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Le Letture che sono state proclamate ci offrono spunti che, con la grazia di
Dio, siamo chiamati a far diventare atteggiamenti e comportamenti concreti in
questa Quaresima. La Chiesa ci ripropone, anzitutto, il forte richiamo che il
profeta Gioele rivolge al popolo di Israele: «Così dice il Signore: ritornate a me
con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti» (2,12). Va sottolineata
l’espressione «con tutto il cuore», che significa dal centro dei nostri pensieri e
sentimenti, dalle radici delle nostre decisioni, scelte e azioni, con un gesto di
totale e radicale libertà. Ma è possibile questo ritorno a Dio? Sì, perché c’è una
forza che non risiede nel nostro cuore, ma che si sprigiona dal cuore stesso di
Dio. E’ la forza della sua misericordia. Dice ancora il profeta: «Ritornate al
Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di
grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male» (v.13). Il ritorno al
Signore è possibile come ‘grazia’, perché è opera di Dio e frutto della fede che
noi riponiamo nella sua misericordia. Questo ritornare a Dio diventa realtà
concreta nella nostra vita solo quando la grazia del Signore penetra nell’intimo
e lo scuote donandoci la forza di «lacerare il cuore». E’ ancora il profeta a far
risuonare da parte di Dio queste parole: «Laceratevi il cuore e non le vesti»
(v.13). In effetti, anche ai nostri giorni, molti sono pronti a “stracciarsi le vesti”
di fronte a scandali e ingiustizie – naturalmente commessi da altri –, ma pochi
sembrano disponibili ad agire sul proprio “cuore”, sulla propria coscienza e
sulle proprie intenzioni, lasciando che il Signore trasformi, rinnovi e converta.
Quel «ritornate a me con tutto il cuore», poi, è un richiamo che coinvolge non
solo il singolo, ma la comunità. Abbiamo ascoltato sempre nella prima Lettura:
«Suonate il corno in Sion, proclamate un solenne digiuno, convocate una
riunione sacra. Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne, chiamate i
vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la
sposa dal suo talamo» (vv.15-16). La dimensione comunitaria è un elemento
essenziale nella fede e nella vita cristiana. Cristo è venuto «per riunire insieme
i figli di Dio che erano dispersi» (cfr Gv 11,52). Il “Noi” della Chiesa è la
comunità in cui Gesù ci riunisce insieme (cfr Gv 12,32): la fede è
necessariamente ecclesiale. E questo è importante ricordarlo e viverlo in questo
Tempo della Quaresima: ognuno sia consapevole che il cammino penitenziale
non lo affronta da solo, ma insieme con tanti fratelli e sorelle, nella Chiesa.
«Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (2 Cor
6,2). Le parole dell’apostolo Paolo ai cristiani di Corinto risuonano anche per
noi con un’urgenza che non ammette assenze o inerzie. Il termine “ora”
ripetuto più volte dice che questo momento non può essere lasciato sfuggire,
esso viene offerto a noi come un’occasione unica e irripetibile. E lo sguardo
dell’Apostolo si concentra sulla condivisione con cui Cristo ha voluto
caratterizzare la sua esistenza, assumendo tutto l’umano fino a farsi carico
dello stesso peccato degli uomini. La frase di san Paolo è molto forte: Dio «lo
fece peccato in nostro favore». Gesù, l’innocente, il Santo, «Colui che non
aveva conosciuto peccato» (2 Cor 5,21), si fa carico del peso del peccato
condividendone con l’umanità l’esito della morte, e della morte di croce. La
riconciliazione che ci viene offerta ha avuto un prezzo altissimo, quello della
croce innalzata sul Golgota, su cui è stato appeso il Figlio di Dio fatto uomo. In
questa immersione di Dio nella sofferenza umana e nell’abisso del male sta la
radice della nostra giustificazione. Il «ritornare a Dio con tutto il cuore» nel
nostro cammino quaresimale passa attraverso la Croce, il seguire Cristo sulla
strada che conduce al Calvario, al dono totale di sé. E’ un cammino in cui
imparare ogni giorno ad uscire sempre più dal nostro egoismo e dalle nostre
chiusure, per fare spazio a Dio che apre e trasforma il cuore. E san Paolo
ricorda come l’annuncio della Croce risuoni a noi grazie alla predicazione della
Parola, di cui l’Apostolo stesso è ambasciatore; un richiamo per noi affinché
questo cammino quaresimale sia caratterizzato da un ascolto più attento e
assiduo della Parola di Dio, luce che illumina i nostri passi.
Ecco dunque che il segno della cenere ci riporta al grande affresco della
creazione, in cui si dice che l’essere umano è una singolare unità di materia e
di soffio divino, attraverso l’immagine della polvere del suolo plasmata da Dio
e animata dal suo respiro insufflato nelle narici della nuova creatura. Possiamo
osservare come nel racconto della Genesi il simbolo della polvere subisca una
trasformazione negativa a causa del peccato. Mentre prima della caduta il suolo
è una potenzialità totalmente buona, irrigata da una polla d’acqua (Gen 2,6) e
capace, per l’opera di Dio, di germinare «ogni sorta di alberi graditi alla vista e
buoni da mangiare» (Gen 2,9), dopo la caduta e la conseguente maledizione
divina esso produrrà «spine e cardi» e solo in cambio di «dolore» e «sudore del
volto» concederà all’uomo i suoi frutti (cfr Gen 3,17-18). La polvere della terra
non richiama più solo il gesto creatore di Dio, tutto aperto alla vita, ma diventa
segno di un inesorabile destino di morte: «Polvere tu sei e in polvere
ritornerai» (Gen 3,19).
E’ evidente nel testo biblico che la terra partecipa della sorte dell’uomo. Dice
in proposito san Giovanni Crisostomo in una sua omelia: «Vedi come dopo la
sua disobbedienza tutto viene imposto su di lui [l’uomo] in un modo contrario
al suo precedente stile di vita» (Omelie sulla Genesi 17, 9: PG 53, 146). Questa
maledizione del suolo ha una funzione medicinale per l’uomo, che dalle
«resistenze» della terra dovrebbe essere aiutato a mantenersi nei suoi limiti e
riconoscere la propria natura (cfr ibid.). Così, con una bella sintesi, si esprime
un altro antico commento, che dice: «Adamo fu creato puro da Dio per il suo
servizio. Tutte le creature gli furono concesse per servirlo. Egli era destinato ad
essere il signore e re di tutte le creature. Ma quando il male giunse a lui e
conversò con lui, egli lo ricevette per mezzo di un ascolto esterno. Poi penetrò
nel suo cuore e si impadronì del suo intero essere. Quando così fu catturato, la
creazione, che lo aveva assistito e servito, fu catturata con lui» (Pseudo-
Macario, Omelie 11, 5: PG 34, 547).
Dicevamo poco fa, citando san Giovanni Crisostomo, che la maledizione del
suolo ha una funzione «medicinale». Ciò significa che l’intenzione di Dio, che
è sempre benefica, è più profonda della maledizione. Questa, infatti, è dovuta
non a Dio ma al peccato, però Dio non può non infliggerla, perché rispetta la
libertà dell’uomo e le sue conseguenze, anche negative. Dunque, all’interno
della punizione, e anche all’interno della maledizione del suolo, permane una
intenzione buona che viene da Dio. Quando Egli dice all’uomo: «Polvere tu sei
e in polvere ritornerai!», insieme con la giusta punizione intende anche
annunciare una via di salvezza, che passerà proprio attraverso la terra,
attraverso quella «polvere», quella «carne» che sarà assunta dal Verbo. E’ in
questa prospettiva salvifica che la parola della Genesi viene ripresa dalla
Liturgia del Mercoledì delle Ceneri: come invito alla penitenza, all’umiltà, ad
avere presente la propria condizione mortale, ma non per finire nella
disperazione, bensì per accogliere, proprio in questa nostra mortalità,
l’impensabile vicinanza di Dio, che, oltre la morte, apre il passaggio alla
risurrezione, al paradiso finalmente ritrovato. In questo senso ci orienta un
testo di Origene, che dice: «Ciò che inizialmente era carne, dalla terra, un
uomo di polvere (cfr 1 Cor 15,47), e fu dissolto attraverso la morte e di nuovo
reso polvere e cenere – infatti è scritto: sei polvere, e nella polvere ritornerai –
viene fatto risorgere di nuovo dalla terra. In seguito, secondo i meriti
dell’anima che abita il corpo, la persona avanza verso la gloria di un corpo
spirituale» (Sui Princìpi 3, 6, 5: Sch, 268, 248).
«Ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Nella prima Lettura, tratta dal
libro del profeta Gioele, abbiamo ascoltato queste parole con cui Dio invita il
popolo ebraico ad un pentimento sincero e non apparente. Non si tratta di una
conversione superficiale e transitoria, bensì di un itinerario spirituale che
riguarda in profondità gli atteggiamenti della coscienza e suppone un sincero
proposito di ravvedimento. Il profeta prende spunto dalla piaga dell’invasione
delle cavallette che si era abbattuta sul popolo distruggendo i raccolti, per
invitare ad una penitenza interiore, a lacerarsi il cuore e non le vesti (cfr 2,13).
Si tratta, cioè, di porre in atto un atteggiamento di conversione autentica a Dio
- ritornare a Lui -, riconoscendo la sua santità, la sua potenza, la sua maestà. E
questa conversione è possibile perché Dio è ricco di misericordia e grande
nell’amore. La sua è una misericordia rigeneratrice, che crea in noi un cuore
puro, rinnova nell'intimo uno spirito fermo, restituendoci la gioia della salvezza
(cfr Sal 50,14). Dio, infatti, - come dice il profeta - non vuole la morte del
peccatore, ma che si converta e viva (cfr Ez 33,11). Il profeta Gioele ordina, a
nome del Signore, che si crei un propizio ambiente penitenziale: bisogna
suonare la tromba, convocare l'adunanza, risvegliare le coscienze. Il periodo
quaresimale ci propone questo ambito liturgico e penitenziale: un cammino di
quaranta giorni dove sperimentare in modo efficace l'amore misericordioso di
Dio. Oggi risuona per noi l’appello «Ritornate a me con tutto il cuore»; oggi
siamo noi ad essere chiamati a convertire il nostro cuore a Dio, consapevoli
sempre di non poter realizzare la nostra conversione da soli, con le nostre
forze, perché è Dio che ci converte. Egli ci offre ancora il suo perdono,
invitando a tornare a Lui per donarci un cuore nuovo, purificato dal male che lo
opprime, per farci prendere parte alla sua gioia. Il nostro mondo ha bisogno di
essere convertito da Dio, ha bisogno del suo perdono, del suo amore, ha
bisogno di un cuore nuovo.
«Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). Nella seconda Lettura san Paolo
ci offre un altro elemento nel cammino della conversione. L’Apostolo invita a
distogliere lo sguardo su di lui e a rivolgere invece l’attenzione su chi l’ha
inviato e sul contenuto del messaggio che porta: «In nome di Cristo, dunque,
siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo
in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (ibid.). Un ambasciatore
ripete quello che ha sentito pronunciare dal suo Signore e parla con l’autorità e
dentro i limiti che ha ricevuto. Chi svolge l’ufficio di ambasciatore non deve
attirare l’interesse su se stesso, ma deve mettersi al servizio del messaggio da
trasmettere e di chi l’ha mandato. Così agisce san Paolo nell’assolvere il suo
ministero di predicatore della Parola di Dio e di Apostolo di Gesù Cristo. Egli
non si tira indietro di fronte al compito ricevuto, ma lo assolve con totale
dedizione, invitando ad aprirsi alla Grazia, a lasciare che Dio ci converta:
«Poiché siamo suoi collaboratori, - scrive - vi esortiamo a non accogliere
invano la grazia di Dio» (2Cor 6,1). «L'appello di Cristo alla conversione - ci
dice il Catechismo della Chiesa Cattolica - continua a risuonare nella vita dei
cristiani. […] è un impegno continuo per tutta la Chiesa che "comprende nel
suo seno i peccatori" e che, "santa insieme e sempre bisognosa di purificazione,
incessantemente si applica alla penitenza e al suo rinnovamento". Questo
sforzo di conversione non è soltanto un'opera umana. È il dinamismo del
"cuore contrito" (Sal 51,19), attratto e mosso dalla grazia a rispondere
all'amore misericordioso di Dio che ci ha amati per primo» (n. 1428). San
Paolo parla ai cristiani di Corinto, ma attraverso di loro intende rivolgersi a
tutti gli uomini. Tutti infatti hanno bisogno della grazia di Dio, che illumini la
mente e il cuore. E l’Apostolo incalza: «Ecco ora il momento favorevole, ecco
ora il giorno della salvezza!» (2Cor 6,2). Tutti possono aprirsi all’azione di
Dio, al suo amore; con la nostra testimonianza evangelica, noi cristiani
dobbiamo essere un messaggio vivente, anzi, in molti casi siamo l’unico
Vangelo che gli uomini di oggi leggono ancora. Ecco la nostra responsabilità
sulle orme di san Paolo, ecco un motivo in più per vivere bene la Quaresima:
offrire la testimonianza della fede vissuta ad un mondo in difficoltà che ha
bisogno di ritornare a Dio, che ha bisogno di conversione.
«Guardatevi dal praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere
ammirati da loro» (Mt 6,1). Gesù, nel Vangelo di oggi, rilegge le tre opere
fondamentali di pietà previste dalla legge mosaica. L’elemosina, la preghiera e
il digiuno caratterizzano l’ebreo osservante della legge. Nel corso del tempo,
queste prescrizioni erano state intaccate dalla ruggine del formalismo esteriore,
o addirittura si erano mutate in un segno di superiorità. Gesù mette in evidenza
in queste tre opere di pietà una tentazione comune. Quando si compie qualcosa
di buono, quasi istintivamente nasce il desiderio di essere stimati e ammirati
per la buona azione, di avere cioè una soddisfazione. E questo, da una parte
rinchiude in se stessi, dall’altra porta fuori da se stessi, perché si vive proiettati
verso quello che gli altri pensano di noi e ammirano in noi. Nel riproporre
queste prescrizioni, il Signore Gesù non chiede un rispetto formale ad una
legge estranea all'uomo, imposta da un legislatore severo come fardello
pesante, ma invita a riscoprire queste tre opere di pietà vivendole in modo più
profondo, non per amore proprio, ma per amore di Dio, come mezzi nel
cammino di conversione a Lui. Elemosina, preghiera e digiuno: è il tracciato
della pedagogia divina che ci accompagna, non solo in Quaresima, verso
l’incontro con il Signore Risorto; un tracciato da percorrere senza ostentazione,
nella certezza che il Padre celeste sa leggere e vedere anche nel segreto del
nostro cuore.
“Tu ami tutte le tue creature, Signore, e nulla disprezzi di ciò che hai creato; tu
dimentichi i peccati di quanti si convertono e li perdoni, perché tu sei il Signore
nostro Dio” (Antifona d’ingresso).
Con questa commovente invocazione, tratta dal Libro della Sapienza (cfr
11,23-26), la liturgia introduce la celebrazione eucaristica del Mercoledì delle
Ceneri. Sono parole che, in qualche modo, aprono l’intero itinerario
quaresimale, ponendo a suo fondamento l’onnipotenza d’amore di Dio, la sua
assoluta signoria su ogni creatura, che si traduce in indulgenza infinita, animata
da costante e universale volontà di vita. In effetti, perdonare qualcuno equivale
a dirgli: non voglio che tu muoia, ma che tu viva; voglio sempre e soltanto il
tuo bene.
Tutto questo il Signore Gesù lo ha fatto per noi. Lo ha fatto per salvarci, e al
tempo stesso per mostrarci la via per seguirlo. La salvezza, infatti, è dono, è
grazia di Dio, ma per avere effetto nella mia esistenza richiede il mio assenso,
un’accoglienza dimostrata nei fatti, cioè nella volontà di vivere come Gesù, di
camminare dietro a Lui. Seguire Gesù nel deserto quaresimale è dunque
condizione necessaria per partecipare alla sua Pasqua, al suo “esodo”. Adamo
fu cacciato dal Paradiso terrestre, simbolo della comunione con Dio; ora, per
ritornare a questa comunione e dunque alla vera vita, la vita eterna, bisogna
attraversare il deserto, la prova della fede. Non da soli, ma con Gesù! Lui –
come sempre – ci ha preceduto e ha già vinto il combattimento contro lo spirito
del male. Ecco il senso della Quaresima, tempo liturgico che ogni anno ci
invita a rinnovare la scelta di seguire Cristo sulla via dell’umiltà per
partecipare alla sua vittoria sul peccato e sulla morte.
Anche nelle letture bibliche del Mercoledì delle Ceneri è ben presente il tema
della giustizia. Innanzitutto, la pagina del profeta Gioele e il Salmo
responsoriale – il Miserere – formano un dittico penitenziale, che mette in
risalto come all’origine di ogni ingiustizia materiale e sociale vi sia quella che
la Bibbia chiama “iniquità”, cioè il peccato, che consiste fondamentalmente in
una disobbedienza a Dio, vale a dire una mancanza d’amore. “Sì – confessa il
Salmista – le mie iniquità io le riconosco, / il mio peccato mi sta sempre
dinanzi. / Contro te, contro te solo ho peccato, / quello che è male ai tuoi occhi,
io l’ho fatto” (Sal 50/51,5-6). Il primo atto di giustizia è dunque riconoscere la
propria iniquità, e riconoscere che questa è radicata nel “cuore”, nel centro
stesso della persona umana. I “digiuni”, i “pianti”, i “lamenti” (cfr Gl 2,12) ed
ogni espressione penitenziale hanno valore agli occhi di Dio solo se sono segno
di cuori sinceramente pentiti. Anche il Vangelo, tratto dal “discorso della
montagna”, insiste sull’esigenza di praticare la propria “giustizia” – elemosina,
preghiera, digiuno – non davanti agli uomini, ma solo agli occhi di Dio, che
“vede nel segreto” (cfr Mt 6,1-6.16-18). La vera “ricompensa” non è
l’ammirazione degli altri, ma l’amicizia con Dio e la grazia che ne deriva, una
grazia che dona pace e forza di compiere il bene, di amare anche chi non lo
merita, di perdonare chi ci ha offeso.
La seconda lettura, l’appello di Paolo a lasciarsi riconciliare con Dio (cfr 2 Cor
5,20), contiene uno dei celebri paradossi paolini, che riconduce tutta la
riflessione sulla giustizia al mistero di Cristo. Scrive san Paolo: “Colui che non
aveva conosciuto peccato – cioè il suo Figlio fatto uomo –, Dio lo fece peccato
in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (2 Cor
5,21). Nel cuore di Cristo, cioè nel centro della sua Persona divino-umana, si è
giocato in termini decisivi e definitivi tutto il dramma della libertà. Dio ha
portato alle estreme conseguenze il proprio disegno di salvezza, rimanendo
fedele al suo amore anche a costo di consegnare il Figlio unigenito alla morte,
e alla morte di croce. Come ho scritto nel Messaggio quaresimale, “qui si
dischiude la giustizia divina, profondamente diversa da quella umana … Grazie
all’azione di Cristo, noi possiamo entrare nella giustizia «più grande», che è
quella dell’amore (cfr Rm 13,8-10)”.
Oggi, Mercoledì delle Ceneri - porta liturgica che introduce nella Quaresima -,
i testi predisposti per la celebrazione tratteggiano, sia pure sommariamente,
l’intera fisionomia del tempo quaresimale. La Chiesa si preoccupa di mostrarci
quale debba essere l’orientamento del nostro spirito, e ci fornisce i sussidi
divini per percorrere con decisione e coraggio, illuminati già dal fulgore del
Mistero pasquale, il singolare itinerario spirituale che stiamo iniziando.
San Paolo riconosce che tutto in lui è opera della grazia divina, ma non
dimentica che occorre aderire liberamente al dono della vita nuova ricevuta nel
Battesimo. Nel testo del capitolo 6 della Lettera ai Romani, che sarà
proclamato durante la Veglia pasquale, scrive: "Il peccato dunque non regni
più nel vostro corpo mortale, così da sottomettervi ai suoi desideri. Non offrite
al peccato le vostre membra come strumenti di ingiustizia, ma offrite voi stessi
a Dio come viventi, ritornati dai morti, e le vostre membra a Dio come
strumenti di giustizia" (6,12-13). In queste parole troviamo contenuto tutto il
programma della Quaresima secondo la sua intrinseca prospettiva battesimale.
Da una parte, si afferma la vittoria di Cristo sul peccato, avvenuta una volta per
tutte con la sua morte e risurrezione; dall’altra, siamo esortati a non offrire al
peccato le nostre membra, cioè a non concedere, per così dire, spazio di
rivincita al peccato. La vittoria di Cristo attende che il discepolo la faccia sua, e
questo avviene prima di tutto con il Battesimo, mediante il quale, uniti a Gesù,
siamo diventati "viventi, ritornati dai morti". Il battezzato però, affinché Cristo
possa regnare pienamente in lui, deve seguirne fedelmente gli insegnamenti;
non deve mai abbassare la guardia, per non permettere all’avversario di
recuperare in qualche modo terreno.
Ecco dunque la vocazione dei cristiani: risorti con Cristo, essi sono passati
attraverso la morte e ormai la loro vita è nascosta con Cristo in Dio (cfr Col
3,1-2). Per vivere questa "nuova" esistenza in Dio è indispensabile nutrirsi
della Parola di Dio. Solo così possiamo realmente essere congiunti con Dio,
vivere alla sua presenza, se siamo in dialogo con Lui. Gesù lo dice chiaramente
quando risponde alla prima delle tre tentazioni nel deserto, citando il
Deuteronomio: "Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce
dalla bocca di Dio" (Mt 4,4; cfr Dt 8,3). San Paolo raccomanda: "La parola di
Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e
ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati" (Col 3,16). Anche in
questo, l’Apostolo è innanzitutto testimone: le sue Lettere sono la prova
eloquente del fatto che egli viveva in permanente dialogo con la Parola di Dio:
pensiero, azione, preghiera, teologia, predicazione, esortazione, tutto in lui era
frutto della Parola, ricevuta fin dalla giovinezza nella fede ebraica, pienamente
svelata ai suoi occhi dall’incontro con Cristo morto e risorto, predicata per il
resto della vita durante la sua "corsa" missionaria. A lui fu rivelato che Dio ha
pronunciato in Gesù Cristo la Parola definitiva, sé stesso, Parola di salvezza
che coincide con il mistero pasquale, il dono di sé nella Croce che diventa poi
risurrezione, perché l’amore è più forte della morte. San Paolo poteva così
concludere: "Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore
nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso,
come io per il mondo" (Gal 6,14). In Paolo la Parola si è fatta vita, ed unico
suo vanto è Cristo crocifisso e risorto.
La preghiera alimenta la speranza, perché nulla più del pregare con fede
esprime la realtà di Dio nella nostra vita. Anche nella solitudine della prova più
dura, niente e nessuno possono impedirmi di rivolgermi al Padre, “nel segreto”
del mio cuore, dove Lui solo “vede”, come dice Gesù nel Vangelo (cfr Mt
6,4.6.18). Vengono in mente due momenti dell’esistenza terrena di Gesù che si
collocano uno all’inizio e l’altro quasi al termine della sua vita pubblica: i
quaranta giorni nel deserto, sui quali è ricalcato il tempo quaresimale, e
l’agonia nel Getsemani – entrambi sono essenzialmente momenti di preghiera.
Preghiera con il Padre solitaria a tu per tu nel deserto, preghiera colma di
“angoscia mortale” nell’Orto degli Ulivi. Ma sia nell’una che nell’altra
circostanza, è pregando che Cristo smaschera gli inganni del tentatore e lo
sconfigge. La preghiera si dimostra così la prima e principale “arma” per
“affrontare vittoriosamente il combattimento contro lo spirito del male”
(Orazione colletta).
“Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti”. Con
queste parole inizia la Prima Lettura, tratta dal libro del profeta Gioele (2,12).
Le sofferenze, le calamità che affliggevano in quel periodo la terra di Giuda
spingono l’autore sacro ad incoraggiare il popolo eletto alla conversione, a
tornare cioè con fiducia filiale al Signore lacerandosi il cuore e non le vesti.
Egli infatti, ricorda il profeta, “è misericordioso e benigno, tardo all’ira e ricco
di benevolenza e si impietosisce riguardo alla sventura” (2,13). L’invito che
Gioele rivolge ai suoi ascoltatori vale anche per noi, cari fratelli e sorelle. Non
esitiamo a ritrovare l’amicizia di Dio perduta con il peccato; incontrando il
Signore sperimentiamo la gioia del suo perdono. E così, quasi rispondendo alle
parole del profeta, abbiamo fatto nostra l’invocazione del ritornello del Salmo
responsoriale: “Perdonaci, Signore, abbiamo peccato”. Proclamando il Salmo
50, il grande Salmo penitenziale, ci siamo appellati alla misericordia divina;
abbiamo chiesto al Signore che la potenza del suo amore ci ridoni la gioia di
essere salvati.
La liturgia del Mercoledì delle Ceneri indica così nella conversione del cuore a
Dio la dimensione fondamentale del tempo quaresimale. Questo è il richiamo
assai suggestivo che ci viene dal tradizionale rito dell’imposizione delle ceneri,
che tra poco rinnoveremo. Rito che riveste un duplice significato: il primo
relativo al cambiamento interiore, alla conversione e alla penitenza, mentre il
secondo richiama la precarietà dell’umana condizione, come è facile cogliere
dalle due diverse formule che accompagnano il gesto. Qui a Roma, la
processione penitenziale del mercoledì delle Ceneri parte da sant’Anselmo per
concludersi in questa basilica di santa Sabina, dove ha luogo la prima stazione
quaresimale. A questo proposito è interessante ricordare che l’antica liturgia
romana, attraverso le stazioni quaresimali, aveva elaborato una singolare
geografia della fede, partendo dall’idea che, con l’arrivo degli apostoli Pietro e
Paolo e con la distruzione del Tempio, Gerusalemme si fosse trasferita a Roma.
La Roma cristiana veniva intesa come una ricostruzione della Gerusalemme
del tempo di Gesù dentro le mura dell’Urbe. Questa nuova geografia interiore e
spirituale, insita nella tradizione delle chiese “stazionali” della Quaresima, non
é un semplice ricordo del passato, né una vuota anticipazione del futuro; al
contrario, intende aiutare i fedeli a percorrere un cammino interiore, il
cammino della conversione e della riconciliazione, per giungere alla gloria
della Gerusalemme celeste dove abita Dio.
Il digiuno, al quale la Chiesa ci invita in questo tempo forte, non nasce certo da
motivazioni di ordine fisico od estetico, ma scaturisce dall’esigenza che l’uomo
ha di una purificazione interiore che lo disintossichi dall’inquinamento del
peccato e del male; lo educhi a quelle salutari rinunce che affrancano il
credente dalla schiavitù del proprio io; lo renda più attento e disponibile
all’ascolto di Dio e al servizio dei fratelli. Per questa ragione il digiuno e le
altre pratiche quaresimali sono considerate dalla tradizione cristiana “armi”
spirituali per combattere il male, le passioni cattive e i vizi. Al riguardo, mi
piace riascoltare insieme a voi un breve commento di san Giovanni
Crisostomo. “Come al finir dell’inverno – egli scrive – torna la stagione estiva
e il navigante trascina in mare la nave, il soldato ripulisce le armi e allena il
cavallo per la lotta, l’agricoltore affila la falce, il viandante rinvigorito si
accinge al lungo viaggio e l’atleta depone le vesti e si prepara alle gare; così
anche noi, all’inizio di questo digiuno, quasi al ritorno di una primavera
spirituale forbiamo le armi come i soldati, affiliamo la falce come gli
agricoltori, e come nocchieri riassettiamo la nave del nostro spirito per
affrontare i flutti delle assurde passioni, come viandanti riprendiamo il viaggio
verso il cielo e come atleti ci prepariamo alla lotta con lo spogliamento di
tutto” (Omelie al popolo antiocheno, 3).
Altro rito simbolico, gesto proprio ed esclusivo del primo giorno della
Quaresima, è l'imposizione delle Ceneri. Qual è il suo più pregnante
significato? Non si tratta certo di mero ritualismo, ma di qualcosa di assai
profondo, che tocca il nostro cuore. Esso ci fa comprendere l'attualità
dell'ammonimento del profeta Gioele, riecheggiato nella prima Lettura,
ammonimento che conserva anche per noi la sua salutare validità: ai gesti
esteriori deve sempre corrispondere la sincerità dell'animo e la coerenza delle
opere. A che serve infatti - si domanda l'autore ispirato - lacerarsi le vesti, se il
cuore rimane lontano dal Signore, cioè dal bene e dalla giustizia? Ecco ciò che
conta veramente: ritornare a Dio, con animo sinceramente pentito, per ottenere
la sua misericordia (cfr Gl 2, 12-18). Un cuore nuovo e uno spirito nuovo:
questo domandiamo con il Salmo penitenziale per eccellenza, il Miserere, che
quest'oggi cantiamo col ritornello "Perdonaci, Signore, abbiamo peccato". Il
vero credente, consapevole di essere peccatore, aspira con tutto se stesso -
spirito, anima e corpo - al perdono divino, come a una nuova creazione, in
grado di restituirgli gioia e speranza (cfr Sal 50, 3.5.12.14).
L'amore, come ribadisce Gesù quest'oggi nel Vangelo, deve poi tradursi in
gesti concreti verso il prossimo, specialmente verso i poveri e i bisognosi,
sempre subordinando il valore delle "buone opere" alla sincerità del rapporto
con il "Padre che è nei cieli", che "vede nel segreto" e "ricompenserà" quanti
fanno il bene in modo umile e disinteressato (cfr Mt 6, 1.4.6.18). La
concretezza dell'amore costituisce uno degli elementi essenziali della vita dei
cristiani, che sono incoraggiati da Gesù ad essere luce del mondo, affinché gli
uomini, vedendo le loro "opere buone", rendano gloria a Dio (cfr Mt 5, 16).
Questa raccomandazione giunge a noi quanto mai opportuna all'inizio della
Quaresima, perché comprendiamo sempre più che "la carità non è per la Chiesa
una specie di attività di assistenza sociale ... ma appartiene alla sua natura, è
espressione irrinunciabile della sua stessa essenza" (Deus caritas est, 25, a).
L'amore vero si traduce in gesti che non escludono nessuno, sull'esempio del
buon Samaritano che, con grande apertura d'animo, aiutò uno sconosciuto in
difficoltà, incontrato "per caso" lungo la strada (cfr Lc 10, 31).