sia insulsa, era
quindi scorretta. Avevano ragione i suoi detrattori “dall’Eden
odorato in cui soggiorna”: non è la vita a essere priva di
piaceri, né il secolo XIX a essere insulso, ma è lui, Giacomo, a
essere incapace di provare i piaceri e a pretendere di
trasformare la sua sofferenza personale in qualcosa che
riguarda tutti:

… Fra maraviglia e sdegno94,


dall’Eden odorato in cui soggiorna,

93 G. Tellini, Leopardi, cit., p. 261. D’altra parte il Capponi diede un giudizio


positivo alle Operette morali: “Il conte Leopardi ha dato nelle sue Operette
morali un bel modello di linguaggio che s’appartiene alla filosofia. Felicissime
le invenzioni e bene immaginati i personaggi tra’ quali suppone intervenuti i
suoi dialoghi. Molta copia delle sentenze e la giustezza dei pensieri … Noi
tegnamo per fermo questa sua filosofia esser frutto di lunga meditazione sui
casi veri della vita, e questa raccolta di Operette dottissime essere da anteporsi
a qualunque altra opera che in più grossi volumi e sotto più severe sembianze
fosse dettata dal più accigliato dottore …. Il massimo pregio è lo stile che può
dirsi perfetto”.
94 F. Bandini, a proposito della coppia di termini “meraviglia e sdegno”, cita il

Dialogo di Tristano e di un Amico: “Amico. Vi prego, non fate di codesti


discorsi con troppe persone, perché vi acquisterete molti nemici”.

165
rise l’alta progenie, e me negletto
disse, o mal venturoso, e di piaceri
o incapace o inesperto, il proprio fato
creder comune, e del mio mal consorte
l’umana specie (vv. 7-13).

Leopardi confessa d’essere in errore per non aver scorto


la letizia della vita e la bellezza di un’età tutta volta verso il
progresso e il benessere. Queste considerazioni sono condotte
con ironia, mentre le riunioni mondane e intellettuali nei caffè
sono descritte con un tono guerresco che amplifica il carattere
sarcastico dei versi:

Alfin per entro il fumo


de’ sìgari onorato, al romorio
de’ crepitanti pasticcini, al grido
militar, di gelati e di bevande
ordinator, fra le percosse tazze
e i branditi cucchiai, viva rifulse
agli occhi miei la giornaliera luce
delle gazzette. Riconobbi e vidi
la pubblica letizia, e le dolcezze
del destino mortal. Vidi l’eccelso
stato e il valor delle terrene cose,
e tutto fiori il corso umano, e vidi
come nulla quaggiù dispiace e dura (vv. 13-26).

Il tono ironico prosegue nella seconda strofa, quando il


XIX è definito un secolo “aureo”, nel quale l’umanità non
soffrirà più, ci sarà benessere per tutti e il progresso delle
macchine raggiungerà livelli eccelsi. L’attacco contro la fede
ingenua nel progresso non poteva essere più netto, e ricorda
un’operetta morale, la Proposta di premi fatta dall’Accademia
dei Sillografi, nella quale Leopardi aveva messo alla berlina la

166
fiducia dell’uomo dell’ottocento nel progresso umano, nella
promessa di vivere meglio grazie alla ferrovia, alla fine delle
malattie, ai commerci e all’amore universale. Non solo, dice
Giacomo in chiave ironica: di certo questo secolo prepara
l’avvento di una nuova età dell’oro, nella quale gli alberi
daranno latte e miele mentre l’umanità si divertirà danzando il
valzer:

Universale amore,
ferrate vie, moltiplici commerci,
vapor, tipi e choléra i più divisi
popoli e climi stringeranno insieme:
nè maraviglia fia se pino o quercia
suderà latte e mele, o s’anco al suono
d’un walser danzerà (vv. 42-48).

Nella terza strofa, deposto in parte il tono ironico, il


poeta ricorda i mali dell’umanità: l’invenzione di nuove armi
nutre la guerra, che non cessa mai, sia in Europa sia in
America (“l’altra riva/ dell’atlantico mar”, vv. 62-63). Egli
constata che il valore e la virtù sono sempre in contrasto con la
volontà di arricchirsi grazie al commercio: l’umanità dà infatti
valore a beni effimeri e, sin da quando l’uomo è apparso sulla
terra, la virtù viene spregiata. Chi detiene il potere continua
ad abusarne, sia nelle democrazie che nelle tirannidi (“Valor
vero e virtù, modestia e fede / e di giustizia amor, sempre in
qualunque / pubblico stato, alieni in tutto e lungi / da’
comuni negozi, ovvero in tutto / sfortunati saranno, afflitti e
vinti”, vv. 69-73): il progresso delle scienze (la pila, l’arco
voltaico, l’elettricità) non diminuisce la tendenza umana al
sopruso, all’ingiustizia verso i più deboli “cibo de’ forti il
debole”.

167
Sempre il buono in tristezza, il vile in festa
sempre e il ribaldo: incontro all’alme eccelse
in arme tutti congiurati i mondi
fieno in perpetuo: al vero onor seguaci
calunnia, odio e livor: cibo de’ forti
il debole, cultor de’ ricchi e servo
il digiuno mendico, in ogni forma
di comun reggimento, o presso o lungi
sien l’eclittica o i poli, eternamente
sarà, se al gener nostro il proprio albergo
e la face del dì non vengon meno. (vv. 85-96)

Tuttavia, scrive Leopardi con rinnovata ironia all’inizio


della quarta strofa, queste sono “lievi reliquie” del passato,
perché il secolo XIX, secondo i suoi corifei, sembra destinato a
spazzare via queste ingiustizie e miserie. In realtà, lui sa che è
connaturato all’uomo non solo il soffrire, ma anche il farsi
trasportare, nei rapporti con i suoi simili, soprattutto dall’odio
e dalla volontà di primeggiare a ogni costo:

e por quegli odii in pace


non valser gl’intelletti e le possanze
degli uomini giammai, dal dì che nacque
l’inclita schiatta, e non varrà, quantunque
saggio né possente, al secol nostro
patto alcun o giornal” (vv. 102-107).
Insomma, i mali del mondo non sono mai stati risolti
nemmeno dai più grandi intelletti e di certo, secondo il poeta,
non li risolverà l’epoca dei giornali e delle “gazzette”. D’altra
parte, scriveva Giacomo in una lettera a Fanny Targioni
Tozzetti il 5 dicembre 1831: “Sapete ch’io abbomino la politica
perché credo, anzi vedo che gl’individui sono infelici sotto ogni
forma di governo; colpa della natura che ha fatti gl’uomini
all’infelicità…”.

168
Nonostante ciò, il secolo XIX crede che il semplice
progresso materiale, il raffinamento dei vestiti, l’avvento della
moda, le invenzioni di nuove macchine per viaggiare, se non
addirittura per volare, potrà sollevare l’uomo dalla sua
sofferenza.

Da Parigi a Calais, di quivi a Londra,


da Londra a Liverpool, rapido tanto
sarà, quant’altri immaginar non osa,
il cammino, anzi il volo: e sotto l’ampie
vie del Tamigi fia dischiuso il varco,
opra ardita, immortal, ch’esser dischiuso
dovea, già son molt’anni. Illuminate
meglio ch’or son, benchè sicure al pari,
nottetempo saran le vie men trite
delle città sovrane, e talor forse
di suddita città le vie maggiori.
tali dolcezze e sì beata sorte
alla prole vegnente il ciel destina (vv. 122-132).

Il sarcasmo di Leopardi è lampante, perché questa fede


nel progresso va contro tutta la sua filosofia e la sua teoria del
piacere. Tornano qui in mente le parole di Tristano
nell’operetta Dialogo di Tristano e di un amico, che è una sorta
di anticipazione di questa Palinodia: “Dei disegni e delle
speranze di questo secolo non rido: desidero loro con tutta
l’anima ogni miglior successo possibile, e lodo, ammiro ed
onoro altamente e sincerissimamente il buon volere: ma non
invidio però i posteri, né quelli che hanno ancora a vivere
lungamente”.
D’altra parte, un secolo che si basa sulla statistica, sulle
scienze economiche, sulla finanza, non può aver riguardo per le
esigenze dell’uomo. Nella strofa quinta riecheggiano di nuovo
le parole del Dialogo di Tristano e di un amico, laddove

169
Leopardi scrive: “Ma viva la statistica! vivano le scienze
economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i
manuali, e le tante belle creazioni del nostro secolo! e viva
sempre il secolo decimonono! forse povero di cose, ma
ricchissimo e larghissimo di parole: che sempre fu segno
ottimo, come sapete. E consoliamoci, che per altri sessantasei
anni, questo secolo sarà il solo che parli, e dica le sue ragioni”.
Ma la fallacia di queste idee di progresso è dimostrata
dall’inesorabile potere della natura, che è definita al verso 170
della Palinodia “crudel”, poiché “il suo capriccio adempie, e
senza posa/ distruggendo e formando si trastulla” (vv. 171-
172). La natura è paragonata a un fanciullo che costruisce, con
“fogliolini e fuscelli” (v. 155) una torre e un palazzo e poi, a
suo capriccio, lo distrugge: com’è possibile, davanti a una
natura siffatta, pensare che l’uomo possa cancellare il male e la
sofferenza, dal momento che questo male non dipende da lui,
ma appunto da una natura malvagia e crudele? Una riflessione
analoga si legge nello Zibaldone (p. 4452):

La Natura è come un fanciullo: con grandissima cura ella si


affatica a produrre, e a condurre il prodotto alla sua perfezione;
ma non appena ve l’ha condotto, ch’ella pensa e comincia a
distruggerlo, a travagliare alla sua dissoluzione. Così nell’uomo,
così negli altri animali, ne’ vegetabili, in ogni genere di cose. E
l’uomo la tratta appunto com’egli tratta un fanciullo: i mezzi di
preservazione impiegati da lui per prolungar la durata
dell’esistenza o di un tale stato, o suo proprio o delle cose che gli
servono nella vita, non sono altro che quasi un levar di mano al
fanciullo il suo lavoro, tosto ch’ei l’ha compiuto, acciò ch’egli non
prenda immantinente a disfarlo (2 dicembre 1828).

Leopardi in questa poesia non tace nulla della sua


filosofia dolorosa e vera. Per questo si può affermare che la
Palinodia sia lo “svelamento ardito e amaro di quelle
autentiche leggi del ‘reale’ che il falso pietismo dello spirituale

170
si fa invece un preciso dovere di occultare o di manipolare
sotto pretestuosi sofismi”95. L’uomo spesso si comporta nei
confronti della natura come fa con i fanciulli, ovvero, tende a
togliere di mano alla natura il suo “trastullo”, cercando di
prolungare l’esistenza sua propria o delle cose che gli stanno a
cuore, ottenendo però spesso l’effetto opposto e dando così
involontariamente una mano alla natura (cfr. i vv. 167-172 e
Zibaldone, sempre p. 4452).
Come corollario a questa riflessione la strofa prosegue
con versi intensi, che riprendono in parte gli argomenti de Il
canto notturno di un pastore errante dell’Asia:

Indi varia, infinita una famiglia


di mali immedicabili e di pene
preme il fragil mortale, a perir fatto
irreparabilmente: indi una forza
ostil, distruggitrice, e dentro il fere
e di fuor da ogni lato, assidua, intenta
dal dì che nasce; e l’affatica e stanca,
essa indefatigata; insin ch’ei giace
alfin dall’empia madre oppresso e spento.
queste, o spirto gentil, miserie estreme
dello stato mortal; vecchiezza e morte,
ch’han principio d’allor che il labbro infante
preme il tenero sen che vita instilla;
emendar, mi cred’io, non può la lieta
nonadecima età più che potesse
la decima o la nona, e non potranno
più di questa giammai l’età future. (vv. 173-189)

Dunque i mali del mondo, il destino di sofferenza

95 U. Dotti, Lo sguardo sul mondo. Introduzione a Leopardi, cit., p. 120.

171
dell’uomo, il fatto che egli cominci a morire sin quando nasce,
non possono essere emendati dal secolo XIX, né da qualsiasi
altra epoca. Appena giunto al mondo, l’uomo è atteso da una
“infinita famiglia/ di mali immendicabili e di pene” (vv. 174-
176), e sarà “oppresso e spento” dall’“empia madre”, ovvero
dalla natura. Leopardi qui riafferma la sua convinzione
secondo cui l’infelicità è qualcosa che appartiene all’uomo in
modo essenziale; tale verità, benché scomoda, dovrebbe essere
accettata da tutti con coraggio. Ma ovviamente ciò non
accade, perché tale verità sarebbe insopportabile, gettando
nello sconforto l’umanità: per questo gli intelletti del secolo
XIX, “non potendo/ felice in terra far persona alcuna” (vv.
199-200), attraverso i pamphlets e i giornali sbandierano la
possibilità di una felicità comune grazie alla scienza e alla
tecnica. Essi così però ottengono solo uno scopo: ingannare il
popolo e occultare il tragico destino dell’uomo. È qui pungente
l’attacco rivolto agli “eccelsi / spirti del secol mio” (v. 198-
199) i quali “non potendo / felice in terra far persona alcuna, /
l’uomo obbliando, a ricercar si diero / una comun felicitade”
(199-202). Riprendendo un’espressione che Voltaire aveva
impiegato (bonheur général) scrivendo del terremoto di Lisbona
del 1755, Giacomo sostiene che è impossibile che dal male degli
individui singoli possa risultare un bene universale:
Cosa certa e non da burla si è che l’esistenza è un male per
tutte le parti che compongono l’universo (e quindi è ben difficile
il supporre ch’ella non sia un male anche per l’universo intero, e
più ancora difficile si è il comporre, come fanno i filosofi, Des
malheurs de chaque être un bonheur général […]. Non si comprende
come dal male di tutti gl’individui senza eccezione, possa
risultare il bene dell’universalità; come dalla riunione e dal
complesso di molti mali e non d’altro, possa risultare un bene.)
Ciò è manifesto dal veder che tutte le cose al lor modo patiscono
necessariamente, e necessariamente non godono, perchè il piacere
non esiste esattamente parlando (Zibaldone, p. 4175, 22 aprile
1826).

172
La colpa di questa svalutazione e non accettazione della
condizione umana va addebitata alla filosofia, la quale, nel
secolo XIX, sembra riproporre argomenti e idee che nel secolo
precedente aborriva: quale garanzia può dare una conoscenza
che, quasi da un anno all’altro, muta concetti e opinioni? Lo
stesso sarcasmo si abbatte su un sodale del Capponi (il
Tommaseo, opposto a Leopardi da una antipatia reciproca), il
quale avrebbe consigliato al poeta di abbandonare la
riflessione sui suoi “affetti”, suggerendo di cantare i bisogni
“del secol nostro, e la matura speme” (v. 238). Leopardi non
può che dedicare versi di taglienti a questo consiglio:

Memorande sentenze! Ondi’io solenni


le risa alzai quando sonava il nome
della speranza al mio profano orecchio
quasi comica voce, o come un suono
di lingua che dal latte si scompagni. (vv. 239-242)

Il poeta si definisce “degli astri desioso” (v. 251), ovvero


non adatto a celebrare i “bisogni” del secolo, per soddisfare i
quali sono sufficienti “i mercati e le officine”, trattandosi di
bisogni puramente materiali. Solo la “speme” può essere
cantata dal poeta, e null’altro, proprio perché nulla è il mondo
e vana è la ricerca del piacere.
L’ultima strofa è ancora intessuta di tenace ironia,
perché dissimula un appello alla gioventù, alla prole dell’Italia
del secolo XIX, per la quale, secondo i corifei del progresso
all’infinito, si preparerebbe un avvenire di felicità e benessere.
L’Italia e l’Europa tutta (“dalle foci del Tago all’Ellesponto”)
prospereranno: saranno costruite ville bellissime, le città si
ingrandiranno, la felicità diverrà attingibile; saranno contenti
sia i vecchi che i giovani, perché entrambi avranno alle spalle
l’oscuro tempo passato della sofferenza e del dolore e
s’apriranno verso un futuro di gioia e benessere. A chi conosce

173
le meditate e profonde riflessioni di Leopardi sulla gioventù e
sulla vecchiaia, queste considerazioni appaiono di certo come
una totale confutazione della fede in un progresso all’infinito
verso la felicità:

E tu comincia a salutar col riso


gl’ispidi genitori, o prole infante,
eletta agli aurei dì: nè ti spauri
l’innocuo nereggiar de’ cari aspetti.
Ridi, o tenera prole: a te serbato
è di cotanto favellare il frutto;
veder gioia regnar, cittadi e ville,
vecchiezza e gioventù del par contente,
e le barbe ondeggiar lunghe due spanne (vv. 271-279).

Da questa Palinodia, che si snoda per quasi trecento


versi, traspare un Leopardi rassegnato alla contemplazione del
suo dolore e della sua infelicità, e deciso a non accettare false
soluzioni o vane consolazioni ai suoi mali. Inoltre, la sua
posizione “appare chiaramente quella di un contestatore delle
facili conquiste umane e di un sistema scioccamente o, peggio,
interessatamente ottimistico, se la stessa civilizzazione
colonizzatrice a lui rivela il suo calcolo scellerato e la sua
‘industria’ consumistica, livellatrice, sopraffattrice di libere
energie e di valori autonomi”96. Il parallelo con il Dialogo di
Tristano e di un amico è, come si è detto, evidente. L’operetta,
d’altra parte, era stata scritta nel 1832, dunque in data non
lontana dalla composizione della Palinodia. Essa di certo
nasce nella stessa atmosfera di abbandono delle illusioni e delle
speranze, ma ha un carattere ironico più marcato:

96 W. Binni, Scritti leopardiani 1969-1997, cit., p. 150.

174
laddove il Tristano è un testo satirico solo in parte, la
Palinodia è interamente giocata su quella finzione di base. La
stessa rappresentazione di una natura crudele, che, simile a un
fanciullo capriccioso, crea e distrugge senza posa le sue opere
[…], è recuperata alla struttura satirica dell’epistola con l’ironico
richiamo finale a una ‘comun felicitate’, escogitata dagli ‘eccelsi
spirti’ del secolo per rimediare all’infelicità dei singoli97.

97 L. Blasucci, I tempi dei “Canti”. Nuovi studi leopardiani, cit., p. 211.

175
Il tramonto della luna

Questa poeta venne scritta a Torre del Greco, a Villa


Ferrigni, nella primavera del 1836, ed è considerata l’ultima
redatta dal poeta, essendo stata composta prima de La
ginestra. Venne inserita nell’edizione dei Canti del 1845,
pubblicata a Firenze dall’editore Le Monnier, con la curatela
di Antonio Ranieri.
Era dei tempi del Canto notturno che Leopardi non
scriveva della luna; ne Il tramonto della luna l’astro celeste
simboleggia un’immagine di decadimento, di estrema mestizia,
come se il poeta, scrivendo, presentisse la sua fine, che sarebbe
giunta nel giugno 1837. Il canto è perciò accostabile alle parole
che Giacomo scriverà al padre Monaldo il 27 maggio 1837,
nell’ultima lettera a lui indirizzata prima della scomparsa: “I
miei patimenti fisici giornalieri e incurabili sono arrivati con
l’età ad un grado tale che non possono più crescere: spero che
superata finalmente la piccola resistenza che oppone loro il
moribondo mio corpo, mi condurranno all’eterno riposo che
invoco caldamente ogni giorno non per eroismo, ma per il
rigore delle pene che provo”.
Nella prima strofa ci sono ben undici versi che si
succedono prima di giungere al soggetto che regge tutti i
predicati, ossia la luna che tramonta: quel verso 12, “scende la
luna”, significa che tra i monti, le valli, nel mare, nelle
campagna, “sovra campagne inargentate ed acque” (v. 2), ora
c’è il buio assoluto che precede l’alba:

scende la luna; e si scolora il mondo;


spariscon l’ombre, ed una
oscurità la valle e il monte imbruna;
orba la notte resta,
e cantando, con mesta melodia,
l’estremo albor della fuggente luce,

176
che dianzi gli fu duce,
saluta il carrettier dalla sua via; (vv. 12-19)

Tal si dilegua, e tale


lascia l’età mortale
la giovinezza. In fuga
van l’ombre e le sembianze
dei dilettosi inganni; e vengono meno
le lontane speranze (vv. 20-25)

Questo mesto tramontare della luna, questo suo


dileguarsi, è paragonabile alla fine della giovinezza: l’età delle
speranze, delle illusioni (“i dilettosi inganni”), è terminata e,
dopo di lei, “Abbandonata, oscura/ resta la vita” (vv. 27-28).
Dopo questa età giovanile, l’uomo (“il confuso viatore”, v. 29)
è disorientato: egli cerca ugualmente “meta o ragione” da
offrire al resto della sua vita, al tratto di esistenza che ancora
lo aspetta. Ma non trova nulla: comprende solamente che tra
lui e il mondo sussiste una totale estraneità, dato che la natura
è indifferente verso di lui. Anche la terra, un elemento
naturale, non è più amica dell’uomo. All’epoca de L’infinito
questo mondo terreno, benché fragile, permetteva alle cose
umane di trovare un punto d’appoggio. Ora, nel 1836, non è
più così: “Lo splendore delle illusioni è abolito: non ci sono più
ombre luminose; forse perfino la ginestra, la suprema tra le
illusioni, giace coperta di lava sul fianco del Vesuvio. Non
resta più nulla: o solo il ricordo; il canto malinconico del
carrettiere all’ultimo albore luminoso, mentre la luce della
luna-giovinezza sta scomparendo nel mare o dietro i monti”98.
La dimostrazione che “lassù” la sorte dell’uomo non è
“felice e lieta”, non è testimoniata solo dalla brevità del tempo
giovanile (dove comunque “ogni ben di mille pene è frutto”, v.

98 P. Citati, Leopardi, cit., pp. 409-410.

177
37), ma dal fatto che la decadenza dell’individuo comincia
subito dopo la giovinezza, e che la vecchiaia è “della terribil
morte assai più dura” (v. 43). Il vero male dell’uomo, dunque,
non è la morte, bensì la vecchiaia, perché in essa i desideri si
generano ugualmente, ma è venuta meno la speranza, si sono
disseccate le fonti del piacere e sono aumentate le pene. Nei
Pensieri Leopardi ha scritto queste parole, ponendo tra
vecchiaia e morte un contrasto assai netto: “La morte non è
male: perché libera l’uomo da tutti i mali, e insieme coi beni gli
toglie i desiderii. La vecchiezza è male sommo: perché priva
l’uomo di tutti i piaceri, lasciandogliene gli appetiti; e porta
seco tutti i dolori. Nondimeno gli uomini temono la morte, e
desiderano la vecchiezza” (VI). In altre parole, il dramma della
“vecchiezza” consiste in questo: in essa l’uomo avverte di
provare desideri, ma di non essere più considerato come
qualcuno che possa ispirare interessi o sentimenti. Se invece
“fosse/ incolume il desio, la speme estinta,/ secche le fonti del
piacer, le pene/ maggiori sempre, e non più il dato bene” (vv.
47-50), l’età anziana non sarebbe così drammatica.
L’ultima strofa presenta uno spiraglio di luce, ma non
per l’uomo: il poeta infatti sa che le “collinette e le piagge”,
dopo il tramonto della luna e dopo l’alba, verranno illuminate
dal sole che sorgerà: “di lucidi torrenti/ inonderà con voi gli
eterei campi” (vv. 61-62). Questa possibilità, che si ripete ogni
giorno, di ritrovare la luce dopo le tenebre, vale anche per
l’uomo, ma solo per i pochi anni che gli restano da vivere; al
contrario, i colli, i boschi, il mare, la luna, godono di questo
privilegio all’infinito poiché immortali. Per l’uomo invece
arriva presto il momento del buio eterno, della sera a cui non
seguirà nessuna alba. Il destino dell’uomo, dopo la decadenza,
è la morte:

Ma la vita mortal, poi che la bella


giovinezza sparì, non si colora

178
d’altra luce giammai, né d’altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
che l’altre etadi oscura,
segno poser gli Dei la sepoltura (vv. 63-68)

La luna è un elemento assai presente nei Canti: essa


rappresenta diverse situazioni e temi, ma in generale possiede
un carattere consolatorio, sino a divenire, nel Canto notturno,
un astro con cui dialogare, ma dal quale, ovviamente, non si
può ottenere risposta. Nel Tramonto della luna, sin dal titolo,
l’atmosfera invece muta: questo tramonto rappresenta
l’abbandono della vita mortale per l’uomo, mentre, ancora una
volta, l’astro celeste non segue le vicissitudini dell’umanità.
Esso tornerà a sorgere e poi a tramontare, seguendo il suo
corso infinito, cosa che è impossibile per l’essere umano: “La
luna declina dietro l’orizzonte della notte, la ‘notte solinga’,
che accompagna questa metafora fino al luogo del suo
compimento: la terra del tramonto è l’occidente, dove anche il
pensiero delle verità integrali ha portato a termine il suo corso.
La giovinezza, i ‘dilettosi inganni’, le ‘lontane speranze’ si
dileguano nel buio profondo della storia”99. Gli ultimi sei versi
della poesia non appaiono nell’autografo. Essi sono ritenuti, da
quasi tutti i critici, scritti da Leopardi, sebbene non tutti
accettano la versione secondo la quali essi siano stati dettati
da Giacomo ad Antonio Ranieri proprio il giorno della morte.

99 C. Mariani, Alfabeto leopardiano, Moretti&Vitali, Bergamo 1991, p. 78.

179
La ginestra o il fiore del deserto

La poesia fu scritta a Torre del Greco nella primavera del


1836 e venne pubblicata nell’edizione fiorentina dei Canti del
1845, curata da Antonio Ranieri. È una delle più celebri e più
lunghe canzoni scritte da Leopardi, un impasto di pensiero e
poesia, nella quale il poeta adotta un tono didascalico, quasi
algido, nell’intento di comunicare più il suo pensiero che le sue
emozioni più profonde. Per Walter Binni ne La ginestra
“pensiero e poesia (tanto espressivi-impressivi, quanto in
continuo movimento di acquisto di verità e di poesia) trovano
la loro vita indissociabile nella voce di un supremo messaggio
poetico”100. Ecco l’incipit:
Qui su larida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null’altro allegra arbor nè fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de’ mortali un tempo,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero (vv. 1-13).

La ginestra è un fiore che spicca, solitario, sulle pendici


del Vesuvio; essa è “odorata” e “contenta dei deserti”: il Flora
sottolinea come l’aggettivo “contenta”: “non dice allegrezza,
ma l’umiltà discreta di chi non si lagna”. Leopardi aveva già

100 W. Binni, Scritti leopardiani 1969-1997, cit., p. 253.

180
veduto la ginestra nella campagna romana, città che “fu
donna dei mortali un tempo/ e del perduto impero” (vv. 10-
11), e che ora è decaduta. Ma anche sulle pendici del vulcano la
ginestra, che spicca solitaria nel deserto di lava, è simbolo di
un passato glorioso (quello delle “città famose”, ossia
Ercolano, Pompei e Stabia, distrutte dall’eruzione del 79 d.C.),
perché ora ella spicca in una landa dove un tempo v’era un
biondeggiar di spiche, e risonaro
di muggiti d’armenti;
fur giardini a palagi
agli ozi de’ potenti
gradito ospizio; e fur città famose… (vv. 25-29).

Il XVIII secolo era stata l’epoca della scoperta di


Pompei ed Ercolano: filosofi e scienziati avevano riflettuto a
lungo sulle catastrofi naturali, come terremoti ed eruzioni
vulcaniche. Il terremoto di Lisbona del 1755, per esempio, era
servito a dimostrare l’infondatezza dell’ottimismo
illuministico. Ne La ginestra Leopardi però non discute tali
questioni, limitandosi a osservare come la natura si comporti
in modo indifferente verso l’uomo, giacché il suo ciclo perenne
di distruzione e generazione avviene senza alcun riguardo per
l’umanità. Le erbe, i campi, le città, le civiltà possono essere
distrutte in un istante, com’è spesso avvenuto; in seguito,
sorgeranno nuove civiltà, città floride, campi coltivati.
Tuttavia anch’essi dopo qualche tempo potranno essere
distrutte dalla natura, che non è buona né cattiva ma
indifferente: “La storia finirà un’altra volta, quando i ruscelli
bollenti e i massi liquefatti ricopriranno di nuovo i fianchi
della montagna e le ginestre”101.
La riflessione sulla bellezza passata dei luoghi,
contrapposta alla “ruina” in cui essi sono caduti al tempo di

101 P. Citati, Leopardi, cit., p. 402.

181
Leopardi, serve al poeta per un’amara meditazione sulla forza
selvaggia della natura, tanto da indurlo ad affermare che colui
che è solito esaltare la condizione umana dovrebbe osservare
quelle “piagge” e la potenza della natura che, abbattendosi su
di esse, le ha distrutte. Nel La ginestra Leopardi mette in burla
un verso del cugino Tommaso Mamiani (1799-1855) che, nella
Dedica agli Inni sacri, pubblicati nel 1832, vantava le
magnifiche sorti e progressive del genere umano. Leopardi
oppone a tale vacuo ottimismo lo spettacolo naturale della
distruzione di città un tempo ritenute immortali:

A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla 45
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive. (vv. 37-51)

La seconda strofa s’apre con un’invettiva contro il “secol


superbo e sciocco” (v. 53), colpevole di voler ritornare allo
spiritualismo, abbandonando la strada tracciata dal
Rinascimento in poi, e culminata nell’Illuminismo, di un
pensiero più vicino all’uomo, desideroso di non credere più né
alle superstizioni né alla metafisica. Non si tratta di un
atteggiamento politico, bensì di un più generale atteggiamento

182
esistenziale; d’altra parte, in questa poesia l’obiettivo politico,
se proprio lo si vuol trovare, non è la Restaurazione, bensì
l’ideologia liberale. Quest’ultima infatti, pur avendo avuto il
merito di opporsi alla restaurazione, ne aveva ereditato
un’ideologia spiritualistica che Giacomo non poteva non
aborrire. Per questo, proprio a causa del recupero dello
spiritualismo, il XIX secolo si mostra, oltre che epoca
sprovveduta, anche incapace d’accorgersi che coloro che a
parole lo lodano, se ne fanno beffe in privato:

Al tuo paroleggiar gl’ingegni tutti,


di cui lor sorte rea padre ti fece,
vanno adulando, ancora
ch’a ludibrio talora
t’abbian tra sè. (vv. 59-63)

Il poeta conferma di sentirsi estraneo a questo secolo


vacuo, al quale vuole mostrare solo disprezzo; tuttavia egli sa
che colui che s’oppone al pensiero dominante viene presto
dimenticato e osteggiato: “ben ch’io sappia che obblio/ preme
chi troppo all’età propria increbbe” (vv. 68-69). Ma l’oblio
sommergerà presto la falsa filosofia del secolo XIX, che sogna
la libertà, ma si pone schiava di un pensiero che sembra voler
far tornare l’umanità alla barbarie d’un tempo, occultando la
vera condizione dell’uomo e la sua miseria. La polemica è
tenace, in questi versi, contro un pensiero che ha abbandonato
la filosofia sensistica e materialistica (“Per questo il tergo/
vigliaccamente rivolgesti al lume/ che il fe’ palese…” vv. 80-
82), che invece è meritoria poiché mostra senza veli la vera
condizione umana. Nell’800 chi dice la verità, è schernito e
giudicato vile; mentre colui che, ingannando gli uomini, loda le
inesistenti bellezze della condizione umana, è ritenuto
magnanimo, quando invece è solo “astuto o folle,/ fin sopra gli
astri il mortal grado estolle” (vv. 85-86). È evidente che il

183
tentativo di porre l’essere umano al vertice del creato, come
creatura privilegiata, doveva apparire folle a Giacomo.
Traspare qui in modo evidente sia la polemica di Leopardi
contro l’ottimismo romantico, che esaltava la grandezza
dell’uomo, sia la difesa accorata del proprio pessimismo e in
particolare delle teorie sensiste. Egli non ha mai creduto nella
perfettibilità dell’essere umano, nemmeno in gioventù:

Noi fantastichiamo la perfettibilità dell’uomo, e dopo così


immensi (pretesi) avanzamenti del nostro spirito, non siamo più
vicini di prima alla nostra supposta perfezione; e quando anche ci
si dassero in mano le facoltà e la scienza di un Dio, per comporre
un uomo perfetto secondo le nostre idee, non lo sapremmo fare,
perchè da che noi immaginiamo una perfezione assoluta, ed
unica, non possiamo in eterno sapere in che cosa possa consistere
la perfezione dell’uomo, nè di qualunque altro essere possibile, o
genere di esseri” (Zibaldone, p. 1909, 13 ottobre 1821).

La canzone prosegue la polemica contro coloro che


nascondono la reale condizione umana: essi sono ritenuti
doppiamente colpevoli perché, pur sapendo quanto sia misera
l’umanità, ingannano gli altri, più sprovveduti e meno colti,
descrivendo invece una condizione felice, asserendo che le
catastrofi naturali (“un’onda/ di mar commosso, un fiato/
d’aura maligna, un sotterraneo crollo/ distrugge sì, che avanza/
a gran pena di lor rimembranza” vv. 106-110) pur cancellando
gli uomini dalla faccia della terra, ne preserveranno il ricordo
per la posterità. Solo un uomo nobile sa diradare la nebbia
delle false credenze e, con “franca lingua”, senza inganni, sa
descrivere il male che è stato dato in sorte all’umanità; egli
non teme “gli odii e l’ire/ fraterne” (vv. 119-120), e non teme d
dichiarare che la sola colpevole di questa condizione miseranda
dell’uomo è la natura, che “madre è di parto e di voler
matrigna”, ossia partorisce l’uomo, ma poi lo tratta
malignamente, disinteressandosene. Riecheggia qui l’accusa

184
alla natura che si legge nell’operetta Dialogo della Natura e di
un Islandese: “sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi
propri figlioli”:

Nobil natura è quella


che a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra se nel soffrir, nè gli odii e l’ire
fraterne, ancor più gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de’ mortali
madre è di parto e di voler matrigna (vv. 111-125)

Vi è in qui un accenno a una fratellanza universale,


accentuata dall’esigenza di darsi aiuto reciproco nelle
difficoltà. In questi versi è presente la visione cosmopolitica
dell’illuminismo, che si rifà soprattutto al pensiero di
Rousseau. Leopardi sostiene che chi svela agli uomini la loro
vera condizione, indicando la natura come nemica, ritiene gli
uomini tutti fratelli, ossia li vede “tutti fra sé confederati” (v.
130), uniti contro la natura crudele. In questa strofa tanto
densa vi sono due temi significativi. Il primo concerne la
presenza diffusa del dolore nel mondo che, in colui che sa qual
è la causa di tale sofferenza, non è ricondotta alla
responsabilità dell’uomo, bensì all’azione della natura
matrigna. Questo significa che in Leopardi, conscio del fatto
che l’infelicità è un destino dell’uomo, non vi è alcuna

185
misantropia, né disprezzo verso gli uomini, ma solo
compassione per il comune destino tragico che li accomuna.
“Ma chi accusava … Leopardi … di misantropia? Erano i
‘nuovi credenti’ … erano non i filantropi del razionalismo
settecentesco, ma gli uomini del nuovo spiritualismo, i filosofi
della nuova filosofia, della filosofia dell’apriori … e ci cattolici
liberali o i liberali cattolici … Erano coloro che avevano
conciliato, o avevano creduto di conciliare, il pio
‘spiritualismo’ e il suo ottimismo provvidenziale con
l’affarismo del mondo moderno”102.
Leopardi stesso afferma che la sua filosofia non è affatto
misantropia, al contrario:

La mia filosofia, non solo non è conducente alla


misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e
come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia,
di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore,
quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i
quali non sono filosofi, e non vorrebbono esser chiamati nè
creduti misantropi, portano però cordialmente a’ loro simili, sia
abitualmente, sia in occasioni particolari, a causa del male che,
giustamente o ingiustamente, essi, come tutti gli altri, ricevono
dagli altri uomini. La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e
discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il
lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi.
ec. ec. (Zibaldone, p. 4428, 2 gennaio 1829)103.

Dunque, se gli uomini si danneggiano l’un con l’altro, la


colpa non è di loro stessi bensì della natura che li ha creati di
tal fatta. In tal modo ci si collega al secondo tema contenuto

102C. Luporini, Leopardi progressivo, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 90.


103In una lettera a Pietro Giordani del 24 luglio 1828 Giacomo scrive: “[Gli
uomini] sono condannati all’infelicità dalla natura, e non dagli uomini nè dal
caso: e per conforto di questa infelicità inevitabile mi pare che vagliano sopra
ogni cosa gli studi del bello, gli affetti, le immagini e le illusioni”.

186
nei versi citati sopra, ovvero alla spiegazione del motivo per
cui gli uomini si fanno così spesso male l’un con l’altro. È bene
precisare che, accennando alla fratellanza tra gli uomini,
Leopardi non mostra alcuna velleità politica, ma intende
tratteggiare una condizione che sarebbe oggi ottimale, ossia
quella nella quale gli uomini fossero uniti contro la loro
nemica, ossia la natura, e non danneggiassero invece se stessi.
L’epoca in cui gli uomini erano uniti fu una vera e propria età
dell’oro:

Nemici naturali degli uomini furono da principio le fiere e


gli elementi ec.; quelle, soggetti di timori e d’odio insieme, questi
di solo timore (se già l’immaginazione non li dipingeva a quei
primi uomini come viventi). Finchè durarono queste passioni
sopra questi soggetti, l’uomo non s’insanguinò dell’altro uomo,
anzi amò e ricercò lo scontro, la compagnia, l’aiuto del suo simile,
senz’odio alcuno, senza invidia, senza sospetto, come il leone non
ha sospetto del leone. Quella fu veramente l’età dell’oro, e l’uomo
era sicuro tra gli uomini (Zibaldone, p. 2679, 4 marzo 1823).

Nelle epoche successive, dopo aver costruito prima le


caverne e poi le città, dopo aver imparato a usare le armi,
l’uomo si sentì al sicuro perché non più attaccabile dalle bestie
ed era meno alla mercé degli elementi naturali. E allora volse
la propria aggressività contro i propri simili: “Ma […] scemato
il timore e il danno degli elementi, la nazione umana, per così
dire, quasi vincitrice de’ suoi nemici, e guasta dalla prosperità,
rivolse le proprie armi contro se stessa, e qui cominciano le
storie delle diverse nazioni; e questa è l’epoca del secolo
d’argento, secondo il mio modo di vedere; giacchè l’aureo, al
quale le storie non si stendono, e che resta in balìa della favola,
fu quello precedente, tale, quale l’ho descritto” (Zibaldone, p.
2680, 4 marzo 1823). Nobile è l’uomo che ammette che l’unico
nemico dell’umanità è la natura, impegnandosi affinché gli
uomini riscoprano la loro comune fratellanza e ammettano la

187
loro sfortunata condizione; in tal modo, alleandosi, essi
potrebbero difendersi meglio dagli strali della loro potente
avversaria. L’uomo nobile, perciò, è colui che “costei [la
natura] chiama inimica; e incontro a questa / congiunta esser
pensando, / siccome è il vero, ed ordinata in pria / l’umana
compagnia, / tutti fra se confederati estima / gli uomini” (vv.
126-130)104.
Qualora queste idee fossero recuperate e si diffondessero,
sarebbe di nuovo introdotto fra gli uomini, per mezzo di una
veritiera filosofia, quell’orrore della spietata natura che
anticamente li strinse in un civile sodalizio; solo in questo caso
gli onesti e retti rapporti tra i cittadini (il “conversar
cittadino” = consorzio civile), la giustizia e la pietà avrebbero
basi ben più solide basi che non quelle orgogliose favole che
ipotizzano la superiorità dell’uomo rispetto al creato. Può
essere ricondotto a questa idea il pensiero dello Zibaldone del
13 aprile 1827 che così recita:

Congetture sopra una futura civilizzazione dei bruti, e


massime di qualche specie, come delle scimmie, da operarsi dagli
uomini a lungo andare, come si vede che gli uomini civili hanno
incivilito molte nazioni o barbare o selvagge, certo non meno
feroci, e forse meno ingegnose delle scimmie, specialmente di
alcune specie di esse; e che insomma la civilizzazione tende
naturalmente a propagarsi, e a far sempre nuove conquiste, e non
può star ferma, nè contenersi dentro alcun termine, massime in
quanto all’estensione, e finchè vi sieno creature civilizzabili, e
associabili al gran corpo della civilizzazione, alla grande alleanza
degli esseri intelligenti contro alla natura, e contro alle cose non

104 F. Bandini, introduzione ai Canti di Leopardi, cit., p. XXXII: “La storia,

da parte di chi si è escluso da essa collocandosi nel territorio della morte, si


definisce nel contrato tra l’irrisione dei futili conati umani e un profondo
amore per l’uomo in nome dei valori che sopravvivono dopo l’acid, corrosiva
critica di ogni mito; valori che si riassumono in un riconoscimento dei suoi

188
intelligenti. Può servire per la Lettera a un giovane del 20° secolo
(pp. 4279-4280).

Non si sa se e quando tali pensieri si diffonderanno. Qui


Leopardi esprime una tiepida speranza, forse, ma nessuna
certezza.

Così fatti pensieri


quando fien, come fur, palesi al volgo,
e quell’orror che primo
contra l’empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper, l’onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade, altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probità del volgo
così star suole in piede
quale star può quel ch’ha in error la sede (vv. 145-157).

La vita in società non sembra per Leopardi essere


l’optimum per l’uomo. Esso infatti nelle società primitive e
naturali esprimeva al meglio la propria essenza, ossia quella di
essere membro di una specie formata da individui molti diversi
tra loro. Per questo la società civile distrugge l’uguaglianza tra
uomini: finché rispondevano alle leggi della natura, gli uomini
convivevano in modo quieto. La società invece nasce dalla
volontà umana, dunque non ha leggi naturali, ed è stata
fondata su un accordo arbitrario e accidentale: “La società
rende gli uomini, non pur diversi e disuguali tra loro, quali essi
sono in natura, ma dissimili. Onde anche per questo

angusti destini materiali, da quale soltanto può scaturire una diversa ideologia
per un suo progettato futuro”.

189
argomento si conchiude che l’essenza e natura della società,
massime umana, contiene contraddizione in se stessa; perocchè
la società umana naturalmente distrugge il più necessario
elemento, mezzo, nodo, vincolo della società, ch’è
l’uguaglianza e parità scambievole degl’individui che l’hanno a
comporre” (Zibaldone, pp. 3809-3810, 25-30 ottobre 1823).
Dopo questi versi così carichi di suggestioni, la canzone
prosegue, un po’ stancamente, tornando a evidenziare la
pochezza dell’uomo, la vanità delle sue aspirazioni. Le stesse
espressioni linguistiche impiegate da Leopardi mettono in
rilievo questa idea: “… questo/ globo dove l’uomo è nulla” (v.
171-172), “questo oscuro/ granel di sabbia” ai vv. 190-191 per
definire il mondo, “mortal prole infelice” al v. 199. Tali
immagini negative sono dettate dall’osservazione della landa
da secoli coperta dalla lava, dove ondeggia la ginestra; dalla
visione notturna del mare in lontananza, dalla vista delle stelle
“cui di lontan fa specchio/ il mare, e tutto di scintille in giro,/
per lo voto seren brillare il mondo” (vv. 163-166). Comparato
con l’immensità degli spazi celesti, delle stelle che si
raggruppano nelle nebulose (“nodi quasi di stelle”, v. 176)105 e
che non potranno mai essere conosciute tutte, cosa è l’uomo?
Un nulla appunto, come ugualmente inconsistente è la terra su
cui poggia i piedi, che è paragonata a un granello di sabbia
errante nello spazio. Questa dimostrazione della piccolezza
dell’uomo e del suo mondo è condotta in polemica contro le
narrazioni che cercano invece di porre l’uomo al centro
dell’universo, come fosse l’essere più importante. Benché non
nominata esplicitamente, qui è messa in discussione la stessa

105 Cfr. Zibaldone, p. 1746-47: “È piacevolissima ancora […] la vista di una

moltitudine innumerabile, come delle stelle, o di persone ec. un moto


moltiplice, incerto, confuso, irregolare, disordinato, un ondeggiamento vago
ec. che l’animo non possa determinare, nè concepire definitamente e
distintamente ec. come quello di una folla, o di un gran numero di formiche, o
del mare agitato ec.” (20 settembre 1821).

190
religione, come se Leopardi volesse smentire “le assurde
pretese imposte dalla religione per colmare un divario che il
pensiero ‘scientifico’ ha svelato nella sua inconciliabilità con i
bisogni dell’uomo”106. Di fronte a questi pensieri, alla
constatazione della piccolezza e dell’insignificanza dell’uomo a
paragone con l’immensità degli spazi siderali, la “prole”
umana perde valore:

al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell’uomo?
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto, e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell’universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
sogni rinnovellando, ai saggi insulta
fin la presente età, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale (vv. 183-201).

Nel finale della strofa l’obiettivo polemico è ancora il


secolo XIX che vuole rinnovare le convinzioni religiose e
metafisiche, messe in discussione nel secolo precedente,
calunnia coloro che rifiutano tali credenze e intendono invece

106 U. Dotti, Lo sguardo sul mondo. Introduzione a Leopardi, cit., p. 116.

191
guardare la realtà senza mistificazioni. Di fronte alla
presunzione dell’uomo d’oggi, il poeta non sa se sorridere,
come si fa di fronte alle idee balzane di un fanciullo o di un
folle, oppure se provare pietà, compatendo la pretesa di porsi
al centro dell’universo e all’apice del creato.
Leggendo questi versi, appaiono lontane le riflessioni
presenti nello Zibaldone scritte il 12 agosto 1823, laddove
Leopardi afferma che il fatto che una creatura come l’uomo,
così piccola e insignificante, sia potuta pervenire a una
conoscenza tanto alta e sviluppata, sia una prova “della
nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente”
(p. 3172). Alla conclusione della sua vita, prevale in Giacomo
l’idea della infinita piccolezza dell’uomo, le cui capacità
conoscitive, benché assai sviluppate a paragone di quelle degli
altri animali, non sono state altro che una condanna, perché
gli hanno rivelato in tutta la sua crudezza e desolazione il
proprio triste e amaro destino. Vengono in mente le
considerazioni scritte il 1 settembre 1826 a Bologna: “Il detto
del Bayle, che la ragione è piuttosto uno strumento di
distruzione che di costruzione, si applica molto bene, anzi
ritorna a quello che mi par di avere osservato altrove, che il
progresso dello spirito umano dal risorgimento in poi, e
massime in questi ultimi tempi, è consistito, e consiste tutto
giorno principalmente, non nella scoperta di verità positive,
ma negative in sostanza” (Zibaldone, p. 4192).
Più avanti, al termine della penultima strofa, ci sono
versi che insistono nel mettere in rilievo la piccolezza
dell’uomo, il suo ruolo marginale nel sistema della natura:

Non ha natura al seme


dell’uom più stima o cura
che alla formica: e se più rara in quello
che nell’altra è la strage,
non avvien ciò d’altronde

192
fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde (vv. 231-236).

Dunque per la natura l’uomo ha lo stesso valore delle


formiche: come a volte accade che, in autunno, un frutto
maturo cada da un ramo e distrugga i ripari delle formiche
(“maturità senz’altra forza atterra,/ d’un popol di formiche i
dolci alberghi”, vv. 204-205), ugualmente a volte succede che
dalle viscere di un vulcano prorompa una pioggia “di ceneri e
di pomici e di sassi” (v. 215) pronta a distruggere in pochi
istanti campi coltivati, ville e città grandi e gloriose. Che ne è
stato infatti di quelle grandi città, ricche, abitate da uomini
che forse credevano le loro opere indistruttibili? Nulla, solo
una distesa desolata su cui “or pasce/ la capra” (vv. 225-226),
mentre nel frattempo altre città sono state costruite usando
come fondamenta le rovine delle città sepolte. La sola
differenza tra le stragi che la natura compie contro le formiche
e quelle che compie contro l’uomo è numerica: le prime sono
più frequenti perché l’uomo è assai meno fecondo delle
formiche. Non vi poteva essere affermazione più netta e decisa
della piccolezza e dell’insignificanza dell’essere umano.
Nonostante siano passati “mille ed ottocento/ anni” (vv.
237-238) dalla scomparsa di Pompei ed Ercolano, ancor oggi
gli uomini sono sotto la minaccia del Vesuvio, “… vetta/ fatal,
che nulla mai fatta più mite/ ancor siede tremenda” (vv. 244-
246). Il poeta descrive con rapidi tocchi di pennello le
trepidazioni quotidiane degli abitanti, del “villanello intento/
ai vigneti” (vv. 240-241), del “meschino in sul tetto/ dell’ostel
villereccio” (vv. 249-250), che osserva i bagliori apparsi sulla
vetta del vulcano e che illuminano la zona (“di Capri la
marina/ e di Napoli il porto e Mergellina” vv. 256-257); e
quando s’accorge che ci sono i segni premonitori di
un’eruzione, sveglia la moglie e i figli e abbandona “il suo nido,
e il picciol campo,/ che gli fu dalla fame unico schermo” (vv.
264-265). Anche oggi, dunque, nel XIX, il presunto secolo del

193
progresso, l’uomo può essere annientato in un istante dalla
natura, la quale non ha cura di lui più che non ne abbia degli
insetti.
Questa piccolezza dell’uomo è mostrata dalle stesse
rovine di Pompei portate alla luce. La visione della grandezza
passata e delle rovine attuali, la vista verso il Vesuvio e il
Monte Somma (“il bipartito giogo”), fa comprendere all’uomo
la propria vacuità. La conclusione sull’indifferenza e
malvagità della natura non può essere più netta:

Così, dell’uom ignara e dell’etadi


ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor vede, anzi procede
per sì lungo cammino
che sembra star. Cangiano i regni intanto,
passano genti e linguaggi: ella nol vede:
e l’uom d’eternità s’arroga il vanto (vv. 289-296).

Dopo queste strofe intese, cariche di pensiero, tese a


mostrare l’arroganza dell’uomo, la sua piccolezza, la sua
meschinità, la strofa finale ha un tono più leggero, tornando a
occuparsi della “lenta ginestra”. “Tangibile creatura, la
‘ginestra’ proclama una nobilissima e fiera dignità dell’esistere,
e del comunicare grazia, bellezza, profumo, comprensiva pietà,
nella nuda coscienza del nulla”107. La pianta è rassegnata al
proprio destino d’essere nuovamente ricoperta dalla lava
(“sotterraneo foco”); ella si piegherà senza opporre vana
resistenza e non supplicherà “codardamente” il suo “futuro
oppressor/ ma non eretto/ con forsennato orgoglio inver le
stelle” (vv. 308-310). Quest’ultimo verso è un nuovo attacco
alla concezione, assai antica, dell’uomo come principe del

107 G. Tellini, Leopardi, cit., p. 312.

194
creato, in quanto creatura capace di guardare con gli occhi il
cielo e le stelle in virtù della stazione eretta. Questa idea era
sostenuta adducendo la differenza esistente tra l’uomo (che ha
la stazione eretta e può ammirare il cielo e le stelle) e gli altri
animali, obbligati dalla natura a guardare solo la terra.
Secondo Leopardi questa convinzione è del tutto fallace, colma
peraltro di arroganza e di vacuo orgoglio, anzi “forsennato”,
come scrive al v. 309. In questa affermazione il poeta sembra
voler contraddire anche la celebre asserzione di Pascal
sull’uomo quale “fuscello pensante”, contrapposto alla
potenza cieca dell’universo.
La ginestra non ha l’orgoglio dell’uomo, la sua fallace
sapienza, la sua arroganza. Per questo è “più saggia, ma tanto/
meno inferma dell’uom”, perché non si è mai illusa che la sua
stirpe fosse destinata a essere immortale, non ritenendo se
stessa creata a immagine e somiglianza di qualche divinità.

La ginestra è innocente (v. 306). Non è comp1ice


dell’orribile storia umana; e non ha escogitato nessuno dei
pensieri inventati per giustificarla. Non ha creato filosofia e
religione. Nel suo candore di vittima, ha una perfetta esperienza
di tutto ciò che esiste. Vede al di sopra delia vista umana.
Conosce la vanità degli uomini, la crudeltà delia natura e di ogni
potere, ‘e l’infinita vanità del tutto’. Non si crede di stirpe divina,
o immortale108.

E tu, lenta ginestra,


che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
già noto, stenderà l’avaro lembo

108 P. Citati, Leopardi, cit., p. 405.

195
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle,
nè sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali (vv. 297-317).

196
Bibliografia

Questa bibliografia contiene le edizioni delle opere di Leopardi che


ho utilizzato, unitamente a una serie di contributi critici che sono
stati fondamentali per condurre in porto le mie riflessioni. Non si
tratta di una bibliografia completa né scientifica, ma solo di una
testimonianza dei testi da me letti e studiati.

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consultabile on-line: http:/ / www.classicitaliani.it/ leopardi/
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