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OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana Mercoledì delle Ceneri, 13 febbraio 2013

Venerati Fratelli,cari fratelli e sorelle!

Oggi, Mercoledì delle Ceneri, iniziamo un nuovo cammino quaresimale, un


cammino che si snoda per quaranta giorni e ci conduce alla gioia della Pasqua
del Signore, alla vittoria della Vita sulla morte. Seguendo l’antichissima
tradizione romana delle stationes quaresimali, ci siamo radunati oggi per la
Celebrazione dell’Eucaristia. Tale tradizione prevede che la prima statio abbia
luogo nella Basilica di Santa Sabina sul colle Aventino. Le circostanze hanno
suggerito di radunarsi nella Basilica Vaticana. Siamo numerosi intorno alla
Tomba dell’Apostolo Pietro anche a chiedere la sua intercessione per il
cammino della Chiesa in questo particolare momento, rinnovando la nostra
fede nel Pastore Supremo, Cristo Signore. Per me è un’occasione propizia per
ringraziare tutti, specialmente i fedeli della Diocesi di Roma, mentre mi
accingo a concludere il ministero petrino, e per chiedere un particolare ricordo
nella preghiera.

Le Letture che sono state proclamate ci offrono spunti che, con la grazia di
Dio, siamo chiamati a far diventare atteggiamenti e comportamenti concreti in
questa Quaresima. La Chiesa ci ripropone, anzitutto, il forte richiamo che il
profeta Gioele rivolge al popolo di Israele: «Così dice il Signore: ritornate a me
con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti» (2,12). Va sottolineata
l’espressione «con tutto il cuore», che significa dal centro dei nostri pensieri e
sentimenti, dalle radici delle nostre decisioni, scelte e azioni, con un gesto di
totale e radicale libertà. Ma è possibile questo ritorno a Dio? Sì, perché c’è una
forza che non risiede nel nostro cuore, ma che si sprigiona dal cuore stesso di
Dio. E’ la forza della sua misericordia. Dice ancora il profeta: «Ritornate al
Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di
grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male» (v.13). Il ritorno al
Signore è possibile come ‘grazia’, perché è opera di Dio e frutto della fede che
noi riponiamo nella sua misericordia. Questo ritornare a Dio diventa realtà
concreta nella nostra vita solo quando la grazia del Signore penetra nell’intimo
e lo scuote donandoci la forza di «lacerare il cuore». E’ ancora il profeta a far
risuonare da parte di Dio queste parole: «Laceratevi il cuore e non le vesti»
(v.13). In effetti, anche ai nostri giorni, molti sono pronti a “stracciarsi le vesti”
di fronte a scandali e ingiustizie – naturalmente commessi da altri –, ma pochi
sembrano disponibili ad agire sul proprio “cuore”, sulla propria coscienza e
sulle proprie intenzioni, lasciando che il Signore trasformi, rinnovi e converta.
Quel «ritornate a me con tutto il cuore», poi, è un richiamo che coinvolge non
solo il singolo, ma la comunità. Abbiamo ascoltato sempre nella prima Lettura:
«Suonate il corno in Sion, proclamate un solenne digiuno, convocate una
riunione sacra. Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne, chiamate i
vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la
sposa dal suo talamo» (vv.15-16). La dimensione comunitaria è un elemento
essenziale nella fede e nella vita cristiana. Cristo è venuto «per riunire insieme
i figli di Dio che erano dispersi» (cfr Gv 11,52). Il “Noi” della Chiesa è la
comunità in cui Gesù ci riunisce insieme (cfr Gv 12,32): la fede è
necessariamente ecclesiale. E questo è importante ricordarlo e viverlo in questo
Tempo della Quaresima: ognuno sia consapevole che il cammino penitenziale
non lo affronta da solo, ma insieme con tanti fratelli e sorelle, nella Chiesa.

Il profeta, infine, si sofferma sulla preghiera dei sacerdoti, i quali, con le


lacrime agli occhi, si rivolgono a Dio dicendo: «Non esporre la tua eredità al
ludibrio e alla derisione delle genti. Perché si dovrebbe dire fra i popoli:
“Dov’è il loro Dio?”» (v.17). Questa preghiera ci fa riflettere sull’importanza
della testimonianza di fede e di vita cristiana di ciascuno di noi e delle nostre
comunità per manifestare il volto della Chiesa e come questo volto venga, a
volte, deturpato. Penso in particolare alle colpe contro l’unità della Chiesa, alle
divisioni nel corpo ecclesiale. Vivere la Quaresima in una più intensa ed
evidente comunione ecclesiale, superando individualismi e rivalità, è un segno
umile e prezioso per coloro che sono lontani dalla fede o indifferenti.

«Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (2 Cor
6,2). Le parole dell’apostolo Paolo ai cristiani di Corinto risuonano anche per
noi con un’urgenza che non ammette assenze o inerzie. Il termine “ora”
ripetuto più volte dice che questo momento non può essere lasciato sfuggire,
esso viene offerto a noi come un’occasione unica e irripetibile. E lo sguardo
dell’Apostolo si concentra sulla condivisione con cui Cristo ha voluto
caratterizzare la sua esistenza, assumendo tutto l’umano fino a farsi carico
dello stesso peccato degli uomini. La frase di san Paolo è molto forte: Dio «lo
fece peccato in nostro favore». Gesù, l’innocente, il Santo, «Colui che non
aveva conosciuto peccato» (2 Cor 5,21), si fa carico del peso del peccato
condividendone con l’umanità l’esito della morte, e della morte di croce. La
riconciliazione che ci viene offerta ha avuto un prezzo altissimo, quello della
croce innalzata sul Golgota, su cui è stato appeso il Figlio di Dio fatto uomo. In
questa immersione di Dio nella sofferenza umana e nell’abisso del male sta la
radice della nostra giustificazione. Il «ritornare a Dio con tutto il cuore» nel
nostro cammino quaresimale passa attraverso la Croce, il seguire Cristo sulla
strada che conduce al Calvario, al dono totale di sé. E’ un cammino in cui
imparare ogni giorno ad uscire sempre più dal nostro egoismo e dalle nostre
chiusure, per fare spazio a Dio che apre e trasforma il cuore. E san Paolo
ricorda come l’annuncio della Croce risuoni a noi grazie alla predicazione della
Parola, di cui l’Apostolo stesso è ambasciatore; un richiamo per noi affinché
questo cammino quaresimale sia caratterizzato da un ascolto più attento e
assiduo della Parola di Dio, luce che illumina i nostri passi.

Nella pagina del Vangelo di Matteo, che appartiene al cosiddetto Discorso


della montagna, Gesù fa riferimento a tre pratiche fondamentali previste dalla
Legge mosaica: l’elemosina, la preghiera e il digiuno; sono anche indicazioni
tradizionali nel cammino quaresimale per rispondere all’invito di «ritornare a
Dio con tutto il cuore». Ma Gesù sottolinea come sia la qualità e la verità del
rapporto con Dio ciò che qualifica l’autenticità di ogni gesto religioso. Per
questo Egli denuncia l’ipocrisia religiosa, il comportamento che vuole apparire,
gli atteggiamenti che cercano l’applauso e l’approvazione. Il vero discepolo
non serve se stesso o il “pubblico”, ma il suo Signore, nella semplicità e nella
generosità: «E il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt
6,4.6.18). La nostra testimonianza allora sarà sempre più incisiva quanto meno
cercheremo la nostra gloria e saremo consapevoli che la ricompensa del giusto
è Dio stesso, l’essere uniti a Lui, quaggiù, nel cammino della fede, e, al termine
della vita, nella pace e nella luce dell’incontro faccia a faccia con Lui per
sempre (cfr 1 Cor 13,12).

Cari fratelli e sorelle, iniziamo fiduciosi e gioiosi l’itinerario quaresimale.


Risuoni forte in noi l’invito alla conversione, a «ritornare a Dio con tutto il
cuore», accogliendo la sua grazia che ci fa uomini nuovi, con quella
sorprendente novità che è partecipazione alla vita stessa di Gesù. Nessuno di
noi, dunque, sia sordo a questo appello, che ci viene rivolto anche nell’austero
rito, così semplice e insieme così suggestivo, dell’imposizione delle ceneri, che
tra poco compiremo. Ci accompagni in questo tempo la Vergine Maria, Madre
della Chiesa e modello di ogni autentico discepolo del Signore. Amen!

© Copyright 2013 - Libreria Editrice Vaticana

Basilica di Santa SabinaMercoledì delle Ceneri, 22 febbraio 2012

Venerati Fratelli,cari fratelli e sorelle!

Con questo giorno di penitenza e di digiuno – il Mercoledì delle Ceneri –


iniziamo un nuovo cammino verso la Pasqua di Risurrezione: il cammino della
Quaresima. Vorrei soffermarmi brevemente a riflettere sul segno liturgico della
cenere, un segno materiale, un elemento della natura, che diventa nella Liturgia
un simbolo sacro, molto importante in questa giornata che dà inizio
all’itinerario quaresimale. Anticamente, nella cultura ebraica, l’uso di
cospargersi il capo di cenere come segno di penitenza era comune, abbinato
spesso al vestirsi di sacco o di stracci. Per noi cristiani, invece, vi è quest’unico
momento, che ha peraltro una notevole rilevanza rituale e spirituale.

Anzitutto, la cenere è uno di quei segni materiali che portano il cosmo


all’interno della Liturgia. I principali sono evidentemente quelli dei
Sacramenti: l’acqua, l’olio, il pane e il vino, che diventano vera e propria
materia sacramentale, strumento attraverso cui si comunica la grazia di Cristo
che giunge fino a noi. Nel caso della cenere si tratta invece di un segno non
sacramentale, ma pur sempre legato alla preghiera e alla santificazione del
Popolo cristiano: è prevista infatti, prima dell’imposizione individuale sul
capo, una specifica benedizione delle ceneri – che faremo tra poco -, con due
possibili formule. Nella prima esse sono definite «austero simbolo»; nella
seconda si invoca direttamente su di esse la benedizione e si fa riferimento al
testo del Libro della Genesi, che può anche accompagnare il gesto
dell’imposizione: «Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai» (cfr Gen
3,19).

Fermiamoci un momento su questo passo della Genesi. Esso conclude il


giudizio pronunciato da Dio dopo il peccato originale: Dio maledice il
serpente, che ha fatto cadere nel peccato l’uomo e la donna; poi punisce la
donna annunciandole i dolori del parto e una relazione sbilanciata con il
marito; infine punisce l’uomo, gli annuncia la fatica nel lavorare e maledice il
suolo. «Maledetto il suolo per causa tua!» (Gen 3,17), a causa del tuo peccato.
Dunque, l’uomo e la donna non sono maledetti direttamente come lo è invece il
serpente, ma, a causa del peccato di Adamo, è maledetto il suolo, da cui egli
era stato tratto. Rileggiamo il magnifico racconto della creazione dell’uomo
dalla terra: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e
soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il
Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che
aveva plasmato» (Gen 2,7-8); così nel Libro della Genesi.

Ecco dunque che il segno della cenere ci riporta al grande affresco della
creazione, in cui si dice che l’essere umano è una singolare unità di materia e
di soffio divino, attraverso l’immagine della polvere del suolo plasmata da Dio
e animata dal suo respiro insufflato nelle narici della nuova creatura. Possiamo
osservare come nel racconto della Genesi il simbolo della polvere subisca una
trasformazione negativa a causa del peccato. Mentre prima della caduta il suolo
è una potenzialità totalmente buona, irrigata da una polla d’acqua (Gen 2,6) e
capace, per l’opera di Dio, di germinare «ogni sorta di alberi graditi alla vista e
buoni da mangiare» (Gen 2,9), dopo la caduta e la conseguente maledizione
divina esso produrrà «spine e cardi» e solo in cambio di «dolore» e «sudore del
volto» concederà all’uomo i suoi frutti (cfr Gen 3,17-18). La polvere della terra
non richiama più solo il gesto creatore di Dio, tutto aperto alla vita, ma diventa
segno di un inesorabile destino di morte: «Polvere tu sei e in polvere
ritornerai» (Gen 3,19).

E’ evidente nel testo biblico che la terra partecipa della sorte dell’uomo. Dice
in proposito san Giovanni Crisostomo in una sua omelia: «Vedi come dopo la
sua disobbedienza tutto viene imposto su di lui [l’uomo] in un modo contrario
al suo precedente stile di vita» (Omelie sulla Genesi 17, 9: PG 53, 146). Questa
maledizione del suolo ha una funzione medicinale per l’uomo, che dalle
«resistenze» della terra dovrebbe essere aiutato a mantenersi nei suoi limiti e
riconoscere la propria natura (cfr ibid.). Così, con una bella sintesi, si esprime
un altro antico commento, che dice: «Adamo fu creato puro da Dio per il suo
servizio. Tutte le creature gli furono concesse per servirlo. Egli era destinato ad
essere il signore e re di tutte le creature. Ma quando il male giunse a lui e
conversò con lui, egli lo ricevette per mezzo di un ascolto esterno. Poi penetrò
nel suo cuore e si impadronì del suo intero essere. Quando così fu catturato, la
creazione, che lo aveva assistito e servito, fu catturata con lui» (Pseudo-
Macario, Omelie 11, 5: PG 34, 547).

Dicevamo poco fa, citando san Giovanni Crisostomo, che la maledizione del
suolo ha una funzione «medicinale». Ciò significa che l’intenzione di Dio, che
è sempre benefica, è più profonda della maledizione. Questa, infatti, è dovuta
non a Dio ma al peccato, però Dio non può non infliggerla, perché rispetta la
libertà dell’uomo e le sue conseguenze, anche negative. Dunque, all’interno
della punizione, e anche all’interno della maledizione del suolo, permane una
intenzione buona che viene da Dio. Quando Egli dice all’uomo: «Polvere tu sei
e in polvere ritornerai!», insieme con la giusta punizione intende anche
annunciare una via di salvezza, che passerà proprio attraverso la terra,
attraverso quella «polvere», quella «carne» che sarà assunta dal Verbo. E’ in
questa prospettiva salvifica che la parola della Genesi viene ripresa dalla
Liturgia del Mercoledì delle Ceneri: come invito alla penitenza, all’umiltà, ad
avere presente la propria condizione mortale, ma non per finire nella
disperazione, bensì per accogliere, proprio in questa nostra mortalità,
l’impensabile vicinanza di Dio, che, oltre la morte, apre il passaggio alla
risurrezione, al paradiso finalmente ritrovato. In questo senso ci orienta un
testo di Origene, che dice: «Ciò che inizialmente era carne, dalla terra, un
uomo di polvere (cfr 1 Cor 15,47), e fu dissolto attraverso la morte e di nuovo
reso polvere e cenere – infatti è scritto: sei polvere, e nella polvere ritornerai –
viene fatto risorgere di nuovo dalla terra. In seguito, secondo i meriti
dell’anima che abita il corpo, la persona avanza verso la gloria di un corpo
spirituale» (Sui Princìpi 3, 6, 5: Sch, 268, 248).

I «meriti dell’anima», di cui parla Origene, sono necessari; ma fondamentali


sono i meriti di Cristo, l’efficacia del suo Mistero pasquale. San Paolo ce ne ha
offerto una formulazione sintetica nella Seconda Lettera ai Corinzi, oggi
seconda Lettura: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato
in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2 Cor
5,21). La possibilità per noi del perdono divino dipende essenzialmente dal
fatto che Dio stesso, nella persona del suo Figlio, ha voluto condividere la
nostra condizione, ma non la corruzione del peccato. E il Padre lo ha risuscitato
con la potenza del suo Santo Spirito e Gesù, il nuovo Adamo, è diventato,
come dice san Paolo, «spirito datore di vita» (1 Cor 15,45), la primizia della
nuova creazione. Lo stesso Spirito che ha risuscitato Gesù dai morti può
trasformare i nostri cuori da cuori di pietra in cuori di carne (cfr Ez 36,26). Lo
abbiamo invocato poco fa con il Salmo Miserere: «Crea in me, o Dio, un cuore
puro, / rinnova in me uno spirito saldo. / Non scacciarmi dalla tua presenza / e
non privarmi del tuo santo spirito» (Sal 50,12-13). Quel Dio che scacciò i
progenitori dall’Eden, ha mandato il proprio Figlio nella nostra terra devastata
dal peccato, non lo ha risparmiato, affinché noi, figli prodighi, possiamo
ritornare, pentiti e redenti dalla sua misericordia, nella nostra vera patria. Così
sia, per ciascuno di noi, per tutti i credenti, per ogni uomo che umilmente si
riconosce bisognoso di salvezza. Amen.

© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana

Basilica di Santa SabinaMercoledì delle Ceneri, 9 marzo 2011

Cari fratelli e sorelle,

iniziamo oggi il tempo liturgico della Quaresima con il suggestivo rito


dell’imposizione delle ceneri, attraverso il quale vogliamo assumere l'impegno
di convertire il nostro cuore verso gli orizzonti della Grazia. In genere,
nell’opinione comune, questo tempo rischia di essere connotato dalla tristezza,
dal grigiore della vita. Invece esso è dono prezioso di Dio, è tempo forte e
denso di significati nel cammino della Chiesa, è l’itinerario verso la Pasqua del
Signore. Le Letture bibliche dell’odierna celebrazione ci offrono indicazioni
per vivere in pienezza questa esperienza spirituale.

«Ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Nella prima Lettura, tratta dal
libro del profeta Gioele, abbiamo ascoltato queste parole con cui Dio invita il
popolo ebraico ad un pentimento sincero e non apparente. Non si tratta di una
conversione superficiale e transitoria, bensì di un itinerario spirituale che
riguarda in profondità gli atteggiamenti della coscienza e suppone un sincero
proposito di ravvedimento. Il profeta prende spunto dalla piaga dell’invasione
delle cavallette che si era abbattuta sul popolo distruggendo i raccolti, per
invitare ad una penitenza interiore, a lacerarsi il cuore e non le vesti (cfr 2,13).
Si tratta, cioè, di porre in atto un atteggiamento di conversione autentica a Dio
- ritornare a Lui -, riconoscendo la sua santità, la sua potenza, la sua maestà. E
questa conversione è possibile perché Dio è ricco di misericordia e grande
nell’amore. La sua è una misericordia rigeneratrice, che crea in noi un cuore
puro, rinnova nell'intimo uno spirito fermo, restituendoci la gioia della salvezza
(cfr Sal 50,14). Dio, infatti, - come dice il profeta - non vuole la morte del
peccatore, ma che si converta e viva (cfr Ez 33,11). Il profeta Gioele ordina, a
nome del Signore, che si crei un propizio ambiente penitenziale: bisogna
suonare la tromba, convocare l'adunanza, risvegliare le coscienze. Il periodo
quaresimale ci propone questo ambito liturgico e penitenziale: un cammino di
quaranta giorni dove sperimentare in modo efficace l'amore misericordioso di
Dio. Oggi risuona per noi l’appello «Ritornate a me con tutto il cuore»; oggi
siamo noi ad essere chiamati a convertire il nostro cuore a Dio, consapevoli
sempre di non poter realizzare la nostra conversione da soli, con le nostre
forze, perché è Dio che ci converte. Egli ci offre ancora il suo perdono,
invitando a tornare a Lui per donarci un cuore nuovo, purificato dal male che lo
opprime, per farci prendere parte alla sua gioia. Il nostro mondo ha bisogno di
essere convertito da Dio, ha bisogno del suo perdono, del suo amore, ha
bisogno di un cuore nuovo.

«Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). Nella seconda Lettura san Paolo
ci offre un altro elemento nel cammino della conversione. L’Apostolo invita a
distogliere lo sguardo su di lui e a rivolgere invece l’attenzione su chi l’ha
inviato e sul contenuto del messaggio che porta: «In nome di Cristo, dunque,
siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo
in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (ibid.). Un ambasciatore
ripete quello che ha sentito pronunciare dal suo Signore e parla con l’autorità e
dentro i limiti che ha ricevuto. Chi svolge l’ufficio di ambasciatore non deve
attirare l’interesse su se stesso, ma deve mettersi al servizio del messaggio da
trasmettere e di chi l’ha mandato. Così agisce san Paolo nell’assolvere il suo
ministero di predicatore della Parola di Dio e di Apostolo di Gesù Cristo. Egli
non si tira indietro di fronte al compito ricevuto, ma lo assolve con totale
dedizione, invitando ad aprirsi alla Grazia, a lasciare che Dio ci converta:
«Poiché siamo suoi collaboratori, - scrive - vi esortiamo a non accogliere
invano la grazia di Dio» (2Cor 6,1). «L'appello di Cristo alla conversione - ci
dice il Catechismo della Chiesa Cattolica - continua a risuonare nella vita dei
cristiani. […] è un impegno continuo per tutta la Chiesa che "comprende nel
suo seno i peccatori" e che, "santa insieme e sempre bisognosa di purificazione,
incessantemente si applica alla penitenza e al suo rinnovamento". Questo
sforzo di conversione non è soltanto un'opera umana. È il dinamismo del
"cuore contrito" (Sal 51,19), attratto e mosso dalla grazia a rispondere
all'amore misericordioso di Dio che ci ha amati per primo» (n. 1428). San
Paolo parla ai cristiani di Corinto, ma attraverso di loro intende rivolgersi a
tutti gli uomini. Tutti infatti hanno bisogno della grazia di Dio, che illumini la
mente e il cuore. E l’Apostolo incalza: «Ecco ora il momento favorevole, ecco
ora il giorno della salvezza!» (2Cor 6,2). Tutti possono aprirsi all’azione di
Dio, al suo amore; con la nostra testimonianza evangelica, noi cristiani
dobbiamo essere un messaggio vivente, anzi, in molti casi siamo l’unico
Vangelo che gli uomini di oggi leggono ancora. Ecco la nostra responsabilità
sulle orme di san Paolo, ecco un motivo in più per vivere bene la Quaresima:
offrire la testimonianza della fede vissuta ad un mondo in difficoltà che ha
bisogno di ritornare a Dio, che ha bisogno di conversione.

«Guardatevi dal praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere
ammirati da loro» (Mt 6,1). Gesù, nel Vangelo di oggi, rilegge le tre opere
fondamentali di pietà previste dalla legge mosaica. L’elemosina, la preghiera e
il digiuno caratterizzano l’ebreo osservante della legge. Nel corso del tempo,
queste prescrizioni erano state intaccate dalla ruggine del formalismo esteriore,
o addirittura si erano mutate in un segno di superiorità. Gesù mette in evidenza
in queste tre opere di pietà una tentazione comune. Quando si compie qualcosa
di buono, quasi istintivamente nasce il desiderio di essere stimati e ammirati
per la buona azione, di avere cioè una soddisfazione. E questo, da una parte
rinchiude in se stessi, dall’altra porta fuori da se stessi, perché si vive proiettati
verso quello che gli altri pensano di noi e ammirano in noi. Nel riproporre
queste prescrizioni, il Signore Gesù non chiede un rispetto formale ad una
legge estranea all'uomo, imposta da un legislatore severo come fardello
pesante, ma invita a riscoprire queste tre opere di pietà vivendole in modo più
profondo, non per amore proprio, ma per amore di Dio, come mezzi nel
cammino di conversione a Lui. Elemosina, preghiera e digiuno: è il tracciato
della pedagogia divina che ci accompagna, non solo in Quaresima, verso
l’incontro con il Signore Risorto; un tracciato da percorrere senza ostentazione,
nella certezza che il Padre celeste sa leggere e vedere anche nel segreto del
nostro cuore.

Cari fratelli e sorelle, iniziamo fiduciosi e gioiosi l’itinerario quaresimale.


Quaranta giorni ci separano dalla Pasqua; questo tempo «forte» dell’anno
liturgico è un tempo propizio che ci è donato per attendere, con maggiore
impegno, alla nostra conversione, per intensificare l’ascolto della Parola di
Dio, la preghiera e la penitenza, aprendo il cuore alla docile accoglienza della
volontà divina, per una pratica più generosa della mortificazione, grazie alla
quale andare più largamente in aiuto del prossimo bisognoso: un itinerario
spirituale che ci prepara a rivivere il Mistero Pasquale.

Maria, nostra guida nel cammino quaresimale, ci conduca ad una conoscenza


sempre più profonda di Cristo, morto e risorto, ci aiuti nel combattimento
spirituale contro il peccato, ci sostenga nell’invocare con forza: «Converte nos,
Deus salutaris noster» – «Convertici a Te, o Dio, nostra salvezza». Amen!

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

Basilica di Santa SabinaMercoledì delle Ceneri, 17 febbraio 2010

“Tu ami tutte le tue creature, Signore,e nulla disprezzi di ciò che hai creato;tu
dimentichi i peccati di quanti si convertono e li perdoni,perché tu sei il Signore
nostro Dio” (Antifona d’ingresso).

Venerati Fratelli nell’episcopato,cari fratelli e sorelle!

Con questa commovente invocazione, tratta dal Libro della Sapienza (cfr
11,23-26), la liturgia introduce la celebrazione eucaristica del Mercoledì delle
Ceneri. Sono parole che, in qualche modo, aprono l’intero itinerario
quaresimale, ponendo a suo fondamento l’onnipotenza d’amore di Dio, la sua
assoluta signoria su ogni creatura, che si traduce in indulgenza infinita, animata
da costante e universale volontà di vita. In effetti, perdonare qualcuno equivale
a dirgli: non voglio che tu muoia, ma che tu viva; voglio sempre e soltanto il
tuo bene.

Questa assoluta certezza ha sostenuto Gesù durante i quaranta giorni trascorsi


nel deserto della Giudea, dopo il battesimo ricevuto da Giovanni nel Giordano.
Quel lungo tempo di silenzio e di digiuno fu per Lui un abbandonarsi
completamente al Padre e al suo disegno d’amore; fu esso stesso un
“battesimo”, cioè un’“immersione” nella sua volontà, e in questo senso un
anticipo della Passione e della Croce. Inoltrarsi nel deserto e rimanervi a lungo,
da solo, significava esporsi volontariamente agli assalti del nemico, il tentatore
che ha fatto cadere Adamo e per la cui invidia la morte è entrata nel mondo (cfr
Sap 2,24); significava ingaggiare con lui la battaglia in campo aperto, sfidarlo
senza altre armi che la fiducia sconfinata nell’amore onnipotente del Padre. Mi
basta il tuo amore, mi cibo della tua volontà (cfr Gv 4,34): questa convinzione
abitava la mente e il cuore di Gesù durante quella sua “quaresima”. Non fu un
atto di orgoglio, un’impresa titanica, ma una scelta di umiltà, coerente con
l’Incarnazione ed il battesimo nel Giordano, nella stessa linea di obbedienza
all’amore misericordioso del Padre, che ha “tanto amato il mondo da dare il
Figlio unigenito” (Gv 3,16).

Tutto questo il Signore Gesù lo ha fatto per noi. Lo ha fatto per salvarci, e al
tempo stesso per mostrarci la via per seguirlo. La salvezza, infatti, è dono, è
grazia di Dio, ma per avere effetto nella mia esistenza richiede il mio assenso,
un’accoglienza dimostrata nei fatti, cioè nella volontà di vivere come Gesù, di
camminare dietro a Lui. Seguire Gesù nel deserto quaresimale è dunque
condizione necessaria per partecipare alla sua Pasqua, al suo “esodo”. Adamo
fu cacciato dal Paradiso terrestre, simbolo della comunione con Dio; ora, per
ritornare a questa comunione e dunque alla vera vita, la vita eterna, bisogna
attraversare il deserto, la prova della fede. Non da soli, ma con Gesù! Lui –
come sempre – ci ha preceduto e ha già vinto il combattimento contro lo spirito
del male. Ecco il senso della Quaresima, tempo liturgico che ogni anno ci
invita a rinnovare la scelta di seguire Cristo sulla via dell’umiltà per
partecipare alla sua vittoria sul peccato e sulla morte.

In questa prospettiva si comprende anche il segno penitenziale delle Ceneri,


che vengono imposte sul capo di quanti iniziano con buona volontà l’itinerario
quaresimale. E’ essenzialmente un gesto di umiltà, che significa: mi riconosco
per quello che sono, una creatura fragile, fatta di terra e destinata alla terra, ma
anche fatta ad immagine di Dio e destinata a Lui. Polvere, sì, ma amata,
plasmata dal suo amore, animata dal suo soffio vitale, capace di riconoscere la
sua voce e di rispondergli; libera e, per questo, capace anche di disobbedirgli,
cedendo alla tentazione dell’orgoglio e dell’autosufficienza. Ecco il peccato,
malattia mortale entrata ben presto ad inquinare la terra benedetta che è
l’essere umano. Creato ad immagine del Santo e del Giusto, l’uomo ha perduto
la propria innocenza ed ora può ritornare ad essere giusto solo grazie alla
giustizia di Dio, la giustizia dell’amore che – come scrive san Paolo – “si è
manifestata per mezzo della fede in Cristo” (Rm 3,22). Da queste parole
dell’Apostolo ho tratto lo spunto per il mio Messaggio, rivolto a tutti i fedeli in
occasione di questa Quaresima: una riflessione sul tema della giustizia alla luce
delle Sacre Scritture e del loro compimento in Cristo.

Anche nelle letture bibliche del Mercoledì delle Ceneri è ben presente il tema
della giustizia. Innanzitutto, la pagina del profeta Gioele e il Salmo
responsoriale – il Miserere – formano un dittico penitenziale, che mette in
risalto come all’origine di ogni ingiustizia materiale e sociale vi sia quella che
la Bibbia chiama “iniquità”, cioè il peccato, che consiste fondamentalmente in
una disobbedienza a Dio, vale a dire una mancanza d’amore. “Sì – confessa il
Salmista – le mie iniquità io le riconosco, / il mio peccato mi sta sempre
dinanzi. / Contro te, contro te solo ho peccato, / quello che è male ai tuoi occhi,
io l’ho fatto” (Sal 50/51,5-6). Il primo atto di giustizia è dunque riconoscere la
propria iniquità, e riconoscere che questa è radicata nel “cuore”, nel centro
stesso della persona umana. I “digiuni”, i “pianti”, i “lamenti” (cfr Gl 2,12) ed
ogni espressione penitenziale hanno valore agli occhi di Dio solo se sono segno
di cuori sinceramente pentiti. Anche il Vangelo, tratto dal “discorso della
montagna”, insiste sull’esigenza di praticare la propria “giustizia” – elemosina,
preghiera, digiuno – non davanti agli uomini, ma solo agli occhi di Dio, che
“vede nel segreto” (cfr Mt 6,1-6.16-18). La vera “ricompensa” non è
l’ammirazione degli altri, ma l’amicizia con Dio e la grazia che ne deriva, una
grazia che dona pace e forza di compiere il bene, di amare anche chi non lo
merita, di perdonare chi ci ha offeso.

La seconda lettura, l’appello di Paolo a lasciarsi riconciliare con Dio (cfr 2 Cor
5,20), contiene uno dei celebri paradossi paolini, che riconduce tutta la
riflessione sulla giustizia al mistero di Cristo. Scrive san Paolo: “Colui che non
aveva conosciuto peccato – cioè il suo Figlio fatto uomo –, Dio lo fece peccato
in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (2 Cor
5,21). Nel cuore di Cristo, cioè nel centro della sua Persona divino-umana, si è
giocato in termini decisivi e definitivi tutto il dramma della libertà. Dio ha
portato alle estreme conseguenze il proprio disegno di salvezza, rimanendo
fedele al suo amore anche a costo di consegnare il Figlio unigenito alla morte,
e alla morte di croce. Come ho scritto nel Messaggio quaresimale, “qui si
dischiude la giustizia divina, profondamente diversa da quella umana … Grazie
all’azione di Cristo, noi possiamo entrare nella giustizia «più grande», che è
quella dell’amore (cfr Rm 13,8-10)”.

Cari fratelli e sorelle, la Quaresima allarga il nostro orizzonte, ci orienta verso


la vita eterna. In questa terra siamo in pellegrinaggio, “non abbiamo quaggiù
una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura” dice la Lettera agli
Ebrei (Eb 13,14). La Quaresima fa capire la relatività dei beni di questa terra e
così ci rende capaci alle rinunce necessarie, liberi per fare il bene. Apriamo la
terra alla luce del Cielo, alla presenza di Dio in mezzo a noi. Amen

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

Basilica di Santa SabinaMercoledì delle Ceneri, 25 febbraio 2009

Cari fratelli e sorelle!

Oggi, Mercoledì delle Ceneri - porta liturgica che introduce nella Quaresima -,
i testi predisposti per la celebrazione tratteggiano, sia pure sommariamente,
l’intera fisionomia del tempo quaresimale. La Chiesa si preoccupa di mostrarci
quale debba essere l’orientamento del nostro spirito, e ci fornisce i sussidi
divini per percorrere con decisione e coraggio, illuminati già dal fulgore del
Mistero pasquale, il singolare itinerario spirituale che stiamo iniziando.

"Ritornate a me con tutto il cuore". L’appello alla conversione affiora come


tema dominante in tutte le componenti dell’odierna liturgia. Già nell’antifona
d’ingresso si dice che il Signore dimentica e perdona i peccati di quanti si
convertono; nella colletta si invita il popolo cristiano a pregare perché ciascuno
intraprenda "un cammino di vera conversione". Nella prima Lettura, il profeta
Gioele esorta a far ritorno al Padre "con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e
lamenti… perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore,
pronto a ravvedersi riguardo al male e ricco di benevolenza" (2,12-13). La
promessa di Dio è chiara: se il popolo ascolterà l’invito a convertirsi, Dio farà
trionfare la sua misericordia e i suoi amici saranno colmati di innumerevoli
favori. Con il Salmo responsoriale, l’assemblea liturgica fa proprie le
invocazioni del Salmo 50, domandando al Signore di creare in noi "un cuore
puro", di rinnovare in noi "uno spirito saldo". Vi è poi la pagina evangelica,
nella quale Gesù, mettendoci in guardia dal tarlo della vanità che porta
all’ostentazione e all’ipocrisia, alla superficialità e all’autocompiacimento,
ribadisce la necessità di nutrire la rettitudine del cuore. Egli mostra al tempo
stesso il mezzo per crescere in questa purezza di intenzione: coltivare l’intimità
con il Padre celeste.

Particolarmente gradita in questo anno giubilare, commemorativo del


bimillenario della nascita di san Paolo, ci giunge la parola della seconda
Lettera ai Corinti: "Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare
con Dio" (5,20). Questo invito dell’Apostolo suona come un ulteriore stimolo a
prendere sul serio l’appello quaresimale alla conversione. Paolo ha
sperimentato in maniera straordinaria la potenza della grazia di Dio, la grazia
del Mistero pasquale di cui la stessa Quaresima vive. Egli si presenta a noi
come "ambasciatore" del Signore. Chi allora meglio di lui può aiutarci a
percorrere in maniera fruttuosa questo itinerario di interiore conversione? Nella
prima Lettera a Timoteo scrive: "Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i
peccatori, il primo dei quali sono io", ed aggiunge: "Ma appunto per questo ho
ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo,
dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che
avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna" (1,15-16). L’Apostolo è
dunque cosciente di essere stato scelto come esempio, e questa sua esemplarità
riguarda proprio la conversione, la trasformazione della sua vita avvenuta
grazie all’amore misericordioso di Dio. "Prima ero un bestemmiatore, un
persecutore e un violento – egli riconosce - ma mi è stata usata misericordia …
e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato" (ibid. 1,13-14). L’intera
sua predicazione, e prima ancora, tutta la sua esistenza missionaria furono
sostenute da una spinta interiore riconducibile all’esperienza fondamentale
della "grazia". "Per grazia di Dio sono quello che sono – scrive ai Corinzi – …
ho faticato più di tutti loro [gli apostoli], non io però, ma la grazia di Dio che è
con me" (1 Cor 15,10). Si tratta di una consapevolezza che affiora in ogni suo
scritto ed ha funzionato come una "leva" interiore su cui Dio ha potuto agire
per spingerlo avanti, verso sempre ulteriori confini non solo geografici, ma
anche spirituali.

San Paolo riconosce che tutto in lui è opera della grazia divina, ma non
dimentica che occorre aderire liberamente al dono della vita nuova ricevuta nel
Battesimo. Nel testo del capitolo 6 della Lettera ai Romani, che sarà
proclamato durante la Veglia pasquale, scrive: "Il peccato dunque non regni
più nel vostro corpo mortale, così da sottomettervi ai suoi desideri. Non offrite
al peccato le vostre membra come strumenti di ingiustizia, ma offrite voi stessi
a Dio come viventi, ritornati dai morti, e le vostre membra a Dio come
strumenti di giustizia" (6,12-13). In queste parole troviamo contenuto tutto il
programma della Quaresima secondo la sua intrinseca prospettiva battesimale.
Da una parte, si afferma la vittoria di Cristo sul peccato, avvenuta una volta per
tutte con la sua morte e risurrezione; dall’altra, siamo esortati a non offrire al
peccato le nostre membra, cioè a non concedere, per così dire, spazio di
rivincita al peccato. La vittoria di Cristo attende che il discepolo la faccia sua, e
questo avviene prima di tutto con il Battesimo, mediante il quale, uniti a Gesù,
siamo diventati "viventi, ritornati dai morti". Il battezzato però, affinché Cristo
possa regnare pienamente in lui, deve seguirne fedelmente gli insegnamenti;
non deve mai abbassare la guardia, per non permettere all’avversario di
recuperare in qualche modo terreno.

Ma come portare a compimento la vocazione battesimale, come essere


vittoriosi nella lotta tra la carne e lo spirito, tra il bene e il male, lotta che segna
la nostra esistenza? Nel brano evangelico il Signore ci indica oggi tre utili
mezzi: la preghiera, l’elemosina e il digiuno. Nell’esperienza e negli scritti di
San Paolo troviamo anche al riguardo utili riferimenti. Circa la preghiera, egli
esorta a "perseverare" e a "vegliare in essa, rendendo grazie" (Rm 12,12; Col
4,2), a "pregare ininterrottamente" (1 Ts 5,17). Gesù è nel fondo del nostro
cuore. La relazione con Lui è presente e rimane presente anche se parliamo,
agiamo secondo i nostri doveri professionali. Per questo nella preghiera c’è la
presenza interiore nel nostro cuore della relazione con Dio, che diventa volta a
volta anche preghiera esplicita. Per quanto concerne l’elemosina, sono
certamente importanti le pagine dedicate alla grande colletta in favore dei
fratelli poveri (cfr 2 Cor 8-9), ma va sottolineato che per lui è la carità il vertice
della vita del credente, il "vincolo della perfezione": "sopra tutte queste cose –
scrive ai Colossesi - rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto"
(Col 3,14). Del digiuno non parla espressamente, esorta però spesso alla
sobrietà, come caratteristica di chi è chiamato a vivere in vigilante attesa del
Signore (cfr 1 Ts 5,6-8; Tt 2,12). Interessante è pure il suo accenno a
quell’"agonismo" spirituale che richiede temperanza: "ogni atleta – scrive ai
Corinzi – è disciplinato in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona che
appassisce, noi invece una che dura per sempre" (1 Cor 9,25). Il cristiano deve
essere disciplinato per trovare la strada ed arrivare realmente al Signore.

Ecco dunque la vocazione dei cristiani: risorti con Cristo, essi sono passati
attraverso la morte e ormai la loro vita è nascosta con Cristo in Dio (cfr Col
3,1-2). Per vivere questa "nuova" esistenza in Dio è indispensabile nutrirsi
della Parola di Dio. Solo così possiamo realmente essere congiunti con Dio,
vivere alla sua presenza, se siamo in dialogo con Lui. Gesù lo dice chiaramente
quando risponde alla prima delle tre tentazioni nel deserto, citando il
Deuteronomio: "Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce
dalla bocca di Dio" (Mt 4,4; cfr Dt 8,3). San Paolo raccomanda: "La parola di
Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e
ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati" (Col 3,16). Anche in
questo, l’Apostolo è innanzitutto testimone: le sue Lettere sono la prova
eloquente del fatto che egli viveva in permanente dialogo con la Parola di Dio:
pensiero, azione, preghiera, teologia, predicazione, esortazione, tutto in lui era
frutto della Parola, ricevuta fin dalla giovinezza nella fede ebraica, pienamente
svelata ai suoi occhi dall’incontro con Cristo morto e risorto, predicata per il
resto della vita durante la sua "corsa" missionaria. A lui fu rivelato che Dio ha
pronunciato in Gesù Cristo la Parola definitiva, sé stesso, Parola di salvezza
che coincide con il mistero pasquale, il dono di sé nella Croce che diventa poi
risurrezione, perché l’amore è più forte della morte. San Paolo poteva così
concludere: "Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore
nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso,
come io per il mondo" (Gal 6,14). In Paolo la Parola si è fatta vita, ed unico
suo vanto è Cristo crocifisso e risorto.

Cari fratelli e sorelle, mentre ci disponiamo a ricevere le ceneri sul capo in


segno di conversione e di penitenza, apriamo il cuore all’azione vivificante
della Parola di Dio. La Quaresima, contrassegnata da un più frequente ascolto
di questa Parola, da più intensa preghiera, da uno stile di vita austero e
penitenziale, sia stimolo alla conversione e all’amore sincero verso i fratelli,
specialmente quelli più poveri e bisognosi. Ci accompagni l’apostolo Paolo, ci
guidi Maria, attenta Vergine dell’ascolto e umile Serva del Signore. Potremo
così giungere, rinnovati nello spirito, a celebrare con gioia la Pasqua. Amen!

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana

Basilica di Santa SabinaMercoledì delle Ceneri, 6 febbraio 2008

Cari fratelli e sorelle!

Se l’Avvento è per eccellenza il tempo che ci invita a sperare nel Dio-che-


viene, la Quaresima ci rinnova nella speranza in Colui-che-ci-ha-fatti-passare-
dalla-morte-alla-vita. Entrambi sono tempi di purificazione – lo dice anche il
colore liturgico che hanno in comune – ma in modo speciale la Quaresima,
tutta orientata al mistero della Redenzione, è definita “cammino di vera
conversione” (Orazione colletta). All’inizio di quest’itinerario penitenziale,
vorrei soffermarmi brevemente a riflettere sulla preghiera e sulla sofferenza
quali aspetti qualificanti del tempo liturgico quaresimale, mentre alla pratica
dell’elemosina ho dedicato il Messaggio per la Quaresima, pubblicato la scorsa
settimana. Nell’Enciclica Spe salvi, ho indicato la preghiera e il soffrire,
insieme all’agire e al giudizio, come “luoghi di apprendimento e di esercizio
della speranza”. Potremmo quindi affermare che il periodo quaresimale,
proprio perché invita alla preghiera, alla penitenza e al digiuno, costituisce una
occasione provvidenziale per rendere più viva e salda la nostra speranza.

La preghiera alimenta la speranza, perché nulla più del pregare con fede
esprime la realtà di Dio nella nostra vita. Anche nella solitudine della prova più
dura, niente e nessuno possono impedirmi di rivolgermi al Padre, “nel segreto”
del mio cuore, dove Lui solo “vede”, come dice Gesù nel Vangelo (cfr Mt
6,4.6.18). Vengono in mente due momenti dell’esistenza terrena di Gesù che si
collocano uno all’inizio e l’altro quasi al termine della sua vita pubblica: i
quaranta giorni nel deserto, sui quali è ricalcato il tempo quaresimale, e
l’agonia nel Getsemani – entrambi sono essenzialmente momenti di preghiera.
Preghiera con il Padre solitaria a tu per tu nel deserto, preghiera colma di
“angoscia mortale” nell’Orto degli Ulivi. Ma sia nell’una che nell’altra
circostanza, è pregando che Cristo smaschera gli inganni del tentatore e lo
sconfigge. La preghiera si dimostra così la prima e principale “arma” per
“affrontare vittoriosamente il combattimento contro lo spirito del male”
(Orazione colletta).

La preghiera di Cristo raggiunge il suo culmine sulla croce, esprimendosi in


quelle ultime parole che gli evangelisti hanno raccolto. Laddove sembra
lanciare un grido di disperazione: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?” (Mt 27,46; Mc 15,34; cfr Sal 21,1), in realtà Cristo fa sua
l’invocazione di chi, assediato senza scampo dai nemici, non ha altri che Dio a
cui votarsi e, al di là di ogni umana possibilità, ne sperimenta la grazia e la
salvezza. Non vi è dunque contraddizione tra il lamento: “Dio mio, Dio mio,
perché mi hai abbandonato?”, e le parole piene di fiducia filiale: “Padre, nelle
tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46; cfr Sal 30,6). Anche queste sono
prese da un Salmo, il 30, implorazione drammatica di una persona che,
abbandonata da tutti, si affida sicura a Dio. La preghiera di supplica colma di
speranza è, pertanto, il leit motiv della Quaresima, e ci fa sperimentare Dio
quale unica àncora di salvezza. Pur quando è collettiva, la preghiera del popolo
di Dio è voce di un cuore solo e di un’anima sola, è dialogo “a tu per tu”, come
la commovente implorazione della regina Ester quando il suo popolo sta per
essere sterminato: “Mio Signore, nostro re, tu sei l’unico! Vieni in aiuto a me
che sono sola e non ho altro soccorso se non te, perché un grande pericolo mi
sovrasta” (Est 4, 17 l). Di fronte a un “grande pericolo” ci vuole una più grande
speranza, e questa è solo la speranza che può contare su Dio.

La preghiera è un crogiuolo in cui le nostre attese e aspirazioni vengono


esposte alla luce della Parola di Dio, vengono immerse nel dialogo con Colui
che è la verità, ed escono liberate da menzogne nascoste e compromessi con
diverse forme di egoismo (cfr Spe salvi, 33). Senza la dimensione della
preghiera, l’io umano finisce per chiudersi in se stesso, e la coscienza, che
dovrebbe essere eco della voce di Dio, rischia di ridursi a specchio dell’io, così
che il colloquio interiore diventa un monologo dando adito a mille
autogiustificazioni. La preghiera, perciò, è garanzia di apertura agli altri: chi si
fa libero per Dio e le sue esigenze, si apre contemporaneamente all’altro, al
fratello che bussa alla porta del suo cuore e chiede ascolto, attenzione, perdono,
talvolta correzione ma sempre nella carità fraterna. La vera preghiera non è mai
egocentrica, ma sempre centrata sull’altro. Come tale essa esercita l’orante
all’“estasi” della carità, alla capacità di uscire da sé per farsi prossimo all’altro
nel servizio umile e disinteressato. La vera preghiera è il motore del mondo,
perché lo tiene aperto a Dio. Per questo senza preghiera non c’è speranza, ma
solo illusione. Non è infatti la presenza di Dio ad alienare l’uomo, ma la sua
assenza: senza il vero Dio, Padre del Signore Gesù Cristo, le speranze
diventano illusioni che inducono ad evadere dalla realtà. Parlare con Dio,
rimanere alla sua presenza, lasciarsi illuminare e purificare dalla sua Parola, ci
introduce invece nel cuore della realtà, nell’intimo Motore del divenire
cosmico, ci introduce per così dire nel cuore pulsante dell’universo.

In armonica connessione con la preghiera, anche il digiuno e l’elemosina


possono essere considerati luoghi di apprendimento ed esercizio della speranza
cristiana. I Padri e gli scrittori antichi amano sottolineare che queste tre
dimensioni della vita evangelica sono inseparabili, si fecondano
reciprocamente e portano tanto maggior frutto quanto più si corroborano a
vicenda. Grazie all’azione congiunta della preghiera, del digiuno e
dell’elemosina, la Quaresima nel suo insieme forma i cristiani ad essere uomini
e donne di speranza, sull’esempio dei santi.

Vorrei ora soffermarmi anche sulla sofferenza poiché, come ho scritto


nell’Enciclica Spe salvi “la misura dell’umanità si determina essenzialmente
nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come
per la società” (Spe salvi, 38). La Pasqua, verso cui la Quaresima è protesa, è il
mistero che dà senso alla sofferenza umana, a partire dalla sovrabbondanza
della com-passione di Dio, realizzata in Gesù Cristo. Il cammino quaresimale,
pertanto, essendo tutto irradiato dalla luce pasquale, ci fa rivivere quanto
avvenne nel cuore divino-umano di Cristo mentre saliva a Gerusalemme per
l’ultima volta, per offrire se stesso in espiazione (cfr Is 53,10). La sofferenza e
la morte sono calate come tenebre via via che Egli si avvicinava alla croce, ma
viva si è fatta anche la fiamma dell’amore. La sofferenza di Cristo è in effetti
tutta permeata dalla luce dell’amore (cfr Spe salvi, 38): l’amore del Padre che
permette al Figlio di andare incontro con fiducia al suo ultimo “battesimo”,
come Lui stesso definisce il culmine della sua missione (cfr Lc 12,50). Quel
battesimo di dolore e d’amore, Gesù lo ha ricevuto per noi, per tutta l’umanità.
Ha sofferto per la verità e la giustizia, portando nella storia degli uomini il
vangelo della sofferenza, che è l’altra faccia del vangelo dell’amore. Dio non
può patire, ma può e vuole com-patire. Dalla passione di Cristo può entrare in
ogni sofferenza umana la con-solatio, “la consolazione dell’amore partecipe di
Dio e così sorge la stella della speranza” (Spe salvi, 39).

Come per la preghiera, così per la sofferenza la storia della Chiesa è


ricchissima di testimoni che si sono spesi per gli altri senza risparmio, a costo
di duri patimenti. Più è grande la speranza che ci anima, tanto maggiore è
anche in noi la capacità di soffrire per amore della verità e del bene, offrendo
con gioia le piccole e grandi fatiche di ogni giorno e inserendole nel grande
com-patire di Cristo (cfr ivi, 40). Ci aiuti in questo cammino di perfezione
evangelica Maria, che, insieme con quello del Figlio, ebbe il suo Cuore
immacolato trafitto dalla spada del dolore. Proprio in questi giorni, ricordando
il 150° anniversario delle apparizioni della Vergine a Lourdes, siamo condotti a
meditare sul mistero della condivisione di Maria con i dolori dell’umanità; al
tempo stesso siamo incoraggiati ad attingere consolazione dal “tesoro di
compassione” (ibid.) della Chiesa, a cui Ella ha contribuito più di ogni altra
creatura. Iniziamo pertanto la Quaresima in spirituale unione con Maria, che
“ha avanzato nel cammino della fede” dietro il suo Figlio (cfr Lumen gentium,
58) e sempre precede i discepoli nell’itinerario verso la luce pasquale. Amen!

© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana

Mercoledì delle Ceneri, 21 febbraio 2007

Cari fratelli e sorelle!

Con la processione penitenziale siamo entrati nell’austero clima della


Quaresima ed introducendoci nella Celebrazione eucaristica abbiamo poc’anzi
pregato perché il Signore aiuti il popolo cristiano ad “iniziare un cammino di
vera conversione per affrontare vittoriosamente con le armi della penitenza il
combattimento contro lo spirito del male” (Orazione Colletta). Nel ricevere tra
poco le ceneri sul capo, riascolteremo ancora un chiaro invito alla conversione
che può esprimersi in una duplice formula: “Convertitevi e credete al vangelo”,
oppure: “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”. Proprio per la
ricchezza dei simboli e dei testi biblici e liturgici, il Mercoledì delle Ceneri
viene considerato la “porta” della Quaresima. In effetti, l’odierna liturgia ed i
gesti che la contrassegnano formano un insieme che anticipa in modo sintetico
la fisionomia stessa dell’intero periodo quaresimale. Nella sua tradizione, la
Chiesa non si limita ad offrirci la tematica liturgica e spirituale dell’itinerario
quaresimale, ma ci indica pure gli strumenti ascetici e pratici per percorrerlo
fruttuosamente.

“Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti”. Con
queste parole inizia la Prima Lettura, tratta dal libro del profeta Gioele (2,12).
Le sofferenze, le calamità che affliggevano in quel periodo la terra di Giuda
spingono l’autore sacro ad incoraggiare il popolo eletto alla conversione, a
tornare cioè con fiducia filiale al Signore lacerandosi il cuore e non le vesti.
Egli infatti, ricorda il profeta, “è misericordioso e benigno, tardo all’ira e ricco
di benevolenza e si impietosisce riguardo alla sventura” (2,13). L’invito che
Gioele rivolge ai suoi ascoltatori vale anche per noi, cari fratelli e sorelle. Non
esitiamo a ritrovare l’amicizia di Dio perduta con il peccato; incontrando il
Signore sperimentiamo la gioia del suo perdono. E così, quasi rispondendo alle
parole del profeta, abbiamo fatto nostra l’invocazione del ritornello del Salmo
responsoriale: “Perdonaci, Signore, abbiamo peccato”. Proclamando il Salmo
50, il grande Salmo penitenziale, ci siamo appellati alla misericordia divina;
abbiamo chiesto al Signore che la potenza del suo amore ci ridoni la gioia di
essere salvati.

Con questo spirito, iniziamo il tempo favorevole della Quaresima, come ci ha


ricordato san Paolo nella Seconda Lettura, per lasciarci riconciliare con Dio in
Cristo Gesù. L’Apostolo si presenta come ambasciatore di Cristo e mostra
chiaramente come proprio in forza di Lui, venga offerta al peccatore, e cioè a
ciascuno di noi, la possibilità di un’autentica riconciliazione. «Colui che non
aveva conosciuto peccato, - egli dice - Dio lo trattò da peccato in nostro favore,
perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2 Cor 5,21).
Solo Cristo può trasformare ogni situazione di peccato in novità di grazia. Ecco
perché assume un forte impatto spirituale l’esortazione che Paolo indirizza ai
cristiani di Corinto: ”Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare
con Dio”; e ancora: “Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della
salvezza!” (5,20; 6,2). Mentre Gioele parlava del futuro giorno del Signore
come di un giorno di terribile giudizio, san Paolo, riferendosi alla parola del
profeta Isaia, parla di “momento favorevole”, di “giorno della salvezza”. Il
futuro giorno del Signore è divenuto l’“oggi”. Il giorno terribile si è
trasformato nella Croce e nella Risurrezione di Cristo, nel giorno della
salvezza. E questo giorno è ora, come abbiamo ascoltato nel Canto al Vangelo:
“Oggi non indurite il vostro cuore, ma ascoltate la voce del Signore”. L’appello
alla conversione, alla penitenza risuona quest’oggi con tutta la sua forza,
perché la sua eco ci accompagni in ogni momento della vita.

La liturgia del Mercoledì delle Ceneri indica così nella conversione del cuore a
Dio la dimensione fondamentale del tempo quaresimale. Questo è il richiamo
assai suggestivo che ci viene dal tradizionale rito dell’imposizione delle ceneri,
che tra poco rinnoveremo. Rito che riveste un duplice significato: il primo
relativo al cambiamento interiore, alla conversione e alla penitenza, mentre il
secondo richiama la precarietà dell’umana condizione, come è facile cogliere
dalle due diverse formule che accompagnano il gesto. Qui a Roma, la
processione penitenziale del mercoledì delle Ceneri parte da sant’Anselmo per
concludersi in questa basilica di santa Sabina, dove ha luogo la prima stazione
quaresimale. A questo proposito è interessante ricordare che l’antica liturgia
romana, attraverso le stazioni quaresimali, aveva elaborato una singolare
geografia della fede, partendo dall’idea che, con l’arrivo degli apostoli Pietro e
Paolo e con la distruzione del Tempio, Gerusalemme si fosse trasferita a Roma.
La Roma cristiana veniva intesa come una ricostruzione della Gerusalemme
del tempo di Gesù dentro le mura dell’Urbe. Questa nuova geografia interiore e
spirituale, insita nella tradizione delle chiese “stazionali” della Quaresima, non
é un semplice ricordo del passato, né una vuota anticipazione del futuro; al
contrario, intende aiutare i fedeli a percorrere un cammino interiore, il
cammino della conversione e della riconciliazione, per giungere alla gloria
della Gerusalemme celeste dove abita Dio.

Cari fratelli e sorelle, abbiamo quaranta giorni per approfondire questa


straordinaria esperienza ascetica e spirituale. Nel Vangelo che è stato
proclamato, Gesù indica quali sono gli strumenti utili per compiere l’autentico
rinnovamento interiore e comunitario: le opere di carità (l’elemosina), la
preghiera e la penitenza (il digiuno). Sono le tre pratiche fondamentali care
pure alla tradizione ebraica, perché contribuiscono a purificare l’uomo davanti
a Dio (cfr Mt 6,1-6.16-18). Tali gesti esteriori, che vanno compiuti per piacere
a Dio e non per ottenere l’approvazione e il consenso degli uomini, sono a Lui
accetti se esprimono la determinazione del cuore a servirlo, con semplicità e
generosità. Ce lo ricorda anche uno dei Prefazi quaresimali dove, a proposito
del digiuno, leggiamo questa singolare espressione: «ieiunio… mentem elevas:
con il digiuno elevi lo spirito» (Prefazio IV).

Il digiuno, al quale la Chiesa ci invita in questo tempo forte, non nasce certo da
motivazioni di ordine fisico od estetico, ma scaturisce dall’esigenza che l’uomo
ha di una purificazione interiore che lo disintossichi dall’inquinamento del
peccato e del male; lo educhi a quelle salutari rinunce che affrancano il
credente dalla schiavitù del proprio io; lo renda più attento e disponibile
all’ascolto di Dio e al servizio dei fratelli. Per questa ragione il digiuno e le
altre pratiche quaresimali sono considerate dalla tradizione cristiana “armi”
spirituali per combattere il male, le passioni cattive e i vizi. Al riguardo, mi
piace riascoltare insieme a voi un breve commento di san Giovanni
Crisostomo. “Come al finir dell’inverno – egli scrive – torna la stagione estiva
e il navigante trascina in mare la nave, il soldato ripulisce le armi e allena il
cavallo per la lotta, l’agricoltore affila la falce, il viandante rinvigorito si
accinge al lungo viaggio e l’atleta depone le vesti e si prepara alle gare; così
anche noi, all’inizio di questo digiuno, quasi al ritorno di una primavera
spirituale forbiamo le armi come i soldati, affiliamo la falce come gli
agricoltori, e come nocchieri riassettiamo la nave del nostro spirito per
affrontare i flutti delle assurde passioni, come viandanti riprendiamo il viaggio
verso il cielo e come atleti ci prepariamo alla lotta con lo spogliamento di
tutto” (Omelie al popolo antiocheno, 3).

Nel messaggio per la Quaresima, ho invitato a vivere questi quaranta giorni di


speciale grazia come un tempo “eucaristico”. Attingendo a quella fonte
inesauribile di amore che è l’Eucaristia, nella quale Cristo rinnova il sacrificio
redentore della Croce, ogni cristiano può perseverare nell’itinerario che oggi
solennemente intraprendiamo. Le opere di carità (l’elemosina), la preghiera, il
digiuno insieme ad ogni altro sincero sforzo di conversione trovano il loro più
alto significato e valore nell’Eucaristia, centro e culmine della vita della Chiesa
e della storia della salvezza. “Questo sacramento che abbiamo ricevuto, o
Padre, – così pregheremo al termine della Santa Messa - ci sostenga nel
cammino quaresimale, santifichi il nostro digiuno e lo renda efficace per la
guarigione del nostro spirito”. Chiediamo a Maria di accompagnarci perché, al
termine della Quaresima, possiamo contemplare il Signore risorto,
interiormente rinnovati e riconciliati con Dio e con i fratelli. Amen!

© Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana

Mercoledì delle Ceneri, 1° marzo 2006

Signori Cardinali,venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,cari


fratelli e sorelle!
La processione penitenziale, con cui abbiamo iniziato l'odierna celebrazione, ci
ha aiutati ad entrare nel clima tipico della Quaresima, che è un pellegrinaggio
personale e comunitario di conversione e di rinnovamento spirituale. Secondo
l'antichissima tradizione romana delle stationes quaresimali, durante questo
tempo i fedeli, insieme ai pellegrini, ogni giorno si radunano e fanno sosta -
statio - presso una delle tante "memorie" dei Martiri, che costituiscono le
fondamenta della Chiesa di Roma. Nelle Basiliche, dove vengono esposte le
loro reliquie, è celebrata la Santa Messa preceduta da una processione, durante
la quale si cantano le litanie dei Santi. Si fa così memoria di quanti con il loro
sangue hanno reso testimonianza a Cristo, e la loro evocazione diventa stimolo
per ciascun cristiano a rinnovare la propria adesione al Vangelo. Malgrado il
passare dei secoli, questi riti conservano il loro valore, perché ricordano quanto
importante sia, anche in questi nostri tempi, accogliere senza compromessi le
parole di Gesù: "Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso,
prenda la sua croce ogni giorno e mi segua" (Lc 9, 23).

Altro rito simbolico, gesto proprio ed esclusivo del primo giorno della
Quaresima, è l'imposizione delle Ceneri. Qual è il suo più pregnante
significato? Non si tratta certo di mero ritualismo, ma di qualcosa di assai
profondo, che tocca il nostro cuore. Esso ci fa comprendere l'attualità
dell'ammonimento del profeta Gioele, riecheggiato nella prima Lettura,
ammonimento che conserva anche per noi la sua salutare validità: ai gesti
esteriori deve sempre corrispondere la sincerità dell'animo e la coerenza delle
opere. A che serve infatti - si domanda l'autore ispirato - lacerarsi le vesti, se il
cuore rimane lontano dal Signore, cioè dal bene e dalla giustizia? Ecco ciò che
conta veramente: ritornare a Dio, con animo sinceramente pentito, per ottenere
la sua misericordia (cfr Gl 2, 12-18). Un cuore nuovo e uno spirito nuovo:
questo domandiamo con il Salmo penitenziale per eccellenza, il Miserere, che
quest'oggi cantiamo col ritornello "Perdonaci, Signore, abbiamo peccato". Il
vero credente, consapevole di essere peccatore, aspira con tutto se stesso -
spirito, anima e corpo - al perdono divino, come a una nuova creazione, in
grado di restituirgli gioia e speranza (cfr Sal 50, 3.5.12.14).

Un altro aspetto della spiritualità quaresimale è quello che potremmo definire


"agonistico", ed emerge nell'odierna orazione "colletta", là dove si parla di
"armi" della penitenza e di "combattimento" contro lo spirito del male. Ogni
giorno, ma particolarmente in Quaresima, il cristiano deve affrontare una lotta,
come quella che Cristo ha sostenuto nel deserto di Giuda, dove per quaranta
giorni fu tentato dal diavolo, e poi nel Getsemani, quando respinse l'estrema
tentazione accettando fino in fondo la volontà del Padre. Si tratta di una
battaglia spirituale, che è diretta contro il peccato e, ultimamente, contro
satana. È una lotta che investe l'intera persona e richiede un'attenta e costante
vigilanza. Osserva sant'Agostino che chi vuole camminare nell'amore di Dio e
nella sua misericordia non può accontentarsi di liberarsi dai peccati gravi e
mortali, ma "opera la verità riconoscendo anche i peccati che si considerano
meno gravi ... e viene alla luce compiendo opere degne. Anche i peccati meno
gravi, se trascurati, proliferano e producono la morte" (In Io. evang. 12, 13,
35).

La Quaresima ci ricorda, pertanto, che l'esistenza cristiana è un combattimento


senza sosta, nel quale vanno utilizzate le "armi" della preghiera, del digiuno e
della penitenza. Lottare contro il male, contro ogni forma di egoismo e di odio,
e morire a se stessi per vivere in Dio è l'itinerario ascetico che ogni discepolo
di Gesù è chiamato a percorrere con umiltà e pazienza, con generosità e
perseveranza. La docile sequela del divino Maestro rende i cristiani testimoni e
apostoli di pace. Potremmo dire che questo interiore atteggiamento ci aiuta a
meglio evidenziare anche quale debba essere la risposta cristiana alla violenza
che minaccia la pace nel mondo. Non certo la vendetta, non l'odio e nemmeno
la fuga in un falso spiritualismo. La risposta di chi segue Cristo è piuttosto
quella di percorrere la strada scelta da Colui che, davanti ai mali del suo tempo
e di tutti i tempi, ha abbracciato decisamente la Croce, seguendo il sentiero più
lungo ma efficace dell'amore. Sulle sue orme e uniti a Lui, dobbiamo tutti
impegnarci nell'opporci al male con il bene, alla menzogna con la verità,
all'odio con l'amore. Nell'Enciclica Deus caritas est ho voluto presentare
questo amore come il segreto della nostra conversione personale ed ecclesiale.
Richiamandomi alle parole di Paolo ai Corinzi: "L'amore del Cristo ci spinge"
(2 Cor 5, 14), ho sottolineato come "la consapevolezza che in Lui Dio stesso si
è donato per noi fino alla morte deve indurci a non vivere più per noi stessi, ma
per Lui, e con Lui per gli altri" (n. 33).

L'amore, come ribadisce Gesù quest'oggi nel Vangelo, deve poi tradursi in
gesti concreti verso il prossimo, specialmente verso i poveri e i bisognosi,
sempre subordinando il valore delle "buone opere" alla sincerità del rapporto
con il "Padre che è nei cieli", che "vede nel segreto" e "ricompenserà" quanti
fanno il bene in modo umile e disinteressato (cfr Mt 6, 1.4.6.18). La
concretezza dell'amore costituisce uno degli elementi essenziali della vita dei
cristiani, che sono incoraggiati da Gesù ad essere luce del mondo, affinché gli
uomini, vedendo le loro "opere buone", rendano gloria a Dio (cfr Mt 5, 16).
Questa raccomandazione giunge a noi quanto mai opportuna all'inizio della
Quaresima, perché comprendiamo sempre più che "la carità non è per la Chiesa
una specie di attività di assistenza sociale ... ma appartiene alla sua natura, è
espressione irrinunciabile della sua stessa essenza" (Deus caritas est, 25, a).
L'amore vero si traduce in gesti che non escludono nessuno, sull'esempio del
buon Samaritano che, con grande apertura d'animo, aiutò uno sconosciuto in
difficoltà, incontrato "per caso" lungo la strada (cfr Lc 10, 31).

Signori Cardinali, venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Presbiterato, cari


religiosi, religiose e fedeli laici, che saluto tutti con viva cordialità, entriamo
nel clima tipico di questo periodo liturgico con questi sentimenti, lasciando che
la parola di Dio ci illumini e ci guidi. In Quaresima sentiremo spesso
riecheggiare l'invito a convertirci e a credere al Vangelo, e saremo
costantemente stimolati ad aprire lo spirito alla potenza della grazia divina.
Facciamo tesoro degli insegnamenti che abbondantemente in queste settimane
ci offrirà la Chiesa. Animati da un forte impegno di preghiera, decisi a uno
sforzo più grande di penitenza, di digiuno e di attenzione d'amore ai fratelli,
incamminiamoci verso la Pasqua, accompagnati dalla Vergine Maria, Madre
della Chiesa e modello di ogni autentico discepolo di Cristo.

© Copyright 2006 - Libreria Editrice Vaticana  

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