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LA CRONACA DEL
TRECENTO ITALIANO
VOLUME III
1351-1375
UNIVERSITALIA
UniversItalia s.a.s.
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Riferimenti bibliografici:
Ciucciovino, Carlo
La cronaca del Trecento Italiano, vol. III, 1351-1375. Giorno per giorno l’Italia di Albornoz e dei Visconti
lacerata dalle compagnie di ventura
L’immagine di copertina è un dettaglio dell’opera di Andrea di Bonaiuto, La Chiesa militante e trionfante, 1365-
1367, Firenze, Museo di Santa Maria Novella, Cappellone degli Spagnoli.
La fonte iconografica è la Fototeca dei Musei Civici Fiorentini.
ISBN 978-88-6507-939-3
A norma della legge sul diritto di autore e del codice civile è vietata la riproduzione di questo libro o parte di
esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilm, registrazioni o altro.
In memoria di
Giuseppe Ciucciovino
INTRODUZIONE
Guerra, violenza e guerra, ecco la filigrana della materia su cui è scritta la cronaca di questo
terribile venticinquennio. La metà del secolo si inaugura con l’attacco dei Visconti e di Bologna
viscontea contro la chiave del potere guelfo in Italia: Firenze. Nello stesso anno inizia la
disastrosa ed autolesionista guerra tra Venezia e Genova, guerra che si trascina per tutti i cinque
lustri di questo periodo ed oltre. Guerra in Piemonte, dove il grande principe Amedeo VI di
Savoia, bloccato nella sua espansione in Francia per il passaggio del Delfinato sotto la corona
francese, ricerca la propria espansione ed il proprio consolidamento. Guerra nel Patriarcato
contro l’aggressività degli Asburgo. Guerra tra Venezia e re Ludovico d’Ungheria per Zara e la
Dalmazia. Guerra di riconquista dello stato della Chiesa da parte del cardinale Egidio Albornoz.
Guerra dei Visconti, bloccati nell’attacco in Toscana a Scarperia, contro tutti gli alleati della
Chiesa. Guerra civile in Sicilia tra le fazioni Latine e Catalane, guerra civile a Napoli tra la
Corona e i baroni riottosi ed arroganti. Guerra in Sardegna tra il grande giudice d’Arborea,
Mariano, e i Catalani.
Non basta: guerra di espansione di molti comuni e signorie per tentare di allargare il
proprio dominio ai danni dei comuni vicini che sono in difficoltà, o contro i riottosi feudatari
della montagna; o per sancire una supremazia commerciale o politica. Pisa e Firenze si
scannano per il trasferimento del commercio fiorentino da Porto Pisano a Talamone; Siena e
Perugia si battono per la conquista di Montepulciano e quella di Cortona.
Mentre il papato continua a risiedere in Avignone e il cardinale Gil Albornoz è impegnato
allo spasimo nel riconquistare e consolidare il dominio di San Pietro in Italia, tutti i tirannelli del
centro Italia tentano di recuperare una parte di autonomia, primo fra tutti, e forse il più
arrogante, è il prefetto di Vico e la sua famiglia. Ma il grande cardinale spagnolo riesce a
domarli tutti, uno ad uno, fino a sconfiggere Galeotto Malatesta in una battaglia campale ed
assicurarsene così la leale collaborazione. Gli resistono solo Francesco Ordelaffi, indomabile, e,
per un poco di tempo gli Alidosi ed i Manfredi. Anche se vede la compagnie mercenarie come il
fumo negli occhi, Albornoz alla fine non potrà farne a meno, ma almeno le fa condurre da
capitani di sua fiducia, primo di tutti il conte Ugolino di Montemarte e, quando lo avrà battuto,
anche da Galeotto Malatesta, nonché gli uomini e i parenti che si è portato dalla Spagna, tra cui
Gomez e Blasco Albornoz.
È guerra non solo in Italia: guerra feroce e sanguinosa anche tra la Francia e l’Inghilterra, la
guerra detta poi dei Cent’anni. La battaglia di Poitiers del 1356 segna una seconda grande
vittoria per l’Inghilterra dopo Crécy, con addirittura la cattura del re di Francia. Le tregue di
Carlo Ciucciovino
questo conflitto e la pace di Brétigny, del 1360, liberano un diluvio di mercenari rimasti senza
lavoro che tormentano la Francia del sud, la Spagna e che, reclutati dal marchese di Monferrato,
nel 1361 entrano in Italia per rimanervi a lungo. Anche quando le tregue fanno cessare la voce
delle armi in Francia, i contendenti trasferiscono le proprie contese in Spagna, alleandosi con gli
avversari nel conflitto dinastico per la corona di Castiglia. Sanguinosissimi scontri vedono
grandi masse di combattenti confrontarsi in varie località e la battaglia di Najera (1367) sembra
momentaneamente sancire la supremazia del re Pedro di Castiglia e del suo alleato principe
Nero, o meglio, Edoardo di Galles, contro Enrico Trastamara e i suoi alleati francesi e aragonesi
Ma è un passaggio temporaneo, Enrico Trastamara riuscirà con impegno costante, grandi
capacità e immensa fortuna a prevalere sul suo fratellastro Pedro, detto El Cruel.
Dal 1361 entrano in Italia i mercenari provenienti dalla guerra franco-inglese. Queste
formazioni composte da Inglesi, Bretoni, e da tante altre etnie, trovano sul suolo italiano i
Tedeschi, presenti da tempo e gli Ungheresi, che vi sono dalla spedizione di re Ludovico
d’Angiò per la vendetta dell’uccisione del suo fratello Andrea. Gli avventurieri delle varie
nazionalità si mescolano, seguendo il dettato di ciò che è necessario per le contingenze del
momento, ma una grande rivalità rimane sempre tra Tedeschi e Inglesi, inimicizia che sfocia
frequentemente in fatti di sangue. Nelle compagnie di ventura che si formano e si sfaldano,
sono sempre presenti Italiani, anche in preminenti ruoli di comando. Sentiamo risuonare nomi
di grandi dinastie guerriere, i da Panico, gli Antelminelli, i da Correggio, Pandolfo e Galeotto
Malatesta, Ranieri dei Baschi, il marchese Giovanni di Monferrato, il grande Amedeo VI di
Savoia, Bonifacio dei Lupi di Soragna, Luchino dal Verme, il conte Nicolò da Montefeltro,
Rodolfo Varani, Manno Donati, Piero Farnese e Francesco Ordelaffi, per citarne solo alcuni. Le
compagnie di ventura si dimostrano battibili. Lo conferma la strage delle Scalelle del 1358,
quando un manipolo di montanari, spalleggiati però dalle truppe del bravo conte Guidi,
approfittando del vantaggio del terreno, massacrano gli avventurieri, ed anche la battaglia
campale nella quale nel 1362 Siena riesce a battere la Compagnia del Cappelletto.
Non è una novità che il comune sia in crisi, lo è forse stato da sempre, anche se coniugando
in modo diverso le proprie vicissitudini a seconda dei momenti storici. Ora vediamo che i
comuni si stanno dando forme di governo che premino la stabilità: prima di tutti la signoria:
ormai le dinastie degli Este, Gonzaga, Scala, Malatesta, da Carrara, Polentani, Visconti, Varani,
Chiavelli, Trinci, Alidosi e Manfredi sono stabilmente fondate nei loro comuni di origine e si
stanno lanciando alla conquista dei più deboli comuni vicini e di tutti i territori ed i feudatari
della campagna e della montagna con i quali vengono a contatto. Forme di signoria vengono
sperimentate anche in Pisa con il dogato di Giovanni dell’Agnello, ed a Genova, dopo Simone
Boccanegra, da altri esponenti delle famiglie di spicco. I comuni che resistono alla tentazione di
dotarsi di un forte signore o che ne sono congenitamente alieni, come Firenze, si lanciano alla
conquista della regione. Legata a sé in qualche modo Siena, Firenze domina su Arezzo, Pistoia,
Prato, San Gimignano, Volterra, Empoli e doma i signori dell’Appennino tosco-romagnolo.
Siena e Perugia battagliano per il dominio su Montepulciano e Cortona. Siena si riprende tutta
la maremma grossetana e combatte contro gli Aldobrandeschi conti di Santa Fiora. Orvieto,
stanca, desolata, povera, ormai ha ceduto al dominio della Chiesa e, dopo brevi esitazioni,
rimane fedele alle armi pontificie.
La novità che caratterizza la seconda metà del Trecento è la partecipazione del popolo
minuto al governo in diversi comuni dell’Italia centrale: Perugia, Siena, la stessa Firenze. Senza
voler anticipare quanto avverrà nell’ultimo quarto del secolo, i rappresentanti del popolo
minuto non appaiono dare grande prova di sé.
II
La cronaca del Trecento italiano
Tanta violenza, il ricorso generalizzato alle armi, il declino della diplomazia, sorprendono
se si pensa che gli uomini che si affacciano alla seconda metà del secolo vengono dalla
recentissima ecatombe della Morte Nera. È come se il quotidiano contatto con la morte e la
constatazione dell’estrema fragilità dell’esistenza, avesse instillato un sentimento di estrema
precarietà nella vita quotidiana. Verrebbe da pensare che chi abbia vissuto quei terribili mesi nei
quali si vedevano crollare al suolo i propri congiunti per non più risorgere, viva con gratitudine
il dono di essere ancora sano e vivo e ricerchi nella religione la spiegazione di tanto dolore e
della fragilità dell’esistenza terrena. E per molti sarà stato così. L’orrore della lotteria della
morte spinge però molti altri che si sono trovati ad ereditare ricchezze insperate a godersi la
vita, ricercando qualunque piacere possano concedersi. La vita riprende a procedere, le passioni
umane, e tra queste le peggiori: ambizione, invidia, violenza, vendetta, avidità e lussuria
spingono tanti a ricercare il proprio utile senza badare ai mezzi, e la guerra è sicuramente uno
di questi. Comunque, non riesco a non stupirmi quando vedo Venezia, che è stata ferocemente
falcidiata dalla peste, tanto che non riesce neanche ad armare galee con equipaggi veneziani, o
con abitanti dell’immediato retroterra, lanciarsi in una sanguinosissima guerra contro Genova,
che un serio e lungimirante sforzo diplomatico avrebbe potuto evitare e che non sarà peraltro
risolutiva, perché a questo terzo conflitto ne seguiranno ancora. Né questo è il solo conflitto
della Serenissima: se la deve vedere anche con il re d’Ungheria che vuole per sé Zara, con
l’Asburgo che le vorrebbe strappare Trieste e poi con Francesco da Carrara nella guerra per i
confini.
Non è che la peste sia scomparsa: dopo pochi anni di quiescenza torna a terrorizzare
l’Europa prima e l’Italia poi. Colpisce possentemente anche la Lombardia che era stata
risparmiata nel 1348 e la sua virulenza spaventa anche un uomo abituato a guardare in faccia la
morte, come Bernabò Visconti, che si ritira in campagna e fa temporaneamente perdere
memoria di sé, tanto da far pensare ai suoi sudditi che sia morto. La Morte Nera colpisce
principalmente i giovani ed i bambini, evidentemente non immunizzati dalla passata epidemia.
Carlo IV, il cattolicissimo imperatore, che, per essere sempre ossequiente alla Chiesa viene
chiamato “re dei preti”, compie un atto veramente rivoluzionario, sottraendo definitivamente
l’incoronazione dell’imperatore dalle mani della Chiesa, senza che questa elevi protesta alcuna.
Con la sua “Bolla d’oro”, promulgata nel gennaio del 1356, egli stabilisce che l’elezione
dell’imperatore sia affidata a sette elettori, tre dei quali ecclesiastici. La scelta avverrà senza
interferenza alcuna del pontefice e l’eletto verrà incoronato senza considerazione per la
posizione della Chiesa in merito. L’Impero diventa così un regno germanico e, d’ora in poi, per
diversi secoli nessun imperatore verrà più incoronato a Roma. Il paradosso è che Carlo è stato
l’ultimo imperatore incoronato nell’Urbe e tra la pace generale. Per il resto Carlo non lascia di sé
grande memoria in Italia: egli non parteggia né per guelfi né per ghibellini e bada solo ad
accumulare quanto più oro può. Pur di far tacere le armi, accetta umiliazioni ad opera dei
Visconti, ma ottiene di essere incoronato con la corona ferrea a Milano e con quella imperiale a
Roma, senza la minima contestazione. Dall’alto delle nubi del cielo suo nonno Arrigo VII sarà
trasecolato.
Assumono fama e notorietà delle gran donne: Cia degli Ubaldini, sposa di Francesco
Ordelaffi, indomabile difensore di Cesena, Timbora, virile consorte del giudice Mariano
d’Arborea, Regina della Scala volitiva moglie del pugnace Bernabò, Anna, detta Giovanna di
Savoia, imperatrice di Bisanzio. E grandissime su tutte, Brigida di Svezia e Caterina, la figlia del
tintore, poi santificate. Vale la pena di leggerne le vicende nelle cronache di questi anni.
III
Carlo Ciucciovino
IV
La cronaca del Trecento italiano
1 Ugolino è un sincero ammiratore di Bernabò Visconti, il suo assassinio fa schierare i fratricidi in campo
avverso.
2 Nel 1340, nella battaglia di Rio Salado, Egidio Albornoz ha salvato la vita al suo sovrano Alfonso XI di
Castiglia che si era spinto troppo innanzi tra le file del nemico.
V
Carlo Ciucciovino
secolo. Tra chi rimane fedele vi è Roma. Nella città è stato mandato dal papa Cola di Rienzo, un
uomo ormai spento che è il fantasma di se stesso, dell’affascinante e fantastico tribuno di una
volta. Il suo governo, tirannico ed inviso ai potenti, dura lo spazio di un mattino: viene linciato
da una folla sicuramente manovrata dai suoi nemici. La città però non si ribella alla Chiesa, anzi
vuole che il papa ne sia Senatore o nomini i suoi funzionari. Che qualcosa si stia muovendo è
provato dalla eclisse dei baroni: evidentemente Cola è riuscito a far penetrare questa esigenza
nelle menti dei cittadini, che, tramite la Felice società dei balestrieri e pavesari e del suo esercito,
ben governano la città in senso popolare, tanto che il pontefice può veramente pensare di
ritornare nella sua Urbe, vista la tranquillità che sembra regnarvi. Roma però vuole riprendere
il controllo del suo territorio ed allora si impone nella Campagna e Marittima e effettua puntate
anche in Tuscia, venendo in qualche modo a scontrarsi con i funzionari, alcuni molto capaci, che
il papa vi ha mandato. Urbano V, vincendo la ritrosia dei cardinali, ritorna in Italia nel maggio
1367, ma vi sta per pochi anni, nel settembre del 1370 torna ad Avignone, per morirvi subito
dopo. Gregorio XI, sin dalla sua elezione, annuncia che vuole riportare la sede del papato a
Roma e vi riuscirà, e questa volta in maniera definitiva, nel gennaio del 1377.
La Toscana non conosce pace. Non solo le armi dettano la loro legge nel conflitto tra la
grande città e il Biscione, anche una miriade di guerre locali tolgono il sonno ai poveri abitanti
della regione. Pisa ha l’incauta idea di far pagare caro l’approdo di Porto Pisano a Firenze,
questa non è disponibile a cedere all’imposizione e trasferisce i suoi traffici a Talamone; ne
scaturisce una guerra che fa del male ad ambedue, ma soprattutto ai Raspanti che sono al
governo in Pisa. L’orgogliosa Pisa alla fine è costretta a piegarsi pur di trovare una qualche
nuova prosperità, od almeno sperarla per il futuro. Lo sconquasso che ne consegue apre la via
alla signoria di Giovanni dell’Agnello, esponente di una corrente che guarda all’appoggio di
Bernabò Visconti. Giovanni, accecato dall’ambizione, ha il torto di scontentare la parte sulla
quale si regge e, malgrado il tenue appoggio di Carlo IV, anche a causa di una disgrazia,
finalmente, è costretto a deporre le insegne del suo potere. In ultima analisi, grazie anche
all’intervento imperiale, Pisa è costretta a liberare Lucca. I Gambacorti rientrano, i Bergolini
trionfano.
Firenze, una volta neutralizzata l’aggressione dei Visconti con la pace di Sarzana del 1353,
ha una sola priorità: non provocare più la potenza milanese, costi quello che costi. Il prezzo di
questa politica è la rottura con la Chiesa e la continuazione della storica diffidenza della
Signoria nei confronti dell’Impero; diffidenza, che, grazie alla personalità di Carlo IV, non
appare giustificata. La città, governata dal popolo grasso, poi è dilaniata dalla sciagurata
politica di ammonizione dei non veri guelfi, che offende le anime sinceramente assetate di
giustizia e che provoca scissioni nel corpo civile della città. La parte guelfa, dominata dagli
Albizi usa tutto il proprio potere per abbattere chiunque ritenga un pericoloso competitore: gli
Albizi sono contrastati dai Ricci che si appoggiano sul popolo minuto. Solo l’accordo tra Albizi
e Ricci riesce ad attenuare le persecuzioni contro gli avversari politici del potere. Comunque, la
Signoria è l’ispiratrice della ribellione generalizzata alla Chiesa con la quale si chiude il
venticinquennio e che beffardamente viene chiamata guerra degli Otto Santi.
Sia Firenze che Siena ed altri centri debbono difendersi dalle dinastie feudali che
controllano importanti piazzeforti nel territorio, primi tra tutti i Tarlati, Pazzi, Ubaldini,
Tolomei e, in misura minore, gli Aldobrandeschi.
Siena e Perugia incrociano le armi per Montepulciano e Cortona, concludendo tante lotte
con una sostanziale parità, ma fondando tante amarezze.
Perugia si batte contro la Chiesa, pensando di sbarazzarsi presto delle pretese di dominio
dell’Albornoz, ma ha fatto male i suoi conti ed è costretta ad abbassare le penne di fronte al
VI
La cronaca del Trecento italiano
valoroso cardinale. Si rifletta su quale nuova immagine di sé diano queste città che nel
cinquant’anni passati e non solo, sono state il cardine del potere guelfo contro le velleità
ghibelline ed imperiali: ora sia Firenze che Perugia si schierano apertamente contro gli
stendardi papali. Solo Orvieto, sempre più povera e desolata rimane fedele al suo DNA guelfo
e, a parte un brevissimo tentennamento, rimane sempre dalla parte delle chiavi di San Pietro.
Tutti vogliono Bologna, cerniera tra il settentrione e il centro dell’Italia. I Visconti la vedono
come porta per la conquista della Toscana, la Chiesa la vuole per serrare l’uscio contro le
invasioni dal nord. Il comune felsineo è travagliato dalle lotte di fazione, dalle competizioni tra
famiglie nobili, senza che nessuna riesca a prevalere sulle altre, come fece pochi anni or sono il
ricchissimo Pepoli. Bologna rimane nelle mani di Giovanni Visconti d’Oleggio, prima in nome
di Bernabò e poi suo personale. La sua amministrazione del comune viene ricordata come
rapace ed ingiusta. Quando, finalmente, Egidio Albornoz riuscirà ad avere il permesso
pontificio per rimuovere il tiranno da Bologna, lo trasferirà a Fermo, nella Marca, e qui
Giovanni darà finalmente buona prova di sé. A Ravenna regna stabile la dinastia dei Polenta. A
Faenza signoreggiano i Manfredi, ad Imola gli Alidosi e, infine a Forlì ed a Cesena il capace
Francesco Ordelaffi, irriducibile avversario dell’Albornoz, l’unico che si ostina ad opporglisi
fino alla fine, perdendo tutto, ma non l’onore. Il valoroso Francesco, perdonato dal grande
cardinale, conduce il resto della sua esistenza al comando di eserciti viscontei.
Genova, occupata nella sua mortale guerra contro Venezia per la supremazia in Oriente,
cerca nuove forme di governo, più efficaci e sceglie la signoria, nominandosi un doge, ad
imitazione dell’odiata Venezia. Manca però alla Superba una aristocrazia di grandi tradizioni
che, invece, Venezia può vantare. Inoltre Genova è troppo debole nell’entroterra e vede,
temporaneamente, la sua sicurezza donandosi nel 1353 ai fortissimi e ricchissimi Visconti; è
comunque un’illusione che dura poco ed, alla prima occasione, tre anni dopo, Genova si ribella
al Biscione e torna padrona dei propri destini, almeno per ora.
Il territorio a Nord Est della penisola è tutto un ribollire di conflitti, quasi un “tutti contro
tutti”. Re Ludovico d’Ungheria vuole strappare Zara a Venezia e intraprende una guerra sul
suolo italiano, inviando i suoi armati nel Trevigiano. Il povero Francesco da Carrara si trova,
suo malgrado, coinvolto nel conflitto, perché le indiscrete truppe ungheresi saccheggiano il
territorio e vessano gli abitanti. Per tentare di proteggere la sua popolazione, Francesco accetta
di rifornire le truppe di re Ludovico, guadagnandosi così la definizione di traditore da parte di
Venezia e la riconoscenza del leale re Ludovico. D’ora in poi la Serenissima non guarda più al
signore di Padova come ad un figlio prediletto, ma ne diffida, lo vessa con la guerra dei confini
e, a medio termine, ma solo nel prossimo secolo, ne causa la fine della dinastia. Il Patriarcato,
dopo la morte del grande Bertrand de Saint-Geniès, diventa marginale, fortemente dipendente
dal potere imperiale. Gli Asburgo vogliono espandersi in Friuli e vengono a conflitto con il
Patriarcato, lo stesso patriarca per un periodo di tempo deve subire un’oltraggiosa detenzione a
Vienna. Venezia ed Asburgo combattono per Trieste e gli Austriaci ne escono sconfitti.
Francesco da Carrara tenta un avvicinamento al Patriarcato, ma questo è sotto la potente
influenza dell’imperatore che è in qualche modo in cattivi rapporti con re Ludovico d’Ungheria,
quindi Francesco è costretto ad una scelta e la sua decisione è per il sovrano magiaro. Il tutto
complicato dalla volontà di autonomia di importanti comuni del Friuli, come Udine, e la
riottosità dei feudatari di dipendere dal patriarca. Come se non bastasse, i conti di Gorizia
scompaiono dalla scena e Margherita Maultasch rimane vedova e orba del suo unigenito,
legando le sue terre agli Asburgo. Il grande assente in questo periodo è il principato
ecclesiastico di Trento, il cui primate è quasi sempre lontano ed impedito ad esercitare le sue
VII
Carlo Ciucciovino
funzioni. Nel 1370 Mainardo VII di Gorizia si allea con gli Asburgo contro Venezia e poi
rinuncia ai suoi diritti sul Tirolo in favore dei duchi d’Austria.
Battuto Galeotto Malatesta, il cardinale Albornoz riesce a legare a sé l’importante dinastia
che signoreggia Rimini e parte della Romagna. Sia Galeotto che Pandolfo Malatesta si
comportano lealmente nei confronti del cardinale. I Montefeltro conoscono un periodo di eclissi
e di sfortuna, e, solo al termine di questo periodo, grazie ad Antonio, nipote di Nolfo,
ritorneranno in possesso di Urbino, per stabilirvi una signoria che durerà tre secoli. Gli altri
tiranni cedono alle armi della Chiesa, Ancona diventa il centro del potere ecclesiastico nella
regione e Macerata continua a avere una grande importanza. Ascoli cerca sempre di scrollarsi di
dosso il potere ecclesiastico. La regione comunque, coerentemente col carattere dei suoi abitanti,
rimane sempre in fermento e produce una serie di figure di qualche rilevanza che riescono ad
impensierire la Chiesa.
I reali di Napoli, riescono a ritornare nel loro regno ed a ristabilirvi la propria autorità,
grazie al genio di Nicola Acciaiuoli ed alla benignità del pontefice che preferisce le debolezze
degli Angioini all’incognita ed alla superiore ambizione del sovrano d’Ungheria che vorrebbe
impadronirsi del regno. Luigi di Taranto, ora re, riesce a cacciare dal suo reame i mercenari
ungheresi che ancora lo tormentano ed a ristabilire la propria autorità sui propri nobili,
provvisti sicuramente di molta arroganza e burbanza. Tra loro i conti di Minerbino, Luigi d
Durazzo, Francesco del Balzo. Chi è proprio sfortunata nelle sue scelte matrimoniali è la regina
Giovanna, che, morto Luigi, si sceglie un giovane e bel principe, forte e valoroso, Giacomo di
Maiorca, il quale dimostra però di soffrire di fortissimi disturbi della personalità che spingono
Giovanna, dopo un entusiasmo iniziale, a negargli il proprio letto e inducono Giacomo a cercare
fortuna in Spagna ed a tentare di riconquistare il regno della propria isola. Morto anche il bel
Giacomo, Giovanna si cerca un marito più maturo, di grande reputazione cavalleresca e
militare: Ottone di Brunswick.
La grande isola di Sicilia è martoriata dal confronto tra le dinastie che si riconoscono nel
nome di Catalani e in quelle di più antico radicamento, che si dicono Latine. I giovani sovrani
che si succedono sul trono dell’isola sono troppo inesperti o troppo deboli, o ambedue le cose,
per essere poco più che fantocci nelle mani di feudatari potenti, intelligenti e spregiudicati.
Napoli, grazie al genio di Nicola Acciaiuoli, riesce temporaneamente ad allungare le sue grinfie
sull’isola, mettendovi piede; però l’avarizia della corona di Napoli e l’insipienza militare del
bravissimo Acciaiuoli, costringono gli Angioini a tornare nei confini del loro regno.
Incredibilmente però, le carestie, la voglia di pace della martoriata società siciliana e, in ultima
analisi, le politiche matrimoniali della dinastia siciliana e napoletana riescono nel miracolo
sfuggito a re Roberto il Saggio, malgrado vi abbia profuso tutte le sue energie e ricchezze: la
Sicilia, regno indipendente, ritorna in qualche modo a essere tributario del regno di Napoli con
la pace di Aversa del 1373. Il successo non è certo dovuto a re Luigi di Napoli, né alla regina
Giovanna, che pur non sta demeritando in questo periodo, il successo è figlio di un grande
Fiorentino: Nicola Acciaiuoli che ha speso tutta la sua esistenza nel ristabilire la grandezza della
corona di Napoli. Nicola e il cardinale Egidio Albornoz sono le fulgide perle di questo
venticinquennio, ognuno provvisto di grandi capacità e, tutto sommato, di vasta fortuna.
Dispiace non avere più particolari sulla vita e le opere del valoroso ed abile principe di
Sardegna: il grande giudice Mariano d’Arborea, che approfittando della difficoltà del re di
Aragona di fronteggiare contemporaneamente la guerra contro la Castiglia e la costante
guerriglia del giudice, riprende, brano a brano, quasi tutta l’isola, procurando anche gravi
sconfitte agli Aragonesi in campo aperto. È solo l’improvvisa scomparsa del giudice che salva
Aragona dalla perdita di tutta l’isola. La partita è rimandata agli eredi d’Arborea.
VIII
La cronaca del Trecento italiano
IX
Carlo Ciucciovino
ricollega a lui da essere nominato Lorenzo Veneziano. In Veneto, dove sono attive, vi sono
grandi personalità artistiche come Guariento di Arpo, Nicoletto Semitecolo, Altichiero, Jacopo
da Verona.
Al centro della penisola, Ugolino di Prete Ilario, che, nel duomo di Orvieto, intraprende
uno dei più vasti cicli di affreschi che ci siano giunti, appare aver maturato gli insegnamenti dei
Lorenzetti. Ma non possiamo dimenticare, anche se hanno in qualche modo tradito o non
sviluppato le loro grandi qualità, Andrea Orcagna e Andrea di Bonaiuto, artisti di gran nome
tra i loro contemporanei, godibilissimi, ma che lasciano in noi il senso di una potenzialità
inespressa. Dobbiamo però osservare in proposito che vi possono anche essere colpe della
committenza, così come si è andata configurando dopo l’epidemia di peste, e anche per
l’avvento al potere in molti luoghi del popolo minuto, una committenza dunque meno aperta al
nuovo e molto legata ai valori ed alle immagini della tradizione.
In architettura, tra le grandi opere, occorre ricordare la lunga edificazione del Camposanto
di Pisa, il meraviglioso duomo di Orvieto, il completamento del campanile di Giotto, l’inizio
della costruzione del duomo di Milano e di Santa Reparata a Firenze, lo straordinario
tabernacolo di Orsanmichele a Firenze, nonché le tante rocche volute da Egidio Albornoz. Una
creazione originale di questo momento storico sono le chiese che vengono costruite nelle Alpi
orientali, con il loro caratteristico coro allungato.
Nella scultura dominano Nino Pisano e la scuola dei Maestri Campionesi, con Bonino da
Campione in testa, che ci hanno lasciato le statue degli Scaligeri e quella equestre e potente di
Bernabò Visconti.
Carlo Ciucciovino
Tenaglie di Montecchio
Maggio 2016
X
La cronaca del Trecento italiano
ITINERARI DI LETTURA
Ricordo che nei primi due volumi di questa opera ho scelto di fornire alcuni possibili
itinerari di lettura, mettendo in evidenza, per ogni anno, i paragrafi nei quali si tratta
l’argomento in oggetto. Ho scelto di raggruppare la materia principalmente per aree
geografiche e per quanto riguarda la loro articolazione, non coincidente con le regioni moderne,
vi prego di riferirvi al primo volume di questa Cronaca.
Comunque, ho qui riassunto i criteri principali, specialmente per quanto difforme dalle
regioni attuali.
Il Piemonte. Includendo anche i Savoia, i principi di Savoia-Acaia, i Marchesi di
Monferrato e di Saluzzo e i grandi comuni della regione, come Asti, Alessandria,
Tortona, Vercelli. Torino è ancora una piccola città.
La Lombardia. In pratica la Lombardia include tutto il territorio che giace ai due lati del
Po; ho arbitrariamente esteso il significato odierno della regione di Lombardia, fino a
comprendere Parma, Reggio e Modena, ma ne ho escluso Bologna e la parte della
Romagna che giace ad oriente del Panaro e del Reno.
Genova e la Liguria. Qui vengono trattate anche le notizie relative alla Corsica.
La Marca Veronese, includendo in questa definizione tutto il Nord-Est della penisola,
oltre al territorio di Verona, Vicenza, Padova, Treviso, il principato ecclesiastico di
Trento e quello di Bressanone, il Patriarcato di Aquileia che ha in suo possesso anche il
Friuli, i duchi di Gorizia, i conti del Tirolo, fino ai confini del ducato di Carinzia. Una
delle notevoli dinastie di questa regione sono i da Camino.
Venezia.
La Romagna, detta all’epoca «Ròmania» o «Romandiola», separata dalla Marca
Veronese dal Mincio e dal basso corso dell’Adige. Oltre a Bologna, sono incluse nella
Romagna, Ferrara, Ravenna, Imola, Faenza, Forlì, Cesena.
La Marca con le grandi dinastie dei Montefeltro e dei Malatesta, centrate su Urbino e
Rimini rispettivamente, ma non solo, e con gli altri notevoli comuni di Fabriano,
Ancona, Ascoli, Fermo, Tolentino, Osimo, Jesi.
Firenze e la Toscana.
Umbria, quasi coincidente con l’antico ducato di Spoleto, ma con l’aggiunta di Orvieto.
Vi ho aggiunto Maremma e conti Aldobrandeschi, per la ricchezza di interazioni con
Siena e con Orvieto.
XI
Carlo Ciucciovino
Roma e la parte del patrimonium Beati Petri che coincide con l’odierno Lazio, da Viterbo
a Terracina, quindi anche la Campagna e Marittima.
Il Regno di Napoli, comprendente tutto il meridione della penisola, ma anche l’odierno
Abruzzo, fino ad Amatrice ed ai confini meridionali del territorio di Ascoli, segnati dal
corso del Tronto.
Il Regno di Sicilia.
La Sardegna.
Nelle pagine che seguono, il paragrafo è indicato in corpo normale e l’anno in carattere
grassetto.
Piemonte
1351: 27, 38; 1352: 2, 37, 57, 60; 1353: 36, 56; 1354: 8, 22, 27, 56; 1355: 3, 8, 9, 66, 75, 76, 87; 1356: 3,
40, 48, 56, 68, 69, 76; 1357: 1, 7, 39, 48; 1358: 6, 14, 29, 30, 46, 47, 48, 50, 63; 1359: 10, 12, 17, 27, 32,
34, 36, 42, 43, 53; 1360: 16; 1361: 17, 26, 27, 36, 42, 47, 64; 1362: 4, 5, 30, 43, 48, 58; 1363: 2, 6, 8, 41,
48; 1364: 3, 5, 11, 27, 44, 54; 1365: 6, 19, 41; 1366: 18, 25; 1367: 21, 31, 49, 50, 59; 1368: 2, 5, 16, 22,
42, 54; 1369: 5, 8, 43, 47, 48; 1370: 29 66; 1371: 78; 1372: 1, 9, 21, 27, 46; 1373: 4, 21, 22, 43; 1374: 12,
30, 31, 35, 50, 61; 1375: 5, 32.
Lombardia
1351: 1, 4, 11, 14, 16, 19, 22, 24, 26, 32, 33, 35, 36, 40, 43; 1352: 3, 5, 14, 16, 20, 27, 45, 52, 55; 1353: 1,
4, 16, 19, 20, 23, 33, 43, 54, 55, 63, 65; 1354: 5, 10, 25, 36, 41, 42, 46, 49, 60, 62; 1355: 4, 9, 11, 20, 22,
24, 43, 51, 62, 73, 74, 83, 87, 91; 1356: 3, 6, 9, 14, 24, 25, 32, 36, 41, 44, 45, 56, 59, 68, 69, 71, 76; 1357:
2, 8, 9, 21, 30,44, 48, 50, 57; 1358: 6, 8, 12, 14, 24, 29, 30, 40, 42, 46, 63; 1359: 12, 13, 17, 24, 36, 42, 43,
47; 1360: 3, 8, 11, 19, 20, 21, 29, 32, 38, 42, 48, 49, 51, 54, 56, 61; 1361: 3, 12, 17, 18, 21, 26, 27, 28, 36,
39, 54, 61, 64; 1362: 4, 5, 8, 17, 20, 30, 39, 44, 48, 55, 64, 73, 76, 80; 1363: 2, 4, 6, 7, 10, 12, 15, 22, 28,
32, 39, 56, 58; 1364: 3, 5, 13, 18, 39, 41, 51; 1365: 22, 25, 31, 33, 44, 48, 51, 52; 1366: 10, 14, 24, 29, 42;
1367: 6, 14, 16, 24, 26, 32, 42, 43, 44; 1368: 1, 5, 8, 13, 14, 20, 22, 27, 31, 36, 39, 54, 59, 62; 1369: 7, 8,
11, 15, 16, 18, 22, 32, 37, 39, 41, 43, 44, 56; 1370: 3, 17, 23, 31, 32, 35, 37, 43, 49, 50, 54, 60, 62, 65, 66;
XII
La cronaca del Trecento italiano
1371: 17, 28, 29, 56, 69, 73, 74; 1372: 8, 16, 23, 28, 36, 37, 44, 52, 55; 1373: 4, 21, 22, 32, 33, 34, 44, 51;
1374: 12, 18, 20, 23, 30, 35, 56, 57; 1375: 2, 22, 24, 28, 36, 57.
Genova e la Liguria
1351: 31; 1352: 17, 18; 1353: 2, 44, 54, 55, 61; 1354: 31, 52; 1355: 58, 60, 69; 1356: 57, 69; 1357: 3, 4,
18, 40, 50; 1358: 30, 46, 52; 1361: 62, 66; 1362: 36, 53, 62, 70, 71, 75; 1363: 2, 5; 1364: 3, 4, 55; 1365:
35, 48, 62, 63; 1366: 10, 26; 1367: 6, 24; 1368: 17, 51; 1369: 56; 1370: 33, 51; 1371: 84; 1372: 20, 39;
1373: 1, 2, 41; 1374: 52; 1375: 23.
Venezia
1351: 3, 31; 1352: 17, 18; 1353: 2, 31, 44, 65; 1354: 20, 25, 31, 36, 44, 52; 1355: 11, 42, 58; 1356: 26, 37,
42, 52, 53, 65, 74; 1357: 17, 31, 58; 1358: 5, 30, 31; 1360: 37, 46, 50; 1361: 9, 30, 34; 1362: 54; 1363: 7,
22, 42; 1364: 22, 28, 57; 1365: 30; 1366: 25, 26; 1367: 31; 1368: 4, 12, 17, 46; 1369: 4, 35, 38, 50; 1370:
9, 11, 18, 19, 71; 1371: 49, 72, 85; 1372:11, 19, 31, 35, 39, 40, 48, 50, 51; 1373: 1, 5, 15, 18, 23, 25, 29,
35, 40, 45, 46; 1374: 26, 39; 1375: 4.
Romagna
1351: 1, 11, 15, 19, 26, 35, 36, 37; 1352: 14, 30, 47; 1353: 6, 41, 57, 59; 1354: 11, 25, 27, 30, 41, 51, 63;
1355: 1, 2, 11, 13, 18, 23, 24, 43, 44, 47, 51, 68, 73, 74, 77, 80, 91, 92; 1356: 1, 5, 6, 14, 15, 16, 22, 29,
32, 38, 39, 41, 44, 45, 59, 62, 70, 73, 75; 1357: 11, 19, 21, 26, 29, 30, 35, 41, 45, 50; 1358: 6, 8, 12, 21,
30, 33, 36, 39, 42, 43, 46, 49, 53, 55, 64; 1359: 2, 7, 8, 11, 12, 24, 30, 47; 1360: 4, 8, 11, 12, 19, 20, 21,
24, 26, 29, 32, 35, 49, 51, 54; 1361: 3, 8, 12, 18, 25, 28, 38, 46, 52, 54, 57, 60, 61; 1362: 8, 10, 11, 17, 33,
39, 44, 48, 59, 67, 73; 1363: 7, 12, 21, 22, 28, 29, 32, 39, 46, 54, 56, 58; 1364: 3, 10, 13, 41, 45; 1365: 3,
5, 12, 27, 28, 29, 49; 1366: 3, 5, 9, 11, 44, 46; 1367: 4, 15, 24, 39, 61; 1368: 1, 9, 14, 32, 35, 49; 1369: 7,
11, 23, 31, 35, 49; 1370: 9, 46, 50, 54, 58, 62, 65; 1371: 14, 16, 35, 37, 40, 76; 1372: 4, 30, 33; 1373: 4, 6,
12, 21, 22, 38, 50, 57; 1374: 2, 7, 16, 20, 24; 1375: 11, 42, 43, 56, 58, 64, 65.
Marche
1351: 37; 1353: 25, 43, 53, 59, 60; 1354: 4, 14, 35, 51, 61; 1355: 18, 19, 47, 67, 88; 1356: 8, 33, 70, 71;
1357: 2, 8, 53, 61; 1358: 43; 1359: 3, 7, 8, 18; 1360: 19, 27, 29, 38, 52, 55; 1361: 11, 22; 1362: 13, 26, 40,
41, 49, 63, 74; 1363: 26, 29, 34, 51; 1364: 20, 31, 32, 33, 41, 43, 48; 1365: 8, 23, 27, 42, 43; 1366: 8, 30,
36, 39, 41, 47, 56; 1367: 8, 34, 51, 60; 1368: 1, 18, 25, 40, 45, 48; 1369: 33, 42, 51; 1370: 1, 13, 14, 35,
39; 1371: 59, 73, 75; 1372: 12, 51; 1373: 16; 1374: 5; 1375: 12, 53, 54, 55, 62, 63.
XIII
Carlo Ciucciovino
Firenze e Toscana
1351: 6, 8, 9, 12, 21, 22, 23, 26, 30, 32, 33, 34, 35, 39, 43; 1352: 3, 5, 7, 10, 11, 13, 14, 15, 19, 20, 26, 31,
32, 34, 35, 40, 41, 42, 44, 45, 48, 50, 52, 54, 55, 59, 67, 68, 70, 71; 1353: 1, 10, 11, 12, 14, 15, 16, 21, 22,
23, 32, 38, 55, 62; 1354: 13, 26, 28, 29, 37, 41, 57, 62; 1355: 10, 12, 13, 14, 15, 16, 21, 26, 30, 31, 32, 33,
36, 37, 38, 39, 45, 46, 49, 50, 53, 54, 55, 56, 57, 61, 62, 63, 78, 79, 90; 1356: 4, 6, 7, 13, 19, 21, 31, 35,
46, 51, 59, 61, 67, 68, 69; 1357: 6, 14, 16, 18, 25, 34, 36, 37, 45, 49, 51, 56, 62; 1358: 1, 4, 9, 10, 11, 16,
17, 18, 19, 32, 34, 39, 42, 43, 44, 49, 50, 54, 56, 61; 1359: 5, 14, 20, 21, 28, 29, 35, 38, 45, 46; 1360: 1, 4,
8, 15, 17, 21, 33, 34, 40, 43, 53, 56, 64, 65, 66, 70; 1361: 7, 14, 18, 23, 24, 46, 49, 50, 62, 63; 1362: 2, 3,
12, 15, 20, 27, 28, 34, 36, 37, 42, 45, 48, 50, 52, 53, 57, 62, 66, 72, 73, 79; 1363: 3, 9, 13, 14, 15, 16, 18,
24, 25, 26, 29, 33, 35, 36, 37, 43, 44, 47, 50, 51, 52, 57; 1364: 2, 4, 6, 8, 9, 15, 16, 17, 24, 30, 37, 38, 39,
40, 50, 53, 62; 1365: 1, 10, 14, 21, 26, 29, 36, 39, 47, 51, 53, 55, 59, 60; 1366: 1, 7, 8, 20, 32, 38, 52;
1367: 5, 9, 12, 13, 16, 19, 20, 23, 24, 29, 32, 33, 35, 36, 45, 53, 54, 55, 56; 1368: 6, 7, 15, 18, 25, 26, 30,
31, 32, 33, 38, 41, 43, 44, 55, 61; 1369: 1, 6, 7, 9, 10, 13, 14, 16, 20, 21, 23, 27, 28, 34, 39, 40, 46, 52, 53,
54, 56; 1370: 3, 4, 15, 16, 17, 20, 21, 22, 23, 24, 31, 34, 35, 42, 49, 53, 56, 59, 61, 69; 1371: 1, 2, 3, 7, 8,
13, 15, 18, 24, 25, 26, 32, 41, 42, 51, 52, 54, 57, 58, 63, 67, 73, 77, 79, 80, 83; 1372: 3, 10, 17, 18, 26, 38,
45, 49, 53; 1373: 3, 10, 11, 17, 27, 28, 31, 37, 39, 47, 48, 52, 56; 1374: 1, 6, 19, 21, 28, 29, 32, 36, 55, 59,
62, 63; 1375: 5, 8, 10, 15, 21, 24, 25, 26, 27, 28, 31, 34, 40, 47, 48, 66, 69.
Patrimonio e Roma
1351: 41; 1352: 25, 33, 36, 46, 61, 64; 1353: 9, 17, 28, 46, 47, 48, 49, 53, 64, 67; 1354: 2, 3, 9, 15, 19, 23,
24, 38, 40, 45, 47, 48, 51; 1355: 40, 45, 64; 1356: 17, 18, 43, 47, 54, 71; 1357: 5, 15, 22, 23, 33; 1358: 2,
7, 37, 65; 1359: 23, 31; 1360: 22, 30, 45; 1361: 40, 53; 1362: 15, 19, 22, 24, 25, 56; 1363: 20, 29; 1364:
15, 39, 52; 1365: 9, 10, 29, 54; 1366: 7, 16, 30, 35, 40; 1367: 16, 24, 28, 32, 35, 37, 40, 47, 48, 49, 50;
1368: 6, 10, 19, 22, 34, 37, 50, 56; 1369: 19, 24, 32, 55; 1370: 6, 25, 28, 38; 1371: 44, 45; 1372: 13, 53,
58, 60; 1373: 13, 19; 1374: 17, 33, 54; 1375: 19, 46, 59.
Albornoz
1353: 30, 40, 46, 47, 52, 53; 1354: 9, 15, 23, 24, 35, 38, 40, 45, 48, 51, 61; 1355: 7, 18, 19, 46, 47, 64, 67,
68, 77, 87, 88; 1356: 15, 16, 18, 29, 33, 38, 70, 75; 1357: 8, 13, 15, 29, 33, 35, 36, 41, 45; 1358: 3, 42, 54,
57, 58, 64, 65; 1359: 7, 8, 16, 18, 30, 47; 1360: 7, 8, 11, 13, 19, 22, 24, 29, 32, 38, 45, 49, 50, 51, 54, 55,
56, 64, 66, 67; 1361: 3, 12, 17, 22, 54, 61; 1362: 13, 17, 18, 20, 22, 25, 33, 40, 41, 74; 1363: 7, 10, 12, 22,
32, 34, 39, 54, 55, 58; 1364: 3, 13, 23, 33, 47, 48, 52, 56; 1365: 2, 7, 12, 42, 49, 58, 61; 1366: 4, 8, 16, 21,
29, 30, 35, 41, 44, 51; 1367: 8, 9, 10, 12, 14, 16, 17, 23, 24, 37.
XIV
La cronaca del Trecento italiano
Regno di Napoli
1351: 10, 18, 36; 1352: 4, 22, 23, 24, 28, 60, 62, 63, 69; 1353: 3, 5, 7, 18, 24, 29; 1354: 18, 32, 33, 50, 53;
1355: 5, 8, 17, 25, 28, 29, 39, 41, 45, 70, 81, 89; 1356: 11, 12, 28, 34, 63, 76, 77; 1357: 20, 38, 43, 55, 60;
1358: 20, 22, 23, 25, 28, 41, 45, 62; 1359: 4, 9, 16, 28, 37, 48, 50; 1360: 2, 9, 18, 23, 25, 57, 58, 64, 68;
1361: 10, 20, 33, 60; 1362: 1, 6, 7, 31, 32, 76, 78; 1363: 19, 23, 30, 31, 40; 1364: 1, 21, 25, 26, 33, 36, 46,
54; 1365: 2, 29, 40, 42, 58; 1366: 5, 15, 21, 22, 23, 44, 49; 1367: 5, 13, 41, 43, 50; 1368: 5, 10, 21, 27, 39,
45; 1369: 7, 17, 26, 29, 47; 1370: 8, 18, 47, 55; 1371: 19, 20, 22, 33, 38, 43, 45, 62; 1372: 2, 5, 15, 26, 34;
1373: 9, 24, 53; 1374: 27, 34, 46, 63; 1375: 6, 14, 24, 28, 30, 33, 50, 69.
Regno di Sicilia
1351: 4, 42; 1352: 9, 56, 66; 1353: 37, 86; 1354: 18, 39, 50, 54; 1355: 6, 48, 52, 72, 85; 1356: 30, 60, 77;
1357: 20, 43; 1358: 22, 41, 62; 1359: 4, 9, 39, 40; 1360: 9, 36, 60; 1361: 5, 6, 56; 1362: 1, 65; 1363: 31;
1364: 25; 1366: 33, 49; 1368: 23; 1371: 68; 1372: 34; 1373: 9, 49; 1374: 11, 45, 60; 1375: 3, 17.
Sardegna
1353: 45; 1354: 1, 31, 55; 1355: 71; 1357: 10, 54; 1359: 26; 1360: 5; 1362: 51; 1364: 35; 1365: 56; 1367:
52; 1368: 24; 1369: 30; 1370: 36, 67; 1375: 35.
Chiesa e papato
1351: 14; 1352: 6, 16, 33, 65; 1353: 46, 47; 1355: 35; 1356: 50, 59; 1357: 8, 15, 38, 42, 60; 1358: 20, 33,
42, 46, 57, 58; 1359: 10, 16; 1360: 2, 7, 11, 23, 25, 26, 32, 68; 1361: 3, 4, 12, 16, 17, 18, 19, 21, 28, 44,
54, 59; 1362: 8, 17, 21, 56, 60, 73, 77; 1363: 11, 12, 22, 32, 48, 55, 58; 1364: 12, 13, 44, 56; 1365: 2, 7,
17, 18, 36, 45, 47; 1366: 6, 12, 29, 35; 1367: 9, 11, 13, 24, 29, 34, 40, 48, 49, 50, 55; 1368: 1, 6, 19, 37,
39, 47, 53, 56; 1369: 2, 7, 11, 23, 24, 32, 33, 34, 37, 46, 47, 52; 1370: 4, 5, 7, 10, 12, 13, 25, 28, 32, 43,
48, 52, 57, 64, 65, 69, 70, 72; 1371: 4, 6, 61, 82; 1372: 15, 42; 1373: 23, 26, 27; 1374: 13, 16, 28, 41, 44;
1375: 1, 8, 19, 22, 28, 29, 38, 45, 46, 48, 51.
Meraviglie
1352: 53; 1357: 24; 1363: 27; 1370: 5; 1374: 15, 39, 48; 1375: 61.
XV
Carlo Ciucciovino
Musica
1351: 46; 1352: 73; 1360: 73; 1362: 85; 1363: 64; 1364: 60; 1367: 66; 1368: 66; 1370: 75; 1372: 63; 1374:
68; 1375: 73.
Arte
1351: 45; 1352: 72; 1353: 68; 1354: 65, 66, 67; 1355: 93; 1356: 78; 1357: 64; 1358: 67, 68, 69; 1359: 56;
1360: 67, 72; 1361: 67; 1362: 81, 82, 83; 1363: 59, 60, 61, 62; 1364: 59; 1365: 64; 1366: 60; 1367: 64, 65;
1368: 65; 1369: 58; 59; 1370: 40, 76, 77, 78, 79; 1371: 87, 88, 89, 90; 1372: 61, 62; 1373: 61; 1374: 64,
65; 1375: 70.
Petrarca e Boccaccio
1351: 6, 20, 28; 1352: 58; 1353: 26, 63; 1354: 20, 46, 49; 1355: 59; 1356: 25; 1357: 63; 1358: 13, 50, 66;
1359: 2, 13, 51, 52; 1360: 6, 32, 71; 1361: 1, 31, 32; 1362: 54; 1363: 63; 1364: 61; 1365: 36, 58, 65; 1366:
59; 1367: 63; 1368: 64; 1369: 57; 1370: 73; 1371: 86; 1372: 59; 1373: 60; 1374: 37, 66; 1375: 72.
Letteratura
1354: 68; 1355: 94; 1370: 74; 1373: 62; 1374: 67; 1375: 71.
XVI
LA CRONACA
ANNI
1351-1375
CRONACA DELL’ANNO 1351
6 Vengono in suo possesso Castel San Pietro, il castello di Fagnano e quello di Dozza; gli ostaggi sono i
figli di messer Giovanni e messer Jacopo de’ Pepoli. Il conte di Romagna conserva, in garanzia, il
castello di Lugo, ma i Borgognoni che lo presidiano, quando Visconti paga loro l’arretrato, il 7 aprile
glielo consegnano; GAZATA, Regiense, col. 70; GAZATA, Regiense², p. 269.
Carlo Ciucciovino
uno dì mise in Bologna in suo aiuto, de’ cavalieri della Chiesa mille cinquecento barbute, e tutto
gli avvenne per l’avarizia de’ Prelati di Santa Chiesa, e per la forza e larghezza di sua pecunia». Il
16 febbraio il duca Guarnieri conduce la sua compagnia a Doccia, i soldati di Mastino della Scala
e di Obizzo d’Este tornano dai rispettivi signori; il conte di Romagna, «povero e vituperato del
fine della sua impresa», torna ad Imola con i suoi Provenzali. Bologna è in mano al Visconti e
tutti i guelfi di Toscana ne sono atterriti.7
§ 2. Treviso
Treviso vive un gennaio inquieto, principalmente per la guerra che oppone Venezia a
Genova, ma anche per alcune questioni riguardanti i confini con Feltre. Il podestà di Treviso,
Giovanni Dandolo, il 4 gennaio, scrive al capitano di Feltre, lamentando alcune violazioni e
chiedendo di nominare alcuni delegati che stabiliscano definitivamente i confini in
contradditorio con quelli trevisani. Feltre risponde costruttivamente, con una qualificata
ambasciata, ma negando di poter fare alcunché per la mancanza del loro vescovo e del vicario
imperiale. Si dovrà attendere l’arrivo di questi, nella persona di Conado di Coblin per
riprendere l’argomento, il quale verrà ulteriormente posposto per affrontare questioni
ritenute più urgenti. L’argomento non cesserà di angustiare le parti per lungo tempo.8
7 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. I; cap. 72; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 3; Rerum Bononiensis,
Cronaca B, p. 3-4; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 4-5; Chronicon Estense,² p. 176. Il 13 febbraio vengono
rilasciati i Pepoli che sono stati dati in ostaggio ai Visconti: Andrea e Taddeo figli di Giovanni Pepoli e
un figlio di Giacomo. GRIFFONI, Memoriale, col. 168. COGNASSO, Visconti, p. 204-206. Una trattazione
completa in SORBELLI, Giovanni Visconti a Bologna, p. 48-49.
8 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 13°, p. 133-135 e doc. MD e MDX.
9 KOHL, Padua under the Carrara, p. 95-96; MONTOBBIO, Splendore ed utopia nella Padova dei Carraresi, p. 74.
1351
2
La cronaca del Trecento italiano
il forte vento divampa fuori controllo. Spaventato, il giovane si rifugia in casa. Le autorità
credono di ravvisare il dolo nel vasto incendio che ha divorato i campi e ne accusano la parte
guelfa che, in tal modo, avrebbe colpito il governo ghibellino del comune. Per evitare che
venisse condannato un contadino innocente, Corrado confessa le proprie responsabilità e si
dichiara disposto a risarcire i danni. I beni gli vengono confiscati, ma, data l’importanza del
suo casato, non subisce altre pene. Contrito, si reca in pellegrinaggio a Roma e, nel viaggio,
prende l’importante decisione di divenire terziario francescano. Ottenuto l’accordo di sua
moglie, la quale, più tardi, diventerà clarissa, prende i voti e, verso il 1315, lascia la sua città
natia e inizia a peregrinare. Di luogo in luogo, arriva in Sicilia e qui si ferma a Noto, attirato
dalla fama di Guglielmo Buccheri, che è in odore di santità. Per trovare pace e raccoglimento,
fuggendo gli abitanti che continuamente si recano a fargli visita, si rifugia in una cava.
Corrado, conduce una vita di penitenza, nella quale le tentazioni che lo tormentano
riguardano soprattutto la gola, dovute principalmente alla grande quantità di cibo offertagli
dai devoti. Il ricercato isolamento non resiste alla sua fama che deriva dall’aver operato
miracolose guarigioni. Vengono a cercarlo molti fedeli e gli chiedono di operare prodigi. Nel
1349 avrebbe operato un miracolo, sollevando gli abitanti di Noto dalla fame: chiunque si
recasse da lui, ne tornava con un pane caldo che la pietà popolare voleva impastato da mani
angeliche. Il 19 febbraio 1351 il pio Corrado muore, mentre è inginocchiato, in confessione.
Morto, rimane in ginocchio, con gli occhi rivolti al cielo, e si narra che la sua grotta venne
invasa da una luce sovrannaturale. Tumulato nella chiesa di San Nicolò, viene poi trasferito
nel Duomo di Noto, in un’urna d’argento, dove è ancora venerato. Corrado verrà beatificato
da papa Leone X nel 1515.12
12 MARIO PAGANO, Corrado Confalonieri, santo, in DBI vol. 29°. Si veda anche L. SCIASCIA, Feste religiose in
Sicilia, in La corda pazza. Scrittori e cose di Sicilia, Einaudi, Torino 1970, p. 184-203.
13 «Et non pensò mai altro si non di farne vendetta»; Ephemerides Urbevetanae, Cronaca di Luca Manenti, p.
35.
14 Ephemerides Urbevetanae, Annales Urbevetani, p. 197.
15 Benedetto diceva che voleva far assaggiare ai suoi accompagnatori il vino “Cima di Giglio”.
1351
3
Carlo Ciucciovino
Compiuto il misfatto, gli assassini16 corrono la città inorridita, senza trovare opposizione.
Ugolino Montemarte ripara a Corbara e qui tiene sempre tre bandiere, da trenta cavalli
ciascuna, del comune di Perugia e molti fanti con i quali tormenta Orvieto.
La morte di Monaldo è fortemente destabilizzante per l'ordine pubblico: per molti giorni
la violenza e l'arbitrio regnano sovrani in città. Se la città è saldamente in pugno a Benedetto
di messer Bonconte, tutto il contado è nel dominio degli avversari degli omicidi. Non si può
impunemente uscire dalle mura di Orvieto, se non con numerosa scorta; i cittadini compiono
scorrerie nel contado, ed i signori della terra continuamente tentano assalti o sommosse in
città. Orvieto vive in stato d’assedio, ed in questa situazione, ben presto, anche per la
distruzione dei mulini, il cibo scarseggia.17
Il 24 marzo Petruccio di Pepo (Cane), prova ad assaltare il castello di S. Venanzo tenuto
dai figli di Manno (Cervara). Invano. Tornando, incontra Neri di Petruccio di Simone (quello
che era con Leonardo, quando uccise Matteo Orsini) e lo portano a Benedetto, che lo manda
prigioniero alla Rocca Sberna (lo farà gettare dalla rupe il 5 agosto, vedremo perché).
Il 24 aprile Petruccio di Pepo assalta e prende l’abbazia di Monte Orbetano, facendo
prigioniere trenta persone, tra cui Borgano conte di Parrano e Simone di Ancieri.
Approfittando dell'assenza dell'esercito, lo stesso giorno, Cataluccio di Galasso devasta il
territorio, fin sotto le mura di Orvieto. Il governo di Orvieto è tenuto dagli otto Priori, ma con
Benedetto prende il nome dei Nove Savi.
I figli di Manno e quelli di Berardo e Cataluccio di Galasso e Ugolino Montemarte fanno
un piano per prendere Orvieto. Il 19 maggio mettono più di 150 cavalieri e 500 fanti in
agguato a porta Maggiore e porta Postierla, per fare irruzione in città appena le porte, sul far
del giorno, siano aperte. Ma qualche cosa deve esser trapelato, infatti Benedetto di Buonconte,
la notte prima, decide di mandar fuori dei cavalieri per tendere un agguato ai cavalieri
Muffati, non credendo di trovarli già in posizione. Nella valle del Paglia le due schiere
s'incontrano e si scontrano. Gli Orvietani hanno la peggio, vengono tutti catturati, solo tre
fuggono e tornano in città. I Muffati assalgono il borgo, ma sono respinti. Vanno allora alla
volta di Ficulle, la prendono e la saccheggiano. Vi trovano Giovanni di Cecco di Citta, parente
di Benedetto, e lo linciano. Intanto, Benedetto vive sospettando di tutto e di tutti. I cittadini
sono tenuti quasi prigionieri dentro le mura di Orvieto.
Il 4 giugno nuova incursione di quelli della Torre, Benedetto esce, li insegue, strappa loro
le prede ed i prigionieri fatti. L'inseguimento cessa ai passi di Vallocchi, perché i Vallochiesi
non lo consentono. Luca di Vannuccio, un bastardo dei figli di Buonconte, che è stato uno
degli assassini, ed amatissimo da Benedetto per la sua gagliardia, è catturato. Il giorno dopo
viene ucciso e smembrato. Benedetto è molto addolorato dalla morte di Luca e reagisce
ferocemente: fa venire Pietro, il figlioletto di otto anni di Corrado di Manno, ed un amico di
16 Gli assassini, a loro volta, moriranno di morte violenta; solo Tommaso di Cecco di Monaldo, Ranuccio
di Nallo di messer Piero e Nericola di messer Ciuccio moriranno di morte naturale. Gli altri
incontreranno una fine più o meno atroce. Petruccio, Nicolò e Nerone, figli di Pepo di messer Pietro,
cadono da un ponte di Orvieto; i figli di Ermanno uccidono Giovanni di Cecco della Citta, Cecco di
Nicolò di Cecco e Luca di Vannuccio; i figli di messer Berardo lasciano morire per fame Bottone
dell’Arciprete; Bracco e Nottuccio di Arrigoccio vengono pugnalati. Ephemerides Urbevetanae, Degli
accidenti di Orvieto, p. 36-37.
17 «La carne era molto cara, ché valeva la libra della carne del porco tre soldi, quella del castrato tre soldi
et quella della pecora doi soldi e mezzo; et questa carne era molto cattiva et fu talora che non se ne
trovava....La foglia di chaoli non si trovava punto; et chi ne poteva havere, non ne haveva per tanto che
bastasse a quatro persone per quatro soldi, che bona fusse; et magnavasi alle volte tale foglia che per
altro tempo non se seria voluta vedere. Le legna erano care et non ce ne venivano punto, si non che sì
ardevano il legname delle case che si guastavano per Orvieto. Il sale non ce n’era se non poco; et coloro
che l’havevano, fu tale ora, che lo vendero a rascione di vinti libre il quartengo». Ephemerides
Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 46-47.
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La cronaca del Trecento italiano
18 Berto di Neri di Monalduzzo di Rocchelli. Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 40.
19 Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 42.
20 Si legga l’imponente lista dei ribanditi in Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 44 e 45.
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Carlo Ciucciovino
Priori eleggono Erasmo di Piccardo da Narni, Esecutore e ufficiale del comune, eludendo, di
fatto, la signoria perugina.21
§ 7. Patriarcato
Il 15 marzo, Giovanni di Ettore di Savorgnano, detto Pagano, viene riscattato. Egli ha
ceduto al conte di Gorizia la sua parte di Castello.23
21 Per tutta la narrazione si veda Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 35-47, Annales
Urbevetani, p. 197; Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 448-449; Cronaca del conte Francesco di
Montemarte, p. 224-225. MONALDESCHI MONALDO, Orvieto, p. 108 recto e verso.
22 BRANCA, Boccaccio, profilo biografico, p. 85-86; TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 108-117 dedica molto spazio
alle trattative per la vendita e alle vicissitudini di Nicola per la riscossione; UGURGIERI DELLA
BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 201-202.
23 DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 97.
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La cronaca del Trecento italiano
poi dalla popolazione accorsa al suono della campana. I pochi assalitori che sono riusciti a
penetrare nella cerchia di mura sono contrastati, feriti e catturati. La guarnigione rinforza la
sorveglianza. Il notaio, tradito, è trascinato di fronte al collegio dei Priori, che per non esser
smascherati, lo difendono. Il colpo di mano serve comunque a qualcosa: i Fiorentini sono
terrorizzati alla prospettiva che il cattivo comportamento di una parte del loro governo possa
convincere Giovanni Panciatichi a cercar rifugio nelle accoglienti braccia dell’arcivescovo
Giovanni Visconti; decidono quindi di portare a termine l’impresa mal iniziata. In tre giorni
radunano 800 cavalieri e 12.000 fanti, assediano strettamente Pistoia, costruendo otto battifolle.
Pistoia ha solo 1.500 uomini atti alla difesa, oltre alla guarnigione di messer Andrea che,
richiamata da Firenze, viene fatta uscire e si unisce agli assedianti. Malgrado la loro inferiorità
numerica, i Pistoiesi si dispongono animosamente alla difesa, costruendo bertesche e ventiere,
munendosi di pietre, calce viva, acqua bollente. Ma i Fiorentini rispondono con gatti e grilli e
castelli di legno e recinzioni. Grazie anche alla mediazione dei Senesi, i Pistoiesi scelgono la via
della trattativa e concedono ai Fiorentini di mettere una loro guarnigione, costruire un castello e
di presidiarlo. Danno loro anche il castello di Serravalle e di Sambuca, per sorvegliare l’eventuale
passo di milizie ghibelline. I Fiorentini, tardi nel munire questi castelli di montagna, verranno
preceduti dai Viscontei. Il 30 aprile i Fiorentini tolgono l’assedio e tornano a Firenze; Ricciardo
Cancellieri viene riammesso in Pistoia e la pace con i Panciatichi suggellata da diversi matrimoni
tra le due famiglie.24
24 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. I; cap. 97, 98 e 99; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 6-7;
Chronicon Estense,² p. 176-177; STEFANI, Cronache, rubrica 644; VELLUTI, Cronica, p. 199-206: Donato Velluti
è stato uno dei protagonisti della vicenda e molto vivido è il suo racconto, in particolare gustosa
l’immagine di Pietro Mucini che se ne sta in albergo a cenare con una crostata di anguille. Da marzo, il
nostro cronista Donato Velluti è Gonfaloniere di giustizia a Firenze, come ci informa ibidem a p. 197. Sintesi
moderna in NERI, Società e istituzioni dalla perdita dell’autonomia comunale a Cosimo I; p. 6.
25 FRANCESCHINI, Montefeltro, p. 242, afferma che l’azione di Giovanni di Cantuccio è da ascriversi ad
agosto del 1350, ed in effetti l’ho già narrata nel paragrafo 27 di quell’anno.
26 FRANCESCHINI, Montefeltro, p. 242.
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Carlo Ciucciovino
spregiudicatamente e tempestivamente imprigionato. In una sola notte, con soli 150 uomini,
Giovanni Gabrielli si è impadronito di Gubbio. I pochi Perugini di guarnigione vengono
scacciati.28
Nel corso dell’anno, Giovanni Gabrielli considera la propria posizione e si rende conto che
l’unica maniera di resistere alle forze guelfe di Perugia, e forse anche di Firenze, contro di lui è di
schierasi decisamente con l’arcivescovo Giovanni Visconti. Il signore milanese, in primavera, gli
invia Rinaldo del Verme, al comando di 800 barbute da due cavalli. Queste forze, unite a quelle
di Bartolomeo Casali, del conte di Montefeltro e degli Ubaldini della Carda si recheranno
all’impresa di Bettona.29
Giovanni è nato agli inizi del secolo da Cantuccio di Bino, del ramo di Frontone, un castello
eugubino non lontano dall’eremo di Fonte Avellana. Giovanni è sposato con una figlia di
Ugolino degli Ubaldini della Carda e da lei ha due figli: Ugolino e Gabriele.30
28 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. I; cap. 83; PELLINI, Perugia, I, p. 902-903; Cronaca di Ser Guerrieri
da Gubbio,p. 8.
29 Cronaca di Ser Guerrieri da Gubbio,p. 8-9. Sui due cavalli a barbuta ser Guerrieri dice : «commo se usava
32 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. I; cap. 80; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 4-5; Rerum
Bononiensis, Cronaca B, p. 4 e 8; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 5-7; Chronicon Estense,² p. 177; Annales
Caesenates, col. 1180; Annales Cesenates³, p. 185; GRIFFONI, Memoriale, col. 168; BONOLI, Storia di Forlì, p.
400; SORBELLI, Giovanni Visconti a Bologna, p. 50-51.
33 CORIO, Milano, I, p. 776.
34 GIULINI, Milano, lib. LXVII. Per la citazione latina: Annales Mediolanenses, col. 721-722. AZARIO, Visconti,
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La cronaca del Trecento italiano
Belforti invia armati a re Luigi d’Angiò per sostenerlo nella lotta contro i ribelli.
39 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 39.
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insigni cittadini aquilani e suo fratello, con 4.000 fiorini. Re Luigi, finiti i festeggiamenti fa
catturare ed imprigionare l’intera delegazione. Ora ser Lalle è costretto a fare una scelta di
campo, e sceglie di resistere a re Luigi, che, per il momento, non è certo in grado di poter
intraprendere una spedizione militare.40 Come commenta Nino Valeri: «raramente le finezze
dell’intelligenza giovano, da sole, a vincere la guerra, per cui si richiede un furore di natura tutto
affatto passionale».41 Ma proprio mentre il sovrano napoletano sprofonda nella propria
depressione, papa Clemente, rimessosi da una grave malattia, decide che non vuole avere sulla
coscienza la pace mancata. Verificato che re Ludovico d’Ungheria è ormai del tutto intento al
proprio regno ed appagato della vendetta effettuata per la morte del fratello, il pontefice
proclama Luigi di Taranto re di Napoli. La buona novella giunge inaspettata a Sulmona,
immediatamente, tutti i nobili fatto atto di sottomissione e coprono il fortunato sovrano di doni.42
40 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 40; DEL BALZO DI PRESENZANO, A l’asar bautezar!, vol. I,
p. 413.
41 VALERI, L’Italia dei principati, p. 49; naturalmente l’intelligenza alla quale si riferisce è quella
dell’Acciaiuoli.
42 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 41; BONAFEDE, L’Aquila, p. 97-99 CIRILLO, Annali
dell’Aquila, p. 35 recto. BUCCIO DI RANALLO, Cronaca Aquilana, p. 201-209 ben narra l’incerto procedere del
re.
43 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. I; cap. 84 e PELLINI; Perugia; I; p. 902-904, ma praticamente
tratta dal Villani, eccettuata l’informazione che la reazione di Perugia è immediata e non rimandata e la
narrazione del nuovo assedio tra maggio e giugno.
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La cronaca del Trecento italiano
44PELLINI, Perugia, I, p. 907-910; Diario del Graziani, p. 154-155; Cronaca di Ser Guerrieri da Gubbio,p. 9.
45PELLINI, Perugia, I, p. 904-905; Diario del Graziani, p. 155. Ricciardo Cancellieri è il capitano di guerra e il
capitano della taglia è invece Tommaso da Alviano, si veda la nota 1 di Diario del Graziani, p. 155.
CALISSE, I Prefetti di Vico, p. 82 ci informa che il rettore ha assoldato diversi mercenari, quasi tutti
tedeschi: il conte Averardo, Perino di Lavacoit, Filippo di Moret, Nicolò conte di Montefeltro.
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Carlo Ciucciovino
§ 14. La Chiesa riapre il processo contro l’arcivescovo Giovanni Visconti. Morte di Mastino
La reazione della Chiesa all’acquisto di Bologna, è immediata, sul piano spirituale e
diplomatico. Già il 18 novembre 1350 Clemente VI ha aperto solennemente un processo contro
Giovanni Visconti, Jacopo e Giovanni Pepoli, ora il Fiorentino Antellesi, vescovo di Ferrara, viene
inviato come ambasciatore tra i signori dell’Italia del Nord e del Centro, per cercare di mettere in
piedi una lega contro l’eretico arcivescovo. Il vescovo, ricevuto a Milano, chiede a Giovanni di
restituire Bologna; l’arcivescovo risponde che gli darà la sua risposta domenica prossima nel
duomo. Dopo la messa solenne il vescovo la chiede e l’arcivescovo, sguainata la spada che tiene
al lato, con la sinistra prende una croce dicendo: «Questa è per il mio spirituale e la spada voglio
che sia il temporale per la difesa di tutto il mio imperio».48 Riferita la risposta al pontefice, questi
ingiunge a Giovanni Visconti, ed ai suoi congiunti, entro il termine ultimo dell’8 aprile 1351, di
venire personalmente a scusarsi di fronte al papa. L’arrogante arcivescovo dà mostra di voler
ubbidire, infatti invia un suo segretario ad Avignone ad apprestare quanto necessario. Il
segretario in un giorno compra tutte le vettovaglie che sono in città ed affitta un numero
spropositato di case; il pontefice lo convoca e gli domanda il senso delle sue azioni, il segretario
risponde che sta cercando di fare quanto necessario per alloggiare e nutrire la famiglia con cui
l’arcivescovo di dispone a venire ad Avignone: una famiglia di 12.000 cavalli e 6.000 fanti! Il
papa, prudentemente, chiede al segretario quanto abbia speso finora, gli rimborsa i 40.000 fiorini
che egli dichiara e lo fa partire da Avignone col messaggio che l’arcivescovo Giovanni può
tranquillamente astenersi dal venire.49
Il vescovo Antellesi convoca tutti i comuni ed i signori ad Arezzo per ottobre. Egli, prima
del convegno va personalmente da Mastino della Scala, dal Marchese di Ferrara, dai comuni di
Siena e Perugia per convincerli e prepararli. All’incontro d’Arezzo convengono ambasciatori
scaligeri e fiorentini, provvisti di pieni poteri, mentre i legati di Siena e Perugia non si impegnano
ed hanno bisogno di consultarsi con i loro comuni, prima di prendere decisioni definitive.
Comunque, la lega, anche se svogliatamente, sta prendendo corpo: solo la notizia della
morte di Mastino della Scala, venuto a mancare nella sua Verona il 3 giugno, interromperà il
processo e la farà miseramente sbandare.50 Mastino lascia tre figli legittimi: Cangrande,
Canfrancesco, detto Cansignore e Paolo Alboino. Alberto della Scala, il giorno stesso della morte
del fratello, convoca a palazzo il notaio e, di fronte a Spinetta Malaspina ed altri, fa redigere
regolare verbale della sua rinuncia alla successione; fa proclamare signore il ventunenne
46 WALDSTEIN-WARTENBERG, I conti d’Arco, p. 270-276 che riporta anche la deformante saga popolare
fondata su tali avvenimenti , ma che probabilmente giustifica la nomina dei d’Arco a capitani generali
quale risarcimento dell’avvenuto e come dimostrazione dell’estraneità degli Scaligeri alla congiura.
VARANINI, Il principato vescovile di Trento nel Trecento, p. 365.
47 Chronicon Estense,² p. 176. STEFANI, Cronache, rubrica 661 chiama Vittemberch il lignaggio del conte
Lando.
48 CORIO, Milano, I, p. 773.
49 Naturalmente, il racconto ha tutto l’aspetto di una favola. GIULINI, Milano, lib. LXVII. PELLINI, Perugia,
I, p. 890 e CORIO, Milano, I, p. 773. Si veda anche COGNASSO, Visconti, p. 206-207 e SORBELLI, Giovanni
Visconti a Bologna, p. 54-55. Il passaggio dell’Antellesi e di della Serra a Firenze è registrato da VELLUTI,
Cronica, p. 197-198.
50 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. I; cap. 78.
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Cangrande. Uno dei primi provvedimenti che Cangrande prende è quello di scacciare da
Verona i Fogliano. Siena prenderà la palla al balzo e nominerà uno dei Fogliano: Guidoriccio
a capitano, malgrado che, in passato, abbia avuto a che dolersi della sua infedeltà.51 Di
Cangrande II, Pietro Paolo Vergerio dice «qui postea Rabiosus est cognominatus».52
Intanto, l’arcivescovo Giovanni Visconti, morto Mastino della Scala, suo acerrimo nemico,
tenta di riallacciare buone relazioni con gli Scaligeri ed invia Bernabò Visconti a Cangrande della
Scala, dal 27 ottobre 1350 divenuto suo cognato (per aver Bernabò sposato la figlia di Mastino,
Bianca, detta Regina) con l’incarico di farlo desistere dall’alleanza col conte di Romagna e di
collegarlo invece con le forze ghibelline. La missione riesce e l’alleanza dei Visconti con gli Scala
è fatta. Intorno a questo nucleo forte di campioni della lotta contro il potere della Chiesa, tutti i
ghibellini di Lombardia, Toscana e Romagna si aggregano. I Tarlati, Pisa, gli Ubaldini, i Pazzi di
Valdarno, i conti Guidi, il signore di Cortona, i Santa Fiora sono tutti aderenti alla nuova e
segreta lega contro la Chiesa. Tutti i collegati inviano cavalieri ed armati al Biscione. Mentre
apparecchia un’armata, l’arcivescovo si profonde a dimostrare amicizia ed affetto a Firenze, la
quale non osa dimostrare la propria diffidenza assoldando mercenari e nominando un capitano
di guerra.53
Nel frattempo, a Milano, vengono approvati nuovi statuti cittadini, un documento che è
stato fatto preparare nel 1348 da Luchino Visconti e che, finora, non è stato ufficialmente reso
esecutivo.54
51 Chronicon Estense,² p. 177; CORIO, Milano, I, p. 775. L’iscrizione sepolcrale di Mastino è in Poesie minori
riguardanti gli Scaligeri, p. 115-117. ROSSINI, La signoria scaligera dopo Cangrande, p. 654. Sui metodi
giuridici di assunzione della signoria a Verona, si veda ROSSINI, La signoria scaligera dopo Cangrande, p.
655-662.
52 VERGERIO, Vite dei Carraresi, col. 176. Anche in CARRARA, Scaligeri, p. 194 che chiarisce che il
55 Annales Caesenates, col. 1180; Annales Cesenates³, p. 185 che, nella nota 377 ci dice che Fontanafredda,
oggi un casale, è sul torrente Borello, ad est di Sarsina, mentre Cusercoli è a 7 km da Civitella di
Romagna.
56 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. I; cap. 8; Annales Caesenates, col. 1181; Annales Cesenates³, p. 185-
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bolla datata 3 marzo, il papa ha prorogato per 10 anni il vicariato ad Obizzo ed ai suoi figli
Aldobrandino, Folco, Ugo ed Alberto.58
Il 18 settembre, Aldobrandino sposa madonna Beatrice, figlia di Riccardo di Camino e
nipote di Mastino della Scala.59
61 BAUM, I conti di Gorizia, p. 179 e DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 99. La cessione di Venzone è per la
durata della tregua di 12 anni; BRUNETTIN, Una fedeltà insidiosa, p. 326 e nota 157 ivi.
62 BRUNETTIN, Una fedeltà insidiosa, p. 326-327.
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69 Guglielmo Pietro I dei conti di Ventimiglia sposò Eudossia Lascaris, figlia dell’imperatore bizantino
Teodoro II Ducas Lascaris nel 1261. Non sorprende che con tale ascendente il nostro Guglielmo Pietro si
senta pieno di sé.
70 PIETRO GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p. 240-243.
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sottoposti a tortura. Sabato 25 giugno, messer Jacopo Pepoli viene catturato ed imprigionato.
Obizzo, suo figlio, viene preso nel castello di San Giovanni in Persiceto. Tutti i castellani dei
castelli dei Pepoli si premurano di consegnare le chiavi delle loro fortezze a messer il capitano.
Quando gli arriva notizia di quanto accaduto, messer Giovanni de’ Pepoli lascia il castello di
Nonantola e si reca a Milano dall’arcivescovo a lamentarsi del trattamento inflitto al fratello. Ma
Giovanni Visconti non lo riceve, e solo la consegna del castello di Nonantola e l’arrivo dei figli di
Giovanni a Milano, quasi in ostaggio, predispone favorevolmente l’arcivescovo nei confronti di
messer Giovanni de’ Pepoli.
Il 13 settembre, messer Jacopo de’ Pepoli viene posto alla ringhiera sopra la piazza; alle
finestre del Palazzo del Podestà vengono messi Andrea di Checco, il capitano della porta e
Paganino, il famiglio di Jacopo. Al suono della campana viene letta la loro condanna: il carcere a
vita per Jacopo, l’impiccagione per gli altri tre. Il 25 ottobre messer Jacopo viene tradotto a
Milano, in prigione in un castello. Suo fratello, trovato innocente delle accuse, rimane, libero, a
Milano, con una pensione di 50 fiorini al mese fornita dall’arcivescovo. Quando Jacopo verrà
rilasciato se ne andrà a Faenza, a vivere in estrema povertà, accompagnato solo da un
ragazzo.71 Arturo Palmieri mette in evidenza che i Pepoli sono stati quelli che hanno ceduto la
città ai Visconti e ora sono i primi ad essere colpiti.72 Palmieri nota che «erano mancate fino ad
ora le guerriglie dei feudatari, ma stavano riprendendo vita. Si spostano i centri di
combattimento ed un poco anche le tendenze della lotta, ma la insurrezione, sebbene con
intensità minore, si fa più vasta. Non è il violento e feroce ghibellinismo dei Conti di Panico,
che si rivolta contro la città guelfa, ma sono tutti i malcontenti, che fanno risalire le colpe dei
loro mali al Governo dei Visconti e si agitano per cambiarlo. Direi anzi che la origine dei moti
ha radici più nel guelfismo della montagna che nel partito a lui contrario. Il centro principale
della lotta non è, come prima, nella vallata del Reno, ma in quella del Savena e vi hanno gran
parte i signori di Monzuno. Costoro avevano tradizioni guelfe, che erano assolutamente
contrarie ai Visconti, padroni di Bologna, esponenti principali del partito ghibellino in
Italia».73
71 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 3; Chronicon Estense,² p. 177-178 e 180; GAZATA, Regiense,
col. 71; GAZATA, Regiense², p.269-270; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 8-9; Rerum Bononiensis, Cronaca B,
p. 8-9, che elenca i condannati per la congiura, e 13; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 9 e CORIO, Milano, I, p.
775; BAZZANO, Mutinense, col. 616. Un cenno in CORTUSIO, Historia,² p. 129 che sentenzia: sic Dei potentia,
eorum dominorum [i Pepoli] terminavit. GRIFFONI, Memoriale, col. 169 sembra mettere l’esecuzione di
Paganino e compagni nel 1352, ma forse è solo una notizia fuori posto.
72 PALMIERI, La montagna bolognese, p. 190.
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Petrarca ebbe a definire “elegantissima” e “gravissima”, vale però a porre in evidenza lo scarto
che esisteva tra lo scrittoio del poeta e il gabinetto del politico».75
Francesco, a Padova, a fine marzo, ha ricevuto una visita di Giovanni Boccaccio, il quale era
latore di doni di suoi amici e lettere della Signoria che invitavano il poeta a ricoprire una cattedra
nell’Università di Firenze, dopo avergli annunciato la revoca della condanna comminata nel 1302
a suo padre e della confisca dei beni. Petrarca ringrazia commosso e declina l’offerta di Firenze,
la quale, seccata, revoca le disposizioni a favore del poeta.76
75 HATCH WILKINS, Petrarca, p. 117-127; DOTTI, Petrarca, p. 227-236; ARIANI, Petrarca, p. 50; OKEY, The Story
of Avignon, p. 131.
76 BRANCA, Boccaccio, profilo biografico, p. 87-88.
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suoi, salve le persone ed i beni, e riceve anche un compenso di 3.000 fiorini per il rimborso
delle spese.77
77 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 36 e 37; Chronicon Estense,² p. 180; MANCINI, Cortona, p.
196.
78 STEFANI, Cronache, rubrica 645, 646 e 647; SORBELLI, Visconti a Bologna, p. 108-113. Sulle freddezza di
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Ardinghelli giurano vendetta, traggono dalla loro parte i potenti signori di Picchiena, ed
unitisi ai Rossi di Firenze, il 20 dicembre si introducono in città per la porta di Quercecchio,
assalgono le case dei Salvucci, che conquistano dopo lunga ed aspra zuffa, le saccheggiano e le
mettono a fuoco, scacciando gli avversari dalla città. I Salvucci, il giorno di Natale, ricorrono a
Firenze, lamentandosi dell’avvenuto come di un attacco all’autorità di Firenze; ma altrettanto
fanno gli Ardinghelli, dichiarandosi disposti a governare San Gimignano in nome di Firenze,
purché il bando dei Salvucci sia irrevocabile, e mettendo in luce la propria adamantina fede
guelfa, contro le propensioni ghibelline dei Salvucci.79
79 PECORI; San Gimignano; p. 166-170; VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 22. Sono incerto se
attribuire questo episodio al 1351 o al 1352, per non sbagliare l’ho ripetuto, con parole diverse, anche nel
1352 paragrafo 42.
80 GAZATA, Regiense, col. 70; GAZATA, Regiense², p. 269; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 6; Rerum
82 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 13°, p. 149-150. ROSSINI, La signoria scaligera dopo Cangrande, p.
683-686.
83 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 44; Breviarium Italicae Historiae, col. 287.
85 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 5. La fretta dell’Oleggio dipende dal fatto che alcune
spie gli hanno confidato che Pistoia è pronta a donarsi a lui. La fretta sarà fatale: gli approvvigionamenti
o meglio, la loro mancanza, decreteranno il fallimento della spedizione. AZARIO, Visconti, col. 327; e,
nella traduzione in volgare, p. 57. Pietro Azario è qui molto credibile egli infatti è stato notaio al banco
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Intanto, gli Ubaldini sono piombati su Fiorenzuola, troppo lontana da Firenze, non cinta
di mura né protetta da fossi o steccati, e conquistano le squallide capanne che la popolano,
dandole alle fiamme. Poi si recano ad assediare una torre su Monte Coloreta, il monte che
domina Fiorenzuola. A nulla vale il soccorso portato da un valoroso capitano fiorentino che si
spinge fin là con 25 cavalieri: il giovane castellano della famiglia Ciurani ha dato in ostaggio
suo fratello agli assalitori, a garanzia di un patto di capitolazione che concede solo due giorni
di tempo agli eventuali soccorsi. I soccorsi sono arrivati e sono in tempo, ma l’inesperto
castellano teme per la vita del fratello ed esce dalla torre, dandola ai Viscontei. Tornato a
Firenze, il poveretto verrà decapitato con due suoi compagni e i suoi mallevatori obbligati a
pagare 8.000 lire al comune di Firenze.86 Il conte Tano da Montecarelli muove guerra in
Mugello ed i Pazzi di Valdarno, con 250 barbute avute dai Visconti, escono in campo e
tormentano i conti Guidi, tradizionali alleati di Firenze. Tutto il contado è preda delle
incursioni, delle violenze e delle devastazioni dei signori ghibellini e Firenze è sgomenta di
fronte a tanti attacchi su tanti fronti.87 La lettera che l’arcivescovo di Milano ha fatto pervenire
a Firenze, quale dichiarazione di guerra, ha dell’incredibile nella sua laconicità: «Non havete
voi voluto osservare la pace e però vi facciamo guerra!». Gli ambasciatori fiorentini inviati al
campo dell’Oleggio non trovano maggior disponibilità alla pacifica composizione e se ne
tornano tra le mura della loro città.88
Dopo otto giorni di inutile assedio a Prato e Pistoia, il consiglio di guerra radunato da
Giovanni Visconti Oleggio, decide, incautamente, di lasciarsi alle spalle le due città e di
puntare direttamente su Firenze, investendola con tutta la forza dell’armata: 5.000 barbute,
2.000 cavalieri e 6.000 masnadieri. Il 4 agosto l’esercito si muove ed all’ora del vespro arriva a
Campi, Brozzi e Peretola, sorprendendo la popolazione del contado che, abbandonando beni
e bestiame, a stento ripara nelle mura di Firenze.89
L’esercito ghibellino, mal comandato, commette qui un grave errore, scatena il suo furore
bestiale uccidendo troppo bestiame e dando alle fiamme i mulini. Il grano non manca: ma
non vi sono i mulini per macinarlo in farina. Inoltre manca anche il sale ed i rifornimenti da
Bologna vengono assaliti ed impediti dalle guarnigioni di Pistoia e Prato. I soldati ghibellini
mangiano carne con grano, soffrono il caldo, variano il menu con verdure e frutta ancora
acerba. La preoccupazione di assicurarsi i rifornimenti, con passare dei giorni, diventa
sempre più l’idea dominante; per impedire che i ghibellini valichino per San Salvi, i Fiorentini
muniscono Fiesole e fanno un fossato che da Porta San Gallo va alla costa di Montugli,
guarnendola di balestrieri. Intanto, i Pistoiesi sbarrano la strada di Pistoia. L’11 agosto
l’esercito visconteo leva il campo e va a Calenzano. I villani prendono le alture sopra
Valdimarina impedendo ai ghibellini di poter valicare per il Mugello.90 Infatti questo è «luogo
per natura stretto con passi aspri e forti»91 e pochi armati lo possono agevolmente tenere.
Jacopo da Fiore, un conestabile tedesco che per i Fiorentini tiene il Mugello, invia un Medici
con 200 fanti e 50 cavalieri a tenere il passo, rinforzando ed organizzando i villani che già lo
hanno occupato. Ma il Medici si spaventa della sproporzione di forze e, codardamente, si
ritira. Solo un pugno di audaci rimane animosamente sul luogo. La gran parte dei contadini
fugge colle proprie famiglie, bestiame e masserizie, «maledicendo il comune di Firenze ed i
dei mercenari di Bologna per 44 mesi; AZARIO, Visconti, col. 328; e, nella traduzione in volgare, p. 59. Si
veda anche CERRETANI, St. Fiorentina, p. 134-135.
86 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 6.
90 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 10. Si veda anche CHINI, Storia del Mugello, Lib. V, cap.
VIII, p. 262-264.
91 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 11.
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suoi governatori».92 L’esercito del Biscione è letteralmente alla fame e, appena apprende che il
passo non è presidiato da truppe, il comandante invia un contingente di masnadieri e
balestrieri scelti a prenderlo. Questi vengono inizialmente contenuti e respinti da quei pochi
coraggiosi rimasti a presidio sul passo, poi anche questi si dileguano e i Viscontei si
impadroniscono finalmente del valico, consentendo al loro esercito di varcare indisturbato nel
Mugello. Il giorno stesso, gli armati arrivano a Barberino ed a Villanuova. Niccolò da
Barberino, tiepido amico dei Fiorentini, si arrende: tutte le terre del luogo, Villanuova,
Galliano, Latera, si danno senza combattere. I soldati alfine si rifocillano, «in un paese largo e
dovizioso e pieno d’ogni bene», badando a riprendere le forze e , probabilmente indugiando
troppo in quest’ozio.93 Il conte Tano da Montecarelli, rinfrancato per l’arrivo dell’esercito
milanese, issa l’insegna del Biscione sul proprio castello e si unisce ai ghibellini.94
Finalmente, mentre il nemico provvede a rinfrancarsi, Firenze si scuote e comincia ad
agire: mette Jacopo da Fiore, il conestabile tedesco del Mugello, dentro Scarperia con 200
cavalieri scelti e 300 masnadieri esperti, «dei quali quasi tutti i conestabili furono Fiorentini,
huomini di grande pregio in fatti d’arme».95 Borgo San Lorenzo, Pulicciano e particolarmente
Scarperia, vengono riforniti di «viveri, saettamento, legname, ferramenti e di buoni maestri
da fare ogni (e)dificio da offendere e da difendere».96
Scarperia, fondata nel 1306 dai Fiorentini per contenere gli Ubaldini, domina la strada
che porta a Bologna,97 è quindi indispensabile per i Viscontei impadronirsene se vogliono
assicurarsi rifornimenti.
Il 20 agosto il conte Nolfo da Montefeltro e Giovanni Visconti Oleggio, vedendosi ad un
passo dall’avere il controllo della logistica, si portano sotto Scarperia, qui li raggiungono gli
Ubaldini. Scarperia non ha una cinta muraria completa, ma il conestabile Jacopo da Fiore ha
alacremente fatto lavorare i suoi soldati alla costruzione di un doppio fossato e, con la terra di
risulta, all’elevazione di un terrapieno, rinforzato con steccati e contrafforti. I ghibellini
coprono tutto il piano, a perdita d’occhio, così da sgomentare qualunque avversario. Forti
della loro potenza, intimano la capitolazione al castello, minacciando, in caso contrario, una
lotta senza pietà. I difensori chiedono tempo per rispondere, viene loro chiesto di quanto
tempo abbiano bisogno, «Non meno di tre anni!» rispondono beffardamente. L’esercito
visconteo allora serra strettamente l’assedio e comincia a lanciare attacchi di saggio, per
verificare la qualità della difesa.98 I Fiorentini, intanto, per dare qualche speranza ai valorosi
difensori di Scarperia, provvedono a tenere sotto controllo tutta la strada che costeggia ad est
Monte Giovi, rinforzandone le fortezze. Inoltre, non potendo attaccare le cavalcate viscontee,
sempre prudentemente composte di 1.500-2.000 cavalieri, aggrediscono ed uccidono qualsiasi
gruppo di cavalieri isolati.99 Nel tentativo di isolare completamente Scarperia, un forte
distaccamento ghibellino va ad assalire Pulicciano, sul colle ad est di Scarperia, circa 150
metri più alto di questa. Il borgo viene conquistato da un assalto portato da 500 cavalieri e
400 fanti. Avuto il borgo, occorre ora prendere il castello. L’assalto è portato una mattina per
preoccupata attesa con la quale Firenze attende l’esercito invasore ed afferma: «veramente li Fiorentini
furono meno divisi a quella guerra che mai fossero a niuna, perocché non erano vaghi di signore e
spezialmente di tiranno». AZARIO, Visconti, col. 327; e, nella traduzione in volgare, p. 57-58 narra diversi
episodi che testimoniano la grande fame dell’esercito.
95 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 14.
97 La strada della Futa sarà costruita molto più tardi e solo questo farà decadere l’importanza strategica
di Scarperia.
98 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 15.
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tempo da 2.000 barbute e 1.000 fanti. I cavalieri scendono dalle loro cavalcature, con gli elmi e
le barbute in testa, si legano con le braccia e tra loro mettono i balestrieri, lanciando un assalto
coordinato e simultaneo verso lo steccato. Un conestabile con la sua bandiera è quasi giunto
sul colmo dello steccato e, prima di varcarlo, si ferma rivolto ad i suoi per incitarli, quando
viene colpito da verrettoni e pietre, cade verso l’esterno e la sua caduta è il segnale di una
rotta generale. L’esercito visconteo ripiega per non più riprendere l’attacco: Pulicciano rimane
saldamente nelle mani di Firenze.100
100 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 17; VELLUTI, Cronica, p. 209-210; molto scarna Rerum
Bononiensis, Cronaca B, p. 11-12; appena accennato l’evento in BAZZANO, Mutinense, col. 617. Niente più
che una secca sintesi in Cronichetta d’Incerto, p. 250. L’impresa di Scarperia è in RONCIONI, Cronica di Pisa,
p. 149-152, ma narrata solo per sottolineare la neutralità di Pisa.
101 RICALDONE, Annali del Monferrato, I, p. 335.
103 HATCH WILKINS, Petrarca, p. 128-138; DOTTI, Petrarca, p. 237-244; ARIANI, Petrarca, p. 50-51.
104 DORINI, Spinetta Malaspina, p. 327-328; Chronicon Estense, col. 467; VERCI, Storia della Marca Trevigiana,
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113 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. I; cap. 85-86 e LANE, Storia di Venezia, p. 208-209.
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24 ottobre, piomba inaspettata su Negroponte,114 a nulla vale la difesa improvvisata che gli
scarsi difensori veneziani, mal comandati da Tommaso Viandro, cercano di organizzare: il
numero dei Genovesi e le loro balestre fanno la differenza: liberano gli equipaggi, li mettono
sulle nove galee che sono alla fonda nel porto, riacquistano gran parte del bottino e ritornano,
carichi di gloria e di soddisfazione a Pera.115
I Veneziani, constatata la propria impossibilità ad armare un numero di navi sufficiente
a schiacciare i Genovesi, si alleano con i naturali nemici di Genova: i Catalani. Il re d’Aragona
si impegna ad armare diciotto galee e ad affittarne altre dodici, contro il pagamento mensile
di 1.000 ducati d’oro. Analogamente, Venezia sborsa 1.000 ducati al mese all’imperatore di
Costantinopoli per ottenerne otto galee, più dodici armate a sue spese. Con una flotta di 80-90
galee la Serenissima intende conquistare tutti i domini genovesi, infine bloccare la stessa
Genova e costringerla a sottomettersi.116 La flotta Veneziana-Aragonese, forte di settanta galee,
sverna nell'Arcipelago.
Genova arma sessantasei galee e le pone al comando dell’ammiraglio Paganino Doria. Le
navi, ben armate e ben rifornite, salpano da Genova in luglio e dopo un breve soggiorno nel
Golfo di Venezia, dove arrecano qualche danno, si dirigono verso il Negroponte. I Veneziani
stanno inviando venti galee armate verso la Romania, al comando di Nicolò Pisano, ma i
Genovesi, avutane notizia, le intercettano presso l’isola di Chio. Le navi veneziane riescono a
scampare, grazie alla forza del vento e dei remi; diciassette galee riparano a Candia e tre in
altro porto.117 I Genovesi entrano nel porto di Candia, ma trovano le galee tirate a secco, con le
prue verso terra, e le poppe a mare, l’una vicino all’altra, come bertesche. I Genovesi
attaccano, ma la reazione veneziana è fortissima e gli assalitori sono costretti a ritirarsi,
serrando però d’assedio l’isola, da terra e da mare.118
Come abbiamo visto, Venezia, la cui popolazione è stata decimata dalla peste, non può
armare autonomamente le galee necessarie a portar soccorso alla propria flotta assediata,
richiede quindi l’aiuto di Pisa e di Catalogna. I Pisani declinano, ma i Catalani, felici di poter
combattere contro gli avversari ai quali contendono la Sardegna, accettano ed armano
ventitre galee,119 che si uniscono alle ventisette che Venezia mette in mare. La Serenissima
invia una veloce galea sottile a portar notizia agli assediati che presto i rinforzi arriveranno,
ma questa viene intercettata dai Genovesi, che ora sanno con chi dovranno misurarsi.120
Intanto, l’imperatrice di Costantinopoli, figlia del conte di Savoia, rimasta vedova, deve
affrontare l’ambizione di Mega Domestikos, Giovanni Mauroceno, la cui autorità minaccia sia
lei che suo figlio. Per scampare, fugge a Salonicco, da cui manda emissari a chiedere aiuto ai
114 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. I; cap. 86 dice Candia, ma ho preferito la logica narrazione di
LANE, Storia di Venezia, p. 209 e di DANDOLO, Chronicon, col. 411.
115 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. I; cap. 87; Chronicon Estense,² p. 178-180 elenca tutti i
che, anche dopo l’alleanza formale dell’Aragona con Venezia, avvenuta il 16 gennaio 1351, «in questo
frangente Pietro IV sembra ancora disposto ad evitare lo scontro diretto, se Genova cesserà di aiutare i
ribelli sardi e consegnerà Alghero in Sardegna e Bonifacio in Corsica, in una parola se rinunzierà ai suoi
diritti in Sardegna e Bonifacio in Corsica; richiesta naturalmente inaccettabile. Per il dibattito nella corte
catalana per l’alleanza: MELONI, L’Italia medievale, p. 65-67.
117 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 25; DANDOLO, Chronicon, col. 411. Rerum Bononiensis,
Cronaca B, p. 5-6 elenca 55 galee, 5 navi cariche di vettovaglie e 1 galleolo armato con 60 remi.
118 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 26.
119 MELONI, L’Italia medievale, p. 75 chiarisce che l’ammiraglio Don Ponç de Santa pau non ne porta che
21, perché altre 3 sono a Valencia, non ancora armate quando egli parte.
120 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 27.
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La cronaca del Trecento italiano
Genovesi che sono all’assedio di Candia. Paganino Doria, considerando che, occorrendo pur
svernare da qualche parte, sarebbe meglio farlo a spese dell’imperatrice, accetta.121 Ma
quando i Genovesi arrivano a Salonicco trovano che la decisione dell’imperatrice è in qualche
modo mutata ed ella non conferma l’intenzione di mettersi incondizionatamente nelle mani
di mercenari di fede non provata. L’ammiraglio Doria, sdegnato, volge la prua delle sue navi
contro l’isola di Tenedo, la prende, la saccheggia, e vi si stanzia fino a Natale.122
I Veneziani intanto, consci della precaria condizione dei loro compatrioti in Candia,
decidono di affrontare il Mediterraneo, senza aspettare la buona stagione. Si concentrano in
Sicilia, vi si incontrano con la flotta catalana, e si dirigono verso il Negroponte. Debbono
affrontare terribili tempeste di mare, nelle quali perdono sette galee veneziane e due catalane,
raccolgono le galee assediate a Candia, e arrivano in Turchia, a Palati ed Altoloco con 70
galee. Qui svernano riparando le navi e raccogliendo informazioni sui loro avversari.123
124 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 20; Monumenta Pisana,col. 1023-1024; MARANGONE,
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Carlo Ciucciovino
125 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 21; STEFANI, Cronache, rubrica 650. Solo un cenno in
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La cronaca del Trecento italiano
apprestandosi a calarsi nel secondo, scatenano l’inferno sulle loro teste. Li bersagliano con
pietre, lance, pali, trabuccano loro addosso legname e i balestrieri mirano con precisione i loro
verrettoni. Il comandante ghibellino è attento a sostenere l’assalto, muta i combattenti a turno,
evitando che si stanchino troppo, e sottopone a pressione continua gli assediati. La battaglia
dura dal mattino, per sei ore, fino al primo pomeriggio, quando l’assalto si esaurisce e
l’esercito visconteo ripiega sulle proprie posizioni. Nel primo fossato sono state calate 64
scale, nel secondo solo tre, a testimonianza di una furibonda resistenza. Non si è riusciti ad
arrivare alle mura, né agli steccati.129
Fallito l’assalto, nei due giorni seguenti i ghibellini concentrano le loro speranze sulla
galleria che stanno scavando e che ormai è giunta a sole 20 braccia dalla cinta muraria che
intendono far crollare. I difensori hanno scavato dei fossati all’interno delle mura per poter
resistere in caso di breccia; inoltre, non basta loro tormentare continuamente dagli spalti i
poveri scavatori, ma hanno anche fabbricato a loro volta gallerie, nel tentativo di intercettare
quella degli assedianti. I lanci di offesa degli assediati e le risposte dalle macchine ossidionali
dei viscontei, lunedì, impegnano trecento difensori e chissà quanti ghibellini. Martedì i
difensori riescono ad intercettare la galleria e la fanno crollare, uccidendo e ferendo molti
degli scavatori che vi lavorano; poi, balzati all’assalto, riescono a dare alle fiamme due castelli
di legname che proteggono lo scavo, ritirandosi poi sani e salvi dentro le mura di Scarperia.130
L’assalto che Giovanni Visconti ordina il giovedì non ha miglior fortuna; il primo fosso è
colmato di fascine, sopra vi vengono condotte le torri di legname, fornite di palvesari e
balestrieri. I cavalieri smontano da cavallo e con scale e gatti e grilli assalgono le mura: solo
quando sono molto vicini, i difensori cominciano a lanciare dardi e pietre e legname. Il primo
assalto viene rintuzzato. Quelli seguenti, lanciati ad ondate successive, si spengono uno dopo
l’altro. I difensori hanno più volte l’ardire di uscire e di combattere gli assalitori. Nel primo
pomeriggio il capitano Giovanni fa suonare la ritirata. I difensori, con una sortita, bruciano i
castelli di legna e le fascine.131
Giovanni Visconti tenta un’ultima carta: fa leva sulla cupidigia dei Tedeschi,
promettendo loro 10.000 fiorini per la conquista del castello. I conestabili tedeschi scelgono
300 dei migliori soldati e danno loro l’incarico di scalare le mura di notte, mentre un assalto
generale viene portato in altra zona. L’esercito «con innumerabili luminaria, e con ismisurato
romore, e suoni di tutti gli stormenti (strumenti) dell’oste, schiere fatte con le scale e con le
battaglie ordinate, si cominciarono a drizzare dall’altre parti verso la Scarperia». I difensori si
scuotono dal riposo e, «cacciata la paura e invilito il riposo», immediatamente si dispongono
alla reazione. Intanto, i trecento scelti, senza alcun lume e nel massimo silenzio, hanno
valicato il primo ed il secondo fosso, hanno poggiato le scale alle mura, in un lato non
illuminato dalla luce della luna e stanno scalando, quando, scoperti dai difensori, le scale
vengono ribaltate con pali, i Tedeschi gettati al suolo, con molti morti e feriti, una gragnola di
pietre e dardi scagliata su di loro. Anche questo assalto è fallito. Giovanni le ha tentate tutte,
ma, obiettivamente, prendere un castello ben difeso, e Scarperia è indubbiamente difesa in
maniera eccellente, è estremamente difficile e raro.132 Le vettovaglie scarseggiano; molti sono
132 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 32. Anche la cronaca di Siena racconta un avvenimento
relativo all’assedio di Scarperia, che, però, non sembra molto attendibile: riporta un’azione ardita di
Erbanera che, in ottobre, approfittando della pioggia tenta di impadronirsi di una torre in mano ai
viscontei. Di notte, sotto la pioggia, scala la rocca della torre principale e silenziosamente ne uccide gli
occupanti. Al mattino leva il vessillo senese sulla torre e i Fiorentini si rianimano e combattono e
scacciano i soldati ghibellini. Può darsi che sia un episodio della lotta conclusiva per impadronirsi di
Scarperia, episodio non riportato da Matteo Villani, ma può anche essere una storia inventata per
glorificare il contributo senese. Comunque è estremamente sospetta la struttura del seguito della
narrazione: festeggiamenti di Erbanera a Firenze, gelosie fiorentine, congiura per uccidere il capo dei
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i feriti nell’esercito, il tempo non è più adatto alle campagne militari e si prevede che tra poco
la pioggia le bloccherà del tutto. Giovanni decide di togliere l’assedio. Sabato 16 ottobre
l’esercito visconteo, comandato da Giovanni Visconti Oleggio e dal conte Nolfo da
Montefeltro leva l’assedio a Scarperia e torna a Bologna. Per evitare che i Fiorentini possano
danneggiare l’esercito visconteo, intento a valicare, Giovanni Visconti ordina 2.000 cavalieri
nel piano prima del passo, di fronte a Scarperia, che rintuzzino eventuali azioni dei Fiorentini,
che, effettivamente hanno inviato cavalieri a cercare di disturbare il transito dei ghibellini. Ma
nessun Fiorentino appare e, saputo che il grosso è passato, i 2.000 cavalieri scelti lentamente
prendono la via dell’Appennino ed arrivano indisturbati a Bologna.133
Il 19 ottobre Giovanni Visconti d’Oleggio rientra a Bologna. La notte seguente un fuoco si
sprigiona nelle stalle del Palazzo di re Enzo, bruciandolo completamente.134
balestrieri, insieme ai suoi armati, un onesto Fiorentino lo mette sull’avviso, Erbanera all’alba fugge
armato di tutto punto, inseguimento fiorentino che si conclude a Montebuono, dove avviene l’aggancio
ed inizia l’assalto. I Senesi, sempre combattendo, continuano a ritirarsi, passando presso San Donato e
Sambuco, andando verso Castellina in Chianti. Qui sopraggiunge il provvidenziale soccorso da Siena ed
i Fiorentini sono volti in fuga, lasciando sul campo 500 persone. I Senesi riposano a Quercegrossa e poi
entrano trionfanti a Siena a vessilli spiegati. Questa è la stessa struttura della storia narrata in altri anni
nella stessa cronaca, e sempre senza che se ne ritrovi riscontro nel Villani, questa volta Giovanni.
Comunque, per la narrazione si veda Cronache senesi, p. 563. L’assedio di Scarperia è ben narrato in
CHINI, Storia del Mugello, Lib. V, cap. VIII, p. 267-278.
133 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 33; senza dettagli CERRETANI, St. Fiorentina, p. 134-135.
AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. X, anno 1351, vol. 3°, p. 140-153 narra molto diffusamente gli eventi
legati a Scarperia. PALMIERI, La montagna bolognese, p. 190 rileva che nell’andata l’Oleggio ha percorso la
strada di Casio e nel ritorno quella del Savena.
134 Chronicon Estense,² p. 181; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 10.
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La cronaca del Trecento italiano
Gentile da Mogliano non accetta di giocarsi tutto in una battaglia e si sfila di nascosto,
tornando a Fermo. Galeotto torna ad Ascoli. La partita con Gentile è rinviata, ma non può
essere tralasciata, perché riguarda non solo i castelli di confine, ma anche il porto d’Ascoli. Lo
stesso signore di Fermo ne decide i tempi, aggredendo Osimo ed assediandola. Gentile è
accorso per aiutare i Guzzolini, che sono stati cacciati dalla loro città. Egli è comunque
costretto a sloggiare dal tempestivo arrivo del Malatesta. Galeotto entra ad Osimo liberata e
ne diventa signore. Tornando verso Ascoli, il vittorioso Malatesta ottiene la resa del castello
di Civitanova Marche, dove il figlio di Gentile, Ruggero, comanda la guarnigione. Ruggero,
imprigionato, viene tradotto ad Ascoli. Per intervento dell’arcivescovo Giovanni Visconti, il
21 giugno, le parti iniziano negoziati di pace e li concludono il 23 ottobre, quando la pace
viene firmata nel palazzo malatestiano di Rimini.136 Galeotto si può ora occupare di aiutare re
Luigi di Napoli a riconquistare la Puglia.
136 DE SANTIS, Ascoli nel Trecento, II, p. 27-38; FRANCESCHINI, Malatesta, p. 113; CARDINALI, La signoria di
Malatesta antico, p. 95-96; MICHETTI, Fermo, p. 91.
137 COGNASSO, Savoia, p. 139-140; COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 47-58; KERSUZAN , Défendre la
Bresse et le Bugey, p. 90. Il trattato è stato negoziato dal conte di Ginevra e da Giorgio Soleri e quindi
viene osteggiato a corte. GALLAND, Les papes d’Avignon et la maison de Savoie, p. 102-103. D’ORVILLE JEAN,
Chronique de Savoie, p. 183. Anche CIBRARIO, Savoia, III, p. 119
138 PELLINI, Perugia, I, p. 907; Diario del Graziani, p. 156.
139 «Questi era grande e maraviglioso ladro, e facea grandi e belli furti di bestiame, traendo i buoi dalle
tenute murate e guardate, e rompeva tanto chetamente le mura, che niuno il sentiva, e di quelle pietre
rimurava le porte a’ villani di fuori sì chetamente che prima haveva dilungate le turme de’ buoi tratte
per lo rotto del muro due o tre miglia, che i villani, trovandosi murate le porte e impacciati dalle tenebre
della notte, e dalla novità del fatto, le potessono soccorrere. Così n’havea fatte molte beffe, e accusatone
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Carlo Ciucciovino
tenuta dai Perugini, sotto il comando di Paoluccio Vinciolo, Giovanni de’ Mazzi e Filitiano
Cartolaro. I Perugini presidiano le mura e anche le due rocche cittadine, ma non sanno che
l’ardito Arrighetto ha spiato l’altezza della torre sopra la porta ed ha dichiarato che se la sente di
scalarla. Sabato notte, il 20 di novembre, una notte fredda con un vento gelido che fa rintanare
tutti nei propri letti o nei ripari che riescono a trovare, 500 cavalieri e 2.000 fanti di Pier Sacconi
sono in attesa sotto le mura di Sansepolcro. Attendono anche, nel chiuso riparo delle case dei
Boccognani, i partigiani ghibellini che sono pronti a scattare dall’interno, al primo segnale. Prima
dell’alba Arrighetto, cintosi di corde ed armatosi, si appresta a scalare l’altezza della torre.
Vincendo il vento, il freddo e la paura, arriva in cima, vi trova solo due guardie che sorprende e
tiene sotto la minaccia della sua spada, mentre dodici suoi compagni ascendono per una scala di
funi che Arrighetto ha calato. Padroni della porta, fanno un segnale ai Boccognani che, facendo
suonare la campana di una chiesa, ottengono che tutti i ghibellini della città si precipitino alla
porta per difenderne la proprietà. Vengono spalancati i battenti e tutti gli uomini del Sacconi vi si
precipitano dentro. Ad onore di Piero Sacconi va detto che non una goccia di sangue viene
sparsa e, senza sguainare la spada, Piero diviene signore di Sansepolcro. I castellani perugini
mandano immediatamente a richieder soccorso a Perugia. Ma il Sacconi, col conte Pelavicino
assedia le rocche e fa erigere fossi e bastioni per impedire l’arrivo di eventuali rinforzi, inoltre
chiama a raccolta presso di sé tutte le forze ghibelline della regione, per contrastare l’eventuale
arrivo di un forte esercito umbro. In effetti, Perugia, con l’aiuto di Firenze, è riuscita ad armare
1.900 cavalli e una gran quantità di fanti, ma i castellani sono impauriti e, forse, inesperti e in
quattro soli giorni capitolano. Il comune perugino incasserà la cauzione di 1.000 lire che ognuno
ha depositato all’atto della nomina a castellano. Preso Sansepolcro, anche Anghiari cade senza
opporre resistenza. I Perugini che sono concentrati a Città di Castello fanno una scorreria
devastatrice ai borghi di Anghiari, senza che i soldati ghibellini escano ad affrontarli. Qualche
tempo dopo, il Sacconi restituisce la visita a Città di Castello, ma i Perugini ed i Fiorentini,
evidentemente comandati da capitani ardimentosi, escono ed affrontano gli aggressori,
mettendoli in fuga ed inseguendoli fino ad un agguato predisposto a mezza strada tra Borgo e
Città di Castello. Qui scatta l’inganno organizzato e gli eserciti si affrontano. È uno scontro di soli
cavalieri che, per molte ore, si assaltano, si battono, si ritirano per raccogliersi e ritornare alla
carica. Alla fine, la cavalleria ghibellina ha la peggio e si ritira, lasciando sul campo 70 morti e
molti prigionieri, tra cui sei capitani, uno dei quali è Manfredo de’ Pazzi di Valdarno, e molti
Borgognoni e Tedeschi. I prigionieri, spogliati di armi e cavalli, vengono liberati.140
La soddisfazione per lo scontro vinto non bilancia però la dura constatazione che gran
parte delle terre prima sottoposte a Perugia sono ormai perdute: tra queste Anghiari, Caprese
(ora Caprese Michelangelo), Castel Perugino e Pieve Santo Stefano.141
Anche il conte Nolfo Montefeltro sente il richiamo della propria anima ghibellina e strappa
ai Perugini la città di Cagli.
Alcuni fuorusciti ghibellini di Perugia, con l’aiuto di familiari di Cecchino Vincioli,142
rinforzati da due compagnie di banditi fiorentini che si sono dipartiti dal servizio a Giovanni de’
Gabrielli di Gubbio, prendono il castello di Montelabate, una forte posizione a nord-est di
di furto, messer Piero il difendea, e davagli ricetto in tutta sua giurisdizione». VILLANI MATTEO E FILIPPO,
Cronica, Lib. II; cap. 42.
140 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 43. Appena un cenno in GAZATA, Regiense, col. 71;
GAZATA, Regiense², p. 271 che neanche registra che Borgo viene nelle mani dei Tarlati, indica solo che a
dicembre è in possesso dei Visconti. Annales Caesenates, col. 1181; Annales Cesenates³, p. 187. In poesia:
SER GORELLO, I Fatti d’Arezzo,col. 839. FARULLI, Annali di Sansepolcro, p. 25 chiama Arrighetto di Pola il
bravo scalatore. COLESCHI, Sansepolcro, p. 45-47 lo chiama Arrighetto di San Polo.
141 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 42. Tutto di seconda mano MUZI, Città di Castello, vol. I,
p. 153-154.
142 Pompeo Pellini afferma che non è quel Cecchino decapitato il 28 aprile, ma un suo omonimo. PELLINI,
Perugia, I, p. 913.
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La cronaca del Trecento italiano
Perugia, favoriti da un alleato intrinseco, tal Margaglione. Da questa base si danno poi a
tormentare tutto il territorio intorno. I Perugini reagiscono inviando l’esercito, al comando di due
Priori. Sono aiutati anche da armati fiorentini e senesi. Vengono portati più assalti alle mura, ma
invano, ché i difensori combattono per la propria vita, convinti come sono che la resa costerebbe
loro anche la testa. Un tentativo di soccorso da parte dei militari di Giovanni Cantuccio de’
Gabrielli, fallisce per il valore di un comandante tedesco, di nome Ermanno, che riesce a
trattenere le truppe avversarie ad un ponte fino al momento in cui i cavalieri perugini e fiorentini
possono intervenire e far battere in ritirata gli eugubini. Un centinaio di cavalieri viscontei
vengono catturati in questa fazione. Montelabate, a corto d’acqua si arrende di lì a poco, ma salve
le persone e le cose.143
§ 41. Patrimonio
I figli di Cola de Cellolis, appartenenti ad un ramo del lignaggio dei Farnese, in giugno
sono entrati in Canino, ma la rocca degli ecclesiastici ha chiuso loro le porte e la guarnigione
ha validamente resistito ai ribelli, finché la popolazione li ha cacciati dalla cittadina. I figli di
Cola si ritirano a Tessennano, entrano in Valentano e compiono scorrerie contro i villaggi di
Le Grotte, San Lorenzo e Bolsena, arrivando a minacciare la stessa Montefiascone.145 Un
accordo con un intrinseco di Montefiascone, tal Bartolomeo Nardelli, permette a qualche
partigiano del prefetto di introdursi in una finestra della rocca della sede del legato, ma gli
incursori vengono ricacciati e la finestra murata.146
Pietro di Vico, fratello del prefetto Giovanni, approfittando di tumulti tra le parti in lotta,
prende e saccheggia Sutri in luglio.147
Giovanni di Vico assedia la rocca di Norchia. Il rettore del Patrimonio invia un gruppo di
armati a sincerarsi della consistenza della minaccia, ma quando costoro, il 15 novembre,
nottetempo, si avvicinano alla fortezza, trovano che i prefetteschi l’hanno già presa con il
tradimento di un certo Guercio da Meano. Gli uomini del rettore lo raggiungono a Città di
Castello e lo informano. Il potere del prefetto di Vico è dilagante. Il 7 dicembre il prefetto
sorprende Montalto e la conquista; la stessa sorte tocca alla rocca al ponte di Badia sul Fiora.
Nella zona solo Corneto e Canino sono nelle mani della Chiesa. Giovanni di Vico va ad
assediare Montefiascone. Tuttavia, il 15 dicembre, il rettore del Patrimonio invia il suo
capitano Giovanni Gabrielli con rinforzi e il prefetto giudica opportuno desistere e rivalersi
sulle terre del lago di Bolsena. Qui assedia la rocca di Marta, che chiede aiuto ad Orso Orsini
143 PELLINI, Perugia, I, p. 910-914; Diario del Graziani, p.156-157; VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II;
cap. 42 e 43. PESCI, Storia di Umbertide, p. 12 ci informa che le truppe di Giovanni Cantuccio hanno, per
poco tempo, occupato Fratta (oggi Umbertide).
144 Chronicon Estense,² p. 181-182.
145 ANTONELLI, Patrimonio, p. 119 e note. Uno sguardo alla carta geografica rende evidente che le
cavalcate si svolgono in un territorio scarsamente popolato, sulle sponde meridionali del lago di
Bolsena. Tessennano domina dall’alto Canino, a sole 4 miglia da questo.
146 ANTONELLI, Patrimonio, p. 120.
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di stanza ad Orte. Il prefetto qui entra prima nel borgo, poi ottiene la rocca che il castellano
Simone di Bolsena gli consegna senza combattere.148
Verso la fine dell’anno, i signori di Vitozzo occupano Onano, un villaggio a nord-ovest
del lago di Bolsena a tre miglia dalle Grotte di Castro.149
153 Manfredi Chiaromonte governa Palermo come Capitano e Giustiziere perpetuo e non riconosce
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d’anni. Matteo Palizzi non ha nulla da guadagnare dall’impasse, sia perché Manfredi
Chiaromonte si sta allontanando la lui, sia per la morte della regina Elisabetta, avvenuta tra il
1349 e il 1353. A fianco del giovanetto re Ludovico si è posta la sorella Costanza, che ha
lasciato il monastero per assisterlo.154
Secondo quanto afferma il cronista Michele da Piazza, il conte Matteo Sclafani è un
nemico, non dichiarato, dei Chiaromonte.155
154 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, p. 124-127, LA LUMIA, Matteo Palizzi, p. 131-133, PISPISA, Messina
medievale,p.93; PISPISA, Messina nel Trecento; p. 202-204. In gennaio Manfredi Chiaromonte, approfittando
di una falsa insurrezione contro di lui, ha consentito che venissero danneggiati i beni dei Genovesi,
alleati del Palizzi.
155 SARDINA, Palermo e i Chiaromonte, p. 24-25 e MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, p. 128, cap. 51.
156 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 46 e Cronache senesi, p. 564. Un fante viene retribuito
con 10 soldi al giorno. Per qualche dettaglio: DEGLI AZZI VITELLESCHI, La repubblica di Firenze e l’Umbria,
p. 94-95. PASQUI, Arezzo, p. 113-116, doc. 817 pubblica il documento.
157 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 47; DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 634-636.
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163 CASTELNUOVO, Un pittore italiano alla corte di Avignone, p. 82-88, egli rileva che molte idee delle Storie di
San Martino ad Assisi, suggeriscono idee per le Storie di San Marziale ad Avignone.
164 CASTELNUOVO, Un pittore italiano alla corte di Avignone, p. 88-92 fornisce un ampio resoconto critico di
tale affermazione.
165 CASTELNUOVO, Un pittore italiano alla corte di Avignone, p. 38.
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nell'abbazia dedicata al santo a La Chaise-Dieu167 ed invia i disegni per ventotto storie del
medesimo santo a Parigi perché se ne ricavino i rilievi "pro cassa argentea corporis eiusdem
sancti".168 È un vero peccato che nessuna di queste opere sia giunta a noi perché ci avrebbe
mostrato come Matteo avesse progredito nel coniugare la sua scuola senese con quella gotica
francese. Per giudicare tale evoluzione ci sono rimaste le figure di Profeti, re e sibille nella volta
della cosiddetta Grande Udienza, voluta da Clemente VI quale addizione al più vecchio
palazzo di Benedetto XII, per le assemblee del tribunale poi detto della Sacra Rota. «Le venti
figure dell'Antico Testamento che spiccano nella volta su un cielo blu carico di stelle sono
l'unico resto apprezzabile di un ampio programma iconografico condotto dal maestro tra il
1352 e il 1353, comprendente in origine anche un Giudizio universale sulla parete nord e una
Crocifissione, visibile solo in qualche parte della sinopia, tra le due finestre del muro orientale.
"Ma questi profeti, questi spietati patriarchi signori dei cieli, sono le creazioni più alte e liriche
della sua fantasia"; essi sono gli "esempi per eccellenza del linguaggio gotico più puro e
avanzato che mai fino ad allora fosse stato tentato da un artista italiano". La grafia delle loro
vesti è tanto sottile e calligrafica quanto l'effetto d'insieme saldo e vigoroso, amplificato
anziché attutito da una gamma cromatica raffinata ed elegante, frutto anche delle suggestioni
riportate dall'osservazione delle sculture e delle vetrate (come per esempio quelle di
Christianus de Cantinave per la cappella Clementina) che negli stessi anni si andavano
realizzando nel palazzo».169
Enrico Castelnuovo afferma: «è chiaro che non possiamo definire la fisionomia artistica
di Avignone papale in base unicamente a Siena. Avignone non è un semplice centro di
diffusione della pittura senese […] ma i caratteri dominanti sono prevalentemente senesi,
tanto che si potrebbe affermare che è qui, nel crogiuolo avignonese che la pittura senese trova
e fissa i caratteri del suo stile di esportazione. È a partire da qui che si sviluppano quei
rapporti triangolari del tipo Siena-Avignone-Praga, Avignone-Napoli-Praga, Siena-Avignone-
Spagna, o anche Siena-Avignone-Parigi, che avranno gran peso sulla storia della pittura
europea del Trecento».170
Tradizionalmente, il ciclo di affreschi che il Maestro di Montiglio ha eseguito nel castello
di questa cittadina viene datato al 1345-50. Santina Novelli, in un suo recente studio
sull’argomento,171 sottolinea che «A Montiglio si ritrova quella “ricerca espressiva, umoresca e
naturale”, quella “precocissima inclinazione verso il ritratto” che già Roberto Longhi, secondo
quanto riporta Enrico Castelnuovo, aveva indicato come peculiare della produzione pittorica
di Matteo Giovannetti, il “mirabile viterbese”, la cui produzione artistica così tanto doveva
alla poetica martiniana».172 Molto probabilmente per il tramite di un prelato, Pietro di
Cocconato, figlio di Guido, che fu vicario regio a Parma nel 1335, alla qual famiglia era legata
la dinastia dei Cocconito che ha fatto eseguire gli affreschi in oggetto, la cultura artistica
avignonese e del suo massimo esponente, Matteo Giovannetti, è stata introdotta in
Piemonte.173
Guariento di Arpo dipinge per la tomba di Giacomo da Carrara, nella chiesa di
Sant’Agostino a Padova (in seguito spostata agli Eremitani), un affresco, o meglio ciò che ne è
171 SANTINA NOVELLI, Il Maestro di Montiglio dal Monferrato a Quart, in Arte di corte in Italia del Nord, p. 295-
319.
172 SANTINA NOVELLI, Il Maestro di Montiglio dal Monferrato a Quart, in Arte di corte in Italia del Nord, p. 304
306.
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rimasto, con l’Incoronazione della Vergine. Ciò è tutto quanto rimane di questa tomba, la cui
parte marmorea è stata scolpita da Andriolo dei Santi.174 La critica recente vede l’intervento di
Bonino da Campione nel sarcofago del signore di Padova, e precisamente nella Madonna col
Bambino¸al centro di questo. L’intervento di Bonino riguarderebbe anche l’arca di Ubertino da
Carrara.175
Restano pochi frammenti delle due tombe decorate a fresco da Guariento per Ubertino e
Giacomo I da Carrara, dai pochi lacerti rimasti, il pittore sembra influenzato dai modi
veneziani, comunque improntati alla ricerca di realismo nelle fisionomie dei ritratti. Anna
Maria Spiazzi scrive: «nell’Incoronazione della Vergine, l’affresco posto sotto l’arcone marmoreo
di Andriolo, la nuova sensibilità per l’architettura gotica veneziana si esprime nella ricchezza
dei marmi traforati del trono e nel fluire morbido e amplissimo delle vesti di Cristo e Maria
Vergine».176 Recentemente, Zuleika Murat ha condotto una ricostruzione dell’opera pittorica
del Guariento nella distrutta chiesa di Sant’Agostino a Padova; mentre le arche dei signori di
Carrara sono sopravvissute, le pitture sono andate distrutte nella demolizione della chiesa,
avvenuta verso il 1819-22; oltre all’Incoronazione della Vergine, oggi agli Eremitani, ci sono
rimasti i frammenti con le figure di due Carrara inginocchiati, presumibilmente Giacomo II
ed Ubertino, ed un ritratto, oggi a Innsbruck, che raffigura probabilmente Jacopino da
Carrara. Anche un lacerto con il Battesimo di Cristo è rimasto ed è oggi nella Pinacoteca Civica
di Pavia. La Murat ritiene con validi argomenti che questi frammenti facciano parte di un
vasto impegno pittorico per il quale l’Incoronazione della Vergine svettava «al culmine della
parete, sopra l’arco» e, tutt’intorno la raffigurazione degli angeli che onorano la Vergine, con i
Carrara inginocchiati ad assistere alla scena e a offrirla.177
Guariento decora la loggia dell’ala occidentale del palazzo dei Carrara, con tutta
verosimiglianza prima della visita di Carlo IV, ancora re dei Romani, a Padova nel 1354. Della
sua opera nella reggia, l’unica arrivata a noi è, sulla parete destra, un ciclo con Episodi del
Vecchio Testamento, mentre il ciclo, molto più ampio, fu demolito parzialmente nel 1779. «Il
soffitto era decorato da una serie di tavole […]. Secondo le più recenti ricostruzioni, la tavola
con la Vergine si trovava al centro del soffitto e i tondi con gli Evangelisti ai quattro angoli». Le
Gerarchie angeliche inclinate, costituivano il collegamento tra gli affreschi e la copertura.178
Questi dipinti sono «caratterizzati da una vivacissima vena narrativa e da una squisita
eleganza lineare e coloristica, specie in alcune figure delicate, raffigurate in vesti alla moda».
Guariento, figlio di Arpo, è nato a Piove di Sacco nel secondo decennio del secolo. Le notizie
documentarie su di lui sono scarsissime; egli è attivo in Padova dal 1338, nella chiesa degli
Eremitani.179 L’unica sua opera firmata è una grande Croce stazionale, oggi al Museo civico di
Bassano. L’opera è stata probabilmente realizzata nel 1340. Dal duomo della Piove di Sacco
proviene il Polittico dell’Incoronazione, che è oggi alla Norton Simon Collection; l’opera reca la
data del 1344. La sua educazione è avvenuta in un ambiente «saturo di elementi giotteschi» e
forse egli si è educato alla scuola dei pittori riminesi che, dal 1324, erano attivi in Padova. Da
questi «gli derivò una interpretazione delicata e dolce del linguaggio di Giotto».180
174 M. BUSSAGLI; Guariento di Arpo; in DBI vol. 60°; SPIAZZI, Pittura a Padova, p. 113.
175 LAURA CAVAZZINI, Un’incursione di Bonino da Campione alla corte dei Carraresi, in Arte di corte in Italia del
Nord, p. 37-43.
176 SPIAZZI, Pittura a Padova, p. 113-114.
177 ZULEIKA MURAT, Il Paradiso dei Carraresi, in Arte di corte in Italia del Nord, p. 97-122.
178 DAVIDE BANZATO, L’impronta di Giotto e lo sviluppo della pittura del Trecento a Padova, in Giotto e il
Trecento, p.146.
179 Potrebbe portare con sé come collaboratore Nicoletto Semitecolo, si veda D’ARCAIS, Pittura a Venezia,
p. 66.
180 FRANCESCA D’ARCAIS, Guariento, scheda biografica in La Pittura in Italia, il Duecento e il Trecento;
1351
36
La cronaca del Trecento italiano
Una stupenda Crocifissione, datata 1351, è nella collezione del Detroit Institute of Arts. Per
l’identità del pittore è stata avanzata l’ipotesi di Altichiero ed Avanzo, oppure di un ignoto
maestro veneto; comunque, «la bionda anatomia in cera e miele del Cristo in croce, la qualità
della pelle tenerissima, alitante, della visione conferiscono uno struggente valore atmosferico
fin al fondo punzonato d’oro».181 Guariento è documentato a Padova quasi ininterrottamente
fino al 1364, poi nel 1366 è a Venezia e nel ’67 nuovamente a Padova. Egli risulta già morto
nel 1369.
Da attribuire alla metà del secolo sono due Santi che decorano gli sguanci di due finestre
della cappella privata dei Gonzaga a Mantova. Sono immagini bellissime che raffigurano
forse Il profeta Davide e una Santa Martire. Un altro affresco nella stessa sala ci è parzialmente
giunto, una Crocifissione di Cristo, di altro maestro e di datazione incerta, che Cristina
Guarnieri propone ora di anticipare agli anni Trenta, subito dopo l’assunzione del potere da
parte dei Gonzaga.182
Intorno alla metà del secolo, o subito dopo, vengono dipinti gli affreschi della Collegiata
di Santa Cristina in Bolsena. Sulla parete sinistra della cappella vi sono due riquadri che
Serena Romano definisce di notevole interesse. Un Cristo che mostra la piaga del costato e,
inginocchiata ai suoi piedi, Santa Cristina. Alla destra di questo affresco, un altro, ma la cui
unità è compromessa da inserzioni successive. Dello stesso autore una santa affrescata su un
pilastro ed un cavaliere, forse Sant’Ansano. Sono questi affreschi che si riferiscono
all’ambiente senese, tra Lippo Memmi e Barna da Siena. Più prossimo all’ambiente viterbese
l’affresco con il cavaliere.183
A Subiaco, nel Sacro speco di San Benedetto. Alcuni decenni dopo il completamento
degli affreschi del Magister Conxulus, viene iniziata una nuova ed estesa decorazione pittorica
nella Scala Santa, nella Cappella della Madonna e nella chiesa superiore. I critici sono in
notevole disaccordo sull’attribuzione degli affreschi, e, di conseguenza, sulla loro datazione.
Una certa convergenza vi è comunque sul nome di Meo da Siena, o di qualcuno dei suoi
seguaci, come artista principale dell’opera. Se l’autore è Meo, che è morto nel 1338, gli
affreschi dovrebbero essere stati almeno iniziati precedentemente, se essi sono opera dei suoi
seguaci, allora l’arco di tempo più probabile è il 1346-1356.184
Al decennio 1340-1350 appartengono i non mediocri affreschi del santuario di Santa
Maria in Auricola ad Amaseno, feudo dei conti di Ceccano. I modi degli affreschi sembrano
riecheggiare il Maestro di Offida; «alcuni tratti molto raffinati di questi lacerti richiamano
invece cadenze avignonesi, vale a dire giovannettiane [Matteo Giovannetti]». Forse il
committente, o comunque il personaggio raffigurato inginocchiato, è il conte Annibaldo da
Ceccano».185
Intorno alla metà del secolo è da fissare la data di esecuzione della splendida
Crocifissione n° 1886/A del Louvre, che Pierluigi Leone de Castris assegna a Roberto
d’Odorisio.186
Viene attribuito a questi anni il fantasma di un capolavoro, recentemente scoperto nel
Duomo di Napoli, sull’architrave della cappella degli Illustrissimi. Affresco che Pierluigi
Leone De Castris definisce: «forse il capolavoro più alto della congiuntura Napoli-
Avignone».187 Ovvero delle esperienze provenzali di un grande pittore napoletano, forse lo
stesso Maestro di Giovanni Barrile. «La levatura di questi dipinti su marmo è – a guardar
1351
37
Carlo Ciucciovino
§ 46. Musica
Gherardello da Firenze, o meglio Niccolò di Francesco, che è il suo nome anagrafico, fino
a questo anno è cappellano di Santa Reparata e muta il suo nome in Gherardello,
probabilmente perché entra nell’ordine monastico dei Vallombrosiani. Egli è nato a Firenze
tra il 1320 e il 1325 e ha preso gli ordini tra il 1343 e il 1345. Dal 1360 fino al 1362 sarà Priore
della chiesa di San Remigio, posta sotto il patronato della famiglia Begnesi. Gherardello è un
compositore molto affermato nel campo della musica sacra, come ci conferma Franco
Sacchetti. Sono musicisti anche suo fratello Giacomo e suo figlio Giovanni. Poche
composizioni sacre, quelle per cui Gherardello è stato rinomato in vita, sono pervenute ai
nostri giorni, mentre, diverse sono le composizioni profane giunte: dieci madrigali a due voci,
una caccia a tre voci, cinque ballate ad una voce. Queste opere sono tutte contenute nel Codice
Squarcialupi; all’inizio della sezione che lo riguarda vi è un ritratto che lo potrebbe raffigurare.
Uno dei testi è di Franco Sacchetti e due sono di Soldanieri; gli altri sono anonimi.
Gherardello è il più antico musicista a noi noto dell’Ars Nova ed appare simile a Giovanni da
Cascia. Gherardello dovrebbe essere morto entro il 1363, infatti del 1364 è un sonetto di
Simone Peruzzi «per la morte di ser Gherardello, di musica maestro».191
188 LEONE DE CASTRIS, Napoli angioina, p. 416-417 per una descrizione dell’opera.
189 EZIO CHINI, Il Gotico in Trentino. La pittura di tema religioso del primo Trecento al tardo Quattrocento, in Il
gotico nelle Alpi, p. 263-264.
190 TOESCA, Il Trecento, p. 433-434.
191 E. SALVATORI; Gherardello da Firenze; in DBI vol. 53°; FABRIZIO DELLA SETA; Gherardello da Firenze; in
Dizionario Universale della Musica e dei Musicisti; vol. 3°; KURT VON FISCHER/GIANLUCA D’AGOSTINO;
Gherardello da Firenze; in The New Grove Dictionary of Music and Musicians; vol. 19°.
1351
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CRONACA DELL’ANNO 1352
§ 1. La guerra in Umbria
Due fuorusciti fiorentini, conestabili di fanti, mostrando di partirsi dal soldo del tiranno di
Gubbio, Giovanni di Cantuccio, entrano nel Perugino al comando delle loro truppe. Riescono a
impadronirsi del castello e Forte della Badia. Vi si stabiliscono e ne fanno la base per depredare il
territorio circostante, favoriti dall’aiuto di Giovanni di Cantuccio. I Perugini, per riacquistare il
dominio del territorio, vi pongono l’assedio. All’inizio di gennaio, un forte contingente di
cavalieri di Gubbio sta portando vettovaglie agli assediati, i Perugini sbarrano loro il passo, ma
gli Eugubini hanno una netta superiorità numerica: tre ad uno, decidono pertanto di forzare il
blocco. Un conestabile tedesco, di nome Ermanno, sbarra un ponte per cui gli Eugubini debbono
passare e li trattiene battendosi valentemente finché il resto dei cavalieri perugini non soccorre.
Contrattacca quindi dal ponte e mette in rotta i cavalieri di Giovanni di Cantuccio, prendendone
prigionieri un centinaio. I masnadieri che tengono il castello, disperando allora di poter ricevere
ulteriori aiuti, il 6 gennaio capitolano.4 Come accennato, il conte Nolfo da Montefeltro strappa ai
Perugini la città di Cagli.5
Giovanni Cantuccio si reca per consultazioni a Milano e conduce con sé Guadagno de
Landolo. Qualche giorno dopo la sua partenza, il podestà di Gubbio, Orlando degli Scarpi da
Parma, ordina di arrestare per debiti Ghino Magalotti, il quale fugge. Ripreso, si giustifica
affermando che credeva che fossero venuti ad arrestarlo per «lo tractato, lo quale alotta era in la
cetà», in altre parole si autoaccusa di partecipazione ad una congiura della quale nessuno sapeva
niente e ne svela tutti i particolari e gli aderenti. Il podestà decide di tenere la cosa segreta fino al
4 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 45; PELLINI, Perugia, I, p. 913-914. Sia il contenuto delle
note 3 che 4 di questo anno sono state già accennate nel paragrafo 39 dello scorso anno.
5 PELLINI, Perugia, I, p. 915 confessa di non conoscere i particolari dell’impresa.
Carlo Ciucciovino
ritorno di Giovanni. Quando questi rientra, senza neanche dargli il tempo di scendere dal
cavallo, il suo compagno Guadagno viene catturato ed interrogato dal podestà. Cinque
congiurati vengono condannati a morte e, per ordine del Gabrielli, la loro condanna convertita in
pena pecuniaria, da 200 a 800 fiorini a seconda della gravità del coinvolgimento. Solo Guadagno,
il maggiore colpevole è condannato a 1.200 fiorini, e gli viene dato un termine di 10 giorni per
pagarli, pena la testa. Guadagno paga, lascia in prigione, come ostaggio, suo figlio Matteo e va a
Perugia a organizzare la lotta per prendere Gubbio.6
Nel corso dell’anno, Giovanni di Cantuccio ha bisogno di denaro e chiede un prestito a ser
Giovanni de Briche di Cantiana, consegnandogli in ostaggio Guglielmo e Francesco di Necciolo,
Antonio di messer Bino e Selvaggino di ser Nuccio, tutti della famiglia Gabrielli, catturati all’atto
del colpo di stato. «Et perché Guglielmo era bello et piacevele, ser Vanni sel teneva a dormire
seco».7
§ 2. Piemonte
Il 16 giugno 1351, i soldati viscontei assediano Ceva, i cui marchesi appoggiano Giovanni II
marchese di Monferrato. Il 19 ottengono la villa ed il castello. All’inizio di gennaio 1352, il
marchese è a Moncalvo, perché si teme un attacco dell’esercito visconteo. A giugno del 1352 poi
fortificherà Gassino.8 Tutte queste sono deboli azioni militari in un momento di stasi, nel quale i
potentati della regione, liberati dalla presenza angioina, guardano in preoccupata attesa al
formidabile potere visconteo, che può contare sull’alleanza del Savoia Acaia e, in misura ancora
da determinare, con quella del conte di Savoia, che ha ospitato Bernabò e Galeazzo ai tempi del
loro esilio e che si è imparentato con Galeazzo.
verso le terre degli Ubaldini. VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 55.
1352
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La cronaca del Trecento italiano
case e, col favore delle tenebre, massacrarli, si guardano bene dall’uscire dal relativamente
sicuro riparo delle loro case. Tuttavia, gli aggressori tardano troppo a segnalare al grosso
delle truppe che tutto è filato liscio ed invitarli a raggiungerli per prender possesso della
posizione. Anche nel buio, alcuni terrazzani riescono a scorgere le odiate insegne degli
Ubaldini, raggiungono i conestabili fiorentini e li convincono della loro innocenza. Nelle
tenebre avvengono febbrili concertazioni e, finalmente, la guarnigione riesce ad unirsi ai
cittadini e assale i soldati ghibellini, ammassati e non ordinati, nella piazza. La rotta è
immediata, i 250 arditi quasi non si difendono, pensano solo a fuggire, rotolandosi nei fossati.
Vengono catturati dodici uomini, tra i quali alcuni conestabili, che vengono inesorabilmente
impiccati.10
10 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 55; Chronicon Estense,² p. 182 parla di 8 morti e 10
impiccati. AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. X, anno 1352, vol. 3°, p. 157-158.
11 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 65; PELLINI , Perugia, I, p. 917; LEONARD, Angioini di
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Carlo Ciucciovino
signori minori: in pratica tutto l’Appennino toscano. Una concentrazione di potere enorme, tale
da atterrire le povere Firenze e Perugia, nonché la tiepida Siena, che, sole, resistono a tanta
forza.14
18 Benedetto di Manno ha preso in sposa madonna Ungara, sorella di Petruccio di Pepo; Ephemerides
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La cronaca del Trecento italiano
20 Chronicon Estense,² p. 183-184; MONALDESCHI MONALDO, Orvieto; p. 108 recto e verso; GUALTERIO,
Montemarte, 2°, p. 178.
21 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, p. 133-135; LA LUMIA, Matteo Palizzi, p. 141-145. MIRTO, Il regno dell’isola
di Sicilia, p. 46-47 pone l’evento nel 1352 con qualche ragione perché Michele da Piazza lo mette nella V
indizione, che è il 1352.
22 Chronicon Estense,² p. 182; DORINI, Spinetta Malaspina, p. 326-352 e, per il testamento p. 440-475. Le figlie
di Spinetta sono Novella (ved. di Lucemburgo Spinola), Chidda (sp. Feltrano da Montefeltro), Isabetta
(sp. Federico Malaspina). Spinetta lascia un figlio naturale di cui conosciamo il nome: Franceschino
detto di Varzi, ma forse ne aveva altri 4.
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La cronaca del Trecento italiano
§ 15. Montepulciano
Sabato Santo d’aprile, il 7 aprile, fallisce un tentativo di Jacopo Cavalieri di impadronirsi di
Montepulciano con l’aiuto dei cavalieri ghibellini di Giovanni Visconti. A tradire Jacopo è un suo
parente, Nicola, che svela il complotto ai governanti. Jacopo fugge a Siena, ritenterà in
novembre.31
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Carlo Ciucciovino
36 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 5 e 6. Il patto contiene le seguenti clausole: Entro luglio
Carlo IV sarebbe in Lombardia con 6.000 cavalieri a portar guerra contro Giovanni Visconti. Duemila
degli armati li fornirà l’imperatore, 1.000 la Chiesa, altrimenti a Carlo l’onere, i restanti 3.000 li
assolderanno i 3 comuni. Questi inoltre gli daranno 200.000 fiorini d’oro, e, quando Carlo sarà ad
Aquileia, altri 10.000. La ripartizione dei soldati tra i 3 comuni è la seguente: Firenze partecipa con 1550,
Perugia con 850, Siena con 600. Se in un anno il conflitto non ha termine, bisogna rinnovare i patti per
tempo. I 3 comuni riconoscono Carlo come imperatore, questi nomina come suoi vicari i Priori di
Firenze ed i signori Nove di Siena; Perugia si sottrae perché intrisa di fedeltà alla Chiesa fino al midollo.
Comunque i 3 comuni saranno liberi ed i loro statuti rispettati. Firenze pagherà annualmente all’Impero
26 denari a focolare, gli altri ciò che era consuetudine in antico. VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib.
III; cap. 7; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. X, anno 1352, vol. 3°, p. 163-164. Un cenno in CORIO, Milano, I,
p. 779.
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La cronaca del Trecento italiano
37VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 13. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 16; Rerum
Bononiensis, Cronaca B, p. 16; GIULINI, Milano, lib. LXVII. L’abate che il papa invia a Bologna per rendere
esecutiva la pace è per Giulini il futuro Urbano V, invece Sorbelli lo identifica con l’abate di Sasn
Germano; SORBELLI, Giovanni Visconti a Bologna, p. 67, nota 6. I retroscena della trattativa sono discussi in
SORBELLI, Giovanni Visconti a Bologna, p. 56-63.
38 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 59.
39 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 60; CORTUSIO, Historia,² p. 129; Breviarium Italicae
Historiae, col. 287. STELLA, Annales Genuenses, p. 151-152. Il comandante della flotta catalana è Ponzio de
Santpau, che, rimasto gravemente ferito in battaglia, morirà a Costantinopoli ; si vedano tutte le note di
Giovanna Petti Balbi a p. 151-152 degli annali genovesi per le differenze delle diverse cronache sul
numero delle galee. Roberto Cessi commenta : «la situazione dei Genovesi in Levante era tanto
migliorata militarmente e politicamente da poter essere considerata da essi senza apprensione e indurre
gli alleati alla ricerca di un teatro di operazioni più propizio che non fosse quello orientale». CESSI, Storia
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Carlo Ciucciovino
Dopo un poco di riposo, si riuniscono alla flotta genovese anche le sei galee fuggite
verso il Mar Maggiore. Riparate le navi, rifornite bene, la flotta va a Trapenon, cercando di
assalire i Veneziani. Ma questi sono ben difesi anche a terra e gli assalti sono vani.
Finalmente, sfruttando un vento favorevole, i Veneziani escono dal porto e con trentotto galee
vanno a Candia, dove sbarcano. Molti dei loro feriti qui muoiono. Due galee inviate a
domandar soccorso a Venezia, sono intercettate, una riesce a prender terra, l’altra si salva a
forza di remi.40
I Genovesi decidono di aggredire Costantinopoli. Ottenute dieci nuove galee da Genova
e sessanta legni turchi, si recano ad assediare la potentissima città. Il reggente Megas
Domestikos, cioè Giovanni Cantacuzeno, tratta la pace il 6 maggio. I Veneziani sono salvi, sia
nelle persone che nei beni, ma né loro né i Catalani possono stare nel porto, che è invece
riservato ai Genovesi. Quindi, i Genovesi vanno a Candia, sbarcano, e vengono affrontati e
fermati da 300 cavalieri e dalle ciurme sbarcate. Si ritirano e si accampano, ma la pestilenza
che ha colpito i Veneziani comincia a seminare malattia e morte nelle loro ciurme; si
imbarcano in fretta e veleggiano verso Genova: nel corso del viaggio gettano in mare ben
1.500 cadaveri. Dieci galee sono lasciate nel golfo di Venezia per danneggiare la Serenissima.
Ad agosto, 32 galee entrano nel porto di Genova; portano 700 prigionieri veneziani e molta
preda, ma è una triste vittoria, facendo il bilancio si trova che «all’ultimo di questa maladetta
guerra di questa armata, tra morti in battaglia e annegati in mare, e periti per pestilenza, tra
l’una parte e l’altra, vi morirono più di 8.000 Italiani».41
Sembrando a Venezia che la battaglia del Bosforo sia iniziata senza le opportune
previdenze, il 1° maggio delibera di inviare al capitano generale Nicolò Pisani quattro
provveditori che lo aiutino a organizzare la logistica. Tra loro Marin Faliero.42
della repubblica di Venezia, I, p. 312. ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 166-168; LANE, Storia di Venezia, p.
210-212; MELONI, L’Italia medievale, p. 79-81.
40 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 74.
41 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 75 GAZATA, Regiense, col. 71; GAZATA, Regiense², p.273;
ACCINELLI, Genova, p. 82; LOPEZ, Storia delle colonie genovesi nel Mediterraneo, p. 269-270.
42 Gli altri sono Marino Grimani, Giovanni Dolfin, Marco Corner; LAZZARINI, Marin Faliero, p. 49.
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La cronaca del Trecento italiano
tradimento, alleandosi con Giovanni V Paleologo, che dotano di 20.000 ducati d’oro,
ottenendone in cambio l’isola di Tenedo.43
Nell’autunno del ’52, Giovanni Paleologo, aiutato da 4.000 Serbi, irrompe nel dominio di
Matteo, figlio di Giovanni Cantacuzeno, pone l’assedio a Adrianopoli. Il Cantacuzeno
reagisce con l’aiuto dei Turchi, comandati da Solimano, figlio di Orkhān, che è a capo di
10.000 uomini. Alla fine del ’52, nella battaglia di Didimoteico, Cantacuzeno vince e il
Paleologo è costretto a ritirarsi. Giovanni Cantacuzeno è stufo di questa vita di conflitti: egli
sogna solo di ritirarsi sul Monte Athos e vivere una vita contemplativa. Occorre però
garantire un futuro a suo figlio Matteo e, nella primavera del 1353, egli compie il gran passo:
decide di nominare Matteo co-imperatore, per poi ritirarsi a vita privata. Egli chiarisce che i
Paleologi non sono stati deposti, il figlio di Giovanni V, Andronico, sarebbe stato il legittimo
erede al trono. Quindi, esilia tutta la famiglia imperiale a Tenedo. È stato un passo falso:
l’opposizione dei lealisti è fortissima e il patriarca si rifiuta di incoronare Matteo. Occorre
deporlo e nominarne uno nuovo, per riuscire, nel febbraio 1354, a ottenere la sospirata
cerimonia. Come se il Cielo fosse irritato, il 2 marzo un terribile terremoto sconvolge il regno
e Gallipoli viene distrutta. I Turchi guidati da Solimano si insediano sulle sue rovine e
rifiutano di allontanarsi da questo loro primo insediamento in terra europea. Il prestigio di
Giovanni Cantacuzeno è in declino. Il 21 novembre 1354 Giovanni V Paleologo, approfittando
del valido appoggio dei Genovesi,44 fugge da Tenedo, arriva a Costantinopoli, conduce il
popolo sceso nelle strade all’assalto del palazzo di Cantacuzeno e trionfa. Giovanni,
probabilmente ben consigliato da sua madre Giovanna di Savoia, dimostra una grande
mansuetudine: si dichiara disposto a regnare con il Cantacuzeno, mentre Matteo avrebbe
regnato su Adrianopoli fino alla sua morte. Tuttavia la popolarità di Giovanni Cantacuzeno è
ormai irrimediabilmente compromessa, anche per la sua amicizia con i Turchi, egli trae le
coerenti conseguenze e, il 4 dicembre, depone le insegne imperiali, insieme a sua moglie
Irene, quindi veste il saio del monaco e si ritira in monastero. Qui vivrà fino al 1383,
dedicandosi alla preghiera ed alla stesura della sua opera storica. Giovanna di Savoia ha ben
difeso la sua progenie e trionfa. Nel 1357 il monaco Cantacuzeno convincerà suo figlio Matteo
ad abdicare.45
43 Il provveditore che, su mandato di Nicolò Pisani, tratta l’accordo è Marin Faliero. LAZZARINI, Marin
Faliero, p.50.
44 Si veda in proposito PETTI BALBI, Simon Boccanegra, p. 390-391 e la romanzesca narrazione di DUCAS,
bizantino, p. 471-478. Tutto questo periodo è molto ben narrato, con dovizia di particolari, in NICOL, The
reluctant Emperor, p. 114-133.
1352
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Carlo Ciucciovino
complicare tutto, all’inizio di febbraio, «cadono nevi grandissime, l’una dopo l’altra e per
tutto il mese la campagna è innevata che tale era cavalcare il contado di Firenze come le più
ferrate Alpi».46
A marzo, migliorato il tempo, i Fiorentini assediano il castello con 300 cavalieri e 1.500
fanti. Installano due mangani con i quali producono notevoli danni alle case. Ma i Ricasoli
sono decisamente fortunati: inizia una pioggia che dura notte e dì fino a Pasqua, impedendo
ai Fiorentini di poter attaccare fino alla fine di aprile.47 Il 20 aprile, finalmente, avviene
l’attacco, ma con scarso ordine, molta baldanza e scarsa prudenza, infatti non sono stati
predisposti edifici d’assedio, né scale, per cui l’assalto, normalmente difficile, è inevitabile
che venga respinto: dopo tre ore di combattimento i masnadieri fiorentini si ritirano,
dimostrando la propria scarsa professionalità. Non rimane altra possibilità che la trattativa,
ed i Ricasoli ottengono tutto quello che vogliono: lasciare il castello, salve le persone e la
possibilità di trasportare con sé tutti i propri beni ammassati nella fortezza, ottenendo ben 15
giorni per tale trasloco. Il primo maggio, i Ricasoli e 158 masnadieri molto bella gente d’arme,
escono a testa alta dal castello e da questa avventura. I masnadieri fiorentini, per sfogare la
propria frustrazione non sanno fare niente di meglio che abbattere due rocche del castello.48
p. 158-159.
49 Diario del Graziani, p. 158; PELLINI, Perugia, I, p. 915-916 e VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II;
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La cronaca del Trecento italiano
dopo piccolo tratto di strada, incontrano i cavalieri del prefetto, con i quali, mestamente,
percorrono la via della fuga. Un presidio perugino rimane a Todi.50
50 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 57 e PELLINI, Perugia, I, p. 916-917.
51 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 77; CAMERA, Elucubrazioni, p. 143-144.
52 BOLANI, Reggio Calabria, p.193.
53 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 9; STEFANI, Cronache, rubrica 655; Diario del Graziani, p.
159; PELLINI, Perugia, I, p. 917; Cronache senesi, p. 569 il messo che reca l’annuncio a Siena viene vestito
con un abito che vale 40 fiorini. MIGNOT, Histoire de Jeanne Premiere, p. 175-178; LEONARD, Angioini di
Napoli, p. 455-456; FROIO, Giovanna I,p. 79-81; MOORE, Joanna of Sicily, p. 17-18; RAIA, Giovanna I d’Angiò,
p.103-106; TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 125-133; UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 206-209.
Gli abiti indossati dai reali nella cerimonia sono descritti in DE BLASIS, Le case dei Principi angioini, p. 128,
nota 1. BUCCIO DI RANALLO, Cronaca Aquilana, p. 210-212; CAMERA, Elucubrazioni, p. 154-156.
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Carlo Ciucciovino
gennaio 1351, la regina Giovanna ha scritto una lettera al papa nella quale ritrattava tutte le
antiche accuse a Nicola Acciaiuoli, sottolineando che, ora che il siniscalco era lontano da corte,
poteva valutare correttamente quanto egli fosse prezioso per la corona di Napoli.54
§ 25. Rieti
Il regime ghibellino che domina Rieti impedisce il passaggio a due legati pontifici, di
ritorno da Napoli dove hanno imposto la corona sulla testa di Luigi. Non solo: vengono loro
negati anche i viveri. Quando ne viene informato, la reazione di Clemente VI è molto vivace ed
impone ai vescovi di Orvieto, Rieti ed Assisi di disapprovare pubblicamente tale
comportamento. Inoltre, cita a comparire alla sua presenza ad Avignone tutto il governo
reatino.58
58 MICHAELI, Memorie Reatine, p. 86; i responsabili di tale comportamento, aggravato dal fatto che avviene
al calar della sera, sono Luzio di Eleuterio Alfani, una delle famiglie dominanti della città, e il Priore
Pietro di Bonaventura. DI NICOLA, Gli Alfani di Rieti, p. 26.
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La cronaca del Trecento italiano
§ 27. Orvieto
Il giorno 24 aprile arriva ad Orvieto Tanuccio degli Ubaldini della Carda, vicario
dell'arcivescovo di Milano, Giovanni Visconti. Infatti, Benedetto di Buonconte, prima della
sua morte, vistosi accerchiato dai fuorusciti e senza reale speranza di uscire da questa
disagiata posizione in tempi ragionevoli, ha scelto di dare la signoria perpetua di Orvieto al
campione dei ghibellini d'Italia: il Visconti. Bonconte di Ugolino di messer Bonconte e
Petruccio di Pepo decidono di confermare l’intenzione del defunto Benedetto.
Tanuccio non è un vicario di mano leggera, e vuole realmente governare, inoltre
sicuramente non si fida di questi Orvietani che non fanno altro che uccidersi e tradirsi. Il 23
maggio, istigato da Buonconte di Ugolino, impone a Petruccio di Pepo di consegnargli
Benedetto di Manno. Lo detiene nel palazzo del popolo. «Et per questo i figlioli di Pepo sì ne
parve ricevere igniuria, che prima erano signori et ora ricevevano cose che a loro non
piacivano».62
Una settimana dopo, giovedì 31 maggio, un tumulto popolare, tutto per Tanuccio e
Buonconte, conferma Petruccio di Pepo nella convinzione che tra i due vige ormai perfetta
intesa, da cui egli è tagliato fuori. Petruccio comincia allora a dimostrare la sua aperta ostilità,
con parole e fatti.
Sabato 9 giugno, all’ora del vespro, viene indetto consiglio nel palazzo del capitano del
popolo. Tanuccio convoca i figli di Pepo. L'intento è di imprigionarli se vengono, e lo stesso
se rifiutano di partecipare. Ma i figli di Pepo si rendono conto del pericolo e fuggono
calandosi con funi dalla rupe, dalla ripa di S. Maria. Si rifugiano nella rocca di Ripeseno,
fortissima, a meno di due miglia dalla città e di qui, immediatamente, cominciano a prendere
prigionieri ed a depredare i viandanti.
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Carlo Ciucciovino
Il 12 giugno gli Orvietani mettono assedio alla rocca. Dopo 15 giorni in cui non è riuscito
a far danno di sorta, l'esercito cittadino torna ad Orvieto. Rimangono all'assedio le sole truppe
mercenarie. Ma poco possono perché la rocca è facilmente rifornita dai conti Montemarte e
dal castello di Torri, appartenente a Petruccio. Il 27 luglio l'inutile assedio viene tolto. Intanto,
dal 22 giugno, è stata proclamata una tregua di qualche giorno tra Orvieto ed i figli di Manno
e Berardo e Montemarte, per discutere un'eventuale pace. Benedetto di Manno si offre di
trattarla e per poter riacquistare la sua libertà di movimento lascia in ostaggio due figli e dà
una cauzione di 10.000 fiorini. Il 3 luglio esce da Orvieto. Vi ritorna il 6, al tramonto, e la
brava gente di Orvieto che è stufa della guerra, vede nel ritorno il preannuncio della pace, e lo
onora festevolmente. I seminatori di discordia, i seguaci di Bonconte, vedono molto male in
questa allegria e si adoperano per far fallire la pace.
Il 21 luglio, Ranuccio di Nello di Pietro Novello, cugino di Petruccio di Pepo, e fuggito
da Orvieto insieme a lui, prende la fortissima Rocca Sberna, strappandola a Bonconte di
Ugolino, con un gustosissimo stratagemma a base di uova fresche.63 Buonconte, con cavalieri
e fanti va a riprendersi la storica rocca di famiglia, ma la trova già occupata e ben difesa. La
conquista della rocca vince le ultime resistenze di Bonconte, egli ora sa che, se fosse costretto
ad uscire velocemente dalla città, non avrebbe neanche dove ripararsi: è ormai giocoforza
accettare la pace.
Il 28 luglio i fanti che sono nella Rocca Ripesena tendono un agguato agli Orvietani. Ma
la sorpresa non riesce e, dopo uno scontro, gli attaccanti sono costretti a ripiegare, lasciando
alcuni cadaveri sul terreno. Tra questi è Pietro Bello, un conestabile toscano di fanti, uomo di
grande reputazione guerresca, ma anche di terribile fama per aver tormentato la malcapitata
popolazione della città durante il cupo dominio di Benedetto di messer Bonconte e di
Petruccio di Pepo. Quando si sparge la notizia che i Tedeschi hanno ucciso Pietro Bello,
l’esultanza degli Orvietani è immensa, e, portato il corpo vicino alla città, gran parte della
popolazione, inclusi donne e bambini, vengono per sincerarsi con i loro occhi della bella
notizia. Il cadavere viene straziato e bruciato. Qualche mano pietosa lo sotterra, ma la notte
seguente viene dissotterrato, smembrato e gettato nei campi.
Martedì 31 luglio la pace viene annunciata. I popolari rientrano: sono più loro dei loro
nemici. Il 4 agosto si accampano sotto Orvieto duemila cavalieri ed altrettanti fanti
dell'esercito visconteo. Sono comandati da Rinaldo Gonzaga e dal conte di Urbino e sono in
guerra contro Perugia. Si riposano fino al 19 agosto, poi partono, e, poiché hanno bisogno di
tutte le truppe disponibili per la loro campagna, si debbono portar dietro Tanuccio. Si decide
allora di far signore di Orvieto il prefetto di Vico. Bonconte di Ugolino di messer Bonconte,
che potrebbe opporsi all'ingresso del prefetto è simpaticamente imbrogliato da Tanuccio, di
cui si fida come di un padre: gli viene fatto credere che potrebbe impadronirsi di Cetona.
Allora, il 18 agosto, di buon’ora, esce da Orvieto per farsi dare aiuto dalle truppe viscontee.
Queste lo accompagnano fin sotto Cetona, poi lo abbandonano con un palmo di naso.
Domenica 19 agosto entra in Orvieto il prefetto Giovanni di Vico con 200 cavalieri e 300
fanti. Egli è accompagnato dai seguaci dei figli di Ermanno. Questi, appena rientrati, corrono
la città, assassinando per vendetta due uomini. L’energico prefetto si impone subito e vieta
che sia permesso portar armi in città. Il 21 si permette allo scornato Bonconte di rientrare.
Domenica 26 agosto tornano in città anche Benedetto di messer Bonconte e Berardo di
Corrado di messer Ermanno. Rientreranno l’8 settembre anche Petruccio e Nerone di Pepo di
63Tre fanti di Petruccio vanno sotto la rocca e chiedono di comprare uova per poter far merenda in un
luogo vicino alla rocca del Botto. Il presidio che guarda rocca Sberna, è composto di soli tre soldati,
perché il castellano il sabato precedente è andato ad Orvieto e, ovviamente, si è portato una bella scorta
per esorcizzare i cattivi incontri. Il presidio dunque apre candidamente la porta ai fanti Muffati che,
entrati, feriscono gli ingenui guardiani. Ranuccio di Nello, che è accampato nei pressi, vede il segnale
che gli comunica che la rocca è presa e vi entra rafforzandovisi. Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di
Orvieto, p. 53.
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La cronaca del Trecento italiano
messer Pietro, nonché Ranuccio di Nallo di messer Pietro e Nicolò di messer Ciuccio e
Tommaso di Cecco di Monaldo. Solo i Montemarte rimangono in esilio «ché mai ci volsimo
entrare, né dar voce che fosse lui (il prefetto di Vico) signore»,64 scrive il conte Francesco
Montemarte nella sua cronaca.
Alla fine di agosto un'ipocrita cerimonia di rappacificazione generale avviene in piazza
del popolo. Ma le due fazioni in lotta si ricreano in meno di una settimana, in particolare,
dimentichi dei dissidi che li hanno allontanati sotto la reggenza di Tanuccio, si riaccostano i
figli di Pepo e Bonconte. E, poiché il prefetto non consente, con pene severissime, che alcuno
porti armi in città, il potere si mostra facendo sfoggio di seguiti numerosissimi. Il prefetto di
Vico è però uomo di polso e il 10 settembre convoca le due parti al completo nel palazzo del
popolo e le sequestra. Impone una pacificazione reale, chiedendo 10.000 fiorini di cauzione a
ciascuna parte e la restituzione di castelli e rocche. I figli di Manno, più ricchi, ci mettono
cinque giorni a racimolare il denaro. I figli di Pepo dodici giorni. Il 20 novembre, il prefetto li
manda tutti65 al confino per evitare ribellioni.66
accidenti di Orvieto, p. 48-59; Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 225-
228; Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 450-451; ANTONELLI, Patrimonio,
p. 130-131.
67 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 19.
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lettere importanti per comprendere la sua biografia, reale o immaginaria, e che testimoniano i suoi
fantastici sogni. Tali lettere sono ben riassunte e commentate nella biografia di Carpegna Falconieri, e si
possono leggere in Epistolario di Cola di Rienzo, p. 96-218, lettere da 36 a 47; REALE, Cola, 182-206.
74 A. ROMANO, Cronica; p. 237-239.
75 A. ROMANO, Cronica; p. 239-240 che afferma che «una iusta catena teneva in gamma (gamba). La catena
era legata alla voita della torre»; DUPRÈ THESEIDER, Roma, p.634-636; e REALE, Cola, p. 208-210. DI
CARPEGNA FALCONIERI, Cola di Rienzo, p. 174-175 chiarisce che Cola fu consegnato ai legati pontifici nel
giugno 1352, pregando di trattarlo bene e di lasciarlo in vita.
76 OKEY, The Story of Avignon, p. 133 che nota che queste non sono le spese che si fanno per un
prigioniero incatenato, quindi la forma di cattività di Cola era una cortese prigionia.
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77 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 15; STEFANI, Cronache, rubrica 656.
78 Cronache senesi, p. 563-564.
79 Cronache senesi, p. 564.
82 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 18; DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 628; PINZI, Viterbo, III, p.
268-273; BUSSI, Viterbo, p. 198. In CALISSE, I Prefetti di Vico, p. 84-91 è il resoconto puntuale degli eventi.
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§ 37. Saluzzo
All’inizio dell’estate, gli uomini di Busca, sostenuti dai potenti lignaggi di Braida e
Venasca, si ribellano al marchese di Saluzzo; il loro scopo è di guadagnarsi l’indipendenza dal
marchesato. Solo Francesco di Venasca si dissocia dall’azione dei suoi parenti e preferisce
vendere il suo quarto del castello di Venasca al marchese Tommaso di Saluzzo per 5.000
fiorini. L’11 luglio, il marchese attacca il castello, nel quale si sono serrati i Braida, e lo
conquista. I Braida fuggono a Torino e riescono ad ottenere dal vescovo di Torino, Tommaso
di Savoia, una sentenza di scomunica contro il marchese.88
DELLA TUCCIA, Cronaca di Viterbo, p. 388-393 riporta alcuni documenti dove i nomi dei soldati assunti dal
rettore sono elencati. Dettagliatissimo ANTONELLI, Patrimonio, p. 123-128.
83 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 32.
84 CALISSE, I Prefetti di Vico, p. 91. FUMI, Codice diplomatico della città d’Orvieto, p. 533-537, Doc. 679 illustra i
decreti del rettore del Patrimonio, Angelo Tavernini, contro il prefetto Giovanni di Vico.
85 ANTONELLI, Patrimonio, p. 129-130.
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trecento cavalieri e trecento masnadieri in Bettona, ed il grosso delle forze ritorna a Cortona.93
Otto bandiere di cavalieri ghibellini vengono sorprese dai Perugini mentre sono alla ricerca di
foraggio e vengono in gran parte catturati.
I ghibellini intanto, per sorvegliare meglio la città assediata, si accampano fuori delle
mura di Bettona, di fronte alle bastie del campo perugino. L’assedio si trascina fino ad
agosto.94
Montecchio, presso Castiglione Aretino, è assediato dai Tarlati e dal signore di Cortona.
Le trattative di capitolazione sono molto avanzate, ma i Tarlati temono che, per la vicinanza
con Cortona, la signoria ne andrebbe inevitabilmente al signore di questa, ed allora
aggiungono altre richieste, procurando l’interruzione dei negoziati. Ma Bettona richiede
urgentemente aiuto e l’esercito è allora costretto a togliere l’assedio, concentrando i suoi
armati, 1.500 barbute e molti masnadieri, nelle vicinanze di Città di Castello, sperando che,
minacciandola, i Perugini si tolgano dall’assedio di Bettona per accorrervi. Infatti a Bettona i
ghibellini non possono arrivare, perché i guelfi hanno molto ben presidiato i passi.
Nel frattempo, gli assediati di Bettona, levate le porte dai cardini, per impedire che gli
abitanti le possano richiudere dietro di loro, compiono una sortita contro il Forte della
Chiesola, uno dei battifolle dei Perugini. Lo incendiano, corrono all’altro, ma sono intercettati
dai Fiorentini, prontamente accorsi, che li mettono in rotta, catturandone molti ed
uccidendone sessanta. I superstiti sono costretti a togliere il campo esterno ed a rientrare
entro le mura. L’assedio diventa allora più stretto e gli assediati sono costretti a mangiare i
loro cavalli. «Ivi non era né grano, né biada, né sale, né vino, vi haveano solo dell’olio, di cui
si servivano per còcervi dentro carne di cavalli e somieri, di che essi si cibarono, essendo privi
di ogni altra cosa, tutto il mese di agosto. (...) Ed erano tanto pallidi e smorti divenuti che
parevano propriamente la morte».
I ghibellini dell’esercito di soccorso, al comando del conte Nolfo da Montefeltro,
percorrono la valle di Chiusi ed arrivano ad Orvieto, da cui traggono altri cavalieri. Ora sono
in tutto 2.000 barbute. Nolfo conduce le truppe nel piano del Materno fino al castello di
Pietrafitta. Filippo di Cecchino di messer Vinciolo, fuoruscito di Perugia dopo la morte del
padre, al servizio del conte Nolfo, conduce l’attacco con uno stendardo in mano, sotto la torre,
ma una pietra gli viene gettata sulla testa, uccidendolo. Il conte Nolfo riesce a conquistare il
castello, vuole ora andare contro Bettona, ma i passi rimangono strettamente sorvegliati e
l’impresa è impossibile. Il conte è costretto a ritornare ad Orvieto, dove il 4 agosto però
Tanuccio della Carda gli impedisce l’ingresso, obbligandolo ad alloggiare nel borgo fuori le
mura. Nolfo dimora per un poco nel piano del Paglia, poi si reca a Cetona, Montepulciano,
passa nell’Aretino ed infine va a Borgo Sansepolcro ed, infine, a casa.95 Dentro Bettona sono
rimasti il signore di Cortona, Bartolomeo Casali, e Ghisello degli Ubaldini. I viveri mancano,
150 cavalli sono già stati macellati, ma le trattative di capitolazione non sono possibili perché i
Perugini vogliono fortemente imprigionare i comandanti ghibellini. È il guelfo messer
Crispolto che sta trattando segretamente con i Perugini, cui ha dato due figli in ostaggio, in
garanzia della sua buona fede. Ma Ghisello e Bartolomeo hanno compreso cosa si sta
tramando alle loro spalle e, comprata la parola d’ordine,96 si travestono da ribaldi e filtrano
attraverso le linee nemiche. Quando i soldati apprendono che i loro capi sono in salvo,
catturano messer Crispolto ed uno dei Baglioni, e li usano come merce di scambio, per
93 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 17; Diario del Graziani, p. 159-160; PELLINI, Perugia, I, p.
919-922.
94 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 24; Cronache senesi, p. 569; MANCINI, Cortona, p. 197-198;
PELLINI, Perugia, I, p. 922; AZARIO, Visconti, col. 330; e, nella traduzione in volgare, p. 61-62 ipotizza che i
Fiorentini abbiano corrotto il capitano visconteo Rainaldo Assandri.
95 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 25.
96 Procacciando per denari il nome di quella notte, dice poeticamente Villani. VILLANI MATTEO E FILIPPO,
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ottenere una qualche capitolazione. I patti sono: salve le persone, ma lasciando armi e cavalli
e giurando di non più combattere contro Firenze e Perugia. Il 19 agosto il comandante
dell’esercito guelfo, Andrea Salamoncelli, «senza che si mettesse pur mano ad una spada»,
prende i luoghi forti e consente ai soldati di saccheggiare la città. Tutti gli abitanti si sono
raccolti sotto la protezione della Chiesa, al riparo dalle violenze. Tutti gli uomini, 104, sono
legati e trascinati a Perugia, e dietro di loro, gridando e piangendo, vengono le loro donne,
madri, mogli, figlie. I prigionieri vengono messi nelle prigioni del campo di battaglia, mentre
i Perugini tumultuano gridando: «Impicca, impicca i villani di Bettona!». Bastardo Baglioni,
con le mani legate, cavalca un piccolo ronzino. Bastardo e messer Crispolto, con il suo
berretto di vaio, vengono esposti da una finestra del Palazzo del capitano del popolo,
«affinché ognuno li potesse vedere». Il capitano del popolo li giudica e, trovandoli colpevoli
di tradimento, li condanna a morte. Il 28 agosto messer Crispolto viene decapitato vicino alla
fonte, tra il Palazzo dei Priori e San Lorenzo, ma «posto sopra un tappeto, come conveniva a
un gentiluomo di quella portata». Nel frattempo, Bastardo Baglioni, altri sei di Bettona, e lo
Speccia da Cortona sono condotti al campo di battaglia, dove sono gli altri prigionieri, e qui
vengono decapitati. Tutti gli altri abitanti di Bettona sono perdonati, ma la città viene
distrutta, le case metodicamente saccheggiate e bruciate, le mura scaricate. Nessuno può
avvicinarsi a meno di un miglio dalle rovine della città.97
§ 41. Casole
I figli di messer Rinieri da Casole di Volterra, da valenti giovani quali sono, raccolgono
segretamente masnadieri ed amici ed il 15 luglio entrano nella terra di Casole che è presidiata
da Siena. La sorpresa è completa: gli armati corrono a casa dei loro nemici, facendoli a pezzi.
Saccheggiano e bruciano le case, scacciano i superstiti, e, vittoriosi, si accordano con i Senesi,
accettandone la podestà, ma ottenendone il riconoscimento di casata dominante.98
97 Per tutto il paragrafo Annali di Perugia,p. 68; Diario del Graziani, p. 160-166; PELLINI, Perugia, I, p. 922-
927; VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; 26; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 16; Rerum
Bononiensis, Cr.Bolog., p. 17; Chronicon Estense,² p. 185; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. X, anno 1352, vol.
3°, p. 167-168 e AZARIO, Visconti, col. 330-331; e, nella traduzione in volgare, p. 61-63. Pietro Azario è
testimone oculare della vicenda e il suo racconto delle privazioni degli assediati è toccante. Il capitano
visconteo Assandri, privato del comando, viene detenuto in casa Azario e gli allega qualche attenuante
del suo comportamento. Per le pressioni del papa, si veda COGNASSO, Visconti, p. 208-209. Solo un cenno
in ASCANI, Due cronache quattrocentesche, p. 58.
98 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 21; Cronache senesi, p. 569 dice che Casole viene presa il
22 luglio.
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Carlo Ciucciovino
sulla piazza. «Il capitano ne fu molto biasimato. Questa dicollazione si tirò dietro materia di
grande scandalo».99
99 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 22; COPPI, Sangimignano, p. 274-276 con qualche
maggior dettaglio; PECORI, San Gimignano, p. 169. Si veda anche 1351, paragrafo 23.
100 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 27 e Diario del Graziani, p. 166; PELLINI, Perugia, I, p.
3°, p. 169.
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La cronaca del Trecento italiano
armi e scaccia Luca Savelli da Roma. Ma, presto, il facinoroso Luca rientra ed il rettore, non
riuscendo a radunare il popolo armato perché lo sostenga, con un po’ di fiorini che si trova in
cassa, si dà alla fuga, va in Abruzzo, si compra un castello, sicuro rifugio della sua vecchiaia,
«avendo abbandonata la snervata repubblica, meritandolo per la sua (della repubblica)
incostanza». Gli succedono Bertoldo Orsini e Stefanuccio Colonna.103
§ 47. Bologna
L’8 settembre, un abate inviato dal pontefice assume il governo di Bologna e poi lo
restituisce al Visconti, per 12 anni, come vicario della Chiesa. L’11 settembre l’abate riparte e si
reca a Ferrara dove il 19 restituisce la città al marchese Aldobrandino d’Este.104
§ 48. Senese
Siena trascorre la tarda estate e l’autunno in diverse operazioni militari per tenere sotto
controllo il territorio. A settembre invia un grosso esercito in Valdichiana a Monte San Savino,
con l’appoggio di una compagnia di avventurieri, quella di Corrado Lupo. Ad ottobre prende
Pian Castagnaio. Maestri senesi edificano il fortilizio di Casole ed iniziano la costruzione del
cassero, che ci vorranno ben due anni a completare. Viene sventato un tentativo di prendere il
castello di Monticchiello.105
103 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 33; DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 628-629.
104 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 16.
105 Cronache senesi, p. 570.
106 Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 17; Chronicon Estense,² p. 185; VERCI, Storia della Marca Trevigiana,
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§ 51. Patriarcato
Il 1° ottobre il patriarca tiene parlamento in Udine e qui viene stabilita la consistenza
delle forze che ogni potentato deve fornire, ottimo strumento per valutare l’entità relativa dei
vari comuni e nobili. Ad esempio, i signori di Prata debbono fornire 16 elmi e 5 balestrieri, lo
stesso debbono fare i signori di Porcia. Spilimbergo e Zuccula si vedono aumentata la propria
taglia di 2 elmi e 2 balestrieri, per un totale di 14 elmi e 4 balestrieri «per il ricco loro stato e
aumentata potenza». Il contributo più rilevante è quello del comune di Udine e dei
Savorgnano che forniranno 45 elmi e 25 balestrieri.112
112 DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 108, nota 1 che si estende fino a p. 111.
113 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 35; Chronicon Estense,² p. 185-186 che afferma che il
comandante dei Fiorentini è Francesco Brunelleschi.
114 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 36; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. X, anno 1352, vol.
3°, p. 170.
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La cronaca del Trecento italiano
fosse venuta a terra havrebbe coperta tutta la Italia e maggiore paese. Vedemmo seguire in
questo anno diminuzione di acque, che dal maggio all’ottobre non furono acque, che
rigassono la terra, se con tempesta di gragnuola, e fortuna di disordinati venti non venne, e di
quelle niuna, che con frutto della terra entrasse».115
Anche le cronache di Bologna registrano lo stesso fenomeno: il 12 ottobre, «sonando il
secondo segno della guardia, e avea la luna 4 giorni, apparve nell’aria un segno a modo d’un
fuoco, quasi a modo di serpente, rendeva tanto splendore in ogni parte, come farebbe tutta la
luna, e venne da ponente, e parve andasse a mezzodì, e passò così a modo di volo, ma
bassissimo».116
§ 55. Montepulciano
Messer Jacopo de’ Cavalieri di Montepulciano, bandito dalla sua terra perché voleva
insignorirsene, alla testa di 100 cavalieri viscontei e di quelli forniti da amici ed alleati, la notte
di venerdì 2 novembre si reca di fronte ad una delle porte di Montepulciano, custodita da un
notaio di San Miniato al Tedesco, che la spalanca. Jacopo con tutti i suoi penetra in città,
giunge sulla piazza, la leva a rumore. Ma la reazione di Nicolò Cavaliere, suo congiunto e
uomo di gran valore, è immediata: si arma e, con pochi dei suoi, monta a cavallo assalendo gli
invasori e mettendoli in fuga. Jacopo rimane con 25 cavalieri, gli altri si disperdono nel
contado. Il notaio e 75 cavalieri sono fatti prigionieri dal popolo prontamente accorso al
suono della campana. Il notaio e 25 di questi vengono impiccati, gli altri smozzicati.118 Messer
Nicolò ed i suoi fratelli, intanto, aiutano con rifornimento di viveri i Perugini che sono al
campo sotto Cortona, e, inoltre, donano loro un luogo del Chiugi, molto comodo per
l’esercito, lo Zeppo di Vagliano. Ma Jacopo, il fuoruscito, riparato a Siena, ha a sua volta
promesso quel luogo ai Senesi, qualora questi lo vogliano aiutare a rientrare a
Montepulciano.119
115 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 37; è forse lo stesso fenomeno celeste riportato da
19, appena un poco italianizzato. Anche BAZZANO, Mutinense, col. 617 che aggiunge che il fenomeno
dura il tempo di recitare mezza Ave Maria. Si veda anche GRIFFONI, Memoriale, col. 168-169.
117 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 38.
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120 Per qualche dettaglio si veda MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, p. 136-152; LA LUMIA, Matteo Palizzi, p. 145-
156.
121 Manfredi nel giugno del 1353 è stato gravemente ferito da Pietro Borello presso Burmanno. Egli è
sopravvissuto fino ad ottobre, poi ha chiuso definitivamente gli occhi. LA LUMIA, Matteo Palizzi, p. 156,
nota 1.
122 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, p. 152-153, PISPISA, Messina medievale,p. 93-94; PISPISA, Messina nel
Trecento; p. 205-207; LA LUMIA, Matteo Palizzi, p. 154-159; MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 51-52.
123 COGNASSO, Savoia, p.141-142; COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 23-24. Si veda anche il paragrafo
44 del 1350 nel secondo volume di questa opera. D’ORVILLE JEAN, Chronique de Savoie, p. 183-187 narra
diffusamente l’attacco a Sion ed il torneo.
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anche l’accordo di pace. Guido Flotta verrà poi premiato venendo nominato signore di San Salvatore,
Raimplas, Valle di Blora e vicario di Nizza, ibidem p. 269.
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di tranquillità regnasse in Roma, mentre ora la città antichissima è tornata ad essere il regno
della violenza e dell’arbitrio dei baroni.
A novembre, comunque, Cola è riconosciuto colpevole, ma, mentre si decide la sua
pena, la Provvidenza interviene ed il pontefice muore.131
131 DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 636-637; DI CARPEGNA FALCONIERI, Cola di Rienzo, p. 175-176; REALE, Cola, p.
208-212.
132 «Soffriva di renella ed ebbe varie crisi: ascessi purulenti si formarono alla fine del 1351. Il giovedì 6
dicembre del 1352, mentre era assistito da un familiare, si aprì un tumore nelle spalle, provocando
un’emorragia interna che lo uccise». B. GUILLEMAIN, Clemente VI, in Enciclopedia dei Papi. La notizia è
naturalmente in tutte le cronache, esempio: Chronicon Estense,² p. 186 che sentenzia: inhoneste vixit in
luxuria. BAZZANO, Mutinense, col. 618 conta che il papa ha regnato 10 anni, 6 mesi e 24 giorni.
133 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 43; Diario del Graziani, p. 167; PELLINI, Perugia, I, p. 930;
MOLLATT, Les papes d’Avignon, p. 91-92 che è molto severo con il Petrarca per i suoi giudizi sul defunto
pontefice.
134 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 44 e 45;
137 OKEY, The Story of Avignon, p. 137 nota che la fretta dell’elezione era dovuta al fatto che il re di Francia
stava cavalcando alla volta della città pontificia e si temeva la sua ingerenza. A. ROMANO, Cronica; p. 220;
REALE, Cola, 210-213 e VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 44; PALADILHE, Les papes d’Avignon,
p. 193-202 descrive tutto il conclave e i festeggiamenti. ULLMANN, Il papato nel Medioevo,p. 295 narra il
tentativo dei cardinali di porre su base costituzionale i poteri che avevano man mano acquisito, questo
argomento è meglio approfondito in PIAZZONI, Storia delle elezioni pontificie, p. 165-166 e in MOLLATT, Les
papes d’Avignon, p. 97-99. MARCO BATTAGLI, Marcha, p. 56 sbaglia la data e mette l’elezione al 28
dicembre.
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diverse ambascerie. Egli, con Annibale da Ceccano, ha inutilmente cercato di mettere pace tra
Francia ed Inghilterra prima della battaglia di Crécy. Clemente VI lo ha nominato cardinale
vescovo di Ostia nel febbraio 1352. Il conclave lo elegge il 18 dicembre, dopo soli due giorni di
riunione.138
§ 67. Montepulciano
Jacopo de’ Cavalieri, fuoruscito di Montepulciano, fa pressione sui Senesi, tra cui si è
rifugiato, perché lo aiutino a riacquistare la sua città, contro il suo congiunto Nicolò che lo ha
esiliato. Ma Nicolò e fratelli, saputo dei preparativi senesi, si fortificano con l’aiuto dei
Perugini. I Senesi cominciano a cavalcare contro di loro, ma i terrazzani, con l’aiuto perugino,
si difendono valorosamente, «facendo vergogna alla cavalleria de’ Sanesi». Per questi eventi
cresce la rivalità tra Siena e Perugia; i Senesi chiedono poi ai Fiorentini aiuto, ma i Fiorentini,
sicuramente più inclinati per la fedelissima Perugia, che per la tiepida Siena, non vogliono
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140 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 49; GORI, Istoria della città di Chiusi, col. 936.
141 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 50; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. X, anno 1352, vol.
3°, p. 172-173.
142 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 53. Da quanto detto sopra, dovrebbe averlo
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§ 72. Le arti
Tomaso Barisini, detto Tomaso da Modena, affresca la sala capitolare di San Niccolò a
Treviso, raffigurando Domenicani illustri. Qui vi è la prima rappresentazione pittorica di
occhiali da vista. Poco dopo, il pittore esegue le Storie di Sant’Orsola, nell’omonima cappella
della chiesa di Santa Margherita. A questo proposito scrive Mauro Lucco: «la decorazione
capitolare in San Nicolò consacra un artista in pieno possesso dei suoi mezzi e con un tasso
sorprendente di innovazione stilistica. […] È una campionatura d’umanità non araldica, non
immobile al di là del tempo […] viva d’azioni fisiche o psicologiche in atto e perciò “reale”.
[…] Con questa impresa decorativa Tomaso ha praticamente sbaragliato il campo della
concorrenza cittadina, e nei sei anni in cui ancora soggiornerà a Treviso si darà ad un’attività
intensissima, quasi frenetica».145
Matteo Giovannetti completa la decorazione della grande Sala dell’Udienza, nel Palazzo
dei papi di Avignone. Quando depone il pennello, Clemente VI è già morto.
§ 73. Musica
Verso i suoi vent’anni Franco Sacchetti, il bimbo tornato da Ragusa nel 1337, inizia a
poetare, e la sua produzione poetica si spingerà fino al 1378. Molte di queste sono
espressamente composte per essere musicate ed infatti, alla fine, produrrà 54 ballate, 29
madrigali e tre cacce. È particolarmente interessante il fatto che Franco annoti con le sue mani
le sue rime, indicando se e da chi sono state intonate. Questo importante contributo alla storia
della musica nel secolo è nel MS Laurenziano Ashburnham 574. Franco è un membro della
società intellettuale del tempo, egli ha familiarità con molti dei più famosi musicisti fiorentini.
Tra il 1352 e il 1357 entra in contatto con Lorenzo Masini e poi con Francesco Landini. Di
Lorenzo dice: «chi avesse avuto in musica diletto, Lorenzo ritrovava e Gherardello, mastri di
quella sanza alcun difetto».146
144 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 48; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. X, anno 1352, vol.
3°, p. 173; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 19; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 19-20. Diario del Graziani, p.
167; MARCO BATTAGLI, Marcha, p. 56 e nota 6 ivi; PELLINI, Perugia, I, p. 929; Chronicon Estense,² p. 186 lo
registra al 1° gennaio 1353 e ci informa che il sisma ha colpito duramente anche Orvieto e Città di
Castello. ANCHE BAZZANO, Mutinense, col. 618 parla del 1° gennaio, di notte ed aggiunge che i morti sono
più di 2.000. Di 2.000 morti parla anche Breviarium Italicae Historiae, col. 287. AZARIO, Visconti, col. 331; e,
nella traduzione in volgare, p. 63 dice che «se i Saraceni avessero giurato di distruggere quel paese, non
sarebbero riusciti a ridurlo in quel modo in una settimana. Per grazia di Dio però poca gente vi morì».
Questo è però solo il primo terremoto, quello di Natale, qualche giorno dopo il sisma si ripete e questa
volta con perdite. GAZATA, Regiense, col. 71; GAZATA, Regiense², p.273 parla di 3.000 morti. Si legga il
racconto di AMIANI, Fano, p. 278 che ha toni favolistici, collegando il terremoto ad un caldo eccessivo, a
globi di fuoco avvistati in tutta Italia, al fulmine che colpisce il campanile di San Pietro a Roma. FARULLI,
Annali di Sansepolcro, p. 25 indica la data errata del 16 dicembre e parla di 2.000 morti. Appena un cenno
al terremoto in COLESCHI, Sansepolcro, p. 48.
145 LUCCO, Pittura nelle province venete, p. 134-137. Per la descrizione del ciclo, si veda GIBBS, Pittura a
Treviso, p. 195-197.
146 DANIELE FUSI; Sacchetti Franco; in Dizionario Universale della Musica e dei Musicisti; vol. 6°.
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CRONACA DELL’ANNO 1353
Strozzi, che rappresenta anche Perugia, Siena, Arezzo, Pistoia, Città di Castello. Partecipano anche
Aldobrandino d’Este, Bosio degli Ubertini, gli Ubaldini, Bartolomeo Casali, e fratelli, signori di Cortona,
Nolfo conte di Montefeltro, Piero Saccone, Riccardo e Galeotto, conti Mutilanensi, per la comunità di
Fabriano, Sansepolcro e Gubbio, il marchese Gino di Pettiolo, Federico ed Azzo Malaspini, marchesi di
Villafranca, Gentile da Mogliano, Francesco Castracani, Picinello Moschalia, Luchino dal Verme,
veronese, nobile cavaliere, Jacopo Pagino, Aldobrando de Soli, Giovanni conte di Bruscolo, Tano di
Montecarelli e vari altri, in tutto 40 capi. CORIO, Milano, I, p. 779-780; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 20;
Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 20; GIULINI, Milano, lib. LXVII; VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III;
cap. 47.
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4 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 54. Marin Faliero e Marco Corner sono gli incaricati di
Venezia che si recano alla corte del re d’Ungheria; LAZZARINI, Marin Faliero, p. 51.
5 BONOLI, Storia di Forlì, p. 401 li dice «splendidamente alloggiati dall’Ordelaffi», stessa notizia in
tale paragrafo di Matteo Villani per un esauriente ed impressionante elenco dei possedimenti e degli
alleati viscontei.
7 Chronicon Estense,² p.186-187; Diario del Graziani, p.167-168; PELLINI, Perugia, I, p. 931; Annales Caesenates,
Trevigiana, tomo 13°, p. 160-161. Niente di originale in CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova, p.
222. Giacomino è nato nel 1325 da Lieta Forzatè.
9 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 13°, p. 161-162. Giambatista Verci ipotizza con molta cautela il
possibile coinvolgimento nella congiura del vescovo Enrico. MICHIELI, Storia di Treviso, p. 58.
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§ 5. Orvieto
Martedì 8 gennaio, il prefetto consente a tutti i Monaldeschi di rientrare in Orvieto. Ma
Muffati e Malcorini, rientrati, continuano ad ignorarsi. I figli di Manno sono indubbiamente
più vicini al prefetto che non i figli di Pepo.10
L’ 8 febbraio, la tensione continua tra i partiti genera un tumulto: tutta la gente, armata,
si riversa nelle vie e, per far capire di che parte è, grida: «Viva il prefetto!», che e' come dire:
«Noi siamo per l'ordine costituito!». A queste grida non si uniscono i figli di Pepo e
Buonconte di Ugolino, che anzi stanno rinserrati nelle loro case. Bernardo di Corrado di
Manno vorrebbe andare ad assaltare le case di Buonconte, ma il prefetto lo impedisce
vigorosamente. Il prefetto si reca personalmente dai figli di Pepo e da Buonconte e se li porta
al palazzo del capitano, per proteggerli. Non avendo nemici con cui battersi, i disordini
muoiono di morte naturale e la gente si disarma.
Il 15 febbraio transitano per Orvieto i reali di Napoli che il re d'Ungheria ha rilasciato:
Luigi, duca di Durazzo (il fratello dell'ucciso), Roberto, principe di Taranto e Filippo. Gli
Orvietani sono stupiti dal gran nome dei reali e dalla miseria del loro seguito di soli 100
cavalieri. Stanno un giorno in città poi si recano a Roma, e di lì in Puglia.
Continuano a serpeggiare voci di colpo di stato. Il prefetto, domenica 17 febbraio,
convoca nel palazzo i capi delle due parti, per capire meglio cosa stia accadendo, ma non
riesce a venire a capo di niente. Li tiene prigionieri, poi, il 23 febbraio, manda due dei
principali figli di Pepo: Petruccio e Nerone, a Viterbo e ve li mantiene, per evitare disordini.
Usciti questi, consente ai figli di Manno e di Berardo di tornare alle loro case. Rimangono solo
gli altri figli di Pepo: Nicolò e Buonconte di Ugolino possono andare dove vogliono, ma non
rimanere in città, quanto a Monaldo di Pepo, lo considera totalmente innocente di tutta la
turbolenza in atto e gli consente di rimanere, anzi lo tiene nel suo seguito. I Muffati hanno
prevalso.11
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Il duca Gualtieri di Brienne, andata male l’impresa di Taranto, non ha smesso di mestare
nel torbido, ed ha seminato inimicizia tra Filippo di Taranto e Francesco, il figlio di Diego della
Ratta, ora conte di Caserta. Ma questi è nelle grazie di re Luigi, che, malvolentieri è costretto a
bandirlo, per le insistenze di suo fratello maggiore. Il conte però non è disposto a subire e si
rinforza nelle sue terre, tenendo Sesto e Tuliverno. Ora il principe di Taranto e Gualtieri di
Brienne lo vanno ad assediare con cento cavalieri, trecento ne porta re Luigi in persona, che non
può accettare ribelli nel suo dominio. Un giorno, essendo il re nel castello di Maddaloni, sopra
«lo sporto che chiamavano ghefo», viene catturato un Ungaro che milita col conte di Caserta. Lo
accompagnano dal re, ma è tale la folla che, scioccamente, lo segue, «come se havessono preso il
re degli Unni», che la struttura crolla; diciassette persone muoiono e molte rimangono storpiate.
Il re, un po’ in disparte, non è sulla parte che crolla, Filippo di Taranto invece cade, ma sopra i
caduti, ne esce illeso, ma spaventato. Dopo qualche tempo, visto inutile l’assedio, l’esercito parte.
Il conte di Caserta cavalca per la Terra di Lavoro, depredando i passanti e spingendosi fino alle
porte di Napoli, con trecento cavalieri. Nessuno lo disturba più.15
§ 8. Carestia
L’Italia soffre per la carestia. A Firenze uno staio di grano si vende a 40-52 soldi, a
Bologna una corba di frumento a lire tre di bolognini.16
I governanti che hanno un minimo di buon senso spendono molto facendo affluire
continuamente approvvigionamenti alimentari da fuori: Giovanni d’Oleggio fa arrivare il
frumento dalla Lombardia ed i suoi cittadini lo possono comprare a 50 soldi/corba.
Anche i panni di lana e lino e seta subiscono notevoli rialzi, e così le calzature. Tali
aumenti di prezzo si debbono ascrivere, in una qualche misura, all’aumentato costo del cibo,
ma, ovviamente, anche alla carenza di manodopera seguita alla peste del ‘48. Peste che
continua a far sentire i suoi effetti nella psicologia collettiva, spingendo la popolazione a non
voler soffrire, a fuggire i sacrifici, come ci dice Matteo Villani: «E questo avvenne perché tutti
erano ricchi e de’ loro mestieri guadagnavano ingordamente; più erano pronti a comperare e
a vivere delle migliori cose, non ostante la carestia».17
La carestia costringe il governo di Firenze a cercare frumento in ogni luogo, Turchia,
Provenza, Borgogna, Calabria. Il grano arriva a costare 60 soldi per staio. Gli accaparratori,
temendo che effettivamente arrivi una gran quantità di frumento dall’estero, aprono i loro
magazzini ed immettono sul mercato quello che hanno: il prezzo piomba a 25 soldi per staio.
Arrivano in effetti 12.000 staia di grano dalla Provenza, ed il prezzo cala a 20 soldi per staio. Il
comune ha speso 30.000 fiorini; fortunatamente non arriva il grano dalla Turchia, altrimenti la
spesa totale del comune sarebbe stata di 100.000 fiorini.18
15 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 83; ESPERTI, Caserta, p. 242-243; per notizie su Francesco
della Ratta, conte di Caserta, ibidem p. 242-244. CAMERA, Elucubrazioni, p. 165-166 prende la notizia da
Villani.
16 Un’interessante campionatura di prezzi si trova in VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap.
56.Uno staio di grano da 40 a 52 soldi, arriverà fino a 5 lire per uno staio di qualità scadente. Panico: 45-
50 soldi/staio; saggina: 30-35 soldi/staio; vino di vendemmia: quello di qualità inferiore, 6 fiorini/cogno;
il migliore, da 8 a 10. Carne di porco senza gabella 11 lire il centinaio; castrone: 28-30 denari/libbra;
vitella di latte: 30-40 denari/libbra; 1 uovo: 5-6 denari; loglio: 5,5-6 lire. Un fiorino vale 3 lire ed 8 soldi
di piccioli. Anche in Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 20-21; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 21-22, si
riportano prezzi: una corba di frumento o fava 3 lire di bolognini; vino: 2 soldi/quarta (60 quarte=1
corba); manzo: 12 denari/libbra.
17 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 56.
18 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 76. Matteo Villani quest’anno ha 55 anni.
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Gimignano; p. 170-171.
22 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 88.
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Ma non tutti i furti possono essere ascritti ai giovinastri. La goccia che fa traboccare il vaso è
il furto di 45 pezze di panno, in una bottega dell’arte della lana, in Santo Brancazio. Il podestà,
messer Paolo Vajani, «huomo savio ed astuto e pratico», prova vergogna per la sua incapacità di
venire a capo del problema. Organizza allora un servizio di sorveglianza, impegnandosi in
prima persona; sceglie le guardie e le pone nelle vicinanze del luogo del furto, ritenendo che
tante pezze non potessero esser state portate molto lontano, senza esser state notate. Le guardie
sono poste «in cateratte di botteghe, ed in finestre serrate di volte, che sono sotto le panche».
Dopo pochi giorni di sorveglianza, di notte, un gruppo di persone si reca furtivamente in uno dei
casolari sorvegliati, imballa la refurtiva, e, per via della Scala, perviene alle mura della città. Saliti
sulle mura, passano le merci a complici esterni, che si ripromettono di portarla, per barca, a Pisa.
Il podestà, trionfante, fa seguire quelli che vanno sulle mura, fa bloccare coloro che stanno
imballando. Al momento giusto li arresta. Sono in quattro, due maestri e due bastagi (facchini); è
però palese che questi ultimi sono incolpevoli, pertanto, dopo un breve tratto di fune, sono
liberati. I due maestri vengono impiccati. Forse anche costoro sono degli esecutori di mandanti
collocati in posizioni più prestigiose, ma a Paolo Vajani non viene praticamente permesso di
spingere oltre le indagini.23
Messer Paolo Vajani, «huomo aspro e rigido nella giustizia», apprende di alcune
sopraffazioni fatte da un giovane di gran famiglia: Bordone, figlio di Chele Bordoni, «antico e
potente e grande popolano di Firenze». Bordone, saputo che sta per essere arrestato, si consiglia
col fratello, messer Gherardo, che gli suggerisce di fuggire se colpevole, ma di presentarsi, se
innocente, garantendogli tutto il suo appoggio. Bordone si costituisce, ma messer Paolo, con i
tratti di fune gli estorce la confessione e lo condanna a morte. La famiglia Bordoni ora si muove e
convince i Priori che la giustizia di messer Paolo è troppo cieca. I Priori esercitano inutilmente
pressioni sull’inflessibile Vajani, ed allora, esasperati, gli licenziano i collaboratori, così che egli
non possa più esercitare il suo ufficio. Il fiero Paolo, inacerbito, va al palazzo dei Priori e depone
la bacchetta, simbolo del suo potere, dicendo: «Poiché voi m’avete cassa la famiglia, ed io rifiuto
la bacchetta». I Priori lo pregano di ripensarci, almeno fino a domani. All’alba appena la porta
della città è aperta, Paolo esce e si reca a Siena. La cittadinanza è scandalizzata. «Il popolo,
sentendolo partito, quasi como comunità rotta, trassono al palagio dei Priori, e a quello del
podestà. E doglieasi, dicendo che i potenti cittadini, che faceano i grandi mali, non voleano che
fossero puniti; e i piccoli e impotenti cittadini, d’ogni piccolo fallo erano impiccati, e ismozzicati e
dicollati». La mattina su molti muri della città si trova scritto: «Egli è morto dovizia,24 ragione,
giustizia». I Priori, allarmati per il grande fermento popolare, mandano a chiamare messer
Vajani, che, abilmente, rifiuta finché non gli viene offerto un compenso addizionale, per gli extra
costi dovuti alla carestia, ben 2.500 fiorini. «E tornò, e tagliò la testa a Bordone, e fece buono
ufficio».25
26 Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 21-22; Chronicon Estense,² p. 188, e note 1 e 2 ivi che riportano i nomi
degli arcivescovi di Colonia: Guillelmus von Gennep, e di Praga: Arnestus von Pardubiz. Gli
ambasciatori veneti che, tra l’altro, hanno l’incarico di ottenere il sostegno di Carlo a proposito di Zara,
sono Marin Faliero e Marco Corner; il 14 marzo Carlo IV ordina cavaliere Marin Faliero; LAZZARINI,
Marin Faliero, p. 51
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27 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 52; Diario del Graziani, p. 168; PELLINI, Perugia, I, p. 929;
30 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 59; CERRETANI, St. Fiorentina, p. 135. Le condizioni che
riguardano Perugia sono riportate in PELLINI, Perugia, I, p. 934-935, essenzialmente consistono nelle
seguenti clausole: Saccone paghi 4.000 fiorini a Perugia per Valcaprese e la Rocca di Terraciano; Perugia
giudichi sul rientro dei Chiaravallesi a Todi; si perdona Paoletto da Spoleto per tutti i suoi carichi ed in
particolare per l’andata a Bettona; Contuccio di Tillo de’ Vincioli deve vendere a Perugia tutti i beni nel
Perugino e deve rimanere bandito; il comune deve rendere agli altri Vincioli, Cecchino e Lodovico di
messer Vinciolo e a Filippo, figlio di Cecchino, tutti i loro beni; che Perugia cancelli ogni procedimento
contro i figli di Tommaso Chiavelli di Fabriano, Gentile da Mogliano, messer Lomo da Iesi, Corrado e
Guido da Matelica, Giovanni, figlio di Bernardino, conte di Marsciano; Borgo Sansepolcro torna in
libertà e né Visconti, né Perugia possano averne il dominio, senza consenso reciproco; Agnari torni sotto
la giurisdizione di messer Magio, che, rientrato ad Arezzo, ne dia il dominio a Perugia, clausole di
salvaguardia dei beni di alcuni cittadini e funzionari e la promessa tra Visconti e Perugia di non
intromettersi nelle questioni reciproche. GAZATA, Regiense, col. 72; GAZATA, Regiense², p. 273. COGNASSO,
Visconti, p. 209-210; MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 710-711. Per un documento completo si veda:
DEGLI AZZI VITELLESCHI, La repubblica di Firenze e l’Umbria, p. 99-105. ASCANI, Apecchio, p. 51-53 cita un
documento, conservato nell’archivio segreto tifernate, che contiene le petizioni che gli Ubaldini hanno
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fatto ai negoziatori e che, con sdegno degli Ubaldini, non sono confluiti nel trattato di pace; da ciò
scaturisce un periodo di conflitti con il comune di Città di Castello. PASQUI, Arezzo, p. 116-123, doc. 818
pubblica la parte che riguarda Arezzo.
31 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 60.
32 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 61; SORBELLI, Giovanni Visconti a Bologna, p. 73-74.
34 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 63; UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 212-
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§ 22. Montepulciano
Montepulciano si è ribellata a Siena in gennaio e Siena vi manda l’esercito al comando di
Andrea Salamoncelli. I Senesi hanno eretto un gran battifolle nei pressi di Montepulciano, ed
hanno messo in campo «buone masnade di cavalieri e masnadieri». Ma le operazioni militari
languono perché, in fondo, Siena e Perugia appartengono allo stesso schieramento politico ed i
loro conflitti non possono giungere ad un punto di non ritorno. Infatti, gli ambasciatori riescono
a trovare un accordo: Montepulciano rimanga per 20 anni «nella guardia del comune di Siena»,
che vi metterà un capitano, 15 cavalieri e 20 fanti, e, sotto il suo controllo una delle porte della
città ed una campana. Siena si impegna a pagare 6.000 fiorini per rimborso spese a Nicolò
Cavalieri, ed a garantirgli immunità per 10 anni. Quanto a messer Jacopo Cavalieri, egli avrà i
suoi beni e 3.000 fiorini. L’11 maggio l’esercito senese toglie il campo.41
41 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 64; Cronache senesi, p. 570-571 dice che la resa di
Montepulciano avviene il 3 aprile. I Senesi debbono pagare la menda per la morte di 500 cavalli. GORI,
Istoria della città di Chiusi, col. 936.
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Montepulciano restituisce poi 9.000 fiorini a Siena quale rimborso fatto per spese relative ai
signori di Montepulciano. Sembra il rimborso per le cifre che Siena ha promesso ai Cavalieri.42
45VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 23 e LEONARD; Angioini di Napoli; p. 463-467. CAMERA,
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49 FRANCESCHINI, Montefeltro, p. 245 e 251; CARDINALI, La signoria di Malatesta antico, p. 97. Un’immagine
di Galasso alla testa dei suoi soldati è nel volume di FRANCESCHINI, Montefeltro, tra le p. 256 e 257.
50 FAZIO DEGLI UBERTI, Dittamondo, lib. II, cap. 30.
52 VILLANI VIRGINIO, I conti di Buscareto, p. 153-154; COMPAGNONE, Reggia picena, p. 214-214; AMIANI, Fano,
p. 278; DEGLI AZZI VITELLESCHI, La repubblica di Firenze e l’Umbria, p. 99-105, ma, in particolare per le
Marche, p. 103-104.
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Giovanni Boccaccio, non piace che il loro amico Petrarca abbia scelto il loro fiero avversario,
Visconti.53
Giovanni Boccaccio è in missione, probabilmente ufficiosa, a Ravenna dal 18 luglio, e il
suo scopo è probabilmente di dissuadere Bernardino Polenta dall’alleanza con Ordelaffi. Da
Ravenna egli scrive all’amico Petrarca, ricordandogli come entrambi avessero giudicato un
truce tiranno l’arcivescovo, e facendogli capire come consideri un tradimento la sua
decisione. Giovanni non sarà l’unico degli amici ad elevare rimostranze al Petrarca.54
56 BRUNETTIN, L’evoluzione impossibile, p. 211. Vite dei patriarchi d’Aquileia, col. 56 sottolinea come
principale azione del suo patriarcato la vendetta da lui fatta dell’assassinio del predecessore.
57 FILIPPINI, Albornoz, p. 8-9; PINZI, Viterbo, III, p. 279; Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p.
60. ANTONELLI, Patrimonio, p. 134 dice che l’assedio a Miranda viene tolto grazie alle armi dell’esercito
pontificio.
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milita con Siena, ma questi non arriva che quando riceve l’intero soldo di un mese anticipato,
consentendo così al nemico di rifornire i suoi fortilizi e di prendere Tuscania e Corneto.58 Ma
le ambizioni personali fanno sobbollire tutto il territorio, anche membri delle famiglie alleate
della Chiesa, come Cecco e Bertoldo Farnese, cercano di procurarsi vantaggi personali,
prendendo Castro, per venirne cacciati dagli abitanti, guidati da uno dei migliori ufficiali
della curia del Patrimonio, il podestà Rolando di Padova.59 Il prefetto, prima di rientrare ad
Orvieto, prende la rocca di Marta, una di quelle date in garanzia per la tregua. Ora però
arriva finalmente Rougher con le sue 250 barbute e attacca Marta. Scava gallerie per arrivare
sotto le mura, trova una cisterna dove è accumulata l’acqua e la svuota; ora gli assediati non
hanno altra scelta che arrendersi o attaccare, per bloccare eventuali azioni, il Tedesco fa
affluire Enrico di Meldech con una bandiera di combattenti. Il 7 luglio Marta è già in suo
potere. Con rinforzi di Perugia, dopo un aspro combattimento, riprende l’Abbadia al ponte. Il
30 luglio caccia gli uomini del prefetto da Narni.60
58 ANTONELLI, Patrimonio, p. 136-138. Corneto viene presa il 14 giugno, a nulla vale il pronto accorrere di
Bonifacio e Ludovico Vitelleschi, per la sorpresa. Bonifacio viene catturato.
59 ANTONELLI, Patrimonio, p. 135.
62 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 70; DE BLASIS, Le case dei Principi angioini, p. 379-380;
DEL BALZO DI PRESENZANO, A l’asar bautezar!, vol. I, p. 166-167; CAMERA, Elucubrazioni, p. 127-128.
63 Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 26-27. Notizia tratta da Chronicon Estense,² p. 188. LUCIO, Historia di
Dalmatia, p. 246.
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§ 32. La signoria di Firenze su Colle Val d’Elsa e punizione dei signori di Picchiena
Colle Val d’Elsa, il 18 marzo, elegge una “Balia di sei probe persone”, approvate dal
capitano nominato da Firenze, il cui incarico principale è di mantenere i patti conclusi con la
repubblica di Firenze. Il nuovo capitano generale è messer Giacomo Gabrielli. I Sei di balia hanno
principalmente incarichi di ordine pubblico. Essi identificano i capi delle fazioni che potrebbero
arrecare danno alla pubblica tranquillità nelle persone di Gano di messer Lapo Pasci e nei signori
del Castello di Picchiena e li comunicano alla Signoria. Firenze appare sorpresa che tra i probabili
mestatori vi possano essere i Picchiena, già benemeriti, comunque, ben sa che i signori del
castello di Picchiena sono colpevoli di aver aiutato gli Ardinghelli a cacciare i Salvucci da San
Gimignano, la loro posizione è aggravata dal fatto che, anche quando le due famiglie si sono
rappacificate, gli orgogliosi signori non hanno ritenuto di doversi umiliare a Firenze e a
impetrarne il perdono. Il 20 giugno, Firenze decide di punire la mancanza di rispetto, ed invia il
conte Ugolino da Montemarte, al comando di soldati di Colle e Firenze, al castello di Picchiena, a
sorprendere ed arrestare Monaldo, Rinaldo e Matteo da Picchiena. Il castello viene restituito alla
Signoria di Firenze. I maestri e guastatori abbattono le mura del castelletto, senza che venga loro
opposta resistenza alcuna.65
§ 33. Modena
Il 25 giugno, i nobili delle famiglie Rangoni e Grafulfi, esiliati da Modena con molti
elementi popolari, vanno dal marchese di Ferrara e Modena e vi stanno per otto giorni. La
cronaca non registra l’argomento dei colloqui. Il marchese invia a Modena come podestà il
giudice trentino Filippo de Marano, con molti soldati.66
§ 34. Cipro
Nel 1353, Pietro, figlio di Ugo di Lusignano, re di Cipro, sposa Eleonora, figlia dell’Infante
Pietro di Ribargoza. È questa un nuova alleanza tra la casa regnante cipriota con l’Aragona, dopo
quelle, non esattamente felici, tra Ferrando di Maiorca e Eschiva di Lusignano e quella tra
Giovanni di Lusignano e Costanza d’Aragona.67
67 EDBURY, The Kingdom of Cyprus, p. 146. Per gli altri due matrimoni si vedano le notizie al 1340 e 1343.
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69 MONTI, La dominazione angioina, p. 228-229; DE BLASIS, Le case dei Principi angioini, p. 379.
70 Oltre al re, ne fanno parte la badessa Costanza, sorella del sovrano, i fratelli Giovanni e Federico,
Margherita, moglie di Matteo Palizzi, Pietro, primogenito di Matteo e Margherita, Francesco Palizzi,
cugino di Matteo e i Chiaromonte. MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 52-53.
71 Oggi Castroreale.
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Giovanni, il giovane fratello del re, viene a turbare la cittadinanza messinese ed a far
sospettare che il perfido Matteo Palizzi abbia voluto avvelenarlo per togliere di mezzo, uno
ad uno, i legittimi pretendenti al trono. Re Ludovico e Costanza tornano a Messina,
accompagnati da Federico Chiaromonte ed i suoi alleati. Ormai l’inimicizia di questi verso
Matteo è palese ed essi nulla fanno per nasconderla. Nembi di tempesta si accumulano sui
contendenti. Matteo, disperando di qualsiasi aiuto, cavalca per la città accompagnato dal
giovane re, sperando che il rispetto e la tenerezza dei sudditi verso il sovrano possano
contagiarlo. Enrico Rosso ed i suoi alleati sono fuori delle mura della città, attendendo
l’occasione propizia per intervenire. Matteo, nel nome di re Federico, ordina ad Enrico di
ritirarsi ed egli, fingendo obbedienza, arretra il suo esercito di un paio di miglia, fino alla
fiumara di San Filippo il Piccolo. Egli viene raggiunto dal conte di Modica e dal conte di
Cerami, Francesco Palizzi. La badessa Costanza, rendendosi conto della delicatezza della
situazione per il futuro della corona, raggiunge il campo di Enrico Rosso. Matteo Palizzi
intima ai nemici di ritirarsi, ma il suo ordine viene ignorato, allora, disperato, sfida a duello i
capi degli avversari, che lo irridono. Il combustibile è pronto, manca solo la scintilla. Il 17
luglio 135372 Costanza invia il coraggioso Corrado Spatafora dal re. Matteo Palizzi, frustrato
fino alla follia, ordina scioccamente a suoi sgherri di assassinarlo quando stia per lasciare
Messina. I sicari lo assalgono nei pressi della porta di borgo San Giovanni, ma Corrado è un
uomo animoso e valente e non si perde d’animo, impugna le armi, rivela alla cittadinanza la
sua missione di ambasciatore, protetta dal diritto, ed invoca aiuto, la popolazione si muove,
assale e mette in fuga gli assassini e, al grido di «Viva il re e il popolo! Morte al traditore
Matteo!» si solleva, apre le porte della città, dalla quale irrompono le truppe di Enrico Rosso,
e assale il palazzo. Matteo, con moglie e figli si rifugia in una stanza segreta. Trascorre la
notte; al mattino Niccolò Cesareo viene eletto stratigoto, sostituendo Matteo Palizzi. Il popolo
però non si è calmato, incurante della presenza del sovrano dentro il palazzo, assale l’edificio
e lo dà alle fiamme. Il re si mette in salvo, mentre Enrico Rosso e il popolo assetato di sangue
penetra nel palazzo e, torturato un servo, ottiene la rivelazione della stanza segreta. Enrico
scova Matteo e i suoi e li consegna alla folla che li fa a pezzi.73
Re Federico, atterrito dalla ferocia dei Messinesi, ed addolorato per la morte di Margherita
che l’ha allevato, e, comunque, colpito anche dall’assassinio di Matteo, che egli considera come
uno di famiglia, fugge nascostamente su una galea catalana e va a Catania, dove approda il 29
luglio, accolto a braccia aperte da Blasco. Il re si lega al partito dei Catalani. Poco dopo lo
raggiungono Costanza ed Enrico Rosso; Simone Chiaromonte raggiunge suo cugino Manfredi a
Lentini. I conti latini hanno ottenuto un bel risultato! La Sicilia ripiomba in una strisciante guerra
civile, tra i Catalani, che governano lo sventurato e debole sovrano, ed i Latini. Ben 10.000
famiglie, per non morire di fame, lasciano l’isola ed emigrano in Sardegna ed in Calabria e nel
«Regno di qua dal Faro». Enrico Rosso viene nominato rettore e governatore di Messina.74 I
morte del Palizzi nel 1354; PISPISA, Messina nel Trecento, p. 207-215; PISPISA, Messina medievale,p. 94-95.
Leggermente differente è la narrazione di Matteo Villani, secondo il quale i ribelli salgono le scale e si
precipitano nella sala dove il conte Matteo, sua moglie e due suoi figlioli, sono riuniti col giovane duca (re
Federico). Incuranti della presenza del loro signore, i conti trucidano tutta la famiglia di Matteo, «lasciando
il duca con gran paura e tremore». La folla lega capestri al collo degli assassinati e li trascina ferocemente per
le vie, bruciandone infine i cadaveri. VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 77. Solo un cenno in
GIUNTA, Cronache siciliane, p. 61 notizia tratta da Cronica Brevis. MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 56
sottolinea che Matteo non avrebbe alcun interesse a far uccidere chi gli offre la pace; tutto l’evento è
narrato ibidem alle p. 53-57.
74 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 96; LA LUMIA, Matteo Palizzi, p. 179-180; MICHELE DA
PIAZZA, Cronaca, cap. 64-65; PISPISA, Messina nel Trecento, p. 216-217. Un orrendo episodio della lotta tra
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principali alleati del re, oltre ad Enrico Rosso e Costanza, sono gli Alagona, Orlando di Aragona,
zio paterno del re, Giovanni Barresio, Guglielmo Cardona, Corrado Spatafora, il conte Francesco
di Ventimiglia, Matteo di Montecatini.75
Costanza morirà presto ed allora esce dal chiostro sua sorella Eufemia «sua minore sorella,
di lei men pura e men tenera, più donnescamente inclinata alle ambizioni e agl’intrighi».76
Enrico Rosso ha scelto il re perché la situazione imponeva una decisione, non potendo più
tenere i piedi in due staffe. In fondo, è stato costretto a tale determinazione, infatti la sua forza si
basava sull’appoggio militare dei Chiaromonte, ora che i Chiaromonte hanno tagliato ogni
indecisione essi aspirano alla leadership del partito latino, non vi è quindi più spazio per il conte
di Aidone. Egli, a Catania insinua nel re l’idea che la responsabilità dell’eccidio, ed in particolare
della morte di Margherita, moglie di Matteo Palizzi, che era molto cara al re, ricada tutta su
Simone Chiaromonte. Re Ludovico decide allora la guerra contro i Chiaromonte.77
Così commenta la situazione Enrico Pispisa: «Con la morte di Matteo […] si interrompeva
momentaneamente quel lungo discorso economico-politico, che aveva portato alla ribalta del
potere la coalizione milites-burocrati-grandi mercanti-Genovesi, che aveva dato alla città (di
Messina) un assetto dalla linea operativa abbastanza stabile dal Vespro fino alla metà del xiv
secolo. Il nuovo dominatore che si sostituiva al conte di Novara, Enrico Rosso, aveva una
personalità del tutto diversa. Abituato a vivere più nei suoi ampi feudi che nelle città, non ne
comprendeva la dinamica sociale e la considerava come semplice strumento per le sue mire
personali. Era in sostanza un superato».78 La personalità di Enrico viene criticata anche da La
Lumia: «Enrico Rosso conte di Aidone seguiterà ad agitarsi col suo umore arrischiato, colla sua
abilità penetrante e versatile, passando facilmente da un’insegna a un’altra, cupido di personale
potenza ma più di novità e d’avventure, senza fede, senza scopo deliberato e sicuro».79
Latini e Catalani è narrato in VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II; cap. 61. Michele da Piazza è
sostanzialmente l’unica cronaca articolata di questo terribile momento della storia di Sicilia, chi ne
voglia seguire nei dettagli l’evoluzione si puo riferire a MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 64-122, fino
alla tregua tra Alagona a Chiaromonte, avvenuta il 26 gennaio 1356. In questa mia opera ne descriverò i
principali avvenimenti. MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 57-60.
75 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 66. Orlando d’Aragona è un figlio naturale di Federico III di Sicilia e
di Sibilla di Sormella, ed è nato verso il 1296, ha quindi ora quasi sessant’anni. Egli nel 1353 è stato
inviato in Sardegna da Pietro IV d’Aragona ha chiedere aiuto per il re. Sulla sua figura si veda F.
GIUNTA, Aragona Orlando d’, in DBI, vol. 3°. Manfredi Chiaromonte è figlio illegittimo di Giovanni II
conte di Modica detto il Giovane, morto nel 1342. Su di lui si veda F. GIUNTA, Chiaramonte Manfredi, conte
di Modica, in DBI, vol. 24°.
76 LA LUMIA, Matteo Palizzi, p. 190.
77 PISPISA, Messina nel Trecento, p. 216-217. La realtà economica e geografica della Sicilia è molto
complessa e peculiare, un quadro economico di lunga prospettiva può essere trovato in EPSTEIN, Potere e
mercanti in Sicilia, in particolare vi sono ottime cartine geografiche e, a mio avviso, illuminante è nel
capitolo terzo il paragrafo sulle Istituzioni urbane e trasformazioni economiche, nel quale vi è un esame delle
caratteristiche delle varie città alle p. 118-126.
78 PISPISA, Messina nel Trecento, p. 216; PISPISA, Messina medievale,p. 94.
79 LA LUMIA, Matteo Palizzi, p. 190, aggiunge che ne abbiamo notizia fino al 1376.
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famiglie più in vista di San Gimignano, si reca dai Priori di Firenze a supplicarli di prendere la
città sotto la protezione del loro comune, per evitare il ripetersi di lotte intestine. Con un solo
voto di maggioranza, finalmente Firenze accetta e, il 7 agosto, gli abitanti di San Gimignano, città
e contado, sono fatti cittadini di Firenze.80
§ 42. Orvieto
Mercoledì 27 luglio, Petruccio e Nerone di Pepo Monaldeschi fuggono da Viterbo e
vanno alla Massaia da Tommaso di Cecco di Monaldo Mazzocchi, li raggiunge là il loro
fratello Monaldo che è fuggito da Orvieto nello stesso giorno. I fuggiaschi cominciano a
80 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 73; PECORI, San Gimignano, p. 173-174. I capitoli della
83 Dove ha forse avuto come suo insegnante il futuro Innocenzo VII. E. DUPRÉ THESEIDER; Albornoz Egidio,
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fermano a Villa San Biagio. Qui Malatesta s’ammala ed invia suo figlio, con Francesco d’Este con
500 cavalieri e 4.000 fanti, ad Argenta. Rimangono qui quattro giorni, in attesa che la congiura
dentro Ferrara produca i suoi velenosi frutti; ma, non ottenendo risposta, né novità, l’esercito si
volge allora contro Porto Maggiore, il cui castello viene espugnato. Comunque tutte piccole
conquiste senza alcun valore strategico. Constatato il sostanziale fallimento dell’impresa, il 26
agosto l’esercito torna a Rimini, scusandosi col dire che il signore di Ravenna ha bloccato i passi
dove debbono transitare i rifornimenti. Galasso de’ Medici ed i suoi congiurati, fuggono a
Verona, da Cangrande.89
I problemi e le inimicizie tra i membri della famiglia estense preoccupano molto i potentati
vicini, che temono una destabilizzante lotta di potere a Ferrara. Nella cronaca d’Este troviamo
notizia di molti contatti tra Scala, Venezia, Rimini, Correggio, Carrara e Ferrara per cercare di
trovare una via di uscita.90 In particolare, possiamo comprendere la preoccupazione degli
Scaligeri e degli Estensi nel vedere che i Malatesta, signori della costa adriatica, si stanno
affacciando nella pianura padana e coinvolgendo nelle questioni dinastiche interne.91
89 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 75; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 22; Rerum
Bononiensis, Cronaca B, p. 24; Chronicon Estense,² p. 187-189 ci informa che Gentile è anche andato alla
corte estense, ricevendone eguale rifiuto. BAZZANO, Mutinense, col. 618; Domus Carrarensis, p. 64-65;
VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 13°, p. 158-160 e 164-166. Molto dettagliato il racconto di FRIZZI,
Storia di Ferrara, vol. III, p. 322-324.
90 Chronicon Estense,² p. 188-190.
94 I nomi dei comandanti sono desunti da CARTA RASPI, Mariano IV d’Arborea, p. 93-94.
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vento in poppa che ostacola invece le manovre delle cocche, ordina che anche le navi genovesi si
incatenino, lasciando libere sole le galee sottili perché possano intervenire dove occorra. Anche i
Veneziani dispongono le 8 galee sottili libere, quattro a destra e quattro a sinistra e «con lento
passo si venieno appressando». Ci si consuma in manovre senza frutto fino al primo pomeriggio,
solo con scontri delle galee sottili. Mentre i Genovesi si apprestano a sferrare l’attacco, il vento
cambia a Scirocco, gonfiando le vele delle cocche veneziane, che si scagliano sulla flotta
genovese, tempestandola di verrettoni, lance e pietre. Al primo urto, tre galee genovesi
naufragano. Poi, un’altra. Sulle restanti piovono proietti «come sformata grandine spinta da
spodestate fortuna d’impetuosi venti». Le perdite genovesi sono ingenti, tra morti, feriti ed
annegati. Il resto della flotta veneto-catalana attacca; i Genovesi, con indomito coraggio, ribattono
colpo su colpo, Grimaldi fa liberare undici navi della sua armata e, unitosi alle galee sottili,
mostra di voler aggirare la flotta nemica per prenderla alle spalle. I Veneziani se ne avvedono e si
ritirano dalla battaglia per esser pronti a ribattere la manovra; ma l’ammiraglio Grimaldi in realtà
è in fuga con diciannove galee, abbandonando le altre alla sorte ed alla mercé dei nemici. La fuga
del comandante fa crollare i Genovesi, che si arrendono. Venezia ed Aragona hanno riportato
una vittoria strepitosa, praticamente senza subire perdite. I Genovesi invece hanno trenta galee
catturate e 3.500 prigionieri, tra i quali molti «nominati e grandi e buoni cittadini». I morti
genovesi sono 2.000. La battaglia è avvenuta il 29 agosto, San Giovanni Decollato.95
La flotta vittoriosa prende terra in Sardegna. Sbarcati cavalieri e fanti e ciurme, i castelli
genovesi si arrendono uno dopo l’altro: Castello della Loiera, Castel Lione, Castel Genovese,
Castel Sassari. Giorgio Cracco sottolinea che la decisione della guerra segna, in Venezia, la
prevalenza di un partito della guerra che ha imposto al Senato un consiglio straordinario
composto di 25 membri. «E per alcuni anni, nonostante i tentativi di ricupero della “legalità”
patrizia, dell’idea del comuniter regere, il governo fu manovrato da un Pietro Zane (padrone di
immense ricchezze disseminate in Oriente), dai Giustiniani, dai Volpe, dai Grimani, dai Marioni,
dai Bellegno e da altri ceppi, ugualmente interessati al sostegno dei traffici mediterranei.
Quando, nel febbraio del 1352, arrivò la sconfitta del Bosforo, la colpa fu riversata sui “disfattisti”
del Senato; quando giunse, nell’agosto del 1353, la vittoria di Alghero, il merito fu tutto loro:
s’illusero di aver abbattuto per sempre la rivale genovese».96
95 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 23; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 24-25; VILLANI MATTEO E FILIPPO,
Cronica, Lib. III; cap. 79 e 80; CORIO, Milano, I, p. 780-781; CORTUSIO, Historia,² p. 130; Chronicon Estense,²
p. 189; BAZZANO, Mutinense, col. 618 che apprende la vittoria dei Veneziani cum magna laetitia. Niente di
originale in PELLINI, Perugia, I, p. 943-944. Solo un cenno in GAZATA, Regiense, col. 72; GAZATA, Regiense²,
p.275. Un poco di riluttanza in STELLA, Annales Genuenses, p. 152 e ACCINELLI, Genova, p. 82-83. LOPEZ,
Storia delle colonie genovesi nel Mediterraneo, p. 270 che nota che, malgrado la cocente sconfitta, in Levante
la situazione non muta. PETTI BALBI, Genova e Corsica nel Trecento, p. 28-29 per le manovre aragonesi in
Sardegna e Corsica che condurranno allo scontro nel mare di fronte ad Alghero. Per il punto di vista
veneziano: ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 168-170; CESSI, Storia della repubblica di Venezia, I, p. 312-313.
Molto sommesso LANE, Storia di Venezia, p. 212. Il punto di vista catalano è in MELONI, L’Italia medievale,
p. 85-93. COSTA, Sassari, I, p. 87; DEL BALZO DI PRESENZANO, A l’asar bautezar!, vol. I, p. 55-56; MELONI,
L’Italia medievale, p. 91-93; ZURITA, Annales de Aragon, Lib. VIII, cap. LII. CORTUSIO, Historia,² p. 130 pone
erroneamente la battaglia nel 1354, così come pure Cronache senesi, p. 574.
96 CRACCO, Venezia nel medioevo, p. 136.
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ossequio; ma in questo caso non accettava nessuna inframettenza: aveva esercitato un diritto che
rientrava nella sua sovranità, aveva punito un suddito ribelle».97 Per il momento, don Pedro si è
rassegnato, ma la questione non è archiviata. Il momento di riattivarla è ora, dopo che i Catalani
hanno conquistato Alghero. Infatti, dopo la sconfitta dei Genovesi, i difensori di Alghero, il 30
agosto, hanno aperto le porte della città ai Catalani, salve persone e cose. I Doria hanno il
permesso di rimpatriare con le loro famiglie ed i loro beni. Don Bernardo de Cabrera convoca
Mariano a discolparsi della prigionia di Giovanni. Mariano è ad Oristano e non vuole rompere
con la corona, allora invia la sua amata consorte Timbora de Roccaberti a esporre il proprio
punto di vista. Timbora è una donna molto capace e determinata e inoltre è in qualche modo
parente di don Bernardo.98 I colloqui procedono bene e, quando tutto sembra risolversi, tre messi
provenienti da Cagliari99 sconsigliano di accordarsi col giudice d’Arborea. Don Bernardo apre le
braccia e congeda Timbora senza poter accettare le giustificazioni del giudice. Timbora, con fare
deciso, minaccia i messaggeri che hanno così voluto seminare i semi della guerra tra Aragona e
Giudicato.
Don Bernardo de Cabrera lascia ad Alghero come suo vicario Jaspert de Castellet e veleggia
verso Cagliari, dove si trattiene per oltre un mese. Mentre è qui, apprende che Alghero si è
ribellata ed ha massacrato la guarnigione, il vicario Castellet si è salvato calandosi con una fune
dalle mura. Un grosso contingente di Sardi ribelli, 700 o 800 cavalieri e 7.000 fanti, comandati dal
Sardo Pietro de Sena, si sono accampati a Quartu, a poche miglia da Cagliari. Don Bernardo
decide di affrontarli: arma tutti i suoi e aggredisce il nemico. Il risultato dello scontro è
controverso: Matteo Villani afferma che hanno prevalso i Sardi, Zurita e la cronaca di Pietro il
Cerimonioso che la vittoria è nelle mani degli Aragonesi. Il risultato è però che don Bernardo si
rende conto dell’insorgenza generalizzata dell’isola e della sua scarsa possibilità di contenerla,
decide quindi di tornare a corte e lasciare che sia il re a determinare il da farsi.
L’oppressivo governo catalano scatena la rivolta generale e, una dopo l’altra, tutte le
castella e le terre sono perdute. Rimane in mano dei Catalani solo Castel di Castro, detto Cagliari.
Senza più speranza di riprendere il controllo dell’isola, i Catalani si attardano fino a
novembre, poi le flotte tornano a svernare alle rispettive patrie, «vinti i Genovesi loro nemici, e
abbassata con piena vittoria la loro superbia».
Prima di partire, don Bernardo de Cabrera per incuorare chi rimane a difendere Cagliari,
schiera di fronte al porto tutte le settantotto sue galee e le fa illuminare, quindi, nella seconda
metà di novembre, prende il mare. Sbarca a Barcellona, relaziona il sovrano, il quale inizia i
preparativi di guerra.100 Mariano prende atto della rottura con Aragona e lo testimonia
cambiando la sua arme: toglie dallo stemma i tre pali catalani e issa il suo simbolo: un albero
sradicato su fondo argento.101
100 MELONI, L’Italia medievale, p. 93-103; CARTA RASPI, Mariano IV d’Arborea, p. 93-101; CARTA RASPI, Storia
della Sardegna, p. 565-567; CASULA, Breve storia di Sardegna, p. 157-158; ANATRA, Sardegna, p. 47-51
sostiene la correttezza del punto di vista di Mariano. ZURITA, Annales de Aragon, Lib. VIII, cap. LIII.
101 CASULA, Breve storia di Sardegna, p. 157.
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condottiero si stacca dalla Chiesa102 e va al servizio dei Chiaravallesi, fuorusciti di Todi, alleati
del prefetto. I Chiaravallesi, sono così riusciti a rinforzare il proprio piccolo esercito di
familiari ed amici, con un nucleo di forti cavalieri; convinti di poter far insorgere Todi, grazie
agli appoggi interni, marciano alla volta della città. Ma la fama del prefetto di Vico non è tale
da rendere attraente la prospettiva di averlo per tiranno, per cui i Tudertini, invece di aprire
le porte, accorrono sugli spalti a difesa. L’esercito assedia la città per il resto di settembre ed
una parte di ottobre, poi, l’arrivo di armati fiorentini e perugini e della cattiva stagione, li
costringe a togliere l’assedio.103
102 Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 62 dice che, in realtà, Fra’ Moriale ha completato
il proprio periodo contrattuale con il prefetto ed ha, pertanto, accettato le profferte del capitano del
Patrimonio.
103 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 81. D’ANDREA, Cronica, p. 94 ci informa che il prefetto
seda una rivolta scoppiata nel piano di Scarlano e fa decapitare «quattro chiesastri». Altra rivolta a
piano San Faustino, anche in questo caso finita nel sangue del capo mozzo di 3 uomini. Si veda anche
DELLA TUCCIA, Cronaca di Viterbo, p. 34 e 393. RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 148 dice che il 9 di settembre i
soldati di Fra’ Moriale vengono in Toscana, sopra il territorio di Firenze; la Signoria tratta per inviare i
mercenari nel Senese e nel Pisano, ma Pisa paga loro 15.000 fiorini d’oro e si libera della minaccia. Si
veda anche il cenno in CERRETANI, St. Fiorentina, p. 135.
104 GREGOROVIUS, Roma nel Medioevo, Lib. XI, cap. 7.3.
105 DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 640-641 qui si sottolinea che, già dal 23 agosto, il rettore del Patrimonio,
Giornano ad Orsini, ha chiesto a Fra’ Moriale se fosse disposto a servire sotto Cola, se questi fosse
nuovamente il capo di Roma. DI CARPEGNA FALCONIERI, Cola di Rienzo, p. 177-180; REALE, Cola, p. 214-
220; A. ROMANO, Cronica; p. 240, non ha informazioni di prima mano.
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acclama Francesco Baroncelli tribuno secondo e console illustre del popolo di Roma. Francesco
Baroncelli, è scribasenato, ovvero notaio del Senatore, «huomo di piccola e vile natione e di poca
scientia», lo definisce Matteo Villani. Comunque, Baroncelli cerca di fare del suo meglio, si sforza
di rendere onesta l’amministrazione, fa in modo che sia governata da uomini retti, perseguita i
malfattori, cerca di sviare i popolari dal seguire i principi romani, provocando una piacevole
aspettativa nei giusti.106
§ 51. Orvieto
I figli di Manno e di Berardo Monaldeschi, se ne stanno nei loro castelli, non vogliono
impicciarsi della guerra, sono, è vero, amici del prefetto, ma il papa è il papa, e poi l'esercito
del Patrimonio è sicuramente troppo forte per inimicarselo. Il prefetto, giustamente, li osserva
con sospetto. Al tempo stesso tesse pazientemente una tela di ragno perché non cadano nelle
lusinghe del capitano del Patrimonio. Negozia dei patti con loro per farli insignorire di
106 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 78; DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 638-640.
107 DI NICOLA, Gli Alfani di Rieti, p. 30; MICHAELI, Memorie Reatine, I, p. 86-87.
108 Inaugurato il giorno di Pentecoste. Diario del Graziani, p. 169; PELLINI, Perugia, I, p. 935-936.
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La cronaca del Trecento italiano
Orvieto, e poi, quando l'accordo si sta per raggiungere, non smentendo le sue inclinazioni,
succede sempre qualcosa che lo riporta in alto mare.111
111 Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 62; e Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle
Historie di Cipriano Manenti, p. 451-452.
112 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 84 e FILIPPINI, Albornoz, p. 18-21.
113 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 84; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 23 conferma il 14
settembre a Milano, mentre Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 26 sbaglia data e dice che Gil è il 4 a Milano;
Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 27 conferma il 14; Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di
Cipriano Manenti, p. 452 e Diario del Graziani, p. 170; PELLINI, Perugia, I, p. 939-940, che informa che Egidio
è a Perugia il 12 ottobre e vi si trattiene per un mese intero, attendendo che tutti i soldati che gli
occorrono per la guerra contro il prefetto di Vico si adunino. Perugia gli fornisce 200 armati e, come
consigliere, Nicoluccio d’Andreotto «di gran giudicio & consiglio nelle cose dell’armi». DE MUSSI,
Piacenza, col. 499 ci narra che il cardinale a Piacenza si è misurato in una giostra con due avversari,
battendoli ed aggiungendo « mirabilia de eius factis possent enarrari». SORBELLI, Giovanni Visconti a Bologna,
p. 76-79.
114 REALE, Cola, p. 219-220.
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Carlo Ciucciovino
visitare, altri lo acclamano quando passa sul suo buon cavallo: può darsi che, in effetti, si
possa ben trarre qualcosa da questo grasso e verboso notaio!115
In ottobre il cardinale Egidio Albornoz arriva a Montefiascone. Il suo primo pensiero è
quello di tentar di mettere pace tra il prefetto ed il capitano del Patrimonio. L'offerta di Egidio
è di quelle difficili da rifiutare, perché si comprende che viene sottolineata da un potere cui
sarà difficile resistere; infatti il prefetto comincia a negoziare quando Egidio è solo a Siena,
non ancora a Montefiascone. La pace è negoziata dagli ambasciatori milanesi.116 Il prefetto va
a rendere omaggio ad Egidio mentre transita per andare a stabilirsi a Montefiascone. Il
prefetto Giovanni di Vico decide di trasferirsi da Orvieto a Viterbo, dove certamente si sente
più protetto, e di qui tratta la pace. Quando però Egidio gli chiede di recarsi a Montefiascone
se ne guarda bene, per evitare di trovarsi in sua balia. La trattativa di pace viene perciò
interrotta. Giovanni manda suo figlio Francesco, come suo vicario in Orvieto.117
Gentile da Mogliano corre ad incontrare il cardinal legato e gli presta giuramento di
obbedienza. Egidio lo nomina Gonfaloniere di Santa Chiesa e comandante generale del suo
esercito e gli conferisce la signoria di Fermo. Ma Gentile, slealmente, conclude un’alleanza con i
Malatesta, gli Ordelaffi e i Manfredi, con tutti quei signori che hanno tutto da perdere dal
successo della missione del cardinale spagnolo, e scaccia da Fermo quelle stesse truppe della
Chiesa che egli vi ha introdotto. Gil Albornoz si rivolge a Ridolfo da Varano, sempre fedele, e lo
nomina generale al posto dell’infido Gentile da Mogliano. In battaglia, i Malatesta vengono
sconfitti e Gentile costretto a lasciare Fermo, tallonato da Blasco Gomez e da Varano. Gentile si
arrenderà, salva la vita, nel 1356.118
Il pontefice assolve i cittadini di Assisi per il furto del tesoro papale operato da Muzio di
Francesco.119
120 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 86; CORIO, Milano, I, p. 781; Rerum Bononiensis, Cronaca
A, p. 23-24; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 25; PELLINI, Perugia, I, p. 944; Chronicon Estense,² p. 190;
Annales Caesenates, col. 1182; Annales Cesenates³, p. 188; Monumenta Pisana,col. 1024; STELLA, Annales
Genuenses, p. 152-153 ; COGNASSO, Visconti, p. 209-210. ANONIMO ROMANO, Cronica, p. 222 sottolinea che
solo Montefiascone, Bolsena ed Acquapendente sono ancora leali alla Chiesa, tutte le altre località sono
dominate da Giovanni di Vico. Francesco Petrarca è presente quando i Genovesi consegnano la loro città
all’arcivescovo. RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 152. Si veda anche PIETRO GIOFFREDO, Storia delle Alpi
marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p. 263.
121 SCOVAZZI e NOBERASCO, Savona, p. 101-102.
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La cronaca del Trecento italiano
122 Chronicon Estense,² p. 190-191; ROMANIN, Storia di Venezia, III, p.171; CESSI, Storia della repubblica di
Venezia, I, p. 313; FUSERO, I Doria, 288-290; PETRARCA, Familiari, XI, 8.
123 ANDENNA-BORDONE-SOMAINI-VALLERANI, Lombardia, p. 534.
124 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 87; Chronicon Ariminense,col. 902.
125 Il fratello di Alberto, Leopoldo d’Asburgo, ha sposato Caterina di Savoia, figlia di Amedeo V è quindi
Bresse et le Bugey, p. 90 ; GALLAND, Les papes d’Avignon et la maison de Savoie, p. 103-104; D’ORVILLE JEAN,
Chronique de Savoie, p. 187-188 per qualche dettaglio. CIBRARIO, Savoia, III, p. 122-123 ci fornisce qualche
cifra sulla consistenza dell’esercito savoiardo: sono circa 400 cavalieri e dieci volte tanti fanti.
127 Chronicon Ariminense,col. 902.
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Carlo Ciucciovino
Guastafamiglia può guardare con serenità al futuro: suo fratello Galeotto gli si è dimostrato
sempre molto leale e non ha figli maschi, quindi c’è da ritenere che i suoi due maschi,
Pandolfo II e Malatesta Ungaro possano essere suoi eredi senza alcun contenzioso. 128
941; Chronicon Estense,² p. 190; Annales Caesenates, col. 1182; Annales Cesenates³, p. 188; Rerum Bononiensis,
Cronaca B, p. 26; FRANCESCHINI, Malatesta, p. 116. BONOLI, Storia di Forlì, p. 401-402 ci informa che
Francesco Ordelaffi, per legare a sé ancora più strettamente il suo alleato Bernardino da Polenta,
concede a lui ed ai suoi figli Giovanni, Ludovico, Sinibaldo e ai suoi nipoti Cecco e Pino, figli di
Giovanni, tutti i diritti su San Zaccaria e Canuccio nel Ravennate. AMIANI, Fano, p. 279 dice che
Malatesta Guastafamiglia, per allontanare il condottiero, gli paga 65.000 fiorini. TONINI, Rimini, I, p. 384-
385. Si veda anche RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 98.
131 NESSI, I Trinci, p. 63. URIELI, Jesi, p. 148 contabilizza: «44 furono le città e i castelli della Marca centrale
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La cronaca del Trecento italiano
§ 62. Pistoia
In Pistoia, l’inquisitore dei Patarini sta eseguendo un processo contro alcuni cittadini.
Occorre dare la balìa ad alcuni cittadini, decisione pericolosissima, perché la città è permeata da
latenti conflitti tra la famiglia dei Cancellieri e quella dei Panciatichi. Il capitano della guardia
fiorentina, un Gherardo Bordoni, è vicino alla fazione dei Cancellieri e fa in modo che i quaranta
uomini aggiunti al consiglio del comune siano della parte dei Cancellieri. I Panciatichi, scontenti,
ricorrono a Firenze. Nel frattempo, le due fazioni si fortificano nei propri quartieri; in Pistoia
l’aria diventa irrespirabile. Il comune di Firenze intercetta una lettera di Piovano Cancellieri al
suo congiunto messer Ricciardo, nel quale si parla di un possibile tradimento, trascina a giudizio
ambedue, assolve Ricciardo, condanna Piovano e muta il capitano del presidio messer Bordoni. I
Panciatichi possono ora vivere tranquilli, sotto la protezione di Firenze, «acquetato lo scandalo
tra i cittadini, si riposarono in pace».136
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dominato dal prefetto di Vico. Il cardinale intavola trattative con Giovanni di Vico, e i negoziati
vanno talmente avanti che tutti sono convinti che si concluderanno felicemente, il prefetto pone
addirittura il suo sigillo sul patto, ma Giovanni, «com’era sua natura di non mantener mai le
promesse, appena uscito dalla curia si pentì del trattato, e voltosi al suo seguito, esclamò: “Non
ne voglio far più nulla; lo legato ha cinquanta preti fra compagni e cappellani: li miei ragazzi
bastano a contrastare a li preti suoi”». Sprona il cavallo e torna a Viterbo. Egidio scopre che il
prefetto ha rotto le trattative quando questi gli prende due castelli.139
I Romani gli mandano ambasciatori per raccomandare la città alla Chiesa, ricevendone
protezione e garanzia d’aiuto nel conflitto contro Giovanni prefetto di Vico.140
Il primo scontro con Giovanni di Vico avviene intorno al Lago di Bolsena. Civitella viene
presa il 15 dicembre. Egidio assedia Orvieto. Il papa, timoroso che Roma cada nelle mani di
Giovanni di Vico, decide di giocare la carta dell'affabulatore massimo: Cola di Rienzo.
Confidando nel suo carisma personale. Lo invia quindi verso Roma.
Venerdì 19 dicembre, arriva ad Orvieto notizia dell'interdetto e della scomunica lanciata
dal legato papale. I figli di Manno si rendono conto che non possono più cercare di
barcamenarsi tra Giovanni di Vico e Egidio Albornoz; cercano invano di convincere il prefetto
a far la pace con la Chiesa, poi, rassegnati si danno ad Egidio. Il legato sancisce la pace tra i
figli di Manno e i figli di Berardo con i figli di Pepo. Tutti uniti vanno contro Orvieto, che
ormai è serrata in una morsa: nessuno può uscire dalla città senza essere preso dalle truppe
assedianti. Molta è la gente che sceglie di andarsene per non essere contro la Chiesa.141
139 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 98; PINZI, Viterbo, III, p. 284-287; BUSSI, Viterbo, p. 199;
ANTONELLI, Patrimonio, p. 144-145.
140 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 91.
141 Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 64-65. ANTONELLI, Patrimonio, p. 142-143 dice che
gli ecclesiastici respingono da Gallese gli uomini del prefetto in novembre, le inseguono fino a Civita
Castellana, ma poco dopo vengono sconfitti in una cavalcata sopra Sipicciano.
142 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 93.
143 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III; cap. 94; CORIO, Milano, I, p. 781-782; VERCI, Storia della
Marca Trevigiana, tomo 13°, p. 168-169. I procuratori veneti per lo stabilimeno della lega sono Marin
Faliero, Marco Giustinian e Nicolò Lion; LAZZARINI, Marin Faliero, p. 55. ROSSINI, La signoria scaligera dopo
Cangrande, p. 688.
144 CORIO, Milano, I, p. 782.
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La cronaca del Trecento italiano
devastazioni affamano le città e privano i Siciliani tutti del necessario per vivere. Caltagirone
si ribella ai Chiaromonte, Nicosia si ribella ai Catalani, il re riprende il castello detto Lu
Castru, ma perde tutto il territorio di Milazzo, che è la fonte di approvvigionamento di
Messina. Il 13 novembre re Ludovico strappa, per tradimento, la terra di San Filippo de
Argiron ai Chiaromontani. Questi ribattono uscendo da Lentini e rubando tutto il bestiamne
che pascola nel contado di Catania. Il 5 dicembre re Ludovico prende Taormina; lo stesso
giorno Francesco Ventimiglia viene nominato Camerario a vita; dieci giorni dopo, Matteo
Moncada viene designato per la carica di Gran Siniscalco del regno. Due galee napoletane
sono nel porto di Siracusa, le ha fatte venire Francesco Palizzi, il 30 dicembre il valoroso
primogenito di Blasco d’Alagona, don Artale, piomba sui Siracusani a Sciortino e li mette in
fuga, costringendoli a riparare entro la città. Artale fa prigioniero Cicco de Mohac un
bastardo di questa casata che viene “regalato” alla moglie di un esponente legittimo della
casata: Pirello de Mohac. La donna, senza pietà, festeggia l’anno nuovo facendolo torturare e
il malcapitato, pur di sfuggire ai continui tormenti, si uccide.145
§ 68. Arte
Un pittore nativo di Fabriano, Allegretto Nuzi, che opera molto a Firenze, dove, dal 1346
è iscritto alla Compagnia di San Luca, nel 1353 dipinge una tavola, oggi alla Galleria di
Fabriano, che raffigura S. Antonio Abate tra gruppi di devoti. Essa, secondo il Toesca, «si
scambierebbe per opera di qualche scolaro fiorentino del Daddi». Allegretto tra il 1345 e il ’49
ha dipinto Storie della Vergine, nella chiesa di San Domenico a Fabriano. È un pittore che
produce diverse tavole raffiguranti la Madonna. L’anno prossimo il pittore dipingerà un
trittico, oggi nella National Gallery di Washington, che egli replicherà nel 1369, quest’ultima
opera è custodita nel museo di Macerata.150 Allegretto è nato a Fabriano verso il 1315 e la sua
formazione è giottesca e senese. Egli ha imparato dal contatto con maestranze riminesi
operanti nelle Marche. Come si è visto dal giudizio di Pietro Toesca, ha subito l’influsso di
Bernardo Daddi. Allegretto segue con attenzione gli sviluppi dell’arte pittorica e, verso il
145 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 67-78; PISPISA, Messina nel Trecento, p. 217-219. Francesco Palizzi nel
1356 è tra gli ostaggi che vengono dati in garanzia a Nicola Acciaiuoli e, nel giugno 1357, verrà
nominato Cancelliere dell’isola di Sicilia. LA LUMIA, Matteo Palizzi, p. 190, nota 2 e MICHELE DA PIAZZA,
Cronaca, cap. 82. MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 60-64.
146 SANSI, Spoleto, p. 227.
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Carlo Ciucciovino
1355, «si orienta verso le soluzioni formali di Andrea Orcagna e di Nardo di Cione». La prova
di questa influenza è data da due cicli di affreschi realizzati a Fabriano verso il 1365: le Storie
di Sant’Orsola ed altre in San Domenico e le Storie di San Lorenzo nel Duomo.151
Nel 1353 aprono bottega a Siena i pittori Bartolo di Fredi e Andrea Vanni. Il primo è nato
nel 1320 ed il secondo nel 1323. Bartolo è figlio di un pittore, Fredi. Andrea ha due fratelli,
Francesco e Cristoforo, entrambi pittori. Andrea Vanni nel 1354 dipinge, per la regina
Giovanna d’Angiò, una Madonna per la cappella del castello di Casaluce. Andrea, su incarico
del conte Raimondo del Balzo, affresca tutta la cappella di questo castello. A noi ne sono
pervenuti solo resti, molto rovinati.152
Nel 1353 viene costruita una struttura lignea di collegamento tra le principali torri di
Bologna, quelle degli Asinelli e la Garisenda. La costruzione domina, da un’altezza di 30
metri il mercato di Porta Ravegnana.153
La chiesa di San Giorgio ai Domenicani di Verona, detta comunemente di San Giorgetto,
presenta una vasta decorazione pittorica ben conservata. La chiesa è stata oggetto di un legato
dei cavalieri brandeburghesi che hanno partecipato alla repressione della congiura di
Fregnano della Scala, legato che prevede una messa quotidiana all’ora terza da dire in onore
di San Giorgio, protettore dei cavalieri. Nel 1353 è stato realizzato un grande affresco con la
Crocifissione sulla parete orientale. Sovrastante a questo, vi sono delle scene con Adorazione dei
Magi, Messa di Bolsena, San Giorgio e la principessa. Su due pannelli della parete nord fu letta la
data del 1354; essi figurano la Madonna in trono col Bambino ed ai lati vi è San Giorgio che
presenta un cavaliere inginocchiato e altri due santi. Inutile dire che ignoriamo il nome del
frescante autore di queste pitture e pertanto egli viene notato come Maestro di San Giorgetto.
La tipologia di presentazione di un cavaliere offerente, presentato da San Giorgio è molto
diffusa a Verona, oltre che a San Giorgetto, a Santa Anastasia, per arrivare alla Cappella Lupi
con il grande Altichiero. Enrica Cozzi cita come dello stesso autore di San Giorgetto una
tavola con Trenta storie della Bibbia, oggi in Castelvecchio, databile intorno al 1350. Inoltre
propone di attribuire allo stesso maestro le Storie di Cristo alla Santissima Trinità e il maestro
principale in San Pietro in Briano.154 Sempre dello stesso autore, o almeno della sua bottega,
potrebbe essere un trittico reliquiario che è nella pieve di Arbizzano, «notevolissima opera»
che dovrebbe essere stata prodotta «nel quinto-sesto decennio del secolo».155
151 VALERIO TERRAROLI, Nuzi Allegretto o Allegretto di Nuzio, in La pittura in Italia Duecento e Trecento,
schede biografiche.
152 O. FRANCISCI OSTI, Andrea Vanni, DBI vol. 3°.
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CRONACA DELL’ANNO 1354
4 Chi desideri leggerne l’elenco, veda ZURITA, Annales de Aragon, Lib. VIII, cap. LIV; CARTA RASPI,
L’Italia medievale, p. 104-105. Sia Zurita che Meloni affermano che Mariano ha inviato un’ambasciata al
Carlo Ciucciovino
re, cercando di dissuaderlo dalla spedizione, ma il re teme di essere frodato e decide di far cantare le
armi.
6 DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 642.
7 Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 452-453; Ephemerides Urbevetanae,
Degli accidenti di Orvieto, p. 65-66, molte informazioni nelle note; Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del
conte Francesco di Montemarte, p. 228-229. I cinque giustiziati sono: Giovanni di Neri di Monalduzzo,
Pietro Scotto di frate Gialachino, il Guercio de’ Petrimarci, Coluzza della Justa e Petruccio di Nuto di
Braccio, ai poveretti mentre sono condotti al supplizio viene sigillata la bocca per evitare che le loro
parole possano infiammare la folla.
8 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III, cap. 98. La rivolta è narrata in una lettera di Albornoz,
datata 11 febbraio, si veda PINZI, Viterbo, nota 1 a pag. 290; nella stessa nota è errato il riferimento al
capitolo di M. Villani.
9 Chronicon Estense, col. 477-478.
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La cronaca del Trecento italiano
16 Albornoz ha al suo servizio il conte Ugolino di Montemarte, il conte Nicola Orsini di Soana, Ranuccio
di Nicolò Farnese, Catalano di Bisenzo e, infine, i Monaldeschi della Cervara. Ephemerides Urbevetanae,
Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 452.
1354
107
Carlo Ciucciovino
Castro, Valentano, Bagnorea e Gallese, non potranno impedire al nemico di distruggere, come
minaccia, i mulini di Bucine, tra Montefiascone e Bolsena».17
Il problema maggiore del cardinale è la mancanza di denaro, le decime non gli arrivano.
Invia allora il vescovo Badajoz ad Avignone a sollecitare fondi. Decide poi di rinforzare il
troppo prudente Orsini, prova invano ad ingaggiare il Fogliano, poi assume Andrea
Salamoncelli di Lucca, da lui definito: buen cavallero et leal, et ome de grande esfuerzo.18
In febbraio, dopo la scomunica come eretico di Giovanni di Vico, Egidio, «conoscendo
che altra medicina bisognava a riducere costui alla via diritta, che suono di campane o fumo
di candele spente»,19 cautamente si provvede di gente d’arme: riesce a strappare ottanta
barbute a Giovanni di Vico; sessanta gliene arrivano da Pisa. Il papa gli manda denaro. Allora
Albornoz riprende l'iniziativa ed incalza incessantemente il prefetto. Il 23 febbraio devasta il
territorio di Toscanella, uccidendo trenta uomini.20
Il 10 marzo, lunedì, le truppe del legato ed i Monaldeschi21 attaccano con 250 cavalieri
ed un gran quantità di fanteria, il monastero di S. Lorenzo delle Donne ( o San Lorenzo delle
Vigne),22 che il prefetto ha fortificato. Dopo qualche ora di combattimenti il convento viene
espugnato. Trenta soldati del prefetto vengono catturati.23 Giovanni di Vico tenta una sortita,
scaramuccia con gli assalitori fino a tarda sera, ma viene ricacciato dentro la città. Poi gli
aggressori si riducono dentro il monastero ed iniziano la costruzione di un battifolle
munitissimo; Orsini vi lascia Albertaccio Ricasoli e Benedetto di Ermanno Monaldeschi con
150 soldati, e torna a Bolsena.24 Da questa postazione, più volte, i fanti ed i cavalieri partono
per aggressioni contro la città. Giovanni di Vico esce con cavalli e con 500 fanti, gira intorno al
monastero per valutarne la consistenza difensiva, ma le genti della Chiesa non lo attaccano. Si
scontra però con un centinaio di cavalieri che stanno recando rifornimenti al convento e,
temendo di esser accerchiato, Giovanni ripiega; ora i soldati del convento fanno una sortita,
gli uomini del prefetto si sbandano, e Giovanni stesso riesce a stento a salvarsi col cavallo
ferito.25 La guerra prende una buona piega, cade un castello dopo l'altro, 26 alla fine del mese
Tuscania si sottomette.27
17 PINZI, Viterbo, III, p. 287-288. Le lettere sono riportate integralmente nella traduzione di Pinzi.
18 PINZI, Viterbo, III, p. 288-289, si veda specialmente la nota 3 a p. 289.
19 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 9.
20 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III, cap. 109. Le angustie del cardinale vengono ben descritte
da FILIPPINI, Albornoz, p. 30-33, l’autore fa rilevare che, ironicamente, Albornoz allude alla sua
impotenza firmandosi: castellano di Montefiascone, perché egli così si vede, quasi prigioniero della sua
stessa rocca. CALISSE, I Prefetti di Vico, p. 109-111 e seguenti è un’ottima fonte per tutto ciò che riguarda il
rapporto Albornoz-prefetto.
21 Come abbiamo già visto nella precedente nota 16, militano col cardinale, il conte Ugolino di
Montemarte, Nicola di Soana, Ranuccio Farnese, Catalano di Bisenzio e i Monaldeschi della Cervara.
Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 452.
22 Sotto Petroio, presso Orvieto, dove oggi vi è il cimitero.
23 Da un brano di una lettera di Egidio, datata 17 marzo, al vescovo pacense: “tomaron a mas xxx soldados
de piè qui avia puesto dentro el dicho Iohan que lo defendieren”. Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte
Francesco di Montemarte, p. 229, nota 3 da p. 228.
24 Nella stessa lettera Egidio chiama Benedetto Monaldeschi: Benedito de Moaldarses filio de Iusepe Orman.
25 Ancora un brano della lettera di Egidio: «firieron mui mal el cavallo que cavalgave el dicho Iohan et tomaron
Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 417; Ephemerides Urbevetanae, Degli
accidenti di Orvieto, p. 66-67; Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 228-
229. ANTONELLI, Patrimonio, p. 147-154 narra in dettaglio le angustie e le iniziative del cardinale.
27 GIONTELLA, Tuscania attraverso i secoli , p. 123-124 narra che Puccio di Cola Farnese assedia Tuscania,
difesa da Sciarra di Vico. Il 18 marzo i pontifici entrano in città, rotte le porte, e i soldati del prefetto si
asserragliano nella rocca. Puccio di Cola ne compra la resa per 50 fiorini. Sciarra di Vico muore poco
dopo. Le discordie intestine deflagrano appena in città rientrano gli esuli e Albornoz è costretto ad
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inviarvi Carlo di Dovadola per sedarle. Il cardinale entra in Tuscania il 1° di aprile. Il 4 aprile, 370
capifamiglia giurano la fedeltà alla Chiesa. CAMPANARI, Tuscania, p. 198-199 è molto scarno, senza
dettagli.
28 CARRARA, Scaligeri, p. 195.
29 Aldrighetto Castelbarco ha sposato Caterina della Scala, figlia naturale di Mastino II e di Gilia della
Legge, dalla quale è nato anche Fregnano; CASTELBARCO, I Castelbarco ed il Trentino, p. 119.
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L’arrivo delle truppe viscontee il 23 di febbraio impedisce a Gonzaga di inviare altre truppe,
per non sguarnire Mantova, e messer Fregnano non può certo aprire le porte al Visconti, sia
perchè il potere lo ha preso per difendere la città dal Milanese, sia perchè sà che Bernabò non
esiterebbe a liberarsi di lui. Bernabò sembra tornare indietro, ma si pone in agguato e, all’alba,
cattura Ugolino Gonzaga che sta recandosi a Mantova. Issando le bandiere di Ugolino, prova
ad entrare per Porta San Massimo, ma è scoperto e costretto a ripiegare.
Giovanni Della Scala, figlio di Bartolomeo, era fortuitamente fuori Verona ed, appena
viene informato delle nuove vicende, si precipita a Vicenza, della quale è governatore, e la
occupa a nome di Cangrande. Quindi invia corrieri a Cangrande per informarlo degli eventi.
Ma intanto, Cangrande non è stato inattivo. Scampato al’agguato, invia il fratello
Cansignorio a Vicenza, da Giovanni, a comprendere cosa sia accaduto. Qui Cansignorio viene
messo al corrente della presa del potere da parte di Fregnano, e invia un messo al fratello per
informarlo. Il messo raggiunge Cangrande quando questi è arrivato a corte dal suocero, che
gli garantisce aiuti. Cangrande, secondo l’esempio del suo grande omonimo avo, non
frappone indugi, monta a cavallo, accompagnato da 100 cavalieri forniti dal suocero, e con
una massacrante cavalcata arriva a Vicenza. Qui trova 200 cavalieri fiorentini, comandati da
Manno Donati, che il fedele alleato Carrara gli ha fornito e i militi che Celestino ed Azzo
hanno inviato a Peschiera. Instancabile, la notte stessa, con 600 barbute, e con l’esercito
cittadino di Vicenza, va a Verona. Vi arriva all’alba, lascia le strade e, per campi, giunge ad
una porticina scarsamente sorvegliata, che chiude le mura al Campo di Marte. Due coraggiosi
cavalieri, il Fiorentino Giovanni dell’Isola e un Tedesco, hanno preceduto le truppe scaligere,
con la missione di penetrare in città ed aprire le porte. Nel guadare l’Adige, il povero Tedesco
annega, ma Giovanni entra in città, corre dai fedeli di Cangrande ed ottiene che vengano con
scuri ed armi alla porta, per abbatterla.30 L’azione è faticosamente attuata, malgrado le pietre
e verrettoni che le guardie di sorveglianza scagliano contro gli accorrenti. Messer Fregnano,
all’erta per le truppe di Bernabò, che solo il giorno avanti ha attaccato Porta San Massimo, sta
cavalcando all’esterno delle mura; quando vede la porticciola aperta, intuisce cosa stia
avvenendo e scaglia tutti i suoi contro il varco. Ma è troppo tardi, Cangrande, arrivato alla
porta s’è tolto la barbuta per farsi riconoscere dalle guardie, esclamando: «Io vedrò chi
saranno coloro che mi contradieranno l’entrata della mia terra!». Le sentinelle lo hanno
accolto festosamente e lo hanno fatto entrare. Quando Fregnano arriva lo trova già dentro le
mura, con gran parte delle sue 600 barbute. Entra anch’egli e, nella piazza, riconosce il
fratellastro, abbassa la lancia e lo carica; ma un cavaliere scaligero assale Fregnano di fianco e
lo scavalca con un gran colpo all’elmo. Messer Giovanni, detto Mezza-Scala, balza di cavallo,
corre sul caduto Fregnano e con un coltello lo sgozza.31 Nello scontro muoiono anche messer
Paolo della Mirandola e messer Bonsignore d’Ibra, gran conestabile. Le porte della città sono
serrate, i cittadini si stringono intorno al loro legittimo signore, i cavalieri dei Gonzaga sono
catturati e consegnati a Cangrande. È il 24 di febbraio, la velocità di reazione è stata la chiave
del successo.32
30 Giovanni dell’Ischia, o dell’Isola, «sceso sul greto, aggirò lo sperone di mura dal quale partiva la
catena di sbarramento del fiume, e penetrò nella città». CARRARA, Scaligeri, p. 196.
31 Secondo un’altra versione, riportata dal Corio, Fregnano, scavallato, si rialza e fugge con 25 dei suoi,
imbarcandosi su una navicella, che però non riesce a salpare, essendo assicurata con una catena.
Catturato, viene impiccato. CORIO, Milano, I, p. 785.
32 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. II, cap. 99, 100 e 101; BAZZANO, Mutinense, col. 618-619; VERCI,
Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 172-180; CORIO, Milano; I; p. 783-785; Chronicon Estense, col. 478-
480; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 29-30; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 30-36, molto dettagliata;
Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 29-31; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 29-31; VERGERIO, Vite dei Carraresi,
col. 182; GAZATA, Regiense, col. 72-75; GAZATA, Regiense², p. 276-283. Si veda anche Breviarium Italicae
Historiae, col. 288; Domus Carrarensis, p. 65-66, cap.189 e 190; CARRARA, Scaligeri, p. 195-197. Solo poche
parole in MARCO BATTAGLI, Marcha, p. 57. Niente di originale in GIULINI, Milano, lib. LXVIII. Dal punto di
vista dei Gonzaga in ALIPRANDI, Cronaca di Mantova,p. 133-134, questa fonte parla di 900 uomini gettati
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in carcere, dove languono per 50 giorni. Una breve sintesi, tendente a scagionare Aldobrandino d’Este in
FRIZZI, Storia di Ferrara, vol. III, p. 325-326. Appena un cenno in Annales Forolivienses,p. 67. Vedere anche
TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 27, ma molto scarno.
33 Tra cui Giovanni Canovano con 4 suoi figli, Alboino della Scala, messer Alberto di Monfalcone, gran
conestabile, Giannotto, fratellastro per parte di madre di Fregnano, 2 figli di Tebaldo di Camino. La
tradizione vuole che tra i comandanti giustiziati per aver partecipato al tentativo di Fregnano vi sia il
valoroso Pietro del Verme, il comandante che ha validamente tenuto Treviso contro le truppe della lega
antiscaligera (si veda ad es. CASTELLINI, Storia di Vicenza, lib. 13°, p. 77-78). Nel corso degli anni, quando
si è offuscata la stella scaligera, Pietro ha cercato la fortuna in Lombardia ed ha stretto relazioni con i
Visconti e probabilmente questa vicinanza è la chiave per comprendere la sua partecipazione alla
congiura. Gian Maria Varanini ci informa che Pietro dal Verme non è stato giustiziato, bensì esiliato,
insieme ai suoi figli, e come sia morto a Brescia prima del maggio 1357. VARANINI, Dal Verme Pietro, in
DBI, vol. 32°.
34 Feltrino Gonzaga cerca scampo presso la chiesa dei Frati Minori (e non già in casa del fratello minore
di Cangrande, come equivoca Corio) ma viene scovato e condotto alla presenza di Cane, che siede nella
piazza, i cui accessi sono presidiati dalle sue truppe. Cangrande fa venire Feltrino, accompagnato da un
suo milite, dinanzi a lui, poi ordina che il soldato venga fatto a pezzi, terrorizzando Feltrino. Ma Cane lo
fa custodire insieme a Alberto, Pietro e Corrado Gonzaga. GAZATA, Regiense, col.75 ; GAZATA, Regiense²,
p. 280-281. Domus Carrarensis, p. 66, cap. 190, dice che Cangrande avrebbe fatto morire di fame Feltrino
ed i 500 Mantovani catturati con lui, «se i magnifici signori da Carrara con le so preghiere et ovre no
havesse obviado ad tanta crudelitate». Sulla vendetta o giustizia vedi VERCI, Storia della Marca Trevigiana,
tomo 14°, p. 180-181.
35 Ottocento persone dice, con qualche presumibile esagerazione, CORIO, Milano, I, p. 785-786. Con
la liberazione dei prigionieri avviene anche per l’impegno di Giacomino e Francesco da Carrara.
ROSSINI, La signoria scaligera dopo Cangrande, p. 695 sottolinea che il prestito di Venezia lega anche
Mantova e i Gonzaga alla lega.
37 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III, cap. 102 e CORIO, Milano, I, p. 785-786.
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Luchino, significa che alcuni ceti della società veronese avevano perso fiducia degli uomini
che guidavano la signoria stessa». Cangrande ha trionfato, ma è costretto a rivolgersi a
Venezia per aiuto e ne ottiene i podestà per la sua Verona, alcuni tra gli uomini migliori di cui
la Serenissima è provvista: Marco Soranzo e poi Niccolò Giustiniani. In estrema sintesi,
possiamo dire che Cangrande ha scavato un solco tra sé e la borghesia, ha annullato il
consiglio maggiore, o dei Cinquecento, e si è appoggiato su Venezia.38
Poiché una nave carica di merci milanesi è nel porto di Mantova, il Gonzaga,
cialtronescamente, se ne appropria, quale parziale rivalsa del suo debito di 30.000 fiorini,
costretto a pagare, a suo giudizio, per colpa del Visconti. In realtà si è appropriato di un
carico di un valore ben superiore al suo debito. Questo non gli procura l’amicizia
dell’arcivescovo.39
Taddeo Manfredi, approfittando della debolezza dei Gonzaga, signori Reggio, ottenuto
l’appoggio di Giovanni Visconti e dei Fogliano, inizia a riedificare il castello di Borzano. I
Fogliano iniziano a guerreggiare nel Mantovano e Taddeo Manfredi nel Reggiano. Viene
distrutto il castello di Arceto che i Fogliano stanno riedificando.40
Cangrande II, chiamato ora canis rabidus per la spietata repressione operata, riconosce il
solco che si è scavato tra la sua casata e Verona ed affida a Guglielmo Bevilacqua la
costruzione del castello, che viene costruito in soli due anni. Fortificata la sua residenza nella
città, Cangrande si assicura la via di comunicazione verso Vicenza, facendo edificare il
castello di Montecchio Maggiore e completa il Serraglio di Villafranca.41
Sciogliendo un voto formulato quando ha affrontato Fregnano, Cangrande II fa erigere
la Chiesa di Santa Maria della Vittoria e sulla facciata fa incidere un’iscrizione che recitava:
«Scaliger amissam Canis hanc intravit in urbem / Hanc et ob id pulcram condidit ecclesiam».42
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un Monte, che rende ai cittadini 1 denaro per lira al mese, per dono, danno e interesse. Il credito
è trasmissibile e privilegiato e, in verità, il comune l’onorerà sempre. Vi è chi arriva a
guadagnare il 15% annuo. Tra gli ordini religiosi di Firenze vi è un gran dibattito se ciò sia
lecito o costituisca usura. Matteo Villani, da buon mercante, non solo lo considera lecito, ma
depreca coloro che seminano dubbi nelle coscienze.46
«Negli anni di cristo 1354 rinnovellò lo maladetto seme che già era stato seminato per
adietro e quasi dormia quella sementa». Il seme della discordia cresce tra Albizi e Ricci. «Gli
Albizi erano calunniati d’essere di Arezzo e ghibellini» ed i Ricci vogliono vietare l’accesso
agli uffici pubblici ai ghibellini. Altri dicono che gli Albizi sono originari d’Alcone,
nell’Aretino, poi, inurbatisi, sono stati cacciati da Arezzo per essere guelfi. Il nostro cronista,
Marchionne di Coppo Stefani, confessa di ignorare quale sia la verità, perché non nota
neanche ai contendenti. Comunque, i Ricci si armano e vogliono imporre una legge che multi
di 500 fiorini chiunque, ghibellino, ricopra un ufficio pubblico. È una trappola per ottenere
che gli Albizi si oppongano al provvedimento, rivelando così la loro natura di ghibellini. In
effetti, al di là della ragione, qualunque provvedimento promosso da una parte veniva
opposto dall’altra. Presentata la mozione di legge, arriva il giorno nella quale si doveva
deliberare, quando Geri de’ Pazzi, uno degli amici dei Ricci e forse amico anche del principale
esponente degli Albizi, cioè Piero di Filippo, si reca da lui e gli fa notare la trappola,
convincendolo a votare per il sì. Piero di Filippo dunque spiazza i Ricci votando
favorevolmente. La legge sarà «la guastagione della buona e pacifica città di Firenze».47
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49 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III, cap. 110. DEGLI AZZI VITELLESCHI, La repubblica di Firenze e
l’Umbria, p. 108-110 riporta il testo della lega di Firenze, Siena e Perugia contro i venturieri.
50 FILIPPINI, Albornoz, p. 35-38; CALISSE, I Prefetti di Vico, p. 112.
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definitive alla corte di Napoli il 6 febbraio, il cui senso è: la Sicilia si ricongiunge al Regno di
Napoli, non potrà mai esser ceduta e verrà governata dal partito Latino, che amministrerà
l’isola con qualche autonomia e con piena dignità. Nicola e re Luigi d’Angiò decidono di
accettare la proposta dei Chiaromonte.
Ai primi di marzo,53 Enrico Rosso riconquista Fiumedinisi54 e conduce prigionieri a
Catania la moglie ed i figli di Francesco Palizzi. Re Ludovico ottiene Termini, Cefalù, Santa
Lucia. I Chiaromonte chiamano gli Angiò di Napoli e Francesco Palizzi arriva alla marina di
Scicli (a sud di Modica) con quattro galee napoletane. Quindi, con venti favorevoli arriva a
Catania e tenta di farla ribellare, ma è costretto a ritirarsi. Re Luigi d’Angiò invia in Sicilia il
gran siniscalco, Nicola Acciaiuoli, il quale conduce in Sicilia sei galee e due panfani, con 100
cavalieri e 400 fanti, forza militare addirittura ridicola se confrontata con i poderosi sforzi e le
immense spese del defunto re Roberto d’Angiò. Seguono però la spedizione tre navi onerarie
e trenta barche grosse, cariche di grano ed ogni ben di Dio. Nicola ha con sé Raimondo del
Balzo, conte di Soleto, e recentemente nominato governatore di Barletta e Brindisi.55 Nicola
entra nel porto di Messina e chiede un colloquio con Eufemia, sorella del re, ricevuta una
risposta negativa, attacca contando sulla sollevazione della popolazione, ma viene ricacciato.
La flotta allora attracca a Milazzo, dominata da Nicola Cesareo che, a fine marzo, gli consegna
il castello per 1.500 once e si reca in Calabria per unirsi agli Angioini. Nicola mette nella
fortezza una guarnigione di 50 cavalieri e 100 fanti, poi va a Palermo e i Palermitani «che per
fame più non havieno vita» accolgono i Napoletani come salvatori. Avuta Palermo e tutti i
castelli del suo contado, la ribellione contro i Catalani scatta in tutta l’isola. Si danno a Napoli,
Trapani, Seraghozza (Siracusa), Girgenti (Agrigento), Licata, Mazara, Marsala, Castrogiovanni
e molte altre terre e castelli, in tutto 112 località. Il successo è così vasto ed inatteso che re
Luigi di Napoli non riesce a mandare abbastanza soldati a presidiare le nuove conquiste, ma
la debolezza degli avversari è ben maggiore, e tale che non vi è neanche un tentativo di
guerra. Se non può mandare truppe, però re Luigi invia grano dalla Calabria, grano benedetto
dalle popolazioni bisognose. In breve tempo la popolarità della corona di Napoli è alle stelle.
Ma la conquista di tutta l’isola ha bisogno di truppe e a nulla valgono le continue insistenze
degli emissari di Nicola Acciaiuoli, primo tra tutti il poeta Zabobi da Strada, che non lasciano
in pace i reali di Napoli, «né di giorno, né di notte, persino quando sono a letto»: re Luigi non
manda nessuno e Nicola, esasperato, torna a corte, lasciando a metà l’impresa.56
53 La cronologia degli eventi come narrata dalla principale fonte di questo periodo, Michele da Piazza, è
confusa e gli storici recenti e hanno fatto molto per complicarla, mettendo l’uccisione di Matteo Palizzi
nel 1354, quindi in un momento che non lascerebbe spazio agli eventi di maturare. In particolare, prima
dell’assassinio del conte di Novara, il conflitto tra Catalani e Latini non è conflagrato in modo aperto ed
inoltre Michele da Piazza mette la missione citata in questo paragrafo molto dopo la morte di Matteo
Palizzi e lo scoppio della guerra civile; in conclusione: la morte di Matteo Palizzi va collocata nel 1353.
Per aiutare chi voglia verificare nel testo di Michele da Piazza gli avvenimenti, ciò che è avvenuto nel
1354 si colloca fino al capitolo 105, il 1355 va dai capitoli 106 al 120, il resto è 1356 e 1357. Per quanto
detto in questo paragrafo, si veda MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 80, 82 e 83; PISPISA, Messina nel
Trecento, p. 220. Una sintesi moderna molto dettagliata è in MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 67-79.
54 Il castello di Fiuminisi è sull’omonimo torrente e domina la strada tra Messina e Taormina.
55 DEL BALZO DI PRESENZANO, A l’asar bautezar!, vol. I, p. 414. Raimondo è nato verso il 1303 è quindi un
uomo esperto, egli ha combattuto e sconfitto i fratelli Pipino nel 1340-1341 ed è stato un uomo di
riferimento durante la transizione da re Roberto alla giovane Giovanna. La regina lo nomina Capitano
Generale e Giustiziere in Capitanata nel 1346. Egli è al fianco di Re Luigi quando egli si dedica a
riconquistare il regno di Napoli con le armi contro gli Ungheresi. Raimondo è stato il procuratore della
regina ad Avignone quando si faceva il processo contro di lei, egli è quindi un uomo dalle vaste
competenze e preziosissimo.
56 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 3 e LEONARD, Angioini di Napoli, p. 468-471. Cronache
senesi, p. 573 registra a giugno la notizia dei successi napoletani. TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 140-156 ci
fornisce un ampio resoconto dell’impresa e delle angustie nelle quali si è dibattuto Niccolò, basate
sull’epistolario del siniscalco; UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 215-216. Ho qui riassunto
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in poche righe una lunga e complessa catena di eventi che possono essere trovati in MICHELE DA PIAZZA,
Cronaca, e che conducono il siniscalco a abbandonare, per ora, l’impresa, comunque narrerò qualcuno di
questi, nella propria collocazione cronologica.
57 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 82, Michele da Piazza fornisce un importante elemento cronologico
in questo capitolo, ci dice che re Ludovico è a Taormina il sabato santo che è il 12 aprile e, nel 1354,
Pasqua è il 13 aprile ed è VII indizione, come indicato da Michele.
58 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 86.
61 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 57; MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 82; PISPISA,
Messina nel Trecento, p. 220-221; TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 173-174 con molti dettagli; UGURGIERI DELLA
BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 234.
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quanti più possono. I rettori di re Luigi di Napoli vengono scacciati insieme ai guelfi, i
ghibellini riformano il governo di Rieti. Il nuovo podestà è l’Eugubino Francesco dei Grabuzi.
Da Spoleto vengono espulsi i capi dei guelfi, gradualmente, dal 26 marzo all’aprile del
1354, fin quando, verso il 15 maggio, la fazione guelfa decide di reagire, impugna le armi e
doma i ghibellini. Nei tumulti viene ucciso Giacomo di Gentile Ancaiani. Il 20 maggio il
consiglio cittadino delibera «la conservazione del pacifico stato popolare» e ne affida
l’esecuzione ad un ristretto numero di cittadini, escludendo rigorosamente i nobili. La balìa
non ha il permesso di deliberare sugli esiliati dal podestà Lello Gezzi. La balìa decide, tra
l’altro, di porre grosse taglie sul capo di Tommaso Pianciani e di Pietro di Simone della Torre,
capi esiliati dei ghibellini.62
A tal proposito scrive Parruccio Zampolini: «furne cacciati li Gibellini et stettero ben doi
o tre anni de fore, et poi la Chiesa de Roma fece la pace et remise li usciti Gibellini, pigliò
Spuliti et trasselo delle mani del commune de Peroscia, nella quale ce comenzò a edificare lu
cassaru nel monte de Sant’Elia dentro a Spuliti, et vastò quello della porta de S. Gregoriu, lu
quale io viddi devanti et depoi che fosse comenzatu ad edificare».63
62 SANSI, Spoleto, p. 228-230. Sansi dettaglia bene i provvedimenti presi dal ristretto gruppo dei cittadini
popolari, può interessare notare che vi sono dei mercenari agli stipendi di Spoleto: Sandro (cognone
ignoto) e Francesco Mulbert, Tedeschi, Angelo Mastinucci di Gayfa, e un certo Borra, tutti condottieri di
barbute.
63 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. III, cap. 112; MICHAELI, Memorie Reatine, III, p. 87; DI NICOLA,
Gli Alfani di Rieti, p. 30-31. Su Spoleto si veda ZAMPOLINI, Annali di Spoleto, p. 113.
64 HATCH WILKINS, Petrarca, p. 163; DOTTI, Petrarca, p. 289-290
66 PETRARCA, Familiarium, XVIII, 16. HATCH WILKINS, Petrarca, p. 165; DOTTI, Petrarca, p. 290.
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tutta l’erba che trovarono viva sopra la terra e del puzzo ch’uscia dalla loro corruzione
corruppono tanto l’aria del paese che.nne seguitò grande mortalità nelli uomini e grande
fame a tutta la provincia». Per interrompere la pestilenza vengono scavate grandi fosse dove
vengono gettate le puzzolenti carcasse.68
68 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. VI; MATTEO PALMERI, De Temporibus, col. 223.
69 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 59-60, KERSUZAN, Défendre la Bresse et le Bugey, p. 91 ;
COGNASSO, Savoia, p. 143 ; PARADIN, Chronique de Savoye, p. 232; CIBRARIO, Savoia, III, p. 122-1224 elenca
gli alleati del Conte Verde ed enumera gli aiuti portati.
70 Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 66-67; PINZI, Viterbo, III, p. 291-292; CALISSE, I
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fallisce un tentativo dei figli di messer Ermanno di introdursi in Orvieto, rompendo una porta
murata. Il 7 giugno viene annunciata la tregua. L'8 giugno, domenica, torna in Orvieto il
prefetto Giovanni di Vico. Il legato arriva al battifolle di S. Lorenzo e vi pernotta. Lunedi' 9, al
mattino, Egidio Albornoz attende ad un miglio fuori della città il prefetto, che gli viene
incontro ad impetrare perdono, l’orgoglioso Giovanni si inginocchia, Egidio lo fa rimanere in
questa posizione a lungo, poi lo fa montare a cavallo e, con molte truppe, entrano entrambi in
città, cavalcado fin al vescovado. È presente il conte Ugolino da Montemarte.71 Tutti i
fuorusciti rientrano in un clima di generale allegria.
Il legato fa scortare il prefetto e suo figlio Francesco a Viterbo. Giovanni di Vico, ma
diverso tempo dopo, si ritirerà a Corneto e poi a Civitavecchia, a riflettere sui suoi errori.
Egidio rimane ad Orvieto per sette mesi. Fa costruire una forte rocca dentro la città.72 Con
Albornoz tornano in vita gli antichi ordinamenti del comune, precedenti alla signoria di
Ermanno Monaldeschi. Il 24 giugno, per la festa di S. Giovanni, Egidio viene proclamato
signore a vita di Orvieto. Albertaccio de' Ricasoli è suo vicario, il quale nomina suo
luogotenente il fratello Bettino Ricasoli.
Egidio spinge i Monaldeschi a partecipare alla spedizione contro il Malatesta. Vi vanno,
malvolentieri, Berardo di Corrado dei Monaldeschi della Cervara «huomo di credito et di
valore»,73 Petruccio di Pepo, Tommaso di Cecco di Monaldo e Monaldo di Andreuzzo
Ranieri.74
74 Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 67-70, note 1 a p. 68 e 69; Ephemerides Urbevetanae,
Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 229; Ephemerides Urbevetanae, Annales Urbevetani p. 197-198;
GUALTERIO, Montemarte, 2°, p. 182; VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 9 e 10; PINZI, Viterbo,
III, p. 293-297; BUSSI, Viterbo, p. 200; CALISSE, I Prefetti di Vico, p. 115-117; FILIPPINI, Albornoz, p. 38-45;
MONALDESCHI MONALDO, Orvieto p. 110 verso. Notizia del ritorno della Compagnia dalle Marche
all’Umbria è in Annales Caesenates, col. 1182 e Annales Cesenates³, p. 188. Bettino Ricasoli è comandante di
25 barbute, altri due conestabili di 25 barbute, assoldati dal cardinale Albornoz, sono il Tedesco
Broccardo e Borgo di Castelfranco. Bagnoregio è costretta a rimborsare 10 fiorini alla curia di Albornoz
per aver ritirato i suoi soldati dall’impresa di Vetralla; PETRANGELI PAPINI, Bagnoregio, p. 130. FUMI,
Codice diplomatico della città d’Orvieto, p. 537-544, Doc. 680 pubblica il documento con il quale Orvieto si
dà al papa ed al legato. ANONIMO ROMANO, Cronica, p. 223-224. L’intera campagna per la conquista di
Viterbo è in ANTONELLI, Patrimonio, p. 156-162.
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egli prepara la conquista a partire da Orvieto e da Viterbo».75 Sfortuna vuole che di fronte il
prefetto non abbia uno dei tanti legati inconcludenti inviati da Avignone, bensì il migliore
cardinal legato del secolo: Gil Albornoz, il quale, contrariamente ai suoi predecessori inizia la
riconquista dello Stato della Chiesa proprio dal Patrimonio, stroncando le ambizioni di
Giovanni.
§ 26. La siccità
La popolazione di Firenze è angustiata perchè alla carestia in atto, si aggiunge una
continua siccità che fa temere che il prossimo raccolto non sarà buono. I buoni Fiorentini
tentano allora di ingraziarsi la Divinità, con continue orazioni e processioni, ma, «quante più
processioni si faceano, più diventava il dì e la notte sereno il cielo». Disperati, ricorrono alla
Madonna dell’Impruneta e l’11 maggio traggon fuori del santuario l’antica tavola dipinta e la
portano in processione, insieme ad altre venerabili reliquie. La tavola è custodita e sorvegliata
da membri della casa Buondelmonti, cui la pieve, dove la tavola è riposta, appartiene. Mentre
si fa la processione il cielo si annuvola, rimane coperto il giorno successivo; il terzo giorno
piove «minuto e poco», poi il quarto inizia a piovere abbondantemente, e per sette giorni non
smette di cadere un’«acqua minuta, e cheta, che tutta s’impinguava nella terra». Mentre si
temeva la siccità e la carestia, il raccolto sarà invece abbondante.80
Domus Carrarensis, p. 66, cap.191; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 183-185; ROSSINI, La
signoria scaligera dopo Cangrande, p. 695-696.
78 Chronicon Estense, col. 478.
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sul Panaro, presso Nonantola, per assicurarsi la via dei rifornimenti. Sull’altra sponda arriva
da Parma l’esercito del Visconti. Si attesta tra la Secchia ed il canale, di fronte all’esercito
bolognese. Anche i Parmensi costruiscono un ponte. Gli eserciti possono ora comunicare
agevolmente l’uno con l’altro, e da questa posizione si recano a devastare il Modenese,
governato dall’Este. Sono sul posto per sei giorni, poi, domenica 25 maggio, tornano verso
Bologna. A Ponte Sant’Ambrogio, sul Panaro, a meno di tre miglia da Modena, erigono una
forte bastia. Poi messer Giovanni d’Oleggio si reca a Cauriana, nel Mantovano, e in un
castello del Bresciano chiamato Vighizzolo,82 facendo continue scorrerie nel Mantovano.
La lega reagisce mettendo in campo un grande esercito, il cui comando è affidato a
messer Francesco da Carrara, signore di Padova, ed inviandolo a Vighizzolo. La Gran
Compagnia giunge in Toscana e si dice che voglia andare verso Bologna. Ragion per cui
l’esercito visconteo abbandona l’assedio di Modena e rientra urgentemente a Bologna e
Parma, non senza danni.83
Il 2 giugno, i nobili di Macreto (da Magredo), avanzando il pretesto di offese loro recate
dai da Sassuolo, alleati estensi, si ribellano al marchese d’Este ed al comune di Modena. Il
comune reagisce condannando i Pio, Magredo, Albertino e Doze ed altri de Fredo, Papazoni,
Giovanni Adelardi e figli, e venti fuorusciti modenesi, ottanta persone in tutto, alla
devastazione dei loro beni. Il 13 giugno i Rangoni, fedeli agli Este, comandano una spedizione
alla quale partecipa gran parte dei Modenesi, contro Carpi, per assediarlo. Sono circa 700
cavalleggeri e molti fanti. Si limitano a devastare il territorio, ma, non ottenendo reazioni, il 25
giugno, all’ora del vespro, levano le tende, abbandonando molti arnesi e viveri, e ritornano a
Modena, dove giungono quando le prime stelle occhieggiano dal cielo estivo.84 Le
vicissitudini per il territorio non sono terminate, come vedremo in luglio.
accampa. Il 5 giugno è nel Fulignate e acquista vettovaglie. Non entra a Spoleto, ma fa guasto nel
territorio di Trevi e Montefalco, il 10 si incammina verso Todi e di qui passa in Toscana. PELLINI; Perugia;
I; p. 945. NESSI, I Trinci, p. 63-64 ci fornisce il nome del vescovo e ci conferma che il 4 giugno Monreale è
nei pressi di Foligno. Diario del Graziani, p. 171-172 dice che il 5 giugno parte da Spello. Il 10 giugno
lascia Spoleto e va a Todi. Il 13 parte da Pian della Meta.
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Carlo Ciucciovino
uomini e bestiame». I Senesi inviano urgentemente un’ambasceria che compra per 3.000
fiorini, dati personalmente ai capi della Compagnia, l’accettazione di un tributo di 13.000
fiorini, il rifornimento alimentare e il passo. Ora Firenze è sola ed ha ragione di dolersi dei
suoi alleati. Mentre la Gran Compagnia va verso Arezzo, Firenze stringe allora alleanza con
Pisa, per mettere in campo 2.000 cavalieri, 1.200 da Firenze ed 800 da Pisa. Gli Aretini non
hanno denaro per togliersi dal groppone il cancro della Compagnia, offrono allora loro
«panno e vestimenti, e calzamenti, e vino per li loro danari». I mercenari accettano, ma i loro
cavalli devastano le coltivazioni nei campi. Ora la Compagnia pensa di «poter andare a soldo
in Lombardia» e manda ambasciatori al comune di Firenze per negoziare qualche vantaggio.
Si accontenterebbero di poco, ma i Priori «indiscreti se ne feciono beffe», e non concedono
loro alcunchè. Il Valdarno però è molto esposto ed ha timore del passaggio della torma
mercenaria, miete il raccolto, malgrado non sia giunto a totale maturazione, e fornisce bene di
fanti e cavalieri la frontiera. La Gran Compagnia, determina allora di tornare nel Senese, i cui
governanti donano loro viveri e passo, ed il primo luglio li guidano a Borgo di Staggia e poi a
Badia ad Isola, sopra l’Elsa.
La consistenza della Gran Compagnia è mirabile, 7.000 cavalieri, 5.000 dei quali «in
arme, cavalcanti, tra’ quali havea una gran quantità di Conestaboli, di gentili huomini
diventati pedoni bene armati e montati con più di MD (1.500) masnadieri italiani, e oltre a
costoro più di vinti mila huomini ribaldi, e femmine di mala condizione seguiva la
Compagnia per fare male e pascersi della carogna». Nondimeno, grazie all’ordinamento
datole da Fra’ Moriale, non solo la marmaglia ribalda, ma anche le puttane trovano la loro
utililità nell’armata, lavando panni e macinando il grano.86
Firenze vorrebbe fare il muso duro, chiede al Pisa gli 800 cavalieri della taglia, ma ne
riceve solo 80 con bel gonfalone. Prova allora a sollecitare Perugia e Siena, perchè vogliano
unirsi a lei contro i mercenari, ma i due comuni rifiutano. Allora si decide a cercare di trattare
con Fra’ Moriale, inviandogli ambasciatori che questi trattiene senza dar loro risposta. Il 4
luglio l’esercito mercenario si mette in marcia , arriva, senza fermarsi, a San Casciano, devasta
per sei giorni il territorio. Finalmente, il 10 luglio un’ambasceria fiorentina, corrompendo i
capi con 3.000 fiorini (evidentemente la pratica senese è divenuta prassi), riesce a far accettare
25.000 fiorini alla Compagnia per Firenze e 16.000 per Pisa, contro l’impegno di non più
tornare nei loro territori per due anni.
Riscosso il dovuto, Fra’ Moriale conduce la Compagnia a Città di Castello, ad attendere
il saldo dei pagamenti da messer Malatesta da Rimini, dall’Ordelaffi e da Gentile da
Mogliano. Spartito il bottino, i capi deliberano di essere per quattro mesi al soldo della lega
veneta contro il Visconti, per 150.000 fiorini. Fra’ Moriale nomina suo vicario il conte Lando,
che conduce l’esercito in Lombardia, ed egli, accompagnato da 300 cavalieri, va verso Perugia
e verso il suo destino.87
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La cronaca del Trecento italiano
§ 30. «Come il popolo di Bologna si levò a romore per avere libertà e fu in maggiore
servaggio»
Il 9 giugno, viene ordinato che tutti gli uomini a piè e cavallo di due quartieri di Bologna
vadano nel Modenese. I Bolognesi non sono entusiasti di eseguire l’ordine, perchè animati da
sentimenti di amicizia verso i Modenesi e perché sanno che dovranno servire senza soldo. Il
mattino seguente, mentre gli uomini si armano svogliatamente, scoppia, spontaneo, un
tumulto. Si grida: «Viva il popolo!» e, ma molto più debolmente, «Viva l’arcivescovo!». La
sommossa non ha un capo, è generata da malumore, gli ufficiali dell’arcivescovo inviano gli
uomini alle loro case; ognuno vi sta armato. Coloro che non erano comandati, si armano a
loro volta, nel chiuso delle loro dimore. La tensione è altissima, una parte del popolo si è
riunita presso le case dei Bianchi; gli stessi mercenari sono indecisi e può darsi che,
scoppiando un tumulto, si schierino dalla parte dei Bolognesi, se non altro per paura. Ne
scapitano i seguaci dei Bentivoglio, che, fuori di Porta San Donato, pensano di poter
approfittare del tumulto e, guidati da Jacopo Bentivoglio, provano ad entrare, ma ormai il
furore è passato, tutto è ormai calmo, e l’impresa fallisce. Bocca dei Sabatini si offre di correr
Bologna per conto di Giovanni Oleggio: questi dà il suo consenso e mette a disposizione i suoi
mercenari. Bocca corre la città non incontrando resistenza alcuna. Non si è ben capito cosa sia
successo, ma una cosa è evidente: che qualcuno fomenta il malcontento contro Giovanni
Oleggio. Questi, spaventato si è rinchiuso nel suo castello. Da qui convoca molti cittadini,
alcuni dei quali, con la coscienza tranquilla vanno a palazzo e sono scagionati, altri si
rifiutano e sono condannati alla decapitazione. Il 12 giugno vengono giustiziati molti
cittadini92 nel campo del Mercato. Altre esecuzioni hanno luogo il 14 ed il 21 e il 23 giugno.93
Molti sono costretti a pagare multe consistenti. A tutti i cittadini Giovanni Oleggio fa togliere
le armi. «Il vile popolo con tanta fretta le portò (le armi) alla chiesa, che gli ufficiali deputati a
riceverle non poteano comportare la calca». I due quartieri dal cui malumore è scaturito il
tumulto: Porta Ravegnana e Porta San Pietro, sono costretti a partire per Castelfranco, armati
di soli bastoni. L’8 luglio è la volta di altri due quartieri che danno il cambio ai primi, ed
infine tocca agli ultimi due.94 Si scopre una congiura a Faenza contro messer Giovanni che ne
89 Cronache senesi, p. 573-574. Oltre all’ingente somma in fiorini d’oro, Siena accetta anche di pagare la
menda di molti cavalli morti nel Senese, dona anche pane, vino e confetti agli avventurieri. La cronaca
alle p. 573-574 registra anche due visite di Malatesta a Siena: una ad aprile, quando il comune dona a
«misser Malatesta da Rimino» 380 libbre di cera, 93 di confetti, 3 moggia d’orzo, 8 staia di vino ed altro,
spendendo 120 fiorini, poi, a luglio, arriva Malatesta Ungaro al quale vengono fatti doni per 52 fiorini
d’oro.
90 Cronache senesi, p. 573.
92 Tra questi, messer Delfino Gozzadini, Bornino di messer Giordano de’ Bianchi, Guerrino da Vizzano,
Zanane da Santo Alberto, Jacopo Bentivogli, Lippo di Maghinardo de’ Galluzzi, ed altri 8 uomini.
GRIFFONI, Memoriale, col. 169 e Chronicon Estense, col. 481.
93 Il 14 tocca ai Gozzadini: Fulcirolo, Calvoro ed il figlio di Bernardino, Michele Bentivoglio, ed altri 6. Il
21, tre uomini di minor conto ed il 23 Jacopo de’ Bianchi e suo figlio Zano, e Giovanni Mezzovillano.
GRIFFONI, Memoriale, col. 169-170.
94 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 32; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 39-45; Rerum Bononiensis, Cr. Vill.,
p. 32-40; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 32-35; VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 11 e 12;
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è il signore. Molti vengono giustiziati. Il 23 giugno fugge da Bologna messer Giacomo, conte
di Ramponi, temendo di esser accusato di sedizione. Il 18 luglio vengono banditi un centinaio
di cittadini, tra cui tutta la casata dei Bentivoglio. Sono all’ordine del giorno arresti,
esecuzioni, esili. Ma il cronista dice: «Di queste novità dovete sapere che mai non fu ordinato
alcun trattato, secondochè si diceva». Non vi è quindi congiura, ma Giovanni d’Oleggio
sembra far l’impossibile per scontentare tutti del suo governo.95 Cobelli chiama Giovanni
Oleggio: Iohanni de Valieze o de Valezo.96
BAZZANO, Mutinense, col. 620; Chronicon Estense, col. 481-482; GRIFFONI, Memoriale, col. 169. Una sintesi in
SORBELLI, Giovanni Visconti a Bologna, p. 318-320.
95 Un elenco dei giustiziati in SORBELLI, Giovanni Visconti a Bologna, p. 320.
97 Ce ne dà la lista Carta Raspi, desumendola da ZURITA, Annales de Aragon, Lib. VIII, cap. LIV:
Dall’Aragona: don Lope conte di Luna, don Filippo di Castro, don Giovanni Ximenez de Urrea, don
Giovanni Martinez de Luna, don Fernando Ruiz de Tahuste, Blasco Fernando de Heredia, don Lope de
Gurrea, don Estevan de Aragona e Sicilia, figlio del duca d’Atene, Pietro Jordan de Urries, Jordan Perez
de Urriez, Diego Gonzales de Cetina, Raimondo Perez de Pisa. Dalla Valenza: don Pietro de Exerica,
don Gilabert de Centellas, Olfo de Proxita, don Alonso Roger de Lauria, don Pedro Maca, don
Raimondo de Riusech, Gispert de Castellet, Matheo Mercer, Gonzalo de Castelvì, Pedro Lopez de
Oteyza, Roger de Ravenach, Pedro de Boy. Dalla Catalogna: Ugo visconte di Cardona, don Bernardo di
Cabrera, suo figlio Bernardino, Andrea visconte di Canet, don Ot de Moncada, Ruggero Bernardo.
ZURITA, Annales de Aragon, Lib. VIII, cap. LIII; CARTA RASPI, Mariano IV d’Arborea, p. 102-103.
98 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 21 e ZURITA, Annales de Aragon, Lib. VIII, cap. LIV;
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havere». Carichi di preda, e con gran vergogna dei Veneziani, tornano sani e salvi a
ricongiungersi col resto della flotta, che esce a cercare quella veneziana. «L’armate cavalcano
il mare, e innanzi che insieme si ritrovino, ci occorrono altre e non piccole cose a raccontare».99
99 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 22; STELLA, Annales Genuenses, p. 153, nota 4 che è
basata sul racconto del Villani. ACCINELLI, Genova, p. 83 aggiunge che con Paganino e le sue 25 galee vi
sono 10 galee di Visconte Grimaldo. Oltre all’azione dimostrativa contro Venezia, i Genovesi
saccheggiano Lesiane Curzola.
100 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 471-472.
101 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 471-473; TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 156-160 ; UGURGIERI DELLA
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Lalle, il popolo si arma ed al grido: «Viva il conte!», corre alle porte e le serra, Ser Lalle si reca
dal terrorizzato Filippo che teme per la sua vita, lo rassicura, si discolpa dal tumulto dicendo
che egli non vi ha messo mano, e convince il principe che il popolo non permetterà il rientro
dei figli di Todino. Messer Filippo, turbato, parte e Lalle lo scorta per tre miglia fuori delle
mura; quando arriva il momento del congedo, ser Lalle scende da cavallo per salutare e due
scudieri del principe lo trapassano con lo stocco, «e ivi a piè di messer Filippo fu morto
messer Lallo, per troppa confidanza, perdendo il suo senno, e la malizia tanto tempo usata
nel suo reggimento». Filippo non ha l’animo di affrontare la popolazione dell’Aquila e fugge.
Gli Aquilani piangono il perduto tiranno, poi, non avendo altri capi, ritornano all’obbedienza
del Regno, anche grazie alla saggia influenza del conte di Celano.103
103 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 17; BONAFEDE, L’Aquila, p.100-101 e per gli eventi
successivi all’assassinio di Lalle, p. 102-105; CIRILLO, Annali dell’Aquila, p. 37-38 recto e verso e 39 recto.
CAMERA, Elucubrazioni, p. 167-168; BUCCIO DI RANALLO, Cronaca Aquilana, p. 218-224 narra
dettagliatamente. Pochi cenni in Cronaca dell’Anonimo dell’Ardinghelli, p. 25-26 e Cronachetta anonima, p. 4.
104 PASCHINI, Friuli, I, p. 296.
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Gabrielli, perchè in odore di troppa ambizione. Giovanni Cantuccio si reca dal cardinale e
rimane presso di lui.107
Il 4 luglio, Avignone emana un’intimatoria contro Malatesta e Galeotto Malatesta, i quali
occupano illecitamente terre della Chiesa. Essi sono invitati a comparire il 10 ottobre davanti
al Concistoro; perché siano in grado di farlo, viene loro concesso un salvacondotto. I
Malatesta ignoreranno il provvedimento e pertanto vengono condannati in contumacia.108
107 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 13 e FILIPPINI, Albornoz, p. 51-53. LUCARELLI, Gubbio, p.
79 annota che Gabrielli cede Gubbio ad Albornoz in giugno.
108 CARDINALI, La signoria di Malatesta antico, p. 99-100.
109 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 38-39; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 45-46; Rerum Bononiensis, Cr.
Vill., p. 41-43; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 36-38; GAZATA, Regiense, col. 75 ; GAZATA, Regiense², p. 284-
285 e CORIO, Milano, I, p. 786. Molti dettagli in BAZZANO, Mutinense, col. 620-621; SORBELLI, Giovanni
Visconti a Bologna, p. 321-322 ed anche in TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 30-31.
110 Siamo quindi tra il 4 ed il 10 luglio.
111 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 20; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XI, anno 1354, vol.
1°, p. 194-197.
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«Quanno fu denanti allo legato, faceva dell’altiero. Mustravase gruosso con sio cappuccio in canna de
scarlatto, con cappa de scarlatto, forrati de panza de vari. Stava supervo. Capezziava. Menava lo capo
‘nanti e reto, como dicessi: “Chi so’ io? Io chi sò?” Puoi se rizzava nelle ponte delli piedi; ora se aizava,
ora se abassava». ANONIMO ROMANO, Cronica, p. 244.
115 REALE, Cola, p. 225-229 e ANONIMO ROMANO, Cronica, p. 244-245; DI CARPEGNA FALCONIERI, Cola di
Rienzo, p. 185-186. Il 15 luglio Fra’ Moriale parte da Acquarata e entra nell’Aretino, poi si accampa nella
piana di Anghiari e nel contado di Borgo Sansepolcro. Il 6 agosto parte per Faenza, il 12 è a Perugia, il 24
agosto lascia Perugia, diretto a Roma. Diario del Graziani, p. 172-173.
116 Splendido e indispensabile il racconto di ANONIMO ROMANO, Cronica, p. 241-249. Sull’importanza del
1° agosto: DI CARPEGNA FALCONIERI, Cola di Rienzo, p. 187 e, per tutti gli avvenimenti, p. 181-188.
GREGOROVIUS, Roma nel Medioevo, Lib. XI, cap. 7.4 considera la marcia verso Roma dell’ex-tribuno «una
perfetta parodia delle spedizioni imperiali su Roma».
117 ANONIMO ROMANO, Cronica, p. 247-248; DI CARPEGNA FALCONIERI, Cola di Rienzo, p. 192-194.
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L’arrivo di Cola in città ripristina l’ordine pubblico, ma non vi è da esser certi che i
baroni, forti nelle loro rocche fuori Roma, non vogliano opporsi all’autorità di Cola e della
Chiesa da cui il suo potere emana. Si convocano allora i nobili, perchè prestino giuramento di
fedeltà. Ma Luca Savelli, gli Orsini di Marino e i Colonna, il cui capo è ora Stefanuccio, il figlio
dell’assassinato Stefanello e il fratello del trucidato Gianni, i nemici di sempre, rifiutano di
sottomettersi. Stefanuccio arriva a recare offesa agli ambasciatori di Cola, e compie scorrerie
fino alle porte di Roma. Il Senatore non può non affrontare la situazione e porta l’esercito
sotto Palestrina, la sempre temibile rocca dei Colonna. Si sposta poi a Tivoli, ma quell’esercito
sembra il pallido fantasma dell’armata speranzosa di anni prima: «Staieva sio stendardo in
Tivoli, con soa arme de azule a sole de aoro e stelle de ariento e coll’arma de Roma. Forte
cosa! Quello stannardo non era lucente como era prima; staieva miserabile, fiacco, non daieva
le code allo viento rigoglioso». Il tempo è passato, la ruota della fortuna è irrimediabilmente
girata, l’occasione è sfuggita. Il giovane, bello, ispirato Cola, è divenuto un quarantenne
obeso, precocemente invecchiato, alcolizzato, solo. Le sue antiche milizie cittadine si sono
tramutate in feroci truppe mercenarie; unicamente i Perugini sono il collegamento col tempo
che fu. Solo i nemici sono sempre gli stessi ed egualmente invincibili. I conestabili tedeschi
reclamano le paghe, e ne hanno veramente bisogno, perché, secondo un’usanza comune,
hanno impegnato le armi e quindi se non le riscattano non possono combattere. Cola attinge
ancora alla cassa dei fratelli di Fra’ Moriale. Il 10 agosto paga le truppe e finalmente può
partire contro i Colonna. Ma la sua esperienza militare è nulla e il suo genio di generale è
inesistente; i conestabili mercenari potrebbero dare utili consigli, ma a che pro’ rischiare la
vita quando la paga è sicura?119
Messer Brettone ha compreso che le sue speranze di rientrare in possesso dei suoi fiorini
sono inesistenti. Chiede allora soccorso al terribile fratello. All’improvviso arriva notizia a
Cola che Fra’ Moriale è a Roma, con 40 capitani.120 Cola è costretto a togliere l’inutile assedio e
rientrare in Campidoglio. Apprende da una giovane che Fra’ Moriale è in segreta intelligenza
con Stefanello Colonna, per cacciarlo o ucciderlo. Ma il Senatore, ancora una volta, ricorre al
sicuro stratagemma dell’invito a cena. Con evidente sottovalutazione di Cola, tutti
partecipano, i tre fratelli ed i quaranta capitani, e tutti, appena varcata la soglia della sala,
sono arrestati dai fedeli di Cola. Stavolta l’ex tribuno non vuole mostrare la debolezza che
connotò la sua azione quando catturò i grandi di Roma e li lasciò andare. Stavolta Cola non si
accontenterà di nulla di meno che della testa di Fra’ Moriale. La logica del potere ha
irrimediabilmente corrotto il tribuno sognatore: ora non è diverso dai tiranni che vuole
combattere. L’Anonimo Romano racconta con commossa simpatia la morte del gran signore
provenzale, del gran condottiero Montréal d’Albarno, nato in Narbona e frate Ospedaliero di
San Giovanni in Gerusalemme. «Conubbe che morire li conveniva. Domannao penitenza, e
per tutta la notte abbe con seco uno frate lo quale lo confessava. Coraggiosamente conforta i
fratelli: “Voi non morerete: Io moro e de mea morte non dubito. La vita mea sempre fu con
trivulazioni. Fastidio me era vivere”. Fattosi giorno, [è il 29 agosto] la mattina voize odire la
messa, e odiola staiendo scaizo a nude gamme». Vengono suonate le campane, il popolo si
raduna, Fra’ Moriale viene condotto vicino al leone di marmo, si inginocchia di fronte
all’immagine di Santa Maria. «Alle gote teneva uno cappuccio de scuro con un freso (fregio)
de aoro. Aduoso teneva uno iuppariello de velluto bruno, cosito (cucito) de fila de auro.
Descento era senza alcuno cegnimiento. Le caize in gamma de scuro. Le mano legate larghe».
Teneva la croce in mano. Il cavaliere ha solo un attimo di smarrimento quando,
erroneamente, crede di dover essere impiccato; quando gli comunicano che sarà decapitato si
119 ANONIMO ROMANO, Cronica, p. 257-258; DI CARPEGNA FALCONIERI, Cola di Rienzo, p. 189-192; DUPRÈ
THESEIDER, Roma, p. 646-647.
120 REALE, Cola, p. 232-234. La corrispondenza tra il condottiero ed i suoi fratelli in ANONIMO ROMANO,
Cronica, p. 243-244.
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tranquillizza.121 Il boia fa un buon lavoro, un colpo secco, ben assestato: «pochi peli della
varva remasero nello ceppo. Frati Minori toizero (tolsero) sio cuorpo in una casa, ionto lo
capo collo vusto. Pareva che atorno allo cuollo avessi una zaganella (nastro) de seta roscia».122
Ercole Ricotti commenta: «Buon soldato, prode capitano, prudente, alacre, temperante,
Fra’ Moriale fu il primo a dominare con nobile dimestichezza gli incomposti voleri d’una
compagnia di ventura, a porle ordine e darle forma di stabile reggimento».123
Il legato chiede ed ottiene che Arimbaldo, chierico, gli venga mandato sano e salvo.
Brettone deve rimanere in carcere. Del tesoro di Fra’ Moriale si impadronisce Cola. Col
denaro paga i soldati ed assolda anche un buon comandante, Riccardo Imprendente degli
Annibaldi, signore di Montecompatri; gli affida la guerra contro i Colonna e ritorna a
questioni a lui più confacenti. Sotto il nuovo capo la guerra procede bene, pur senza battaglie
campali; Riccardo non dà tregua ai Colonna ed è amato dalle sue truppe.124
121 Durante il percorso si volge continuamente da una parte e dall’altra e dice: «Romani ingiustamente
moro. Moro per la vostra povertate e per le mie ricchezze». Bacia la croce. Arrivato al luogo del
supplizio la folla gli fa cerchio intorno, il capitano si inginocchia, ma si rialza immediatamente, dicendo:
«Io non staio bene», si volta verso oriente, si raccomanda a Dio, si inginocchia di nuovo, bacia il ceppo e
dice: «Dio ti salvi, santa iustizia», fa una croce sul ceppo e lo bacia di nuovo, si toglie il cappucio e lo
getta. Quando il boia gli pone la mannaia sul collo dice di nuovo: «Non stao bene», il suo medico indica
al boia il punto preciso dove menare il colpo. ANONIMO ROMANO, Cronica, p. 253-256; DI CARPEGNA
FALCONIERI, Cola di Rienzo, p. 195-196. Si veda anche GREGOROVIUS, Roma nel Medioevo, Lib. XI, cap. 7.4.
122 ANONIMO ROMANO, Cronica, p. 253-256; DI CARPEGNA FALCONIERI, Cola di Rienzo, p. 195-196; VILLANI
MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 23; MARCO BATTAGLI, Marcha, p. 57. Solo brevi cenni in Rerum
Bononiensis, Cronaca A, p. 41; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 47; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 44.
123 RICOTTI, Storia delle compagnie di ventura in Italia, cap. 3°-V.
125 PISPISA, Messina nel Trecento, p. 221; MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 92 che fornisce la data del 22
luglio.
126 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 93.
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129 PINZI, Viterbo, III, p. 298-304; BUSSI, Viterbo, p. 200. La data del 26 luglio per la fondazione della rocca è
confermata anche da D’ANDREA, Cronica, p. 95 e da ANTONELLI, Patrimonio, p. 164. CALISSE, I Prefetti di
Vico, p. 118.
130 Il re di Spagna, Pietro il Crudele, preso da una sfrenata passione per una giovane, Maria di Padilla,
trascura la sua giovane moglie, Bianca, figliola di Filippo di Borbone. Si narrano ghiotte storie della sua
disordinata concupiscenza carnale, che molte dissolute e sconcie cose faceva. La regina Bianca, disgustata e
sdegnata, di nascosto fugge in Francia dal padre. Ne nasce un caso diplomatico, ed i baroni di Spagna,
in folta delegazione, si recano dal sovrano cercando di farlo ragionare. Il re riconosce il suo errore,
scaccia la sua concubina e si riunisce, tra grandi feste, con sua moglie. Ma dopo una notte con lei, o che
fosse affatturato, o occupato nella mente d’altro peccato, la mattina per tempo si levò da lato, e sanza fare a sapere
altrui la cosa, con poco seguito fugge tra le braccia della sua desiderata Maria di Padilla. La giovane ed
infelice regina viene rinchiusa in un castello, dove, o per grave sdegno, o per malinconia, o per dolore, o per
operazione del re, che ne fu sospetto, in breve muore. Poco dopo la seguirà nella tomba anche l’ammaliatrice
Maria, morendo di parto. Il re, folle di dolore fa imbalsamare e porta con sé per 25 giorni il cadavere
della sua amata. VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 18.
131 FILIPPINI, Albornoz, p. 44-49; CALISSE, I Prefetti di Vico, p. 117-118; sulla rocca di Vetralla p. 120-121;
PINZI, Viterbo, III, p. 305-315, con molti dettagli sulla vicenda di Corneto.
132 MICHAELI, Memorie Reatine, III, p. 88-90, questa opera enuncia l’articolazione dell’accordo.
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Il cardinale Gil Albornoz, come dimostreranno anche i successivi sviluppi della sua
azione negli anni seguenti e specialmente nella Marca, sta realizzando una politica di estrema
flessibilità nei confronti dei “tiranni” dei vari comuni e territori ribelli. Egli ha chiaro in mente
il suo obiettivo principale: ristabilire la sovranità della Chiesa nei territori che le sono stati
usurpati. Per raggiungere tale scopo, egli giudica che non sia necessario abbattere
definitivamente il “tiranno”, anche perché tale missione avrebbe comportato spese e tempi
superiori a quelli che egli ritiene di avere a disposizione. Ad Egidio basta che i “tiranni”
riconoscano la sovranità della Chiesa e, se necessario, conserverà loro il dominio della città o
del territorio, ma come vicario della Chiesa. In fondo anche i papi non si sono comportati così,
per esempio nei confronti dei Visconti o di Taddeo Pepoli? Tuttavia, la curia avignnese, al
momento, non sembra apprezzare questa strategia del legato, il quale sicuramente gode di
molti nemici ad Avignone.133 La validità di questa politica albonoziana è testimoniata dal caso
di Foligno, dove, al momento della discesa del legato in Italia, i Trinci, che ricoprivano sia la
carica di signore (Trincia) e di vescovo (Paolo) della città, erano ostili ad Albornoz, per poi
assoggettarsi a lui non appena constatano che è possibile conservare la signoria cittadina, essi,
tra i primi, riconoscono la sovranità pontificia e si dichiarano per lui. Il cardinale Albornoz
riconosce tale precoce soggezione, recandosi a Foligno verso la fine del ’54 e rimanendovi
diversi mesi, prima di passare alla sottomissione della Marca. A Foligno, Gil ottiene la
soggezione di Spello, Gubbio, Norcia e Spoleto e poi Gualdo, Bettona e Assisi. Trincia Trinci
viene nominato capitano dell’esercito ecclesiastico nella guerra contro i Malatesta. 134
133 Tale è l’idea molto più estesamente formulata e dimostrata da P. COLLIVA, Il cardinale Albornoz. Lo
Stato della Chiesa. Le “Costitutiones Aegidianae” (1353-1357), in Studia Albornotiana dirigidos por Evelio
Verdera y Tuells, XXXII, Bologna, 1977, p. 102-145. Si veda anche FRALE, Orte 1303-1367, p. 130-131.
134 LAZZARONI, I Trinci, p. 41-45.
136 BAZZANO, Mutinense, col. 621; TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 31.
137 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 19; Domus Carrarensis, p. 67, cap. 193.
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calcola che l’armata abbia una consistenza di ben cinquemila barbute e diecimila fanti. Per
cinque lunghi giorni i soldati devastano il territorio, poi vanno nel Polesine. La notte su
lunedì 25 agosto, si accampano a Panicale e imperversano su Fuzola, Anzola, Medola,
Casalecchio, Avigano. Il 29 agosto l’esercito si reca a Bologna, arrivando fin sotto Porta di
Galliera, ma senza attaccare. Si conclude ben poco, anche perchè il conte Lando ha
scarsissima voglia di mettere le sue truppe a rischio, e, quindi, evita di combattere troppo
seriamente. Il 30 agosto, sazi di preda e violenze, gli avventurieri tolgono il campo e vanno
nel Modenese. Nel transitare, attaccano inutilmente la forte bastia fatta costruire oltre
Scoltenna, subendo ingenti perdite. Vanno a Guastalla, ma non riescono a passare il Po, si
recano allora a Borgoforte e danneggiano il Cremonese. Il 5 settembre partono e vanno in
Lombardia. Una parte della compagine militare si stacca dal grosso, rientra nel Bolognese, vi
sta per sei giorni e poi si dirige verso la Puglia.138
Il motivo della scarsa incisività dell’attacco può darsi sia da ricercarsi in una delazione
che denuncia a Francesco da Carrara che sarebbe intenzione del conte Lando catturarlo per
venderlo ai nemici. Francesco convoca allora il consiglio, denuncia la disobbedienza e la
slealtà di Lando e molla la patata bollente nelle mani di Feltrino Gonzaga,139 tornandosene
prima a Mantova e, il 29 settembre a Padova.140
Levati di mezzo i grandi eserciti, i Modenesi continuano piccole operazioni per il
recupero del controllo sul territorio. Il 28 agosto, Ugolino da Savignano e Gerardo Rangoni
investono il castello di Savignano, che il giorno seguente capitola. La torre, in mano ai
Viscontei, verrebbe consegnata se i difensori non ricevessero aiuto entro il primo settembre.
Non arrivando soccorsi, la guarnigione arrende la fortezza, salvi beni e persone. Il 14
settembre i Modenesi prendono il castello di Fiorano. La guarnigione viscontea però non cede
e si difende validamente, finché, il giorno 16, arriva in soccorso Galasso Pio con i soldati del
Visconti, mettendo in fuga i Modenesi.141
138 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 38-39; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 45-46; Rerum Bononiensis, Cr.
Vill., p. 41-43; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 36-38; GRIFFONI, Memoriale, col. 170; GAZATA, Regiense, col.
75-76; GAZATA, Regiense², p. 284-297; Domus Carrarensis, p. 68-69, cap. 193; ANGELI, Parma,p. 186 e AFFÒ,
Guastalla,p. 267 ci informano che i Viscontei sono agli ordini di Guglielmo Pallavicino e Luchino dal
Verme; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 185-188. BAZZANO, Mutinense, col. 621 dice che
gli armati collegati sono 7.000 cavalieri, 3.000 dei quali mercenari, e una quantità “infinita” di fanti. Si
dice che tra uomini e donne si contino più di 40.000 teste. Si veda anche SORBELLI, Giovanni Visconti a
Bologna, p. 322-326.
139 Feltrino non rifiuta perchè deve in gran parte all’intercessione dei Carrara la sua liberazione, e poi è
141 BAZZANO, Mutinense, col. 622; TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 31-32 precisa che sono andati all’assalto
di Fiorano le milizie di due quartieri di Bologna, quelli della porta di Albareto e di Bozzovara, con guelfi
armati e ghibellini disarmati; evidentemente i ghibellini sono stati condotti con la milizia per non
lasciarli a tramare in città. Con i soldati bolognesi vi sono anche i nobili da Sassuolo, cui appartenne il
castello di Fiorano.
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sono colà per danneggiare le terre dei Gonzaga, poi, con improvviso voltafaccia, si
impadroniscono del castello ed uccidono Matteolo, un fratello di Nicolò da Fogliano e un
figlio di Nicolò.142
capitolo il Villani parla di una grandinata a Montpellier, avvenuta il 12 settembre, i cui chicchi avevano
la dimensione di una melarancia. Senza data la notizia in MATTEO PALMERI, De Temporibus, col. 223.
145 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 99; egli conferma la data del 17 settembre.
146 DANDOLO, Chronicon, col. 423; CORTUSIO, Historia,² p. 130; DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 122;
ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 173-175 riferisce il suo giudizio, oltre alle capacità di governo del doge,
anche al valore delle sue cronache ed agli statuti.
147 CRACCO, Venezia nel medioevo, p. 136-137; sul svalutazione dell’argento rispetto all’oro, si veda CESSI,
Storia della repubblica di Venezia, I, p. 317, il rapporto iniziale del 1282 di 1:18, nel 1328 era stato mutato in
1:24, comunque le successive ragioni di instabilità come la restrizione del credito hanno fatto sparire di
fatto dal mercato il grosso d’argento.
148 PETRARCA, Familiarium, XIX, 9; la traduzione è quella citata.
149 In proposito si veda l’ampia diesamina fatta da LAZZARINI, Marin Faliero, p. 116-117 e 135-154. Anche i
cattivi auspici sono forse inventati. Sugli eventi si veda ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 176-180. Sulla
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figura del doge e specialmente sulla congiura del prossimo anno si veda l’ampio studio condotto da
LAZZARINI, Marin Faliero, che ha consultato e criticato le diverse cronache coeve.
150 FILIPPINI, Albornoz, p. 60.
152 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 25. Il testo è contradditorio perchè parla di venerdì 2
Chronicon, col. 424; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 41-43; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 46-47; Rerum
Bononiensis, Cr. Vill., p. 44-45; Breviarium Italicae Historiae, col. 288; DE MUSSI, Piacenza, col. 500-501;
Annales Mediolanenses, col. 723; AZARIO, Visconti, col. 336-337; e, nella traduzione in volgare, p. 70-71.
GIULINI, Milano, lib. LXVII specifica che l’arcivescovo aveva 64 anni, egli riporta l’epigrafe sul suo
sarcofago e ci informa che le fattezze di Giovanni Visconti, premesse alla vita dello stesso ad opera di
Paolo Giovio «sono tratte da un affresco che si trovava nell’antica cappella dell’arcivescovato».
L’epigrafe è anche in GAZATA, Regiense, col. 76; GAZATA, Regiense², p. 286-289 e in COGNASSO, Visconti, p.
211-212. Un cenno in GRIFFONI, Memoriale, col. 170 e in Domus Carrarensis, p. 68, cap. 193; DI MANZANO,
Annali del Friuli, V, p. 122. Si veda anche COGNASSO, Visconti, p. 222-224 e SORBELLI, Giovanni Visconti a
Bologna, p. 326-331; POGGIALI, Piacenza, VI, p. 308.
154 Annales Mediolanenses, col. 724; GIULINI, Milano, lib. LXVIII.
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Uno specchio etrusco? La passione per le antichità di Cola potrebbe rendere plausibile l’ipotesi.
160
ANONIMO ROMANO, Cronica, p. 258-265 il racconto dell’Anonimo è la base per tutte le successive
161
narrazioni; DI CARPEGNA FALCONIERI, Cola di Rienzo, p. 196-197 e 203-208; VILLANI MATTEO E FILIPPO,
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Cronica, Lib. IV, cap. 26; DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 649-654. Ho omesso completamente la narrazione
dei rapporti tra Cola di Rienzo e Giannino di Guccio”re di Francia”, chi sia interessato, può leggere DI
CARPEGNA FALCONIERI, Cola di Rienzo, p. 199-203 e Epistolario di Cola di Rienzo, p. 227-235 e 248-255.
162 GREGOROVIUS, Roma nel Medioevo, Lib. XI, cap. 7.4.
166 Il viaggio di Carlo IV è delineato dalle cronache carraresi: Carlo IV viene incontrato da Giacomino da
Carrara a Sacile, castello del Friuli, poi per Cividale e Feltre, lo accompagna a Bassano, dove entra il 1°
novembre. Qui arriva anche Francesco da Carrara. Il 3 novembre, passando per Cittadella, arriva a
Cortaruolo e, dopo aver desinato, entra a Padova per la Porta della Trinità. Giacomino da Carrara è
uscito dalla città per incontrare Carlo al castello di Sacile. Il 6 novembre, nella cattedrale, ordina
cavaliere Giacomino da Carrara. Il 7 novembre parte, dorme a Monselice. Qui Giacomino da Carrara lo
lascia, mentre Francesco continua ad accompagnarlo ad Este e Montagnana. A Porto Lignago lo accoglie
Cangrande della Scala. Il 9 novembre entra a Mantova. VERGERIO, Vite dei Carraresi, col. 183; Domus
Carrarensis, p. 69-70, cap. 194 e 195. L’itinerario precedente è invece tracciato da PASCHINI, Friuli, I, p. 296
e da DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 122-123: l’11 ottobre Carlo passa per il canale della Chiusa, il 13
ottobre giunge a Gemona, il 14 ad Udine, è a Sacile il 20 ottobre, poi procede per Belluno, Feltre, dove
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La cronaca del Trecento italiano
con sé, insieme a gruppo di nobili friulani, tra i quali Gerardo signore di Feltrone di Carnia e
Walterpertoldo del fu Bartolomeo di Spilimbergo.167
«Cavalcando buone giornate», il 3 novembre i fratelli entrano a Padova, dove vengono
ricevuti con grandi onori. Carlo nomina diversi cavalieri, lascia vicari nella città e, il 7,
riprende il viaggio. Cangrande preferisce che non entri nelle sue città e lo fa accompagnare a
Mantova, dove i Gonzaga lo accolgono solennemente. Il re prende dimora nella città e si
accinge a cercare di comporre i dissidi che oppongono la lega ai Visconti, e questi ai comuni
toscani.168 A Mantova Carlo attende ambasciatori che gli portino l’omaggio dei comuni
italiani. Dopo un poco si rende conto che è un’attesa vana, solo i comuni lombardi parte della
lega gli hanno porto omaggio. La forza della lega non appare sufficiente a battere i
potentissimi Visconti, meglio la pace. Intanto, non ci si rovini mantenendo la Gran
Compagnia, quindi, l’8 novembre, essa viene licenziata «e quegli della Compagnia ne furono
lieti e contenti». Una parte dei mercenari si vende ai Visconti, una parte alla lega, il resto, è
agli ordini del conte Lando. Giovanni Visconti poi è morto e Carlo dovrà rifare i patti con gli
eredi. Carlo IV inizia, pazientemente, a tessere la tela della pace, fermo nella sua decisione di
«accattare da ogni parte benivolenzia, e non prendere nimicizia con alcuno».169
Carlo IV si trattiene a Mantova dal 10 novembre alla fine di dicembre. Quando è in città
si reca piamente a visitare il sepolcro di Longino, il soldato che trapassò con la sua lancia il
Sacro Cuore di Gesù, e ne asporta una parte di reliquie.170 Quando l’imperatore è a Mantova,
gli rende visita Francesco Petrarca, accolto con grande cordialità. La lingua della
conversazione è l’italiano, che Carlo ha appreso quando soggiornava in Italia con suo padre
Giovanni. Carlo invita il poeta a seguirlo a Roma, ma Francesco rifiuta. Il 27 dicembre
Petrarca è già di ritorno a Milano.171
giunge il 26, e, per il canale di Brenta, arriva a Bassano il 1° novembre. Si veda anche VERCI, Storia della
Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 189-192.
167 DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 123, nota 1.
168 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 27; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p.
col. 1182 e Annales Cesenates³, p. 189 dice che Carlo è a Padova il 2 ottobre. Rerum Bononiensis, Cronaca A,
p. 43-44 e GRIFFONI, Memoriale, col. 170 queste cronache riportano una interessante notazione: una donna
bolognese ha funzioni di interprete per Carlo, è «madonna Zohanna, figliola che fu de Mathio de’
Bianchitti, de strà Sam Donato; et era vedoa e fu la moglie de misser Bonsignore de Bonsignuri de
Bologna, doctore de lezze», ella «sapeva bem parlare per lectera et sapeva bem el thodesco e boemio et
ytaliano»; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 48, Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 46. Un semplice cenno in
Breviarium Italicae Historiae, col. 288. GRIFFONI, Memoriale, col. 170 ci informa che un membro della sua
famiglia: Marco, figlio naturale di Nanni Guelfo Griffoni, uccide in dicembre nella piazza maggiore il
barbiere dell’Oleggio e fugge. ALIPRANDI, Cronaca di Mantova,p. 134 dice che Carlo entra a Mantova la
vigilia di San Martino, quindi il 10 novembre. La scarna notizia della venuta di Carlo in STEFANI,
Cronache, rubrica 666, amaramente commentata.
170 Su tale argomento e sulla corretta collocazione di questa visita e di quella successiva del 1368, si veda
nell’inverno peggiore che si ricordi. Tutti i campi sono innevati, lo ha accompagnato un nuovo amico,
un corriere diplomatico di origine francese: Sagremor de Pommiers, diventato suo buon amico.
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139
Carlo Ciucciovino
nave, si trasferisce su una galea armata, e, senza abbozzare resistenza alcuna, fugge. Il carico
cade nelle mani dei Sicilani che lo portano a Messina, dove sono accolti con grandi onori, non
già per la vittoria, ma per il cibo procacciato.172
172 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 30; MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 100.
173 FILIPPINI, Albornoz, p. 54. Questa affermazione di Filippini appare in contrasto con quanto esposto nel
precedente paragrafo 46.
174 FILIPPINI, Albornoz, p. 60-63.
175 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 33 e Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di
Cipriano Manenti, p. 453; LEOPARDI, Annali di Recanati, p. 86; ANTONELLI, Patrimonio, p. 166-167..
176 Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 69-70. Vanno nella Marche Berardo di Corrado,
Petruccio di Pepo, Tommaso di Cecco di Monaldo e Monaldo di Andreuzzo di messer Ranieri, con molti
Orvietani al loro comando. DE SANTIS, Ascoli nel Trecento, II, p. 52-53 riporta le date delle varie
sottomissioni: Rodolfo da Varano l’8 dicembre, Alberghetto Chiavelli il 10 dicembre, nello stesso giorno
anche Lomo Simonetti da Santa Maria, Ugolino di Sassoferrato e Neri della Faggiola. URIELI, Jesi, p. 149-
150 dice che Lomo Simonetti si sottomette a Gil dopo la sconfitta di Paderno, ma Lomo è già uno dei
comandanti dell’esercito del legato ai tempi di Paderno: si veda anche VILLANI VIRGINIO, I conti di
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La cronaca del Trecento italiano
Il compito di Egidio Albornoz nella pacificazione del Patrimonio non è certamente stato
privo di difficoltà, a parte i grossi problemi di Orvieto e Viterbo, esistono anche altri focolai di
ribellione, non necessariamente contro la Chiesa, ma, più verosimilmente, contro i suoi
ufficiali. Ad esempio Orte è ostile al governo del rettore Giordano Orsini e in questo anno si
ribella contro di lui e la popolazione assale la casa del rettore al grido di «mora li forestiere!».
Il 16 settembre Orte sarà costretta a pagare una multa di ben 380 fiorini d’oro per questo
evento. Orte comunque si ribella e proclama la sua indipendenza dalla Chiesa e sceglie come
suo signore e podestà Orso Orsini, l’uomo che gode di grandissima influenza e di seguito
nelle famiglie dominanti della città e che, con tutta probabilità, non aveva assolutamente
bisogno di tale violenza per continuare a contare in città.177
Buscareto, p. 157, nota 61. Notizia della sottomissione di Alberghetto è in PAOLI, La documentazione
dell’Archivio Segreto Vaticano,p. 126.
177 Su tale argomento e sull’importanza di Orso Orsini e delle dominanti dinastie ortane dei Nasi e
della Sapienza.
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genovesi, vengono ora tributati immensi onori, in verità ben meritati, tra gli altri quello di
costruirsi a spese dello stato una nuova casa nel quartiere di San Matteo.179
179 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 32; STELLA, Annales Genuenses, p. 153 e nota 10 ivi;
MARCO BATTAGLI, Marcha, p. 57-58; DANDOLO, Chronicon, col. 424; CORTUSIO, Historia,² p. 130; Cronache
senesi, p. 574; Monumenta Pisana,col. 1024; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 40; Rerum Bononiensis, Cr.
Vill., p. 43; Breviarium Italicae Historiae, col. 288; un cenno in GAZATA, Regiense, col. 76; GAZATA, Regiense²,
p. 290-291; MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 711. SCOVAZZI e NOBERASCO, Savona, p. 111 nota che con i
Genovesi vi sono anche 2 galee di Savona. Si veda anche LOREDAN, I Dandolo, p. 299-301. Abbiamo
notizia che duemila prigionieri veneziani riescono a scappare.
180 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 31; TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 159-160.
183 PETRARCA, Familiarium, XIX, 9, 9, il giudizio è frammisto ad altri, su altri luoghi, che danno il triste
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afoso e, con il caldo, sono arrivate le epidemie e gli attacchi di malaria, lo stesso re appare
ammalato, Zurita scrive: «el rey estuvo muy doliente de tercianas».184 L’ottimismo dei primi
giorni, quando sembrava che la poderosa macchina da guerra messa in campo dal re
aragonese potesse facilmente aver ragione di una piazza difesa da soli 700 uomini, si è
rivelato fallace: Alghero resiste, le macchine d’assedio e gli assalti non bastano, le perdite
nell’esercito reale continuano ad aumentare, sia per le ferite da combattimento che per le
malattie. Vi è una minaccia all’orizzonte, il possibile intervento di una grossa flotta genovese,
che però finora non si è materializzata; qualche galea genovese si è limitata ad incrociare a
largo, senza tentare sbarchi od altre operazioni ostili. Re Pietro, d’altronde, può difficilmente
sbaraccare tutto questo apparato militare senza perdere prestigio di fronte agli occhi dei suoi
nobili. Il giudice Mariano d’Arborea, il vassallo ribelle, se ne sta accampato a Bosa,
appoggiato al forte castello di Serravalle. Tanto lontano da non costituire una minaccia
immediata, ma abbastanza vicino da poter accorrere ad Alghero con due giornate di buona
marcia. Intorno agli assedianti si stringe sempre più opprimente la presenza del giudice
d’Arborea, con i suoi soldati: non si può dire che la situazione dell’esercito spagnolo sia
brillante. A questo si aggiunge la notizia, che in forma riservatissima la repubblica di Venezia
fa arrivare al suo alleato: la flotta veneziana è stata annientata in Grecia. Ma Pietro non è solo
cerimonioso, è anche molto astuto e fa propalare la notizia che, invece, la flotta genovese è
stata sonoramente battuta. La falsa notizia deprime i difensori: forse Alghero capitolerà. Il
giudice però ha sicuramente accusato il colpo della morte del suo potente – e per ora anche
assente – alleato, l’arcivescovo Giovanni Visconti, quindi ritiene che difficilmente in un
momento di risistemazione del potere a Milano, i nuovi signori possano inviare una
significativa forza militare in suo soccorso. Le voci propalate da re Pietro sulla vittoria dei
Veneziani sono arrivate anche al giudice, il quale, con tutta probabilità, sa che invece hanno
vinto la battaglia i suoi alleati genovesi. Decide allora di stringere il cerchio intorno al
sovrano, pur senza intraprendere atti ostili. Un’avanguardia di Sardi si mostra alla
guarnigione di Alghero, che, rinfrancata, sventola l’insegna di Mariano e dei Doria. L’esercito
giudicale si dispone accortamente, Pietro de Sena, al comando di alcune centinaia di cavalieri
e di 3.000 tra arcieri e balestrieri si dispone fin oltre l’attuale Scala Piccarda, in posizione
dominante (oltre i 350 metri di altitudine) ed a sole sei miglia da Alghero. Il resto
dell’esercito, agli ordini del giudice e del modenese Azzone di Buquis, si è accampato a Scala
Cavalli, ad est di Alghero, intercettando la strada per Sassari. È a meno di 10 miglia da
Alghero. L’esercito aragonese può essere attaccato alle spalle da de Sena, di fronte dalla
guarnigione d’Alghero e di fianco dal Giudice. Una battaglia sarebbe dall’esito molto incerto
per re Pietro. La cronaca di Zurita parla di un numero sicuramente esagerato di combattenti
nell’esercito giudicale.185 Il Cerimoniso dunque non ritiene opportuno attaccare battaglia, ma
anche la ritirata minerebbe la sua autorità di fronte ai suoi nobili, valorosi ed orgogliosi.
Occorre dunque trattare. Pietro ha l’uomo: don Pedro de Exerica, gran barone del regno di
Valencia e cognato di Mariano, per aver impalmato Bonaventura d’Arborea, sorella del
giudice. I negoziati non sono semplici, scrive Jeronimo Zurita che «pedia el juez de Arborea cosas
muy desordenadas y exhorbitantes que no eran de vasallo a senor», tuttavia, al termine della
trattativa il giudice si dimostra fin troppo arrendevole: Alghero viene ceduta agli Spagnoli,
anche se i difensori possono uscirne sani e salvi, e lo stesso giudice d’Arborea riconosce di
governare la terra in nome del re di Spagna, impegnandosi a pagare un tributo annuo a re
Pedro. Il re promette a Mariano che il governatore deve essere gradito al giudice; il sovrano
perdona Matteo Doria e gli restituisce i castelli di Monteleone e Castelgenovese, nonché altre
terre e castelli che egli possiede in Sardegna. Per cinquanta anni tutti i castelli e le terre di
Gallura vengono concesse a Mariano ed ai suoi eredi, per un censo stabilito. Raggiunto
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143
Carlo Ciucciovino
l’accordo con il giudice, re Pietro deve farlo accettare ai suoi pugnaci nobili. La cosa non è
facile. Zurita registra il loro parere: «esta paz non cuadraba a todos, porque les parecia a muchos ser
afrentosa». È don Bernardo de Cabrera che si incarica di convincere i riottosi e renderli
ragionevoli. Il 13 novembre l’accordo viene firmato e pochi giorni dopo il re entra ad
Alghero.186 Il re con sette galee raggiunge Cagliari e vi si rifugia. Il suo esercito lo raggiunge
per via di terra. Dalla forte Cagliari il re convoca il primo parlamento sardo, ad imitazione
delle Cortes. Oltre ai nobili di Catalogna e Aragona, l’invito è esteso al giudice d’Arborea, a
Matteo Doria, a Manfredo Darde ed altri. I Malaspina non partecipano, ma non vi vanno
neanche il giudice d’Arborea e Matteo Doria, fiutando la trappola, vi mandano loro
procuratori. Il parlamento proclama una tardiva condanna del conte Gherardo di Donoratico,
a monito di chi voglia tradire.187
§ 56. Piemonte
Francesco di Monasterolo, dopo la morte dell’arcivescovo Giovanni Visconti, si reca a
Milano, cercando di ottenere la protezione di Manfredo di Saluzzo, signore di Cardè e zio del
marchese Tommaso, che soggiorna presso la corte del biscione. Mentre Francesco è in viaggio,
sua sfortuna vuole che, il 10 novembre, a Frassinetto, si imbatta in Azzo di Saluzzo, che sta
recandosi a presentare i suoi omaggio ai nuovi signori Visconti. Le due comitive iniziano una
zuffa nella quale Francesco ed otto dei suoi vengono uccisi.188
Il marchese Tommaso di Saluzzo, per cercare appoggi che gli consentano di resistere ai
suoi nemici, cerca l’alleanza del re di Francia e, in particolare, del suo primogenito delfino di
Vienne. Approfittando dell’arrivo nella regione di emissari regi, Tommaso e suo figlio
Federico il primo dicembre si sottomettono in perpetuo al delfino ed ai suoi successori. Il
marchese spera però invano soccorsi: il re di Francia troppo è impegnato nella sua guerra
contro il re d’Inghilterra.189
186 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 34; ZURITA, Annales de Aragon, Lib. VIII, cap. LVII;
CARTA RASPI, Mariano IV d’Arborea, p. 108-119. Zurita elenca i nobili cavalieri che sono morti durante
l’assedio, e tutti quelli che si sono ammalati e sono stati costretti a rimpatriare. Uno solo, Pedro de Bosil,
malato, rientrato in patria, è tornato in Sardegna a combattere per il suo re «y por esto se dice en la historia
del rey que se llamò el caballero sin par». Su tutta la spedizione si veda anche ANATRA, Sardegna, p. 52-55.
187 ZURITA, Annales de Aragon, Lib. VIII, cap. LVIII; CARTA RASPI, Mariano IV d’Arborea, p. 120-122;
MELONI, L’Italia medievale, p. 107-113, ma è un riassunto della cronaca di Zurita. Per il parlamento si veda
ibidem p. 115.
188 MULETTI, Saluzzo, p. 369.
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La cronaca del Trecento italiano
casata Ubaldini: Ghisello, Maghinardo, Antonio e Gerio ed i suoi fratelli. La custodia data agli
Ubaldini per un quinquennio dei castelli contesi si rivelerà un errore.191
191 ASCANI, Apecchio, p. 53-57; MUZI, Città di Castello, vol. I, p. 157-162 riporta la data di 17 gennaio 1354
come data di decisione di affidare l’arbitrato e conferma l’8 dicembre come data di firma del trattato.
192 CENCI, Vita assisana, p.112-114, ne ho riportate pochissime, solo per dare il gusto della cosa, se ne
196 Messer Piero di messer Piero degli Obizzi, Cola Agliati, Piero di Andrea Gambacorti e messer
Giovanni de’ Benedetti. MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 712. Questa lista è solo parzialmente
sovrapponibile all’altra che ci è stata fornita da Monumenta Pisana, col. 1026-1027: messer Albizzo
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Carlo Ciucciovino
un buon governo, il comune ha infatti nelle casse ben 250.000 fiorini d’oro, ma in città non si
muove foglia senza il consenso della potentissima famiglia dei Gambacorti, che si sono
impadroniti di tutti i gangli vitali del governo, il ché provoca l’invidia e l’astio di molti, e tra
questi del podestà di Milano: messer Jacopo, detto Paffetta, figlio di Bacarozzo da Monte
Scutaio in Maremma.197
Il primo dicembre arrivano in Pisa i due ambasciatori di Carlo IV, sono il vescovo di
Vicenza e messer Fenso da Prato. Il loro discorso è rassicurante infatti «l’imperatore voleva
venire a Pisa per andare a Roma per pigliar la Corona, e non per turbare la loro città, anzi per
farla grande, e remunerarla delle fatiche, e dispendj che aveva avuto in favorir l’Impero».
Dopo una notte di consultazioni, gli Anziani del comune rispondono al vescovo che saranno
lietissimi di ricevere la cesarea maestà, quanto alle condizioni, hanno già inviato i loro messi a
Carlo. Soddisfatto, il vescovo riparte. Gli ambasciatori pisani hanno intanto svolto un buon
lavoro, concordando con l’imperatore la conferma del dominio dei Gambacorti per Pisa e per
Lucca, contro il pagamento di 60.000 fiorini in quattro rate, 15.000 subito, 15.000 all’arrivo a
Pisa, un’altra rata alla partenza e l’ultimo pagamento a Roma. Carlo si impegna poi a non
interferire in maniera alcuna nei meccanismi di governo del comune. I fuorusciti che, pieni di
speranza per la venuta imperiale sognavano il rientro nelle loro città, rimangono scontenti e
delusi. I patti, letti in consiglio in Pisa, suscitano molta allegria: «furono fatti i fuochi, e per i
giovani di Pisa l’armeggìo per la città, e fecesi molte cene e desinari per l’allegrezza».198
Risolta la questione di Pisa, faccenda molto semplice per chi voglia dimenticare il
proprio titolo imperiale e badare solo a far denari, non impacciandosi delle complesse
faccende italiane, Carlo deve ora occuparsi dei Visconti, le cui pretese, con la morte
dell’arcivescovo Giovanni e, precipuamente dopo la clamorosa vittoria dei Genovesi a
Portolongo, sono aumentate.
Carlo, ancora una volta dimentica se stesso e la propria missione imperiale, constata la
forza dei Visconti, la debolezza della lega, l’assenza di altri attori nel quadro generale e fa
concludere una tregua fino a maggio ‘55, tra Visconti e lega. Poi si dedica a negoziare con i
signori di Milano, la sua andata a Monza a prender la Corona Ferrea. I patti conclusi
prevedono che Carlo si astenga dall’entrare in Milano e confermi i fratelli Visconti quali vicari
imperiali; in cambio i Visconti doneranno 50.000 fiorini d’oro per l’imperiale viaggio alla
volta di Roma e, ovviamente, consentiranno che Carlo orni il suo capo con la Corona Ferrea.199
(Obizzo) Lanfranchi, cavaliere e gentiluomo, messer Piero di messer Albizzo, giudice e dottore, Agliata,
mercante, e Piero di Andrea Gambacorti. Le poche, ma importanti cose che i plenipotenziari
ambasciatori chiedono a Carlo sono: che Lucca sia in perpetuo di Pisa, la conferma ed approvazione
dell’attuale governo, e conferma di tutti gli antichi privilegi imperiali per la città, che gli Anziani estratti
abbiano la dignità di vicari imperiali, Carlo non tocchi il denaro della Massa delle Prestanze, tesoretto
raccolto per restituire i prestiti per la guerra contro Lucca, non voglia l’imperatore metter mano ad
alcuna magistratura, nè riammettere in cità i banditi. La notizia è anche in Cronache senesi, p. 575, con
nomi storpiati.
197 Monumenta Pisana,col. 1025-1026 e RONCIONI, Cronica di Pisa, p.155. Queste fonti ci informano che
messer Paffetta è stato recentemente podestà di Milano. In RONCIONI, Cronica di Pisa, p.133-134 e nota
227 a p. 133, troviamo che Paffetta ed i fratelli Enrico ed Ugo, vicari di Pisa in Maremma, hanno tradito
Pisa in favore dei Visconti. Sono stati banditi, ma perdonati all’atto della pace con i Visconti nel 1345. Si
veda anche SERCAMBI, Croniche, p. 99-101, il quale scrive polemicamente: «ora, dico a voi Pisani, che
avevate il reggimento in mano, chome vi deste voi a credere che colui il quale dà gratia, che lui tal gratia
non possa dilevare e ad altri concederla? E pertanto se male ve n’avverrà, vi starà molto bene!»
198 MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 711-712 e VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 35;
Cronache senesi, p. 575, con un racconto praticamente eguale a quello di Monumenta Pisana,col. 1027-1027
e RONCIONI, Cronica di Pisa, p.155-159. RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 99-100 ci fornisce il nome degli
ambasciatori di Carlo e la nota 2 ivi rettifica Senso in Fenso degli Albertini di Prato, nipote del cardinale
Niccolò da Prato.
199 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 38. Monumenta Pisana,col. 1027 parla invece di 140.000
1354
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La cronaca del Trecento italiano
Festeggiato il Natale a Mantova, Carlo si mette in viaggio con meno di 300 cavalieri, la
maggior parte dei quali disarmati. I signori di Milano, lungo tutto l’itinerario imperiale, fanno
apprestare quanto necessario per alloggiare e nutrirsi, a loro spese. A Lodi, messer Galeazzo
Visconti viene incontro all’imperatore con 1.500 cavalieri, questi tutti ben armati. Lo riverisce
e lo accompagna dentro la città. Sempre guardingo, Galeazzo fa però ben serrare le porte
della città e ne rinforza la sorveglianza. Infatti, ben strano deve esser sembrato questo
imperatore che, senza armi, si viene a porre in completa balia di potenziali avversari. Tanto
strano che, forse, si dice Galeazzo, il suo comportamento può ben nascondere qualche
inganno. Il mattino seguente la grande cavalcata si reca all’abbazia di Chiaravalle, dove
attende Barnabò con molti cavalieri ed armati. Dopo le riverenze, Barnabò offre a Carlo IV
«trenta tra destrieri e cavalli e palafreni coperti di velluto, e di scarlatto, e di drappi in seta,
guerniti di ricchi paramenti di selle». Qui Barnabò, constatato che il disarmato sire non può
certo arrecar danno, a nome di tutti i Visconti, chiede che l’imperatore voglia far loro l’onore
di entrare in Milano. Ma Carlo resiste, rispondendo «che per niuno modo intendea d’entrarvi
contro a quello che havea promesso loro». Barnabò spiega che l’indiscreta clausola era stata
inserita pensando che la gente della lega accompagnasse Carlo, ma non certo per la sua
persona. Alla fine, Carlo si lascia convincere e «entrato nella città fu ricevuto con maggiore
tumulto che festa, non potendo quasi vedere altro che cavalieri armati e masnadieri: e i suoni
delle trombe, e trombette, e nacchere, e cornamuse, e tamburi erano tanti, che non si sarebbe
potuto udire grandi tuoni». Quando il corteo è tutto entrato in città, se ne serrano le porte, si
conducono gli ospiti alle loro abitazioni, riccamente arredate. Matteo si reca a porger i suoi
saluti al re di Boemia. Il mattino seguente, fatti montare a cavallo tutti coloro che ne hanno
uno, fornitili di coperte e paramenti e sfarzose sopravesti, li fanno sfilare sotto le finestre di
Carlo, facendogli credere che le loro forze siano 6.000 cavalieri e 10.000 fanti assoldati. Carlo,
più che stupito è annoiato da tale esibizione, e pentito di aver ceduto alle pressanti richieste
dei signori di Milano che lo hanno voluto ospitare, ma, da perfetto dissimulatore, «come
savio comportò con chiara e allegra faccia la sua cortese prigione, e con molta liberalità vinse
quello che acquistar non havrebbe potuto per forza».200
Messer Paffetta ha per vero nome Iacopo della Gherardesca ed è figlio di Giovanni,
detto Bacarozzo o Bacarosso, conte di Montescudaio. Le sue scarse notizie biografiche lo
indicano come vicario di Pisa in Maremma nel 1344, all’epoca della guerra contro Visconti.
Paffetta si è reso colpevole di un tradimento ai danni della sua patria, facendo ribellare alcuni
castelli della bassa Val Cecina e consentendo il transito dell’armata viscontea. Nel maggio del
1345, con la pace di Pietrasanta, ai della Gherardesca è stato perdonato questo tradimento.
Paffetta, dopo la pace è confluito nel gruppo dei Bergolini, per rivalità nei confronti di
Tinuccio della Rocca. Nel 1347 sposa Andreuccia di Feo di Andrea Gualanti, residente in
Chinzica. Paffetta si trasferisce però nel quartiere di Foriporta, nella cappella di S. Viviana.
Dopo la morte di Ranieri Novello e la presa del potere da parte di Gambacorta, Paffetta,
probabilmente insofferente di ogni potere costituito e, comunque, con forti legami con i
Visconti, si allontana dai Bergolini. Nel 1354 è podestà di Milano e rientra a Pisa al seguito di
Carlo IV.201
Il 4 dicembre Carlo IV rilascia un diploma a Dondazio Malvicini de Fontana nel quale gli
conferma l’investitura dei feudi di Castel San Giovanni e di tutta la valle del Tidone.202
200 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV, cap. 39; GIULINI, Milano, lib. LXVIII.
201 M. L. CECCARELLI LEMUT, Della Gherardesca Iacopo, in DBI, vol. 37°. Sul tradimento vedi la nota 142
precedente.
202 POGGIALI, Piacenza, VI, p. 304-305.
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Carlo Ciucciovino
lunedì successivo, poi valica per entrare nel Ravennate. La cronaca non parla di danni o
violenze.203
§ 65. Le arti
Nel 1354 vengono completati i mosaici del Battistero di San Marco, voluti dal doge
Andrea Dandolo (1343-1354) ed iniziati all’inaugurazione del suo governo. Sono ispirati «ai
modi che la pittura bizantina era andata assumendo sulla fine del secolo XIII».205 I mosaici
sfortunatamente in parte rimaneggiati nell’Ottocento, nella parte residua mostrano «forti
accenti orientali. […] è un bizantinismo tuttavia non legato all’arte paleologa della capitale,
ma teso a recuperare piuttosto l’espressionismo lineare balcanico. […] Contrastano
decisamente con questo linguaggio bizantineggiante i due mosaici raffiguranti la Danza di
Salomè e la Decollazione e sepoltura del Battista, episodi inscenati contro architetture arricchite di
elementi veneziani e composti con una moderna libertà interpretativa nelle bellissime eleganti
vesti femminili, dai colori vivaci».206 Nel mosaico della Crocefissione però vi è una forte cesura
tra lo stile bizantino del mosaico tutto, e i ritratti del doge Dandolo e degli offerenti, che
invece sono «di maniera francamente italiana»,207 vale a dire nutrita dalle lezioni dell’arte di
Giotto e dei Senesi. Il doge ha voluto anche la decorazione della cappella di Sant’Isidoro, nella
stessa basilica, per celebrare il ritrovamento delle reliquie del santo, presenti nella chiesa dal
1125, quando sono qui state trasportate dall’isola di Chio, ma occultate e ritrovate nel 1342.
Questi mosaici sono appartenenti a una diversa matrice culturale, rispetto alla tradizionale,
probabilmente ispirata a miniature, con un’attenzione di stampo gotico per i particolari.208
A metà del decennio, Guariento esegue le sue tavolette con Gerarchie angeliche, oggi al
Museo civico di Padova. Le tavolette sono state dipinte per decorare la reggia dei Carrara.
«La decorazione della reggia carrarese si completava nel soffitto con le tavole […] che
mostrano il Busto del Redentore, la Vergine con il Bambino, e il S. Matteo e alle pareti una serie di
affreschi».209 Le tavole delle Gerarchie sono dei veri capolavori, nelle tavole delle Virtù il
pittore raggiunge un armonico equilibrio. Guariento affresca anche le pareti e, per sfruttare
pienamente lo spazio, elimina le cornici; qui «la freschezza e la gioiosità del narrare
imprimono a questo ciclo pittorico un ritmo compositivo molto serrato, secondo una
sequenza delle scene rapportabile al piccolo formato delle miniature piuttosto che alle grandi
dimensioni della pittura murale, senza peraltro perdere i valori compositivi nel loro insieme,
1354
148
La cronaca del Trecento italiano
perché Guariento interpreta il racconto biblico con gusto rinnovato e al di fuori degli schemi
tradizionali», questo gusto rinnovato è gotico cortese.210
Dopo la metà del secolo l’influsso della pittura bolognese su quella riminese è sempre
più sensibile e «con la metà del secolo la scuola riminese perde di fatto la sua spinta
propulsiva e […] [assume un] carattere locale, per non dire meramente provinciale».211
Giovanni di Jacopo da Caversaccio, detto da Milano, dipinge e data 1354 un polittico per
l’Ospedale della Misericordia (oggi alla Pinacoteca di Prato). Sulla tavola compaiono: la
Madonna in trono col Bambino, al centro; Santa Caterina d'Alessandria e San Bernardo di
Chiaravalle, San Bartolomeo apostolo e San Barnaba apostolo, nei pannelli laterali; Annunciazione e
Storie di santi, nella predella superiore; Storie di Cristo nella predella inferiore. Giovanni è a
Firenze già nel 1346, nove anni dopo la morte di Giotto, il grande maestro al quale la sua
pittura si ispira.
Probabilmente nel 1354,212 viene eseguita la decorazione a fresco della cappella funeraria
dei signori Rivalba di Castelnuovo, in Santa Maria di Vezzolano. L’artista che esegue l’opera è
l’anonimo Maestro di Montiglio.213
Settanta del XX secolo erano ancora leggibili, riconosce il nome del defunto, Giovanni Oberto de
Castronovo de Rivalta che era ancora in vita nel 1359; si veda SANTINA NOVELLI, Il Maestro di Montiglio
dal Monferrato a Quart, in Arte di corte in Italia del Nord, p. 310.
213 Su questo ciclo, si veda SANTINA NOVELLI, Il Maestro di Montiglio dal Monferrato a Quart, in Arte di corte
215 GREGORI, Angeli e diavoli, p. 17. Giotto ed i suoi maestri arrivano a Milano nel 1336 e vi stanno fino al
1339.
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Carlo Ciucciovino
di Prato è stato dipinto nel 1353-1354.216 Da quando, nel 1827, Rumohr ha scritto le sue note,
l’interesse degli studiosi si è concentrato sul pittore. Il Cavalcaselle ha assegnato a Giovanni
gli affreschi della Cappella Rinuccini nella sagrestia di Santa Croce.217
L’unica sua opera giovanile in area lombarda, che la critica recente gli ha riconosciuto, è
la lunetta ad affresco con la Madonna, il Bambino, S. Giovanni Battista e una santa, situata in
S. Maria delle Grazie a Mendrisio in Svizzera, dipinta per gli Umiliati, gli stessi che gli
commissioneranno il Polittico di Ognissanti.218
Pietro Toesca però nota che i dipinti dell’oratorio di Solaro, della navata della chiesa di
Viboldone, di San Biagio di Bellinzona ed altri «mostrano somiglianze con le opere di
Giovanni da Milano, sebbene non si possa affermare che derivino da quelle. Essi valgono
perciò a rendere assai probabile l’ipotesi che Giovanni da Milano quando si recò a Firenze
fosse già formato nella sua arte, poiché in Toscana egli mantenne alcuni caratteri comuni coi
pittori lombardi suoi contemporanei e da lui indipendenti».219
Riguardo alla sua tecnica, Angelo Taruferi scrive: «Giovanni da Milano conferisce alla
superficie pittorica dei suoi dipinti l’aspetto vellutato di una pergamena e, specialmente per
quanto riguarda gli incarnati, si ha la sensazione di trovarsi di fronte a delle miniature
gigantesche. Non può lasciare altro che sbalorditi la sua fittissima, indicibile tessitura
cromatica in punta di pennello. Non sapremo mai quanto tempo impiegassero a dipingere i
due artisti220 ma verrebbe d’immaginare che al pittore lombardo fosse necessario un periodo
almeno quatro volte superiore a quello del suo collega fiorentino».221 A Giovanni da Milano
Carlo Volpe assegna il compito di essere chi fa conoscere ai Lombardi «qualche tono della
dolcezza unita di Stefano, piuttosto che del lucente spessore interno alle misure di Giotto; o
addirittura qualche grado della tenera febbre di Puccio Capanna e dei suoi biondi impasti».222
Di Giovanni da Milano è una Crocifissione, del 1365 circa, che Carlo Volpe definisce
“sublime”, «disegnata e lumeggiata in carta, del Kupferstichkabinett di Berlino, che è
sicuramente il più importante e il più alto fra tutti i disegni del secolo. E se anche questo
disegno fu, per avventura, eseguito in Firenze durante il primo soggiorno di Giovanni, le idee
e i mezzi per esprimerle erano già nati e costituiti in Milano».223 Questo splendido disegno,
raffigurante la Crocifissione, oggi a Berlino, viene comunemente attribuito a Giovanni e
assegnato al 1365 circa.224 Una anconetta conservata a Roma, nella Galleria Corsini, risale
probabilmente al 1350-55 e da alcuni critici è considerata la più antica tavola di Giovanni oggi
nota.225
I critici moderni hanno scoperto che i punzoni usati da Giovanni da Milano coincidono
con quelli del senese Maestro d'Ovile,226 ed alcuni ipotizzano che, tra il 1346 e il 1363, il
periodo nel quale i documenti tacciono su di lui, egli si sia recato a Siena.
Nel 1369 Giovanni è a Roma, insieme a Giottino, a Giovanni e Agnolo Gaddi, figli di
Taddeo, ed altri pittori, uno dei quali è probabilmente Bartolomeo Bulgarini e forse Matteo
Giovannetti. Egli deve dipingere per papa Urbano V, momentaneamente rientrato a Roma da
Avignone, due cappelle in Vaticano; nulla ci è rimasto della sua attività a Roma.
216 GREGORI, Angeli e diavoli, p. 40-42 descrive il Polittico e lo data al 1353-54. Si veda anche la scheda 12 in
Giovanni da Milano.
217 Un documento scoperto in seguito da Gaetano Milanesi ha fugato ogni dubbio in proposito.
218 Sull’attività giovanile di Giovanni, così come è oggi ipotizzata dai critici, si veda GREGORI, Angeli e
diavoli, p. 19-28, la quale alle p. 29-36 scrive un lungo excursus su Stefano Fiorentino.
219 TOESCA, Pittura e miniatura in Lombardia, p. 117.
223 VOLPE, Il lungo percorso, p. 298 e GREGORI, Angeli e diavoli, p. 27 e la scheda 20 in Giovanni da Milano.
226 Si veda SKAUG, Siena e non la Lombardia, p. 103-113 e GREGORI, Angeli e diavoli, p. 52.
1354
150
La cronaca del Trecento italiano
Giorgio Vasari dice che negli anni estremi della sua vita il pittore è rientrato in
Lombardia. Marina Gregori nota che l’influenza della pittura di Giovanni è molto forte su
alcuni cicli lombardi, come quelli di «Mocchirolo, di Solaro e di Lentate, negli affreschi con
Storie di Cristo dell'ultima campata della navata maggiore dell'abbazia di Viboldone e nelle
vivaci testimonianze bergamasche» che risalgono agli anni Sessanta del secolo e quindi
ipotizza un ritorno in Lombardia prima di questo periodo.227 Non si conosce l’anno della
morte del pittore.
Marina Gregori scrive: «i caratteri della pittura di Giovanni da Milano dichiarano una
cultura ab origine diversa da quella toscana, perché profondamente radicata nel mondo gotico
per la diversa concezione della figura umana, per le attenzioni realistiche ed epidermiche e
per la peculiare dolcezza delle notazioni espressive. Queste qualità del lombardo si
evidenziano anche nell’adozione dei modi appresi dai giotteschi portatori a Milano della
“maniera dolcissima e tanto unita”».228 Ed ancora: «I dipinti fiorentini costituiscono con il
Polittico di Prato il primo gruppo di opere riconosciute al lombardo, e rappresentano un
vertice qualitativo che ha consacrato Giovanni da Milano tra i maggiori pittori del secolo».229
Non sono sicure neanche le sue tracce negli anni della maturità in Lombardia, dove è
più che probabile che facesse ritorno per alcuni periodi, come spesso i suoi conterranei artisti
attivi in Toscana, e dove alcune opere, come i cicli dipinti negli oratori di Solaro, di
Mocchirolo (Milano, Pinacoteca di Brera) e di Lentate sul Seveso, oltre alle miniature di
Giovanni di Benedetto da Como, sembrano risentire della sua maniera anche tarda. Valerio
Ascani nota che «la figura di Giovanni resta per molti versi unica, per la capacità di inserirsi
in un difficile e poco ricettivo ambiente artistico e di committenza, per avere con curiosità e
intelligenza aggiornato costantemente il proprio stile con l'osservazione di pittori anche tra
loro affatto dissimili, le cui influenze invero talora coesistono con complesso, ricco dialogo
nell'opera del pittore, e per avere portato a Firenze elementi di novità, a livello tanto stilistico
quanto iconografico, non privi di conseguenze, anche a lungo termine, nello svolgersi della
vicenda della produzione pittorica della città […]. La singolarità della vicenda umana e
artistica di Giovanni ne fa, più ancora di Giusto de' Menabuoi, il principale tramite tra cultura
pittorica toscana e padana nell'era postgiottesca; mentre gli aspetti più avanzati della sua
pittura, di gentile seppur veristica narratività e con episodi di ricercato, linearistico
decorativismo, lo provano significativo anticipatore della stagione internazionale del tardo
gotico».230
Un altro pittore legato agli Umiliati è Giusto de’ Menabuoi, che, secondo Pietro Longhi,
al volgere di metà secolo, ha dipinto nel tiburio dell'abbazia di Viboldone, Pietro Longhi ha
immaginato un rientro di Giovanni da Firenze in Lombardia con Giusto, in compagnia di altri
fiorentini, per sfuggire alla peste. Pietro Toesca descrive gli affreschi dell’Abbazia di
Viboldone, che non considera pari a quelli della chiesetta di Solaro. Tra i dipinti dell’ultima
campata della navata maggiore, Toesca legge l’influenza di «minori seguaci di Agnolo Gaddi.
Quelle composizioni non hanno nessuno degli accenti di realismo che dànno novità alle opere
di Giovanni da Milano».231 L’artista che decora le altre parti della campata è anche l’autore
della Crocifissione, che ha somiglianza compositiva con quella di Solaro e si discosta da forme
toscane. L’affrescatore dimostra grande attenzione per la moda «e giova osservare con quanta
cura vi siano ritratte le variate fogge di vestire». «Singolari sono anche i due busti di Adamo e
d’Eva figurati in due tondi sotto la crocifissione, nei quali il colorito dei visi, d’un pallore
227 GREGORI, Enciclopedia dell’Arte Medievale, Giovanni da Milano. Per le notizie biografiche si veda anche
1354
151
Carlo Ciucciovino
diffuso modellato con tinte leggerissime, già accenna ad una maniera che nella Lombardia era
per avere una grande fortuna».232
§ 68. Letteratura
Sulla base delle prediche che ha pronunciato nella Quaresima di quest’anno, Jacopo
Passavanti compone un’opera che lascia però incompiuta: lo Specchio di vera penitenza, che
diventa molto popolare. Jacopo è nato a Firenze verso il 1302, da Banco dei Passavanti e
Francesca Tornaquinci, è divenuto Domenicano, ha studiato a Parigi, è poi stato lettore di
teologia a Pisa, a Siena ed a Roma. Nel 1345 è tornato a Firenze dove si fa conoscere come
predicatore da un pulpito d’eccezione: Santa Maria Novella. Nel 1348 ne diventa Priore e
Andrea Bonaiuti sicuramente lo ha raffigurato negli affreschi del Cappellone degli Spagnoli
che dipinge sotto il suo Priorato. Jacopo morirà nel 1357.236
1354
152
CRONACA DELL’ANNO 1355
§ 2. Il conte Lando
Corrado Wirtinger di Landau, detto il Conte Lando (in tedesco Konrad Wirtinger von
Landau) è originario di Burg Landau, antico borgo nei pressi della cittadina sveva di Ertingen,
figlio primogenito del conte Eberardo III e di Guta von Gundelfingen, con il titolo di conte
Corrado III, era appartenente alla casata dei Grüningen-Landau, che faceva parte dei conti di
Württemberg. Arrivato in Italia nel 1338, è stato prima al servizio di Venezia nella guerra
contro Mastino della Scala. Nel 1339 ha combattuto nella Compagnia di San Giorgio, per
Lodrisio Visconti ed è stato sconfitto nella battaglia di Parabiago. Nel 1346 è stato
nuovamente assoldato da Venezia per unirsi a Francesco da Carrara ed ancora una volta ha
4 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 40. La compagnia il 22 gennaio è nel Cesenate e si
dirige verso Rimini, Annales Caesenates, col. 1182 e Annales Cesenates³, p. 189. Le cronache di Bologna
registrano che la Compagnia a gennaio va nell’Anconitano e di qui passerà in Puglia, Rerum Bononiensis,
Cronaca B, p. 49.
Carlo Ciucciovino
conosciuto la sconfitta ad opera del biscione visconteo. Nel 1347 egli ha combattuto per il
marchese di Saluzzo contro Monferrato e Milano ed è stato nuovamente battuto. Nel 1348 si è
unito a Guarnieri di Urslingen ed alla Grande Compagnia assoldata da re Ludovico
d’Ungheria, contro Luigi e Giovanna d’Angiò. Egli si è arricchito cedendo a Luigi di Taranto
Capua ed Aversa. Si è quindi trasferito in Romagna a combattere per Francesco Ordelaffi. Ha
poi servito sotto le bandiere dei Visconti e quindi si è nuovamente aggregato alla Gran
Compagnia.
5 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 60-63, KERSUZAN , Défendre la Bresse et le Bugey, p. 91-92 ; a p. 93
di questa opera vi è una cartina con l’estensione territoriale del conte di Savoia. Anche COGNASSO,
Savoia, p. 143-145. D’ORVILLE JEAN, Chronique de Savoie, p. 193 ci dice che è Guglielmo de la Baume che
negozia per conto di Amedeo di Savoia. GALLAND, Les papes d’Avignon et la maison de Savoie, p. 104-105
osserva che il papa è stato completamente assente ai negoziati tra Savoia e Deldinato. CIBRARIO, Savoia,
III, p. 124-125 descrive il trattato.
6 Chi voglia approfondire l’argomento, veda COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 65-75.
1355
154
La cronaca del Trecento italiano
esservi prima che non havea loro promesso».7 Questa sollecitudine nell’indirizzare i propri
passi verso Pisa ci fa intuire il sollievo di Carlo nell’essere riuscito, vestendo i panni
dell’agnello, ad ammansire la vipera Milanese.
Molto probabilmente Francesco Petrarca ha assistito all’incoronazione in Santo
Ambrogio. Egli accompagna Carlo fin oltre Piacenza, e, ricevuto ancora una volta l’invito a
seguirlo a Roma, rifiuta.8
§ 5. Riforme all’Aquila
La calma è tornata nell’Aquila, grazie ai buoni consigli ed al prestigio del conte di
Celano, che ha favorito la creazione di un organismo di 68 cittadini, sessanta, uniti agli Otto,
e, per ordine di Luigi e Giovanna d’Angiò, ora la città può dotarsi di una nuova magistratura
formata dalle Arti cittadine, che sono quella dei Letterati, dei Mercanti, dei Pellettieri, dei
Metallieri e dei Nobili o milites. Il 6 gennaio vengono scelti due uomini per ogni Arte, dieci in
tutto, dei quali cinque costituissero la nuova magistratura e cinque fossero designati capi
delle rispettive Arti. La nuova magistratura viene designata come “del Camerlengo e Cinque
delle Arti della città dell’Aquila e del suo distretto”. Ai cinque capi delle Arti il 12 gennaio
viene consegnato un gonfalone per ciascuno, incaricandoli di raccogliervi sotto i loro
amministrati in caso di turbolenze.9
7 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 39 pone l’incoronazione a Monza, anche Diario del
Graziani, p. 174 parla di Monza, ma tutti gli altri autori parlano di una incoronazione nella basilica di
Sant’Ambrogio a Milano; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 196; CORTUSIO, Historia,² p.
138; Annales Caesenates, col. 1182 e Annales Cesenates³, p. 189. BAZZANO, Mutinense, col. 622; DE MUSSI,
Piacenza, col. 501; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 48; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 48, questa cronaca
ci informa che Carlo a Milano ha ordinato cavalieri e, tra questi, alcuni Bolognesi: Toniolo Galluzzi,
Catalano della Sala e Andrea di Giovanni Pepoli; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 48; VELLUTI, Cronica, p.
215. GIULINI, Milano, lib. LXVIII discute a lungo se l’incoronazione sia stata fatta a Milano o a Monza.
GAZATA, Regiense, col. 76-77; GAZATA, Regiense², p. 290-291. GORI, Istoria della città di Chiusi, col. 956 dice
che Carlo è stato incoronato con la corona argentea prima a Monza e poi a Milano. DI MANZANO, Annali
del Friuli, V, p. 125, sulla scorta della Cronaca universale, di RAMPOLDI, dice che è stato incoronato in S.
Ambrogio. RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 101 conferma l’incoronazione in Milano. Egualmente fa
SERCAMBI, Croniche, p. 101-102
8 HATCH WILKINS, Petrarca, p. 172-173.
9 BONAFEDE, L’Aquila, p.105-106; CIRILLO, Annali dell’Aquila, p. 39 verso; BUCCIO DI RANALLO, Cronaca
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Carlo Ciucciovino
vengono notizie a Manfredi, il quale scopre i nomi dei principali capi, ma, per ora, decide di
attendere. Fortuna vuole che, a metà gennaio, quattro navi angioine, cariche di ogni
bendiddio attracchino a Siracusa, che è sotto dominio angioino. Ora Manfredi può
giustamente contare di poter alimentare la sua cittadinanza; non solo: egli decide di sfruttare
la situazione per punire i congiurati, li convoca a palazzo e, con volto ilare, annuncia l’arrivo
delle navi e la possibilità di comprarne il grano e chiede il loro aiuto per recarsi l’indomani a
Siracusa ad ottenerlo. Alla fine dell’incontro, lascia andare a casa tutti i convocati, anche i
responsabili della macchinazione. Di notte però, a capo di un manipolo di suoi fedeli ben
armati, va a casa dei capi della ribellione, cogliendoli, uno per uno, con la guardia abbassata.
Li cattura e li fa tradurre al castello, dove vengono messi ai ceppi. Al mattino fa il bilancio e
conta nelle sue galere dieci capi, i quali, torturati, confessano. Alcuni di loro vengono
giustiziati ed altri lasciati in carcere. Quelli che sono coinvolti nella congiura e non sono stati
catturati fuggono, i loro beni vengono requisiti.11
L’esercito regio che, come abbiamo visto, è nella valle di Mazara, con l’aiuto di Manfredi
Doria e di suo fratello Ottobuono, ammiraglio della flotta reale, ottiene diverse terre, tra cui
Sant’Angelo, Trapani, Calatafimi. Il 18 gennaio l’esercito rientra a Catania.12
11 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 108; MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 79-80.
12 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 109. I capitoli 110 e 111 narrano altri fatti minori.
13 Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 70; Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte
Francesco di Montemarte, p. 230; GUALTERIO, Montemarte, 2°, p. 182. Le vicende della soggezione di
Gubbio sono in Cronaca di Ser Guerrieri da Gubbio,p. 10-12,il trattato della precedente soggezione ai
Perugini è riportato ivi alla nota 1 a p. 11.
14 SANSI, Spoleto, p. 231-234.
16 FILIPPINI, Albornoz, p. 71-72 e 106-107. Le città di influenza perugina che sono sotto il controllo della
Chiesa, oltre Spoleto, sono Gubbio, Gualdo, Foligno, Bettona, mentre Assisi rimane nella sua orbita,
senza che Albornoz faccia nulla per prenderla.
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La cronaca del Trecento italiano
§ 8. Carlo IV e il Piemonte
Il 9 gennaio lo zio del marchese di Saluzzo, Manfredo, da sempre avverso al ramo della
famiglia il cui esponente attuale e legittimo marchese è Tommaso, riesce a strappare al
distratto Carlo IV l’impegno di essere infeudato del Marchesato, qualora questo tornasse nelle
disponibilità dell’imperatore. Vi è però chi non tarda ad informare Tommaso che
prontamente manda una legazione a Carlo, il quale, nel frattempo, si è trasferito a Pisa. La
legazione, alla quale partecipa il notaio Giovanni Ravioli, spiega la situazione del Marchesato
a Carlo, che non tarda a revocare il proprio impegno a Manfredo.17
Il 3 febbraio, il marchese Giovanni II di Monferrato, che ha accompagnato il re dei
Romani a Pisa, ottiene da Carlo IV il riconoscimento di tutte le concessioni avute dai suoi avi,
in particolare Casale, Trino e le terre una volta di Alberto di Incisa. Il 10 maggio poi, in
riconoscimento della sua lealtà all’imperatore, riceve molte altre terre e castelli nell’Astigiano,
Canavese e Piemonte, malgrado queste siano nel possesso dei Visconti, Savoia o Savoia Acaia.
Il 3 giugno il marchese ottiene da Carlo il vicariato imperiale per Pavia e il Lomello. Infine,
con atto dell’8 giugno, Carlo lo esime dall’obbedire a suoi ordini relativi a paesi soggetti ai
Visconti, qualora egli stabilisca cose che non piacciano al marchese. Commenta il nostro
cronista: «è chiaro quali e quanti germi di guerra fossero racchiusi in queste concessioni
imperiali; Carlo IV sperava in conformità alla sua politica, non sempre onesta, di dar tutto a
tutti per avere da tutti denaro».18
Anche Giacomo di Savoia Acaia si propone di ottenere qualcosa da Carlo di Boemia. Lo
convince che egli deve affrontare continue spese per la manutenzione e riparazione dei ponti
e delle strade che dalla Savoia portano in Piemonte, ricevendo, il 20 aprile, il permesso di
imporre dazi sulle merci per la durata di anni 25, esentando però le merci per le case religiose
e dei viaggiatori non mercanti. Giacomo ottiene inoltre di poter coniare moneta, diritto che il
conte di Savoia gli vorrebbe vietare. Tra gli scontenti del pedaggio, paventando il rischio che i
mercanti di Lombardia e Toscana si scelgano un diverso itinerario, vi è il conte Amedeo di
Savoia, del quale Giacomo è feudatario. Amedeo esorta Giacomo a toglierlo, poi, insistendo
questi nel rifiuto, il 7 maggio del prossimo anno gli intimerà di eliminare il tributo.19
Federico ed Azzone Malaspina ottengono da Carlo IV l’investitura imperiale dei propri
beni il 22 febbraio.20
Giovanna d’Angiò, in un mese imprecisato nel primo semestre di questo anno, invia suoi
ambasciatori a prestare giuramento di fedeltà a Carlo IV imperatore. L’omaggio riguarda non
solo Provenza e Forcalquier, ma anche alcune terre di Piemonte, anche quelle perdute o che
Carlo ha già concesso (o concederà) a Giovanni Visconti e Giovanni di Monferrato. Il 20
dicembre, inoltre, Giovanna nomina il principe Filippo di Angiò, marito di sua sorella Maria,
suo vicario generale in Provenza e Forcalquier e lo incarica di recuperare le terre perdute in
Piemonte.21
III, p. 152-154.
20 SODDU, I Malaspina e la Sardegna, p. 353.
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Carlo Ciucciovino
suo dipendente. Il marchese di Monferrato viene informato del fatto una volta che tutto è
avvenuto e lo ritiene un grave sgarbo alla sua dignità, oltre che una violazione alle leggi
dell’ospitalità. L’affronto lo rafforza nell’inimicizia verso i Visconti, perturbata dalle continue
violazioni di confine perpetrate da Galeazzo Visconti. Tuttavia, aldilà degli aneddoti
pittoreschi, e delle eventuali questioni di intolleranza personale, ciò che rende politicamente
indispensabile la guerra contro i Visconti, sono le loro teste di ponte nel Piemonte angioino. Il
giovanissimo Conte Verde non può che rallegrarsi nel vedere scendere in campo due
contendenti, che, presumibilmente usciranno ambedue indeboliti dal conflitto. Occorrerà
comunque sorvegliare attentamente quanto accadrà; non si può infatti accettare né che il
marchese di Monferrato si riprenda tutti gli antichi possedimenti (Coraglio, Vinadio, Susa,
Lanza, Avigliana, Torino), ma, soprattutto, che suo zio, il principe Giacomo d’Acaia, ne
approfitti per espandersi, e, magari, trarre lena dagli eventi per una nuova ed aperta
ribellione.
Il marchese di Monferrato si allea con i Beccaria, di cui è intimo, ed insieme si recano da
Carlo IV a Mantova (prima di Monza), offrendosi di riceverlo a Pavia qualora Milano gli
impedisca l’accesso a Monza. Saputo dell’offerta, i Visconti, amaramente, concedono a Carlo
di venire a Milano. Quando Carlo è a Milano, dopo l’incoronazione, mentre è occupato in
una cerimonia di investitura a cavaliere, d’improvviso arriva il marchese di Monferrato con
due Beccaria che fa ordinare cavalieri dal re; il comportamento sgarbato restituisce in qualche
modo l’offesa di Piacenza. E «questo accrebbe la stizza e la mala voglia a’ tiranni» Visconti.
Il marchese di Monferrato intanto si è dato molto da fare, sfruttando la propria
popolarità in Piemonte, ha raccolto cavalieri dai suoi alleati e ne ha ottenuti degli altri dagli
amici tedeschi, ed a dicembre del ‘54 è riuscito ad ottenere che Chieri e Cherasco si
ribellassero al dominio visconteo. A gennaio del ’56 anche Asti e poi Alba, Valenza e Tortona
si danno al marchese di Monferrato. Galeazzo invia subito l’esercito, ma il marchese è ben
pronto ed in alcune scaramucce umilia i Lombardi. I Beccaria ora si schierano apertamente
contro i Visconti e si fortificano, pronti a resistere all’attacco milanese.22
22 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI; cap. 3 e Cognasso, Conte Verde*Conte Rosso, pag. 109.
23 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 41.
24 Gli ambasciatori perugini sono messer Baglione Novello de’ Baglioni, messer Golino di Pellolo, messer
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La cronaca del Trecento italiano
anche questi vestiti d’una assisa.25 Marchionne di Coppo Stefani sintetizza i risultati delle
future conseguenze delle azioni di Carlo per la Toscana: «ultimamente li Fiorentini ebbono
privilegi assai e diedono allo Imperatore fiorini 120.000; sicché bene pagarono la dota de’
maritati tiranni; e Pisa n’ebbe molti danni d’avere e persone; e i Sanesi non andarono
cantando. E con questi danari e con quelli che trasse di Pisa, che n’ebbe assai, ed ancora la
camera di Pisa rubò, e tagliò la testa a’ maggiori di casa Gambacorti, a Lotto ed a Francesco,
ed andossene nella Magna».26
25 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 50; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XI, anno 1355, vol.
1°, p. 199-200 sottolinea gli sgarbi gratuiti fatti dalla Signoria a Carlo.
26 STEFANI, Cronache, rubrica 667.
27 BAZZANO, Mutinense, col. 623. La tregua a Bologna viene annunciata, secondo i diversi cronisti, tra il 9
e il 18 gennaio, cfr: Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 48-49; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 49; Rerum
Bononiensis, Cr. Vill., p. 48-49. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 196-197.
28 Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 49. Si vedano particolari e sviluppi più oltre.
30 Tra il Battistero ed il Camposanto, RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 101 e nota 2 ivi.
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Carlo Ciucciovino
grande abundanzia». Si mormora in città che a Carlo, parendo troppo bello e sontuoso quel
letto, non via abbia dormito.31
Il mattino seguente, il 19 gennaio, la tensione latente tra ghibellini pisani, detti
Maltraversi, e Gambacorti, della fazione dei Bergolini, esplode. L’imperatore ha chiesto che i
cittadini si riuniscano a parlamento per presentargli giuramento di obbedienza; il clima della
città non è disteso: sulla piazza, intorno alla casa dei Gambacorti sono raccolti molti fanti
armati e la masnada a cavallo; ser Cecco Agliata, insieme a quelli del suo casato e con i
Malpigli e Grifi, tutto il partito dei Raspanti è riunito insieme. Mentre il popolo si sta
radunando nel Duomo per il giuramento, arriva un Maltraverso, il conte Paffetta, venuto in
Pisa al seguito dell’imperatore; quasi che il suo arrivo sia un segnale, la folla muove a rumore
gridando: «Viva lo imperatore, e la libertà, e muoja il conservatore!». Il popolo corre alle armi,
Carlo, protetto dal sindaco del comune, Franceschino Gambacorti, e dai soldati del comune,
si rinchiude nel Palazzo degli Anziani. Francesco Gambacorti perde qui la sua grande
occasione, e questo gli costerà la testa. Francesco infatti può contare su grandi forze: «se
Franceschino Gambacorti avesse auto cuore d’uomo, elli avea possa di molti fanti di Valdera
e di Collina, e d’altro contado di Pisa e di molti cittadini della lor parte: e anche avea lo
domino della masnada da cavallo, elli li [i Raspanti, i sostenitori di Paffetta] potea mettere a
filo delle spade ed essere al tutto vincitore». Carlo, vedendo scoppiare contradizione sì grande,
rivede le proprie convinzioni sul predominio dei Gambacorti. I Gambacorti, stupiti non più di
tanto dal fatto che Carlo ceda con troppa facilità ai desideri della popolazione ghibellina,
decidono di giocare d’anticipo ed offrono all’imperatore la libera signoria del comune,
sperando che egli si senta obbligato nei loro confronti. Non che tutti i partigiani dei signori di
Pisa si assoggettino docilmente ai dettami della mutata politica: vi è chi tra i capi si rifiuta di
prestare giuramento di obbedienza, dicendo: «Franceschino, fa cassar me, che io non voglio
giurare in mano di questo Imperatore, perché egli è un gaglioffo: io non conosco in lui alcuna
leanza: io sono miglior uomo di lui: elli non ti attenderà nulla promessa che t’abbia fatto, elli
ti farà tagliar la testa». Comunque, la signoria viene donata e Carlo gradisce visibilmente
l’offerta, il 23 prende la signoria e pone i suoi militi tedeschi alla guardia delle porte della
città. Si dispone poi a governare con astuta clemenza, facendo bandire per il contado che si
venga a lui per avere giustizia, «dicendo che intendeva che l’agnello pascesse nel prato al lato
al lupo, senza lesione o paura». La situazione sarebbe già abbastanza complessa, ma
interviene anche un altro fattore, la gelosia che Cecco Agliati nutre nei confronti di
Franceschino Gambacorti, che lo porta ad acconsentire alla richiesta della cittadinanza che
vuole che il giuramento di fedeltà non venga prestato a due cittadini: Franceschino e Cecco,
ma all’imperatore. I soldati giurano allora fedeltà a Carlo, che nomina suoi vicari
Franceschino e Cecco. La partita è ancora tutta da giocare, per il momento è solo rimandata.
L’imperatore, ben stabilito nel suo ruolo, manda messi ovunque a chiedere che i cittadini
depongano le armi. Il moto si sgonfia e la pace torna in città. i Raspanti possono contare
comunque sulla partigianeria di Marcovaldo, (erroneamente indicato come patriarca
d’Aquileia), che è completamente dalla loro parte.32
Dopo aver prestato il giuramento, i Pisani donano all’imperatore 120 carri carichi di
viveri.33 Il primo febbraio Carlo ordina cavalieri i figli di Francesco Castracani, nel giardino di
casa Gambacorti. Lo stesso giorno, di primo pomeriggio, si reca al duomo e qui, su un trono
con base dorata, vestito come un diacono con il manto imperiale, riceve gli ambasciatori dei
31 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 44; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 101-103;
RONCIONI, Cronica di Pisa, p.159-161; SERCAMBI, Croniche, p. 102-103; Cronache Senesi; p. 576.
32 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 45, 47, 48 e 51; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 103-
106; Monumenta Pisana,col. 1028 e 1029; RONCIONI, Cronica di Pisa, p.162-163; MARANGONE, Croniche di
Pisa, col. 713-715. Marcovaldo sarà patriarca dal 1365.
33 Farina, grano, orzo e spelta, legna, fieno e vino vernaccia, e còrso e greco, e ragesi, e carne di più ragioni,
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reali di Napoli. Alla sua destra vi è un suo barone con la spada sguainata e, alla sua sinistra
un altro che regge nelle sue mani il globo d’oro. Carlo ha in testa una corona d’oro, egli è
circondato dai suoi nobili e dal popolo. Gli ambasciatori angioini giurano lealtà all’imperatore
e Carlo conferma la Provenza a Giovanna d’Angiò.34
L’8 febbraio arriva a Pisa l’imperatrice Anna,35 con una forte scorta armata. La
consistenza delle truppe imperiali a Pisa ammonta a 4.000 cavalieri armati.36 La discesa di
Carlo infatti, e la nessuna resistenza incontrata, ha ben disposto l’animo dei Tedeschi a correr
l’avventura. Molti baroni e prelati e «grandi signori della Magna di diverse provincie», si
muovono per scendere nella penisola. Molti passano per Firenze, dove trovano alloggio per la
notte, con punte di 600-700 persone in una notte, «dove con cortese e buona guardia
honorevolmente sono albergati».37
scortano Anna e inoltre la giovanissima imperatrice ha con sé 16 damigelle. RONCIONI, Cronica di Pisa,
p.161. SERCAMBI, Croniche, p. 103 racconta che Anna è a Lucca il 6 febbraio.
37 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 56; Anna è arrivata a Padova il 21 gennaio, accolta tra
grandi onori, e ne è partita il 25 gennaio; ella è scortata, passo passo, da Francesco da Carrara; Domus
Carrarensis, p. 71, cap. 197.
38 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 43.
39 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 50-51; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 50; Rerum Bononiensis, Cr. Vill.,
p. 51. Francesco Ordelaffi sogna di poter unire tutte le signorie contro l’Albornoz, si veda PECCI, Gli
Ordelaffi, p. 58-59.
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sono barricati, e fuggono approfittando del subbuglio provocato dalle fiamme. I Senesi,
troppo occupati a domare l’incendio, non li inseguono ed i ghibellini si possono mettere in
salvo, delusi, ma sostanzialmente incolumi. Montepulciano patisce danni ingenti in seguito
all’incendio.40
40 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 50 e Cronache senesi, p. 576. Qualche notizia in BENCI,
Montepulciano, p. 39-42.
41 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 51.
42 Sono: messer Guccio Tolomei, Giovanni d’Agnolino Salimbeni, messer Francesco di messer Bino,
giudice degli Acarigi, Renaldo del Peccia, Davino di Memmo, Giovanni di Turo di Geri Montanini, ser
Mino di Meo Filippi, loro notaio. Gli abiti degli ambasciatori sono costati 20 fiorini a testa e quelli dei
loro famigli 8; Cronache senesi, p. 576-577.
43 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 53.
45 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 54 e Cronache senesi, p. 576-577.
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50 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 52; Chronicon Ariminense,col. 902-903; DE SANTIS, Ascoli
nel Trecento, II, p. 54-55; LEOPARDI, Annali di Recanati, p. 86; FILIPPINI, Albornoz, p. 68-69. Niente di
originale in FRACASSETTI, Fermo, p. 29-30 e in MICHETTI, Fermo, p. 94.
51 FRANCESCHINI, Montefeltro, p. 260. Il vescovo di Ferrara, Filippo, è anche rettore del ducato.
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§ 20. Piacenza
L’8 febbraio muore il vescovo di Piacenza, Ruggero Caccia. Il 20 febbraio gli succede
Pietro dei marchesi di Cocconato, un Monferrino «chierico di camera di papa Innocenzo VI».
Il nuovo vescovo terrà la diocesi fino al 13 maggio 1372.55
52 VILLANI VIRGINIO, I conti di Buscareto, p. 157 e nota 61 ivi. Sui particolari della sottomissione, ivi, p. 159-
163. FILIPPINI, Albornoz, p. 69 dice che Lomo ha giurato il 10 dicembre. Rodolfo da Varano ha una buona
esperienza militare e non solo locale, rammentiamo che egli si è recato a Smirne nel 1344, poi è stato
vicerè d’Abruzzo, raccogliendo l’ufficio di Nicola Acciaiuoli, cfr. FALASCHI: I da Varano, p. 14.
53 SANTINI, Tolentino, p. 130 e, su tale traccia, CECCHI, Tolentino, p. 107, che sottolinea che Tolentino viene
lib. III, p. 91narra come il legato sia stato molto ben accolto a Camerino e come Rodolfo Varani lo abbia
convinto a prendere Recanati con un colpo di mano, guadagnandosi il titolo di capitano generale.
55 POGGIALI, Piacenza, VI, p. 308-312 mette in evidenza come si sia sbagliato Ughelli nell’identificare in un
certo Nicolò il successore di Caccia, seguito, nel 1364, da un Giovanni dei Predicatori.
56 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 59; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 108-109.
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Francesco Fogliani. Feltrino poi rade al suolo il convento, «il più bello e sontuoso di tutta la
Cristianità», per evitare di doverlo nuovamente combattere.57
57 ALEOTTI, Reggio, p. 135-136; PANCIROLI, Reggio, p. 360-362. Aleotti ha in nota una descrizione del
convento e delle sue bellezze. Anche ANGELI, Parma,p. 187-188.
58 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 49-50; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 4; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p.
60 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 58; CAMERA, Elucubrazioni, p. 185-186.
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ha altra scelta che desistere, tornando sui suoi passi e accettando una pesante sconfitta, o
combattere una guerra dall’esito incerto. Pertanto, esercita una delle sue virtù: la pazienza,
ma non è da credere che ciò non costi nulla al suo orgoglio. I grandi cittadini di Siena
peraltro, ben consci del rischio in cui la loro città verserebbe per ribellione alla promessa fatta,
il 26 febbraio radunano il parlamento, e, con grande abilità, convincono popolo e Nove a
nominare i funzionari per la sottomissione. Il primo marzo il sindaco e gli ambasciatori
recano a Carlo IV la soggezione di Siena.61
61 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 61. La notizia cruda cruda della soggezione è in Rerum
Bononiensis, Cronaca A, p. 50; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 49; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 50-51.
62 Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 77.
63 Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 70-72; il documento è pubblicato in FUMI, Codice
67 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 90; BUCCIO DI RANALLO, Cronaca Aquilana, p. 233-237.
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72 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 63. I figli di Ottaviano sono Paolo, Roberto e il vescovo
Villani.
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ambasciatori hanno compreso che con tale somma nelle loro mani non arriverebbero a
concludere nessun accordo e sono ritornati per consultazioni a Firenze. Dopo accese
discussioni il comune toscano delibera che si pretenda molto e con molta fermezza, che gli
ambasciatori «non mostrassino né paura, né viltà, in domandare e sostenere il vantaggio del
comune». Nel negoziato si debbono arroccare sui 50.000 fiorini, ma possono arrivare a
100.000, prima di interrompere le trattative.
Gli ambasciatori tornano a Pisa, alla corte imperiale, ma Carlo IV li stupisce sorridendo
loro e mostrando di conoscere dettagliatamente i termini della loro missione, a lui noti per
delazione scritta. Confusi, gli ambasciatori chiedono una sospensione ed informano i Priori di
Firenze. Lo scandalo è grande, perché la discussione dove furono deliberati i termini della
missione era ristretta: solo gli ambasciatori, i Priori ed i notai hanno partecipato; quindi il
traditore si annida nelle massime cariche comunali.74 Ogni giorno cresce la forza militare
dell’imperatore, ogni giorno monta la pressione dei ghibellini italiani del suo seguito perché
egli rompa con Firenze. Ma «il savio signore conoscea quanto pericolo gli potea incorrere
potendo con suo onore e vantaggio havere pace e cercare guerra», decide quindi di
concludere i patti con Firenze.75
Il 12 marzo, in Firenze, viene radunato il consiglio del popolo, ma il notaio delle
riformagioni, ser Piero di ser Grifo, incaricato della lettura, scoppia in lacrime e la deve
interrompere. I consiglieri si commuovono e la seduta viene sospesa. Il giorno dopo ci si torna
a riunire e ci vogliono ben otto votazioni e l’intervento di autorevoli cittadini perché i patti
vengano approvati.76
I poveri ambasciatori fiorentini, con ben scarso margine di manovra nelle loro mani,
giungono nuovamente al cospetto dell’imperatore. Carlo, accompagnato solo da «suo fratello
l’arcivescovo di Praga e patriarca d’Aquileia»,77 e dal vicecancelliere che ha trattato con i
Fiorentini, si chiude con gli ambasciatori. Vengono lasciati fuori della stanza, ma continuano
ad esercitare la loro opprimente pressione, gli odi dei signori ghibellini italiani e la potenza
militare dei Tedeschi che, continuamente, rimpolpano le schiere imperiali. Occorre molto
coraggio agli ambasciatori fiorentini per concentrarsi sul loro compito: Carlo discute i patti
nei più minuti dettagli, affinché non vi siano malintesi. Il re di Boemia è venuto in Italia senza
alcuna voglia di combattere; venuto povero, vuol tornare, se possibile, ricco, ma sicuramente
incolume ed ha il fermo proponimento di fuggire le occasioni per attaccar briga con gli
scomodi Fiorentini. La discussione corre abbastanza liscia, finché non si affronta il
giuramento di sottomissione che il comune deve fare all’Impero. I Fiorentini vogliono
introdurre notevoli cautele in merito, Carlo lo pretende senza sfumature. Inoltre i Fiorentini
vogliono che venga loro riconosciuta la possibilità di legiferare liberamente, dando per
scontata l’approvazione imperiale, Carlo è contrario. La sfibrante discussione va avanti fino a
notte. «Infine lo imperatore, infellonito, gittò per terra la bacchetta (lo scettro), che havea in
mano, e mostrandosi forte crucciato, giurò ad alta voce per più riprese, che se innanzi ch’egli
uscisse di quella camera questo non si consentisse per gli sindachi, che con la sua forza, e de’
signori di Milano e degli altri ghibellini d’Italia, distruggerebbe la città di Firenze, dicendo
che troppa era l’altezza della superbia di Firenze». I coraggiosi ambasciatori, benché
impressionati, non perdono la calma: dicono che troveranno il modo di adeguarsi alla volontà
imperiale, ma ora è troppo tardi e chiedono il permesso di andare a riposare. Appena soli, gli
Praga è Arnošt Pardubic e non ha grado di parentela alcuno con l’imperatore. I figli di Giovanni di
Lussemburgo e di Elisabetta Premylovna sono stati: Margherita (1313-1341), Bona (1315-1349), Carlo
(battezzato Venceslao, 1316-1378), Ottokaro (1318-1320), Giovanni Enrico, conte del Tirolo (1322-1375),
Anna (1323-1338) e la sua gemella Isabella (1323-1324).
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78 I patti prevedono che vengano annullate le condanne contro Firenze, i conti di Battifolle, i conti di
Dovadola, i da Mangone, i da Vernia. A tutti viene restituito il titolo ed il diritto ai loro possedimenti.
Confermano gli statuti e gli ordinamenti del comune di Firenze, e l’automatica approvazione di leggi e
statuti nuovi, purché non in contrasto con la legislazione esistente. Sono nominati vicari imperiali i
Priori ed il Gonfaloniere di giustizia. Inoltre Carlo si impegna a non entrare in Firenze, né in alcuna sua
terra murata. Firenze, in cambio, fa libero giuramento di sottomissione a Carlo ed ai suoi successori.
Viene effettuato un pagamento di 100.000 fiorini e ci si impegna a versare un censo annuale di 4.000
fiorini, da pagare a marzo. I possedimenti di Firenze sono la Val di Nievole, la Valdarno di sotto, Pistoia, il
castello di Serravalle e tutta la montagna di sotto, e Colle e Laterina, e Monte Gemmoli e la terra di Barga con più
castella in Garfagnana, e il castello di San Nicolò col suo contado, e la montagna fiorentina e molte altre terre e
castella...e la nobile terra di Sangimignano e di Prato...erano ridotte a contado di Firenze. VILLANI MATTEO E
FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 76. È straordinario e degno di nota, rilevare come Matteo Villani consideri,
forse ancora influenzato dalle tesi di Cola di Rienzo, che la dedizione libera dei comuni all’imperatore,
costituisca un’usurpazione dei diritti del popolo romano, la cui autorità creava gli imperatori. E ancora, il
popolo predetto faceva gli imperatori e per le loro reità alcuna volta li abbattea, e la libertà di quello popolo romano
non era in alcun modo sottoposta alla libertà dell’Imperio, né tributaria come l’altre nazioni, le quali erano
sottoposte al Popolo e al Senato e al Comune di Roma. VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 77.
79 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 72 e 75; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 114.
L’annuncio arriva a Perugia il 12 marzo, Diario del Graziani, p. 176. Non è escluso che il solito delatore
nel governo di Firenze abbia informato Carlo della linea di fermezza decisa dalla Signoria e che, quindi,
l’imperatore abbia fatto buon viso a cattivo gioco.
80 Abbiamo già visto che il fratellastro di Carlo non è vescovo di Praga.
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signori di Romagna, rafforzatisi con l’ingaggio del migliaio di avventurieri congedati dai
Visconti. La barbute passano per il Senese, dove sono molto ben accolte. Matteo Villani ci
narra questo episodio sottolineando che «fu la prima e l’ultima che.llo ‘mperatore facesse in
Italia un fatto d’arme».82
In questi giorni giunge a Pisa il cardinale di Ostia, Pierre Bertrand du Columbier,
incaricato dal pontefice di incoronare Carlo. È consuetudine che la Chiesa invii altri due
cardinali, a sue spese, e in Avignone hanno brigato per essere scelti il cardinale Taillerand de
Périgord e quello di Bologna. Ma il pontefice decide di risparmiare il denaro, sicuramente per
risentimento verso il Périgord, colpevole di aver fomentato le ribellioni in Savoia e Provenza.
Se proprio lo desiderano, si autorizzano i suddetti cardinali ad andare a proprie spese. «I
cardinali consideraro la spesa grande, e l’imperatore povero di moneta e stretto d’animo»,
così malgrado tutti gli indegni maneggi fatti, rimangono in Avignone. Carlo IV non si
dispiace certo, «per non havere a spendere in loro il suo honore».83
Nel seguito del cardinale du Colombier vi è quegli che Petrarca chiama Lelio, Angelo
Tosetti.84
§ 33. Montepulciano
Mentre Siena è in tumulto, Niccolò e Jacopo Cavalieri da Montepulciano hanno avuto
modo di constatare quanto siano stati sciocchi, e come il loro comportamento sia costato loro
la perdita del potere e l’esilio (e alla povera Montepulciano devastazioni ed incendi). Pertanto
stringono nuovi patti d’amicizia e Jacopo fa rientrare Niccolò in città, ben accolto dagli
abitanti. Ma la rocca rimane saldamente nelle mani dei Senesi, perciò è giocoforza recarsi a
Siena, dall’imperatore, ad esporre a lui ed ai nuovi reggenti della città la ritrovata concordia
della famiglia Cavalieri. Carlo concede Montepulciano ai Cavalieri, come suoi vicari, poi,
partendo per Roma, li conduce con sé. Sulla via si ferma nella città per desinarvi
sontuosamente. A Roma, una qualche mormorazione contro Niccolò, convincerà Carlo a
convocarlo, ma Niccolò, invece di presentarsi, fuggirà ad Orvieto.86 Il vicariato concesso ai
Cavalieri è visto di malocchio da Orvieto, che ritiene il Chiugino suo territorio. Viene
analogamente vissuta come sopraffazione la costituzione della contea di Santa Fiora, a danno
della Chiesa e di Orvieto.87
82 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 67; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 114. Diario del
Graziani, p. 175 ci dice che il 7 marzo passano per Perugia 300 uomini a cavallo, comandati dal “vescovo
de Spera de Alemagna” che Carlo ha mandato in aiuto del legato.
83 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 71; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 113-114.
86 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 85 e Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di
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91 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 62; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 109-110 dice che
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un asino, la trascina per tutta la città. Meglio la cassetta che i cristiani! Il capitano del popolo
Befanuccio da Rocca Malencone, coraggiosamente, fugge.95
Il popolo, a gran voce, chiede che Carlo faccia uscire i Nove, per tagliarli a pezzi. Ma
l’imperatore non lo consente, allora la folla, furibonda, va alle case non ancora devastate dei
Nove e le saccheggia ed arde. «E così erano morti e feriti per la città in qua, in là, e non se ne
dicea nulla, e ognuno se ne stava e stregneva nelle spalle». I Nove ed i loro familiari hanno
grandi difficoltà a trovare qualcuno che voglia correre il rischio di accoglierli, li fuggono
perfino i religiosi. Quando la folla arriva alla dogana del sale, i soldati dell’imperatore
reagiscono e la gente viene respinta. Più tardi si rinnova l’assalto, ma i Tedeschi prendono
due degli aggressori e troncano loro la mano destra, dissuadendo gli altri. Carlo, il 25 marzo
elegge «dodici cittadini de’ grandi e diciotto popolari minuti», per riformare lo stato. Lascia a
Siena, come suo vicario, suo fratello Nicolò, patriarca d’Aquileia, «prelato di grande autorità e
sperto delle cose del mondo e pro’ e ardito in fatti di arme», supportato da Giovannino
d’Agnolino Salimbeni, dai Tarlati, dai conti di Santa Fiora, dal signore di Cortona, da
Francesco Castracani e molti altri ghibellini italiani, e il 28 marzo parte per Roma, a grandi
giornate.96
Giovannino Salimbeni, arrogante ed altero,97 interpreta il proprio ruolo in maniera tutta
personale: i Dodici cittadini grandi sono impediti dal partecipare ai lavori e le riforme
vengono decise, sotto l’influenza di Giovannino, dai diciotto popolari. Il governo viene
riformato in modo da eleggere quattro cittadini per terzo, in totale dodici, durano in carica
due mesi e tra loro viene sorteggiato il capitano del popolo. I Dodici stiano nel palazzo del
governo, vengono a loro associati sei gentiluomini, cioè sei dei Grandi, che non possono
risiedere nel palazzo del governo, ma senza la cui presenza alcuni atti non sono validi: ad
esempio l’apertura della corrispondenza di stato. I sei Grandi vengono detti il collegio. Si
decide di far iniziare tale forma di governo dal prossimo primo di maggio.98
William Bowsky mette in luce come alcuni membri del collegio dei Nove risultino dopo
questi avvenimenti ancora attivi nel comune e commenta: «il loro regime era caduto, ma i
Nove avevano posto le basi di una buona amministrazione. Molti aspetti del loro stile di
amministrazione e di reggenza politica continuarono dopo di loro quasi senza interruzione».99
95 Cronache senesi, p. 577-578; VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 81. CARNIANI, I Salimbeni, p.
215-218 mette in luce come probabilmente Agnolino Bottoni stia cercando di insignorirsi di Siena, forte
dell’appoggio di Carlo IV, e che sono probabilmente i Grandi a iniziare la rivoluzione.
96 Cronache senesi, p. 579 e VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 89; PASCHINI, Friuli, I, p. 297;
RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 115-117; Diario del Graziani, p. 176-177. Un profilo di Giovanni
d’Agnolino Bottone è in CARNIANI, I Salimbeni, p. 223-229.
97 Era altiero signore, dice Ser Guerrieri da Gubbio, nella sua Cronaca, pag.12.
98 Cronache senesi, p. 579. Nel suo viaggio verso Roma, Carlo passa per Chiusi, seda le controversie tra
cittadini e vi lascia un suo vicario, GORI, Istoria della città di Chiusi, col. 957. Su Siena sotto il governo dei
Dodici si veda CARNIANI, I Salimbeni, p. 218-223.
99 BOWSKY, Un comune italiano nel medioevo, p. 412 e per un punto di vista sintetico sull’epilogo del regime
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100 TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 157-159 e 205; UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 220-233.
Per la valutazione che Carlo ha di Nicola Acciaiuoli, si veda TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 205-206.
101 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 92.
103 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 2; Annales Caesenates, col. 1182 e Annales Cesenates³, p.
189; DE MUSSI, Piacenza, col. 501; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 51; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 50;
Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 52; Diario del Graziani, p. 177; il cardinale Ostiense è giunto a Pisa il 10
marzo e di qui ha raggiunto Carlo a Siena, Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 49-50; DI MANZANO, Annali
del Friuli, V, p. 126-127, questa fonte ci dice che su un ponte del Tevere Carlo ordina Cavalieri dello
Speron d’Oro Walterpertoldo di Spilimbergo, Pagano e Francesco di Savorgnano, Gerardo di Cucagna e
altri Friulani. Un breve cenno in MATTEO PALMERI, De Temporibus, col. 223, STELLA, Annales Genuenses, p.
154 e STEFANI, Cronache, rubrica 669. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 198 parla di 1.500
cavalieri ordinati da Carlo in questa occasione, tra loro anche Rizzardo da Sambonifacio, conte di
Verona. CORTUSIO, Historia,² p. 139. RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 118 dice che tra i cavalieri ordinati
vi sono Paffetta e Giovanni Pancia. La scorta armata di Firenze di 500 barbute è comandata da Antonio
di Baldinaccio Adimari, VELLUTI, Cronica, p. 216. DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 656-658.
104 Non che la liberazione sia stata cosa facile, per dettagli si veda GALLAND, Les papes d’Avignon et la
maison de Savoie, p. 265-271, che, in sostanza, dice che ci vuole l’intervento di Carlo IV per ottenerla.
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«ch’era huomo atto alla guerra più ch’al riposo», insieme raccolgono 80 cavalieri, si
provvedono di scale, e, nella notte sul 7 d’aprile, scalano di sorpresa il castello del Balzo, in
Provenza, una fortezza ritenuta inespugnabile, impadronendosene. La notizia suscita
sconcerto in Avignone in quasi tutti i cardinali, non già in quello di Périgord, che, anzi, aiuta
segretamente Roberto, inviandogli 300 cavalieri e 500 fanti armati.105 Ma gli alleati dei del
Balzo non rimangono inerti, ed in pochi giorni un esercito di 800 cavalieri e molti fanti si
raccoglie sotto il castello e lo assedia. Il conte d’Avellino, signore del Balzo, si reca intanto da
re Luigi di Napoli ed ottiene licenza di recarsi a difendere i possedimenti in Provenza e ne
riceve anche offerte d’aiuto.106 Per spiegare perché questa azione del Durazzo contro i del
Balzo, occorre notare che Giacomo di Savoia Acaia ha sposato Sibilla del Balzo, la quale è
stata probabilmente l’ispiratrice del principe per la cattura di Roberto.107
La ribellione di Roberto di Durazzo e Luigi di Durazzo, che si unisce alla Gran
Compagnia, danno a re Luigi la giustificazione necessaria a consentire il matrimonio di suo
fratello Filippo con Maria, la due volte vedova sorella della regina Giovanna. Qualunque cosa
accada, ormai il trono napoletano è saldamente nelle mani dei Taranto. Dopo lo sposalizio,
avvenuto in aprile, Filippo di Taranto si reca ad Avignone, per ottenere la necessaria dispensa
papale al matrimonio tra stretti consanguinei. Egli può vantare a suo credito che il
matrimonio tra cugini, già consumato, ha prodotto un frutto apparentemente sano, un
bambino, del quale però non abbiamo più nessuna notizia. Una lunga anticamera e molte
umiliazioni vengono inflitte a Filippo, ma, infine, la dispensa pontificia viene concessa.108
Quando Roberto di Durazzo fu battuto e catturato, venne detenuto nel castello di
Cumiana presso Pinerolo e quindi tradotto a Moncalieri.109
105 Oppure fornendogli il denaro perché li assoldi. VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 3 e
107 HABERSTUMPS, Dinastie europee nel Mediterraneo orientale, p. 222 e nota 56 ivi.
108 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 7. Sul bambino, DE BLASIS, Le case dei Principi angioini,
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tutt’intorno a Piazza San Marco, li avrebbero aggrediti ed uccisi. Gli insorti quindi, gridando
«Viva il popolo!», sarebbero sciamati per Venezia, uccidendo anche i figli dei nobili, nelle loro
case. Marin Faliero si sarebbe fatto proclamare signore di Venezia.
All’ultimo momento, la notte sul 15 aprile, il doge si perde d’animo, chiama a sé un
amico, Nicolò Zucuol, «gran mercante, banchiere ed armatore», e gli confida tutto. Nicolò
illustra all’amico le ragioni per cui il piano non può che fallire, basato com’è solo
sull’egolatria, e lontano dal sentire profondo dei Veneziani. Marino si lascia convincere a dà
ordine che l’impresa venga sospesa. Ma ormai è tardi: troppe persone sono state coinvolte per
garantire la segretezza, e molti temono ormai per la propria vita. Uno di costoro, «un
pellicciaio di nome Vendrame», che però non sa del coinvolgimento del doge, racconta tutto
al patrizio Nicolò Lion, che immediatamente lo trascina davanti al doge a denunciare la
congiura. Marin Faliero ha un bel daffare a minimizzare, ma Nicolò Lion pretende che il
Minor Consiglio venga messo al corrente. Il consiglio viene radunato in una Venezia tutta in
fermento per le novità. Piazza San Marco è gremita di folla e le voci più strane si diffondono
tra la gente. Alfine, il nobile Giacomo Contarini e suo nipote Giovanni si presentano davanti
al consiglio e dichiarano di aver saputo da un informatore, Marco Negro, che la notte stessa
«Filippo Calendario avrebbe dovuto mettersi alla testa della gente di mare del sestiere di
Castello». Marco Negro, interrogato, conferma tutto ed aggiunge che il capo della congiura è
Marin Faliero. L’informazione è troppo enorme per essere creduta, ma viene confermata da
altri congiurati, catturati e torturati. Il Consiglio prende vigorosamente in mano la situazione:
presidia il palazzo, manda a chiamare Marco Corner, che porta da Chioggia barche cariche di
volontari. Affluiscono a piedi ed a cavallo migliaia di armati. Venezia è fortemente presidiata:
ogni velleità di rivolta annullata. Il 16 mattina i Dieci si riuniscono, si associano venti patrizi e
viene istituito il processo al doge. Nello stesso giorno, Bertuccio Isarello e Filippo Calendario
«vengono impiccati alle colonne rosse della loggia del palazzo ducale, mentre, via via che si
pronunciavano le condanne, gli altri venivano appesi, in sinistra teoria, alle altre finestre della
loggia verso la Piazzetta e il molo. In tutto non si trattò di più di undici persone». Il 17, il doge
viene condannato a morte e la sentenza immediatamente eseguita, «e menatolo in sulla scala
dove havea fatto il saramento (giuramento) quando il misono nella signoria, gli feciono
tagliare la testa, e vilissimamente il suo corpo messo in una barca, fu mandato a sopelire a’
Frati». Nicolò Zucuol, per il merito di aver frenato la congiura, viene ripagato con una forte
multa e l’esilio a vita nell’isola di Creta.110
Il 21 aprile viene eletto il nuovo doge: Giovanni Gradenigo, detto il Nasone. Maturo d’età
e d’esperienza, provvisto di grande memoria e conoscitore delle memorie della sua patria.111 Il
nuovo doge invia subito suoi ambasciatori alla corte milanese, per trattare la pace con
Genova.112
110 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 13; DANDOLO, Chronicon, col. 424-425; ZORZI, La
repubblica del leone, p. 181-188; CORTUSIO, Historia,² p. 130-131; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo
14°, p. 203-207; molto circostanziato ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 180-191. Breve notizia in MATTEO
PALMERI, De Temporibus, col. 223, Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 55; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 52-
53; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 55, Annales Mediolanenses, col. 724. Si consulti, per uno studio
approfondito, LAZZARINI, Marin Faliero, p. 155-257. CESSI, Storia della repubblica di Venezia, I, p. 315-316
minimizza la congiura e suggerisce che nessuno sforzo serio fu fatto dagli storici per «penetrare nel
mistero, nel quale il miserabile dramma fu avvolto non solo dalla volontà interessata degli uomini, ma
anche dalla torbida oscurità delle cose», ed aggiunge che «al riparo della sua responsabilità dovettero
essere molte altre, rimaste occulte o volutamente occultate, intese forse non a scardinare un reggimento,
ma sopprimere una oligarchia a favore di un’altra». Anche CRACCO, Venezia nel medioevo, p. 138-139
ipotizza che il doge sia stato il capro espiatorio di uno scontro tra oligarchie. Un vivace racconto della
figura di Marin Faliero e della congiura è in ZORZI, La repubblica del Leone, p. 181-189.
111 DANDOLO, Chronicon, col. 425; DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 127.
112 Sono Raffello Carasini e Benintendi de’ Ravegnani; ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 193. Le ragioni
di Venezia per ricercare la pace sono esposte da CRACCO, Venezia nel medioevo, p. 139-140.
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quanto possibile per mantenere il proprio potere. Lunedì 20 aprile, manda armati contro la
rocca della porta verso Modena, il castello di Borgo San Felice, ma non ha bisogno di
combattere: gli basta far drizzare una forca alla quale minaccia di impiccare il figlio del
castellano, per averne la resa. Il giorno stesso, Giovanni si fa proclamare signore di Bologna e
nomina come podestà Armanno Spettini117 da Piacenza. Giovanni riceve soccorsi armati dal
marchese d’Este a da Roberto Alidosi, signore di Imola.
Giovanni sequestra commercianti e beni dei mercanti milanesi, che lascia contro riscatto.
Intanto, messer Galasso Pio è riuscito ad entrare nel solo castello di Bazzano, e qui attende lo
sviluppo degli eventi.118
Nella notte del 28 aprile, entrano a Bazzano i rinforzi viscontei, 200 barbute e 300 fanti,
capeggiati da Amodio Spetem, che viene anche indicato come Amodeo da Sperano. Queste
truppe, unite immagino ad altre della guarnigione sempre sotto il comando di Amodio, fanno
un’incursione a Piumazzo, dove stanno gli armati dell’Oleggio, al comando di Bernardo da
Panico. Nello scontro, favorevole ad Amodio, il cavallo di Bernardo viene ucciso e messer
Bernardo viene catturato e portato a Parma.119
Il 21 aprile, Giovanni fa eleggere da Anziani e Consoli i Sapienti, per provvedere e
deliberare intorno ad alcuni capitoli di riforma che egli fa apparire come ideati da altri ed a
lui sottoposti. Tra questi il più rilevante è il terzo che riattribuisce al consiglio dei Quattromila
la scelta degli ufficiali pubblici.120
Giovanni d’Oleggio, intanto, ha scacciato 400 guelfi dalla città, ma avverte un forte
malumore nella popolazione e li fa rientrare. Per acquistare popolarità ha dimezzato la tassa
sul macinato, ma, a corto di denaro, impone un’imposta una tantum di 20.000 fiorini,
imprigiona molti guelfi e li fa riscattare a caro prezzo. Al solo Nanni Guelfo de’ Griffoni,
«cives honorabilis et valde dives», padre del bastardo che ha ucciso il barbiere dell’Oleggio, spilla
3.000 lire di bolognini.
Un’ambasceria bolognese, inviata a Firenze da Giovanni d’Oleggio, il 6 maggio, per
cercare di legare a sé la forte repubblica contro i Visconti, torna malcontenta, avendo trovato
la repubblica del giglio convinta a rispettare la propria alleanza con i signori di Milano.121
Poco prima di impadronirsi di Bologna, Giovanni d’Oleggio ha tentato di imporre una
tassa di 8.000 lire agli ecclesiastici, ricevendo immediatamente una scomunica dal vescovo di
Bologna: Giovanni da Galerado; il signore di Bologna fa prontamente marcia indietro.122
117 Armanno è chiamato in molte immaginose maniere dai cronisti bolognesi, a parte il nome, dove per
un errore viene una volta indicato come Antonio, Ermanno viene mutato in Armanno e Amodeo, ma è
sul cognome che vi sono le varie versioni: Splecone, Splecheme, Spetem, Sperano. Un suo fratello viene
chiamato Peramodio de Splecone.
118 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 12; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 52-54; Rerum
Bononiensis, Cronaca B, p. 51; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 53-55; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 48;
BAZZANO, Mutinense, col. 623; molto secco è il racconto dell’anonimo continuatore del Chronicon Estense,
col. 483; sintetico anche TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 33. Breve cenno in DE MUSSI, Piacenza, col. 501.
Ben dettagliata la narrazione di AZARIO, Visconti, col. 337-341; e, nella traduzione in volgare, p. 73-78,
Pietro Azario è stato testimone oculare degli avvenimenti, egli dice che la segretezza del disegno
politico dell’Oleggio è ben nota ai Visconti tanto che «a Milano anche le bestie ne erano al corrente». Si
veda anche GIULINI, Milano, lib. LXVIII che si basa sull’Azario. GRIFFONI, Memoriale, col. 170-171 mostra
la sua appartenenza al partito guelfo dicendo che l’Oleggio «ispiratus spiritu diabolico & spiritibus
Maltraversorum $ Ghibellinorum, prodidit Dominum Mapheum Vicecomitem».
119 BAZZANO, Mutinense, col. 623; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 55-56; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p.
51-52; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 57. Una sintesi in SIGHINOLFI, La signoria di Giovanni da Oleggio, p.
40-47.
120 SIGHINOLFI, La signoria di Giovanni da Oleggio, p. 47-48 elenca tutti i provvedimenti e li discute.
122 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 51; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 50-51; Rerum Bononiensis, Cr. Vill.,
p. 51.
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123 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 6; TONINI, Rimini, I, p. 388; BONOLI, Storia di Forlì, I, p.
406; FILIPPINI, Albornoz, p. 85.
124 Si veda il paragrafo 39 precedente.
125 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 91 e STEFANI, Cronache, rubrica 670. Molto critico per
l’ostentazione della ricchezza è AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XI, anno 1355, vol. 1°, p. 204-205. Il
comportamento di Nicola sconcerta anche i suoi biografi: TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 157-159;
UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 227.
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un abate che coniughi capacità e decisione. Quanto Angelo incida sulle sorti del grande
monastero lo testimonia il fatto che lo storico dell’abbazia niente registra riguardo alle sue
attività, viene solo elencato nella serie degli abati vescovi, senza che ci rimanga un cenno dei
suoi sforzi. Angelo morirà il 23 ottobre del 1357.126 Con il vescovo, è Zanobi da Strada, il quale
con il Boccaccio, scova nella biblioteca del monastero un manoscritto del secolo XI, che
contiene un frammento di Cicerone e brani del De lingua latina di Varrone. Giovanni
Boccaccio li fa copiare e li invia in dono al suo amico Francesco Petrarca. A fine anno
giungono al poeta anche i suoi libri, salvati dall’incendio di Valchiusa.127
Il vescovo Filippo Belforti in un paio di lettere ai reali di Napoli narra come la Toscana si
sia liberata della Gran Compagnia.128
126 TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 290-294 e, per Montecassino, DELL’OMO, Montecassino, p. 301 e, per
l’assenza di ogni cenno a sue iniziative, p. 198, 59 e 161.
127 HATCH WILKINS, Petrarca, p. 179-180.
130 Cronache senesi, p. 579 e VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IV; cap. 82.
131 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 20; PASCHINI, Friuli, I, p. 296; DI MANZANO, Annali del
Friuli, V, p. 128 dice, non so con quanto fondamento, che il patriarca è stato nominato signore e vicario
imperiale di Siena il 13 maggio. Il 22 maggio il patriarca riesce a far concludere la pace tra i signori di
Montemerano e di Castellottieri con gli Orsini di Pitigliano, cfr. BRUSCALUPI, Pitigliano, p. 165.
132 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 14 e 15. Dettagli sull’itinerario in Diario del Graziani, p.
177-178.
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La cronaca del Trecento italiano
Il riposo imperiale a Siena dura circa due settimane, ma non è un riposo spensierato: i
signori ghibellini d’Italia, delusi dal comportamento che Carlo ha avuto nei loro confronti si
radunano in una chiesa di Siena per deliberare come comportarsi. Decidono di preparare
un’esposizione dei loro meriti e delle loro ragioni, affidata al prefetto di Vico, cioè a colui che,
con le sue mani, ha incoronato l’imperatore in Roma. Il prefetto espone con facondia gli
avvenimenti che hanno turbato l’Italia negli ultimi cinquant’anni, le lotte tra Impero e guelfi,
capeggiati da Firenze, la difesa dell’idea imperiale per la quale i ghibellini italiani hanno
versato il loro sangue. Si lamenta infine della scarsità di riconoscimenti che Carlo ha concesso
loro. L’imperatore, senza sentire bisogno di consultarsi con nessuno, risponde che egli ben
conosce i servigi ed i meriti dei ghibellini italiani, ma i mali d’Italia derivano anche dai loro
cattivi consigli, dalla loro smodata ambizione e dal desiderio di vendetta. Assolve da colpe
Firenze e annuncia di non voler seguire il consiglio dei ghibellini italiani. Questi «frustrati
della loro corrotta intenzione, mal contenti, e poco avanzati», tornano nei loro paesi.133 Come
può non risultare gradito al papa questo imperatore?!
VILLANI VIRGINIO, I conti di Buscareto, p. 158; FILIPPINI, Albornoz, p. 86-87; LILI, Camerino, parte 2^, lib. III,
p. 92-93.
136 FILIPPINI, Albornoz, p. 86. Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 70 afferma che Berardo
di Corrado Monaldeschi ha catturato il fratello del Malatesta. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 51-52;
Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 52-53; niente di originale in COMPAGNONE, Reggia picena, p. 218.
137 FRANCESCHINI, Malatesta, p. 120; Chronicon Ariminense,col. 903; TONINI, Rimini, I, p. 388.
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Carlo Ciucciovino
dove è oggie la cacellaria insieme con lo fiancho de la volta grande verso ponente; et li stecte
bono tempo, de fine che a Ugubio venne mes. Malatesta Ongaro».138
Subito dopo la vittoria, Rodolfo da Camerino la sfrutta, correndo la Romagna. Riesce ad
ottenere che passi dalla sua parte il conticino di Ghiaggiolo, della famiglia dei Malatesta, ma
nemico di Malatesta per la morte di suo padre. Il giovane conte invia 500 cavalieri e altrettanti
masnadieri alle porte di Rimini, sorprendendo i difensori, che a malapena riescono a serrare
le entrate. Alla notizia, si ribellano ai Malatesta il castello di Sant’Arcangelo, il Verucchio ed
altri due castelli nel Riminese. Le fortezze si danno al signore di Camerino, che le usa come
basi per tormentare con sortite e scorrerie il territorio. Il 12 maggio arrivano il conte di
Ghiaggiolo e il conte Carlo da Dovadola, con 400 cavalieri. Fanno testa in Sant’Arcangelo e in
Savignano e di qui tormentano chi ancora sia fedele ai Malatesta.139
Il 9 maggio, Malatesta si reca a Pisa dall’imperatore, sperando di riuscire di convincerlo
a persuadere il legato pontificio a desistere dalla restaurazione del dominio pontificio.
Malatesta deve essere realmente disperato per cullarsi in tale vano disegno!140
Albornoz ottiene la resa di Macerata e il legato, secondo il suo costume e la sua strategia,
ne nomina suo vicario un nobile della città. Macerata si piega a pagare 5.000 fiorini d’oro di
censo. Il legato la affida a suo nipote Blasco Fernandez di Belviso come rettore.141
In questo anno, in data imprecisata, ed a tarda età, muore Gentile da Varano, figlio di
Bernardo ed avo di Rodolfo.142
Cronache forlivesi, p. 110 trascura il punto principale della questione trattata nell’incontro e mette in luce
invece che Francesco Ordelaffi e gli altri signori di Romagna si recano da Carlo a giurare di schierarsi
con lui contro la Chiesa. Questo giuramento non resisterà al primo colpo dell’Albornoz. Corretto invece
COBELLI, Cronache forlivesi, p. 110.
141 COMPAGNONE, Reggia picena, p. 218-219.
143 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 112; MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 80-82.
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La cronaca del Trecento italiano
loro capo Cicco Salvagio. Il capitano angioino del castello della città, Giacomino Pedilepuri, si
spaventa e cede la fortezza ai rivoltosi. In città si scatena la caccia ai collaborazionisti degli
Angiò. La città è nelle mani dei rivoltosi, ma un attacco dei Latini potrebbe rovesciare il
momentaneo successo. Mentre entra in città don Orlando d’Aragona, al comando di 200
cavalieri, una nave di Siracusa viene urgentemente mandata a Catania da re Ludovico, il
quale sta radunando truppe per aggredire Lentini, lo informa della rivolta portando al
sovrano quattro suoi uomini liberati dalle carceri.144 Il 4 maggio, Artale d’Alagona porta le
truppe regie verso Siracusa, entrandovi il 5. Manfredi Chiaromonte lo attende a Li grutti de li
rigitani. Egli ha affidato la prima schiera a Corrado Malatesta (un Toscano dice la cronaca),
mentre la seconda la riserva a Simone e sé, con 400 cavalieri. Il 9 maggio, don Artale esce da
Siracusa andando verso Catania ed incappa nel nemico. La prima linea dei suoi combattenti è
comandata da messer Ruggero Teutonico, Giovanni Landolina, Berardo e Guglielmo
Spatafora, che hanno a loro disposizione 150 cavalieri. La seconda linea è comandata da
Artale con 250 cavalieri. La battaglia è durissima ed incerta, da ambo le parti si fanno atti di
valore, alla fine i Chiaromontani vengono sconfitti e costretti a ritirarsi a Lentini. Matteo da
Piazza, partigiano di re Ludovico, ci informa solo dei danni subiti dai Chiaromontani: 200
loro cavalli sono stati uccisi e 50 presi.145
Forte del successo, re Ludovico decide di recarsi ad assediare Lentini. Parte da Catania il
13 maggio con più di 600 cavalieri e molta fanteria. Con lui vi sono Blasco e Artale d’Alagona
ed il vescovo di Catania Giovanni Luna. I suoi soldati devastano il territorio di Lentini, ma
non riescono a ingaggiare battaglia con i Latini che, al comando di Manfredi Chiaromonte,
fanno testa presso la chiesa di San Francesco. Il 20 maggio arriva anche Francesco
Ventimiglia. Ora il re ha più di mille cavalieri, mentre Simone e Manfredi ne hanno solo 600,
però protetti dalle difese cittadine. Dopo varie inutili scaramucce, il re, approfittando del fatto
che Vizzini si è ribellata agli Angiò, vi manda don Orlando e Giovanni Landolina e, quando
questi gli comunicano che la piazza è loro, ma potrebbero non resistere ad un contrattacco, il
13 giugno vi porta tutto l’esercito, liberando Lentini dall’assedio. Simone e Manfredi
Chiaromonte allora escono da Lentini e con 200 cavalieri devastano il territorio di Mineo,
portando via viveri e bestiame. Poi riservano lo stesso trattamento a Sciortino, Noto e
Caltagirone.146
144 Sono il giudice Roberto Ponzitto, messer Andrea di Taranto, Cicco de Aurobello e Lancia di Santa
Sofia.
145 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 113.
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Carlo Ciucciovino
caporali debbono dichiarare al conservatore il proprio nome e il numero della gente che li
accompagna, prima di ricevere l’autorizzazione, che viene concessa a gruppi. «Questo valico
fu per più giorni, avendo dì e notte da 600 a 800 o più cavalieri tedeschi ad albergare in
Firenze, e però niuno sospetto o movimento si fece o.ssi prese nella città, salvo ch’uno
pennone per gonfalone guardava la notte sanza andare la gente attorno».148 Nella comitiva
imperiale vi è il prefetto di Vico, che è di nuovo in grande prestigio per aver fatto il proprio
dovere nell’incoronazione, e Vallerano Castracani.149
Mentre l’imperatore parte da Siena, arriva in Firenze il cardinale d’Ostia, Pietro
Bertrandi (Colombier), quegli che ha incoronato Carlo a Roma. Egli vuole «vedere la città e
procacciare alcune cose dal comune di Firenze», cose che Matteo Villani non ci rivela. Viene
ricevuto con grandi onori e scortato entro la città tra lo scampanio delle campane. Viene
alloggiato nelle case degli Alberti. Il cardinale fa delle richieste indiscrete, che i Priori
rifiutano di concedere e l’8 maggio, il prelato «male contento» torna a Pisa.150
Il 18 maggio, Siena si leva a rumore, la popolazione serra le porte della città e prende le
armi. Il patriarca d’Aquileia cerca di comprendere le ragioni del moto popolare, e gli viene
risposto che la popolazione vuole le catene nelle strade, per loro maggior sicurezza. Lo scopo
di mettere catene è quello di impedire eventuali cavalcate della guarnigione del patriarca,
questi, «vedendosi male apparecchiato a potere resistere al popolo commosso e armato»,
cede. Ma, anche se, dopo essere stato per tre giorni armato, depone le armi, «il popolo rimane
arrogante e superbo per la vittoria del loro primo cominciamento».151
152 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 50 e BAZZANO, Mutinense, col. 623; TIRABOSCHI, Modena,
vol. 3°, p. 33-34. SIGHINOLFI, La signoria di Giovanni da Oleggio, p. 68 nota che la marcia dell’esercito
visconteo è così lenta perché si sta trattando la pace tra Genova, protetta da Milano, e Venezia.
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153 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 116; GIUNTA, Cronache siciliane, p. 47 notizia tratta da Brevis Cronica
155 Ricordiamo che Francesco è secondo cugino di Castruccio Castracani. Come chiarisce LERA, Francesco
Castracani degli Antelminelli conte di Coreglia, p. 406 in Castruccio Castracani e il suo tempo, Francesco è
figlio di Gualtieruccio e nipote di Lutterio, essendo Lutterio fratello di Castracane, nonno di Castruccio.
156 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 26; STEFANI, Cronache, rubrica 671; CERRETANI, St.
Fiorentina, p. 137. Ricordiamo che Zanobi è amico e uomo di fiducia di Nicola e, inoltre, poco possiamo
dire delle sue qualità poetiche perché poco o niente ci è giunto. TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 206-207;
UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 224-226. Sulla figura di Zanobi e sulla sua amicizia con
Nicola, si veda TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 157-159; UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 302-
309. la data del 12 maggio è in RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 126.
157 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 27; Monumenta Pisana,col. 1032-1033; RONCIONI,
Cronica di Pisa, p.170-172; Cronache senesi, p. 582; MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 715; RANIERI SARDO,
Cronaca di Pisa, p. 124-126; Diario del Graziani, p. 178-179. SERCAMBI, Croniche, p. 101 ci racconta che,
all’atto della venuta di Carlo IV in Italia, Francesco ed i figli di Castruccio avevano fatto un patto
secondo il quale Francesco doveva «rimanere maggiore e signore di tucta la Garfagnana co’ figluoli»,
1355
185
Carlo Ciucciovino
La notizia della morte di Francesco Castracani non aiuta a sedare gli animi dei Pisani.
Carlo, comunque, si ripromette di quietare i contendenti, fa radunare le due fazioni, una a
San Sisto, l’altra a San Pietro in Cortevecchia, poi li fa convergere verso Piazza degli
Anziani,158 sempre tenendoli separati. Fa loro un buon discorso sui vantaggi della pace e sui
disagi della guerra, poi li congeda e rimanda a casa. Durante la manifestazione, la parte dei
Bergolini si è mostrata irrequieta, forse perché con i Gambacorti sentono il potere nelle loro
mani, mentre i Raspanti, di ritorno da un esilio di sette anni, e anche per essere decisamente
di meno, nel rapporto uno a quattro, sono stati più quieti. Il caso vuole che, nella notte sul 20
maggio, un incendio fortuito si appicchi nel Palazzo degli Anziani, dove Carlo sta
trascorrendo la notte. Non si riesce a domarlo e bruciano, tra l’altro, 1.000 balestre, alcune
delle quali capaci di lanciare tre frecce contemporaneamente, e verrettoni e pavesi e armature.
Ardono anche le balestre strappate ai Fiorentini nella battaglia di Montecatini. L’imperatore
scampa e ripara nella canonica del duomo. Di qui manda a chiamare i capi delle principali
fazioni, ordinando di far la pace. Effettivamente, il mattino seguente tutto appare calmo e
Carlo si dispone a pensare alle questioni di Siena. Ma l’incendio è stata la scintilla di un più
vasto fuoco, e una piccola occasione fa deflagrare la ribellione. Il siniscalco dell’imperatore ha
voluto il possesso della chiave di volta delle fortificazioni di Lucca, la poderosa fortezza
dell’Augusta, fatta erigere da Castruccio. La conquista è stata cruenta: alcuni soldati pisani, di
guardia sugli spalti, sono stati uccisi, il resto della guarnigione pisana messo alla porta con
armi e bagagli. L’Augusta è ora presidiata dai Tedeschi, rinforzati da ventotto Lucchesi. Le
altre rocche della città rimangono in mano pisana.159 Passano per le vie di Pisa le some dei
cittadini pisani che sono stati di guardia all’Augusta e sono stati sostituiti dai Tedeschi di
Carlo. Quando il carico di armi ed armature transita nei quartieri dei Raspanti, per
incitamento del Paffetta, «tutto il popolo di Pisa s’armò e trassero a le compagnie e tutti gli
davano contra a lo’mperatore, facendo per ogni via di Pisa molti serragli e sbar(r)e, acciocché
lo’mperatore non potesse correre le terre». I soldati imperiali, vedendo il tumulto, si armano,
salgono a cavallo e convergono verso il duomo, dov’è Carlo. Ma i cittadini li assalgono, e li
uccidono per le vie, come loro nemici. In questo primo tumulto muoiono 150 cavalieri
tedeschi. Nessuno capisce cosa stia succedendo: i Gambacorti sono dall’imperatore,
disarmati. I cittadini che non fanno parte del tumulto, per non saper che fare, si armano e
vanno verso le case dei Gambacorti, per ricevere istruzioni. Carlo trattiene in ostaggio i
Gambacorti. Qui rifulge il genio malvagio del conte Paffetta, che intuisce che la situazione
può volgersi a totale vantaggio suo e del suo partito. Nessuno dei Gambacorti è in casa e
quindi nessuno può dar disposizioni alla folla spaurita e sbandata; allora il Paffetta e messer
Ludovico della Rocca corrono dall’imperatore per convincerlo che il moto popolare è
originato dai Gambacorti al fine di scrollarsi di dosso il potere imperiale.
mentre Arrigo e Vallerano sarebbero stati signori di Lucca. Sulla morte di Francesco: SERCAMBI, Croniche,
p. 111-112. Francesco lascia 5 figli: Santi, Andrea, Jacopo (ferito in questo episodio), Nicolò e Giovanni.
Santi, il primogenito eredita la contea di Coreglia, Jacopo e Giovanni servono con le armi Pisa. PACCHI,
Garfagnana, p. 147, che al doc. 43, p. LI dell’appendice, riporta il diploma di investitura di Coreglia da
parte di Carlo IV. LERA, Francesco Castracani degli Antelminelli conte di Coreglia, p. 405-419 in Castruccio
Castracani e il suo tempo, fornisce notizie sulla vita di questo cugino di Castruccio e riporta integralmente
il privilegio di re Giovanni di Boemia a Francesco per Coreglia.
158 Sulla piazza degli Anziani (attuale Piazza dei Cavalieri) sorge la chiesa di S. Pietro in Cortevecchia,
accordo con i fuorusciti di Lucca, secondo il quale, contro il pagamento di 120.000 franchi d’oro, egli
libererebbe Lucca dalla signoria di Pisa, vi farebbe rientrare i fuorusciti, e consentire il governo del
popolo. Non vi è alcuna evidenza della fondatezza di questa diceria, ma, indubbiamente, l’avarizia di
Carlo e la voglia di libertà dei Lucchesi danno credibilità alla storia. Questa voce e la presa dell’Augusta
sono la base su cui si sviluppa la rivolta. VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 19.
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160 MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 717 e 718; RONCIONI, Cronica di Pisa, p.164-167; VILLANI MATTEO E
FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 30, 31, 32 e 33; Monumenta Pisana,col. 1029-1031; RANIERI SARDO, Cronaca di
Pisa, p. 126-129; Cronache senesi, p. 579-580. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 56; Rerum Bononiensis,
Cronaca B, p. 53; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 58; SANGIORGIO, Monferrato, p. 174-175; CORTUSIO,
Historia,² p. 139-140. Molto scarno il resoconto di SERCAMBI, Croniche, p. 104-105. VELLUTI, Cronica, p. 217
attribuisce a Ugolino Gonzaga il merito di aver sottolineato il pericolo all’imperatore e di averlo
consigliato di sostenersi a Paffetta e abbandonare i Gambacorti.
161 ASCANI, Monte Santa Maria e i suoi marchesi, p. 64-69 che esamina in dettaglio il diploma ed i diritti che
conferisce ai marchesi. MUZI, Città di Castello, vol. I, p. 162 nega che si possa parlare di feudo imperiale e
lo conferma «come d’antico pontificio diritto».
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Il 15 maggio è arrivato alla corte imperiale anche Aleramo del Carretto, marchese di
Savona e Clavesana, per fare atto di omaggio a Carlo IV per sé e per suo zio Giorgio e suo
fratello Manuele. L’imperatore conferma loro i feudi.162
162 PIETRO GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p. 275-277.
163 Cronache senesi, p. 580-581; Monumenta Pisana,col. 1031-1032; MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 719;
RONCIONI, Cronica di Pisa, p.167-169; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 129-130; molo dettagliato il
racconto di SERCAMBI, Croniche, p. 105-109; VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 34; AZARIO,
Visconti, col. 343; e, nella traduzione in volgare, p. 81.
164 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 35.
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La cronaca del Trecento italiano
guardia degli imperiali, non vengano loro restituiti. Deve aspettare fino al 27, poi, finalmente,
può recarsi a Pisa da Carlo IV.
Giovanni d’Agnolino Salimbeni, che è uno del Collegio, all’inizio di giugno, istiga il
popolo minuto ad armarsi per pretendere di annullare la presenza dei nobili nel governo. I
Tolomei, nemici dei Salimbeni e di Agnolino, prima di venir costretti con la forza, e per
evitare che l’avvenimento venga ascritto a merito di Agnolino, rinunciano all’ufficio e si
fanno promotori dell’impedimento ai nobili di partecipare alla cosa pubblica. Agnolino
ordina un consiglio generale che sancisce l’eliminazione dall’istituzione dei Grandi aggregati
ai Dodici. D’ora in poi il governo popolare dei Dodici non dovrà più fare i conti con le
famiglie nobili.165
Non tutte le città accettano di passare dal dominio dell’imperatore a quello di Siena.
Molte città del territorio non riconoscono il governo dei Dodici: Grosseto, Massa Marittima,
Montepulciano, Monterotondo e Casole. I Massetani hanno scacciato i Senesi, ma il cassero è
ancora nelle loro mani. A fine maggio, Siena invia dei soldati che si scontrano con un
contingente di Massa, che impedisce loro il passo fuori di città. Dopo due ore di
combattimento, i Senesi hanno la meglio. Massa viene messa a ferro e fuoco. L’esercito senese
si rivolge allora contro Montepulciano, e Nicolò Cavalieri manda un messo a negoziare la
pace, ma i Senesi credono falsa la profferta ed impiccano il povero ambasciatore, lasciandolo
marcire al sole per diversi giorni. Montepulciano si dà allora a Perugia. Monterotondo
capitola a giugno. Grosseto patteggia il 4 luglio. Poi tocca anche a Casole.166
Dopo due mesi, i Dodici escono di carica, ma la loro amministrazione è stata
disastrosamente corrotta: Giovanni dell’Acqua viene decapitato e Guccio Pieri e ser Giacomo
di Domenico Ricci banditi.167
165 Cronache senesi, p. 581 e VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 36 e 55.
166 Cronache senesi, p. 581-582.
167 Cronache senesi, p. 582.
168 Nieri detto el Papa, Ugo di Guitto, Giovanni de le Brache e ser Checco Cinquini, tutti ricchi popolani.
170 Monumenta Pisana,col. 1032; RONCIONI, Cronica di Pisa, p.169-170; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p.
130-131; SERCAMBI, Croniche, p. 109-110. Una sintesi del governo passato dei Gambacorti è in VILLANI
MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 38. Abbastanza diffuso è il racconto di Annales Mediolanenses, col.
725.
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sostenitore di Carlo IV e anti-Gambacorta. Cola è uno degli Anziani eletti il 29 maggio, Priore
del quartiere di Forisporta.171
171 TANGHERONI, Gli Alliata, p. 84-85, che sottolinea una notazione di RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p.
120.
172 L’evento è narrato in VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 25.
173 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 39 e 40; Monumenta Pisana,col. 1033; RONCIONI, Cronica
di Pisa, p.172-173; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 132; SERCAMBI, Croniche, p. 113. Marquardo di
Randeck è vescovo di Augusta dal 1348. Egli è nato nel 1296, verrà nominato patriarca di Aquileia nel
1365. Marquardo viene chiamato spesso Marcovaldo nelle cronache.
174 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 53.
176 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 45; STELLA, Annales Genuenses, p. 154; BAZZANO,
Mutinense, col. 624. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 207-208; ROMANIN, Storia di Venezia,
III, p. 193-194. Senza che io sappia collocarla logicamente, DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 133
riporta la notizia che in questo anno «si fa guerra tra i Veneziani e il conte Alberto d’Istria». Per le
vicende della guerra tra Venezia e Genova che hanno coinvolto in qualche misura la Dalmazia, si veda:
LUCIO, Historia di Dalmatia, p. 246-247.
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quasi raggiunta; e un profondo, inutile logorio dei due maggiori porti italiani. Di riflesso, ci
avevano guadagnato soltanto i Turchi e i Catalani».177 Romanin commenta per la Serenissima:
«Venezia, invece, poco stette per risorgere, e, per un governo prudente e ben ordinato, e pel
concorso patriottico dei cittadini, rimise presto in mare nuova flotta, riprese con la solita
vivacità i suoi traffichi (!), strinse trattati con l’Egitto, colla Berberia, coi Fiamminghi, col Gran
Can dei Tartari».178 Occorre notare però quanto scrive Giorgio Cracco, riguardo la volontà di
coloro che, nella pace, hanno voluto difendere a oltranza i traffici d’Oriente, per vedersi tutta
la Schiavonia in tumulto nel prossimo anno. Avendo come esito ultimo la disastrosa pace del
18 febbraio 1358.179
181 Matteo Villani racconta che, prima che i Genovesi prendano Tripoli, i figli esclusi dalla successione
hanno tramato contro il loro genitore e l’hanno assassinato. Ne segue un periodo di confusione e di
vuoto di potere, nel quale i “nobili” si impadroniscono di parte del paese. Il figlio di un fabbro, uomo
«(e)sperto e ben parlante», è quegli che riesce a prendere il potere nella città di Tunisi. I Genovesi
sapendo che il nuovo tiranno è inviso a tutti i nobili, decidono di correre il rischio di aggredire ed
espugnare la città. VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 11.
1355
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Carlo Ciucciovino
sbarcare le ciurme, mettono le scale alle mura e vi salgono. L’azione è così fulminea che i
cittadini danno l’allarme solo quando i Genovesi si sono ormai impadroniti delle mura e della
porta della città. A poco vale la scarsa resistenza opposta ai Genovesi ben armati ed affocati
dalla cupidigia: gli abitanti vengono respinti ed il tiranno, ben conscio che, da ribelle qual è,
nessuno gli recherà soccorso, fugge. I Genovesi scatenano l’attacco finale e «con grande strage
di Saracini» si impadroniscono di Tripoli. Il loro saccheggio metodico e sistematico frutta loro
una ricchezza enorme, valutata in 1.800.000 fiorini (più di 5 tonnellate d’oro!), 7.000
prigionieri tra uomini, donne e fanciulli. Filippo invia le sue «più sottili galee», e quindi le sue
più veloci, a Genova a narrare l’impresa ed a mettersi a disposizione del comune. Ma i
Genovesi temono ritorsioni da parte dei Berberi nei confronti dei loro mercanti a Tunisi ed in
Egitto e decidono di non rispondere ai messi del Doria. Questi ben comprendono il
linguaggio dell’inespresso messaggio e, senza salutare, tornano a Tripoli dai loro compagni,
«i quali vedendosi smisuratamente ricchi, del cruccio del loro comune» poco si curano.
Entrati nella categoria dei corsari, si rafforzano nella città e, consumandone ogni residua
risorsa, cercano a chi venderla.182
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191 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 52; MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 719-720; RANIERI
SARDO, Cronaca di Pisa, p. 136; SERCAMBI, Croniche, p. 112-113. Una notazione: nell’illustrazione di tale
fonte vi è una interessante maniera di effettuare la decapitazione, quasi una ghigliottina ante litteram, il
condannato è messo prono e la lama che lo deve decapitare è posta a contatto con il suo collo, sostenuta
da una traversa, il boia decapita con una mazza di legno che picchia sul retro della lama e questa scorre
in due guide. Si veda anche l’illustrazione a p. 109 per la decapitazione dei Gambacorti.
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saettamento apparecchiati». Giunto a Cremona, viene fatto attendere per due interminabili
ore davanti alla porta; gli viene concesso di entrare con poca scorta e disarmata. Carlo vi
dorme e vi riposa tutto il giorno seguente, sempre con le porte della città sbarrate per evitare
che i suoi cavalieri vi possano entrare, e guardato a vista da soldati armati del comune. Non
deve sopportare solo l’umiliazione, non gli viene risparmiato neanche lo scherno: in un
dibattito col vicario visconteo, Carlo dichiara di voler metter pace in Lombardia ed il vicario
insolentemente gli ribatte «che non se ne volesse affaticare». Uscito da Cremona, analoga
accoglienza gli viene riservata a Soncino. Per cui, giustamente sdegnato, egli si affretta ad
incamminarsi verso il suo regno, «ove tornò cola corona ricevuta senza colpo di spada e colla
borsa piena di denari, havendola recata vota, ma con poca gloria delle sue virtuose operazioni
e con assai vergogna e abbassamento della Imperiale Maestà».192 Carlo lascia come suo vicario
in Pisa, il futuro patriarca d’Aquileia, Marcovaldo o Marquardo di Randeck. Per due anni
Marcovaldo dimorerà nel Palazzo degli Anziani, andrà poi a guerreggiare contro Milano,
verrà catturato e rilasciato per intercessione dell’imperatore. Succederà a Marcovaldo come
vicario imperiale, suo nipote Gualtieri. Il vicario di Pisa riceve uno stipendio mensile di 100
fiorini d’oro e ha a sua disposizione 200 uomini a cavallo e molta fanteria.193 A giugno, per la
Valcamonica, Carlo passa in Germania; suo fratello Nicolò, che è stato nominato suo vicario
per Feltre e Belluno invece va in Friuli, passando per Padova.194
La considerazione che gli Italiani hanno dell’imperatore è testimoniata dall’estensore
della cronaca di Bologna, quando narra che Carlo è tornato nell’Alemagna: «in nella sua
mallora che Dio li dia, cum tucti li soi paternostri!».195
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luglio,197 all’ora di cena, sorprende Giacomino e la sua guardia del corpo, catturandolo senza
che resistenza alcuna venga opposta. Francesco dice: «Barba,198 voi siete preso!». Giacomino
viene trasferito nel castello di Monselice, dove concluderà i suoi giorni il 15 settembre 1372. Il
giorno dopo Francesco cavalca per la terra e la città, ottenendone il riconoscimento come
unico signore. Messer Zambon Dotto viene catturato, gettato in prigione, torturato perché
confessi la congiura per avvelenare Francesco. I suoi beni vengono requisiti e donati al
delatore Pollo Dotto. Pochi mesi dopo, il primo giugno del 1356,199 col consenso di Francesco,
Pollo e suo fratello Iacopo si recano alla prigione e con un laccio strangolano Zambon. Il
mancato avvelenatore viene seppellito in Sant’Andrea. Margherita ed il suo pargoletto
vengono inviati a Mantova dal padre e nonno Guido Gonzaga.200 Giacomino viene prima
serrato nella torre di Trambacche, poi trasferito a Castelbaldo e, infine, alloggiato con tutti gli
onori nel castello di Monselice. Vi trascorrerà 17 anni di ininterrotta e dorata prigionia,
morendo, nel 1372, a soli 45 anni.201 Giacomino «fu di corporatura tenue, di naso picciolo ed
innalzato, di aspetto malinconico e di poca robustezza di spirito».202
197 Data desunta da Domus Carrarensis, p. 73-74, cap. 201-202; GATARI, Cronaca Carrarese, p. 31, mentre
Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 55, parla di giugno, però Matteo Villani specifica il 26 luglio. Villani
dice che i motivi dei dissapori sono anche politici, anche se lievi, infatti Giacomino, oltre che con i
Visconti vuole che la pace sia conclusa anche con i Gonzaga, mentre Francesco non vuole concluderla
che con i Visconti. Matteo Villani conferma la tesi (o la voce) del tentato avvelenamento. VILLANI
MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 66.
198 Barba significa zio.
200 GATARI; Cronaca Carrarese; 30-31; VERGERIO, Vite dei Carraresi, col. 183-184; VERCI, Storia della Marca
Trevigiana, tomo 14°, p. 200-203; CORTUSIO, Historia,² p. 140-141 e 143. Niente di originale in MONTOBBIO,
Splendore ed utopia nella Padova dei Carraresi, p. 75-76 e KOHL, Padua under the Carrara, p. 97. Molto
dettagliato il racconto di CAPPELLETTI, Padova, I, p. 262-264. CITTADELLA, La dominazione carrarese in
Padova, p. 232-235 ci tramanda che viene trovato il veleno nelle stanze di Giacomino.
201 CAPPELLETTI, Padova, I, p. 264; VASOIN, La signoria dei Carrara, p. 61.
203 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 473; VILLANI MATTEO E FILIPPO , Cronica, Lib. V; cap. 71 che pone
l’avvenimento della resa ad agosto. CIBRARIO, Savoia, III, p. 127-128 si dilunga a parlare di Roberto di
Durazzo e dei suoi rapporti con i del Balzo. ZIGARELLI, Avellino, p. 66 dice che il re di Napoli libera
Antonio del Balzo, fratello del trucidato Roberto violentatore di Maria d’Angiò, e lo manda in Provenza
a recuperare il suo castello. Credo che sia incorso in un equivoco, Antonio è Antonio XV signore di Les
Baux, nato verso il 1350 e preposto della chiesa di S. Maria Maggiore di Marsiglia. Egli non è mai stato
prigioniero a Napoli, invece viene imprigionato da Roberto da Durazzo, quando questi gli strappa il
castello. DEL BALZO DI PRESENZANO, A l’asar bautezar!, vol. I, p. 167.
204 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 57; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 58; Rerum
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206 Giudizio dell’ ANONIMO ROMANO, Cronica, p. 224, che continua: «tiranno potente moite citate e castella
signoriava. La maiure parte della Marca de Ancona teneva sì per amore sì per forza».
207 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 46; FILIPPINI, Albornoz, p. 92-93; Chronicon
cronaca di Bologna ci informa che Albornoz ha piegato la volontà di Malatesta minacciando di far
bruciare come eretico suo fratello Galeotto, Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 58; Rerum Bononiensis, Cr.
Vill., p. 59. Una sintesi dei successi dell’Albornoz nelle Marche in Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del
conte Francesco di Montemarte, p. 230; GUALTERIO, Montemarte, 2°, p. 183. TONINI, Rimini, I, p. 388-391
riporta l’articolazione degli accordi tra Malatesta e Albornoz, idem in CARDINALI, La signoria di Malatesta
antico, p. 103-105. Nulla di originale in JONES, The Malatesta of Rimini and the Papal State, p. 75-78, ma
interessante la citazione, a p. 79, di una frase di Egidio Albornoz che giudica la Romagna “più volubile
di una ruota e più flessibile di un’anguilla”. MELCHIORRE DELFICO, Memorie storiche della repubblica di S.
Marino, p. 92-94 fa rilevare che Albornoz tratta la repubblica di San Marino come un baluardo
fondamentale contro i Malatesta e perciò, tornate le cose alla calma, ne vuole riservare per la Chiesa il
dominio. L’elenco dei nobili marchigiani che parteggiano per il legato è anche in ANONIMO ROMANO,
Cronica, p. 226.
209 VILLANI VIRGINIO, I conti di Buscareto, p. 159.
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buonafede dei Malatesta. Probabilmente il cacciato Angelo era un uomo di fiducia dei
Malatesta. Dalla metà dell’anno vi è un rettore pontificio, Teo de Michalatis di Perugia, alla
guida di Ancona. Il 20 luglio il comune nomina due suoi procuratori nelle trattative per la
sottomissione della città di Ancona. Una volta formalizzata questa, la città viene liberata da
tutte le sanzioni secolari o canoniche.211
A novembre, Gil Albornoz entrerà trionfalmente in Ancona e darà inizio alla
costruzione della fortezza sul colle di San Cataldo, significando così la sua volontà di fare
della città portuale il centro amministrativo del suo dominio nella regione.212
211 LEONHARD, Ancona,p. 184-188, i nomi dei procuratori sono Giovanni Arduini e Grasso Pizzecolli.
Leonhard avanza l’ipotesi che il personaggio che, nella famosa illustrazione della presentazione delle
chiavi al legato, a sinistra del cardinale porge tre chiavi sia Malatesta Guastafamiglia. Si legga anche
PERUZZI, Ancona, II, p. 89-92; FILIPPINI, Albornoz, p. 97-98.
212 LEONHARD, Ancona,p. 188-189; NATALUCCI, Ancona, p.369-370.
213 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 60 e 70; LILI, Camerino, parte 2^, lib. III, p. 94.
215 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 56. Il percorso di devastazione della compagnia in
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216 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 62; BUCCIO DI RANALLO, Cronaca Aquilana, p. 241-243.
217 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 63; TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 162-166; UGURGIERI
DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 227-228; CAMERA, Elucubrazioni, p. 190.
218 ZURITA, Annales de Aragon, Lib. VIII, cap. LIX; CARTA RASPI, Mariano IV d’Arborea, p. 122-126; CARTA
RASPI, Storia della Sardegna, p.572-575; ANATRA, Sardegna, p. 54-56; MELONI, L’Italia medievale, p. 115-117.
Molto superficiale O’CALLAGHAN, A History of medieval Spain, p. 418-419 ed anche BISSON, La corona
d’Aragona, p. 134.
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222 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 117; MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 83.
223 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 65. Il fatto che Villani dica luglio mal si concilia con il
fatto che il re dovrebbe essere a Messina, che è sotto blocco da parte delle navi angioine. Probabilmente
l’azione è da collocarsi quando il re è ancora a Catania, prima di lasciarla per Messina, oppure Michele
da Piazza sbaglia quando dice, nel cap. 118, che don Ludovico ha lasciato Messina per Catania il 18
dicembre, data sicuramente sbagliata perché successiva alla sua morte.
224 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 118; PISPISA, Messina nel Trecento, p. 220-222.
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II e preferiscono credere alle sue promesse piuttosto che al denaro sonante. Rendono pertanto
la fortezza al tiranno veronese che li ripaga facendone decapitare alcuni, torturandone a
morte altri ed impiccando trentasei tra quelli di più basso lignaggio.226
226 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 59. Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 54; Rerum
Bononiensis, Cr. Vill., p. 59, dice: 3 impiccati, 27 trascinati a Verona e fatti tagliare a pezzi su un ponte ed i
miseri resti gettati in acqua. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 214. Sul defunto Blasco si
veda: F. GIUNTA, Alagona Blasco il giovane, in DBI, vol. 1°.
227 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 68; BAZZANO, Mutinense, col. 624; un resoconto molto
dettagliato è nelle cronache bolognesi: Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 59-60; Rerum Bononiensis, Cronaca
B, p. 57; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 60-62; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 49-50 che dice che l’assalto
è comandato da Giovanni Pepoli e da suo figlio Andrea. GRIFFONI, Memoriale, col. 171. Si veda anche
SIGHINOLFI, La signoria di Giovanni da Oleggio, p. 76-81.
228 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 57; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 58.
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perché una parte dei vantaggi ottenuti dalle riforme concesse ai cittadini nel primo tempo, era
stata revocata a cagione delle urgenti spese per difendere la città».230
§ 75. Il Conte Verde ottiene la consegna del Faucigny e la soggezione del Genevese
L’applicazione di quanto stabilito nel trattato del 5 gennaio, non fila tutta liscia per
Amedeo di Savoia: il conte del Genevese resiste e non vorrebbe giurare lealtà al suo ex-
protetto, ma il re di Francia ed il Delfino sono irremovibili e Amedeo III il 20 luglio è costretto
a giurare nelle mani del Conte Verde. Persa la battaglia, Amedeo III vuole vincere la guerra e
si rivolge all’imperatore Carlo IV, il quale, il 21 agosto, incarica il suo vicario in Borgogna,
Enrico di Montbéliard, di proteggere il conte del Genevese. Non basta: l’imperatore ordina al
Amedeo di Savoia di non occuparsi delle questioni del Faucigny e del Genevese.231 Gli
sviluppi del Genevese avranno luogo nel 1358, quando l’arcivescovo di Tarentasia
pronuncerà un lodo favorevole al Conte Verde e Amedeo III sarà costretto a presentarsi a
Chambéry a ricevere l’investitura e prestare omaggio.
Il Faucigny, evidentemente sobillato dal conte del Genevese, invece resiste ed i castellani
rifiutano di prestare obbedienza al Savoia. Nel marzo del 1355, il Conte Verde inizia a
preparare una spedizione militare: blocca tutte le vie d’accesso al Faucigny e inizia a prendere
d’assalto un castello dopo l’altro. Cosa non facile: i castelli non cadono, a nulla valgono gli
ordini del Delfino che vuole che le fortezze vengano date al Savoia, Amedeo concentra una
gran quantità di armati nel Faucigny, spendendo ben 216.000 fiorini e, dal 7 luglio,
accompagnato dal vicario del Delfino, inizia il giro dei castelli, ottenendone il giuramento di
sottomissione.232
230 SIGHINOLFI, La signoria di Giovanni da Oleggio, p. 83. L’anno prossimo poi egli sarà costretto prima a
tassare i contribuenti del contado e poi anche ad inasprire il prelievo fiscale in città. Ivi, p. 144-148.
231 L’ordine di Carlo è però tardivo, infatti giunge solo il 21 agosto, quando l’occupazione del Faucigny è
129-131.
233 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 62-64; COGNASSO, Savoia, p. 146-150.
234 ANONIMO ROMANO, Cronica, p. 227-228. L’autore seguita elencando i misfatti di Francesco ai danni dei
preti e i suoi delitti. Mette però in luce le buone opere fatte a favore dei Forlivesi e l’amore con cui questi
lo ricambiano.
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235 BONOLI, Storia di Forlì, I, p. 407. Per la verità Giovanni Manfredi si è sottomesso all’Albornoz il 24
giugno. COBELLI, Cronache forlivesi, p. 110 scrive che il 14 luglio Francesco inizia la sua campagna militare
con le truppe di Cesena e Forlì e il suo primo obiettivo è Tadorano, che si arrende il 18 luglio, il 26 gli
apre le porte Montagliano.
236 AMIANI, Fano, p. 282-283.
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ritirano verso i monti.239 Nel percorso prendono Capraia e Verrucchio. Vallerano lascia in
Capraia, Nieri di Galeffe da Castelnuovo con la sua brigata ed in Verrucchio, Giovanni di ser
Bianco da Castiglione ed i suoi. I Pisani vanno ad assediare le due terre; tutte le case di
Capraia vengono abbattute a forza di trabucchi, ma i terrazzani, indomiti, invece di
arrendersi, tutti i giorni escono ad impegnare i Pisani in scaramucce: finché l’arrivo del
podestà Biordo, con il resto dell’esercito, non li convince a trattare. Ad agosto240 cedono la
terra e possono uscirne a bandiere spiegate e prendere imbattuti la via dei monti del
Frignano, nel Bolognese, dove si sbandano, ognuno alla ricerca della propria fortuna. Dopo
poco la stessa sorte tocca a Verrucchio.241
p.173-174. Molto scarno il resoconto di Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 59; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p.
59.
242 «E tutte l’allogarono in somma a’ buoni maestri con discrezione e avvisati proveditori, dando d’ogni
braccio quadro soldi 7 di piccoli di lire 3, soldi 9 il fiorino d’oro. Dando il comune a’ maestri solo la
calcina, acciò ch’e’ maestri havessono cagione di fare buone le mura. E le mura furono larghe nel
fondamento braccia 4 e 1/4 e fondate braccia 1 sotto il piano del fosso, e sopra terra grosse braccia 2,
ristringendosi a modo di barbacane, e sopra terra altre braccia 12, con corridoi intorno i beccategli, e
armate di torri intorno intorno, di lunghezza braccia 50 da una torre all’altra, alzate 12 braccia sopra le
mura, con 2 porte maestre, catuna tra 2 torri più alte che l’altre e bene ordinate alla guardia. E questo
circuito comprese il poggio e il borgo, e senza arresto fu compiuto e perfetto il lavorio del mese di
settembre seguente 1356. E veduto il costo del detto edificio, costò al comune di Firenze 35 migliaia di
fiorini d’oro». VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 73.
243 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 74.
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245 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 77; Annales Caesenates, col. 1183 e Annales Cesenates³, p.
190. Chronicon Ariminense,col. 903-904, racconta l’episodio in maniera diversa e meno credibile. Si veda
anche BONOLI, Storia di Forlì, I, p. 408-409. FILIPPINI, Albornoz, p. 93-94. PECCI, Gli Ordelaffi, p. 62. COBELLI,
Cronache forlivesi, p. 111 mette tra i prigionieri anche Nieri Orgogliosi.
246 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 76; TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 165-168; UGURGIERI
DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 228. In pegno della sua buona fede Nicola Acciaiuoli è costretto a
dare in ostaggio suo figlio Angelo.
247 TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 217-219.
249 BONAFEDE, L’Aquila, p.106-107; Cronaca dell’Anonimo dell’Ardinghelli, p. 27-28; CIRILLO, Annali
dell’Aquila, p. 40 recto dice: «furono poste guardie buone con l’armi in tutti i passi d’importanza».
250 BUCCIO DI RANALLO, Cronaca Aquilana, p. 244-245.
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251 PASCHINI, Friuli, I, p. 298-299; DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 128-131. Ricordiamo che Enrico ha
253 Si è seguita la versione di VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 81. La data del 26 settembre
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259 Federico è nato a Catania il 4 dicembre 1342. MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 89; SARDINA, Palermo
e i Chiaromonte, p. 39.
260 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 119; PISPISA, Messina nel Trecento, p. 222; PISPISA, Messina medievale,p.
95. GIUFFRIDA, Il cartulario della famiglia Alagona di Sicilia, p. 46-52 riporta disposizioni testamentarie di
Blasco e l’inventario ordinato da don Artale, in quanto esecutore testamentario del padre. GIUNTA,
Cronache siciliane, p. 47 notizia tratta da Brevis Cronica de factis insule Sicilie, Appendicula agli Annales
Siculi, p. 91, NICOLÒ DA MARSALA, Cronica, p. 108. Anche MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 84-90.
261 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 87.
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269 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 83. Diario del Graziani, p. 181 pone la dedizione di
Montepulciano a Perugia al 23 di agosto. In nota si dice che i trattati portano la data del 15 dicembre.
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Cinello di messer Luca.270 A novembre, anche Chiusi si dà a Perugia. La città del grifone ha il
diritto di nominare il podestà, scelto tra i propri cittadini, che vi sta con la sua famiglia a
cavallo allo stipendio di 300 fiorini. Per la festa di Sant’Ercolano i Chiugini recheranno un
palio in seta del valore di trenta lire di danari, portato da un uomo a cavallo, in segno di
sottomissione. Sessanta cittadini di Chiusi atti alle armi, di buona condizione e reputazione,
debbono essere al servizio del podestà. La loro turnazione è di sei mesi in sei mesi. Chi ci
rimette per questa pace è Cataluccio di Lello di Cellolo di Perugia e suo fratello, i cui beni
sono acquistati dal comune di Perugia a prezzo d’arbitrato, ed i due fratelli banditi. Infine i
Perugini che transiteranno per il territorio di Chiusi non saranno tenuti a pagare gabelle o
diritti di passaggio.271
273 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. V; cap. 82; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 63; Rerum
Bononiensis, Cronaca B, p. 57; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 63. Gli ambasciatori bolognesi che hanno
trattato la pace sono elencati da GRIFFONI, Memoriale, col. 171-172: Pietro Lambertini, Gariet di
Zappolino, Balduino di Ugliano, Francesco di Ygnano.
274 GRIFFONI, Memoriale, col. 171.
275 BAZZANO, Mutinense, col. 624. Fiorano è due miglia ad est di Sassuolo.
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vivente. Egli è nato intorno al 1300, figlio di Gaddo di Zanobi, detto Gaddo Gaddi. Egli dal
1313 è a bottega da Giotto e vi rimane fino alla morte del maestro nel 1337.278 Nel 1330 è
immatricolato per la prima volta nell’Arte dei medici e speziali di Firenze. La prima opera
sicuramente autografa è un trittico con la Vergine in trono con Bambino e Santi, del 1334, datato
e firmato. Molto probabilmente però Taddeo ha già collaborato con Giotto negli affreschi che
questi ha fatto in Santa Croce (1328). In questa stessa chiesa Taddeo, nel 1338, affresca la
Cappella Baroncelli con scene della Vita della Vergine, di Cristo. In questa opera c’è la prima
scena notturna della pittura italiana.279 Taddeo si distingue da Giotto per una maggiore
attenzione ai dettagli architettonici ed ai particolari narrativi, risultando meno monumentale
e più fresco di Giotto. Dopo la Cappella Baroncelli, il pittore, tra il 1335-40, dipinge le formelle
per l’armadio della sagrestia della stessa chiesa, dimostrando un buona padronanza nel
disporre le figure, colorite dolcemente, nello spazio scenico. Ma già, intorno al 1330-1335, egli
ha affrescato con Storie dei Santi Giovanni Battista e Giovanni evangelista il castello dei conti
Guidi a Poppi. Morto Giotto, egli rimane il più illustre rappresentante della pittura giottesca a
Firenze. Un illustre critico moderno, Pietro Longhi, ha sottolineato la coerenza dell’esperienza
di Taddeo con quella di Maso di Banco dal 1334 al ’40. Nel 1341-1342 egli lavora nella cripta
di San Miniato al Monte, dimostrando la sua contiguità con l’arte di Maso, e, a detta di
Giorgio Vasari, nella cappella maggiore della chiesa di San Francesco a Pisa. Nel 1353 viene
pagato per un Polittico realizzato per l’altar maggiore della chiesa di San Giovanni fuorcivitas
di Pistoia. «A partire dalla metà del secolo si radicalizza il neogiottismo del Gaddi, l’eredità
della tradizione fiorentina del primo Trecento trapela ancora nelle ricerche cromatiche di
pastosità chiaroscurale e nelle sperimentazioni spaziali, consapevolmente perseguite».280
L’ultima notizia che riguarda il pittore è del 1366. Negli ultimi anni della sua vita, verso il
1360, Taddeo affresca con impressionante vigore un Albero della vita a Santa Croce, con Storie
di San Bonaventura. Il colore pastoso denota l’influenza di Maso su di lui.
Angelo Tartuferi così inquadra Taddeo Gaddi nell’ambito della pittura fiorentina
successiva a Giotto: «Mette conto di rimarcare il carattere assai individuale, verrebbe da dire
quasi appartato, del convinto revival trecentesco portato avanti dal Gaddi, che permane
sostanzialmente estraneo alla tendenza di diretta filiazione giottesca promossa dal
formidabile binomio Stefano-Giottino – nella quale sembrerebbe da iscrivere in posizione
intermedia Nardo di Cione -, nonché dall’altra tendenza impersonata dapprima da Maso di
Banco e poi da Andrea Orcagna, che risulterà in breve vincente sul piano del seguito».281
Taddeo ha cinque figli maschi: Agnolo, Giovanni, Niccolò, Francesco e Zanobi. I primi
tre intraprendono la professione del padre.282 Agnolo, figlio di Taddeo, ci ha lasciato un
vivido ritratto del padre nell’affresco della Leggenda della Croce nella chiesa di Santa Croce.
Jacopo di Mino del Pellicciaio, un pittore senese oggi quarantenne,283 dipinge alcuni
affreschi (perduti) per l’ospedale di Santa Maria della Scala. Nei documenti ufficiali viene
citato come uno dei principali pittori di Siena. E venne spesso chiamato a stimare l'operato di
altri artisti.284 La reputazione di Jacopo viene testimoniata dal fatto che egli più volte partecipa
ad attività di governo di Siena. Nel 1362 è ufficiale del Sale per il terzo di Camollia. Jacopo si è
sposato due volte, nel 1344 e nel 1366 ed ha quattro figli: Giovanna, Filippo, Agnolina,
278 Cennino Cennini, che scrive nel 1399, dice che Taddeo è stato a bottega di Giotto per 24 anni.
279 L’apparizione dell’angelo ai pastori.
280 A. LABRIOLA, Gaddi Taddeo, in DBI vol. 51°.
283 Si suppone sia nato verso il 1315-19. Su di lui si veda anche il paragrafo specifico nel 1362.
284 «Nel 1373 giudicò il valore di un quadro eseguito da Luca di Tommè per il palazzo pubblico di Siena;
nel 1376 vagliò lavori per la cappella di piazza del Campo; e ancora, tra il 1388 e il 1389, valutò i progetti
di Mariano Romanelli per realizzare le testiere e i tabernacoli del coro nel duomo». S. MAGISTER, Jacopo di
Mino del Pellicciaio, in DBI, vol. 62°.
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209
Carlo Ciucciovino
Giacomo. La maggior parte delle sue opere sono andate perdute, due soltanto sono
documentate.285 Luciano Bellosi ha riconosciuto in lui il Maestro degli Ordini.
A Napoli, agli inizi del Trecento, Giovanni Pipino di Barletta erige la chiesa di San
Pietro a Maiella, dedicata a papa Celestino V, già eremita sulla Maiella. Nella prima cappella
del transetto di sinistra, verso il 1355, viene realizzato un ciclo di affreschi dedicati a Maria
Maddalena. Sono riconoscibili le mani di due pittori nell’esecuzione della decorazione, uno di
questi è di qualità alta ed è stato identificato con il primo Maestro della Bible Moralisée.
Ferdinando Bologna scrive che «il ciclo di San Pietro a Maiella trova le attinenze più
persuasive proprio nelle qualità pittoriche dell’affresco eucaristico di Santa Chiara, del
Crocifisso di Teano, degli affreschi della cappella Barrile a San Lorenzo». Bologna sottolinea
che gli affreschi della cappella Barrile «costituiscono l’antefatto diretto di ciò che si intravede
a San Pietro a Maiella».286 Gli affreschi sono molto rovinati a causa del deterioramento della
«estrema delicatezza del tessuto originario». Il primo maestro che esegue questi affreschi
potrebbe essere quello che indichiamo con il Maestro di Giovanni Barrile, da identificarsi
ipoteticamente con Antonio Speziario Cavarretto, che ha collaborato con Giotto a
Castelnuovo nel 1331-1332. Quel che è certo è che questi affreschi non appartengono a
Roberto d’Odorisio. Il ché implica che esistano «due filoni nazionali napoletani, derivanti
entrambi da Giotto: il primo, quello che prese le mosse nel 1330 dall’opera di Castelnuovo
[…] fino al San Ludovico d’Aix e agli affreschi Barrile, prolungandosi di qui negli affreschi di
San Pietro a Maiella; il secondo, leggermente più tardo ma più ricco, quello rappresentato dal
“Maestro delle tempere francescane” e da Roberto d’Ororisio».287 La distinzione tra le due
correnti diviene netta quando Roberto d’Odorisio viene influenzato dalla pittura
avignonese.288 Pierluigi Leone De Castris conferma l’ipotesi di Ferdinando Bologna
sull’identità del maestro che affresca la cappella della Maddalena che si vuole essere il
Maestro di Giovanni Barrile.289
Nella chiesa di Sant’Orsola a Vigo di Cadore un ignoto pittore veneto affresca una
Crocifissione che costituisce «il primo ed unico manifestarsi, tra le valli bellunesi, di una
tendenza “cortese” ed ornata, che non avrà seguito, ma si porrà comunque come costante
punto di riferimento».290
285 Oltre ai dipinti per l’Ospedale della Scala, sono andati perduti «i lavori nel duomo eseguiti nel 1366
insieme con Paolo di maestro Neri; la volta di una cappella accanto a quella di S. Ansano, ancora nel
duomo, affrescata nel biennio 1367-68 insieme con Bartolo di Fredi; la coperta di Biccherna eseguita nel
1369; la tavola commissionata il 12 apr. 1372 per l'altare maggiore della chiesa del monastero di
Passignano; e alcuni affreschi, del 1374, per il palazzo nuovo dei Priori a Montepulciano». S. MAGISTER,
Jacopo di Mino del Pellicciaio, in DBI, vol. 62°.
286 BOLOGNA, I Pittori alla corte angioina, p. 312.
288 BOLOGNA, I Pittori alla corte angioina, p. 312-313. Bologna sostiene che gli affreschi sono databili al
1348-50; la discussione sulla attribuzione al primo Maestro della Bible Moralisée è nelle pagine 314-317.
289 LEONE DE CASTRIS, Napoli angioina, p. 415. La carriera ipotetica di questo grande artista dovrebbe
essere la seguente: egli collabora con i Giotteschi di Castelnuovo all’inizio degli anni Trenta; dipinge il
Crocifisso di Teano, poi, probabilmente, tra il 1334-1336 segue i pittori giotteschi ad Assisi e collabora
agli affreschi delle vele della chiesa inferiore; sua dovrebbe essere la figura della Maddalena nella
predella che Giotto dipinge per i Pepoli. Torna a Napoli e, prima del 1347, affresca il ciclo nella cappella
Barrile in San Lorenzo; può darsi che abbia eseguito altre opere nella stessa chiesa precedentemente. Il
maestro dovrebbe aver soggiornato poi lungamente ad Avignone, dove dipinge la Presentazione al tempio
di Dresda. Poi, pittore affermato, affresca la cappella Pipino a San Pietro in Maiella. Ibidem, p. 414-416.
Leone De Castris conferma la data del Bologna per questo ciclo in 1348-50 ed assegna alla Bibbia di
Parigi l’anno 1350-52.
290 LUCCO, Pittura nelle province venete, p. 143.
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210
La cronaca del Trecento italiano
Lo scultore che, dopo la morte di Andrea Dandolo nel 1354, ha scolpito la sua tomba in
San Marco,«sembra aver veduto sculture senesi» e si è ispirato a modelli precedenti, come la
tomba del doge Gradenigo, morto nel 1343.291
§ 94. Letteratura
Antonio del Beccaio, il cortigiano di cui abbiamo parlato il giorno della sua nascita nel
1315, è narrato da Franco Sacchetti nel Trecentonovelle, nella novella 121^, lo descrive rovinato
dal vizio del gioco, che entra nella chiesa dei frati Minori a Ravenna, dove è sepolto
l’Alighieri e «avendo veduto un antico crocifisso quasi mezzo arso e affumicato, per la gran
quantità di luminaria che vi si ponea, e veggendo a quello ancora molte candele accese, subito
se ne va là e dato piglio a tutte le candele e moccoli che quivi ardevano, subito, andando
verso il sepolcro di Dante, a quello le puose dicendo: “Togli, ché tu ne se’ ben più degno di
lui”». Lo sbandato Antonio muore verso il 1370, egli è un rimatore di mediocre vena, ma
qualche volta godibilissimo, come per esempio nella canzone che maledice la sua nascita e
che inizia: «Le stelle universali e’ ciel rotanti…».292
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CRONACA DELL’ANNO 1356
4 PECCI, Gli Ordelaffi, p. 63. La fonte di questa storia è ANONIMO ROMANO, Cronica, p. 229-230
5 COBELLI, Cronache forlivesi, p. 111. Si veda anche SPADA, Gli Ordelaffi, p. 117.
Carlo Ciucciovino
non vale la pena delle spese in denaro e in vite che comporta. Diversa è la sua visione
riguardo alla Germania ed al suo regno. La corona di Germania è importante, essenzialmente
perché il re può disporre dell’assegnazione di feudi ai suoi nobili; sfortunatamente, sia il
Sacro Romano Impero che il regno di Germania sono sprovvisti di qualcosa che possa
assomigliare ad una costituzione. La Germania appare ora come un insieme di principi e di
città-stato praticamente indipendenti. L’autorità del re, formalmente riconosciuta, è sempre
più evanescente e ciò a motivo delle scarse risorse finanziarie di cui la corona può disporre.
Le entrate sono costituite per la massima parte dai tributi delle città imperiali, i quali sono
però esigibili con difficoltà e diventano inesigibili se i sudditi non desiderino collaborare.
Carlo ritiene che per poter governare deve appoggiarsi su una ristretta oligarchia, la quale
identifichi la propria esistenza con quella della corona. Questa oligarchia esiste: sono gli
elettori. Occorre però definirne il numero, le responsabilità e le funzioni. Il momento è
particolarmente favorevole, in quanto non vi sono reali oppositori alla politica del sovrano. Il
nemico Enrico di Magonza è morto ed il suo successore, Gerlach, non ha una grande
personalità. Boemondo di Saarbrücken è in ottimi rapporti con Carlo ed è facilmente
influenzabile; sia Guglielmo di Gennep, arcivescovo di Colonia, che Roberto, conte Palatino
del Reno sono ben disposti nei confronti di Carlo. Quali sono dunque i motivi di
preoccupazione? I figli del Bavaro e i candidati rivali al voto della Sassonia. Carlo si muove
abilmente e si assicura il sostegno della casata dei Sassonia-Württemberg e del suo capo
Rodolfo e questi inoltre rinuncia alle sue pretese sul Brandeburgo, conquistandosi la
gratitudine dei Wittelsbach.
Nella dieta, alla quale partecipa un gran numero di principi, Carlo enuncia le proprie
decisioni e ne ottiene il consenso. Discute le questioni minori e poi, il 13 gennaio, pubblica un
documento che, integrato con altre decisioni prese a Metz qualche mese dopo, viene
conosciuto con il nome di Bolla d’oro. Il documento stabilisce che l’elezione dell’imperatore
sia affidata a sette elettori, quattro dei quali laici e tre ecclesiastici. La scelta avverrà senza
alcuna interferenza da parte del pontefice e l’eletto verrà incoronato, senza considerazione
alcuna per la posizione della Chiesa in proposito. I quattro membri laici sono il re di Boemia,
il duca di Sassonia, il margravio del Brandeburgo e il conte Palatino del Reno. I membri laici
possono trasmettere il loro titolo ai loro primogeniti maschi. Gli ecclesiastici sono gli
arcivescovi di Colonia, Magonza e Treviri. Vi sono molte clausole sulle condizioni da
rispettare durante le elezioni per evitare violenze. L’elezione avverrà a Francoforte,
l’incoronazione ad Aquisgrana, Norimberga sarà il luogo della prima dieta del nuovo eletto.
Durante la vacanza, l’Impero verrà amministrato dal conte Palatino del Reno. Un attentato
contro uno degli elettori verrà considerato alto tradimento.
La bolla d’oro de facto svincola l’elezione dell’imperatore dall’influenza del papa. D’ora
in poi nessun imperatore, per diversi secoli, verrà più incoronato a Roma, l’Impero diventa
un regno germanico.6
6 WAUGH, Carlo IV, p. 406-412; HLAVÁČEK, The Empire, 1347-1410, p. 553-554; GREGOROVIUS, Roma nel
Medioevo, Lib. XII, cap. 1.1.
7 COGNASSO, Visconti, p. 228-229.
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La cronaca del Trecento italiano
Montelupo ad opera dei figli di Giacomo del Carretto. Il vero obiettivo del marchese è però
Asti.8 Una parte di questa città è estremamente irritata per il rientro dei Solaro, consentito
dall’arcivescovo Giovanni Visconti. Ora però il potente signore non è più tra i vivi e Galeazzo
Visconti appare meno temibile di suo zio, quindi i Castelli, potenti alleati del marchese di
Monferrato, lo esortano a cogliere l’occasione ed impadronirsi della città. L’arcivescovo
Giovanni Visconti ha avuto un figlio naturale, Leonardo Visconti, che, per anni, vivo il padre,
è vissuto in Novara. Per il cattivo comportamento del ragazzo, il grande arcivescovo ha
ritenuto di ripudiarlo e non ha neanche più tollerato che lo si nominasse alla sua presenza.
Leonardo, caduto in disgrazia, si è ritirato nel castello di Viazalla, nel Vercellese, luogo
d’origine della sua sposa Caterina. Costei è una donna molto prudente e figlia unica di
Martino da Viazalla, signore di Palestro, che l’ha promessa ad un ricchissimo ragazzo
vercellese di 10 anni, Francesco Ravisando. Ma, mentre si attende l’età della pubertà del
giovinetto, Martino muore, Caterina eredita patrimonio e libertà e sceglie di donarsi a
Leonardo Visconti, che la sposa. La vicinanza del luogo, il prestigio del cognome, ed il fascino
personale di cui è sicuramente dotato, come ci testimonia la storia di Caterina, lo fanno
divenire intimo del marchese Giovanni Paleologo. Questi utilizza Leonardo come tramite per
certi accordi con i ghibellini astigiani che, il 25 o il 27 gennaio, gli danno la città, ma non il
castello. Il marchese ha badato alla legalità della sua conquista scrivendo precedentemente a
Galeazzo e ricordando che Asti si è consegnata all’arcivescovo solo vita natural durante, ora,
essendo egli trapassato, la sottomissione non poteva essere trasferita ai suoi eredi. Galeazzo,
ben intendendo la musica, ha inviato i suoi soldati agli ordini di Manfredo di Saluzzo Cardè e
di Ugolino Isnardi.9 Porta San Pietro è la più lontana dalle altre fortezze che proteggono Asti.
La porta è «dotata di una torre eccelsa che la sovrasta e di due ponti levatoi, uno interno e
l’altro esterno». La porta e la fortezza guardano verso il Monferrato e la strada che se ne
diparte conduce a Montecalvo, terra del marchese. La mattina del 23 gennaio, un abitante del
borgo San Pietro, Rubeo Garretti, si introduce nella rocca insieme ad altri sei compagni: essi
sono protetti da lunghi mantelli che nascondono armi e mostrano di voler suonare strumenti
musicali. Rubeo è in ottimi rapporti con il castellano, che nulla sospetta e che lo invita a
pranzo, e, per farlo entrare, cala il ponte levatoio. Rubeo spinge nel fossato il castellano e un
suo compagno, lo ferisce gravemente mentre questi tenta di arrampicarsi. Entrati nella rocca, i
congiurati hanno presto ragione della guarnigione, alzano il ponte e rimangono padroni della
fortezza e segnalano il loro successo al marchese di Monferrato che si precipita ad
impadronirsi della rocca. Giovanni Paleologo usa questa posizione per scatenare il suo
attacco alla città e la conquista, armi in pugno, dopo aspri combattimenti con i soldati
viscontei, i quali cercano la salvezza rinchiudendosi nella cittadella. In questa, oltre al Saluzzo
di Cardè e Isnardi vi è anche il podestà di Asti, Opizzino Malaspina di Villafranca. Questi
esce dalla fortificazione e consegna Asti a Giovanni di Monferrato.
Dopo Asti, il marchese del Monferrato ottiene Alba e molte altre terre del Piemonte,
strappandole a Galeazzo Visconti. L’esercito di Galeazzo troppo tardi accorre per soccorrere il
castello di Asti, e si riduce nell’Alessandrino e nel Tortonese a guerreggiare contro il
Monferrato. Dopo alcuni mesi di resistenza, il castello d’Asti capitola. Nella resa vengono
catturati Manfredo di Saluzzo e Ugolino Isnardi. Giovanni Paleologo cavalca poi a Pavia,
della quale è vicario imperiale. Tornando in Piemonte, conduce con sé molti dei Beccaria, per
evitare che gli si stacchino, e lascia come governatore di Pavia un frate, Giacomo Bussolario,
dell’ordine di Sant’Agostino, ottimo predicatore, ma deceptore de homini. Per alcuni mesi fra’
Giacomo governa in nome del marchese del Monferrato, infine assume per sé il potere.
1356
215
Carlo Ciucciovino
«Costui non come frate regeva, anze come iniquissimo tiranno, facendo molte cose horrende e
crudele non debute (debite) a religioso».10
Crollata Asti, rovina tutto l’edificio della dominazione viscontea in Piemonte; solo Bra
rimane a Galeazzo. Il marchese di Saluzzo in febbraio si impadronisce di Cuneo. In Val di
Stura tornano gli Angioini di Provenza, ad opera di Gui Flotte il quale riunite le sue truppe di
Nizza e del contado si lancia nella valle dello Stura e conquista Vinadio ed Aisone che sono
scarsamente difesi e poi concentra il suo sforzo contro Demonte, chiave strategica della valle.
Il 20 di giugno i Viscontei gli si arrendono a patti. Pochi giorni più tardi, Fulcone d’Agoult ed
il principe di Taranto raggiungono Demonte e, di qui, conducono il loro esercito verso il
Piemonte.11
10 CORIO, Milano, I, p. 792 e 793; DE MUSSI, Piacenza, col. 500; RICALDONE, Annali del Monferrato, I, p. 337;
SANGIORGIO, Monferrato, p. 173 e 179-180; GRASSI, Storia di Asti, vol. II, p. 43, VERGANO, Storia di Asti, III,
p. 40-43; molti dettagli in AZARIO, Visconti, col. 344-346; e, nella traduzione in volgare, p. 82-85; POGGIALI,
Piacenza, VI, p. 313-314.
11 COGNASSO, Visconti, p. 229; MULETTI, Saluzzo, p. 373-376; la dazione di Cuneo non è plebiscitaria: la
popolazione è divisa a chi volersi dare, vi è chi vorrebbe consegnarsi a Giovanni di Monferrato, altri
sperano di sottomettersi al re di Napoli per avere la dominazione del conte di Ventimiglia, alcuni
vorrebbero il Savoia, vince su tutti Guglielmo Malopera, capo dei ghibellini, che uniti i suoi sostenitori,
fa dare Cuneo al Saluzzo. Una lunga serie di terre e castelli segue Cuneo. Si leggano anche RICALDONE,
Annali del Monferrato, I, p. 337; MONTI, La dominazione angioina, p. 231 e PIETRO GIOFFREDO, Storia delle Alpi
marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p. 286-288.
12 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 4. Si veda il testo dell’alleanza in DEGLI AZZI
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La cronaca del Trecento italiano
riconoscenza verso Giovanni d’Oleggio, lo mette in guardia, inventando che, negli ultimi
giorni, in città sono entrati troppi uomini venuti dalla montagna. Giovanni ringrazia, ma,
dopo una breve indagine, scopre che l’informazione è inesatta; allora riconvoca Francesco, lo
mette alle strette, minaccia la tortura e il poverino confessa tutto. Gli indica anche il nome del
sicario incaricato di assassinarlo, un uomo di Alessandria, che, catturato, sotto tortura,
incolpa altri congiurati, prima di essere trascinato e squartato. Tra l’8 ed il 9 di febbraio,
Giovanni fa catturare i congiurati; prima Bernardo e Galeotto da Panico, Arrigo Castracani,
detto lo Duca, Benino da Varignana, poi il podestà e dodici conestabili, infine anche il delatore
Francesco Rolandi. Il nuovo podestà nominato precipitosamente, il Padovano messer
Guglielmo da Camposampiero, si rifiuta di pronunciare sentenza di condanna contro i
congiurati e viene deposto. Il suo successore, Tassino Donati, ribelle di Firenze, entrato in
carica giovedì mattina, pronuncia invece la condanna il giorno stesso, l’11 febbraio, dopo
pranzo. Il 12 febbraio Sinibaldo di messer Arrigo Donati, protetto da 200 uomini, tutti armati
di corazze, comanda l’esecuzione per decapitazione di Arrigo Castracani, dei Panico, di
Guglielmo Aremondi e dell’incolpevole Francesco Rolandi. Il 20 febbraio vengono decapitati
diciassette tra conestabili e famigli dei traditori. È riuscito a fuggire Franceschino Ghisleri. I
figli di Galeotto da Panico vengono incarcerati nella torre degli Asinelli, ma, corrompendo i
guardiani, i giovani riescono a darsi alla fuga.15 Giovanni d’Oleggio rompe ogni rapporto con
i Visconti e riapre i negoziati per aderire alla lega antiviscontea.16
Il 19 marzo, sulla torre del Palazzo della Biada, dove risiede Giovanni d’Oleggio, viene
installato il primo orologio di Bologna.17
15 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 7; Chronicon Estense, col. 483; Rerum Bononiensis,
Cronaca A, p. 63-66; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 63-65; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 63-64; Rerum
Bononiensis, Cr.Bolog., p. 63-65; GRIFFONI, Memoriale, col. 171. SIGHINOLFI, La signoria di Giovanni da
Oleggio, p. 107 nota che dell’inizio della congiura sembrano essere stati autori i conti di Panico e il
podestà Guglielmo Aremondi e che Bernabò abbia dato la sua approvazione più tardi. Si veda anche
PALMIERI, La montagna bolognese, p. 193-194.
16 SIGHINOLFI, La signoria di Giovanni da Oleggio, p. 110.
17 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 67-68; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 67; Rerum Bononiensis, Cr. Vill.,
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Carlo Ciucciovino
Prospero. Senza scrupoli, i ribelli uccidono molti monaci ed espugnano la forte posizione.18
Appena può, Feltrino reagisce, attacca il monastero e riesce a riprenderlo dopo una
sanguinosa battaglia. Mille ribelli vengono catturati. Feltrino per non avere altre sorprese fa
spianare al suolo il luogo.19
18 Panciroli nella sua storia di Reggio ci informa che il monastero ha una torre alta 90 braccia; PANCIROLI,
Reggio, p. 352.
19 TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 35-36. Tiraboschi mette in rilievo che mancano le antiche cronache per
Reggio, quindi la storia della distruzione del monastero, e così pure la narrazione relativa
all’insurrezione dei nobili contro Feltrino, potrebbe essere oggetto di fantasia.
20 PELLINI, Perugia, I, p. 962 dice ottantenne.
24 Chronicon Estense, 483; ALIPRANDI, Cronaca di Mantova,p. 134; FRIZZI, Storia di Ferrara, vol. III, p. 327.
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La cronaca del Trecento italiano
§ 10. Il clima
La notte di martedì 16 febbraio, «alle ore 4 e mezzo», avviene un’eclisse totale di luna. Il
tempo si mantiene sereno fino a metà aprile. Di qui alla fine di maggio piove molto: L’estate è
secca e molto calda e si prolunga fino a metà ottobre, poi vi sono grandi diluvi fino a fine
anno. «E in questi tempi estivali e autunnali furono generati infezzioni, e in molte parti
malattie di febbri, e altri stemperamenti de’ corpi mortali humani, e singularmente malattie di
ventre e di pondi con lungo duramento». Dalla Calabria si diffonde un male strano, chiamato
male arrabbiato, con problemi celebrali, svenimenti, capogiri. Gli ammalati mordono come cani
e si percuotono e molti ne muoiono. Malgrado il freddo ad aprile, sia il raccolto di frumento
che la vendemmia sono eccezionalmente buoni.26
dell’Ardinghelli, p. 27.
29 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 17.
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«giovanetta di rara bellezza» e ricca ereditiera. C’è però un problema: Sancia è sua nipote, in
quanto figlia di sua sorella Angela, maritata con Jaimone Cantelmo. Jaimone rifiuta la mano
della ragazza a Giovanni, il quale la rapisce e la forza al matrimonio. Naturalmente, Jaimone
Cantelmo, uno dei principali baroni del regno, non tollera tale affronto personale ed alla sua
casata. Lo scandalo è notevole. Giannotto gode di particolari privilegi e non può essere
giudicato dalla Vicaria, quindi i reali incaricano Nicola Acciaiuoli, uomo delle cause
disperate, di occuparsi extra giudizialmente della vicenda. Mentre Cantelmo, spalleggiato dai
suoi si rivolge ai reali, Giannotto Stendardo ricorre alla curia pontificia per la dispensa al
matrimonio, necessaria perché tra consanguinei. La patata è bollente e nessuno la vuole
maneggiare, mentre, di rinvio in rinvio, la questione viene trattata dalle cancellerie, il
matrimonio tra Sancia e Giannotto dà i suoi frutti e nascono tre figli.32 Re Luigi, che non ha
proprio bisogno di inimicizie tra i suoi baroni, fa notare ( e la cosa è per noi stupefacente) che
lo stesso Jaimone non è arretrato di fronte ad una violenza consimile, infatti egli ha rapito
Angela Stendardo quando ella aveva solo tre anni e la ha trattenuta presso di sé fino a
quando la fanciulla non ha raggiunto la pubertà, per poi sposarla «a dispetto di tutti di casa
Stendardo». Quella che sembrava una storia di passione, l’amore di Giannotto per Sancia, ora
assume un taglio differente, diventando una storia di interessi e di vendetta. Ci vogliono
molte lettere del re e molte pressioni per far arrivare la vicenda alla conclusione che la natura
ha già postulato. Alla fine, Jaimone Cantelmo si rassegna al matrimonio di Sancia con
Giannotto, ma regola la successione dei beni in modo che i feudi paterni vadano a suo fratello
Restaino (evidentemente Jaimone non ha figli maschi), mentre quelli materni di Angela
Stendardo, che sono probabilmente la causa dei due ratti e violenze, a Sancia per Giannotto.33
32 Angiolella, Jaimone e Giacomo, che vengono poi legittimati per volere del sovrano, ancora però in
34 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 19; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XI, anno 1356, vol.
1°, p. 210-211.
35 SIGHINOLFI, La signoria di Giovanni da Oleggio, p. 112.
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Bernabò, una volta che la congiura del 5 febbraio è stata scoperta, sia per voler negare
con i fatti la credibilità della trama, sia per impegnare le truppe che, comunque, ha
approntate, cavalca verso Montecchio e mette l’assedio a Reggio, erigendo a Monte San
Prospero, 10 miglia a nord est della città, una forte bastia, nella quale colloca un presidio di
800 cavalieri. Di qui, in marzo, i Gonzaga, mal sopportando la minaccia della bastia contro di
loro, chiamano l’esercito della lega, lo pongono agli ordini di Ugolino Gonzaga, che assale e
conquista la bastia. Poi l’esercito della lega si sposta sul Parmigiano che, per oltre un mese,
tormenta e devasta.36 L’esercito bolognese si unisce alle truppe di Azzo da Correggio che si
reca a devastare il territorio presso il castello di Guardasone.37
36 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 8; ANGELI, Parma,p. 187-188 e BAZZANO, Mutinense; col.
624-625 e CORIO, Milano, I, p. 794-795.
37 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 68; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 68.
39 PECCI, Gli Ordelaffi, p. 65. Notizia desunta da uno storico faentino: Giulio Cesare Tonduzzi autore della
Historia di Faenza. Si narra che lo stesso Ordelaffi abbia fatto scorticare vivi 7 sacerdoti che rifiutavano di
celebrare per l’interdetto lanciato su Forlì. ANONIMO ROMANO, Cronica, p. 235-236. Sulla crociata si veda
anche CALANDRINI E FUSCONI, Forlì e i suoi vescovi, p. 877-884.
40 CALANDRINI E FUSCONI, Forlì e i suoi vescovi, p. 881. Chi fisicamente annuncia la crociata è il patriarca di
Ravenna, Fontanerio. La sottomissione dei signori di Romagna alla Chiesa è in COBELLI, Cronache
forlivesi, p. 114.
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Carlo Ciucciovino
spillarne. E «sommoveano [...] ogni femminella, ogni povero, che non havea danari, a dare
pannilini, e lani, e masserizie, grani e biade. Niuna cosa rifiutavano, ingannando la gente [...]
e così davano la Croce e spogliavano le ville e le castella». Un frate degli Eremitani, vescovo
di Narni, accumula un grande tesoro «del quale non potendo il cardinale havere diritto
conto», Egidio decide di imprigionarlo in suo castello delle Marche; le spese di sorveglianza
sono a carico del vescovo.41
Il cardinale Egidio Albornoz nomina Gonfaloniere di Santa Chiesa e capitano della sua
gente d’arme, il valoroso messer Galeotto Malatesta e, con 1.000 cavalieri e molti fanti, a
febbraio lo manda ad assediare Cesena. Galeotto cingerà strettamente la città fino all’arrivo
della Gran Compagnia.42 Con l’esercito del legato milita anche Roberto Alidosi, signore di
Imola.43 Mentre prepara la guerra, il cardinale non trascura le armi della diplomazia ed il 10
aprile informa tutti i signori ribelli di Romagna che, se tornano all’obbedienza della Chiesa, li
perdonerà e li confermerà nei loro possedimenti nel nome del papa. Il 13 aprile l’ambasciatore
del legato arriva a Forlì ad informare dell’opportunità l’Ordelaffi, il quale però «si rusicava
d’ira e de sticia» per la slealtà degli altri signori di Romagna. Francesco declina l’offerta.44
Il conte Ugolino di Montemarte, vicario di Egidio in Ancona, retribuito con 1.000 ducati
annui di stipendio, si dedica alla costruzione della fortezza di San Cataldo, cui lavorano
continuamente più di mille persone sotto la diretta supervisione dello stesso Ugolino.
Francesco di Montemarte, suo nipote, lo scrittore di una gustosissima Cronaca di Orvieto,
dice che: «In quest’anno fu la prima volta che io uscisse di casa, che il conte Ugolino mi fe’
gire in Ancona, et poi mi mandò ad Augubio alla scola». Il conte Ugolino parteciperà anche
agli assedi di Cesena, Forlì e Bertinoro.45
Gentile da Mogliano, ha messo su compagnia di ventura, con i fratelli Niccoluccio e
Ciccarello e con il figlio Ruggero. Una compagnia piccola, ma ardita. In marzo, con un colpo
di mano, riesce a conquistare Fermo ed addirittura il castello di Girifalco. Dopo aver
compiuto vendette, uccisioni e aver saccheggiato molte ricchezze, fugge. Occupa quindi il
castello di Montegranaro, che tiene per due mesi. Quindi assale, invano, Montolmo.46
41 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 14; Chronicon Ariminense,col. 904; Rerum Bononiensis,
Cronaca A, p. 66-67; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 66; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 67-68; Rerum
Bononiensis, Cr.Bolog., p. 65. Il febbraio la crociata contro l’Ordelaffi è stata predicata a Rimini da
Fontanerio Vassalli, vescovo di Ravenna, Storia di Ravenna, Fonti, p. 807-808.
42 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 20. Chronicon Ariminense,col. 904 afferma vividamente:
«Misser Galaotto de’ Malatesti … andò sopra Cesena guastando e consumando ogni cosa come di
patarini. E stette per spazio di tre mesi e poi andarono sopra Faenza. E stette due mesi e disertò e
consumò tutto quello di Faenza, sì che i cittadini de la terra non potevano durar più». TONINI, Rimini, I,
p. 391-392 ci informa che, oltre a Malatesta Antico e Galeotto, prendono la croce anche 600 cittadini di
Rimini, desumendo la notizia dalla cronaca di Rimini, si veda anche Storia di Ravenna, Fonti, p. 807-808.
43 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 68; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 69. Agli ordini di Galeotto vi sono
45 Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 455-456; Ephemerides Urbevetanae,
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La cronaca del Trecento italiano
arrestato e condannato ad una multa. In marzo, mentre il notaio inviato dal capitano del
Patrimonio sta passando in rassegna l’esercito cittadino, un altro dei capi ghibellini,
Mancinasa, cerca di eccitare il popolo alla rivolta contro il regime che ha soffocato le libertà
comunali; anche egli viene imprigionato e condannato a pagare trenta fiorini.47
51 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 10; CALISSE, I Prefetti di Vico, p. 127-128.
52 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 15; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 136-141 e M. L.
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Carlo Ciucciovino
§ 23. Orvieto
In una Orvieto sempre più povera e spopolata, e che risente delle spese della guerra in
Romagna, viene istituita la libera fiera del Corpus Domini o Pasqua Nova. È una fiera generale
di ogni genere di mercanzia; inizia quattro giorni prima della festività e prosegue per altri
quattro giorni dopo la sua fine. La fiera viene bandita con 15 giorni di anticipo per due
trombetti della città e si notifica con lettere in ogni città di Toscana, Marca, Patrimonio e
Ducato. Si ammette liberamente chiunque non sia stato condannato dal comune, ma chi
commetta delitti in questi giorni vedrà raddoppiata la pena.
Vengono concesse immunità per cinque anni ai forestieri che vengano a stabilirsi nella
città. Si vieta ai macellai di tenere capre vaganti nelle pubbliche vie entro la città.
1°, p. 211-212.
56 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 22.
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La cronaca del Trecento italiano
Le cronache non ci tramandano i dettagli degli avvenimenti per i quali Perugia viene di
fatto estromessa da Orvieto, e i rapporti tra le due città diventano tesi, subendo la povera
Orvieto crudelissime rappresaglie perugine.57
I ghibellini di Rieti si sollevano e scacciano i guelfi. Messer Aldobrandino, vice legato
del cardinal di Spagna, invia il conte Ugolino con cavalli e fanti, e questi fa riammettere in
città i guelfi scacciati.58
57 Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, nota 1 a p. 455, seguitante a p. 456.
58 Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti; p. 456.
59 DE MUSSI, Piacenza, col. 501; POGGIALI, Piacenza, VI, p. 315.
60 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 23. DE MUSSI, Piacenza, col. 501 informa che si dice che
62 COGNASSO; Visconti; p. 229. Divertente come DE MUSSI, Piacenza, col. 501 chiami Pandolfo “de’
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Carlo Ciucciovino
d’ogni» cosa, e così molto ben armati, prima dell’alba del 17 maggio65 assaltano la bastia sul
Ticino. Il cronista parla con ammirazione di come sia stato ben organizzato l’attacco e come
ognuno sappia perfettamente cosa fare. Colti di sorpresa, i Tedeschi della guarnigione non
abbozzano nemmeno un tentativo di resistenza, poiché «per loro natura, rinchiusi non sanno
combattere, né resistere come in aperto campo» (lasciamo a Matteo Villani la responsabilità
dell’affermazione). I Pavesi entrano nella bastia, spargono poco sangue, catturano la gran
parte dei Tedeschi, mentre pochi riescono a fuggire, peraltro non inseguiti. Infatti, il comando
è molto determinato: prendere tutte le bastie, una dopo l’altra. Imbaldanziti dal successo, i
soldati non hanno difficoltà a impadronirsi del ponte di legno ed assalire la seconda bastia. i
capitani di questa, sconvolti dalla subitanea caduta della prima, «non hebbono cuore di
mettersi alla difesa, ma alla fuga, chi meglio seppe fare: ma non sì che assai non ve ne
rimanessero morti e presi». Presa ed arsa la seconda fortezza, l’assalto si sposta alla terza, che
subisce analoga sorte. Poi 600 «de’ loro fanti a piè, forniti di seghe ed altri arnesi da svellere
palizzati e rompere catene», scendono su navi il Po fino a Piacenza, mentre i cavalieri li
seguono per terra. Assaltano la flotta viscontea, danno alle fiamme la maggior parte delle
navi e ne mettono in rotta i difensori. In un sol giorno la potenza di combattimento dei
Visconti e la loro credibilità guerresca è stata duramente scossa.66
65 COGNASSO; Visconti; p. 229, dice il 28 maggio, anche le cronache di Bologna parlato dell’uscita di
maggio, Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 69; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 70. DE MUSSI, Piacenza, col.
501 dice il 27 maggio.
66 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 35.
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La cronaca del Trecento italiano
spese. Ludovico isola poi Venezia, assicurando ai tiranni italiani che non abbiano timore, il re
d’Ungheria non vuole intervenire in Italia, egli vuole solo Zara.69 Tuttavia, se vuole Zara, non
ha altro modo che scendere in Italia e sconfiggere Venezia nel suo entroterra. Mantenendo la
pressione su Zara, Ludovico decide di dedicare le sue attenzioni a Treviso e, sulla via per
questa, Conegliano.70 In Dalmazia gli Ungheresi cingono d’assedio Zara, Trau, Sebenico,
Spalato e Nona.71
Gli Annali del Friuli narrano che il re si muove in giugno ed ha con sé circa 80.000
uomini; egli ha stabilito alleanza col patriarca d’Aquileia e con Mainardo conte di Gorizia. Il
17 giugno i Friulani gli offrono libero passaggio. Il 20 giugno il sovrano lascia Gorizia e, per la
Stradalta, arriva il 20 al castello di Sacile, dove viene ad incontrarlo il patriarca Nicolò. Il 26
giugno il re è a San Vito al Tagliamento e di qui si reca ad assediare Conegliano.72 Il
comandante delle truppe ungheresi è una nostra vecchia conoscenza: Comrà de Volfert de
Suavia, cioè Corrado Lupo.73
Roberto Cessi traccia un desolato panorama della situazione allo scoppio della guerra:
«Tutta la Schiavonia è in tumulto. […] Non era più il caso di parlare di pace, perché gli
eserciti magiari si ammassavano alle spalle dei possessi veneziani e quotidianamente li
assalivano a mano armata. A resistere alla violenza magiara l’opera della diplomazia era
impotente, e ogni giustificazione aveva il sapore di ironia. La crisi bellica, tante volte
scongiurata, s’approssimava irresistibile, e minacciava di avvolgere paurosamente il territorio
adriatico da ambo i lati, dalla terraferma veneta alla terraferma dalmata, prima che comunque
l’opera di restaurazione economica potesse essere avviata». Tutti i tentativi veneziani di
riformare le istituzioni per favorire l’ingresso di capitale straniero e rinvigorire l’economia,
sono naufragati: «le resistenze furono insuperabili. Il segreto interesse, che era dominato per
cinque anni e aveva alimentato l’errore della congiura, non era scomparso, anzi sopravviveva
tenacemente contro ogni tentativo di riforma».74
72 DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 138-139; senza dettagli PASCHINI, Friuli, I, p. 301.
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Carlo Ciucciovino
scavando una fossa ed alzando uno spalto. I Carraresi si infrangono contro queste
fortificazioni quando le prendono d’assalto e sono costretti a ritirarsi a Primolano. Ottenuta
l’alleanza di un potente signore locale, Biagio da Grigno, figlio di Antonio da Castelnuovo, i
Carraresi attaccano i castelli di Sicco e, particolarmente, Tasino che viene conquistato. Però,
intanto, Levico è costretto a capitolare. Ora re Ludovico d’Ungheria, divenuto amico di
Francesco da Carrara, si interpone e costringe Sicco a concludere la pace in ottobre.75
75 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 228-231; CITTADELLA, La dominazione carrarese in
77 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 39; UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 232-
233. Matteo Villani afferma invece che Nicola (o re Luigi) condanna i conestabili come traditori e li
imprigiona a discrezione del conte Lando.
78 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 70.
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La cronaca del Trecento italiano
maggio passano il ponte di Ronco e sono a ridosso di Forlì. Qui si trattengono, devastando
ogni cosa, fino al termine di maggio; poi l’esercito si separa, una parte con Malatesta Ungaro
va sul Savio, nel Cesenate, conquistando o combattendo i castelli, uno per uno: San Martino,
Maiano, Forlimpopoli, San Valeriano in Livia sul Ronco. L’altra parte rimane a tormentare e
minacciare Forlì.79
79 Chronicon Ariminense,col. 904; FILIPPINI, Albornoz, p. 115; COBELLI, Cronache forlivesi, p. 114 con molti
dettagli.
80 MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 91. Molti dettagli degli avvenimenti di questo anno possono essere
trovati ibidem alle p. 90-100, la fonte delle informazioni è il solito Michele da Piazza ed anche i Cartulari
diplomatici.
81 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. 122.
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Carlo Ciucciovino
ritornare subito a Catania. Sotto le mura della città, in località la gurna di Paternò, arrivano il
19 maggio Enrico Rosso e Ventimiglia, poi, vedendo le porte chiuse e il nemico disposto a
difesa, tornano alla Motta. Nei giorni seguenti, Enrico Rosso e la vicaria Eufemia, che lo ha
accompagnato in queste imprese, inviano messi a don Artale per trattare la pace, ma, in
realtà, per valutarne le intenzioni. Queste sono di continuare la guerra. Il 6 giugno Eufemia,
accompagnata da Francesco Ventimiglia, si dirige a Milazzo, presidiata da Nicolò Cesareo e
messer Giacomo de Aloysio per il re di Napoli. Lo sleale Nicolò apre le porte della fortezza ai
soldati del Ventimiglia che massacrano la guarnigione angioina. I soldati vittoriosi tornano a
Messina il 19 giugno. Francesco Ventimiglia viene eletto stratigoto e governatore di
Messina.87 La rivolta degli aristocratici messinesi contro Enrico Rosso si è saldata con le
ambizioni di Francesco Ventimiglia e Nicola Cesareo. Enrico Rosso è costretto alla difensiva,
ma rimane in Messina. Rientrano a Messina i fuorusciti. I magnati sono nuovamente al potere
in città.88
87 MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 100 scrive che non è chiaro se Francesco Ventimiglia sia stato
90 ANGELI, Parma,p. 187-188 non specifica la data, ma BAZZANO, Mutinense, col. 625-625, afferma che
l’assalto avviene il 6 o il 7 di febbraio; ho preferito la data giugno perché più consueta per le spedizioni
militari ed anche perché Bazzano mette questa notizia dopo quella del rifornimento, avvenuto a giugno,
ad opera di navi ferraresi.
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La cronaca del Trecento italiano
giorni. Poi sfoga la sua rabbia scendendo a valle e portando morte e devastazione tra i poveri
contadini.91
91 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 8 e 9; CORIO, Milano, I, p. 793; Rerum Bononiensis,
Cronaca A, p. 69; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 70-71; ANGELI; Parma; 187-188 e BAZZANO, Mutinense, col.
624-625. Si veda anche SIGHINOLFI, La signoria di Giovanni da Oleggio, p. 150 che mette l’impresa al 3
settembre.
92 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 45; la sottomissione di Ascoli è narrata in DE SANTIS,
Ascoli nel Trecento, II, p. 70-74 che riporta l’articolazione del trattato, e ROSA, Ascoli Piceno, p. 121.
93 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 46 e FILIPPINI, Albornoz, p. 123-124. BAZZANO,
Mutinense, col. 626 ci informa che il 15 giugno la Gran Compagnia transita per il territorio di Bologna e
Modena senza fare danni.
94 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 69; CAMERA, Elucubrazioni, p. 196.
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Carlo Ciucciovino
base ai patti di pace a suo tempo sottoscritti, e vive l’imposizione come un affronto personale.
Si appella all’imperatore, per verificare se sia vero ciò che i Pisani sostengono, e cioè che ciò
sia «sua fattura per volere ch’el porto e’l mare stesse guardato e sicuro». Carlo IV scrive a
Firenze e Pisa «che ciò non era fatto a suo volere, né di suo sentimento, e che la volontà era
che e’ Pisani mantenessero a’ Fiorentini le loro franchigia e buona e leale pace». Ma i Pisani
non si curano della risposta imperiale e «più pertinacemente tennero fermo quello c’haveano
cominciato».96 Pisa è troppo comodo porto per Firenze, a sola una giornata di viaggio, ed un
porto ormai totalmente organizzato per i traffici fiorentini: cambiarlo imporrebbe uno sforzo
organizzativo e finanziario non indifferente. Ma se si inizia a pagare un pedaggio, anche
modesto come questo, si è soggetti a rincari dell’imposta, a discrezione dei Pisani. D’altro
canto, muover guerra a Pisa, significa rinsaldare la popolazione intorno al nuovo regime, di
per sé «debole per li molti buoni cittadini cui eglino haveano abbattuti dello stato».
Lucidamente consci della situazione, dopo lungo dibattito, i Fiorentini decidono di piegare
momentaneamente il capo alla prepotenza, ma comandano, sotto carico di sanzioni penali,
che tutti i Fiorentini nel Pisano facciano quanto necessario per disinvestire e ritirarsi «per
modo ch’al termine dato, catuno si potesse partire da Pisa sanza suo danno. Viene istituito un
ufficio di dieci buoni cittadini, due Grandi ed otto popolari, con grande balìa, e chiamaronsi i
Dieci del Mare», che si prenda cura di quanto necessario sull’argomento.97
99 Così ne parla la cronaca Carrarese: capitanio del so exercito, homo molto experto et el qual per lo ditto re
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La cronaca del Trecento italiano
Giustiniano e Paolo Loredano, i quali aiutino il podestà Pietro Trevisano e il capitano Fantin
Morosini a dirigere la guerra. 102
L’arrivo del sovrano ungherese può divenire deflagrante nel panorama italiano,
compromesso dal recente passaggio di Carlo IV. Signorie e comuni scrutano le intenzioni
ungheresi, alla luce delle proprie insicurezze e dei propri interessi. I Visconti si recano da
Cangrande II, in un suo castello sul bellissimo lago di Garda, per riconfermare la loro
alleanza. Egualmente fanno i rappresentanti della lega antiviscontea, convenuti a Bologna.
Alla corte del re d’Ungheria accorrono poi ambasciatori da ogni dove, per sondare le
intenzioni del sovrano. Il re tranquillizza tutti, assicurando che è suo volere strappare a
Venezia le terre su cui vanta diritti e che non ha alcuna volontà di intromettersi nel vespaio
italiano. All’inizio di luglio Corrado Lupo ed il bano di Bosnia si recano a Padova a chiedere
rifornimenti di vettovaglie.103
«Colligrano (Conegliano) è un grande e forte castello in Trevigiana, presso a Trevigi
(Treviso) 16 miglia e in sul passo del Friuli». I Veneziani l’hanno ben fornito e presidiato, ma,
quando l’esercito ungherese si schiera ai suoi piedi, i difensori rimangono sgomenti di fronte
a quella sterminata moltitudine di soldati, oltre 40.000 combattenti, che coprono la terra per
molte miglia tutt’attorno. Impressionato dalle storie di estrema violenza perpetrata dal
nemico su chi voglia resistere, senza combattere, il comandante del castello, Zaccaria
Contarini, si arrende, e Ludovico d’Ungheria vi entra il 12 luglio, prendendone possesso a
nome dell’imperatore. Il re permette ai contadini di mietere il raccolto.104 Dopo essersi
impadronito di un altro castello, passato il Piave, il re mette campo intorno a Treviso con i
suoi 80.000 soldati, 40.000 dei quali Ungari e Schiavoni a cavallo. Questa sterminata massa di
armati assedia ed invade il Trevigiano, assecondando la decisione del sovrano che ha
determinato di impadronirsi di Treviso: «ma le cose alcune volte non succedono alla volontà
humana».105 Alcuni contingenti ungheresi, comandati dai conti di Cille, Phamberg e Valse,
vengono inviati ad assediare il castello di Asolo. Il rettore del luogo, Giovanni Foscarin,
capitola. I conti di Collalto, impauriti, si accostano al re d’Ungheria. Il patriarca d’Aquileia,
per ordine di Carlo IV, consegna Sacile ed Udine agli Ungheresi e rifornisce l’esercito
invasore. Gli Ungari compiono scorrerie nel Padovano, ma, saggiamente, Francesco da
Carrara viene a patti, impegnandosi a inviare rifornimenti all’esercito magiaro, e le incursioni
cessano.106 Venezia non accetta le giustificazioni di messer Francesco, e concepisce inimicizia
verso quegli che considera un traditore, tanto che richiama, prima della naturale scadenza del
mandato, messer Marino Morosin, il podestà veneziano di Padova. Ma la nuova posizione di
Francesco da Carrara gli conferisce la possibilità di inventarsi il ruolo di mediatore,
102 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 220-221; SEMENZI, Treviso, p. 76.
103 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 51; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 69; Rerum
Bononiensis, Cronaca B, p. 68; CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova, p. 239-240. Una scarna
notizia, come sempre, in MATTEO PALMERI, De Temporibus, col. 223.
104 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 52 e Domus Carrarensis, cap. 208, p.81-82; DI
MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 139; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 221-222. Quando
Conegliano è stato costretto a capitolare, dopo aver opposto resistenza, a tutti gli uomini è stata mozzata
la mano destra e, postala nella loro sinistra, sono stati rimandati alle loro case; SEMENZI, Treviso, p. 76.
105 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 53.
106 A tal proposito, GATARI, Cronaca Carrarese, p. 36, nota 4, narra che Nicolò Konth*, conte palatino ha
posto l’assedio a Castelfranco il 20 luglio del ‘56. Il suo esercito danneggia il paese, e, poiché manca lo
strame per i cavalli, gli Ungari vanno a rubarlo nel Padovano. I sudditi di Francesco da Carrara si
rivolgono al loro signore, reclamando protezione. Francesco, esaminata la situazione e scartata l’idea di
commettere suicidio, assalendo le truppe di re Ludovico, decide di fornire vettovaglie alle truppe del
conte Kunth. Per la qual vetuaria fu sempre da puo’ odio e mala volontà tra il comun di Venexia e miser
Francescho da Carrara, che mai più non furono amixi. *Il nome corretto dovrebbe essere Honch e non Konth,
che d’altronde assomiglia troppo all’italiano “conte”, come si desume dalla lettera di re Ludovico
riportata da Domus Carrarensis, cap. 209, p. 89-90. Scarne notizie in Vite dei patriarchi d’Aquileia, col. 56.
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Carlo Ciucciovino
d’altronde a lui congeniale, tra il sovrano ungherese e Venezia. A Padova convengono due
procuratori di San Marco e il cancelliere di Ludovico, l’arcivescovo di Patras, e il conte
palatino. Ma la morte in agosto del doge Giovanni Gradenigo, il Nasone, fa fallire le
trattative.
L’esercito ungherese ha una struttura feudale, i suoi nobili sono tenuti a mantenere un
contingente d’armati sempre pronto per servire il loro signore. I cavalieri sono in
maggioranza armati con armi leggere: arco, faretra ed una lunga spada. «Portano
generalmente farsetti di Cordovano, i quali continovano per loro vestimento, e com’è bene
unto, v’aggiungono di il nuovo e poi l’altro, e appresso l’altro, e per questo modo li fanno
forti e assai difendevoli. La testa di rado armano per non perdere la destrezza del reggere
l’arco, ov’è tutta la loro speranza». Il cavallo è il loro compagno più fedele, piccolo e veloce, si
accontenta di poco: «herba e fieno e strame con poca bieda». Per grandi trasferimenti usano
«selle lunghe a modo di bande, congiunte con asolieri (gangheri)». I cavalieri dormono sotto i
loro cavalli, o, quando è sereno, semplicemente sotto la volta celeste. «In Ungheria cresce
grande moltitudine di buoi e di vacche, i quali non lavorano la terra. E havendo larga pastura
crescono e ingrassano tosto i quali elli uccidono per havere il cuojo e’l grasso di che fanno
grande mercatanzia, e la carne fanno cuocere in gran caldaie. E come la è ben cotta e salata, la
fanno dividere dall’ossa e apresso la fanno seccare ne’ forni, o in altro modo, e secca, la fanno
polverizzare, e, recata in sottile polvere la serbano». Questo alimento liofilizzato viene sciolto
in acqua bollita e «la polvere ricresce e gonfia, e d’una menata, o di due, si fa pieno il vaso a
modo di farinata e dà sustanza grande da nutricare, e rende gli huomini forti con poco pane, e
per se medesimo sanza pane. E però non è meraviglia perché gran moltitudine stieno e
passino lungamente per li diserti sanza trovare foraggio, che i cavalli si nutricano coll’herba e
col fieno, e gli huomini con queste carni martoriate». Quando sono in Italia, ovviamente, i
loro costumi cambiano e i duri cavalieri si nutrono di pane fragrante, vino e carne fresca. La
loro tecnica militare rifugge dallo scontro in campo aperto, ma consiste invece in «correre e
fuggire e cacciare, saettando le loro saette, e di volgersi e ritornare alla battaglia. E molti sono
atti e destri a fare preda, e lunghe cavalcate. [...] Di fare guerra in corso e di tribolare i nemici
d’assalto sono maestri, e non si curano di morire, e però si mettono a ogni gran pericolo». Si
dispongono in gruppi di 10 o 15 e combattono in corsa. Non usano vessilli.107
Cangrande invia 500 barbute «di fiorita gente d’arme», ed i Visconti 500 balestrieri,
come rinforzo al re d’Ungheria. Questi sono considerati molto utili da Ludovico, mentre delle
barbute farebbe volentieri a meno, una vistosa goccia, nello sterminato mare della cavalleria a
disposizione del sovrano magiaro. Per prendere Treviso, re Ludovico fa diligentemente
apprestare tutto ciò che la tecnica ossidionale può offrire; ma le trincee non possono essere
scavate, perché le falde acquifere sono solo a due braccia di profondità e «l’acqua surge
abbondante e chiara e bella». Solo un lungo assedio può aver ragione di Treviso, infatti le sue
mura sono «forti e alte e molto ben provvedute, e armate, e i fossi larghi e pieni d’acqua
viva». Ma la moltitudine dell’esercito ungherese è la stessa causa della sua debolezza. Gli
Ungari bestiali e baldanzosi, non riescono a frenarsi e producono danni irreparabili a se stessi:
infatti il Carrara che invia giornalmente gran quantità di pane cotto e di vino, e che pretende,
quale unica contropartita, che il suo contado sia salvo e sicuro, cessa i rifornimenti quando gli
Ungari cavalcano nel Padovano, «uccidendo, ardendo, rubando e facendo preda, come sopra
nemici». Egualmente fanno i singoli commercianti che, per non essere derubati, interrompono
i rifornimenti. Per tali sconsiderate azioni lo sterminato esercito inizia a «sentire difetto e
sfortunata carestia delle cose da vivere», al di là della normale loro sopportazione.108
VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 55; Domus Carrarensis; cap. 208, da pag 81 ad 84;
108
VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 223-225 e 231-232; CORTUSIO, Historia,² p. 141-143;
CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova, p. 245-247.
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La cronaca del Trecento italiano
Federico Pigozzo scrive: «molto più di quanto fosse avvenuto negli anni precedenti, fu
l’invasione ungherese del 1356 a segnare uno spartiacque nella storia del primo dominio
veneziano sulla Terraferma. Proprio il colpo portato da Ludovico d’Angiò nel cuore dei
territori sottoposti a Venezia fece maturare una nuova consapevolezza sul ruolo essenziale
delle fortificazioni dell’area trevigiana. Per la prima volta, infatti, la Terraferma assumeva un
immediato valore strategico non tanto per i suoi castelli e le sue vie commerciali, quanto
piuttosto come “antemurale”della città lagunare in una partita in cui la vera posta in gioco era
il controllo dei percorsi che collegavano i mercati balcanici con i centri di produzione
dell’Adriatico. L’entroterra trevigiano veniva così a presentarsi come un’area pericolosamente
utilizzabile per colpire in modo diretto la città lagunare e annullare in un istante la sua
superiorità sui mari».109
§ 40. Piemonte
Il 7 maggio, Amedeo VI di Savoia intima formalmente al suo feudatario Giacomo di
Savoia Acaia di togliere il tributo sulle merci in transito dalla Francia. Giacomo, non solo fa
112 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 70; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 70-71.
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113 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 88-89; COGNASSO, Savoia, p. 156.
114 MULETTI, Saluzzo, p. 376.
115 MULETTI, Saluzzo, p. 376-377; RICALDONE, Annali del Monferrato, I, p. 337-338.
117 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 62. Colpisce non trovare traccia di tale congiura nelle
1356
236
La cronaca del Trecento italiano
poteri, si reca al campo di re Ludovico, dove viene accolta con tutti gli onori che il rango dei
suoi componenti impone. La proposta veneziana è ragionevole: Venezia è disposta a ritirarsi
da Zara, che dovrà esser governata a libero comune, non quindi sotto il dominio di Ludovico.
Altre terre della Schiavonia dovranno esser consegnare al re, ed altre rimanere in mano
veneziana, pagando però un censo annuale al sovrano magiaro. Re Ludovico, assolutista fino
al midollo, e temendo che la profferta dogale mascheri un piano tortuoso ai suoi danni, rifiuta
e pretende la incondizionata restituzione delle terre su cui accampa diritti.119 Ma male ha
fatto, perché l’indisciplina dei suoi cavalieri ungheresi arriva a creare conflitti anche
all’interno della vasta armata; infatti gli Ungari villaneggiano i cavalieri tedeschi che,
fedelmente e disciplinatamente, servono messer Corrado Lupo, ed addirittura arrivano a
derubare i magazzini delle provviste dell’esercito. Re Ludovico, non avendo più speranza di
poter risolvere il problema degli approvvigionamenti alimentari, assecondando la sua natura
avventata ed irruenta, fa togliere il campo, senza preavviso, ed il 23 agosto toglie l’assedio a
Treviso, passa il Piave con tutti i suoi e si raccoglie intorno a Conegliano, vi soggiorna tre
giorni e vi lascia un presidio di 2.000 cavalieri, sufficiente a tormentare il dominio di Venezia,
e, quindi, conduce il resto dell’esercito verso l’Ungheria.120 Suo nipote Carlo della Pace, il
futuro Carlo III, viene lasciato a dirigere l’assedio di Treviso.121
Un uomo complesso re Ludovico: «era uomo di gran cuore, pro’ e ardito di sua persona,
e nelle prosperità di grandi imprese molto animoso, rigido e fiero in quelle; e molto si faceva
tenere a’ suoi baroni, e volle havere presti i loro debiti servigi. E grande impigliatore
(intraprenditore) senza debita provedenza, e a sua gente in fatti d’arme, e più abbandonato e
baldanzoso che proveduto, per la soperchia fidanza c’havea in loro e ellino in lui. Però che
molto cortese era a tutti e di buona aria (gentile ed allegro). Assai volte ha mostrato assempli
di subiti e lievi movimenti nelle grandi cose. E l’avverse seppe meglio abbandonare
partendosi da esse, che stando con virtù resistere a quelle».122
Nel conflitto tra Venezia e il re di Ungheria brilla per la sua irrilevanza il patriarca di
Aquileia, infatti la Chiesa aquileiense è in subordine alla politica di Carlo IV e la «paralisi»
che tale subordinazione comporta consente a Francesco di Carrara di brillare nei suoi tentativi
di mediazione.123
Francesco da Carrara deve ora fare i conti con le proprie scelte strategiche: il suo –
necessario – avvicinamento al re d’Ungheria, gli ha provocato la freddezza e l’inimicizia
inevitabile di Venezia. Benjamin Kohl rileva che questa è l’ultima volta che Venezia chiama
Padova “status noster”.124 La Serenissima ha memoria lunga e grande pazienza: la sua
vendetta maturerà in decenni, ma, comunque, il Carrarese non è più visto come un alleato
leale. Francesco viene praticamente spinto nel campo avverso e stabilisce con Ludovico
d’Ungheria un’alleanza di lunga durata. Venezia dimostra la propria immediata inimicizia
vietando di portare il sale da Chioggia nelle terre del Carrarese.125 Venezia chiede ed ottiene
da Francesco da Carrara i beni che il giustiziato doge Marin Faliero possedeva a Prozzuolo di
125 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 227 e 237-238. Qualche utile riflessione su questo
argomento in MONTOBBIO, Splendore ed utopia nella Padova dei Carraresi, p. 77-81. Per le trattative tra
Venezia e Francesco da Carrara, si veda ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 196-198.
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Camponogara.126 Benjamin Kohl commenta: «Due decadi dopo che Venezia realizzò la
restaurazione di Marsilio da Carrara come signore di Padova, Francesco il Vecchio ha
rifiutato il modello veneziano di governo ed ha abbandonato la sua alleanza con Venezia. Ha
invece fissato le sue speranze nella distante autorità del Sacro Romano Imperatore a Praga e
nel promesso supporto del re d’Ungheria in Buda».127
126 MONTOBBIO, Splendore ed utopia nella Padova dei Carraresi, p. 76. Sulla saggia condotta di Venezia nei
confronti di Francesco da Carrara, si veda CAPPELLETTI, Padova, I, p. 281-282. Ben dettagliato in KOHL,
Padua under the Carrara, p. 99.
127 KOHL, Padua under the Carrara, p. 99.
128 MIRZIO, Cronaca, p. 378-382, egli lo dice: «ferus homo (…) natura quippe ferox, spiritus militares magis
quam religioni dedito praesetulit. Ideoque homo sanguinarius singularis crudelitatis erga omne evasit»;
JANNUCCELLI, Subiaco, p. 192-196 riporta anche la lapide posta sul ponte nel 1386 che però non menziona
la battaglia; ciò basta a VIOLA, Tivoli, II, p. 226-231 per negare del tutto che l’abate abbia vinto la battaglia
ed, anzi, la attribuisce ai Tiburtini. Si veda anche C. LEONARDI, Ademaro, in DBI, 1° e SILVESTRELLI,
Regione romana, I, p. 253 e 333, citando la Cronaca di Mirzio.
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133 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 72; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XI, anno 1356, vol.
137 HILLGARTH & HILLGARTH, Pere III of Catalonia Chronicle, vol. II, p. 492-509 o, se preferite, cap. VI, 1-7,
narra in completo dettaglio la cosa dal punto di vista del re di Aragona, riporta comunque i testi delle
lettere che i sovrani si sono scambiati, così che ognuno si può fare le proprie opinioni riguardo al torto
ed alla giustizia. Una notazione che ci fa comprendere i tempi di trasmissione delle notizie all’epoca: la
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La cronaca del Trecento italiano
L’insorgere di un'altra guerra tra principi cristiani non può non preoccupare il papa, il
quale in ottobre incarica Guillaume de la Jugie, cardinal diacono di Santa Maria in Cosmedin
di mediare una tregua e la pace tra Castiglia e Aragona. Il cardinale arriva alla corte di Pietro
IV d’Aragona il 9 febbraio 1357.138
prima lettera di Pietro di Castiglia è scritta ed inviata l’8 agosto, essa viene ricevuta a corte di
Perpignano il 4 settembre. La risposta scritta il giorno stesso arriva a Siviglia da re Pietro El Cruel l’11 di
ottobre. Pietro di Castiglia risponde il 18 di ottobre e la sua lettera arriva solo il 15 novembre alla corte
di Pietro IV a Calatayud; egli risponde il 6 di dicembre. Il fatto è sintetizzato in ESTOW, Pedro el Cruel, p.
183-184; O’CALLAGHAN, A History of medieval Spain, p. 421. Si veda anche AYALA; Coronica del rey don
Pedro, 1356, cap. IX e X, Ayala parla di galee piacentine che le hanno ottenute dai Genovesi. Ayala
racconta dal punto di vista castigliano.
138 HILLGARTH & HILLGARTH, Pere III of Catalonia Chronicle, vol. II, p. 511-512 o, se preferite, cap. VI,10.
140 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 61; MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 721-722;
BARBERINI, Scarlino, p. 168. Donato Velluti è stato inviato più volte a Pisa per cercare di far recedere i
Pisani dalla loro decisione. VELLUTI, Cronica, p. 218-221.
141 DANDOLO, Chronicon, col. 427; RENDINA, I dogi, p. 150; DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 140. In
verità CORTUSIO, Historia,² p. 142 ci dice che il re d’Ungheria gli ha permesso di uscire indisturbato.
Invece, ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 199 parla di una sortita in massa del doge dalle mura della
città. ZORZI, La repubblica del Leone, p. 190 scrive: «aprendosi a forza la via, a bandiere spiegate, alla testa
di cento cavalieri e duecento fanti».
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142 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VI, cap. 73; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p.
236-237; CORTUSIO, Historia,² p. 143 e Domus Carrarensis; cap. 208, p. 85; SEMENZI, Treviso, p. 77.
143 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 237.
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Francesco da Carrara invia al patriarca 50 uomini a cavallo, poi inizia una lunga
trattativa con le città ribelli, al termine della quale, dopo quasi un anno, esse si
sottomettono.148
148 Domus Carrarensis; cap. 200, p. 72; Domus Carrarensis, p. 72, cap. 198.
149 Cognasso, Il Conte Verde ed il Conte Rosso, pag. 86-91 e 109-110; RICALDONE, Annali del Monferrato, I, p.
338; DATTA, I Principi d’Acaia, I, p. 173-184 narra articolatamente la diatriba tra il conte di Savoia e
Giacomo d’Acaia. Si veda anche CIBRARIO, Savoia, III, p. 156-160. Notizie focalizzate sulle azioni dei
Provenzali in PIETRO GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p. 288-289.
150 SANGIORGIO, Monferrato, p. 180.
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servi della gleba con una durezza ed una mancanza di umanità intollerabili. I Giovannali si
riuniscono ed eleggono come loro capo un uomo di popolo, Sambunuccio d’Alando della
pieve di Bozio, «uomo molto bellicoso». Sotto la guida di Sambunuccio prima, e quindi di
Arrigo della Rocca, i Giovannali occupano castelli e villaggi e distruggono fortezze e luoghi
fortificati, risparmiano però Calvi e Bonifacio, che appartengono a Genova, Biguglia e Cinarca
e i porti di Nonza e San Colombano di Capocorso. Giovanna Petti Balbi ritiene non
improbabile che Genova abbia «soffiato sul fuoco e abbia cercato di trarre vantaggio dal
malcontento delle classi rurali e abbia addirittura fatto fuggire dal carcere Arrigo della Rocca
per farsene un prezioso alleato in Corsica». Sotto il nuovo dogato di Simon Boccanegra,
nell’ottobre del 1356, Genova invia nell’isola Gabriele Zurlo a curare gli interessi della città.151
151 PETTI BALBI, Genova e Corsica nel Trecento, p. 29-30; FILIPPINI, Storia di Corsica, lib. III, p. 194-197.
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Daniel Pasele, messer Richard Punchardoun, Neil Loring ed il giovane signore Edward
Dispenser, isolata dal grosso delle forze. i Francesi si pongono all’agguato e, quando il nemico
è passato, escono ad attaccarlo. Gli anglo-guasconi sentono il rumore, si voltano, e stanno
fermi ad aspettare la carica. Ma, quando i Francesi sono prossimi, si aprono e li lasciano
passare. Si raggruppano e, a loro volta, caricano. La battaglia s’infiamma. Le forze sono molto
bilanciate e si susseguono atti di valore individuale. Ma l’avanguardia inglese si avvicina e i
Francesi, per non rimanere intrappolati, sono costretti a darsi alla fuga. Metà dei loro
vengono catturati, l’altra parte si rifugia nel castello di Romorantin, mentre la città cade
facilmente nelle mani degli Inglesi. Un tentativo di ottenere per patti il castello abortisce. Il
principe di Galles scatena un durissimo attacco, che, data la sua presenza, induce gli Inglesi
ed i Guasconi a compiere prodigi di valore, ma invano. Sono i cannoni che, puntati contro le
mura, fanno crollare ed incendiare il tetto della torre, a ridurre la volontà di difesa e far
capitolare i valorosi Francesi. Il castello viene preso, incendiato e distrutto. Il re di Francia
apprende che l’esercito inglese e guascone è in marcia verso Bordeaux e decide di
intercettarlo. Ordina ai suoi di passare la Loira ed egli si muove da Chartres e va a Blois e ad
Amboise.
La guerra non piace alla Chiesa, che ha da tempo incaricato due cardinali di metter pace
tra Francia ed Inghilterra. I due cardinali incaricati della missione di pace sono il cardinale
Nicolau di Urgel, fiduciario del re di Francia, e il cardinale Talleyrand di Périgord, confidente
del principe di Galles. Al momento, sul luogo vi è il solo Talleyrand, che, preveggente, stima
che il contatto tra i due eserciti avverrà nei pressi di Poitiers e vi cavalca, per essere sul posto
quando la sua opera sarà necessaria.
Giovanni II di Francia punta poi decisamente a sud ed arriva a Loches. Il suo esercito ha
passato la Loira usando tutti i ponti disponibili: ad Orléans, Meung, Saumur, Blois, Tours. Re
Giovanni ha con sé quattro figli, ancora molto giovani, Carlo, duca di Normandia, Luigi, che
poi sarà duca d’Angiò, Jean, futuro duca di Berry, ed il piccolo Filippo, futuro duca di
Borgogna. Con il re è tutto il fior di Francia, 26 duchi e conti, e più di 140 bandiere. La
consistenza dell’esercito è di 20.000 uomini d’arme. Tutta l’armata si dirige verso Chauvigny,
ed il re vi giunge giovedì notte. Venerdì mattina, dopo colazione, il re passa il fiume Vienne a
Chauvigny, convinto che il nemico sia di fronte a lui. Altri cavalieri francesi scendono da
Chatellerault. I due rami convergono verso Poitiers. Tre grandi conti di Francia, Craon, Raoul
de Coucy e il conte di Jony rimangono però a Chauvigny, per alloggiare più comodamente.
Intanto, il principe di Galles non ha idea di dove si trovi l’esercito avversario, sa solo che non
può esser lontano. Gli esploratori inviati a cercarlo non riescono infatti ad intercettarlo. Il
sabato mattina Edoardo di Galles sta in un bosco poco ad ovest di Chauvigny, quando i tre
conti ritardatari stanno tranquillamente passando il ponte per raggiungere il re. Sessanta
cavalieri inglesi e guasconi, inviati in esplorazione, intercettano i conti, con 200 armature di
ferro. I Francesi indossano in fretta i bacinetti, abbassano le lance e caricano gli Inglesi, tra cui
sono Eustace de Abrechicourt e Jean de Ghistelles. Questi, constatando la loro inferiorità
numerica, fanno voltare i loro cavalli e fuggono verso il bosco, dove è il grosso dell’esercito
inglese, col principe in persona. I Francesi inseguono urlando e facendo un grande strepito. Il
principe Edoardo si stupisce grandemente nel vedere i suoi in fuga, con alle calcagna i 200
Francesi. Questi cavalieri si scontrano con la colonna del principe, la battaglia è dura e fiera
ed i conti si battono valorosamente, ma le loro forze sono troppo inferiori, e in breve lasso di
tempo sono tutti uccisi o catturati.152 Dai prigionieri il principe di Galles apprende che il re di
152Matteo Villani racconta la storia in modo lievemente differente, senza però che il senso ne risulti
stravolto, la narrazione di Froissart è più credibile perché ha in sé quell’elemento di casualità che
connota la realtà: Durante la notte sul sabato 18 il re di Francia decide di creare una testa di ponte,
sfruttando uno dei ponti sorvegliati dalle sue truppe. Ma il principe di Galles, prevedendo la mossa, si è
appostato con i migliori dei suoi in un boschetto vicino alla strada che proviene dal ponte. Il re di
Francia si muove con 2.000 cavalieri, invia in avanscoperta un gruppetto di 10 cavalieri esperti e ben
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Carlo Ciucciovino
Francia lo precede con un grandissimo esercito, e comprende che non potrà sgusciare via
senza combattere. Edoardo ordina che i suoi armati siano uniti e che nessuno, pena il capo,
cavalchi innanzi al suo stendardo. Al vespro del sabato, l’esercito arriva a due leghe da
Poitiers. Duecento cavalieri, comandati dal Captal de Buch, da Aymon de Pommiers, da
Bartholomew Burghesh e da Eustache de Abrechicourt, montati su splendidi corsieri,
vengono inviati in esplorazione e riescono finalmente ad avvistare il grosso della colonna
reale. Non resistono al proprio ardimento ed attaccano la coda dell’esercito reale, provocando
scompiglio e catturando alcuni cavalieri. Il re di Francia viene informato che l’esercito che
credeva innanzi a sé, invece lo tallona. Fa fermare la sua armata, la fa accampare col fronte
verso l’esercito inglese. Prima che tutti siano attendati è molto tardi nella notte di sabato su
domenica. Gli esploratori sono intanto tornati da Guglielmo e l’hanno informato che l’esercito
francese, lo sterminato esercito francese, lo sta aspettando. Il principe di Galles non può
venire avanti e non può ritirarsi perché stretto dai nemici. Ciò che lo terrorizza di più è la
possibilità che re Giovanni lo blocchi in questa posizione e lo assedi, impedendogli di
combattere. «E però la necessità gli accrescea in quel luogo l’ardire. Il coraggioso duca di
Gaules, vedendosi a questo stretto partito, non dimostrò a’ suoi segno d’alcuna paura, né
viltà, ma francamente provvide il suo campo, e mostrossi a tutta sua» gente, confortandoli e
ricordando loro che più volte sono stati capaci di battere i Francesi. Edoardo pone il suo
campo in luoghi sicuri, tra siepi, vigne e boschi, rinforza poi la guardia e spera che il duca di
Lancaster possa venire a trarlo d’impaccio. È il 17 settembre.
Il re di Francia, raggiunto dal resto del suo esercito, può ora contare su ben 14.000
cavalieri; il suo campo dista solo due leghe parigine da quello degli Inglesi ed è posto in modo
da bloccare completamente le vie di rifornimento agli Inglesi, nonché da intercettare il duca
di Lancaster, qualora, molto improbabilmente, perché lontano, possa arrivare. «Per la qual
cosa al re di Francia pareva havere la vittoria in mano».
Il campo di battaglia e lo spiegamento delle truppe. Gli Inglesi si sono disposti in direzione
nord-sud, protetti alle spalle da un bosco. Sono al colmo di un pendio e quindi dominano
bene l’eventuale aggressore. Verso meridione del luogo dove gli eserciti si scontreranno
scorre un fiume: il Miosson. Il principe Edoardo ha messo alla sua ala destra il conte di
Salisbury, il quale è protetto al fianco dagli arcieri che hanno scavato un fossato a loro
protezione, nessun aggiramento è possibile perché il folto bosco li protegge, come, d’altro
canto, protegge tutta l’armata inglese. Al centro assume il comando Edoardo, principe di
Galles, alla sua sinistra vi è il conte di Warwick. La cavalleria del Captal de Buch è messa in
riserva dietro le spalle del Principe Nero. Il fianco sinistro è protetto dagli arcieri inglesi che, a
loro volta, sono protetti dal terreno paludoso che impedisce efficaci cariche di cavalleria.
Edoardo non ha nessuna intenzione di attaccare e si è predisposto ad una battaglia difensiva.
I Francesi si sono attestati a Nord Ovest degli Inglesi. Anche alle loro spalle un bosco
impedisce aggiramenti. Il re ha disposto il suo esercito in tre schiere, una dopo l’altra. Quella
frontale è affidata al Delfino e duca di Normandia Carlo, la seconda al duca d’Orleans, la
terza è comandata da re Giovanni. Al fianco destro vi è la cavalleria del maresciallo
Audrehem e i balestrieri. Sul fianco sinistro vi sono i cavalieri scelti del maresciallo Clermont
e una divisione di cavalieri appiedati comandati dal duca di Atene, Gualtieri di Brienne.
montati per accertarsi che il passo sia sgombro. Costoro scoprono l’agguato e, a briglia sciolta, corrono
ad avvertire il re, che dà di volta e riporta le truppe verso Poitiers. Re Giovanni ha però dimenticato,
nella concitazione del momento, di informare del cambio di programma il conte dal Zur e Clugny
(Coucy), che hanno l’incarico di condurre le truppe di rincalzo. Questi fanno la strada nel bosco,
convinti che il sovrano li preceda. Incontrano degli Inglesi, che, mostrando di esser Francesi, e
parlandone la lingua, confermano che re Giovanni è passato di lì, spingendoli ancor più entro le linee
nemiche. I malcapitati sono colti pienamente di sorpresa: la resistenza è impossibile, i due conti sono
catturati insieme a 400 compagni e tradotti al campo inglese. VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII,
cap. 8.
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La cronaca del Trecento italiano
153 Vi partecipano suo fratello il duca d’Orleans, il duca di Borbone, Jacques di Borbone, il conte di
Ponthieu, il duca d’Atene, conestabile di Francia, il conte di Eu, il conte di Tancarville, quello di
Saarbruck, di Dammartin, di Mont Ventadour, Jean de Clermont, Arnoul de Audrehem, maniscalco di
Francia, il signore di Saint-Venant, Jean de Landas, Eustace de Ribemont, il signore di Vienne, Geoffroi
de Charny, Chatillon, Sully, Nielle, Robert de Duras ed altri. FROISSART, Chroniques, cap. Lib. I, parte II,
cap. 30.
154 Sono: Eustace de Ribemont, Jean de Landas, Guichard de Beaujeu e Guichard de Angle. FROISSART,
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Carlo Ciucciovino
state formate, il re dà ordine che si scenda da cavallo, meno i 300 feditori. I cavalieri e gli
scudieri eseguono, si tolgono gli speroni e scorciano le loro lance di 5 piedi, per potersene
meglio servire nel combattimento a piedi.
Quando tutto è pronto e l’armata sta per scatenare l’attacco, appare il cardinale di
Périgord, che, a briglia sciolta, cavalca alla volta del re. Scende da cavallo, si prosterna di
fronte alla sovrana maestà e lo scongiura di fermare l’attacco, concedendogli la possibilità di
cercar di mettere la pace. Giovanni lo concede, purché il cardinale sia sollecito. Più volte
Périgord fa la spola tra il Principe Nero e re Giovanni e sembra quasi che l’accordo sia a
portata di mano, tanto che viene sospeso il progettato attacco francese. Il re di Francia
concede al Périgord tutta la domenica per cercare di concludere il suo accordo; il giorno
festivo trascorre quindi in pace per i soldati, impegnati a verificare il buono stato delle loro
armi e a riempirsi la pancia. In realtà solo i Francesi possono mangiare a sazietà, ricchi come
sono di provviste, gli Inglesi, a corto di viveri, si debbono accontentare di ingurgitare il poco
che hanno e mostrare di non udire i brontolii dei loro stomaci. I più bellicosi dei cavalieri
inglesi e francesi cavalcano in vista dell’esercito avversario, per osservarlo e sfidarlo. Messer
John Chandos, costeggia un’ala dell’esercito francese, quando si imbatte in messer Jean
Clermont, Francese. Entrambi giovani ed innamorati rimangono di sasso quando si accorgono
di indossare entrambi i colori della stessa signora, indecisa o infedele: una dama azzurra con
un raggio di sole bordato nel braccio sinistro. L’onore non consente loro di rompere la tregua,
ma si ripromettono di incontrarsi in battaglia il giorno seguente.
Per tutta la domenica prosegue febbrile il tentativo del cardinale per cercare di
scongiurare «che tra questi due signori de’ maggiori della Christianità non si venisse a
mortale battaglia». Ciò che il principe di Galles sembra inclinato a concedere, fermo restando
il diritto di re Edoardo III di approvarlo, è la restituzione di quanto Inglesi e Guasconi hanno
conquistato nel corso degli ultimi tre anni, la liberazione di tutti i prigionieri ed il pagamento
di 500.000 fiorini per danni di guerra. In cambio, avrebbe in sposa la figlia del re di Francia e
per dote il ducato di Anghiem, «facendosene suo homo» (del re di Francia). Inoltre, al re di
Navarra deve esser restituito e lasciato il suo reame. Ma l’autorevole vescovo di Celona, in
consiglio, si batte contro la pace, che ritiene disonorevole e patteggiata solo per sgusciare
dalle mani francesi, per riprendere la guerra, dopo essersi uniti al Lancaster. La richiesta
francese è che il principe di Galles e cento dei suoi cavalieri si consegnino prigionieri al re di
Francia. La pace è impossibile. Il re delibera quindi «di strignere il duca a battaglia la mattina
seguente. Périgord, havendo singulare affezione al giovane duca, in cui havea trovata molta
liberalità», si reca da lui e gli comunica il fallimento della missione. Il principe di Galles lo
chiama a testimone della sua buona fede, lo congeda, raduna i suoi comandanti e li informa
che il mattino seguente recherà battaglia,« e con franche e signorili parole dicendo come
l’Iddio e la ragione era dalla loro parte». Li esorta a vedere come la loro unica speranza di
salvezza risieda nel «combattere francamente, e procurare colla virtù della indurata fortezza
delle nostre braccia abbattere la delicata e apparente pompa dei nostri avversari». La notte
passa nella preparazione dei piani di battaglia in ambedue gli schieramenti.
Lo schieramento del principe inglese è come descritto da Eustace, salvo che alcuni
giovani ed esperti cavalieri sono stati predisposti tra le colonne, per ribattere ai feditori del
maliscalco Arnoul de Audrehem. Sul lato destro si eleva un’altura, non molto alta, né
particolarmente scoscesa, e qui sono disposti trecento uomini a cavallo ed altrettanti arcieri a
cavallo, per attaccare l’ala del duca di Normandia che si è disposto ai piè dell’altura. Il
principe sta col grosso della cavalleria dietro il carriaggio, pronto ad accorrere dove serva.
Egli è a piedi, ma i cavalli sono vicini. Il lato più debole dello schieramento è stato fortificato
con carri e bagagli. Lo schieramento è stato portato a termine con il consiglio di sir John
Chandos e sir James Audley. Jean Froissart enumera, ammirato, i nobili cavalieri inglesi e
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La cronaca del Trecento italiano
guasconi che servono nel piccolo ma strenuo esercito.156 Il principe inglese ha riunito il fiore
della cavalleria, pochi, non più di 8.000 combattenti, ma buoni. L’esercito francese conta
50.000 combattenti, 3.000 dei quali cavalieri. Il principe di Galles fa radunare tutto il bottino
accumulato durante le scorrerie nel Berry e, per evitare che la cupidigia possa sviare qualcuno
dalla battaglia, divisolo in tre mucchi, lo fa bruciare. «E fatti i fuochi grandi tra loro e i nemici,
i fumi occuparono la pianura a modo d’una grossa nebbia, sì che i Francesi non poteano
scorgere quello che gl’Inghilesi si dovessono fare». Gli incendi inducono il maresciallo Arnoul
de Audrehem a formulare un’interpretazione sbagliata: si convince che il nemico abbia deciso
di togliere il campo e fuggire e stia bruciando ciò che non può trasportare. Decide quindi di
sferrare subito l’attacco, per inchiodare Inglesi e Guasconi sul posto ed obbligarli a
combattere. Ottenebrato dal suo stesso ardimento, non attende che la prima e la seconda
schiera siano in posizione e, urlando, conduce i suoi all’attacco. «Se ne vanno con matto
ardimento e avacciarono il loro assalto: e dilungandosi subitamente tanto dall’altre schiere
(fra l’altro, appiedate), che per lungo terreno non poteano esser veduti da loro».
La carica si infrange sulla schiera di Inglesi di fronte ai carri. Sir James Audley, il quale
ha giurato di essere il primo ad attaccare ed il miglior combattente, è di fronte alla colonna
inglese, accompagnato da quattro valorosi scudieri. Egli regge l’urto della schiera del
maliscalco e, dopo aver fatto meraviglie con la sua spada, si scontra con Arnoul in persona,
valente ed intrepido cavaliere, il loro combattimento è lungo ed alla fine Arnoul viene
gravemente ferito e catturato dai soldati inglesi. Intanto, i feditori cavalcano per il cammino
tra siepi di vegetazione e siepi d’arcieri, che li bersagliano incessantemente. Il terreno è
bagnato e paludoso e l’azione della cavalleria è incerta. Finché i cavalieri francesi
pesantemente armati fronteggiano il nemico, le frecce poco possono nuocere e non riescono a
penetrare le loro corazze o quelle dei loro cavalli, ma, quando i cavalieri debbono ripiegare,
offrono il fianco meno protetto e le frecce inglesi trovano la via della loro carne. I dardi
colpiscono le cavalcature, che si girano di lato, recalcitrano, s’inalberano, cadono, trascinando
con sé i valorosi cavalieri, che, a terra, sono praticamente immobilizzati e facile preda per i
fanti che escono dal riparo degli arcieri e li finiscono. In nessun momento la schiera del
maliscalco arriva a minacciare la colonna del principe di Galles. Alcuni cavalieri e scudieri
francesi, ben montati, si radunano e cercano, con un estremo atto di coraggio, di sfondare le
linee degli arcieri, ma l’attacco fallisce. Il principe di Galles coglie il vantaggio e manda 1.500
cavalieri della sua schiera a prendere i Francesi di lato e di dietro, rompendoli «e facendone
grande uccisione in poca hora». Il maresciallo Clermont attacca il conte di Salisbury, sull’ala
sinistra dello schieramento inglese, ma senza precipitazione e mantenendo il contatto con i
suoi uomini d’arme appiedati. Tuttavia, anche questi armati francesi vengono bersagliati e
colpiti dai lunghi archi inglesi, che sono ben protetti dai fossi e dal terreno rialzato. I pochi
cavalieri che riescono a penetrare impetuosamente in mezzo alle linee inglesi vengono isolati,
scavalcati e trucidati o catturati. Il principe invia il conte di Suffolk ad aiutare Salisbury.157
Jean de Clermont, maresciallo di Francia, dopo aver combattuto strenuamente sotto il suo
vessillo, viene abbattuto ed ucciso. «Poche volte si erano viste succedere tante calamità a
gente d’arme e buoni combattenti, come quelle che accaddero alla colonna dei maliscalchi di
Francia. Cadevano uno sopra l’altro senza poter avanzare». La colonna dei feditori è stata
156 I conti di Warwick, Suffolk, maliscalco dell’esercito, Salisbury, Oxford, i messeri John Chandos,
Reginald Cobham, Richard Stafford, Edward Dispenser, James Audley e suo fratello Peter, Berkeley,
Basset, William Fitzwarin, Wake, Mauny, Willoughby, Bartholomew Burghersh, Richard Pembroke,
Stephen de Cosington, Bradeson. Tra i Guasconi: i messeri de Albret, Pommiers, Helye, Aymon de
Pommiers, de Longueren, Jean de Grailly, il Captal di Buch, Jean de Charmont, de l’Epée, Montchident,
Curton, Ros, Condon, Montferrat, Landas, Latrau. Dall’Hainaut: i messeri Eustace de Abrechicourt, Jean
de Ghistelles, Daniel Passelle, Denis de Morbecque.
157 In questa fase della battaglia probabilmente cadono Gualtieri di Brienne e Clermont. I resoconti sono
contrastanti, essi potrebbero anche essere stati uccisi più tardi, come narrato nel testo.
1356
249
Carlo Ciucciovino
sterminata, i pochi che non giacciono cadaveri sul terreno, sono stati catturati. Eustace de
Abrechicourt, giovane cavaliere e desideroso di conquistare fama nelle armi, è stato tra i
primi Guasconi ad attaccare. Abbassata la lancia, imbracciato lo scudo, ha speronato il suo
destriero e si è lanciato contro le file dei Tedeschi che accompagnano i feditori. Un cavaliere
tedesco, Louis de Recombes, la cui insegna è un’arma d’argento con cinque rose vermiglie, lo
vede arrivare inalberando l’insegna di due barre vermiglie, esce dalla colonna del conte Jean
de Nassau, abbassa la lancia e lo carica. L’urto, a pieno galoppo, è terribile ed entrambi i
cavalieri crollano al suolo, il Tedesco, ferito alla spalla, tarda a rialzarsi e Eustace gli è sopra
con la lancia, ma cinque uomini d’arme tedeschi si frappongono, lo bloccano e catturano
portandolo nella schiera di Jean de Nassau. Nella concitazione della battaglia nessuno lo nota,
gli fanno giurare che è prigioniero e lo lasciano su un carro.
Il principe di Galles ha intanto ordinato alla riserva del Captal de Buch di sfilarsi verso
Nord e, effettuando un largo giro, sorprendere alle spalle l’armata inglese. Il Captal ha con sé
sessanta uomini d’arme e cento balestrieri, tutti a cavallo. I Francesi non capiscono cosa stia
accadendo, anzi vi è chi crede che la schiera stia fuggendo dal campo di battaglia. Il Captal
compie un largo giro, senza essere scorto, e sbuca alla vista dei Francesi su una collinetta che
ora viene detta La Masse des Anglais, la bandiera di San Giorgio segnala ad amici e nemici che
la collina è nelle mani degli Inglesi.158 Infatti, il principe di Galles, visti massacrati i feditori
avversari, distrutta la prima colonna e scorgendo che la seconda comincia a dar segno di
cedimento, rinfrancato dalla presenza del Captal de Buch, monta a cavallo ed ordina ai suoi
di fare lo stesso per attaccare il nemico, mentre questi è impegnato a cambiare fronte per
affrontare la minaccia del Captal de Buch. Edoardo trova accanto a sé il valoroso John
Chandos, ed insieme, arditamente, capeggiano le truppe. Al grido di «In nome di Dio e San
Giorgio!», la cavalleria pesante si mette in moto dietro l’oriflamma ed i vessilli, a passo lento,
poi sempre più veloce, caricando il nemico. Il principe di Galles, giunto vicino ad una piccola
macchia scorge Roberto Duras, morto, accanto allo stendardo del re di Francia. Ordina a due
dei suoi scudieri e tre arcieri di collocare il corpo su uno scudo e di portarlo a Poitiers, dal
cardinale Taillerand de Périgord.159
Nel frattempo, il duca d’Atene, conestabile di Francia, con i suoi Provenzali e Normanni
ha aggredito l’ala degli Inglesi. Gli arcieri inglesi, ad un segnale, escono dai loro ripari e
lanciano nugoli di saette, da due lati, sulla colonna che attacca, ferendo ed uccidendo uomini
e cavalli, e sbandando e demoralizzando gli incolumi. Il principe di Galles in persona piomba
ora con la sua cavalleria sulla disordinata colonna appiedata del duca d’Atene, «e dopo non
grande resistenza furono tutti morti o presi, innanzi che’l re [Giovanni] ne sapesse novella».
Grande è il tumulto e la lotta. Molti uomini sono al suolo. Alcuni cavalieri e scudieri francesi
combattono valorosamente, ma in disordine, gridando: «Montjoie! Saint Denis!» e gli Inglesi:
«San Giorgio! Guyenne!». La schiera del principe Edoardo si scontra con i Tedeschi del conte
di Saarbruck, di Jean de Nassau e del conte di Nidau. La resistenza tedesca dura poco, poi i
militi sono ricacciati in disordine. Chi fugge è bersagliato incessantemente dagli arcieri, molti
sono scannati sul posto, senza pietà; i tre conti sono catturati, insieme a molti dei loro. Eustace
Abrechincourt viene liberato, monta a cavallo e durante tutta la giornata si batterà con grande
valore, facendo molti prigionieri.
Gli ultimi della prima schiera retrocedono e si uniscono alla colonna del duca Carlo di
Normandia. Ma, alla notizia che i marescialli erano stati uccisi, e che la prima schiera è stata
sconfitta, si sgomentano, e sicuramente non li aiuta il fatto che un contingente inglese, con
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La cronaca del Trecento italiano
gran quantità di arcieri comincia a scendere per il declivio della montagna, costeggiando la
colonna francese e cominciando ad attaccare l’ala del duca di Normandia. Le frecce piovono
sui Francesi come nube spessa, incessantemente, e i malcapitati oggetto dei dardi non sanno
come ripararsi, né difendersi. Il duca d’Orleans, che ha con sé il Delfino ed altri due figli del
re, malgrado disponga ancora, se unito col re, di una schiacciante superiorità numerica, e le
truppe francesi siano fresche, «come vilissimi e codardi, havendo ancora due tanti, e più
cavalieri e baroni freschi, e ben montati, e essendo i nemici stanchi per le due battaglie; tanta
paura entro ne’ loro animi rimessi e vili, che, potendo ricoverare la battaglia, non v’hebbono
quore (!) di fedire a’ nemici, né vergogna d’abbandonare il re, ch’era appresso di loro in sul
campo, né l’altra baronia di Francia. E senza ritornare a dietro a far testa col re insieme, e
sanz’essere cacciati, si fuggirono dal campo e andaronsene verso Parigi».
Ma il re non fugge ed attende impavido l’assalto degli Inglesi, infatti Edoardo di Galles,
quasi incredulo nel vedere la seconda schiera fuggire senza combattere, ha raccolto tutti i suoi
in un’unica grande formazione e si avanza verso i vessilli reali. Re Giovanni di Francia, per
evitare fughe e per rinsaldare le schiere, ordina ai suoi di smontare da cavallo, ed anch’egli
lascia la cavalcatura e si avanza con un’ascia da guerra in mano, all’ombra dello stendardo
reale portato da Geoffroi de Charny. Il re, malgrado la fuga del fratello, «non invilì, ma
virtuosamente confortando i suoi baroni che gli erano di presso, si fece innanzi a’ nemici per
ricevergli alla battaglia coraggiosamente». Giovanni di Francia si scontra con la colonna dei
maliscalchi inglesi: il conte di Warwick e quello di Suffolk, e dei Guasconi, dove sono
Pommiers, Aimery de Tastes, Mussidan, Longueren e Latrau. Due dei protettori dei giovani
figli di Giovanni, Jean de Landas e Thibaut de Voudenay, cui ripugnava star lontani dal luogo
della battaglia, dopo aver affidato i loro protetti alle cure del signore di Saint-Venant, hanno
lasciato la colonna del fuggitivo duca d’Orleans e sono tornati sul campo e hanno raggiunto il
loro re. Una parte delle truppe francesi lotta intorno a Gualtieri di Brienne, duca d’Atene e
un’altra intorno al duca Jacques di Borbone, contornato da genti del suo paese e della
Piccardia. Nella schiera del re è anche Douglas, re di Scozia, che combatte vigorosamente, ma,
quando si accorge che la bilancia pende dalla parte inglese, non potendo rischiare di esser
catturato dai suoi mortali nemici, è costretto a fuggire. Il principe di Galles cavalca per il
campo di battaglia, scortato da John Chandos e da Peter Audley, fratello di James. John
stimola continuamente il principe, dicendogli: «”Cavalcate più avanti, sire. Dio è con voi. La
giornata è nostra”. Ed il principe sempre alla ricerca della perfezione dell’onore, cavalcava
avanti, col suo stendardo e accudiva ad aiutare la sua gente, là dove la vedeva aprirsi o
barcollare». Atti di eroismo e distinti fatti d’arme fanno rifulgere il valore di entrambi gli
schieramenti. Contrariamente a quanto avvenne a Crécy, dove si è in fondo combattuto poco,
a Poitiers la lotta è accanita ed ambedue gli schieramenti si battono benissimo, con
abnegazione e coraggio. Gli Inglesi più esperti d’arme, i Francesi galvanizzati dalla presenza
del loro sovrano sul campo di battaglia, «facevano forte e aspra resistenza, e mantennono
francamente lo stormo: abbattendo, tagliando e uccidendo di loro nemici». Ma poiché la
fortuna privilegia gli Inglesi, molti Francesi, «come poteano ricoverare a cavallo, si fuggivano,
sanz’essere perseguitati»; infatti gli Inglesi ed i Guasconi non si fanno distogliere dal loro
obiettivo: la cattura del re. «Sogliono occorrere in armi ed amori le fortune più felici e più
terribili che alcuno possa mai immaginare. In verità questa battaglia che si svolse in un luogo
molto prossimo a Poitiers, nella pianura di Beauvoir e di Maupertuis, fu molto grande e
molto pericolosa». Il re fa meraviglie con la sua ascia; la sua schiera è stata spinta in un’ansa
del fiume Miosson. Mentre la battaglia si apre e si fraziona in episodi individuali, si stringono
vicino a lui il conte di Tancarville, Jacques de Bourbon, il conte di Ponthieu, Jean d’Artois,
conte d’Eu, Carlo d’Artois e molti altri valenti cavalieri. Ma la vittoria sfugge dalle mani dei
Francesi, il coraggioso Geoffroi de Charny cade con l’oriflamma di Francia nelle mani, da
tutte le parti gli Inglesi e i Guasconi si aprono vie sanguinose nelle file francesi per
approssimarsi al re, «e’l re medesimo conoscendo già la vittoria in mano de’ suoi nemici, non
1356
251
Carlo Ciucciovino
volendo per viltà di fuga vituperare la Corona, fieramente s’addurò alla battaglia, facendo
grandi cose d’arme in sua persona». Ma sente che ormai la posizione è indifendibile e
comanda che suo figlio Filippo venga portato in salvo. Alcuni dignitari scortano il piccolo
verso la salvezza, ma il coraggioso fanciullo «hebbe tanta onta di lasciare il padre nella
battaglia, che ritornò da lui e non potendo adoperare l’arme, considerava i pericoli del padre
e spesso gridava: “Père, gardez-vous à droite, père, gardez-vous à gauche”, o d’altra parte, come
vedea gli assalitori. Essendo appresso del re messer Roberto di Durazzo, della casa reale di
Puglia, ch’avea adoperate sue virtù, come paladino, e lungamente con altri baroni difesa la
battaglia, e morti e magagnati (feriti) assai di quegli, ch’a loro si strigneano, infine abbattuti e
morti, attorno al re, il re fu intorniato da gl’Inghilesi e da’ Guasconi, e domandato fu che si
dovesse arrendere, ed egli vedendosi intorniato da’ suoi baroni morti e da’ suoi nimici vivi, e
fuori d’ogni speranza di potere più sostenere la battaglia, s’arrendè per sua voce a’
Guasconi,160 e lasciò l’arme sotto la loro guardia. E’l suo piccolo figliuolo di corpo, e grande
d’animo, non si volea arrendere; ma, pregato e ricevuto comandamento dal padre, che
s’arrendesse, così fece. E questo fu il fine della disavventurata battaglia per gli Franceschi e
d’alta gloria per gli Inghilesi». L’inseguimento dei Francesi in fuga arriva fin sotto le porte di
Poitiers, qui ha luogo una gran mattanza di genti d’arme e di cavalli, poi i cittadini di Poitiers
serrano le porte, per paura che il nemico possa penetrare in città, e gli sventurati chiusi fuori
sono massacrati. Ogni Inglese, arciere o fante o cavaliere ha cinque o sei prigionieri.
James Audley intanto, uno dei primi ad attaccare, si è portato splendidamente, aiutato
dai suoi quattro intrepidi scudieri, ma, verso la fine della battaglia, viene gravemente ferito
alla testa, nel corpo e al volto. Finché le forze gli durano combatte, poi, perso molto sangue, si
vede costretto a desistere. I suoi scudieri lo trasportano al riparo, fuori della mischia, vicino
ad una siepe, lo disarmano con la maggior cautela possibile, lo bendano e gli legano le ferite
più gravi.
Il principe di Galles intanto, «che era di gran valor ed audacia, col bacinetto in testa,
stava come leone infuriato e quel giorno aveva preso gran piacere nel combattere ed inseguire
i suoi nemici, a tal punto che, alla fine della battaglia, era molto accaldato». John Chandos,
che non l’ha mai abbandonato un attimo per tutta la giornata, molto saggiamente, gli
consiglia di fermarsi e rinfrescarsi. Il vessillo di Edoardo viene collocato in alto, perché serva
da punto di riferimento a tutti i combattenti, e perché si raggruppino colà. Viene elevato un
piccolo padiglione vermiglio e, finalmente, il principe nero vi entra e si rinfresca bevendo
qualcosa. Il numero degli Inglesi si accresce continuamente, man mano che rientrano
dall’inseguimento. Quando arrivano Warwick e Suffolk, Edoardo chiede loro se abbiano
notizia del re di Francia e li manda a cercarlo. Poi domanda notizie di James Audley, ed
apprende che è gravemente ferito. Ordina che gli sia recato, se trasportabile, altrimenti
andrebbe lui. James arriva in barella ed il principe Edoardo lo onora con affetto, e gli
garantisce una rendita vitalizia annua di 500 marchi d’argento. James, nobilmente, la cede ai
160«Vi era un cavaliere della nazione di Saint-Omer, che chiamavano Denis de Morbecque. Da cinque
anni serviva gli Inglesi, dopo che nella sua gioventù aveva commesso delitti nel regno di Francia per
guerre di amici, e un omicidio in Saint-Omer. Il re di Inghilterra lo proteggeva e lo teneva al soldo. A
questo cavaliere accadde di essere molto vicino al re quando stavano cercando di catturarlo. A forza di
braccia e corpo avanzò nel tumulto e quando era il più vicino al re, gli disse in buon francese: “Sire, sire,
consegnatevi”. Il re, che si vedeva a duro partito, e tanto incalzato dai suoi nemici che a nulla gli valeva
la sua difesa, domandò guardando il cavaliere: “A chi debbo consegnarmi? A chi? Dov’è il mio pari, il
principe di Galles? Se lo vedo gli parlerò” “Sire, rispose Denis de Morbeque, non è qui. Ma consegnatevi
a me e vi condurrò da lui”. “Chi sei?” domandò il re. “Sire, sono Denis de Morbecque, un cavaliere
dell’Artois. Servo il re d’Inghilterra perché non posso farlo nel regno di Francia, per un delitto che ho
commesso”. Secondo quanto mi hanno detto- dice Froissart - poi, il re di Francia rispose: “Mi consegno
a voi” e gli offrì il suo guanto destro. Il cavaliere lo ricevé con grande allegria. Allora vi fu un gran
tumulto intorno al re, dopo tutti dicevano: “Lo ho preso io, lo ho preso io”, e né il re né suo figlio Filippo
potevano avanzare». FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap.45-47.
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La cronaca del Trecento italiano
quattro scudieri che l’hanno accompagnato e difeso e soccorso in quella giornata. Intanto,
Warwick e Suffolk sono saliti in cima alla collina per scorgere tracce del re; notano un
assembramento di armati che, a piedi, procede molto lentamente. Nel gruppo v’è il re di
Francia e suo figlio Filippo; la situazione è pericolosa, il sovrano è circondato di cavalieri e
scudieri, tra cui Denis de Morbecque, che reclamano di averlo catturato loro; il re cerca di
calmarli dicendo che è tanto ricco da pagare il riscatto a tutti, e che quindi stiano calmi, ma è
conscio che sta rischiando più ora che sul campo di battaglia. I due conti si precipitano sul
gruppo in groppa ai loro corsieri, comprendono al volo la situazione e, con la forza dei loro
cavalli, disperdono lo sciame, ordinando loro di non farsi più vedere, se non convocati.
Quando la turba si è dispersa, Warwick e Suffolk scendono da cavallo e rendono onore al
sovrano di Francia, che tira un sospiro di sollievo per esser stato liberato da una situazione
così critica.
La battaglia, avvenuta il 19 di settembre 1356, nella pianura di Maupertuis, a due leghe
dalla città di Poitiers, è iniziata all’alba ed è terminata nel primo pomeriggio. Sono stati uccisi
più di 1.200 «cavalieri a speron d’oro, e banderesi, e cavalieri di scudo, e borghesi, tutta nobile
cavalleria: però che non v’erano quasi soldati; tutti erano famigli di grandi signori, e huomini
ch’erano venuti al servigio del loro re». I prigionieri sono più di 2.000. Froissart dice che i
morti sono 5.700 - 6.000.
Il principe di Galles, convinto che la sorte sia stata sin troppo benigna, non sfrutta la
vittoria fino in fondo: persuaso che il re in sua mano costituisca una forte posizione di
trattativa. Seppelliti i morti e fatto solenne ufficio, e rese grazie a Dio per la vittoria, ritorna a
Bordeaux. Ivi il re ed il coraggioso giovanetto Filippo, sono tenuti in onorata prigionia e lo
stesso principe di Galles rende loro omaggio, «spesse volte la sua persona il serviva alla
mensa». Per lettera, re Edoardo d’Inghilterra viene informato della splendida vittoria di suo
figlio e della sua insegna: «il savio re, contenente nella faccia e ne gli atti, sanza mostrare
vana alegrezza», raduna il consiglio, sottolinea che la vittoria va interpretata come «singulare
grazia di Dio», richiama tutti al self control, ed ordina per otto giorni consecutivi messe in
onore dei morti in battaglia. Oltre ad un Te Deum di ringraziamento, «non si udì, né si vide
alcuna festa in tutta l’isola». Questa reale «mansuetudine fu al re maggiore laude, che al
figliolo la non pensata vittoria».161
A Poitiers vi è un ufficiale che milita nelle file del duca d’Alençon, un uomo che
incontreremo nel seguito delle nostre cronache, un prete spretato dal 1355, Arnaud de
Cervoles, che verrà conosciuto con il soprannome di Arciprete.162
161 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII, cap. 1-21 ; FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 24-
47 ; NICOLLE e TURNER, Poitiers 1356. Eco della grande battaglia è in molte cronache : Rerum Bononiensis,
Cronaca A, p. 71 che afferma che «era una delle ma(i)ore sconficte che fusse mai in christianità»; Rerum
Bononiensis, Cr. Vill., p. 72; una scarna notizia, ma è il suo stile, in MATTEO PALMERI, De Temporibus, col.
223. ANONIMO ROMANO, Cronica, p. 236 per riportare scarna notizia della battaglia si esprime in latino.
ZURITA, Annales de Aragon, Lib. IX, cap. IV ne fa un breve cenno.
162 PALADILHE, Les papes d’Avignon, p. 204. FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 40, ci informa che
Bononiensis, Cronaca B, p. 67; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 72; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 70.
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Carlo Ciucciovino
Attorgo Marcovaldo (Markward di Randeck), vescovo d’Augusta, suo vicario in Pisa, «huomo
valoroso in arme e di grande autorità». Carlo, per ora, non vuole essere apertamente opposto
ai potenti Visconti ed ordina a Marcovaldo di palesare di aver ricevuto l’incarico direttamente
dall’imperatore, solo qualora il successo arrida all’impresa e le circostanze non diminuiscano
il prestigio dell’Impero. Marcovaldo parte da Pisa, e, dopo un breve soggiorno a Firenze, si
unisce all’armata.164 Contravvenendo alle istruzioni di Carlo, di fronte al suo esercito
Marcovaldo innalza le insegne imperiali e dichiara che la sua carica viene esercitata su
mandato di Carlo IV, imperatore. Quale vicario, istituisce un processo contro Bernabò e
Galeazzo Visconti, accusandoli di offesa contro la Santa Chiesa, di assassinio di prelati, di
aver tramato con messer Paffetta contro l’imperatore, di aver portato la guerra in Lombardia,
di aver serrate le porte delle proprie città di fronte all’imperatore, come se, invece di vicari,
fossero nemici dell’Impero. Convoca quindi i Visconti a discolparsi di fronte a lui, entro e
non oltre l’11 di ottobre. Se non verranno, Marcovaldo pronuncerà la sentenza in loro
contumacia. E non vi è dubbio che sarà di condanna.165 I Visconti rispondono con una lettera
arrogante: «Havendo per alcuni nostri fedeli notizia delle tue superbe e pazze lettere, colle
quali noi, come fanciulli, col tuo ventoso intronamento credi spaurire, noi, avvegna che d’età
giovani, molte cose havendo già vedute, al postutto il mormorio delle mosche non temiamo.
Tu immerito del preclarissimo nome del Santo Imperio ti fai Vicario, del quale noi fedeli
Vicari ci confessiamo. Contro dunque a te, non Vicario dello Imperio, ma capo de’ ladroni, e
guida di fuggitivi soldati, infra’l termine, che ci hai assegnato, acciocché non t’ affatichi,
venendo sopra il Milanese, Piagentino, o vero Parmigiano territorio; pe’ nostri percussori
idonei, acciocchè non ti vanti, ch’a tua volontà le nostre persone habbi mosse co’ tuoi guai
forse ti risponderemo. Noi adunque promettiamo a te, che con nefaria mano di ladroni a
depopolare e ardere i nostri pacefichi confini con pazzo capo se’ mosso, non come Vescovo,
ma come huomo di sangue; se la fortuna ministra della giustizia nelle nostre mani ti
conducerà, non altrimenti che come famoso ladrone e incendiario, ti puniremo».166
Il papa, impaurito dalla sconfitta subita a Poitiers dal re di Francia teme che Edoardo
d’Inghilterra possa spingersi fino ad Avignone e di essere costretto a lasciare la sua sede,
pertanto vuole avere la possibilità di entrare in Italia, se necessario, senza preoccuparsi della
potenza dei Visconti in Lombardia, quindi li perdonerà. Il legato Albornoz non ne sarà
felice.167
Oleggio, p. 154.
167 SIGHINOLFI, La signoria di Giovanni da Oleggio, p. 155-156.
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La cronaca del Trecento italiano
soddisfatte. Tutti questi governano nel nome del “semplice” re Ferdinando e della vicaria
Eufemia. Il gran siniscalco di Napoli, pur impegnato su altri fronti, non ha dimenticato il suo
sogno di conquista della Sicilia per i suoi reali e Messina è veramente a portata di mano della
flotta, sia pur piccola, e delle scarse forze del regno di Napoli. I Chiaromonte, basati a Lentini,
sono alleati degli Angiò e sono in segreta corrispondenza sia con Nicola Cesareo che con
Enrico Rosso. La mistura è esplosiva: manca solo l’innesco. La scintilla scoppia il 29 giugno,
quando Messina si ribella al grido di«Viva lu re di Sichilia, et mora Casa Russa!» e corre alle
case dei partigiani di Enrico Rosso, saccheggiandole. Lo stratigoto Francesco Ventimiglia
scampa fuggendo a Taormina; Damiano Salimpipi fugge verso i boschi di Catania,
Guglielmo, fratello di Enrico Rosso, si serra nella rocca di Savoca. I soldati dello stratigoto si
salvano chiudendosi nei potenti castelli di Messina: Matagrifone e San Salvatore, che sono
presidiati da truppe fedeli ad Enrico Rosso. Enrico Rosso in questo momento non è a Messina,
essendo nella Motta di Santa Anastasia. Egli rompe la tregua con i Catanesi e raggiunge
Francesco Ventimiglia a Taormina. Mettono insieme tutti i soldati che hanno, e contano 200
uomini montati a cavallo, poi puntano su Messina, i cui abitanti però escono e li mettono in
fuga. Ventimiglia si distacca da Enrico Rosso e, con Eufemia, si accorda con Artale d’Alagona.
I Messinesi chiamano in soccorso don Artale che viene in città. Vi rimane fino al 9 luglio.169
Don Nicola Cesareo, che è ora l’uomo forte in Messina, manda nunzi ai Chiaromontani
per concludere la pace. Il tentativo fallisce ed i Chiaromonte scelgono invece di legarsi con
Enrico Rosso, il quale se ne sta in disparte, vedendosi escluso dal controllo degli avvenimenti.
Don Artale, al ritorno a Catania, prende sotto la sua protezione le figlie di Matteo
Palizzi; ora la serpeggiante guerra civile vede da una parte Alagona e Ventimiglia che
sostengono re Federico e la vicaria Eufemia, contro Enrico Rosso e i Chiaromonte. Nicola
Cesareo e Messina rimangono alla finestra a seguire gli sviluppi. Don Artale assedia
vanamente Motta Santa Anastasia e il 13 agosto abbandona l’impresa.
Michele da Piazza riferisce un evento straordinario che è presagio di tempi difficili e che
colpisce la fantasia popolare: alla fine di luglio, una vacca è stata macellata, mentre viene
eviscerata, dal suo utero esce un vitello «efigem habens humanam» con un solo occhio sulla
fronte, «quod est terribilioribus signis terribilia sunt judicia subsequendo».170
Il giorno ultimo di agosto, don Artale va nella terra di Calatabiano con cavalieri.
Recupera la ribelle Castiglione, poi Francavilla e il 12 settembre torna a Catania.
Enrico Rosso e Manfredi Chiaromonte, con 200 cavalieri, entrano nella Motta Santa
Anastasia il 21 settembre. Vanno poi al guasto, ma vengono messi in fuga dall’intervento di
don Artale. Si rifugiano a Lentini.
Francesco Ventimiglia si reca da re Federico che lo accoglie. Mercoledì 28 settembre
Eufemia, vicaria del re, con don Artale va a Paternò. Dopo approfonditi negoziati, il 2 ottobre
don Artale e Francesco Ventimiglia entrano a Catania. Il 5 ottobre Francesco Ventimiglia invia
il suo germano Riccardo ad esortare Enrico Rosso a desistere dalla ribellione al re. Riccardo
viene intercettato e deportato a Lentini. Viene liberato con uno scambio di prigionieri l’8
ottobre. Don Orlando d’Aragona combatte e vince i ribelli che vorrebbero dare Siracusa
all’Angiò.
Don Giovanni d’Alagona (figlio di Blasco e fratello di don Artale) è stato a suo tempo
promesso a donna Isabella, figlia di Matteo Palizzi. Il 1° novembre arrivano a Catania Isabella
e sua sorella Venezia, moglie di Simone Chiaromonte. Isabella e Giovanni si sposano e
consumano la loro unione. Insieme poi vanno a Naso.
Nicola Cesareo governa Messina in nome di re Federico, ma i soldati di Enrico Rosso
custodiscono i castelli. Nicola Cesareo, ipocritamente, mostra che si è staccato da re Luigi
d’Angiò, andando a combattere e conquistare la rocca sopra Milazzo, in mano agli uomini di
Enrico Rosso. In realtà il fortissimo castello di Matagrifone sarebbe molto difficile da prendere
169 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. II, premessa; PISPISA, Messina nel Trecento, p. 225-226.
170 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cap. II, 1.
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Carlo Ciucciovino
e solo la collusione col presidio una volta a lui affidato, spiega perché Nicola lo possa avere.
Questa impresa sembra convincere tutti che qualcosa in Sicilia stia accadendo, che l’accordo
tra Catalani e Latini sia possibile, ma i Catalani, forse giustamente, non si fidano e fanno
fallire il negoziato. Nicola Cesareo chiama in Sicilia re Luigi di Napoli.171
Alla base della conquista dei castelli di Messina, vi è un accordo stipulato da Nicola con
Enrico Rosso per chiamare a Messina gli Angioini. Parte dell’accordo è che Simone
Chiaromonte dovrebbe sposare una germana di Enrico Rosso. Ora occorre solo rendere
esecutivo il piano: Nicola Cesareo giovedì 16 dicembre 1356, poco prima dell’ora di coricarsi,
«Vexilla regis siculi et Messane ad alta castri cacumina sunt erecta», issa il vessillo del re di Napoli
sulla cima del castello di Matagrifone e, al grido di: «Viva lu re Aluysi di Napuli, et cui altru
dichi, mora!» ribella la città. La circonda con le sue truppe e cattura l’ammiraglio regio
Corrado d’Auria. Un segnale luminoso sul castello indica a Nicola Acciaiuoli che è giunto il
momento di uscire da San Salvatore, dove si è nascosto, ed entrare in città. Il mattino
seguente il gran siniscalco entra ed ottiene le chiavi della città. Gli vengono consegnate Bianca
e Violante, sorelle del re. Egli le custodisce onorevolmente. Il 22 dicembre informa re Luigi
d’Angiò del successo. Da Reggio, re Luigi viene in incognito a Messina per rendersi conto
degli umori cittadini, poi il 24 vi entra con Giovanna. Nicola Cesareo riceve grandi onori dal
re, viene fatto conte di Montalbano e feudatario di Tripi e Naso. Francesco Palizzi riceve la
nomina a conte Palatino e cancelliere angioino dell’isola di Sicilia. Re Luigi d’Angiò, a
Messina, ordina cavalieri molti cittadini.172
Simone Chiaromonte, incurante del fatto che è già sposato e che è stato anche promesso
alla sorella di Enrico Rosso, va a Messina a chiedere la mano di Bianca, sorella di re
Ferdinando. Simone è sposato con Venezia, una figlia di Matteo Palizzi che è a Catania dal re.
Egli chiede a re Federico che gliela mandi per poter consumare il matrimonio. Il re esita e
sembrerebbe accettare. In realtà il piano di Simone è quello di uccidere la donna per essere
libero di convolare a nuove nozze. Fortunatamente per la donna, Simone muore di febbre a
metà marzo 1357. Manfredi Chiaromonte sbarca undici navi piene di frumento e lo porta a
Lentini. Don Artale il 24 aprile intercetta vicino a Siracusa legni angioini e traduce
l’equipaggio prigioniero a Lu Marranzanu.173
I sovrani di Napoli, ben coscienti che la loro presente popolarità in Sicilia deriva dal
fatto che hanno riempite le vuotissime pance dei Siciliani, affidano al mercante genovese
Tommaso de Markonis il monopolio dell’importazione di grano a Palermo fino a dicembre
1357.174
Chiaromonte, p. 42-43.
174 SARDINA, Palermo e i Chiaromonte, p. 38 e 41.
1356
256
La cronaca del Trecento italiano
§ 64. Terremoti
Tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre, forti scosse telluriche in Spagna causano
rovina e distruzione in Cordova e Siviglia. i crolli seppelliscono un gran numero di persone. Il
sisma produce danni e vittime anche in Germania. In Italia le scosse sono avvertite, ma sono
lievi.178
179 Domus Carrarensis; cap. 208, p. 85, ci dice che el conte Archemanno (...) quilli de Venesia havea tolto a soldo
con quattro mila cavalli in le contrà de Romagna. Artemanno è desunto dalla versione in latino, Artemannum
comitem cum quatuor millibus armatorum de Romandiola ad Venetorum stipendia conductum Tarvisii partes
attingere.
180 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII, cap. 28 e 29, VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°,
p. 238-242 e Domus Carrarensis; cap. 208, p. 85 e 86. Si veda anche PIGOZZO, Treviso e Venezia nel Trecento,
p. 24-29.
1356
257
Carlo Ciucciovino
reggere a popolo per poi, si intuisce, donarla a re Ludovico, magari ottenendone la signoria in
suo nome. Il conte riesce a garantirsi la connivenza del capitano degli Ungari e quella di molti
cittadini, alcuni dei quali in abito religioso. Il podestà scopre però la congiura troppo
ramificata e passa subito all’esecuzione della giustizia, impiccando i colpevoli e consegnando
al vescovo i religiosi trovati colpevoli. Molti vengono banditi e le case dei nobili di Collalto
vengono diroccate.181
Anche a Castelfranco viene scoperta analoga congiura, Il podestà di Treviso, per timore
di altri focolai di tradimento, fa disarmare tutti i cittadini, ma Venezia non lo consente e fa
restituire le armi.182
L’aggressione ungherese su Treviso «fa maturare una nuova consapevolezza sul ruolo
essenziale delle fortificazioni dell’area trevigiana. Per la prima volta, infatti, la Terraferma
assumeva [per Venezia] un immediato valore strategico, non tanto per i suoi castelli e le sue
vie commerciali, quanto piuttosto come “antemurale” della città lagunare in una partita in cui
la vera posta in gioco era il controllo dei percorsi che collegavano i mercati balcanici con i
centri di produzione dell’Adriatico. L’entroterra trevigiano veniva così a presentarsi come
un’area pericolosamente utilizzabile per colpire in modo diretto la città lagunare e annullare
in un istante la sua superiorità sui mari».183
184 DEGLI ALBERTI, Trento, p. 248; AMBROSI, Sommario di storia trentina, p. 72; Domus Carrarensis, p. 79-81.
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258
La cronaca del Trecento italiano
alla lettera dei Visconti, il suo tono è beffardo e di aperta sfida: «Rallegriamoci delle lettere
che mandate ci havete, le quali mostrano la superbia della quale vi gloriate. Della nostra
ingiuria intendiamo soprassedere; ma della bugia scritta nelle vostre lettere non ci possiamo
contenere. Scriveste dunque che co’ vostri percussori, innanzi ch’entrassimo nel vostro
territorio ci rispondereste, minacciandone di battaglia. E hora colla grazia di Dio e col suo
ajuto, nel quale solo è la nostra speranza; non occultamente a modo di predoni, ma palesi,
passati Parma, siamo in sul campo presso a cinque miglia a Piagenza, e col detto divino
ajutorio intendiamo procedere innanzi, e co’ vostri percussori non ci havete ovviati, in
vituperio della vostra vana superbia, e cetera. Data a Ponte Nuro (Pontenure, una località a
sud est di Piacenza) a dì X d’ottobre». Il vicario Markward saccheggia il paese e si spinge nel
Milanese a Rozzano, a sole 14 miglia a sud di Milano, nel piano. Circondato tutt’attorno a
poca distanza da grosse ville raccolte a modo di casali, ricche di bestiame e vettovaglie. Di qui
infuria per il territorio vessando una spaurita popolazione «che per lungo tempo non havea
sentito che guerra si fosse».186 Tuttavia, messer Marcovaldo non riesce, malgrado le molte
provocazioni, ad entrare in contatto con l’esercito milanese, e si riduce in una villa chiamata
Margotto sul Tesino (Magenta sul Ticino), terra ricca e provveduta di tutto ciò che serve a
sfamare un grande esercito, che, passato in rassegna, assomma a ben 3.500 cavalieri, «bene
armati e bene a cavallo, sanza l’altra cavalleria di saccomanno e 6.000 masnadieri». Il
comandante Marcovaldo ben sa che Borgognoni e Tedeschi non verranno contro la sua
insegna imperiale, e quindi permette che il marchese del Monferrato, Giovanni Paleologo,
ritiri dall’esercito 500 cavalieri per dare effetto ad un trattato che ha in Novara. In effetti, l’8
novembre, il marchese riesce a penetrare nella città ed assediare il castello, forte e ben
munito.187 Poi, il marchese ed Azzo da Correggio tentano analogo colpo di mano a Vercelli, «e
per questo messer Azzo trasse dall’hoste 700 barbute di buona gente», e l’11 di novembre
queste cercano di penetrare in città. Ma i Viscontei, appreso l’inganno di Novara, hanno
rafforzato la sorveglianza e l’impresa fallisce. Galeazzo e Bernabò Visconti intanto non sono
stati ad aspettare inerti le provocazioni della Lega: hanno messo insieme un esercito di 6.000
cavalieri e ne affidano il comando al vecchio e valoroso Lodrisio Visconti,188 che, il 12
novembre, improvvisamente, pone il campo a sole tre miglia da Magenta e chiede battaglia a
messer Marcovaldo. Questi, malgrado l’inferiorità numerica, accetta, lo scontro è fissato per il
mattino seguente, domenica 13 novembre; ma, durante la notte, Marcovaldo, seguendo il
consiglio del conte Lando e degli altri capitani, ordina che tutto l’esercito valichi il Ticino e,
protetto il fianco dal fiume, si rifugi a Pavia. Alcuni prigionieri però, che nel trambusto
riescono a fuggire, avvisano Lodrisio della manovra. Il comandante invia Vallerano degli
Antelminelli, figlio di Castruccio, con 300 cavalieri a rallentare il ripiegamento del nemico,
mentre egli appresta l’esercito a battaglia. Vallerano «fece coraggiosamente il suo servigio, e
innanzi dì assalì il campo hora dall’una parte, hora dall’altra», infastidendo molto l’azione
della Lega e impedendo il valico del fiume a molti. Finalmente, mentre il giorno schiarisce,
viene catturato insieme alla maggior parte dei suoi arditi cavalieri. Tuttavia, la sua missione è
sostanzialmente riuscita: solo una parte degli armati è riuscita a passare il Ticino, insieme a
186 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII, cap. 25, 26 e 27.
187 Pietro Azario racconta in gran dettaglio la conquista di Novara, il cui protagonista è Giovanni Savio,
un Novarese che, insieme ai suoi congiunti, ha fatto fortuna alla corte di Giovanni d’Oleggio ed è stato
dall’Oleggio mandato al comando delle truppe bolognesi ad aiutare il marchese di Monferrato nelle sue
imprese a danno dei Visconti. AZARIO, Visconti, col. 348-351, e, nella traduzione in volgare, p. 89-92. Si
veda anche MORBIO, Novara, p. 125-130.
188 Lodrisio, l’illustre sconfitto della battaglia di Parabiago, del 1339, è rimasto per 10 interminabili anni
prigioniero in una gabbia di ferro, nel castello di San Colombano, insieme a suo figlio Ambrogio. Dopo
la morte di Luchino Visconti, l’arcivescovo Giovanni Visconti lo ha fatto liberare. Cosa Lodrisio abbia
fatto dopo la liberazione non si sà, lo ritroviamo ora, di nuovo in possesso di un comando militare,
sicuramente determinato a morire, piuttosto che arrendersi. Si veda, per maggior dettagli: RENDINA, I
Capitani di Ventura, p. 63-69.
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Carlo Ciucciovino
carri ed armi, di qua del fiume rimangono il vicario messer Marcovaldo, il conte Lando,
messer Dondazio Malvicini, capo delle truppe estensi, messer Ramondino Lupo, capo delle
gonzaghesche e quasi tutti i conestabili, con 1.500 barbute. Ed ora giunge Lodrisio Visconti
con il suo fortissimo esercito ordinato a battaglia, che li assale in prossimità di Casorate
Primo. La battaglia infuria nelle vie del borgo e sulle rive del Ticino. «I cavalieri del vicario,
ch’erano huomini di gran virtù in fatti d’arme, vedendosi alo stretto partito, tutti
s’annodarono insieme e feciono testa, e ricevettono l’assalto de’ nemici francamente, non
lasciandosi di serrare, facendo d’arme gran cose contro al soperchio c’havean a dosso: e
combattendo continuamente per spazio di tre hore, sostennero l’assalto d’ogni parte,
danneggiando molto i nimici loro. Infine la fatica e’l soperchio della moltitudine de’ loro
avversari li ruppe. Allora molti che temettero più la paura che la vergogna, si misono alla
fuga e camporono. In sul campo ne rimasero presi 600 e più». Tra questi il vicario, Raimondo
Lupo, il conte Lando, che venuto in mano dei Tedeschi viene nascosto e fatto fuggire,
Dondazio Malvicini, la cui fuga favoriscono altri due cavalieri. Dondazio va a Firenze e poi in
Lombardia. Tutti coloro che sono riusciti a valicare il Ticino riparano indenni entro Pavia.
Anche il comandante delle truppe Monferrine, Malcalzato, viene catturato. Vallerano ed i
suoi vengono liberati.189
Luchino Visconti ha lasciato la sua vedova, Isabella del Fiesco ed un figlio, che cresce «in
aspetto di essere valoroso, e in amore de’ cittadini». La madre teme che Bernabò e Galeazzo
diventino troppo gelosi di questa popolarità e nol faciessono morire come Matteo. Si accorda
allora con alcuni conestabili dei cavalieri che sono incaricati di sorvegliarli, e, al giorno
stabilito, «montati in su’ buoni cavalli, e con parte del loro tesoro», fuggono da Milano e
cavalcano verso Pavia. L’inseguimento, immediatamente organizzato dai Visconti, a nulla
vale, poiché escono da Pavia dei cavalieri a ricevere e scortare i nobili fuggitivi entro le salde
mura della città.190
189 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII, cap. 35, 36 e 37, CORIO, Milano, I, p. 794 e COGNASSO,
Visconti, p. 230-231. Solo un cenno in Chronicon Estense, col. 483 e Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 72;
Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 73. DE MUSSI, Piacenza, col. 502 e POGGIALI, Piacenza, VI, p. 317-318 ci
elencano i comandanti dell’esercito antivisconteo: vi è il conte Lando con i suoi mercenari, Azzo da
Correggio che comanda i Bolognesi di Giovanni d’Oleggio, Dondazio Malvicini de Fontana, Piacentino,
al comando dei soldati del marchese Aldobrandino d’Este, Raimondino Lupo, alla testa dei militi dei
Gonzaga. La consistenza dell’armata è di circa 3.000 cavalleggeri. A loro si uniscono i soldati del
marchese del Monferrato. Molto dettagliato è il racconto di AZARIO, Visconti, col. 353-354, e, nella
traduzione in volgare, p. 96-97, in particolare ci fornisce qualche dettaglio sulla tattica militare: i fanti si
sono schierati nelle vigne, dove la cavalleria non può operare efficacemente e, così disposti hanno ucciso
molti cavalli nemici. Pietro Azario ha visto con i suoi occhi gli scheletri di 500 cavalli di ambo le parti,
uccisi in un campo ristretto. GIULINI, Milano, lib. LXVIII fa giustamente rilevare che Azario ha
erroneamente posto la battaglia nell’anno 1357. Informazione della battaglia arriva a Pisa: RANIERI
SARDO, Cronaca di Pisa, p. 142.
190 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII, cap. 43.
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La cronaca del Trecento italiano
Giovanni d’Oleggio si allea con Genova ai danni dei Visconti.191 Savona rifiuta di schierarsi
con Genova e di scrollarsi di dosso la signoria viscontea.192
Simone Boccanegra, quando Genova si è sottomessa ai Visconti, da Pisa si è trasferito a
Milano, offrendo la sua esperienza e prestigio per aiutare i Visconti a dominare la difficile
città. Tuttavia, Simone è visto con sospetto dai signori del biscione, i quali sanno ben pesare
l’ambizione quando la osservano. Può darsi che l’ex doge abbia lasciato Pisa dopo la sconfitta
dei Gambacorti e che al periodo della rivolta e della sua sedazione possa risalire la sua
amicizia con il vicario imperiale Giovanni II di Monferrato. Ora che Genova si è ribellata ai
Visconti, grazie alla benigna intercessione di Giovannolo Mondella, tesoriere dell’arcivescovo
Giovanni, ed amico di Simone, egli viene inviato a Genova a tentare di recuperarla al dominio
visconteo. Simone, invece, agisce per il proprio interesse e si fa nominare doge. Il povero
Mondella verrà accusato di dabbenaggine se non di tradimento e pagherà con i suoi beni.193
Bartolomeo Boccanegra, fratello di Simone, assume il comando dell’esercito insieme con
Luchinetto Visconti, genero del doge.194 Simone, informando Pisa dell’avvenuto, chiede ed
ottiene 200 galee e 100 barbute agli ordini di messer Nicolò Gualandi.195
191 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII, cap. 40; BAZZANO, Mutinense, col. 626; Rerum Bononiensis,
Cronaca A, p. 72; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 73; DE MUSSI, Piacenza, col. 502-503; AZARIO, Visconti, col.
346; e, nella traduzione in volgare, p. 85. ACCINELLI, Genova, p. 84 attribuisce completamente la
responsabilità della ribellione al cattivo comportamento del luogotenente del Visconti. SCOVAZZI e
NOBERASCO, Savona, p. 112-113 afferma che non sia improbabile che la ribellione sia stata fomentata dal
marchese di Monferrato.
192 SCOVAZZI e NOBERASCO, Savona, p. 113-114; TORTEROLI, Savona, p. 202.
193 PETTI BALBI, Simon Boccanegra, p. 37-41 per le varie fasi della conquista del potere del Boccanegra,
sicuramente con la forza. AZARIO, Visconti, col. 346 e, nella traduzione in volgare, p. 85; si veda anche
RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa.
194 STELLA, Annales Genuenses, p. 155-156 e nota 1 a p. 156.
197 Sono Porta Valeriana in Livia, dove fa anche demolire il ponte che passa la Livia, Porta Ravegnana,
detta Porta Santa Chiara, Porta San Biagio. COBELLI, Cronache forlivesi, p. 115. Rimangono quattro porte
aperte.
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Carlo Ciucciovino
Bononiensis, Cronaca A, p. 69; Rerum Bononiensis; Cr. Vill., p. 70; STELLA, Annales Genuenses, p. 154-155 ;
Giorgio Stella narra che i Genovesi hanno colto l’occasione di una non meglio specificata richiesta dei
Visconti, forse riguardante aiuti finanziari – ipotizza Giovanna Petti Balbi – per ribellarsi e prendere le
armi; Chronicon Ariminense,col. 904 e FILIPPINI, Albornoz, p. 132. PETTI BALBI, Simon Boccanegra, p. 40
sottolinea che la versione di Villani secondo il quale Simone muove da Pisa sembra discordante con le
altre fonti. Anche in Annales Forolivienses,p. 67 che stabilisce che la guerra dura dall’inizio di maggio alla
fine di settembre. Notizia anche in MOLLATT, Les papes d’Avignon, p. 225.
201 L’investitura viene fatta il 10 dicembre 1356, FILIPPINI, Albornoz, p. 132; BONOLI, Storia di Forlì, I, p. 412-
413.
202 FILIPPINI, Albornoz, p. 121; Chronicon Ariminense,col. 904.
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La cronaca del Trecento italiano
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Carlo Ciucciovino
Ludovico conserva tutti i castelli che ha conquistato e, se vuole, li può anche fortificare. Le
armi tacciano sia nel Veneto che in Dalmazia. Tutti quelli che hanno partecipato alla guerra
debbono trovare la propria composizione. I nomi citati sono per la parte ungherese: il
patriarca di Aquileia, i conti di Gorizia, Biaquino da Porzia, Belluno e Feltre, Guecellone da
Camino, i conti da Collalto, il vescovo di Ceneda, i signori di Onigo e Francesco della Parte.
Verci rileva che non viene nominato Francesco da Carrara, quindi egli non appare schierato
con il re d’Ungheria.210 I soldati ungheresi trasportano in Ungheria i resti mortali di Geltrude,
già loro regina, la quale, in viaggio per Roma per sciogliere un voto, si era ammalata ed era
morta in Mogliano.211 La tregua, spirata, non porterà pace, ma guerra.
210 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 244-245; CORTUSIO, Historia,² p. 143; ROMANIN, Storia
di Venezia, III, p. 199-201; una breve sintesi in MANTESE. KOHL, Padua under the Carrara, p. 104 sottolinea
che sono testimoni all’atto gli uomini più potenti di Padova: il suocero di Francesco, Pataro Buzzacarini,
lo zio Zanino da Peraga, Giacomo Rossi di Parma e Manno Donati di Firenze, il podestà uscente Marino
Morosini e quello entrante il Reggiano Giovanni Manfredi, i vicari del signore Bartolomeo Piacentini e
Giacomo da Santa Croce. Inoltre Federico Manthelor e Enrico Valcherich. MANTESE, Chiesa Vicentina, III,
p. 87-89.
211 SEMENZI, Treviso, p. 77.
213 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII, cap. 38; sul virile comportamento di Cia, si veda Rerum
Bononiensis, Cronaca A, p. 67; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 67; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 66-68.
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marinai genovesi, sono 8 galee e 4 altri legni carichi di rifornimenti. Si veda TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p.
178.
217 TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 177 informa che re Federico, con lettere dell’8 ed 11 novembre, annuncia
a Francesco di Ventimiglia la perdita del castello di Matagrifone. Sulla capitolazione del castello di
Matagrifone, si veda MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 107-108.
218 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII, cap. 39; TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 174-179; UGURGIERI
DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 235. Vivacemente narrato da BUCCIO DI RANALLO, Cronaca Aquilana,
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Carlo Ciucciovino
I cittadini di Messina inviano undici cittadini, dei maggiori della città, come
ambasciatori a re Luigi ed a Giovanna che sono a Reggio Calabria. Gli undici dignitari,
pomposamente vestiti di scarlatto foderato di vaio, recano con sé le due figliole del defunto
don Pedro, che, accolte onorevolmente diventeranno damigelle della regina Giovanna. Il 24
dicembre la regale comitiva si imbarca per Messina, dove sbarca il giorno stesso, e viene
ricevuta con grandi festeggiamenti. Luigi e Giovanna alloggiano nel Palazzo Reale. Per la
prima volta dal regno di Carlo I, gli Angiò passano la solenne festività di Natale in terra
siciliana.219 Nicola Cesareo viene dal re fatto conte di Montalbano, molti Messinesi vengono
ordinati cavalieri.220
Bianca, la maggiore delle sorelle del re di Sicilia, è, in caso di morte di Federico, l’erede
al trono, è dunque un ottimo partito e il deciso Simone di Chiaromonte immediatamente
chiede la sua mano alla regina Giovanna. La bella regina di Napoli non è però sciocca: questo
matrimonio, in caso di morte naturale o procurata del malaticcio Federico, potrebbe rivelarsi
esiziale, trasformando un potente alleato in un pretendente all’indipendenza del trono di
Sicilia, pertanto Giovanna rifiuta, proponendo a Simone di impalmare la duchessa di
Durazzo. Simone declina l’offerta e inizia a coltivare nella sua anima astio per gli Angioini,
fortunatamente per questi egli è molto prossimo alla morte.221
Il 10 gennaio 1357 i reali di Napoli spediscono una lettera alla città di Orvieto, con la
quale informano la città guelfa di aver ottenuto il dominio di Messina.222
§ 78. Arte
Nel 1356 muore a Siena Lippo Memmi. Sono ormai nove anni che egli è rientrato da
Avignone e dell’ultimo periodo della sua vita non sono state identificate opere certe.
Matteo Giovannetti, dopo aver realizzato le pitture nella sala della Grande Udienza
ad Avignone, opera probabilmente in Villeneuve-lès-Avignon, nel palazzo di Ardoin Aubert,
vescovo di Maguelone; nonché nella cappella della livrea cardinalizia di Etienne Aubert, il
quale, una volta salito al soglio pontificio con il nome di Innocenzo VI, deciderà di inglobare
il vecchio ambiente in una nuova certosa, fondata con bolla del 2 giugno 1356.223 A
Villeneuve-lès-Avignon, accanto alle Storie di S. Giovanni e ad alcuni pannelli con diaconi,
papi e santi in piedi, il pittore realizza anche un riquadro con Innocenzo VI che in ginocchio
rende omaggio alla Vergine col Bambino. Queste sono le ultime opere di Matteo che ci siano
pervenute. Egli continuerà a dipingere fino al 1370, ma più nessuna sua opera ci è arrivata.224
Millard Meiss, in un suo famoso saggio, documentato e approfondito ed altrettanto
aspramente criticato,225 suggerisce che la Morte Nera ha prodotto un trauma nella visione del
mondo di tutti e degli artisti in particolare. Essi avrebbero vissuto una crisi sociale, morale e
culturale che ha lasciato su di loro dei segni importanti, quali pessimismo e spirito di rinuncia
alla vita, che, in ultima analisi, si sarebbero tradotti in una involuzione della qualità della
produzione artistica. Già nel Saggio introduttivo all’edizione italiana dell’opera, Bruno Toscano
ha messo in luce alcuni errori nei quali lo studioso americano è incorso, per il progresso degli
p. 247-248; CAMERA, Elucubrazioni, p. 206-207. Come racconta MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 110, re
Luigi arriva a Messina in incognito a fiutare l’aria che tira e ne torna soddisfatto. Consultare anche
SARDINA, Palermo e i Chiaromonte, p. 40-41.
219 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII, cap. 44. Non è chiaro quando Nicola Acciaiuoli sia
arrivato a Messina, Leonard propende per il 17-20 novembre, con abbastanza tempo per organizzare sia
il colpo di mano che l’arrivo dei reali angioini. Si veda TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 182.
220 BOLANI, Reggio Calabria, p. 195.
221 MOORE, Joanna of Sicily, p. 30; MIGNOT, Histoire de Jeanne Premiere, p. 101.
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studi critici della storia dell’arte,226 ed ha dato conto delle reazioni della critica, non solo
italiana, alle tesi dello studioso. Millard Meiss ha sicuramente approfondito l’argomento,
discutendolo con dottrina e competenza, ed ha messo in evidenza molti buoni argomenti a
sostegno di ciò che pensa, ha probabilmente peccato però di un eccesso di “assolutismo”,
attribuendo ad una sola causa quello che è un esito comunque riferito ad una sola parte degli
artisti del terzo quarto del Trecento.
Critico nei confronti delle tesi di Meiss è Carlo Volpe, il quale, riassumendo la teoria
dello studioso, afferma che «Meiss per questa strada è sicuramente andato molto avanti, fino
a oltrepassare il giusto segno».227 Egli inoltre sottolinea che le tesi dell’Americano non
spiegherebbero la grandezza di «eccellenti pittori e su tutti costoro Giottino che fu tra i più
nobili e ispirati che Firenze abbia mai avuto».228 Egli ammette comunque che qualche cosa
giusta riguardo lo scadimento di una parte della produzione qualitativa degli artisti Meiss
abbia intuito, ma che «è del resto assai probabile che [dopo la Morte Nera] il livello culturale
dei committenti fiorentini si sia sensibilmente abbassato per la conseguenza dei disastrosi
effetti demografici della moria del 1348, o che l’orientamento mentale di taluni di loro si sia
modificato».229
Angelo Tartuferi rileva che, se consideriamo l’opera di alcuni grandi artisti, come
Giottino, ed anche meno grandi come Giovanni del Biondo e Cenni di Francesco, sembra
«difficile parlare di scadimento qualitativo, di segni di crisi».230 Inoltre afferma «nel corso
delle discussioni e dei preziosi scambi d’idee intercorsi all’interno del Comitato scientifico231 e
con gli studiosi invitati a collaborare nei diversi settori di competenza, è affiorata sovente la
sensazione che la possibile e anzi, tutto sommato, probabile decadenza, rispetto al primo
quarto di secolo, sia da intendere precipuamente in senso quantitativo e non qualitativo,
oppure, per mantenersi sul medesimo tenore delle pagine di Carlo Volpe, non dal punto di
vista dei valori poetici».232
Tuttavia, anche Frederick Antal, afferma qualcosa di simile a Meiss, pur non
oltrepassando «il giusto segno». Egli scrive che «i fallimenti dei Bardi e Peruzzi e, più tardi, la
peste del 1348 provocarono un ristagno in tutta la vita economica della città [egli parla di
Firenze] e con esso un diffuso impoverimento, minando così il potere dell’alta borghesia
[Magnati e popolo grasso] costretta ora ad una lotta continua con le classi più basse in ascesa.
[…] L’alta borghesia era ora costretta a continue concessioni tanto ideologiche che artistiche.
[…] Sul piano stilistico questo significava, da un lato che dopo Giotto la pittura non era più in
grado di continuarne la severa concezione razionalistica e il rigore compositivo, né di
mantenerne le conquiste in fatto di chiarezza spaziale e di costruzione corporea, in quanto la
situazione generale non era più favorevole all’alta borghesia. D’altro canto la pittura non
divenne decisamente spirituale o goticheggiante perché anche qui le circostanze non erano
abbastanza propizie alla media e bassa borghesia [popolo e popolo minuto] ancora lontane in
226 Ad esempio, gli studi di Luciano Bellosi su Buffalmacco ed il Trionfo della Morte nel Camposanto di
Pisa, e la sua collocazione temporale molto antecedente alla Morte Nera; la collocazione cronologica
delle pitture della Collegiata di San Gimignano.
227 VOLPE, Il lungo percorso, p. 247.
228 VOLPE, Il lungo percorso, p. 240. Inoltre nella stessa pagina elenca i maestri di altissima qualità: «lo
spirito nobilissimo e quasi ineffabile di Giottino, […], e la callosa cervice di Giovanni del Biondo; la
qualità sensibilissima del Maestro di San Lucchese e quella diligentemente applicata di Jacopo di Cione.
E così via. Lo stesso si dica del tono di alta e consapevole cultura di artisti come il Maestro del Crocifisso
n° 1655 del Louvre, o come Nardo di Cione, talvolta di profondo e nobile respiro; e con loro, in un
seguito di sostenuta qualità mentale, Puccio di Simone, Giovanni Bonsi, o il Maestro della Misericordia
dell’Accademia».
229 VOLPE, Il lungo percorso, p. 239.
231 Si riferisce al Comitato che ha organizzato la mostra L’eredità di Giotto, nel 2008 a Firenze.
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Firenze da una loro autonomia ideologica. […] Così, tutto considerato, l’alta borghesia, in
particolare dal 1300 al 1350, permise il diffondersi di una certa tendenza emozionale, di un
realismo di particolari, che doveva lentamente corrodere gli schemi compositivi giotteschi,
pur conservati in superficie».233
Andrea di Cione, detto l’Orcagna, «acclarato pittore, scultore, architetto, può avere retto
le fila dell’esecuzione architettonica e decorativa del Tabernacolo di Orsanmichele, la più
costosa e preziosa architettura mai realizzata a Firenze, organizzando dal 1352 al 1360 il
lavoro dei collaboratori con modelli o con disegni per l’esecuzione dei centoventi pezzi, tra
statue e rilievi, che decorano il monumento».234 Enrica Neri Lusanna continua: «Nei rilievi con
la Vita di Maria, l’Orcagna, proprio lui accusato di essere il pittore bidimensionale della Pala
Strozzi, modellando plasticamente i volumi scava e finge una profondità finora mai
conseguita». L’Orcagna, il quale ha notevoli qualità di organizzazione del lavoro di cantiere,
evidentemente valuta molto la sua opera di architetto e si dichiara pittore e archimagister.235
Quale è la formazione di questo notevole artista? Andrea di Cione è nato verso il 1320, egli
«avrebbe potuto accostarsi all’équipe del Campanile [di Giotto] capeggiata da Andrea Pisano
fino al 1341 solo dopo essere entrato a far parte dal 1337 della bottega di Maso che, al tempo
della tavola di San Giorgio a Ruballa, connessa per ragioni documentarie agli affreschi di San
Silvestro, si mostrava ancora in stretto contatto con l’opera del Daddi. Questa ricostruzione,
ideale sul piano teorico, per venire accolta dovrebbe essere suffragata con la sicurezza
documentaria della reale compromissione di Maso con i rilievi dei Sacramenti e con le statue
del Campanile, che avrebbe consentito di impartire all’Orcagna quei rudimenti tornati utili in
seguito per l’organizzazione del lavoro del Tabernacolo e per l’esecuzione di due statue quali
la Beata Umiltà e il Crocifisso di San Carlo a Firenze, che si pongono cronologicamente
all’inizio e alla fine del sesto decennio, coincidendo con i tempi documentati della sua attività
di scultore. Due opere queste che, col monumento di Niccolò Acciaioli della Certosa del
Galluzzo, ribadiscono a livelli diversi il grado di devozione di Orcagna per Giotto».236
Andrea Orcagna, secondo la critica moderna, è un pittore che ha clamorosamente
mancato la sua occasione. I suoi inizi sono stati influenzati dall’opera di Maso di Banco,
infatti, secondo Carlo Volpe, il pittore «era ancora lucidamente pensoso su Maso negli
affreschi dell’abside di Santa Maria Novella e del sepolcreto Strozzi, da datare non oltre il
1350», poi, la prematura scomparsa dell’immenso Maso, ha generato un’involuzione in
Orcagna e lo ha trasformato in un «artefice riconosciuto di una forma stilistica e di un gusto
che si affermavano subito con singolare fortuna, così da rimanere a lungo modelli di abusato
riferimento per una gran parte dei pittori di Firenze […] impigriti nella applicazione di modi
e repertori ormai prossimi a immobili schemi».237 Ed ancora: l’Orcagna «dopo il 1350 si
dimostra orientato verso una esclusiva ricerca della forma plastica rilevata con diligenza di
orefice nella tensione, senza corpo e senza moti, della superficie».238
Andrea Orcagna è comunque un artista universale, un uomo che sa fare di tutto e tutto
bene: pittura, scultura, architettura ed è capace di dirigere altri artisti in opere complesse
come il tabernacolo di Orsanmichele, «la più costosa e preziosa microarchitettura mai
realizzata a Firenze».239
237 VOLPE, Il lungo percorso, p. 238 e 239. Altre critiche su Orcagna a p. 246 e 248.
238 VOLPE, Il lungo percorso, p. 257, Volpe conferma questo suo giudizio anche sulla scultura di Andrea di
Cione.
239 L’eredità di Giotto, p. 45. La scultura, secondo il Vasari, l’ha imparata nella bottega di Andrea Pisano;
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La cronaca del Trecento italiano
L’Orcagna ha scolpito il proprio autoritratto nella scena della Dormitio sul lato est del
Tabernacolo. L’artista si è iscritto per la prima volta all’Arte dei Medici e Speziali nel 1343 e
nel 1352 si iscrive all’Arte dei Maestri di Pietra e Legname, poi, nel 1354 e ’58 prende la
matricola nella Compagnia di San Luca. Dal 1358 al 1362 lavora al mosaico della facciata del
duomo d’Orvieto. Tra le sue opere più antiche vi sono gli affreschi di Santa Croce di Firenze,
dove ha mostrato Il Trionfo della Morte, il Giudizio Universale e l’Inferno, fortemente influenzate
da Taddeo Gaddi e da Maso di Banco. La sua massima opera al momento è la Pala Strozzi, la
pala che Tommaso di Rossello Strozzi ha voluto per la cappella di famiglia in Santa Maria
Novella e che ha commissionato all’Orcagna nel 1354. «In questo dipinto la ricchezza
decorativa dei particolari e la ieraticità delle pose si uniscono alla struttura moderna del
polittico e ad un rinvigorito plasticismo delle figure» che testimoniano anche l’opera scultorea
di Andrea Orcagna nel tabernacolo della Vergine a Orsammichele.240
Nel 1356 Giotto di Maestro Stefano, detto Giottino, dipinge in affresco una Madonna con
Bambino in trono fra angeli e i santi Giovanni Battista e Benedetto. Il dipinto, staccato, oggi è alla
Galleria dell’Accademia e, con tutta probabilità, era stato dipinto nel convento di Camaldoli e
poi spostato nel canto di via del Leone. È un’opera di altissima qualità e notevole per la sua
originalità sono le figure del Battista e di San Benedetto, infatti, scrive Luciano Bellosi, è «una
novità assoluta che non mi pare si ritrovi in tutto il Trecento italiano per dei protagonisti di
una figurazione sacra, la posizione di San Giovanni Battista e del San Benedetto in basso, che
per disporsi con coerenza nello spazio che è loro concesso, e cioè per stare rivolti verso i sacri
protagonisti, danno quasi le spalle all’osservatore».241
Molta parte dello studio di Carlo Volpe Il lungo percorso del “dipingere dolcissimo e tanto
unito”, è dedicata a Giottino. Volpe scrive: «nel tempo in cui Maso produce i due polittici di
Santo Spirito e di Berlino, […] qui dovette essere il punto di una congiuntura pratica e di
scuola che vide Giottino, ai suoi inizi, muoversi forse nella più vasta cerchia di Maso e in
prossimità di Andrea di Cione; ma verosimilmente con un ben più sentito rapporto col
fratello di questi, Nardo, che infatti gli dimostra una profonda, se pur timida amicizia, fino a
quando non si orienterà senza convinzione verso l’emergente personalità di Andrea».242
Ancora Volpe: «s’è già detto che per il Vasari l’opera di Giottino segnava un punto di arrivo,
oltre Giotto e oltre Stefano».243
Un documento del 1356 cita il nome del primo pittore veronese del quale conosciamo il
nome: Turone di Maxio, detto provenire da Camenago diocesi mediolanensis. Egli nel 1360 si
esprimerà nella sua opera principale: il polittico della Trinità che è nel Museo di Castelvecchio.
Turone è quindi un artista di formazione lombarda e l’impiego del colore lo fa ipoteticamente
classificare anche tra i miniatori.244
Francesco Talenti succede ad Andrea Pisano nell’incarico di capomaestro del campanile
di Giotto. Egli, nel 1356, lavora ad una figura di profeta. Non sappiamo dire se a Francesco
appartengano i rilievi delle Arti liberali o dei Sacramenti, forse il Maestro dell’Estrema unzione è
Alberto Artaldi, intagliatore a lungo operoso a Firenze. Alberto Artaldi nel 1361 scolpisce la
lunetta sulla porta del Bigallo. 245 Altri rilievi del campanile di Giotto sono opera di un allievo
di Andrea Pisano. Uno di questi, Il pianeta Venere richiama i modi che Giovanni e Pace Bertini
hanno usato per il mausoleo di re Roberto d’Angiò a Napoli, in S. Chiara. A loro vanno
240 Stefania RICCI, Orcagna Andrea / Andrea di Cione, detto, scheda biografica in La Pittura in Italia, il
Duecento e il Trecento.
241 L’eredità di Giotto, scheda 35 del catalogo, di Federica Baldini, citando BELLOSI, Giottino e la pittura di
filiazione grottesca intorno alla metà del Trecento, “Prospettiva”, 101, 2001, p. 19-40. Carlo Volpe, ne Il lungo
percorso, mette in luce che Meiss ha evitato di parlare di questa splendida opera di Giottino.
242 VOLPE, Il lungo percorso, p. 265.
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CRONACA DELL’ANNO 1357
7 MORBIO, Novara, p. 132 e AZARIO, Visconti, col. 364-365; e, nella traduzione in volgare, p. 112. Azario
aggiunge che egli, in quanto cittadino di Novara, ha conosciuto solo due pretori di Novara liberi ed
onesti: Amedeo Suardi di Bergamo, al tempo di messer Calcino, e il detto Bartolomeo.
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11 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 49. STELLA, Annales Genuenses, p. 156 non ci dice nulla
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La cronaca del Trecento italiano
§ 4. Genova e la Corsica
Durante il secondo dogato di Simone, Genova dimostra molta attività verso la Corsica,
che, come si ricorderà, è percorsa da venti di ribellione dei contadini contro i signori feudali.
In febbraio un “lando” armato viene impiegato per affari del comune. Ad aprile o maggio
Genova invia ambasciatori nell’isola. Il podestà di Bonifacio, Bartolomeo Fieschi, su istruzioni
di Genova, manda nunzi a Guglielmo della Rocca e Guglielmo Cortinco e, prima di giugno,
mette una guarnigione di dodici balestrieri nel castello Barixii. Giovanna Petti Balbi sottolinea
che le popolazioni dell’entroterra isolano sono sicuramente colpite dalla «libertà ed agiatezza
economica di cui godono gli abitanti di Calvi e Bonifacio soggetti a Genova», così da indurli a
cercare l’appoggio di Genova contro i loro signori feudali, i quali, tra l’altro, appoggiano gli
Aragona. La ribellione prende nuova forza, contando o sperando nell’appoggio genovese,
vengono uccisi i feudatari, bruciati castelli. Quando i signori corsi scatenano il contrattacco,
gli insorti si organizzano affidando il comando a “caporali” e istituiscono nel Cismonti la
“terra di comune”. Le roccaforti ancora integre dopo questa ventata di violenza sono Calvi e
Bonifacio, che sono in mano genovese, Biguglia e Cinarca, che sono le sedi delle nuove
comunità, e Nonza e San Colombano di Capocorso per la protezione del commercio
marittimo.12 La causa prima della ribellione è l’ottuso e tirannico esercizio del potere da parte
dei nobili corsi, i cui atti sono improntati ad un violento, crudele e arbitrario egoismo.13
12 PETTI BALBI, Genova e Corsica nel Trecento, p. 30-31; PETTI BALBI, Simon Boccanegra, p. 309; FILIPPINI, Storia
di Corsica, lib. III, p. 197. Non sarà male qualche chiarimento sulla geografia della Corsica: «le grandi
divisioni naturali dell’isola erano due. Una, longitudinale, in Banda di dentro, ad oriente, e a Banda di
fuori ad occidente; secondo una linea ideale tirata da Portovecchio al Golfo San Fiorenzo. Ancora oggi la
metà occidentale si chiama Pomonte; l’orientale, verso l’Italia, Cismonte. L’altra divisione, trasversale, in
Di là dalli Monti per la parte meridionale, e Di qua dalli Monti per la parte settentrionale». MONTERISI,
Corsica, p. 32, nota 1.
13 MONTERISI, Corsica, p. 41-45.
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Carlo Ciucciovino
Proprio il giorno in cui il pagamento deve esser effettuato nelle mani dell’avido Francesco, gli
energici guelfi di Borgo scoprono il tradimento e, senza aspettare il sorgere del giorno, di
notte armano i cittadini, circondano nei loro alloggi Francesco ed i suoi mercenari, li
disarmano e li conducono fuori del loro territorio, in quello di Città di Castello. Francesco, qui
abbandonato, si trova in balia dei suoi soldati che lo derubano dei 3.000 fiorini di anticipo «e
il lasciarono andare povero e mendico, com’egli havea meritato». I Borghigiani riformano il
governo del comune, favorendo la parte guelfa, ed inibendo il potere ai Boccognani,
ghibellini.15
15 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 55; PELLINI, Perugia, I, p. 964.
16 CIBRARIO, Savoia, III, p. 161-162.
17 RICALDONE, Annali del Monferrato, I, p. 338-339; SANGIORGIO, Monferrato, p. 180-182.
19 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 90-91 e 110; RICALDONE, Annali del Monferrato, I, p. 339;
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La cronaca del Trecento italiano
Monasterolo e minaccia Centallo.21 Il quartier generale del principe d’Acaia e di suo figlio
Filippo è in Savigliano.22
Non è da credere che il principe di Acaia sia il solo a voler fare soldi esigendo denaro dai
sudditi del Savoia. Ad esempio, il signori di Quart nel 1337 sono stati condannati perché
volevano impedire ai loro uomini di recarsi ai mercati di Aosta e di Porta Sant’Orso. Il conte
Aimone di Savoia li ha condannati, li ha costretti ad un giuramento ed ha incaricato suoi
uomini di impedire che venissero esatti pedaggi onerosi dai mercanti. Nel 1352 i soliti signori
di Quart impedivano il passaggio sul ponte ai mercanti forestieri provenienti da Fénis e da
Saint-Marcel e il Conte Verde li minaccia di rappresaglie qualora insistessero nel loro
reprensibile atteggiamento.23
21 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 110. MULETTI, Saluzzo, Tomo IV, p. 13-15 fornisce molti
particolari in proposito.
22 TURLETTI, Savigliano, I, p. 220.
23 ZANOTTO, Storia della Valle d’Aosta, p. 68. La fiera di Sant’Orso che si tiene ancora oggi risale al 1305.
25 Vedi la cronaca del conte Francesco di Montemarte in Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte
Francesco di Montemarte, p. 230. ANONIMO ROMANO, Cronica, p. 229 lo chiama «omo de Francia, abate de
Borgogna, prevennato de grande frutto, moito potente e sufficiente perzona».
26 Aimerico Rolandi è eletto rettore di Romandiola (15 marzo), Geraldo de’ Portali, tesoriere (18 marzo);
al posto del raccomandato di Gil, Matteo da Celano; per la Campania e Marittima, Innocenzo sceglie
l’abate del monastero di San Benedetto, in Subiaco, Raimondo (26 aprile). FILIPPINI, Albornoz, p. 14 e nota
2 ivi. Per le Constitutiones, p. 141-143 ed anche CARDINALI, La signoria di Malatesta antico, p. 124. Un cenno
in RENOUARD, The Avignon Papacy, p. 51.
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Carlo Ciucciovino
del pontefice, ma, certo che tale politica sia sbagliata perché solo con la forza si può domare il
capitano di Forlì e Bernabò, installato a Bologna, sicuramente non si fermerà nella sua brama
di espansione, non vuole avere nulla a che fare con quella che, è convinto, si tradurrà in una
catastrofe, e chiede di essere richiamato per un periodo di riposo. Mentre attende la risposta
del papa, Egidio, capace e temibile, come sempre, provvede perché il suo sforzo non sia
vanificato: convoca l’esercito e chiama i suoi capitani a consiglio, ordina tutte le provincie,
munisce le rocche ed i castelli, e convoca per il 29 aprile a Fano un parlamento generale nel
quale informare tutti di quanto avvenuto, ma, principalmente, per promulgare come suo
ultimo atto di governo le sue leggi, le Constitutiones Sanctae Matris Ecclesiae, poi dette
Egidiane. La solennità dell’occasione e l’imminente partenza del potente Albornoz fa
convenire in Fano molti signori: Rodolfo Varani, Guido da Polenta, i Malatesta, l’arcivescovo
di Ravenna, i vescovi della Romagna e della Marca; gli onori di casa li fa fra’ Luca Mannelli,
vescovo di Fano dal 1356, dopo la morte di Pietro da Pesaro, Fiorentino e domenicano.
In marzo, il legato Albornoz ordina ai suoi comandanti Malatesta Ungaro e Alberto
Alidosi di rinnovare l’assedio a Forlì. I comandanti raccomandano di attendere una decina di
giorni, affinché l’erba che spunta possa foraggiare i cavalli, ma Albornoz, che ha presso di sé
Androino de la Roche e capisce che aria tiri, è inesorabile ed impone l’azione immediata. A
Ostasio da Polenta e Giovanni Manfredi chiede un contributo in denaro. Il primo aprile
l’esercito del legato si mette in marcia e il giorno seguente installa l’accampamento alla
Brusada. I rifornimenti giungono a questo esercito da Faenza, Imola e Ravenna.
Immediatamente dopo, Gil ordina a Ostasio da Polenta di unirsi a Galeotto Malatesta e
mettere l’assedio a Cesena.
Il 24 aprile, Egidio ordina un’incursione nel territorio di Forlì contro Castelvecchio.
Francesco Ordelaffi, che in uno scontro avvenuto qualche tempo prima, ha perso un centinaio
d’uomini, si guarda bene dall’affrontare ancora le truppe ecclesiastiche e Castelvecchio cade.
Il 29 aprile, nell’assemblea pubblica, Gil informa i suoi governati dell’arrivo di Androino di
Cluny, ed annunzia la sua voglia di ritirarsi per un poco. La notizia getta nello sconforto tutti
e Egidio viene pregato di rimanere almeno fino a settembre per occuparsi della riconquista.
Anche il pontefice, con una lettera dell’inizio di maggio, autorizzando Egidio a prendersi il
richiesto riposo, lo prega di rimanere in Italia almeno fino al 15 agosto. Ma Innocenzo è stato
troppo rapido ad accettare la proposta di Gil, la sua fretta testimonia un reale malanimo nei
confronti del bravo e valoroso cardinale spagnolo. Ma, si sa, il merito paziente troppo spesso
deve sopportare le angherie dei mediocri. Verrà per il buon Egidio il tempo della rivincita.27
Terminato il parlamento di Fano, il 6 maggio, il cardinale Albornoz va a Rimini, dove gli
viene reso grande onore; «e tutti i Malatesti erano a Cesena per ottenere l’impresa che i
Forlivesi non soccorressero». Gil sta a Rimini tre giorni e poi si reca a Cesena, dove pone la
sua residenza a S. Maria del Monte. Di qui dirige l’assedio alla città.28
Il cardinale Egidio Albornoz ordina che in Orvieto venga demolita la chiesa di San
Martino, per erigere sul suo posto una rocca, «per raffrenare le parzialità d’Orvieto, e
difender la città da’ Ghibellini per la Chiesa in favor di parte ghelfa (guelfa)». Malgrado la
città viva un periodo di relativa quiete, tanto che ai banditi viene concesso di stare in città per
sei mesi, il cardinale fa bandire Petruccio de’ Monaldeschi del Cane. Rimangono al confino
Berardo di Corrado della Cervara e Pietro Orsino della Vipera.29 Per tutto il tempo che il
Cluny è in Italia, il conte Ugolino di Montemarte serve nel suo esercito, sotto Forlì. Quando
27 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII, cap. 56; COMPAGNONE, Reggia picena, p. 219; FILIPPINI,
Albornoz, p. 133-139; Chronicon Ariminense,col. 904; PELLINI, Perugia, I, p. 965 basato su Villani. AMIANI,
Fano, p. 283-284; MOLLATT, Les papes d’Avignon, p. 226-229.
28 Chronicon Ariminense,col. 904-905; FRANCESCHINI, Malatesta, p. 125; COBELLI, Cronache forlivesi, p. 118-
119.
29 Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 456-457 e nota 5, pag. 456.
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La cronaca del Trecento italiano
tornerà Egidio, nel 1358, Ugolino verrà inviato a riformare la città di Terni da cui sono stati
scacciati i guelfi. Il conte Ugolino riuscirà a metter pace e far rientrare i guelfi banditi.30
Il 22 aprile il cardinale Albornoz dà seguito all’ordine del papa di restituire a Recanati il
titolo di città e l’onore del vescovato. Recanati è unita a Macerata, ma Recanati è la
preminente perché più antica e più popolosa.31
L’Anonimo Romano attenua l’offesa del richiamo del legato ad Avignone, affermando
che il papa ne ha bisogno, perché il «conte de Savoia con granne compagnia, da tre milia
varvute, iva guastanno tutta la Provenza. Prenneva terre, derobava e revennevase l’uomini»,
descrizione che sembra applicarsi molto meglio all’Arciprete che al Conte Verde.32
33 Bossolano, Bossolaro, Bussolaro, il nome è scritto in molti modi simili nei documenti, io ho scelto di
Corradino. Sono proprietari di molti castelli nel distretto: Fiorello e Castellino hanno Montebello,
Casteggio, Voghera, Broni, Sale, Caselli; gli suoi eredi di Castellino dominano su Robecco, S. Giulietta,
Mondonone, Montù, Montecalvo «castello fortissimo e sin troppo pieno»; Rainaldo ha il castello di
Pieve di Cava e molti amici in borghi popolosi, Confienza, Robbio, Mortara, Garlasco, Lomello, Valle.
AZARIO, Visconti, col. 373; e, nella traduzione in volgare, p. 124.
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Carlo Ciucciovino
Castellino Beccaria è in campo col marchese di Monferrato, e vorrebbe rientrare per affrontare
di persona la situazione, ma il marchese non gli dà congedo, sottolineando così la sua reale
ipocrita disposizione d'animo.35 Tuttavia, il marchese di Monferrato, colpito dalla morte della
sua consorte, si assenta dal campo per presenziare ai funerali, e messer Castellino Beccaria ne
approfitta per cavalcare dal fratello, finalizzare i patti con i Visconti, radunare genti d'arme. I
Beccaria si collegano con i loro partigiani e si preparano a riconquistare la città con un colpo
di mano. Però il trattato viene scoperto ed i pochi Beccaria rimasti in Pavia, ne sono scacciati,
cento amici dei signori sono imprigionati e dodici decapitati, tra cui cinque giudici. Fra
Jacopo riforma la terra a comune, riammette i guelfi banditi, tra cui i conti Giovanni e Filippo,
scacciati quarantasei anni prima dai Beccaria. Nulla si fa senza il consenso del frate, che serve
la religione da trenta anni e, sul piano personale, è inattaccabile.36
Cacciati i Beccaria da Pavia, fra' Bussolaro esorta i cittadini ad abbatterne le case, e fare
del luogo dove sorgono, una piazza. «E in piccolo tempo i cittadini non vi lasciarono pietra
sopra pietra che non portassono via, e il luogo recato a piazza, secondo che il frate predicando
hava consigliato. E fu ciò cosa mirabile, che tutti maschi femmine, piccoli e grandi, vi furono
per maestri e manovali, e a modo delle formiche, e ciascuno ne portò via la parte sua».37
Usando la potente leva dei castelli che appartengono alla loro famiglia e impiegando i
militi viscontei, in poco tempo, i Beccaria si impadroniscono di gran parte del distretto di
Pavia. Rimangono alla città ed al marchese di Monferrato solo San Paolo sul Po, Stradella,
Cicognola.38
35 Un consigliere di Giovanni di Monferrato è Dondazio Malvicini, nemico dei Beccaria che gli hanno
distrutto il suo castello di Mocastraco. AZARIO, Visconti, col. 376; e, nella traduzione in volgare, p. 128.
36 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 2, 3 e 4; molto dettagliato e complesso è il racconto di
volgare, p. 129.
38 AZARIO, Visconti, col. 378; e, nella traduzione in volgare, p. 131. COGNASSO, Visconti, p. 234-235
riprende Azario.
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ipotizzare che il giovane e roccioso Ugone non abbia partecipato alle campagne militari di suo
padre. Il fatto è che, come vedremo, nel 1364 il papa minaccerà di togliere l’isola a Pedro
d’Aragona per darla a Mariano. Tutto ciò se è vero che Ugone, nel 1355, avesse 16-18 anni,
qualora, invece, egli fosse stato ancora un bambino le cose assumerebbero diversa
prospettiva, ma è difficile conciliare Ugone bimbo con la sua emancipazione.39 «Non era
neppure sbarcato a Barcellona don Pedro IV, che Matteo Doria aveva suscitato una violenta
ribellione nell’Anglona e in Gallura, aiutato dai Genovesi» ed anche dai Visconti, che si
ritengono eredi dei Giudici di Gallura. Quando, prima del marzo del ’57, muore Matteo, la
bandiera dell’insurrezione spetterebbe a suo nipote Brancaleone,40 il quale, per la sua nascita
illegittima preferisce per il momento accordarsi con il governatore aragonese del Logudoro,
Bernardo de Cruilles, che gli concede di ricevere l’eredità di Matteo. Prima ancora che le armi
dei Doria vengano deposte, Mariano d’Arborea impugna le sue e, alleato con il re di Castiglia,
suscita la ribellione, rompendo il trattato di Sanluri. La guerra che Pedro d’Aragona sta
impegnando con Pedro El Cruel di Castiglia gli impedisce di potere nuovamente intervenire
in Sardegna a sedare la rivolta; si limita a spedire guarnigioni militari a Cagliari, Sassari e
Alghero.41 Il re di Aragona, o meglio i suoi governatori in Sardegna, si trovano costretti a
fronteggiare un problema complesso: il ripopolamento di Sassari e di Alghero. Un numero
sufficiente di abitanti è necessario per garantire alle città sicurezza e sviluppo e quanto ciò sia
difficile è testimoniato da alcune cifre: «a Sassari nel 1358 degli abitanti immessi nel 1330
restavano talmente pochi da renderne difficile la difesa», e «ad Alghero a metà del 1357, delle
prime immissioni sembra non restassero più di 170 persone valide». A chi voglia emigrare
dall’Aragona per popolare la Sardegna sono concesse esenzioni fiscali e facilitazioni. A
Barcellona, Valenza e Maiorca vengono aperte oficinas de inscriptiòn e da ciascuna di esse, tra il
1357 e il ’58 partono una cinquantina di clientes.42
de Aragon, Lib. VIII, cap. LIX riporta un’informazione che potrebbe essere alla base della ribellione di
Mariano: il rifiuto di alcuni castellani, che si proclamano leali ai Visconti, di consegnare le fortezze al
giudice. La ribellione del giudice è registrata nel cap. LX. ZURITA, Annales de Aragon, Lib. VIII, cap. LXI
parla della flotta inviata dall’Aragona.
42 ANATRA, Sardegna, p. 63-65.
43 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 73-74; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 73; Rerum Bononiensis, Cr. Vill.,
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Carlo Ciucciovino
45 Di lei la cronaca di Bologna dice la qual donna si armava come un uomo e era animosa e valorosa di sua
persona.
46 I Cesenatesi responsabili del tradimento verso l’Ordelaffi sono: i fratelli Marco e Poltrono de Ottardis,
Giovanni, detto Savanella, degli Aguselli, Giacomo di Bastardo degli Aguselli e Ubertino di Fosco degli
Articlini. Si veda Annales Caesenates, col. 1184; Annales Cesenates³, p. 192; COBELLI, Cronache forlivesi, p.
119-120 e FILIPPINI, Albornoz, p., 145.
47 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 58.
48 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 59; Chronicon Ariminense,col. 904.
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virtuosamente e con sì ardito e fiero animo, che gli amici e nimici fortemente la ridottavano
non meno che se la persona del capitano vi fosse presente».51 Un tentativo di mediazione di
Firenze fallisce.52 Intanto, Galeotto, completata una galleria sotto le mura della fortezza, il 17
maggio scatena l’attacco finale contro la Murata. Vengono incendiati i puntoni che
sorreggono le travi che puntellano la galleria, che, crollando, fanno rovinare le mura
sovrastanti. L’esercito ecclesiastico attacca da tutti i lati, e concentra uno sforzo particolare
sulla breccia così apertasi. Gli attaccanti, numerosissimi, possono immettere continuamente
risorse fresche nella battaglia, mentre i difensori, limitati nel numero, si estenuano nel
tentativo di ricacciarli. «E vedendosi non potere più resistere, ben ch’assai havessono morti e
fediti e magagnati de’ loro avversari, dierono segno tra loro e abbandonarono la Murata e
ridussonsi nella rocca. [...] Madonna Cia, havendo fatto maravigliosamente d’arme e di
capitaneria alla difesa, si ridusse con 400 tra cavalieri e masnadieri nella rocca, acconci a
ubbidire i comandamenti della donna per singulare amore fino alla morte».53 Chiunque
capisca di guerra comprende che i giorni di Cesena sono contati, e il padre di Cia, Vanni di
Susinana degli Ubaldini, è uomo avvezzo alle armi, egli dunque chiede ed ottiene da Egidio il
permesso di conferire con la valorosa figliola, per indurla a cedere le armi. «E venuto a lei,
essendo padre e huomo di grande autorità, e maestro di guerra», cerca di farla ragionare,
rassicurandola, che, nella sua situazione, ciascun valoroso capitano tratterebbe la
capitolazione. Ma la straordinaria Cia proclama la sua obbedienza a suo marito Francesco,
che le ha affidato la difesa della terra, ordinandole che «Per niuna cagione io l’abbandonassi,
o ne facessi alcuna cosa sanza la sua presenza, o d’alcuno segreto segno che m’ha dato. La
morte e ogni altra cosa curo poco ov’io ubbidisca i suoi comandamenti». Nessun
ragionamento vale a smuovere la fermezza della donna; messer Vanni, mesto, ma orgoglioso
di sua figlia, torna sui suoi passi; Cia, fiera, intende alla difesa della rocca.54 Ma ogni difesa è
impossibile: ben otto trabocchi bersagliano la fortezza: una parte delle mura e una delle torri
sono crollate; Cia in persona ha fatto riparare le difese con steccati e con fossi. Il suo
comportamento è al di là di ogni aspettativa, ella non mostra alcun timore. Ma i conestabili,
esperti uomini di guerra, sanno che più nulla varrà a salvarli e, in delegazione, vanno a
spiegare la situazione a madonna Cia, dichiarandole la loro intenzione di arrendersi. Di fronte
al cedimento di uomini valorosi ed esperti, Cia si piega a trattare, ma ancora una volta rivela
la sua sorprendente forza d’animo chiedendo di negoziare in prima persona. Ella ottiene che
il cardinale Egidio le invii dei plenipotenziari, con i quali concorda che tutti i conestabili e
tutti i soldati siano liberi e possano portare con sé ciò che riescono a trasportare. Accetta
serenamente la prigionia per sé, suo figlio, sua figlia, i due nipoti, le due figlie di Gentile da
Bononiensis, Cr. Vill., p. 74-75. Annales Caesenates, col. 1184; Annales Cesenates³, p. 193-194, dice che
l’espugnazione è avvenuta il 17 maggio, mercoledì, e specifica che partecipano all’assalto 180 bandiere
di soldati, comandati da Roberto degli Alidosi, armato cavaliere dal Malatesta in questa occasione, e
Malatesta. Il 27 Cia si arrende, ed è sabato. Chronicon Ariminense,col. 905. PELLINI, Perugia, I, p. 965-967
senza niente di originale. Per tutto l’episodio dell’assedio e capitolazione di Cesena, si veda FILIPPINI,
Albornoz, p.146-149. Non originale BONOLI, Storia di Forlì, p. 415-416. ANONIMO ROMANO, Cronica, p. 232-
235 aggiunge qualche buon particolare: presa la città, accorrono «ottocento arcieri de Ongaria, li quali
staievano in Savignano in lo battifolle, venivano volando, iente veloce, attesi alla guerra. Non entraro in
Cesena, ma ivano intorno alla citate, ora innanti, ora in reto, per dare core alli citadini». Inoltre, prima di
far crollare una parte delle mura, gli assedianti scavano una galleria sotto la riserva d’acqua e la fanno
crollare: «commannao lo legato la cavata, opera faticosa de moita spesa e longa. Fatta la cavata sotto la
cisterna, la cisterna fu rotta, l’acqua fu perduta». Ancora: «Tre milia fiorini gostava lo die li mastri delle
cavate e delli trabocchi e delli altri artificii. Dodici mila fiorini gostao lo die li soldati».
54 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 69; BONOLI, Storia di Forlì, p. 417-418.
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Mogliano e le damigelle. «Per sé e per la sua famiglia non cercò grazia, petendo (chiedendo)
salvare i soldati che lealmente l’haveano atata (aiutata)». Egidio Albornoz non può non
trattenere Cia, per ammorbidire Francesco Ordelaffi e la invia per mare al castello d’Ancona,
ma la tratta onorevolmente. Il 23 giugno la rocca viene consegnata all’esercito del legato.55
Paolo Colliva nota che il legato ha scelto Cesena per scatenare il proprio attacco, tra i
molti centri appartenenti a Francesco Ordelaffi, perché «è il punto più debole del dominio
forlivese, quello in cui i risentimenti antisignorili ed autonomistici erano più vivi». Inoltre,
Galeotto Malatesta, protagonista della conquista della città, «vi poneva tutte le premesse della
sua propria futura signoria».56
55 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 77; qualche buon dettaglio in ZAMA, I Manfredi, p. 71-
82. Un’ottima narrazione moderna in SPADA, Gli Ordelaffi, p. 124-132. Molti dettagli in COBELLI, Cronache
forlivesi, p. 120-121 che, a p. 121 dice: Cia «fe’ brusare al canpanile del uescopato de Cesena con tucte
quelle case del uescopato e altre case fino al castello».
56 COLLIVA, Cesena tra signoria e stato franco, p. 293.
57 Il castello controlla la via che porta al passo appenninico, sulla strada che porta a Faenza lungo il corso
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assoggettati, nominati vicari, hanno dei poteri più ampi di quelli dei comuni, una qualche
autonomia giudiziaria, temperata solo dal fatto che gli appelli si fanno dal giudice apposito,
dello staff del rettore.
Ma l’esilio può essere deciso solo dal rettore, questo istituto è così sottratto all’arbitrio dei
signori o delle fazioni cittadine; e tutti gli ufficiali, all’atto dell’ingresso nella loro carica,
debbono giurare fedeltà alla Chiesa ed alle Costituzioni.
Quindi, nel rispetto delle tradizionali autonomie comunali, e dei privilegi accumulatisi
nei secoli, le Costituzioni sono un tentativo di sottrarre alla discrezionalità la legge, di
unificare le strutture fiscali e di giustizia, di abituare i cittadini a pensare che la fonte del
diritto non è il loro signore o il loro comune, ma la Chiesa.59
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65 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 70; sulla sua scorta, VASINA, Dai Traversari ai Polenta,
p. 590.
66 TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 183.
67 TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 184; MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, p. 320-322 ovvero Lib. II, cap. 11.
68 Sembra che l’Acciaiuoli abbia finanziato di sua tasca il nolo delle galee genovesi, si veda UGURGIERI
71 Giustamente, MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 117-118 scrive che sono navi inviate dalla regina
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prima che si sappia della loro presenza, armano due legni, li forniscono di trombe, trombette,
nacchere ed altri fragorosi strumenti e, fattasi notte, la notte di Pentecoste, il 27 maggio,
salpano. Le due galee, navigando, si lasciano alle spalle i due legni stipati di arnesi rumorosi,
che, a un segnale convenuto, iniziano a fare un fracasso indiavolato, ed assalgono la flotta
napoletana. Le due galee napoletane, temendo di essere oggetto dell’aggressione di una
grande flotta, come il rumore potrebbe far pensare, salpano le ancore e fuggono a Messina. Le
due navi genovesi, invece, resistono bravamente all’attacco, ma la sorpresa le fiacca e
vengono battute, e le navi catturate. L’esercito di re Luigi, «più baldanzoso che provveduto»,
vedendosi sprovvisto di vie di rifornimento, e distante più di 40 miglia da Messina, si perde
d’animo e decide di abbandonare l’impresa. Il 30 maggio i cavalieri si mettono in marcia,
senza bruciare il campo, auspicando così che il contingente catalano di stanza in Catania, si
perda a saccheggiarlo, invece di darsi all’inseguimento. Questa paura la dice lunga sul
coraggio di 1.500 cavalieri che ne hanno alle spalle solo 150! I Catalani non si lasciano
distrarre dalla preda, in fondo la possono sempre ritrovare al loro ritorno, e tormentano la
retroguardia napoletana, infliggendole pesanti danni. «Ma quello che peggio fece loro furono
i villani, ridotti a’ passi colle pietre, ch’altr’arme non haveano»: gli abitanti del luogo,
esasperati dalle violenze napoletane li bersagliano con le pietre e uccidono molti cavalieri.
Solo la fuga sul suo veloce cavallo porta in salvo il siniscalco, che dell’avventura ha un
ricordo indelebile e terrorizzante, se sette anni più tardi, scrivendone ad Angelo Soderini,
parla: «Di tanti miei pericoli mortiferi, che quando di ciò mi ricordo, remaneo tucto
istupefatto, e parmi come se fosse una fantasia che eo degli detti pericoli debesse essere
potuto iscampare vivo». Beffardo, Matteo Villani commenta l’impresa: «Più di 1.500 cavalieri
e gran popolo, con quattro galee in mare e due legni armati, per troppa baldanza, e mala
provvedenza intorno alle cose che si richieggono a un’oste, dal provveduto scaltrimento di
due corsali, con due galee, furono sconfitti e rotti, abbandonando il campo a’ nemici,
vituperevolmente».72
Tra i Napoletani che sono stati catturati dai Siciliani vi è il «Camerarius Major, nomine
Raymundus de Lu Balzu», Raimondo del Balzo, che viene tradotto nel castello di Francavilla,
tenuto da Giovanni Mangiavacca. Raimondo del Balzo è amato da Giovanna e Luigi di
Taranto come un padre, in effetti egli è nato verso il 1303 e quindi è in età di esserlo. Il
prigioniero è illustre abbastanza da poter essere scambiato con le due principesse siciliane che
sono presso i reali di Napoli a Messina, Bianca e Violante. Ma non basterà lo scambio, il
castellano di Francavilla, Giovanni Mangiavacca, rapacemente chiede ed ottiene anche 2.000
fiorini, per rilasciarlo.73
I Siciliani potrebbero sfruttare la clamorosa vittoria riportata ad Aci, se solo fossero uniti
tra loro, invece, il nostro cronista Michele da Piazza ci descrive con molti particolari i
72 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 72, 73 e 74; LEONARD, Angioini di Napoli, p. 476 molto
laconico; UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 236-238; TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 183-190;
PISPISA, Messina nel Trecento, p. 233-234; MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, Lib. II, cap. 11-16. TOCCO alla p. 186
scrive: «quante fossero esattamente le navi [catalane] non è chiaro ancora oggi. Per Federico IV [che ha
scritto una lettera sull’argomento] erano due galere e due galeotte, per Michele da Piazza due galere e
tre legni, per Matteo Villani, invece, due galere e due legni, per i sovrani angioini, infine, tre galere e un
legno. Una cosa però è certa, non si trattava di una grande flotta, ma di poche navi partite dalla
Catalogna per la guerra di corsa». Una breve notizia in GIUNTA, Cronache siciliane, p. 48. BUCCIO DI
RANALLO, Cronaca Aquilana, p. 249 scrive, ma erroneamente, che il giorno di “pasqua Rosata”, il 28
maggio, i reali di Napoli vengono incoronati a Palermo. La stessa informazione in PANSA, Quattro
cronache, Cronachetta anonima, p. 58 e Cronaca dell’Anonimo dell’Ardinghelli, p. 28. ZURITA, Annales de
Aragon, Lib. IX, cap. XV tratta diffusamente della battaglia. Niente di originale in CAMERA, Elucubrazioni,
p. 209. Per tutto il brano, MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 113-121, invece appena un cenno in
SARDINA, Palermo e i Chiaromonte, p. 40 che è centrata su Palermo.
73 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, Lib. II, cap. 16; MOORE, Joanna of Sicily, p. 31-32; DEL BALZO DI
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tradimenti, i cambi di schieramento, la ricerca dei vantaggi personali che agitano tutti i
protagonisti sia del partito Latino che di quello Catalano. Federico Chiaromonte ad esempio,
dopo aver fatto una visita doverosa ai reali di Napoli a Messina in luglio, incontra Enrico
Rosso nella rocca di S. Alessio e trova un accordo con lui. È stato preceduto da don Artale
d’Alagona che, venuto l’11 giugno nel porto di Catania con tre galee catalane, fa pace con
Enrico Ventimiglia e poi salpa il giorno stesso.74
74 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, Lib. II, cap. 16 e 18. Chi sia interessato alla ridda di tradimenti e cambi di
casacca dei Siciliani li può leggere in questo stesso autore, che ci racconta le imprese di Guglielmo de
Maniscalco, i tradimenti di Giovanni Maniavacca o Mangiavacca e dei suoi fratelli, le ribellioni di Patti,
di Tripo e così via, in molti capitoli della sua cronaca.
75 TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 36-37; BAZZANO, Mutinense, col. 626-627.
77 Cronache senesi, p. 585. Notiamo che quando poi il conte Corrado di Landau ed i suoi mercenari
verranno reclutati da Siena cesseranno di essere “la malvagia compagnia”. DE MUSSI, Piacenza, col. 503
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Il 14 giugno passa per Bologna Roberto Manfredi, signore di Faenza. Egli è al comando di
tredici bandiere di cavalleggeri. Sta in città pochi giorni.78
dice che i cavalieri mercenari sono circa 1.500. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 75; Rerum Bononiensis, Cr.
Vill., p. 76; specificano che la Compagnia arriva a Borgo Panigale il 17 e ne parte il 19, il suo percorso è
Riccardina, Budrio, Forlì.
78 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 75; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 75.
79 CALISSE, I Prefetti di Vico, p. 129-130; CALISSE, Storia di Civitavecchia, p. 162. GIONTELLA, Tuscania
attraverso i secoli, p. 128 ci informa che la rocca di Tuscania è custodita da un castellano e 9 soldati. Un
cenno in PINZI, Viterbo, III, p. 317. Strano che NISPI-LANDI, Sutri, p. 405-406 non ne accenni. DUPRÈ
THESEIDER, Roma, p. 659.
80 SILVESTRELLI, Regione romana, p. 571
82 FALCO, Campagna e Marittima, p. 623-624. Sono Onorato e Giacomo Caetani, esclusi da Terracina, che
diventano signori di Sezze e Anagni; Giovanni e Bello Caetani tentano di impadronirsi di Ferentino.
83 FALCO, Campagna e Marittima, p. 625-627.
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concessi dal monastero ai conti Aldovrandeschi. L’abate del monastero concede l’investitura
nel 1359 a Aldobrandino e Niccolò, figli di Guido, fratello del conte Niccolò di Roberto
Orsini.85 Il 2 novembre, il sindaco di Segni, Giovanni Salamonio, dona a uno dei più potenti
baroni della Campagna, Giovanni dei Conti di Valmontone, una torre che sorveglia una delle
porte cittadine e la piazzetta adiacente a questa. L’influente signore ottiene anche il permesso
perpetuo di edificare torri, fortezze ed edifici nel territorio cittadino. Il merito di Giovanni di
Valmontone è quello di aver protetto e difeso la cittadinanza nei momenti di pericolo.
Giovanni l’anno prossimo otterrà la nomina a Senatore di Roma.86
Gli uomini di Sezze riprendono la rocca di Acquapuzza, «funzionale al complesso
sistema difensivo della Chiesa»,87 ed imprigionano il castellano pontificio, Guido da Pescia.
Saranno presto costretti a restituirla. Essi, nel 1360 o anche più tardi, saranno costretti a subire
la signoria del conte di Fondi.88 Maria Teresa Caciorgna chiarisce che «il castellano di
Acquapuzza esercitava funzioni di governo, interveniva nel regolare le questioni che
sorgevano tra i Caetani e il comune di Sezze e comminava pene e multe a quanti non
pagavano i pedaggi del passo alla Camera apostolica».89
In questi anni, la politica di Egidio Albornoz è stata quella di attenuare i rapporti diretti
tra curia pontificia e rettori. Il legato ha riservato per sé l’autorità sui rettori, sia per quanto
riguarda le nomine, che per gli ordini che impartisce loro. Li sceglie con molta libertà, e
seguendo le necessità che il momento politico detta, tra signori locali o forestieri, dignitari
ecclesiastici, uomini d’arme. Giorgio Falco ne elenca qualcuno: «Guglielmo, abate di Farfa tra
il 1353 e il ’55; Giovanni di Lucca, commendatore dell’Ospedale di Santo Spirito in Saxia tra il
’55 e il ’57, Matteo da Celano nel ’57, Raimondo abate di Subiaco, tra il ’57 e il ’60,
Bongiovanni, vescovo di Fermo, tra il ’60 e il ’63, nello stesso anno Marsilio da Carrara,
Giovanni Guidotti, precettore della Casa di Sant’Antonio in Firenze tra il ’64 e il ’66. Infine
Daniele del Carretto che occupa la carica dal ’66 al ‘67».90
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agricoli. I casali sono grandi aziende agricole che vengono gestite direttamente dai loro
proprietari o vengono affittate a terzi, siano essi allevatori di bestiame o imprenditori agricoli.
I gestori dei casali verranno poi chiamati “bovattieri” e tra loro vi sono esponenti della piccola
nobiltà e uomini di origine popolare che hanno utilizzato le loro capacità per emergere. Con
un’accorta gestione di un casale, di proprietà ecclesiastica o della piccola nobiltà romana, gli
affittuari, i bovattieri, possono arricchirsi e possono anche diventare proprietari terrieri,
acquistando altri casali o unendoli alle terre a loro appartenenti. «Durante l’ultimo ventennio
del XIV secolo e i primi lustri del successivo, le enormi proprietà ecclesiastiche che nella
Campagna Romana raggiungevano forse la metà della superficie, furono ampliamente
intaccate da vendite ed alienazioni. Incapaci di adeguarsi alle nuove forme di gestione e
bersagliati dagli ingenti contributi finanziari imposti dai papi dello Scisma, monasteri e chiese
vendettero allora ai bovattieri almeno un terzo dei loro casali. Questa ondata di alienazioni
permise di consolidare molti processi di arricchimento, dilatando nel contempo la consistenza
dei gruppi possidenti cittadini, che si andarono sempre più unificando fino a formare
un’aristocrazia omogenea».92
Poiché ora disponiamo di approfondite ricerche su questo argomento, sviluppate dalla
metà del secolo XX, vediamo di capire meglio la configurazione della Campagna romana e la
fondazione dei casali.93
Per comprendere meglio quanto sia avvenuto, occorre osservare il fenomeno nel suo
divenire. Scrive Jean-Claude Maire Vigueur: «Alla metà del XII secolo, la Campagna romana
è un territorio relativamente poco popolato: il primo incastellamento vi ha prodotto solo una
quindicina di castra, i suoi abitanti vivono o sulle terre della grandi aziende o nei piccoli
villaggi sprovvisti di qualsiasi difesa. Le chiese romane hanno la proprietà della maggior
parte del suolo e il loro patrimonio è costituito da grandi aziende formate a loro volta
dall’unione di vasti appezzamenti di terre, le pedice, che sembrano aver conservato la loro
identità e la loro integrità per tutto il Medioevo, a dispetto dei molteplici cambiamenti che
hanno continuamente modificato sia la struttura della grande proprietà sia le modalità della
sua coltivazione. È doveroso insistere sull’importanza di queste grandi parcelle, che
costituiscono la trama o l’ossatura di pressoché tutti i sistemi che hanno caratterizzato le
strutture agrarie della Campagna romana nel corso della sua storia. Ed è giocando con queste
parcelle come se fossero pezzi di un gigantesco puzzle che un gruppo di laici intraprendenti
inventerà, a partire dalle metà del XII secolo un nuovo tipo di grande azienda, il casale, che si
imporrà in poco meno di due secoli come l’unica forma di occupazione del suolo presente
nella Campagna romana.»94 Tra la metà del XII secolo e la fine del secolo successivo la
campagna romana vede sorgere nello stesso tempo sia il secondo incastellamento, cioè la
formazione circa una settantina di nuovi villaggi fortificati, sia la nascita e lo sviluppo di una
nuova struttura: il casale. Il castrum o villaggio fortificato offre protezione ai contadini che
vivono entro le sue mura, essi hanno giurato fedeltà al nobile o all’ente ecclesiastico che lo ha
fondato e costruito. La coltura prevalente che è l’oggetto delle cure dei contadini è il
frumento. I realizzatori del castrum sono gli esponenti della nobiltà minore romana, quella
differente dai baroni, e i grandi enti religiosi. Se ambedue queste categorie si attendono un
ritorno economico dalla coltivazione del territorio, i nobili romani vi vedono anche la
possibilità di utilizzare il castrum come rifugio in caso di necessità e l’opportunità di usare i
contadini come armati. Il secondo incastellamento si sviluppa in concomitanza
dell’irresistibile ascesa di alcuni lignaggi romani, i baroni, che grazie alla protezione dei papi,
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diventano immensamente potenti e, pertanto, assumono un profilo minaccioso per gli altri
nobili. Alla fine del Trecento, sopravvivono solo pochissimi di questi castra, mentre, al
contrario, nella Campagna romana si ergono le torri di oltre 400 casali.
Ciò che è avvenuto nel frattempo a Roma è appunto quanto tratteggiato in questa
cronaca del Trecento, il papato si è trasferito ad Avignone, disinteressandosi, in sostanza,
dell’approvvigionamento annonario di Roma, l’assenza della corte papale e delle famiglie
cardinalizie ha impoverito la città, che ha anche conosciuto, eccezion fatta per i giubilei, il
diminuito afflusso di pellegrini. Le grandi stirpi baronali non hanno più goduto
dell’appoggio del papato, che, tra l’altro, si è anche astenuto dal continuare a concedere in
modo bilanciato cariche e benefici ai membri delle famiglie baronali. Inoltre, la Morte Nera ha
colpito anche l’Urbe, spopolandola. I conflitti continui dei baroni, ormai polarizzati nella
rivalità tra Orsini e Colonna, hanno fatto il resto. Così scrive Sandro Carocci: «con la metà del
Trecento, gli indicatori di crisi si fanno rapidamente espliciti e consistenti. Si estinsero
numerose linee di discendenza, e talora interi casati, come quello antichissimo dei Normanni.
Nelle campagne circostanti la città decine e decine di castelli furono abbandonati da tutti gli
abitanti. I loro ruderi e le loro terre vennero molto spesso venduti ad intraprendenti
imprenditori agricoli romani, quei “bovattieri” di cui belle ricerche hanno illustrato il grande
dinamismo».95 Questi imprenditori agricoli, questi “bovattieri” sono quelli che trasformano
la Campagna romana, realizzando i casali. Anche il casale, come i castra, ha come finalità
principale la produzione di frumento, unita all’allevamento. La differenza sostanziale è che il
casale viene gestito direttamente dal suo proprietario, che assume il personale di cui ha
bisogno per produrre. Un casale dispone di vastissimi appezzamenti di terreno: almeno cento
ettari. La struttura che lo distingue invariabilmente è la torre, un edificio alto da dieci a trenta
metri, col lato maggiore da quattro a sette metri. Nella torre vengono custoditi gli attrezzi
principali ed altri beni. Connesso alla torre è invariabilmente il redimen,96 la cinta al cui
interno viene riparato il bestiame. Collegato alla torre è un muro alto dai due ai tre metri, che
completa la fortificazione del casale. All’interno della difesa vi possono essere delle abitazioni
per il proprietario, chiamate palatium, caminata, domus e, nel caso di potenti fortificazioni,
cassarum. Sono anche presenti abitazioni per il personale e servizi come cisterna, cantine,
granai, fienili. In fondo, il casale non differisce poi molto dal castrum e molti di questi
“castelli” sono stati tramutati in casali. Chi desidera lanciarsi in questa attività ha bisogno di
capitali, necessari per l’acquisto di tanti fondi e per la costruzione degli edifici che
compongono l’installazione. Per alcuni dei fondatori, il problema non sussiste, poiché
dispongono dei capitali necessari, mentre altri imprenditori immaginano un diverso percorso
e contratto per arrivare all’obiettivo. Visto che i grandi enti religiosi, almeno all’inizio, sono
quasi completamente assenti da questa nuova realizzazione, vi sono degli imprenditori che si
fanno concedere i terreni di questi enti in affitto per tempi molto lunghi e si impegnano a
coltivarli e realizzarvi le strutture produttive e difensive necessarie.97 Con qualche piccola
eccezione i grandi enti religiosi sono assenti da questo fenomeno, lo stesso sia detto dei
baroni, che, al massimo, quando i casali dimostrano la loro produttività, trasformano i castra
in casali. I protagonisti della trasformazione sono gli esponenti della nobiltà minore romana,
95 CAROCCI, Baroni di Roma, p. 64-64; le “belle ricerche” sono quelle di Jean-Claude Maire Vigueur,
espresse sia ne Les grands domaines de la Campagne Romaine dans la deuxième moitié XIVᵉ siècle, che in Les
“casali” des églises romaines à la fin du Moyen Age (1348-1428) e quelle dello stesso autore, in congiunzione
con Marco Vendittelli: CAROCCI e VENDITTELLI, L’origine della Campagna Romana.
96 Sul redimen si veda COSTE, Scritti di Topografia medievale, p. 36-37.
97 Un esempio tipico è la concessione dei terreni in enfiteusi per 3 generazioni, contro il versamento di
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quelle «due o trecento famiglie legate tra loro dalla condivisione del potere e della comune
appartenenza alla cavalleria comunale».98
Il proprietario del casale lo coltiva assumendo la mano d’opera. La peste ha provocato lo
spopolamento delle campagne, i castra hanno visto annichilirsi le famiglie di contadini che vi
risiedevano; d’altro canto l’estensione del casale e la quantità di terra da coltivare e di
bestiame da allevare richiede la disponibilità di personale, quando occorre. Vengono assunti
gli aratori o appaltati i lavori di aratura, i coltivatori risiedono normalmente in città e
raggiungono il casale quando la loro mano d’opera sia necessaria. L’imprenditore che gestisce
il casale ha solo raramente del personale fisso, e la sua presenza è limitata a qualche uomo di
fiducia, che «vive sotto il suo tetto e fa parte della famiglia allo stesso titolo, per esempio,
della nutrice o dello scudiero cui sono affidati i cavalli da guerra, conta certamente poche
centinaia di persone, essenzialmente bovari, asinai, guardiani di casale e addetti al bestiame
di vario tipo». Si intuisce che a queste persone viene delegata la sorveglianza del lavoro
effettuato dai salariati.99 Scrive Maire Vigueur: «I Romani del Medioevo vivono dunque in
totale simbiosi con la campagna che li circonda. […] Dal XIII al XV secolo un viavai incessante
di lavoratori di tutti i tipi, di proprietari di casali e di coltivatori di ogni genere anima le
strade e i sentieri della Campagna romana, che in ogni stagione risuonano del brusio delle più
diverse attività. Agricole in primo luogo, e a quelle che utilizzano il grosso della mano
d’opera, e cioè la cerealicoltura e l’allevamento, bisognerà aggiungere altre attività secondarie
di cui si scopre l’esistenza nelle pieghe degli atti notarili: la coltivazione degli orti,
l’allevamento delle api, dei polli e delle anatre, la cattura degli uccelli selvatici, la caccia, la
pesca e così via».100 Il rendimento delle terre coltivate a cereali nei casali è eccezionalmente
alto: otto ad uno rispetto al normale cinque ad uno di altre zone, perciò coltivare cereali nei
casali è straordinariamente redditizio.101
98 MAIRE VIGUEUR, L’altra Roma, p. 58-59 che elenca alcuni nomi delle stirpi: Arcioni, Cerrini, Foschi da
Berta, Gandolfi, de Advocatis, Boboni, Gabelluti, Galgani, Malabranca, Partimedalia, Piscioni, Sancti
Angeli, Quatracie, Baroncini, Sordi. Gli enti religiosi che che fondano casali sono il monastero
domenicano di San Sisto, gli Olivetani di Santa Maria Nuova, i canonici di San Pietro, ibidem p. 59. Per
qualche dettaglio sulle torri si può vedere DE ROSSI, Torri medievali della Campagna Romana, Introduzione.
99 MAIRE VIGUEUR, L’altra Roma, p. 71-74.
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è una buona scusa per attaccar briga con Pisa e invia armati. I Pisani rinserrano ancor più
l'assedio e mandano due gran cittadini dei Raspanti, ser Vanni Scaccieri e ser Vanni Botticella.
Costoro più volte provocano a battaglia i difensori del castello, ma senza concluder niente.
Vengono intercettate delle lettere della Signoria di Firenze ai castellani, che dicono: «Tenetevi
voi di Pietrabuona, perché vogliamo, che e’ sia un Purgatorio a' Pisani». Intanto i Pisani non
scrivono, ma lavorano: costruiscono un castello di legno a sei piani, con l'ultimo più alto delle
mura del castello assediato. Il giorno della vigilia di Pentecoste danno battaglia: accostano la
macchina d'assedio, ma il passo è impedito da un grande olmo, che impedisce alla macchina
di guerra di potersi accostare alle mura. I Pisani si danno a segare l'albero; e, convinti che
l’operazione ritardi molto l’assalto, «quelli di dentro andorono a cena». Ma i Pisani sono bravi
e veloci e riescono a mettere rapidamente la macchina accosto alle mura, gli armigeri pisani
saltano dal ponte di legno sulle mura, le conquistano e vi pongono l'insegna del comune di
Pisa, gridando: «Viva Pisa!». Al grido, i difensori, alzatisi dalle mense, cercano di reagire, ma
la battaglia dura poco ed i difensori fuggono. Per ordine di ser Vanni tutti i prigionieri
vengono giustiziati. La rotta è stata il giorno di Pentecoste, 5 giugno, all'Ave Maria. Tra i
morti vi è il capitano generale dei difensori, Neri da Monte Cerruglio, «uomo molto
pregiato». I Fiorentini gettano la maschera ed in pochi giorni radunano 700 cavalli e 400 fanti
ed entrano nel Pisano, ponendo il campo al Castello di Peccioli. Il capitano dei Fiorentini è
Bonifacio Lupo di Soragna da Parma. Questi è «uomo di suo capo, e non voleva troppo e'
consigli de' cittadini, e non diceva loro e' suoi segreti, e non faceva cosa nissuna secondo il
loro volere». Sgradito perciò ai Fiorentini, viene rimosso dall'incarico, ed al suo posto
nominato Ridolfo da Camerino. Ridolfo aumenta la consistenza del suo esercito e cavalca
contro Pisa. Passa il fossato ed i Pisani si ritirano prima a Cascina, poi a San Savino. I
Fiorentini danno alle fiamme i sobborghi della città sotto gli occhi dei Pisani, poi mettono il
campo a Ponte di Sacco. Intercettate delle lettere dal Castello di Peccioli, che informano i
Pisani che tutti i giovani validi hanno lasciato il castello per andare a depredare il Volterrano,
e chiede che Pisa mandi aiuti, non avendo risorse per difendere la fortezza, Ridolfo coglie
l'occasione e invia un forte contingente ad intercettare i giovani depredatori al loro ritorno, e
stringe l’assedio al castello. In breve il forte si arrende, ma, resistendo la rocca, le viene messa
una mina che fa crollare una parte delle mura, aprendo una breccia dalla quale entrano i
Fiorentini. Ridolfo impone che il castello non venga messo a sacco, scontentando molti dei
suoi soldati. Pone poi il suo campo a San Miniato e qui, più di 2.000 soldati, disgustati dalla
mancanza di guadagno, lo lasciano.103
I Fiorentini muovono guerra a Pisa per mare, loro capitani sono Perino Grimaldi di
Genova, e Niccolò Acciaiuoli. I capitani fanno gravi danni e strappano l'isola del Giglio ai
Pisani. Poi, a Porto Pisano, fanno rovinare le torri e, tolte le catene di sbarramento del porto,
le inviano a Firenze, dove verranno custodite nella Chiesa di San Giovanni Battista. Anche
Ridolfo da Camerino viene rimosso dal comando e messo al suo posto Pietro Farnese. Il
nuovo capitano cerca di ben inaugurare il suo comando cercando di avere per tradimento
Lucca. Pietro raduna 2.000 cavalli e 500 fanti e va a Fucecchio, poi si presenta ben ordinato
sotto le mura, ma il trattato è stato scoperto e nulla vi è da fare per i Fiorentini.104
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entro le mura. Tra le porte aperte entrano anche alcuni ardimentosi cavalieri di Galeotto e
Galeotto stesso. Combattendo essi riescono ad impedire che le porte vengano chiuse,
favorendo l’afflusso incessante di altri cavalieri ecclesiastici. Alla difesa partecipano però
francamente sia i soldati che gli abitanti del castello, che gettano sulla testa degli invasori le
pietre delle case. Dopo una lunga ed aspra battaglia, la forza del numero schiaccia i difensori
che si trovano costretti a chiudersi nella rocca. Il borgo viene preso e saccheggiato dai soldati
del Malatesta. La rocca viene aggredita con i consueti mezzi con cui è caduta quella di
Cesena: ma qui «havea molto rafforzati i fondamenti con gran pietre, e molte stanghe, e
cinghie di ferro». Giovanni di Francesco Ordelaffi evade da Bertinoro e raggiunge
Forlimpopoli.105
105 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 79; Chronicon Ariminense,col. 905; Rerum Bononiensis,
Cronaca A, p. 75; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 75; COBELLI, Cronache forlivesi, p. 121. Annales Caesenates,
col. 1185; Annales Cesenates³, p. 194 dice che Bertinoro si arrende liberamente agli ecclesiastici il 28
giugno, in realtà la resa del castello è del 24 luglio, vedi oltre. FILIPPINI, Albornoz, p. 149. Si veda anche
SPADA, Gli Ordelaffi, p. 132-133.
106 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 51.
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Tuttavia, «chi potrebbe sanza fallare scrivere le motive dell’Inghilesi?». Re Edoardo convince i
delegati a tornare intorno al tavolo delle trattative e questa volta, in settembre, si arriva a
concordare su molti punti. Per il rispetto dell’accordo, re Edoardo chiede di avere in ostaggio
il delfino Carlo e l’altro figlio del re di Francia, nonché il conte di Fiandra. Ma il delfino non si
fida di consegnarsi e il conte di Fiandra «non era debito a.rre di Francia di cotanto servigio».
Il trattato viene quindi rotto e il re di Francia ed i suoi baroni tradotti in prigionia a Guindisora
(Windsor). Anche re David di Scozia è prigioniero di re Edoardo.112
A fine anno il prigioniero re di Navarra viene liberato dai suoi amici ed il delfino Carlo
viene costretto a restituirgli tutti i suoi possessi.113
112 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 101; FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 56.
113 CONTAMINE, La Guerra dei cent’anni, p. 39; FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 63 e 64.
114 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 50. Tarazona è difesa da Miquel de Gurrea che ha a
sua disposizione solo 5 cavalieri ed 800 cittadini armati. Egli decide di capitolare dopo soli 3 giorni. La
cronaca del re Pietro d’Aragona dice che alcuni capi di Tarazona vengono puniti per non aver opposto
resistenza, mentre alla popolazione viene offerto asilo a Saragozza. HILLGARTH & HILLGARTH, Pere III of
Catalonia Chronicle, vol. II, p. 511-512, cap. VI, 10 e nota 39 ivi. AYALA; Coronica del rey don Pedro, 1357,
cap. II, egli dice che Tarazona è città ben rifornita, ma non ben murata. Si veda anche ZURITA, Annales de
Aragon, Lib. IX, cap. I-III per l’origine del conflitto e VI e VII per la notizia in oggetto..
115 Cavalieri con corazza leggera.
116 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 60; HILLGARTH & HILLGARTH, Pere III of Catalonia
Chronicle, vol. II, p. 512-515, cap. VI, 11, 12 e 13. Per la consistenza dell’esercito del Crudele si veda
ESTOW, Pedro el Cruel, p. 187-188 che lo trae da AYALA; Coronica del rey don Pedro, 1357, cap. IV. Per gli
eventi: AYALA; Coronica del rey don Pedro, 1357, cap. III e IV e, per la tregua, VI.
117 AYALA; Coronica del rey don Pedro, 1357, cap. VI.
118 Alfonso XI ha avuto da Leonor de Guzman 7 figli maschi, tra i quali Enrico Trastámara, Tello,
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scampando così un grande rischio. Re Pietro IV dà ad Enrico 300 cavalieri con armatura
pesante e 300 con armatura leggera.120
120 HILLGARTH & HILLGARTH, Pere III of Catalonia Chronicle, vol. II, p. 509-511, cap. VI, 8; ESTOW, Pedro el
Cruel, p. 186. Per le trattative si veda anche AYALA; Coronica del rey don Pedro, 1357, cap. I. ZURITA,
Annales de Aragon, Lib. IX, cap. V.
121 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 80; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 79; Rerum
Bononiensis, Cr. Vill., p. 81; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 74 informano che la crociata viene annunciata
a Bologna il 19 novembre, ma nessun Bolognese vi partecipa di persona, limitandosi a versare molto
denaro. GRIFFONI, Memoriale, col. 173 ci dice che l’annuncio della crociata a novembre è stato preceduto
da un altro a gennaio. BAZZANO, Mutinense, col. 627 parla di un annuncio a Modena a gennaio 1358.
122 Si procura un’entrata di 700.000 lire di bolognini l’anno, però ch’ogni mese volea da catuno de’ suoi sudditi
soldi 5 di bolognini per bocca di sale, e soldi 4 per la macinatura della corba del grano, oltre all’usata molenda; e
per ogni tornatura di terra soldi 20 di bolognini l’anno, sopra l’altre gabelle delle porte, e del vino, e dell’altre cose,
ch’entravano con some e con carra, che tutte erano gabellate. VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap.
81.
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campo sprovvisti di tutto, senza che nessuno si preoccupi di sfamarli, ma nessuno osa fiatare,
tale è la paura del tiranno.
Il mattino seguente, mercoledì 12 luglio, finalmente i collegati piombano sul campo
visconteo, sorprendendone gli armati, che comunque, in qualche modo, riescono a reagire. Si
combatte aspramente con molte perdite da ambo le parti. Nessuno sembra prevalere e la
notte mette fine all’interminabile combattimento. Durante l’oscurità i Viscontei si sfilano,
portandosi al Monastero di Santa Maria in Strada, vi pernottano e soggiornano tutto il giorno
seguente. La notte successiva, convinti di non poter resistere all’esercito dei collegati, cui si
stanno aggiungendo 10.000 fanti bolognesi, condotti da Amase di Puccio de’ Ghislieri, i
Viscontei levano il campo e fuggono verso la strada che collega San Giovanni in Persiceto a
Nonantola. I collegati li inseguono fin verso Nonantola, poi desistono, e messer Feltrino, con i
Modenesi, varca il Panaro e torna a Modena. I Bolognesi tornano in città recando con sé i due
vessilli strappati al nemico.123
123 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 75-76; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 77; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog.,
p. 78; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 77; concordemente, parlando dei Viscontei, dicono: «in nella
mallora che Dio li dia». La Villola a p. 79 descrive la terribile tempesta. BAZZANO, Mutinense, p. 626-627;
e VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 81. Villani dà erroneamente come data dello scontro il
21 luglio.
124 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 82; GATARI, Cronaca Carrarese, p. 37; un cenno in
Domus Carrarensis, p. 86. ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 201; CESSI, Storia della repubblica di Venezia, I, p.
319. Un cenno in LAGO, memorie sulla Dalmazia, 1°, p. 239-241 che ci informa che il quartier generale del
re d’Ungheria è a Knin
125 LUCIO, Historia di Dalmatia, p. 250-252 e 258-262, con molti particolari.
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126 PELLINI, Perugia, I, p. 970; GORI, Istoria della città di Chiusi, col. 957 lo assegna al 1356, ma la data giusta
è 1357. Analogamente, secondo MATTEO PALMERI, De Temporibus, col. 223.
127 FRANCESCO CALASSO, Bartolo da Sassoferrato, in DBI, vol. 6°.
129 Grosseto è sulla strada che i mercanti fiorentini debbono percorrere da Talamone alla loro città. E’
quindi molto plausibile che la ribellione di Grosseto sia stata fomentata dai Pisani.
130 CAPPELLI, La signoria degli Abati-Del Malia, p. 29-30.
131 Scheggiale, cintura di cuoio o stoffa preziosa con fibbia ornata di smalto o di gioielli, cui gli uomini
appendevano la spada o il corno da caccia e le donne la scarsella, il necessario per il lavoro, uno
specchio e sim. Dal Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli.
132 Cronache senesi, p. 157-158.
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133 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 83; Chronicon Ariminense,col. 905.
134 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 84.
135 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 85.
136 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 89. I patti vengono concordati tra Egidio e Androino
da una parte ed il conte Lando e la Gran Società dall’altro, la data è il 10 agosto. FILIPPINI, Albornoz, p.
151, nota 1. Filippini attribuisce il patto col conte Lando, alla reiterata disposizione di Innocenzo VI
riguardo la necessità di far pace con Bernabò Visconti. In giugno Gualdisio de’ Lovesselli è stato inviato
dal signore di Milano al pontefice per sollecitarlo riguardo la questione di Bologna. Innocenzo VI è a
corto di denaro, terrorizzato dalle bande dell’Arciprete, non vuole certo aggiungersi un altro grattacapo,
o un altro spavento e vuole fortemente la pace col bellicoso Visconti. Bernabò dal canto suo restituisce
beni e chiese ai vescovi e permette che le decime siano pagate. In agosto Innocenzo firma un accordo
con Bernabò, questi si impegna a non aiutare Francesco Ordelaffi ed a pagare le imposte, da parte sua il
Visconti si ottiene la riconferma a vicario di Bologna, ma se la deve conquistare. Di qui l’istruzione di
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Innocenzo ad Egidio. Ma questi sa che la politica del pontefice è erronea e, nei fatti, rifiuta di accettare
l’ordine. Ma, a questo punto, non ha altra scelta che patteggiare col braccio armato del Visconti, per
evitare problemi ad Androino, che gli succederà. FILIPPINI, Albornoz, p. 152-155.
137 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 92.
138 Si rammenti che i Taranto hanno danneggiato i Durazzo, Giovanni di Durazzo ha sposato Agnese di
Périgord, madre di Carlo, Ludovico e Roberto. LEONARD, Angioini di Napoli, p. 477 scrive che l’Arciprete
si muove su istigazione del delfino di Francia.
139 I del Balzo possono contare sull’alleanza di Aymar de Roussillon, signore di Annonay, che concede
libero passo ai mercenari. GALLAND, Les papes d’Avignon et la maison de Savoie, p. 111.
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140 LEONARD, Angioini di Napoli; p. 477-478; VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 87;
FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 60-61; PALADILHE, Les papes d’Avignon, p. 204-205. Per
rafforzare Avignone, il papa ha imposto una tassa di mezzo franco ad abitante e una gabella di un
fiorino per ogni botte di vino, cfr. OKEY, The Story of Avignon, p. 157. GREGOROVIUS, Roma nel Medioevo,
Lib. XII, cap. 1.2 dice che l’Arciprete appartiene al lignaggio dei Talleyrand. Tra i soldati dell’Arciprete
vi è anche un nobile di Nizza: Giovanni Rabuffello, PIETRO GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime,
edizione in volumi, vol. 3°, p. 294.
141 GALLAND, Les papes d’Avignon et la maison de Savoie, p. 112; CAMERA, Elucubrazioni, p. 213-214.
142 TURLETTI, Savigliano, I, p. 220; ROGGERO-BARGIS, Saluzzo, p. 44-45; MULETTI, Saluzzo, p. 379-386
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148 LOPEZ, Storia delle colonie genovesi nel Mediterraneo, p. 276-277 fornisce molte altre notizie su Caffa.
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tutti. È l’idolo dei più giovani; sottopone i suoi soldati ad incessanti esercitazioni. «Et con
questo si faceva tanto amare da loro, che non gli bisognava guardia per alcuno sospetto. E
guidavagli sì saviamente, e era sì ubbidito da loro, che niuno ne perdea: e poca speranza dava
a’ nemici di vincere la città».149 L’esercito del legato assedia Forlì fino a tutto dicembre, poi
«per la mancanza degli strami da cavalli e per la gran freddura si partì del campo e tornò a
Cesena».150
149 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 94; BONOLI, Storia di Forlì, p. 420-422.
150 Chronicon Ariminense,col. 905.
151 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 96; LEONARD, Angioini di Napoli, p. 478-479.
152 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 54; TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 267. Sia MIRTO, Il
regno dell’isola di Sicilia, p. 111-112 che SARDINA, Palermo e i Chiaromonte, p. 42 riferiscono che il re è
convinto che Simone sia stato avvelenato.
153 Angelo è figlio adottivo di Nicola, egli è figlio di Alamanno Acciaiuoli. Dopo la morte di Lorenzo, al
siniscalco rimangono tre figli maschi, uno suo, un altro Lorenzo, e due adottati: Angelo e Benedetto.
UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 243 scrive: «Angelo, che aveva sposato l’unica figlia di
Antonio Grimaldi, signore di San Giorgio in Calabria, si distingueva per le sue doti militari e stava
divenendo, all’ombra protettrice del padre, un personaggio importante che godeva la fiducia del re».
154 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 97; UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p.
238-239; TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 190; PISPISA, Messina nel Trecento, p. 234; MICHELE DA PIAZZA,
Cronaca, Lib. II, cap. 20; PISPISA, Messina medievale,p. 96-97.
155 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, Lib. II, cap. 15; PISPISA, Messina nel Trecento, p. 234.
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è Giovanni da Besozero (oggi Bizozero) a comandare l’esercito visconteo che ha preso Governolo. Notizia
in ALIPRANDI, Cronaca di Mantova,p. 135.
159 Il Corio racconta che galeoni del marchese d’Este espugnano il castello di Governolo, scacciandone i
ANGELI, Parma,p. 189 che dice che Bernabò manda Luchino dal Verme con 500 barbute a Guastalla e di
qui a Governolo. AFFÒ, Guastalla,p. 271 riprende la notizia. Su tutto l’evento si veda appunto AFFÒ,
Guastalla,p. 271-273.
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§ 46. Patriarcato
Il 5 settembre, Manfredo, figlio di Gian Francesco di Castello viene assassinato. Gli
omicidi occupano Tarcento. Il fratello dell’ucciso, Rizzardo, riesce a coagulare intorno a sé la
solidarietà di molti nobili e comunità friulani e cingono d’assedio il castello di Tarcento,
ottenendone la capitolazione il 10 settembre. La torre resiste, ma cade nelle mani dei Castello;
uno degli assassini, Giacomo, viene giustiziato insieme ad altri suoi compagni.165
161 Chronicon Ariminense,col. 905-906; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 78 dice che il 25 agosto Albornoz è
a Bologna, molto onorato. Il 6 settembre Gil è ad Imola. Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 80; FILIPPINI,
Albornoz, p. 158-159; TONINI, Rimini, I, p. 393-394. CARDINALI, La signoria di Malatesta antico, p. 127 ci
informa che il papa aveva invitato Pandolfo Malatesta, ma, essendo egli capitano di guerra per Firenze,
non è potuto andare. AMIANI, Fano, p. 284 ci riferisce che con Albornoz è andato, oltre a Malatesta
Ungaro, anche uno dei potenti di Fano: Federico Petrucci.
162 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 100.
163 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 230 riporta le prebende del conte.
164 NATALUCCI, Ancona, p. 371-373, alle p. 374 e 375 vi è una descrizione della rocca.
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ghibellini gli rifiutano l’ingresso, allora il tesoriere si accampa fuori delle mura e manda a
chiedere rinforzi a Terni. I guelfi gli inviano 400 servi, 200 cittadini e 200 stipendiari. Così
trascorre la notte. Intanto da Rieti sta arrivando la guarnigione ghibellina che deve custodire
Stroncone, 40 uomini a cavallo e molti fanti, che vengono sorpresi e catturati dagli uomini del
tesoriere. Vistisi perduti, i ghibellini tifernati che hanno preso il castello, lo consegnano ad
Angelo Tavernini senza combattere. Su incarico di Androino di Cluny, a fine ottobre arrivano
a Terni il conte Ugolino Montemarte e Bartolino de Ruinis di Reggio, per riformare la città. I
guelfi collaborano volentieri e l’11 novembre Terni si sottomette alla Chiesa. Ora se i
ghibellini fuorusciti prendessero le armi contro la loro città sarebbero automaticamente
nemici della Chiesa.166
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§ 52. I Castelbarco
Il 9 novembre, i figli di Guglielmo di Castelbarco, che tante questioni avevano avuto con
il loro padre, si spartiscono l’eredità paterna, Aldrighetto ha la metà del castello di Avio e il
castello di S. Giorgio sopra Chizzola, Alberto ha l’altra metà di Avio, mentre gli altri tre
fratelli, Francesco, Leone ed Azzone, ottengono i castelli di Brentonico e Corte, e le torri di
Serravalle e Chizzola.172
169 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 9; e 12 e Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 80; Rerum
Bononiensis, Cr. Vill., p. 81; 447; RICALDONE, Annali del Monferrato, I, p. 339 specifica che i soldati della
lega si accampano a «Livorno [Ferraris] e Bianzè, monferrine, e Carpaneto e Flora, vercellesi». Si veda
anche SANGIORGIO, Monferrato, p. 182, questa fonte alla p. 180 ci informa che il 5 febbraio il conte Lando è
stato assoldato con 1.000 barbute per conto del marchese di Monferrato da parte di Ottone di Brunswick
ed Azzo da Correggio. DE MUSSI, Piacenza, col. 503. I movimenti del conte Lando nel Bolognese sono in
Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 80.
170 DE MUSSI, Piacenza, col. 503; COGNASSO, Visconti, p. 232; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 82; Rerum
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d’Urbino riesce a convincere il legato a concedere il bando da tutte le terre della Chiesa ai due
coraggiosi assalitori. Il bando sarà tolto due anni più tardi.
Messer Ungaro da Sassoferrato, che ha accompagnato Malatesta Ungaro ad Avignone,
riesce a farsi assegnare dalla curia papale il castello di Montesecco. Il legato pontificio, lette le
bolle papali, non può che decretare che venga assegnata la rocca al nuovo fiduciario. Ma
Gubbio non intende sentir ragioni e si appella. Due sindaci (ambasciatori), nominati da
Gubbio e Montesecco rispettivamente, per difendere le proprie ragioni si confrontano di
fronte al legato. Essi «buttaro in terra la concessione facta a mes. Ongaro; et Monteseccho
remase al comune de Ugubio».173
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dal Regno.176 Luigi di Durazzo, che si è unito ai Minerbino per contrastare il re, non ha altra
scelta che sottomettersi a re Luigi, impetrando ed ottenendo il perdono reale. Non sarà un
sincero pentimento. Buccio di Ranallo così racconta il supplizio del conte: «Mai l’oste non
partìose per fi che sia pilliato [catturato, sottinteso il conte di Minerbino];/ Et fo posto in una
asena et su vy fo legato,/ Scalso et in capilli, et nudo fo spoliato;/ De corona de carta da poy fo
coronato./ Così dessonerato per multe piacze gio;/ Che bel li volse o male allora lo sequìo;/
Menarolo ad Altamura, como agio odito io;/ Denanti ad quella terra lo appicaro et morio».177
176 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VII; cap. 103; UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p.
240-241; LEONARD, Angioini di Napoli, p. 476-477. MOLLATT, Les papes d’Avignon, p. 291 registra un calo
della tensione tra il papa e gli Angiò, dimostrata dalla dispensa accordata al matrimonio tra Maria di
Durazzo e Filippo di Taranto ed al fatto che Luigi di Durazzo, ammalatosi gravemente, ha promesso di
ravvedersi. Tutta la parabola del conte di Minerbino viene gustosamente raccontata da BUCCIO DI
RANALLO, Cronaca Aquilana, p. 249-253. Niente di originale in Cronaca dell’Anonimo dell’Ardinghelli, p. 28.
177 BUCCIO DI RANALLO, Cronaca Aquilana, p. 251.
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anche delle ragioni da far valere. In dicembre, il capo della balìa dei cittadini sopra la guerra,
Leggieri d’Andreotto,179 grande cittadino di Perugia, riesce a convincere i suoi colleghi ed il
governo che ha la possibilità di ottenere per tradimento Cortona, strappandola così
all’abbraccio senese. Il 12 dicembre, nottetempo, i Cinque sopra la guerra conducono 400
cavalieri e molta fanteria contro Cortona. Ma le porte rimangono chiuse, il tradimento è
fallito, ed i Perugini sfogano la loro frustrazione guastando il territorio. Poi si pongono
all’Orsaia (Ossaia) e costruiscono alcune bastie,180 rinserrando strettamente Cortona, così che
uscire ed entrare in città diventa un’impresa difficile.
I Perugini si trovano però in una situazione imbarazzante: infatti Firenze è mallevatore
della pace per conto sia di Cortona che di Perugia e l'atto d'aggressione, non giustificato dal
successo, espone gravemente Perugia. Questo comune invia quindi ambasciatori a Firenze,
denunciando «c'haveano trovati i Cortonesi in trattato di furare certe loro terre contro a' patti
di pace». Ma Firenze tende a credere di più agli ambasciatori che Cortona, indignata, ha
prontamente inviato nella città, e che domandano che Firenze intervenga in forze per
ristabilire pace e giustizia. Firenze, dopo aver lungamente discusso, accetta il reclamo dei
Cortonesi ed invia ambasciatori a Perugia, rimproverandola dell'impresa, e chiedendo «per
l'honore loro medesimo e appresso del comune di Firenze, ch'era obbligato a loro stanza, che
se ne dovessono partire». Ma la tiepidità dell’intervento fiorentino convince il governo di
Perugia che esiste una certa simpatia per la loro azione, questa quindi procede ad assoldare
nuove truppe. I Senesi reagiscono armando un notevole esercito, ed assumendo Anichino da
Baumgarten con 800 cavalli e 400 fanti. Anichino, a sua volta, ingaggia molti Ungari. Mentre
mettono insieme l’esercito, i governanti di Siena inviano un loro condottiero, Lhuomo de Hiegi
[Lomo di Jesi, (in realtà è Mainetto di Jesi)], con 200 cavalieri a portare i primi soccorsi ai
Cortonesi assediati. I Senesi, presa la via delle bettole, di notte penetrano segretamente in città. Il
mattino seguente i Perugini masticano amaro vedendo la bianca e nera insegna di Siena
piantata su un torrione, sventolare proprio di fronte alle loro bastie. L’assedio viene stretto, i
rifornimenti alla città impediti. I due eserciti si preparano ad affrontare i disagi
dell’inverno.181
179 Gli altri sono: Fidanzino di Gnagne del Marescalco, Ventoruccio di Venturella, Nutarello di Pellolo e
Nicoluccio de’ Merciari, famiglia poi detta degli Ughi. Da quest’ultimo discenderà messer Nicolò,
vescovo di Orvieto. PELLINI, Perugia, I, p. 968-969; Diario del Graziani, p. 184.
180 I battifolli vengono eretti ad Ossaia, che sorge a sud della città, poi, in senso antiorario, Sepoltaglia,
Castelnuovo, Castel Giudeo, Santa Lucia, presso il rio Loreto e Camucia. BORGOGNI, La Guerra tra Siena e
Perugia, p. 37-38 con figura a p. 36.
181 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 14 e 17. Cronache senesi, p. 586; PELLINI, Perugia, I, p.
967-969; Diario del Graziani, p. 184. BORGOGNI, La Guerra tra Siena e Perugia, p. 34-42. Borgogni chiama
Lomo da Jesi, Mainetto da Jesi. La convinzione perugina che Firenze nutra simpatia per la loro azione si
scontra con la realtà del fatto che Firenze ha bisogno di concordia con Siena, visto che ha dirottato tutti i
suoi traffici marini sul porto di Talamone. Si veda anche MANCINI, Cortona, p. 201-202.
1357
310
La cronaca del Trecento italiano
cattura del temerario Giovanni e di venti suoi conestabili con 400 cavalieri. Sul terreno
giacciono i cadaveri di 300 cavalieri delle due parti. I prigionieri, secondo l'uso tedesco, sono
rilasciati sulla parola.182
Bernabò Visconti ha il grosso del suo esercito intorno a Castro, nel quale sono rinchiusi
1.000 cavalieri e 500 masnadieri della Gran Compagnia, che il Visconti ha deciso di catturare e
far impiccare. Valutando che il castello abbia difese non temibili, fa scatenare un attacco
generale da tutte le parti con aspra e stretta battaglia, ma ha a che fare con soldati che si battono
per la loro vita, consci che il destino che li attende in caso di sconfitta, è pendere dagli spalti,
pasto per corvi. Ciò «diede loro smisurata sollecitudine e forza alla difesa. E combatterono sì
aspramente contro alla moltitudine de' loro nemici, che per forza gli ributtarono a dietro dalla
battaglia, e con danno di molti morti, e d'assai magagnati si ritornarono al campo loro ch'era
intorno al Casale». Ma i guai per il Visconti non sono finiti: i cavalieri della Gran Compagnia
che hanno battuto messer Giovanni da Biseggio, stanno accorrendo ad aiutare i commilitoni.
Inviano veloci messaggeri ad avvertire gli assediati di Casale che tengano duro, che, in un
giorno saranno colà. Improvvisamente, in un triste giorno di dicembre, i Viscontei vedono
stagliarsi all'orizzonte, nei pressi di Casale, 2.000 temibili barbute tedesche, in buon ordine da
battaglia. Di fronte agli impotenti e furenti militi del Visconti, escono in bell'ordine dal
castello di Casale i 1.000 cavalieri assediati ed i loro masnadieri e, beffardamente, si vanno ad
unire al resto della Compagnia, che, ad onta del Visconti, passa nel Vercellese.183
Bononiensis, Cr. Vill., p. 81; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 251-253. La data del 13
settembre è in GATARI, Cronaca Carrarese, p. 37, nota 2 ivi.
185 BAZZANO, Mutinense, col. 627.
1357
311
Carlo Ciucciovino
Scrive Roberto Cessi: «Un senso di scoraggiamento si diffuse negli ambienti politici
veneziani, ansiosi di pace, quanto più infuriava la minaccia della guerra. […] Il crollo di Zara,
l’estremo pericolo di Treviso suscitavano un incomprensibile panico, che mai forse aveva così
profondamente scosso la vita veneziana nei momenti più tragici. […] Un senso di stanchezza
fiaccava le energie».187 Questo il quadro nel quale si inserisce la ricerca affannosa e angosciata
della pace da parte della Serenissima che così «rinuncia a un brano della sua potenza adriatica
che neppure i suoi capitali nemici, i Genovesi, erano riusciti a scuotere e l’umiliante
confessione della propria sconfitta con la cancellazione del titolo, che era stato il primo titolo
d’onore, duca della Dalmazia e della Croazia».188
§ 59. Costantinopoli
Abbiamo lasciato l’imperatore Giovanni V Paleologo felicemente regnante a
Costantinopoli dopo il ritiro a vita monacale di Giovanni Cantacuzeno e di sua moglie Irene.
Giovanni non ha permesso che Cantacuzeno, ora frate Giuseppe, lasci la capitale, egli sa che
avrà bisogno del suo maturo consiglio e della sua esperienza nel difficile momento che il
debole impero d’Oriente sta vivendo. Giovanni Cantacuzeno si è ritirato nel convento di San
Giorgio della Mangana. La sua rinuncia alla corona imperiale e la lealtà con la quale sta
impersonando il suo nuovo ruolo ne fanno ingigantire la figura. Nel 1357 arriva il momento
nel quale Giovanni V ha bisogno del suo contributo. Da quando l’imperatore Paleologo ha
trionfato, i cortigiani non si sono stancati di esercitare pressioni perché Matteo, il figlio di
Cantacuzeno, che si fregia del titolo di imperatore, venga neutralizzato, anche se egli nulla ha
fatto per meritare l’ostilità della corte di Costantinopoli. Il veleno dell’invidia fa il suo effetto
e, all’inizio del 1356, si alza il sipario sull’ultimo atto del dramma: l’imperatore Giovanni V
dichiara Matteo un usurpatore; quando questi prende le armi per difendersi, i Serbi, ormai
nella più completa anarchia dopo la morte di Dušan, lo catturano e lo consegnano
all’imperatore. Giovanni lo invia nell’isola di Lesbo ad attendere le sue decisioni sulla sorte
da riservargli. Tutto sommato, sono decisioni eque: Matteo rinuncerebbe ad ogni titolo e
diverrebbe un privato cittadino, ma la sua autorità ed il suo prestigio a corte sarebbe secondo
solo a quello dell’erede al trono. Matteo ritiene ciò una diminuzione della sua dignità, ora
Giovanni mette in campo il monaco-imperatore Giuseppe, e lo manda a convincere suo figlio
Matteo ad accettare l’accordo. La missione riesce e verso la fine del dicembre del 1357, in una
cerimonia, Matteo depone tutte le insegne del suo prestigio imperiale e giura fedeltà a
Giovanni Paleologo. Con tale atto, il conflitto iniziato 16 anni prima, con la morte di
Andronico III è finalmente terminato. Per qualche anno, Matteo risiede a Costantinopoli dove
è anche suo padre, poi, quando nel 1361 la peste colpisce nuovamente la città, va nel
Peloponneso a unirsi a suo fratello Manuele a Mistra. Lo accompagna suo padre, il monaco-
imperatore. Quando, nel 1380 Manuele morrà, Matteo gli succede sul trono. Il monaco
Giuseppe dopo due anni di permanenza a Mistra, nel 1362 rientra a Costantinopoli.189
1357
312
La cronaca del Trecento italiano
invia ambasciatori a Firenze, ottenendone trecento cavalieri che, sotto il gonfalone fiorentino,
serviranno il re fino alla liberazione.
Il pontefice, angosciato dalla presenza della compagnia dell'Arciprete, decide di aver
bisogno di più denaro ed impone una impopolarissima gabella sul vino ed un'imposta a testa.
La nuova tassa è per la parte più povera della popolazione quasi insopportabile e per tutti
motivo di scandalo, per la franchigia rotta a' cortigiani.190
§ 64. Le arti
Andrea di Cione Arcagnuolo, detto l’Orcagna, dipinge la Pala Strozzi. Egli è nato verso il
1308, ed è quindi nel pieno della sua maturità, ma «a lui accadde come a Taddeo Gaddi, altro
artista come lui dotto, uno scadere della capacità espressiva col progredire del tempo per
eccesso di meditazione e di teorizzazione sull’arte».195 Quest’anno, l’Orcagna partecipa al
concorso per i pilastri di Santa Maria del Fiore, ma gli viene preferito Francesco Talenti.
195 L. MARCUCCI, Andrea di Cione Arcagnuolo; in DBI, vol. 3°. Questa valutazione è discorde da quella
1357
313
Carlo Ciucciovino
Ugolino di prete Ilario affresca la Cappella del Corporale nel duomo di Orvieto. Il
Corporale è il lino insanguinato utilizzato nella miracolosa Messa di Bolsena avvenuta nel
1264 e macchiatosi di sangue sprizzante dall'Ostia al momento della celebrazione eucaristica
da parte del sacerdote boemo Pietro da Praga. La reliquia è conservata oggi entro un
tabernacolo realizzato nel 1358-1363 da Nicola da Siena e, probabilmente, anche dall'Orcagna.
Il miracolo del Corporale di Bolsena, è quell’evento che ha originato tre delle più belle opere
d’arte del periodo: questo ciclo affrescato, il reliquiario in argento dorato e smaltato che
contiene il resti del Corporale macchiato del sangue di Gesù, realizzato da Ugolino di Vieri, il
duomo stesso di Orvieto, magnifico contenitore del tutto.196
Ugolino, con gli affreschi della Cappella del Corporale e con quelli dell’abside, iniziati
nel 1370, dipinge uno tra i più estesi complessi di pitture murali del Trecento italiano a noi
pervenuto, che firma: “Ugulinus pictor de Urbeveteri”. Questa è la prima opera che conosciamo
di Ugolino, con lui hanno collaborato Giovanni Leonardelli e molti aiuti.197 «Il ciclo è, senza
mezzi termini, un’opera di grande complessità, ricco di svariati riferimenti culturali e il
risultato delle esperienze figurative di alto rango sviluppatesi in città [Orvieto] nel corso della
prima metà del secolo».198 La grande Crocifissione sullo sfondo, datata giugno 1363 e firmata, si
ispira al modello di Pietro Lorenzetti nel braccio sinistro del transetto della Basilica Inferiore
di San Francesco ad Assisi e ricorda «con maggiore aderenza il drammatico fulgore del
memorabile Calvario, assegnato tradizionalmente a “Barna” e ora ricondotto alla “Bottega dei
Memmi”, visibile sulla parete sinistra della Collegiata di San Gimignano».199
L’affrescatura della cappella si prolunga fino al 1364. Ugolino, tra il 1364 e il 1367
partecipa insieme al Leonardelli alla esecuzione di alcuni mosaici della facciata del duomo e
poi nel 1370 inizia la decorazione della Tribuna dello stesso duomo e vi lavora fino al 1378.
Nel 1380 fa altri mosaici per la facciata, nel 1384 redige il suo testamento e vent’anni dopo è
morto. Vi è tra i critici chi ravvisa la mano di Ugolino in alcuni affreschi di Todi in San
Fortunato, nel quale si raffigurano le Storie del Battista.200
Ugolino dimostra una notevole capacità di inserire nelle storie che dipinge «una serie di
episodi marginali di schietto sapore realistico». In particolare le immagini che il pittore
dipinge nella tribuna del duomo, sono ricche di una «vivacità che trova riscontro in Umbria
solo nelle miniature di Matteo di ser Cambio, con cui l’artista condivide anche una marcata
attenzione per l’arte di Lippo Vanni».201
Tra il 1357 e il 1359202 Giottino dipinge il Compianto sul Cristo morto. È un’opera di
straordinaria innovazione per la disposizione coerente delle figure nello spazio, «nella scena
l’unico elemento architettonico è dato dalla croce che, imponente fa mostra di sé contro lo
sfondo dorato».203
Lippo Vanni dipinge il trittico della chiesa dei Santi Domenico e Sisto a Roma.
196 Sul Reliquiario del Corporale, si veda MIRKO SANTANICCHIA, Oltre il Reliquiario del Corporale?
L’oreficeria ad Orvieto sul finire del Medioevo, in Storia di Orvieto; II, Il medioevo, p. 539-559.
197 Tra loro Petrucciolo di Marco padre di Cola e di Pietro di Puccio, Domenico di Meo e Antonio di
Andreuccio; CORRADO FRATINI, Pittura e miniatura ad Orvieto dal XII al XIV secolo, in Storia di Orvieto; II, Il
medioevo, p. 479-480.
198 CORRADO FRATINI, Pittura e miniatura ad Orvieto dal XII al XIV secolo, in Storia di Orvieto; II, Il medioevo, p.
480.
199 CORRADO FRATINI, Pittura e miniatura ad Orvieto dal XII al XIV secolo, in Storia di Orvieto; II, Il medioevo, p.
480.
200 CORRADO FRATINI, Ugolino di Prete Ilario, scheda biografica in La Pittura in Italia, il Duecento e il
Trecento.
201 TODINI, Pittura in Umbria, p. 409.
202 Per la data si veda L’eredità di Giotto, scheda 38 del catalogo, di FEDERICA BALDINI.
203 Ibidem.
1357
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CRONACA DELL’ANNO 1358
§ 1. L’assedio di Cortona
Perugia, «governata dal popolo minuto», rimarca il popolano grasso Matteo Villani,
anche se frustrata nei suoi tentativi di conquista di Cortona, non può ora desistere, perché il
clima che c'è in città è infocato. Assolda nuove truppe. Firenze dal canto suo, invece di essere
garante della giustizia, pende forse eccessivamente dalla parte di Perugia, penalizzando
Siena, e rifiuta di disporre proprie truppe a guardia di Cortona. I Fiorentini dunque si
limitano a biasimare a parole l'impresa di Perugia contro Cortona, ma non intervengono in
nessun modo a fermarla. Per tale inerzia fiorentina, i Perugini si imbaldanziscono ed
accrescono il numero d'armati ed, all'inizio di gennaio, chiudono con sei battifolle ogni
possibile via d'accesso alla città. Gli assediati possono contare praticamente solo sulla difesa
armata dei propri cittadini e di pochi mercenari, ma la minaccia esterna ha il potere di far
stringere intorno al signore tutta la cittadinanza, dimentica di odi e contese.4 Cortona chiede
aiuto a Siena. I Senesi cercano più volte di mettere masnadieri in città, ma i Perugini glielo
impediscono. Siena allora, ormai scoperta nelle sue intenzioni, decide di compiere l'impresa
mal iniziata. Diversi tentativi senesi di portare soccorso a Cortona, si concludono con
insuccessi, lasciando sul campo o nelle mani dei Perugini assai dei loro. Inconcludenti sono
1 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 59. Matteo Villani enumera le paci fatte: quella tra
Inghilterra e Scozia, tra Inghilterra e Francia, tra Castiglia ed Aragona, tra Venezia ed Ungheria, tra i
Visconti ed i collegati, tra re Luigi di Napoli e il duca di Durazzo, tra Perugia e Siena.
2 Chronicon Estense, col. 483: è la battaglia di Montechiari.
3 GORI, Istoria della città di Chiusi, col. 957, che erroneamente assegna il ritorno al 1357.
§ 3. Albornoz ad Avignone
Il cardinale Egidio Albornoz, tornato in Avignone, viene incaricato dell’ufficio della
Romana Penitenzeria «che gli dava modo di sorvegliare tutto l’ordinamento ecclesiastico in
materia di Diritto Canonico». Egli ricopre questo incarico dal novembre 1357 all’ottobre 1358,
sempre con la consueta solerzia e superiore capacità organizzativa, ma, certo, rimpiangendo,
nella quiete del suo lavoro, lo spreco delle sue qualità che la Chiesa, per invidie e gelosie, sta
facendo. Egidio ha recato con sé alla corte papale il vecchio Malatesta, prova vivente del
successo del cardinale spagnolo sui signori più pervicacemente ribelli dalla Romagna e del
Patrimonio. Il Malatesta sollecita che gli vengano restituiti alcuni villaggi o cittadine, che si
sono a lui ribellati, schierandosi con il cardinal legato. A corte si sono anche recati i
preoccupatissimi ambasciatori di Sant’Arcangelo, il primo comune ribellatosi ai Malatesta.
Sant’Arcangelo ottiene l’indipendenza dal Malatesta e il vicariato della Chiesa, per gli
innegabili meriti; Malatesta l’8 di gennaio ottiene il vicariato di sette ville.9 Gil continua a
rimanere informato degli avvenimenti d’Italia, e il pontefice lo ascolta spesso, per ottenerne il
consiglio, quando i casi del suo dominio temporale nella Penisola lo richiedano. Ad esempio
Egidio viene ascoltato quando arriva ad Avignone Nicola, arcipresbitero della chiesa di
Barbarano, quale ambasciatore di Viterbo. La città dove, per prima, il cardinal legato ha
5 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 27; PELLINI, Perugia, I, p. 971-972; Diario del Graziani, p.
184; BORGOGNI, La Guerra tra Siena e Perugia, p. 45.
6 Cronache senesi, p. 586.
7 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 28; la data del 10 febbraio è in MANCINI, Cortona, p.
9 Trebbo, Corpolo, San Paolo, San Martino in Vinti, Molazzano e Vezzano. Chronicon Ariminense,col. 906.
1358
316
La cronaca del Trecento italiano
dimostrato la sua determinazione e capacità, liberandola dal dominio del potente prefetto
Giovanni di Vico.10
1358
317
Carlo Ciucciovino
e Veneziani e mercenari. Gli scorridori cavalcano il paese e razziano una gran quantità di
bestiame, facendo anche molti prigionieri. Sirampono ha anche assalito una grossa brigata di
Ungheresi, facendo scaturire un combattimento con reciproca «grande uccisione e
ispargimenti di sangue». Poi, temendo di esser sorpreso dall’eventuale reazione del nemico,
decide di ritirarsi a Treviso. Ma gli Ungari, sul chi vive, hanno reagito prontamente, favoriti
anche dal loro armamento leggero, uscendo dai loro campi e castelli. Sirampono si imbatte in
una schiera di Ungheresi condotta dal nobile Stefano e da Piero Ongaro.13 Gli Ungheresi
«cominciarono da ogni parte ad impedire colle loro saette i nemici», impedendone la ritirata.
La quantità di Ungari aumenta di momento in momento e la loro tecnica di combattimento, al
solito, esaspera i più pesanti cavalieri occidentali. Gli Ungari lanciano frecce e si ritirano
rapidi sulle loro cavalcature, i cavalieri in armatura pesante inseguono e, all'improvviso, si
trovano oggetto di un nuovo agile attacco ungherese che li bersaglia, ferisce ed uccide sia
uomini che cavalcature. Alla fine, i Trevigiani sono costretti a ritirarsi abbandonando tutta la
preda, e lasciando sul terreno 600 dei loro tra morti, feriti e prigionieri. Lo stesso Sirampono,
con 200 dei suoi viene catturato e tradotto in prigione a Padova. Tutte le armi dei caduti e dei
prigionieri sono caricate su 50 carrette e portate a Padova, per esser vendute. Per tutta la
durata della guerra da Treviso non saranno tentate più sortite.14 Guerra d’altro canto ormai
agli sgoccioli: «havendo i Viniziani consumato il tempo della matta follia», che per anni li ha
fatti misurare con il re d'Ungheria, «con molto loro danno». Il nuovo doge Giovanni Dolfin
decide di ricercare la pace con ogni mezzo, dandone mandato pieno agli ambasciatori
designati, Pietro Trevisan e Giovanni Gradenigo, col cancelliere Benintendi de’ Ravignani. Re
Ludovico li riceve graziosamente, e malgrado che Venezia sia disposta ad una resa
incondizionata, Ludovico pretende solo quanto richiesto l’anno precedente, e superbamente
(e avventatamente) rifiutato dai Veneziani. In sostanza che tutte le terre della Schiavonia
siano libere da Venezia, per sempre. Da magnanimo re, quale si ritiene, non vuole riparazione
in denari, ma chiede che quando egli domandi armati a Venezia, la repubblica, senza indugi,
gli fornisca, fino a 24 galee, ma a spese del re. Su tali basi la pace viene conclusa. I Veneziani
restituiscono Zara e tutte le terre dell’ Istria, Dalmazia e Schiavonia15 al re ungherese e
Ludovico, in febbraio, invia i suoi incaricati a rendere alla repubblica del Leone tutti i castelli
di cui gli Ungari si sono impadroniti nel Trevigiano, incluso Conegliano. I Veneziani,
sinceramente stufi della guerra, in consiglio, decretano che «di niuna materia di guerra si
dovesse ragionare e che catuno si dirizzasse al navicare e a fare mercatanzie». La pace viene
conclusa a Zara, nella sacrestia della chiesa di San Francesco, il 18 febbraio 1358, e nello stesso
giorno viene ratificata da re Ludovico e giurata sui Vangeli. Il 24 febbraio viene annunciata a
suon di tromba nelle piazze di Treviso e domenica 25, ratificata e giurata dal doge Dolfin
nella chiesa di San Marco.16
Francesco da Carrara che si è molto dato da fare per la pacificazione tra i due potenti
avversari, viene incluso nel trattato come aderente di re Ludovico. In altri termini, re
13 Gatari, dice 47 cavalieri, ma questi sembrano decisamente troppo pochi per impensierire e sconfiggere
1.000 avversari.
14 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 23 e GATARI, Cronaca Carrarese, p. 35.
15 Luigi ottiene molte cità de Dalmatia e de Croacia, çò fo Nona, Çara, Sibenicho, Schardona, Traù, Spallato,
Ragusa, Ossero, Cherso, Arbe, Curçola, Lexna, Pago e Vegla. Domus Carrarensis, p. 87. CORTUSIO, Historia,² p.
144-145 dice che pace viene pubblicata a Padova il 17 giugno.
16 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 30; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 81; Rerum
Bononiensis, Cronaca B, p. 81; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 82; Chronicon Estense, col. 483; Domus
Carrarensis, p. 87; GATARI, Cronaca Carrarese, p. 38-41; DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 158-159; LUCIO,
Historia di Dalmatia, p. 264; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 254-256; CITTADELLA, La
dominazione carrarese in Padova, p. 248-249. CRACCO, Venezia nel medioevo, p. 140 considera disastrosa la
pace conclusa e la vede come logica conclusione del potere dei “grandi dei traffici” che ha recato solo
problemi alla Serenissima. ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 205-206; CESSI, Storia della repubblica di
Venezia, I, p. 320-321. LANE, Storia di Venezia, p.219-220 narra la guerra, cavandosela in poche righe.
1358
318
La cronaca del Trecento italiano
Ludovico si impegna a difendere Francesco da chiunque, leggi Venezia, voglia offendere lui o
i suoi possedimenti. Francesco dovrà attendere fino a giugno del ‘58, per avere la sicurezza
che Venezia vorrà rispettare questa volontà.17
Venezia invia i suoi commissari a prendere possesso dei castelli e luoghi veneti restituiti
dagli Ungheresi, poi si dedica a premiare gli amici, tra questi i Trevigiani Pinamonte Ainardi,
Azzo Azzoni, Nicolò Tempesta. Altenerio Azzoni, che è stato a lungo in prigionia, viene
compensato con molti beni.18
Così commenta Adriano Augusto Michieli: «la cessione della Dalmazia e delle Isole che
fu in quel momento [per Venezia] una dolorosa necessità, finì poi per giovarle, poiché i
Dalmati, spesso irrequieti, ebbero modo di constatare coi fatti quanto fosse diverso il governo
magiaro da quello veneto e, allorché la sorte permise a Venezia di riavere le loro terre (fra il
1409 e il 1420) le rimasero poi sempre fedeli».19 Nota Cessi: «L’esperienza non tardò a
insegnare che la Dalmazia per vivere aveva bisogno della linfa rigeneratrice veneziana e che
la sicurezza adriatica non poteva esser garantita che da Venezia: nonostante le mutilazioni
territoriali inflitte all’orgoglio veneziano il dominio del Golfo non era abolito né infranto. Non
passerà molto che, con amara nostalgia, si rievocherà sopra l’altra sponda il ricordo del
benefico dominio veneziano».20
Anche Ragusa, dopo la cessione della Dalmazia veneta a re Ludovico, si consegna agli
Ungheresi.21
17 Domus Carrarensis, p. 87-90, dove è riportata anche la lettera che re Ludovico ha scritto a Francesco per
garantire la sua protezione. Il testo è anche in CORTUSIO, Historia,² p. 145-146. L’intera questione è ben
trattata in VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 256-260. Si veda anche CITTADELLA, La
dominazione carrarese in Padova, p. 252-253.
18 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 262-263.
1358
319
Carlo Ciucciovino
Castano. Di qui Ugolino Gonzaga, capitano dell’esercito, cavalca verso Novara e la conquista.
La rifornisce, la mura e la governa in nome del Monferrato, espellendo Antonio di Ribaldono
Torniello e tutti i membri della sua famiglia, che confina ad Asti, e consentendo il ritorno dei
Brusati e dei Caballaci. Vessa in modo insopportabile la popolazione, che, oltre tutto, per le
continue guerre, non può nemmeno coltivare la terra fuori delle mura. Non riuscendo a
difendere la città da Galeazzo Visconti e non potendo garantire la vita ai suoi cittadini, infine
Giovanni di Monferrato è costretto a cedere Novara agli armati della Lega. Ugolino Gonzaga
procede poi ad assediare Vercelli. Galeazzo è allora costretto a richiamare gli armati
dall’assedio di Pavia, lasciandone la cura ai Beccaria, che, ottenuta la promessa di un congruo
contributo monetario dal Visconti, e truppe per la difesa dei castelli, combattono attivamente
contro Pavia, trascinando con sé Voghera, Casale, Caselle, Broni, Arena, Montaldo e tutti gli
altri loro castelli del territorio. Pavia è terrorizzata dall’improvvisa concentrazione di forze
contro di lei, ma frate Bussolaro tiene in pugno la situazione, fa proscrivere i Beccaria ed i loro
sostenitori, ne fa annettere i beni al patrimonio pubblico, incarcera e fa decapitare molti
supposti traditori, istaura insomma un regime di ferro nella città. Domina non solo sulla vita
materiale del popolo, ma anche su quella spirituale, convincendo «le femine a deponere li
ornamenti suoi, vestendosi de vile abito e dil precio de suoi iocali ne stipendiava li militi per
defensione de la cità». Uomini e donne a Pavia, grazie all’influenza del frate, si vestono
principalmente di nero, le donne non portano ornamenti ed il velo copre tutto il loro viso,
tanto che se scorgono solo gli occhi. Un funzionario incaricato da Bussolaro va in giro a
«tagliare i maniconi delle guarnacche tessuti alla maniera frigia, o ornati d’oro e d’argento, e
tagliare le cinture se ad esse trovava appeso qualcosa di prezioso».24
I collegati dunque angustiano Galeazzo Visconti in Piemonte, correndo addirittura il
Milanese, mentre Bernabò è padrone del Mantovano.25
Intanto, i Modenesi decidono di fare qualche cosa contro Carpi e Campogalliano, ribelle
a Modena, e rifugio dei Viscontei, perciò il 23 gennaio escono dalla città da Porta Albareto e
Buzuaria e vanno a Campogalliano, in località Majagallo e si impadroniscono delle bastie qui
erette.26
§ 7. Riforme a Roma
Roma è scomparsa dalle cronache per qualche anno, ma certamente non sono cessate in
città le turbolenze e le sopraffazioni dei baroni romani. La magistratura interinale dei tredici
boni homines decade presto e, già dal 1355, vengono nominati di nuovo i Senatori.27 Sul finire
dello stesso anno sono riprese le guerre tra nobili, questa volta è una lotta intestina in casa
Orsini. I principali contendenti sono, da un lato Rinaldo e Giordano e, dall’altro, Giovanni.
Ma qualcosa di inconsueto, anche se non registrato da alcuno scrittore, né da documenti,
dev’essere avvenuto sul finire del ‘57, perché il popolo romano conferisce senato ed altre
cariche al pontefice, senza che ci risulti che le avesse precedentemente tolte. Non solo, ma ora,
24 AZARIO, Visconti, col. 377; e, nella traduzione in volgare, p. 130-131. Dalle maniche della guarnacca,
secondo la moda del tempo, pende un pezzo di stoffa foderato che, talvolta, scende fino a terra, di
nessuna utilità pratica e che ha funzione di rammentare la moda di una volta, quando le maniche erano
molto ampie e la loro parte inferiore arrivava ai piedi. Anche Annales Mediolanenses, col. 728-729 che
riecheggia Azario.
25 SANGIORGIO, Monferrato, p. 186-187.
26 BAZZANO, Mutinense, col. 627, l’autore ci tiene a descrivere la congiunzione astrale favorevole.
TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 37 dice che non risulta che i Modenesi siano riusciti ad impadronirsi dei
castelli, si sono limitati a scavare fosse ed erigere palizzate. Campogalliano è del marchese Galeazzo Pio.
27 I Senatori del primo semestre del ‘55 sono: Orso di Andrea Orsini e Giovanni di Tebaldo di
Sant’Eustachio, nel secondo semestre Luca Savelli e Francesco di Giordano Orsini; primo semestre del
‘56 Pietro, detto Sciarra, di Sciarra Colonna e Niccolò Orsini, conte di Nola; nel secondo, Orso di Jacopo
di Napoleone Orsini e Pietro di Giovanni Capocci. Nel ‘57 si trovano menzionati solo Pietro di Giordano
Colonna e Niccolò di Riccardo Annibaldi. DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 658.
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nel gennaio del ‘58 sta avvenendo una riforma istituzionale: vi è al potere un solo Senatore ed
è Giovanni di Paolo Conti di Valmontone, sarà l’ultimo dei senatori appartenenti alle grandi
famiglie romane. Quando, a marzo, sarà assente, la magistratura supplente è costituita da
Sette reformatores reipublicae, titolo rivelatore di cambiamenti in atto. Da luglio, quando
probabilmente, la riforma entra in vigore, vediamo l’istituzione di un Senatore forestiero,
quindi un vero podestà, come nel resto della Penisola. Il Senatore si basa sui Sette riformatori,
che ne costituiscono il consiglio privato, e su 52 tra caporioni, consoli delle Arti e consiglieri
tecnici (della grascia e della gabella), formanti il consiglio generale. La riforma, come
scopriremo man mano, porta ad emergere famiglie della piccola nobiltà e cavallerotti, quali
Quatracci, Sanguigni, Cancellieri, Boccabella, Baroncelli, Tomarozzi, Tosti, nonché Boboni e
Stefaneschi.28 Così commenta i mutamenti Ludovico Gatto: «tale riforma […] interpreta
fedelmente la politica antinobiliare albornoziana e, per quanto concerne l’Urbe, segna in
pratica la cessazione della funzione pubblica della nobiltà, cosa che Albornoz favorisce dal
suo arrivo nella penisola, quasi in ogni zona di competenza ecclesiastica, onde conferire
maggior potere al pontefice ancora lontano. Segnatamente però, tale orientamento ha
un’importante attuazione in Roma, in quanto sarebbe difficile restituire al papa il prestigio
precedente l’inizio del pontificato avignonese se la nobiltà dell’Urbe non accettasse di
compiere un passo indietro nell’amministrazione e nella politica economica della città».29
Il governo dei Riformatori, che verrà poi chiamato dei Banderesi, è la testimonianza che
l’opera di Cola di Rienzo non si è completamente dissolta in cenere: se il suo sogno fantastico
di rinnovare la potenza della Roma imperiale è naufragato, la sua lotta contro il potere dei
baroni ha provocato qualche effetto. Cola ha creato uno squilibrio nel potere baronale e,
almeno per una parte del suo dominio, il popolo ha contato qualcosa. La sua uscita di scena
ha mostrato agli occhi dei Romani il conflitto permanente tra i vari lignaggi e l’irrilevanza dei
loro sforzi per migliorare l’esistenza nell’Urbe. Il papa lontano non è più preoccupato di
preservare gli equilibri di potere tra le varie casate dei baroni, questi, a loro volta, rendono
precaria l’esistenza del cittadino, l’insicurezza delle strade comporta anche l’impossibilità di
effettuare investimenti produttivi e l’approvvigionamento della città è reso precario dal
controllo baronale sul territorio romano, subito al di fuori delle porte cittadine. Così Sandro
Carocci e Marco Vendittelli sintetizzano la ricostruzione tradizionale di quanto sta
avvenendo: «nella seconda metà del XIV secolo, e in particolare con l’avvento del solido
regime popolare dei Banderesi nel 1358, l’economia romana ha cambiato di ritmo, i capitali
cittadini sono affluiti verso le campagne introducendo nuovi rapporti di produzione,
produttività e rendita hanno raggiunto livelli prima ignoti, gli investimenti si sono
moltiplicati».30
Questo anno il comune di Anagni, in miseria, si sottomette a Onorato Caetani, conte di
Fondi.31
28 DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 658-661; GREGOROVIUS, Roma nel Medioevo, Lib. XII, cap. 1.2; GATTO, Storia di
Roma nel Medioevo, p. 473-474.
29 GATTO, Storia di Roma nel Medioevo, p. 473.
30 CAROCCI & VENDITTELLI, Società ed economia, p. 103 e 108. Si veda anche MAIRE VIGUEUR, Il comune
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rovinate o danneggiate. Non è quindi illogico che il marchese d’Este preferisca le trattative
della pace al prolungamento del conflitto.33
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congelamento delle azioni per un anno e la nullità di tutti gli scrutini fatti, viene approvata il
24 di aprile. Non è la soluzione di ogni male, ma concede tempo per riflettere ed agire e,
comunque, allevia l'intollerabile situazione.35
Grimaldi. Quello dei Fiorentini Niccolò Acciaiuoli. Le navi Fiorentine strappano ai Pisani un forte
castello nell’isola del Giglio, poi, andati a Porto Pisano, strappano le catene che sbarrano l’accesso al
porto e le inviano nella chiesa di San Giovanni Battista. MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 723.
38 BORGOGNI, La Guerra tra Siena e Perugia, p. 43.
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cavalieri sono obbligati a ripiegare; infatti messer Nicolò dei Cavalieri ha preso il castello in
nome di Perugia, ma non ha intenzione di aprirne le porte. Andrea Salimbeni comunque non
è più affidabile e i Senesi lo sollevano dal comando.39 Sembra che l'esercito senese voglia
valicare contro i Perugini per la via dell’Olmo di Arezzo, invece, dopo aver preso le
necessarie precauzioni, entra nell'Orvietano, galoppa verso il ponte Cavaliere sulle Chiane,
oltre Castello della Pieve, e passa prima che i Perugini se ne siano resi conto.
I Senesi sono ora nel Perugino, prima nel castelletto della Piegaia, poi alle Taverne di
Bertuccio e poi a Panicale sul lago. Ma non devastano il territorio per non aumentare
l'inimicizia della popolazione nei loro confronti. Il comandante dei Perugini , messer Leggieri
d'Andreotto, si spaventa per la decisione e la perizia dimostrata dalle truppe di Anichino, e,
vistasi chiusa la strada dei rifornimenti verso Perugia, decide di ritirarsi dall'assedio, per
evitare di esser intrappolato tra i Cortonesi ed i Senesi. Durante la notte, abbandona tutti i
battifolle, riducendosi solo in quello di Mezza Costa, e aumentandone le fortificazioni. Il
grosso dell'esercito viene ridistribuito nei castelli vicini. Il mattino seguente, 30 marzo, sabato
santo, i Senesi di Mainetto da Jesi, con le schiere spiegate in ordine di battaglia, avanzano nel
piano e prendono l'Orsaia indifesa. Poi entrano a Cortona, rifornendola di armati e viveri. La
domenica di Pasqua tornano all'Olmo e poi nel loro territorio a Torrita, sani e salvi.40 La
popolazione di Perugia, furiosa contro il comandante Leggieri, reo di aver abbandonato il
campo, si solleva e lo vorrebbe morto, ma Leggieri si rende irreperibile e l'ira popolare si
calma. Quando la situazione si fa meno tesa, messer Leggieri si presenta di fronte ai Rettori
del comune e, con parole ornate, «che le sapea ben dire», e con larghe promesse, riesce a
riacquistare la fiducia del governo e il comando dell'esercito che, prontamente, riconduce in
campagna. Smiduccio da Sanseverino viene comunque nominato capitano di guerra dai
Perugini.41
39 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 33; PELLINI, Perugia, I, p. 972-973; Diario del Graziani,
p. 184-185; BORGOGNI, La Guerra tra Siena e Perugia, p. 44-45. Ricordiamo che una barbuta è un’unità di
combattimento dove militano due cavalieri, uno in armatura pesante e l’altro, il suo scudiero, con
armamento più leggero.
40 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 34.
41 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 35; BORGOGNI, La Guerra tra Siena e Perugia, p. 44-50.
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compagnie di ventura. Invia suoi ambasciatori a Bologna, ad incontrare quelli della Lega, ed a
negoziare i termini della pace.42
§ 13. Petrarca
Un amico milanese di Francesco Petrarca, Giovanni Mandelli, vuole andare in
pellegrinaggio in Terrasanta ed invita il poeta a partecipare alla spedizione. Francesco rifiuta
ma prepara una guida per il viaggio, l’Itinerarium Syriacum. Il 4 aprile glielo consegna. Due
giorni più tardi, in occasione del 35° anniversario del suo innamoramento per Laura scrive la
composizione Tennemi Amor anni ventuno ardendo.43
Francesco Nelli (Simonide) da Avignone invia al poeta una lettera nella quale parla bene
di Giovanni Petrarca, figlio di Francesco.44
§ 15. Terni
Dopo Pasqua, i ghibellini cacciati da Terni vi possono rientrare, grazie ai buoni uffici di
Ugolino, conte di Montemarte, e di Bartolino de Ruinis.46
§ 16. Sansepolcro
I conti di Montedoglio, del lignaggio degli Schianteschi, sono nemici dei Boccognani, ma
appartengono pur sempre al partito ghibellino e quindi mal tollerano il governo guelfo di
Sansepolcro. Approfittando che la gran parte dei cittadini sono andati a prestare aiuto armato
a Perugia, in guerra con Siena a motivo di Cortona, penetrano con 600 fanti nel Borgo e lo
corrono senza incontrare resistenza. I terrazzani si rifugiano nel cassero e chiedono aiuto ai
loro vicini. I soldati di Città di Castello accorrono e entrano nella fortezza, rendendo illusorie
le speranze dei conti di Montedoglio di poter tenere il Borgo. Questi dunque, il giorno
seguente, lasciano la terra, recando con sé quanto hanno rubato. La loro retroguardia viene
tormentata e alcuni soldati presi o uccisi. Dopo questa cattiva esperienza, il 23 giugno il
Consiglio Generale di Borgo Sansepolcro istituisce una magistratura di Dieci Difensori del
popolo, deponendo i Signori Ventiquattro. I Dieci pensano bene di spartirsi il denaro che il
comune ha raggranellato per ricostruire quanto rovinato dai terremoti e, non sazi, angariano
42 GIULINI, Milano, lib. LXVIII a. 1358; AZARIO, Visconti, col. 356-357 e, nella versione in volgare, p. 101-
102. Azario ci fornisce un interessante particolare nello svolgimento della battaglia: «quella banda (la
Gran Compagnia) cominciò a disgregare la prima linea del signore di Milano e a separarla in cunei.
Quelli furono talmente lacerati che i nuovi arrivati delle forze del signore di Milano non riuscirono a
tenere il campo, ma furono messi in fuga, atterriti, insieme con gli altri già sconfitti». La sintesi in
COGNASSO, Visconti, p. 231-232. ALIPRANDI, Cronaca di Mantova,p. 135 mette in luce il merito di Ugolino.
43 HATCH WILKINS, Petrarca, p. 190-191; DOTTI, Petrarca, p. 324-325.
45 DE MUSSI, Piacenza, col. 503-504; POGGIALI, Piacenza, VI, p. 323. AZARIO, Visconti, col. 375; e, nella
traduzione in volgare, p. 127 afferma: «i Pavesi in acqua vincono sempre ed hanno molte navi grosse
come castelli, condotte dal Lago Maggiore, ivi chiamate Ganzerre, grazie alle quali i Pavesi hanno
conquistato molte cose»; evidentemente non vincono proprio sempre.
46 ANGELONI, Terni,p. 176.
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la popolazione. Dopo dieci mesi il popolo si leva a rumore, li depone e li caccia. Le loro case
vengono date alle fiamme ed i loro beni saccheggiati. Alla fine del 1358, grandi terremoti
colpiscono Borgo Sansepolcro. Molti edifici rovinano e alcuni abitanti preferiscono abitare in
campagna. L’occasione appare ghiotta a Città di Castello i cui armati, approfittando del buio
della notte, irrompono nel Borgo e tagliano a pezzi alcuni cittadini accorsi alla difesa. Gli
invasori si attestano dalla parte di levante e fortificano la fortezza di S. Angelo. Di qui danno
il sacco alla badia e a tutta la terra. Tutte le scritture pubbliche vengono portate e chiuse in un
armadio di ferro nella sagrestia del duomo del castello. I Tifernati costringono con le armi in
pugno l’abate Giovanni a rinunciare all’amministrazione spirituale. Rubano infine tutte le
suppellettili preziose. Chiamano allora Brancaleone Guelfucci a governare sia il Borgo che
Città di Castello. Brancaleone è una creatura della famiglia Bocognani, cacciata da Borgo con
l’accusa di tradimento.47
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inseguono fino «alle barre del borgo di Torrita», mettendosi poi ad assalirlo. Anichino non
resiste al proprio temperamento battagliero ed esce con i suoi, ma disordinatamente, e in
breve viene circondato e catturato col maliscalco dell'esercito e con 50 cavalieri. Esaltati
dall'inaspettato successo, molti cavalieri perugini scendono dalle loro cavalcature e si danno
ad assalire il borgo, e, incontrando scarsissima esistenza, riescono a prenderlo. Una sortita
senese cattura un temerario comandante perugino, messer Cagnuolo da Correggio, che, con
quaranta cavalieri, sta effettuando una puntata offensiva, per vedere se gli riesca di entrare
nel castello. Questo episodio rappresenta il punto di svolta del combattimento, i Perugini
ripiegano, ma saccheggiando e bruciando il borgo. Lo scontro si è concluso con la vittoria
dell’esercito perugino, che torna a Gracciano con molte bandiere di conestabili avversari,
trovate nelle case del borgo. Le perdite tra le due parti assommano in tutto ad un centinaio di
uomini, ma molti cavalli, la più parte dei Perugini, sono stati uccisi o feriti. «I Senesi
vilissimamente rotti,venendo la notte, distribuirono i cavalieri alla guardia delle loro terre e
scrissono al comune loro che, se di subito non s'havesse gente nuova al riparo, che il loro
contado sarebbe arso e guasto da' Perugini».49
Siena non ha armati da fornire, raduna allora quanti più denari possibile ed invia messi
ai signori di Milano, per soccorso e, in caso di fallimento, ad assoldare il conte Lando e la
Gran Compagnia. Nel frattempo, attendendo il risultato delle loro azioni, i Senesi sgombrano
il contado e radunano gente e animali dentro le terre murate.50
Non contenti, i Senesi tentano di creare diversivi e sobillano i conti di Montedoglio a
ribellarsi a Perugia. I conti di Montedoglio, una località montuosa a circa cinque miglia ad est
di Borgo Sansepolcro, apprendendo che molti degli uomini di Borgo Sansepolcro sono andati
in aiuto dei Perugini, lasciando mal fornita di sorveglianza la loro città, il 5 di aprile, con 600
fanti, entrano nella terra e la mettono a soqquadro, correndo e rubando. I pochi difensori si
arroccano nel cassero e mandano messi a richiedere soccorso ai vicini ed ai loro concittadini
che servono nell'esercito di Perugia. I signori dei castelli intorno accorrono e entrano nel
cassero, a rimpolparne le difese. I conti di Montedoglio, constatato che gli avversari si stanno
rinforzando e che molti altri potrebbero accorrere, «conoscendosi impotenti a potere tenere la
terra contro a tanti e tali nemici, già venuti al soccorso, e a quello che speravano (temevano)
che tosto dovesse venire», senza indugiare abbandonano il luogo, solo al secondo giorno
dopo la sua conquista, asportando i beni meno voluminosi e pesanti, ma lasciando nella
ritirata una scia di morti e feriti.51
Anche i Perugini sono alla ricerca di alleati e si rivolgono ai Tarlati, offrendo loro di farli
rientrare in possesso di Arezzo. Un'alleanza innaturale per i guelfissimi Perugini, e
totalmente contraria agli interessi di Firenze che, finora, è stata eccessivamente tollerante nei
confronti di Perugia. Perugia chiede ai Tarlati accorrere in soccorso di Borgo Sansepolcro,
segno evidente che ha compreso che i conti di Montedoglio sono stati fomentati dai Senesi,
ma essendo venuta meno la necessità, in qualche modo la segreta alleanza trapela,
preoccupando Firenze ed Arezzo, che comincia a montar la guardia giorno e notte. Messer
Luzimburgo, figlio del grande Piero Sacconi, si dissocia dall'alleanza con Perugia, si accosta ai
Senesi e va a servire nel loro esercito.52
49 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap.40 e 41; PELLINI, Perugia, I, p. 974-976; Diario del
Graziani, p. 185-186; MANCINI, Cortona, p. 203. La battaglia è ben narrata in BORGOGNI, La Guerra tra Siena
e Perugia, p. 50-65, con molti grafici.
50 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 42.
52 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 45. Anche il figlio di Luzinburgo, Ettore, milita per
Siena dal 1358 al 1359, si veda Cronache senesi, p. 587 e 591. Con Luzimburgo vi è anche Piero da
Pietramala. PELLINI, Perugia, I, p. 977.
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spedizione ritorna incolume conducendo con sé 200 prigionieri. dopo aver, questa sì, recato
molti danni.55
I Perugini in maggio iniziano ad edificare intorno alla bastia dell'Ossaia, «per farvi una
terra nuova», per tenere l'assedio in ogni stagione. I Cortonesi li lasciano fare, beffardamente
superiori, in quanto in totale possesso della montagna, e capaci, con i loro soldati, di far
pentire spesso i Perugini della loro insolenza.56
I Senesi riaffermano la loro signoria sul territorio organizzando una spedizione sul
Perugino, fino all'Olmo, a tre sole miglia da Perugia, «ardendo e guastando ciò che potero».
Anichino da Baumgarten, comandante dei Senesi, distrugge la badia al Petroio, presso
Montepulciano, ottenendo una ricompensa di 500 fiorini d'oro. Poi Anichino conduce
l'esercito, 1.000 cavalli e 500 fanti, sotto Monte San Savino, che si dovrebbe avere per
tradimento. Ma sembra che il più infido e traditore di tutti sia proprio il condottiero tedesco,
che ritarda la conquista della città, cercando di trarre il massimo frutto personale
dall'impresa. Il comportamento di Anichino è talmente obliquo da provocare una contesa tra
Tedeschi e Senesi, nella quale venti Senesi trovano la morte.57
Mentre si combatte, non si cessa dal ricercare una possibile via di amichevole
composizione del conflitto, grazie ai continui sforzi del comune di Firenze. I Fiorentini,
convinti di aver trovato un accordo, che, tra l’altro, prevede la consegna di Buonconvento,
invitano i Perugini a venire a prenderlo, per poi suggellare la pace. L'esercito perugino si
muove, ma il suo atteggiamento è di feroce guerra: ardono e guastano tutto ciò che possono,
quando incontrano case dei Tolomei le radono al suolo, perché appartenenti a nemici del loro
comune. Arrivati a Buonconvento ed avutolo dalle mani dei Fiorentini, non si fermano, ma
passano oltre ed arrivano alle forche di Pecorile, ad un solo miglio da Siena; pongono qui il
campo, distruggono le forche e si impadroniscono delle catene tese tra le pertiche, portandole
poi nella loro città. I Senesi si levano a rumore «e armossi tutto il popolo e sonaro le campane
di Siena a stormo». I Perugini, udite le campane e visto che i Senesi, armati, escono in gran
numero dalle mura, ritengono prudente fuggire. Determinazione assennata, visto che i Senesi
stanno già mandando armati ad impadronirsi dei passi, per intrappolare l'esercito perugino.
«Con prestezza, come rotti», i Perugini si ritirano, portando con sé trentasei malcapitati Senesi
e le catene delle forche di Pecorile, appese come trofeo di fuori delle finestre del palazzo del
podestà di Perugia. Il capitano del popolo di Siena, messer Agnolo di ser Chelotto, scaduto di
carica, senza attendere il sindacato, fugge, pieno di timore per esser stato il responsabile del
tentativo di pace con Perugia.58
55 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 48; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 82-83; Rerum
Bononiensis, Cr. Vill., p. 83; PELLINI, Perugia, I, p. 977-978; Diario del Graziani, p. 186; BORGOGNI, La Guerra
tra Siena e Perugia, p. 68-71.
56 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 56.
57 La cronaca di Siena prosegue con una notizia sicuramente sbagliata: «Un fortunato colpo di spingarda
sparato dagli assediati durante una scaramuccia, mette fine alla carriera, alla vita terrena ed alle
nefandezze del comandante tedesco. Gli succede nel comando il prefetto Giovanni di Vico». Cronache
senesi, p. 587.
58 Cronache senesi, p. 587-588.
59 PIETRO GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p. 298.
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siano più libere di spadroneggiare dove vogliano. Aix e le altre città della Provenza accolgono
il suggerimento e non solo, bruciano i sobborghi cittadini, devastano i raccolti, così che i
briganti siano costretti alla fame. Le truppe dell’Arciprete, che assediano Aix, non hanno così
di che sfamarsi. I Provenzali inoltre attaccano le terre dei signori des Baux e compiono anche
incursioni nel Delfinato. I gentiluomini provenzali radunano più di 800 cavalieri e con questi
compiono una devastante cavalcata sulle terre dei del Balzo e nel Delfinato, ma re Luigi di
Napoli, tradendo la sua parola, non accorre in aiuto e l'impresa rimane sterile, tesa ad
appagare solo lo spirito di vendetta. Comunque lo scacco dell’Arciprete di fronte ad Aix, il
diminuito numero dei suoi uomini e l’aggressività dimostrata dai Provenzali lo spinge ad
accettare la mediazione del papa.60
Raimondo del Balzo, dimostrando ingratitudine verso i reali di Napoli, si unisce al suo
parente Amelio del Balzo, mette insieme una compagnia di 4.000 uomini, e il 13 luglio
traversa il Rodano e il 24 luglio si impadronisce del castello di Saint-Cannat, che appartiene al
vescovo di Marsiglia. Quindi, uniti alle bande dell’Arciprete, devastano la Provenza. La
regina Giovanna sequestra simbolicamente le terre che appartengono ai del Balzo.61
Guglielmo Pietro Lascaris, conte di Ventimiglia, che abbiamo visto in passato
contrapporsi ai Provenzali, l’8 aprile ha fatto testamento e, poco dopo, è morto nel suo
castello di Tenda. Egli lascia molti figli, sia maschi che femmine, i maschi, Antonio,
Giovannino, Guglielmo Pietro, Pietro Balbo e Ludovico, si dividono equamente l’eredità
paterna, le femmine sono state in gran parte già maritate a famiglie della zona, solo due,
Violante ed Eleonora sono ancora nubili.62
60 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 50 e 54; LEONARD, Angioini di Napoli, p. 479-480;
GALLAND, Les papes d’Avignon et la maison de Savoie, p. 112; PIETRO GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime,
edizione in volumi, vol. 3°, p. 299 questi ci dice anche che i mercenari rimasti con l’Arciprete assumono
il nome di Compagnia della rosa.
61 DEL BALZO DI PRESENZANO, A l’asar bautezar!, vol. I, p. 175 e 202-203. Amelio del Balzo, nato verso il
1322, è signore di Brantes, Caromb e Plaisans, nel 1367 diverrà siniscalco del re Carlo V per Beaucaire e
Nimes.
62 PIETRO GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p. 300-301. Le altre figlie
hanno sposato rispettivamente: Giovanna Pedrino Alfardo dei conti di Ventimiglia, Vataccia Manuele
Faletti, Salvaga Opicino, Alisenda Giorgino Alasi di Cuneo.
63 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 49; il legato è all’assedio dal 3 aprile: Rerum
bastia è Santa Croce, per essere stata fondata il giorno dell’Invenzione della Santa Croce: BONOLI, Storia
di Forlì, p. 423-424. SPADA, Gli Ordelaffi, p. 137-141.
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disgiunte, quindi occorre conquistare Forlì e liberarsi di Francesco Ordelaffi, per poter
affrontare degnamente la questione di Giovanni d’Oleggio a Bologna. Occorre un successo,
ma Androino non è in grado di assicurarlo.65
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con Como e Pavia, e, infine l'accesso al mare, la perdita di Genova e Savona. Ogni smacco dei
Viscontei non scuote la loro potenza, perché infinita sembra la ricchezza con la quale sono in
grado di assoldare nuove truppe. Anche se i collegati possono vantare vantaggi tattici, la
guerra li sta lentamente sfibrando e nulla di meglio della pace è ciò che agognano. Grazie alla
mediazione di Feltrino Gonzaga, si concluderà la pace alla fine di maggio.69
Le trattative di pace sono iniziate l’8 marzo, ben prima della battaglia di Montechiari,
quando ambasciatori viscontei si sono recati alla corte estense a negoziare una tregua. Ad
aprile sono iniziate le trattative e, dopo lunghe discussioni, alla fine di maggio l’accordo è
raggiunto e la pace può essere firmata l’8 giugno.70
69 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 57. Per qualche dettaglio si veda RICALDONE, Annali
del Monferrato, I, p. 339. Romanzata cronaca delle trattative in ALIPRANDI, Cronaca di Mantova,p. 136.
70 COGNASSO, Visconti, p. 232; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 82-83; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 82;
Chronicon Estense, col. 483 ci fornisce i nomi degli ambasciatori. BAZZANO, Mutinense, col. 627-628 e
TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 37 parlano degli ambasciatori che vanno a Milano a negoziare la pace.
71 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 481-484; UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 247-251;
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73 CONTAMINE, La Guerra dei cent’anni, p. 39-41; SEWARD , The Hundred Years War, p. 95-96; FROISSART,
75 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 51. La splendida festa che ha preceduto la pace è
77 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 61. Il brigantaggio, unito alle ribellioni dei baroni e
alle bande mercenarie che si sono staccate dai corpi principali e vivono di rapina, sono un problema
endemico del regno di Napoli, basti scorrere quanto scrive in molti luoghi Matteo Camera, ad esempio
CAMERA, Elucubrazioni, p. 159, 185, 215, 236.
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81 BAZZANO, Mutinense, col. 628; Chronicon Estense, col. 484 parla di 15 giorni di festeggiamenti a Ferrara.
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nocte con le scale havea facta la prima intrada». Il processo di pacificazione perciò richiede
tempo e cautela. Il doge invia a Padova due nobili procuratori di San Marco come
ambasciatori della Serenissima. Francesco e gli ambasciatori se ne stanno chiusi per ben
quattro giorni a parlamentare, poi, finalmente «el dì quarto el magnifico meser Francesco con
la conpagnia de molti chavalieri et altri nobili andò a Vinesia». Molti nobili gli si fanno
incontro per accoglierlo festevolmente, e tanto è l’afflusso che, «siando in le lagune, l’era tanta
la moltitudine delle barche, ch’apena se vedea l’aqua». Messer Francesco arriva a San Marco,
sbarca e viene accolto da dignitari della repubblica che lo scortano fino a palazzo ducale, dove
il doge Giovanni Dolfin lo viene ad accogliere alla scala. I due scambiano poche parole, poi
Francesco viene accompagnato al suo palazzo. Il giorno seguente, l’11 di giugno, si
finalizzano le trattative, e, alla presenza del doge e di Francesco da Carrara, i procuratori
Piero Trivisan e Andrea Contarin approvano i patti di pace per conto di Venezia e Giglio da
Casale, in qualità di sindaco, per conto di Padova. Per il trattato, Francesco e Padova hanno
diritto a tutto il sale che chiedano. Per più giorni Francesco si trattiene a Venezia, a godersi la
riacquistata concordia ed a stringere le necessarie relazioni personali con i suoi dignitari. Le
feste in occasione del suo soggiorno sono memorabili: «et sì tenne el magnifico signor mesier
Francesco a Venesia in corredi et convivi corte generale, alla qual fo tutti i maori de quella
terra, alla qual corte fo tanta moltitudine et abundança de victuarie, che ogn’omo se
meraveiò».84
84 Domus Carrarensis, p. 87-89; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 257-260; CAPPELLETTI,
Padova, I, p. 281-286 che riporta il trattato tra Venezia e Francesco da Carrara. ROMANIN, Storia di Venezia,
III, p. 206-207.
85 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 60. Prima si sono fermati nel Modenese a Villa de
Cexiis; sono circa 4.000 uomini a cavallo e 90 bandiere di fanti. Il 25 giugno, incassato lo stipendio,
partono. BAZZANO, Mutinense, col. 628-629.
86 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 62; Cronache senesi, p. 588.
87 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 64. TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 39 ci riferisce il
conte Lando il 21 giugno si è presentato a Villa di Cesi (Bastia nel Modenese) in attesa di riscuotere le
sue paghe dall’Este, vi soggiorna per 4 giorni e non arreca danni; ricevuti gli stipendi, parte.
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91 Ferrando, o Ferran o Fernando è figlio di Eleonora di Castiglia, mentre Pietro IV è figlio di Teresa de
Entenza.
92 HILLGARTH & HILLGARTH, Pere III of Catalonia Chronicle, vol. II, p. 517-518, cap. XVII, ESTOW, Pedro el
94 ESTOW, Pedro el Cruel, p. 192-196; O’CALLAGHAN, A History of medieval Spain, p. 422; AYALA; Coronica del
rey don Pedro, 1358, cap. II, III, IV, V, VI e VII. Fadrique è il gemello di Enrico Trastámara.
95 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 81 e 82.
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La cronaca del Trecento italiano
tornarsene a piedi.96 Non scoraggiato dalla fortuna avversa, Pietro di Castiglia incarica Martin
Yanez di Siviglia di approntare una nuova flotta. Yanez dimostra una straordinaria capacità e
riesce ad armare a Siviglia dodici galee in otto mesi, oltre a ripararne altre quindici.97
§ 38. Orvieto
Orvieto è atterrita dalla minaccia rappresentata dalla Gran Compagnia, più di 6.000
cavalieri ed altrettanti fanti, al comando del solito conte Lando, ed il 29 luglio invia a chiedere
aiuto al legato ed a chiedere cosa debbano fare per aiutare i Tudertini, minacciati dalla rabbia
di questi lupi. Gli Orvietani saranno richiesti solo di contribuire con 2.000 fiorini al pagamento
che il legato Albornoz ha concordato con i mercenari.100
100 Il pagamento sarà dovuto il 30 marzo 1359, e poi prorogato di un mese. Ephemerides Urbevetanae, Degli
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Carlo Ciucciovino
Guidi ed agli Ubaldini. Inoltre, invia disordinatamente cavalieri e balestrieri nel Mugello, alla
guardia dei passi. Tenta poi la via della corruzione, mandando Filippo Machiavelli a cercare
di corrompere i caporali tedeschi. Ma la somma stanziata, 5 o 6.000 fiorini è troppo scarsa e
questa via fallisce.102
Il conte Lando, di cui si dice che sia andato dall'imperatore per offrirgli le città di Toscana
che sarebbero cadute in suo possesso, raggiunge la sua Compagnia il 20 luglio, prima che
passi il confine. Egli per ora non vuole affrontare Firenze ed ordina di trattare nuovamente.
Gli ambasciatori di Firenze, riconvocati si vedono presentare le richieste della Compagnia: un
itinerario prefissato, per Marradi, poi tra Castiglione103 e Biforco, attraversare verso sud per
Belforte e Dicomano, a Vicorata, a Isola e di qui a San Leolino e Bibbiena.104 Se i Fiorentini
apparecchieranno panatica, la Gran Compagnia è disposta ad acquistare le derrate. Firenze
decide di accettare e inizia a mandare vettovaglie nei luoghi concordati.105
La Compagnia si muove e, il 24 luglio, si accampa tra Castiglione e Biforco. Ma, da gente
disordinata ed arrogante qual è, non tiene fede ai patti; i soldati prendono i viveri senza
pagare, rubano i cavalli e usano violenza alla popolazione. Ma hanno fatto male i loro conti: i
villani di Biforco, fedeli dei conti da Battifolle, si intendono con quelli di Castiglione, sudditi
del conte Alberghettino Manfredi da Faenza, ed a loro si uniscono altri di Val di Lamone e si
dispongono in agguato. La notizia viene riportata al conte Lando, che, nella sua superbia,
mostra di non tenerla in nessun conto. Comunque, quando sul far del giorno, si mette in
marcia, divide l'esercito in drappelli e in testa a tutti mette messer Amerigo del Cavalletto, e
con lui gli ambasciatori fiorentini, meno uno che trattiene col grosso. In retroguardia pone i
conestabili con la cavalleria leggera e con 500 fanti, al comando del conte Broccardo. Il
percorso, anche se non lungo, è aspro e disagevole, perché la via, «venendo da Biforco al
Belforte presso alle due miglia della Valle, quinci e quindi (è) fasciata dalle ripe e stretta nel
fondo, dov'era la via, la qual si leva dopo alquanto di piano, repente ed erta a maraviglia,
inviluppata di pietre e di torcimenti (e tale passo è detto alle Scalelle) che bene concorda il
nome con il fatto». Messer Amerigo transita tranquillamente, ché ancora non sono giunti i
villani, un'ottantina, che arrivano subito dopo e si scelgono posizioni da cui lanciare massi
senza poter essere minacciati. Finalmente, mentre uno dei maliscalchi sta passando, una
pietra rotolata dall'alto lo costringe ad indietreggiare. Il conte Corrado di Lando, tolta la sua
barbuta, sta placidamente mangiando a cavallo, quando viene informato dell'accaduto e,
immediatamente, si pone l'elmo in capo e grida l’allarme. Come se questo fosse stato un
segnale atteso, su tutte le vette circostanti si fanno scorgere i villani, e cominciano a far
rotolare grosse pietre sui soldati tedeschi «ch'erano in basso del fossato, quasi come in
prigione, chiusi da altissime ripe. Il conte non spaventato, né invilito per lo subito assalto,
come huomo d'alto cuore e maestro di guerra, di subito fece smontare da cavallo circa a cento
Ungheri, e li fece montare per le ripe, per cacciare i villani dalle ripe, ov'erano posti, con le
frecce e le grida». Ma gli Ungari sono appesantiti dai giubboni e dalle armi e non riescono ad
inerpicarsi, anzi i villani, bersagliandoli di pietre, ne uccidono molti e i superstiti ripiegano a
valle. Mentre il conte cerca difficoltosamente di organizzare una qualche reazione, «una
grande pietra mossa nella sommità del monte da parecchi villani, scendendo rovinosamente,
percosse il conte Broccardo, e lui e'l cavallo ne portò nel fossato e uccise». Simile sorte tocca a
molti dei malcapitati mercenari. Mentre continua la carneficina, i più ardimentosi dei villani
lasciandosi il Monte di Gamogna a sinistra, fino a San Benedetto in Alpe, prendere qui la SS 67 fino a
Dicomano, proseguire per 3,5 km, poi, all’altezza di Sandeto, prendere la SS 310 che, per Stia e Poppi,
conduce a Bibbiena.
105 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 73.
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si sono portati a distanza di combattimento con i venturieri. Un seguace del conte Guido, al
comando di dodici valorosi, assale alcuni cavalieri che, raccolti in un luogo angusto, non sono
in grado di schierarsi per affrontare degnamente un combattimento; tra questi è il conte
Lando. Il conte si difende valorosamente con la spada, ma non può resistere a lungo, ed alla
fine si arrende, porgendo la spada per la punta. La resa viene ricevuta, il conte Corrado si
toglie la barbuta, ed uno dei villani slealmente gli mena un colpo di lancia sulla testa,
ferendolo gravemente. Vista la resa del loro comandante, tutti i cavalieri discendono dalla
cavalcatura, «e come il più presto poterono, spogliate l'armi, per essere leggieri, si diedono
alla fuga e come ciascuno meglio potea, saliendo per le ripe e per li boschi e burrati fuggendo.
Allora non solo gli huomini, ma le femmine, ch'erano corse al romore, a atare (aiutare) i loro
mariti almeno con voltare delle pietre, gli spogliavano, e loro togliendo le cinture d'argento, e
danari, e gli altri arnesi». Molti riescono a scampare in questa maniera, ma molti ed anche dei
migliori periscono in modo miserando. Tanti sono i prigionieri, trecento cavalieri sono morti,
e più di mille cavalli e ben trecento ronzini sono perduti, senza contare i beni e le armi. Anche
di coloro che sono scampati al passo, molti vengono catturati da altri paesani che non si sono
trovati alla zuffa.106
L'ufficiale del conte Guido che ha catturato il conte Lando, per continuare a combattere,
affida il ferito prigioniero a due dei suoi villani. Corrado teme fortemente che questi lo
conducano a Biforco, dove la sera prima ha evidentemente fatto qualcosa che gli fa temere
vendette. Li scongiura quindi di portarlo altrove, ed egli darà loro 2.000 fiorini. Una cifra
inimmaginabile per i due montanari, che, anche se l’ufficiale spartirà con loro una parte della
ricompensa che certamente gli sarebbe toccata, molto meno avrebbero avuto. La tentazione è
troppo forte e i villani conducono l'illustre prigioniero dalla moglie di messer Giovanni
d'Alberghettino Manfredi, che è sorella di Giovacchino di Maghinardo degli Ubaldini, presso
cui lo fa trasportare, a Castel Pagano. Saputo il luogo della prigionia del suo alleato, Giovanni
Visconti d'Oleggio, gli manda i suoi medici personali a curarlo. Quando l’illustre ferito sarà
trasportabile se lo farà venire a Bologna, e lo alloggerà nelle case degli Albertini, dove,
malgrado la gravità della ferita, riuscirà a farlo guarire. Quando Corrado partirà da Bologna,
guarito, cadrà in grave infermità, anche per la sua intemperanza per il vino; più volte sarà in
pericolo di morte, «e liberato dal male, rimase in assai povero stato».107 Questa è però storia
futura.
L'attacco è avvenuto contro il grosso e la retroguardia, quando messer Amerigo del
Cavalletto è già passato ed ha condotto l'avanguardia verso i prati di Belforte. Egli apprende
la notizia nel modo peggiore: vedendo i suoi in fuga ed il nemico all'inseguimento. Amerigo
non ha esitazioni: con i suoi capitani si aggruma intorno agli ambasciatori fiorentini, che
minaccia di uccidere, se non manterranno la loro parola di libero passo. I malcapitati
ambasciatori, non meno sbigottiti di messer Amerigo, lo rassicurano sulla loro buona fede, e
su quella del loro comune. Poi, anche se sprovvisti della necessaria autorità, cominciano a dar
ordini ai fedeli del conte Guido, intimando loro di non offendere chi è protetto dal comune di
Firenze. Si può immaginare con quale sollievo si vedono obbediti! I Toscani rientrano nei
ranghi, mentre i mercenari «tutti insieme stretti, si ritirano, e per le strette vie delle piaggie in
106 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 74; la notizia viene data molto blandamente dalle
cronache di Bologna, Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 84-85; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 81-82;
Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 84-85. Secondo le cronache di Bologna Giovanni Alberghinetto Manfredi
di Faenza ha avuto un ruolo importante nella sconfitta dei mercenari. La sconfitta è avvenuta tra il
castello di Marradi e le Scalelle. Solo un vago cenno in BAZZANO, Mutinense, col. 629. CHINI, Storia del
Mugello, Lib. V, cap. X, p. 294-300 specifica che i popoli mobilitati sono quelli di San Gaudenzio e San
Bavello, nonché i terrazzani di Dicomano. Si veda anche BUCCIO DI RANALLO, Cronaca Aquilana, p. 257-
258 senza particolari originali e PANSA, Quattro cronache, Cronachetta anonima, p. 58 e Cronaca
dell’Anonimo dell’Ardinghelli, p. 28-29 che riecheggiano Buccio.
107 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 75.
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Carlo Ciucciovino
quel dì si ridussono in Dicomano, e ivi con botti e altro legname, sanza perdere tempo,
s'abbarrarono come meglio poterono». Si consideri quanta urgenza e paura v'è in
quell'utilizzare le botti per ricavarne staccionate. Paura giustificata d'altronde, in quanto
Firenze ha ormai su quelle montagne, in quelli stretti passi, più di 12.000 fanti, dei quali 4.000
balestrieri scelti, e 400 cavalieri, ma ancor più dalla decisione e ferocia dei montanari «ch'elli
havieno assaggiati».108
La cronaca di Siena non registra alcun dettaglio sulla disfatta della compagnia, mette
invece in evidenza i lutti dei Fiorentini, dicendo che «tutti quelli che erano morti dei
Fiorentini, erano portati in bara a Firenze, e grande quantità, in modo che Firenze era tutta in
pianto». Entrano in città i cadaveri in dieci o venti per volta, in bara e su carri, ed il comune
vieta che si debba piangere o far corrotto per i morti. Il cronista Donato di Neri registra che,
alla fine del combattimento, è la Gran Compagnia ad avere la peggio, viene sconfitta e rotta, e
il conte Lando ferito, e molti dei suoi comandanti uccisi, tra cui il conte di Provenza, messer
Federico de' Stinberghi e il conte di Senabruzi «coll’arme verde».109
Marchionne di Coppo Stefani rileva che «se non fosse ch’egli [i mercenari] si ridussero in
su uno monte, e quivi si difesero, erano tutti morti. Li paesani trassero ed assediargli; e certo
in due dì li arebbono tra di fame e di sete e di ferro, tutti morti con l’aiuto che venìa loro, se
non fosse che l’astuzia di messer Amerigo Cavalcanti, che li guidava per lo comune di
Firenze, che con sottili modi la notte alle guardie ingannò, e loro condusse a partirsi; e
andarne salvi».110
Il comune di Firenze, avuta notizia delle novità, si riunisce in gran fretta e, a grande
maggioranza, decide di tenere i passi, così da impedire il transito alla Compagnia, «e che non
si desse loro niuno rifornimento, né si vietasse ad alcuno la loro offesa». Quindi non solo
propositi difensivi, ma attivamente offensivi, e allegramente accettati dai montanari che si
affollano sui passi, «con grande appetito di cominciare la zuffa». Ma mancano i capi che siano
in grado di preordinare e comandare l'attacco, e viene così perduta la storica occasione , che
«se fatto si fosse, come fare si potea e dovea, in Dicomano, sanza rimedio, si spegnea il nome
della Compagnia per lungo tempo in Italia»111
Intanto, si è precipitato a Firenze uno degli ambasciatori, uno «di grande autorità e
podere», Amerigo Cavalcanti, che, inviato dai suoi colleghi in balia dei mercenari, cerca di far
recedere il consiglio dalla sua decisione. Ma inutilmente. Firenze appare ben determinata ad
estirpare la mala erba, tuttavia l'ambasciatore insiste autorevolmente, riuscendo per ben tre
volte a far convocare il governo, sempre ottenendo la stessa decisione. Anzi, i Fiorentini
stanno realmente pianificando l'attacco. La Compagnia è stretta in Dicomano, scarsa di viveri,
e circondata in modo tale che i soldati non possono né resistere, né fuggire. I balestrieri
controllano tutti i passi, e quelli più larghi sono stati muniti di fossati, per impedire il
passaggio. I 400 cavalieri sono comandati da un capitano tedesco di nome Broccardo, antico
conestabile del comune di Firenze. La fedeltà di nazione più può in Broccardo di quella a
Firenze, egli si reca a convegno da messer Amerigo e dagli ambasciatori, e si lascia facilmente
convincere dai traditori fiorentini a scortare i superstiti della Gran Compagnia in Mugello. Al
Vespro messer Broccardo ed i suoi cavalieri fanno uscire i mercenari, e, ponendosi in
retroguardia, li riparano dai fedeli del conte Guido. Hanno intanto fatto riempire i fossati ed
108 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 76; AZARIO, Visconti, col. 346-347; e, nella traduzione
in volgare, p. 86 fornisce l’informazione sulle cure del conte Lando a Bologna. Egli aggiunge: «volesse
Dio che non fosse rimasto in vita, visto tutto ciò che ne seguì». Appena un cenno in Annales
Mediolanenses, col. 726.
109 Cronache senesi, p. 588.
110 STEFANI, Cronache, rubrica 677. Amerigo Cavalcanti è uno dei quattro ambasciatori, gli altri sono
Manno Donati e Giovanni de’ Medici, cavalieri, e Rinieri Peruzzi. I nomi sono in AMMIRATO, Storie
fiorentine, lib. XI, anno 1358, vol. 3°, p. 224. Si noti che Matteo Villani non li nomina.
111 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 77.
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abbattere le staccionate, ammainate tutte le insegne dei venturieri, per non provocare, issata
solo quella del comune di Firenze, e disposti i balestrieri fiorentini sulle due fasce laterali per
proteggere i soldati della Compagnia. Quando, incuranti di tutto, i montanari del conte
Guido attaccano, Broccardo ordina ai balestrieri che tirino sui Toscani, costringendoli alla
ritirata, più per la delusione, che per i dardi traditori di Firenze. Cala la sera su una delle
giornate più ingloriose e vergognose di Firenze.112
I mercenari, giunti a Vicchio, in Mugello si rifocillano per un giorno ed una notte. I
montanari però non si risolvono ad abbandonare i passi, né Firenze, indecisa e sgomenta,
riesce a dare ordini. Ma messer Amerigo teme che il tempo che passa faccia tornare ai
Fiorentini la voglia di battersi, ed allora decide di tentare di passare; si fa condurre da messer
Manno Donati, uno degli ambasciatori, e passa nel piano. Lascia in agguato cento Ungari e si
ferma in pianura. I balestrieri passano la Sieve e vengono sorpresi dai temibili Ungheresi, che
li attaccano, e sbaragliano, uccidendone una sessantina, non badando a far prigionieri. Gli
Ungari compiuta la mattanza, si uniscono al grosso e tutti si dirigono al passo dello Stale,
guidati da Ghisello Ubaldini, che, per evitare che possano arrecare danno ai suoi, li spaventa,
costringendoli a massacrarsi con una marcia di quarantadue miglia in un giorno. Per essere
più spediti i venturieri gettano le armi. Gli ambasciatori fiorentini, imperituro esempio di
animo pavido, tornano nella loro Firenze, pretendendo arrogantemente, che il loro operato
venga dimenticato e scusato. «Non cercate più di questi fatti, ma dite, che noi siamo i ben
tornati».113
Rifugiatisi al sicuro in Romagna, gli avventurieri accettano l'offerta di Francesco
Ordelaffi di servire per qualche tempo per lui contro l'esercito del legato. La Compagnia
otterrà 25.000 fiorini e il ricetto in Forlì, garantendo in cambio la distruzione delle bastie che
circondano la valorosa città, e il servizio agli ordini dell'Ordelaffi. All'inizio di agosto, la
provata compagine di mercenari si reca alle saline di Cervia, dove il signore di Polenta fa
trovare una notevole quantità di sale già insaccato, pronto per esser asportato, e grano e
bestiame. I mercenari ottengono tutta questa grazia di Dio senza nessun contrasto, temendo il
Polenta, che, caduta Forlì, l’esercito ecclesiastico si volgerebbe contro di lui. La Compagnia
trasporta i rifornimenti dentro le mura di Forlì, senza che l'esercito ecclesiastico si provi ad
impedirle il passo.
I soldati della Compagnia sono stanchissimi, hanno bisogno di riparo sicuro e di riposo;
si distribuiscono per le case della città, requisendo letti e masserizie, e convivendo con gli
abitanti, ammassati insieme con loro, si immagini con quali conseguenze per il pudore delle
fanciulle e per l'autorità dei maschi di famiglia. Cosicché «parecchi cittadini cui era più caro
l'honore che la roba, si partivano di loro abituri e ristrigneansi in piccoli luoghi, lasciando in
abbandono, per non contendere con gente bestiale, tutte loro cose». Può darsi che Francesco
Ordelaffi ritenesse di non avere scelta, e abbia accolto questa matta banda di mercenari come
la salvezza, ma certamente la sua popolazione si considera mal ripagata per i sacrifici fatti ed
il valore dimostrato. Se ci fossero stati i sondaggi d'opinione, la popolarità del capitano di
Forlì avrebbe dimostrato un crollo verticale.114
Matteo Villani attribuisce la decisione di Francesco Ordelaffi alla disperazione: «questo
faceva il capitano perché ogni altra speranza di difesa dal legato, fuori che di questa
compagn(i)a, del tutto li era mancata».115
260 ci narra vivacemente le difese approntate in Abruzzo nell’eventualità che i mercenari volessero
marciarvi.
115 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX; cap. 2.
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Alcuni mercenari, presumibilmente sbandati dal corpo principale, «ne’ Piani di Gualdo
penetrati, per la Flamminia calarono a Fano il primo d’agosto, ed accampati al fiume
Metauro, vi alloggiarono un mese intero […] devastando e rubando». Si riuniscono poi al
conte Lando ed al grosso dell’esercito, saccheggiando il territorio di Imola, Faenza e Forlì. I
Malatesta evitano prudentemente di affrontarli in campo aperto e presidiano saldamente le
loro città. Malatesta Guastafamiglia provvede a Rimini, Malatesta Ungaro difende
Fossombrone, Pandolfo pensa a Pesaro e Galeotto a Fano.116
La sconfitta rovinosa della potente compagnia mercenaria colpisce giustamente la
fantasia popolare e produce anche un Lamento del conte Lando, un’opera poetica che viene
recitata nelle piazze e nelle corti. Esso inizia: «Con dolorosi guai/ io conte Lando mi parti’
piangendo/ da Marradi, dicendo:/ conte Brocardo, dove ti lasciai!/ Ove lasciai mie’ savi
compagnoni/ dell’arme sì pregiati,/ conte Artimanno co gli altri baroni/ gentili e ‘namorati!/
Po’ che fusti atterrati,/ di bruna vesta per voi mi copersi:/ di vita siete ispersi./ Val di Lamon,
perché ti vidi io mai!». Il conte piange i suoi compagni d’arme e, verso la fine, minaccia
Firenze: «Se mai ritorna nuova primavera,/ con gente oltramontana/ intendo di spiegare mia
bandiera/ sopra el cor di Toscana:/ la Compagna sovrana/ di passare Arno bene ispero el
guado/ per tutto el tuo contado/ con insegna di fuoco n’udirai./ […] Innanzi che sia isperso/ di
questo mondo della vita in fretta,/ di far grande vendetta [lacuna] cavalieri giurai».117
59-62 per un bilancio dell’attività di Alberto e per qualche informazione sui figli. WAUGH, Carlo IV, p.
414, Rodolfo attua il suo piano facendo fabbricare documenti falsi.
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Friuli. Una parte dei convenuti si dichiara per lui, altri ritengono di esserne impossibilitati per
aver già giurato per il vice domino. La partita è solo rimandata.119
Il 14 luglio «i fratelli, i figli e gli eredi di Federico di Castelbarco, morto presumibilmente
nel 1357, dividono i beni per modo che ad Armanno di Castelbarco tocca la giurisdizione di
Albano e ad Aldrighetto quella di Castel Gresta».120
Intanto, Rodolfo IV d’Asburgo, che ha avuto dal conte di Gorizia l’eredità dell’Istria,
ottenuti dal defunto Nicolò di Lussemburgo Venzone e Vipacco, e il vassallaggio dei signori
di Duino, da questo anno inizia a sconfinare, arrivando a minacciare, ma nel 1360, anche il
territorio di Trieste.121
Carlo IV dà in sposa sua figlia al giovane erede del defunto duca d’Austria. Poi, secondo
quello che si mormora in Toscana, su consiglio del conte Lando, lo nomina re dei Lombardi.
Gli dona cioè la corona che Giovanni di Lussemburgo non riuscì a consolidare. «Il duca, come
giovane e vago di crescere suo nome e signoria, accettò il titolo del reame». Gli Italiani
apprendono con sgomento e timore l’avvenimento, temendo che ciò sia il preludio ad una
nuova discesa imperiale nella Penisola. Si danno pertanto a costituire leghe «e tutto ciò che
pensarono essere necessario e bastevole a impugnare l’impresa del nuovo signore».122
119 PASCHINI, Friuli, I, p. 307-308; DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 167 e 168 e nota 1 ivi. Per il conte di
122 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 98. Questa notizia del re di Lombardia sembra più
riflettere i “si dice” invece che la realtà dei fatti; si veda COGNASSO, Visconti, p. 233.
123 MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 133-134 e MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, Lib. II, cap. 29.
124 MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 132-133 e MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, Lib. II, cap. 33.
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Bernabò, questi col papa, e il pontefice con Firenze. Leghe a garanzia reciproca contro
chiunque offenda uno degli alleati.125 Il 21 giugno la Gran Compagnia rientra dalla
Lombardia, dove è andata a combattere e devastare. Viene immediatamente inviata a Villa de
Cexiis, in una località cioè dove vi siano poche possibilità di recar danno al contado
modenese. Il 25 giugno vengono liquidati 4.000 cavalieri e 90 bandiere di fanti. A sera vanno a
sud est, sul Panaro a Ponte Sant’Ambrogio e vi pernottano. Si dirigono poi in Toscana
passando per Borgo Panicale (immediatamente a nord ovest di Bologna).126
L’innaturale alleanza di Bernabò con la Lega si deve attribuire alla sua volontà di isolare
Giovanni d’Oleggio. Questi infatti ora non può ottenere aiuto dagli Este, dai Gonzaga o da
Francesco da Carrara. Bernabò, per scavare un fossato intorno al tiranno di Bologna, deve
solo allearsi con la Chiesa, ma ciò ha un prezzo: la partecipazione alla lotta contro l’Ordelaffi.
Bernabò allora si accorda con il legato apostolico, impegnandosi a fornire 300 barbute,
ognuna da due cavalli, per la spedizione di Forlì. Il cardinal legato, da parte sua, promette al
signore di Milano che la Chiesa non farebbe nulla per aiutare Giovanni d’Oleggio contro il
Visconti.127
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dire, della strage delle Scalelle. I governanti di Firenze, informati del fatto, intimoriscono e
sorvegliano più strettamente i passi appenninici.130
130 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 93; notizia del rafforzamento della compagnia è
anche in Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 81-82.
131 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 86; BORGOGNI, La Guerra tra Siena e Perugia, p. 72-74.
132 BUCCIO DI RANALLO, Cronaca Aquilana, p. 255-256 e nota 25 ivi. CIRILLO, Annali dell’Aquila, p. 40 recto e
verso.
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Carlo Ciucciovino
Mantovano: Suzara, Reggiolo, Gonzaga. Ugolino lascia il dolce talamo nuziale, si precipita a
Mantova e la presidia con i suoi militi, ed al governo della città mette suo padre Guido.133
Per volontà di Carlo IV,134 Pavia dovrebbe essere indipendente e governata in regime di
popolo ed Asti dovrebbe essere restituita dal marchese di Monferrato, Galeazzo Visconti deve
consegnare Novi al marchese, mentre Alba e Novara siano restituite ai Visconti. Questi
protestano e vorrebbero anche Pavia. La questione viene risolta dal marchese Giovanni di
Monferrato, il quale si rifiuta di restituire Asti, rendendo così possibile per i Visconti
proseguire l’attacco contro Pavia.135
133 CORIO, Milano, I, p. 796-799; AZARIO, Visconti, col. 357-358; e, nella traduzione in volgare, p. 102.
Annales Mediolanenses, col. 729 segue Azario. COGNASSO, Visconti, p. 233. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p.
85; Chronicon Estense, col. 484 dice che Aldobrandino d’Este ha lasciato Ferrara il 20 settembre e arriva a
Milano il 29, lo stesso giorno in cui muore suo fratello Folco a Ferrara. Si veda anche BAZZANO,
Mutinense, col. 629. ALIPRANDI, Cronaca di Mantova,p. 136 scrive: «stava Feltrino di mala voia ria, dolivali
a perder una citade, e fra sie pensava e si dicia: se di Rezzo perdo la libertade, qui solo senza fidi
rimagno, a pericol stoe avir male derate». Ugolino Gonzaga è figlio di Guido, fratello di Feltrino.
Brevemente BALLETTI, Reggio, p. 184. Un cenno in TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 38.
134 Sia Galeazzo Visconti che il marchese di Monferrato sono vicari dell’imperatore Carlo IV e quindi
all’imperatore hanno rimesso l’arbitrato sulle loro differenze, SANGIORGIO, Monferrato, p. 183;
RICALDONE, Annali del Monferrato, I, p. 339; AZARIO, Visconti, col. 367; e, nella traduzione in volgare, p.
116. Francesco Cognasso afferma che «Carlo IV desiderava chiudere al più presto il conflitto lombardo
per fare cadere i progetti del duca Rodolfo d’Asburgo di venire in Italia: si diceva che volesse farsi
proclamare re di Lombardia»; COGNASSO, Visconti, p. 233.
135 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 92. Notevole e dettagliato è il resoconto di AZARIO,
Visconti, col. 354-358; e, nella traduzione in volgare, p. 97-103, in quanto testimone oculare e notaio
novarese. SANGIORGIO, Monferrato, p. 183-186 lo cita. Si veda anche COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso,
p. 111, che mette in luce come il Conte Verde sia sempre molto cauto nei confronti di suo zio il marchese
del Monferrato, perché in mancanza di figli, egli ne è l’erede diretto. Amedeo VI è figlio di Jolanda,
sorella del marchese di Monferrato.
136 MULETTI, Saluzzo, Tomo IV, p. 13-15.
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via concordata con la Gran Compagnia in luglio, le fortificazioni, anche se modeste, fossati e
palizzate, sono state abbandonate ed il passo appare ora completamente indifeso. I Fiorentini
vorrebbero pertanto erigervi una vera fortezza. Ma una tale costruzione su quei monti
costituisce una minaccia per gli Ubaldini ed i conti di Mangona, che si recano da Giovanni
Visconti d’Oleggio e lo convincono che quel luogo appartiene al Bolognese. Il signore di
Bologna, «per la mala informazione, turbato scrisse» a Firenze, «assai alteramente». Firenze,
pazientemente raduna i documenti che dimostrano il diritto di possesso del passo da parte
del monastero di Settimo, ed invia quale suo ambasciatore a Bologna un «eccellentissimo e
famoso dottore in ragione civile», professore in Firenze, messer Francesco di messer Bico
degli Albergotti d’Arezzo. Il professore dimostra a Giovanni d’Oleggio che il diritto è dalla
parte di Firenze, ed il tiranno lo ammette con missive a Firenze, datate settembre. Ubaldini e
Mangona ruminano lo smacco.140 Appurato il diritto di proprietà, Firenze invia
immediatamente maestri e manovali, e distacca balestrieri e gente d’arme a loro protezione.
Agli abitanti del luogo è fatto carico di portare persone e bestie ad aiutare le opere di
fortificazione. Il timore di vendette da parte dei mercenari è tale che l’invito viene accolto
entusiasticamente, i lavori procedono rapidamente, ed in breve tempo tutto viene «fornito,
cominciando dalla vetta de’ colli, e passando per lo tramezzo delle valli li fossi e li steccati,
colle torri di legname, e bertesche spesse a guisa di mura di terra, con tre belle e forti bastie in
su i poggi, per dare favore a quelli che difendessero i palizzati, e perché, se caso di rotta
venisse, si potessono ricogliere a salvamento». Il perimetro della fortificazione si stende per
ben 8.000 passi, arrivando fin sotto monte Vivagni. La fortezza viene poi presidiata da 12.000
fanti, per massima parte balestrieri. I venturieri cercano più volte di passare, ma, a causa della
grandezza del presidio e della forza della costruzione, desistono. L’arrivo del capitano di
guerra di Firenze, messer Pandolfo Malatesta, rafforza nei mercenari la poca voglia di
affrontare problemi.141
139 Il passo di Raticosa, sull’odierna SS 65, come dimostrano le altre informazioni topologiche del Villani
nel capitolo 95. Parla infatti del Mulinello a pie’ di Pietramala, ed oggi vi è una località ai piedi di
Pietramala che si chiama Molinuccio, e di mezzo Montebene, e Monte Beni è appunto ad ovest della
strada, subito a sud di Pietramala.
140 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 94 e 95.
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Carlo Ciucciovino
In occasione del suo ingresso in città, Galeazzo chiede a Francesco Petrarca di tenere
un’orazione ufficiale nel chiostro della cattedrale. Il 18 giugno il poeta la pronuncia.143
§ 51. Orvieto
Il cardinale Albornoz, prima di partire, ha disposto che messer Rosso di Riccardo Ricci
di Firenze, sia il vicario di Orvieto, e ne sia amministratore un signore dal significativo nome
di Bartolomeo de Ruinis da Reggio. Messer Rosso si concentra nel ristabilire la legalità nella
città: Giovanni da Vico, per ricavarne riscatti ha fatto imprigionare molti cittadini, che, per
pagare hanno venduto le loro terre anche a valori inferiori alla metà del reale. Messer Rosso
ora consente che entro un biennio i danneggiati possano riacquistarle allo stesso prezzo.144
I Perugini cercano di stabilire una lega con gli Orvietani, verosimilmente per averli
alleati per la riconquista di Cortona, tentandoli con la promessa di sospendere alcune
rappresaglie. Gli Orvietani, nella persona di messer Rosso Ricci, abilmente si sottraggono ad
ogni alleanza che possa recare loro inimicizia con i Senesi, e ad ottobre riescono comunque,
tramite la mediazione del conte Ugolino da Montemarte, ad avere annullate le rappresaglie e
ottenere il diritto di libero passo per i loro cittadini in territorio perugino. Ciò però non
impedisce l’inimicizia dei Senesi, che il 5 ottobre, inviano più di 300 barbute, sotto il vessillo
di Giovanni di Vico, a saccheggiare il territorio di Monteleone. Vengono rubate più di 700
bestie grosse, molte delle quali appartenenti a Perugini. Molti Orvietani sono percossi e feriti.145
146 Il combattimento avviene alle Mute, Sambucuccio si trincera e rifiuta il combattimento, sentendosi
militarmente inferiore, quando non può più evitare lo scontro, schiera i suoi a battaglia. Il confronto
armato dura dal mattino fino al vespro, solo la notte separa i combattenti tutti coperti di sangue. Il
risultato della battaglia è indeciso, ma questo è già un successo per gli insorti e ciò spiega perché i ribelli
ricerchino l’appoggio di Genova. MONTERISI, Corsica, p. 59-61, sulle Mute si veda la lunga nota dello
stesso alle p. 59-60.
147 MONTERISI, Corsica, p. 31-32.
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dal basso, evento questo in cui è stata individuata la sua più duratura ed effettiva portata
storica».148
Il riconoscimento del possesso della Corsica a Genova, onestamente, pone gravi problemi
alla curia pontificia: dal 1351 ad Avignone gli ambasciatori di Genova ed Aragona si sono
consumati in negoziati, senza approdare a nulla. Quando è esploso il conflitto tra Castiglia ed
Aragona, Genova, schierandosi con la Castiglia, non ha aumentato le sue chances. In poche
parole, l’Aragona richiede a Genova il riconoscimento dello status quo, cioè la Sardegna
all’Aragona, impegnandosi a non sostenere i Malaspina ed i Doria, e l’Aragona
riconoscerebbe la Corsica a Genova. La saggezza non è di questo mondo e tutti i tentativi di
composizione naufragano, malgrado Pietro d’Aragona sia disponibile a concedere ai Doria il
possesso dei loca plana.149
148 PETTI BALBI, Genova e Corsica nel Trecento, p. 31-37; PETTI BALBI, Simon Boccanegra, p. 309-311; FILIPPINI,
Storia di Corsica, lib. III, p. 197-198; una esauriente articolazione degli eventi è in MONTERISI, Corsica, p.
61-70.
149 BOSCOLO,, Catalani nel Medioevo, p. 26-27 e 53; gli eventi sono ben narrati in MONTERISI, Corsica, p. 70-
77, questo autore nota che l’arbitrato affidato al marchese di Monferrato è già un successo per Genova,
in quanto Simon Boccanegra non ha alleato migliore, né più fidato. ANATRA, Sardegna, p. 77 elenca i
motivi per i quali il marchese è gradito ad entrambi: il re di Aragona perché gli ha concesso la mano
della figlia dell’ex-re di Maiorca, Genova per la comune militanza contro i Visconti e per i debiti che il
marchese ha contratto con Genova. Notizia dell’arbitrato in ZURITA, Annales de Aragon, Lib. VIII, cap. LX
e del lodo nel Lib. IX, cap. XXIX.
150 GRIFFONI, Memoriale, col. 173.
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assaltata. «I mascalzoni per la troppa roba (che) vi trovarono vennono tra loro a discordia nel
pigliare della roba, e, per non venire a peggio fra loro, misono fuoco nella Terra, e arse con la
maggiore parte di ciò che v’era dentro». La Compagnia è perciò costretta a partire ed
accamparsi verso i confini del Bolognese. L’Oleggio reputa saggio fornire loro viveri e li
sostiene per tutto novembre, anche perché ormai sa che Egidio Albornoz è in cammino per
tornare a riprendere la lotta per la riconquista dello Stato della Chiesa.152
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155 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 85-86; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 85.
156 MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 724. Una congiura analoga, ad opera di Federico del Mugnaio nel
1360.
157 FILIPPINI, Albornoz, p. 183-186; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 86; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 86;
Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 82 scrive «si ritornò messer Gilio, cardinale, di
chorte et giunse in Romagna con gran gente del papa [e con] legazione piena sì come l’haveva in
prima». COMPAGNONE, Reggia picena, p. 221. Il giudizio di Pinzi è in PINZI, Viterbo, III, p. 318.
158 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 103.
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gloria, alle mie mancanze». E ancora: «Fui dolce, non tanto anzi quanto avrei voluto; non volli
gravare i sudditi; volli compiacere tutti e rendermi accetto e gradito alle popolazioni».162
Innocenzo VI, che l’esperienza negativa avuta con Androino non ha ammaestrato, l’anno
prossimo lo incaricherà di mediare la pace tra Francia ed Inghilterra.
162 FILIPPINI, Albornoz, p. 177-182, che cita G. MOLLAT, La première légation d’Androin de la Roche, anné de
Cluny, en Italie, in Revue d’histoire de l’eglise de France,Vol.2°, 1911,p. 385-403; Ephemerides Urbevetanae,
Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 230.
163 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. VIII; cap. 108.
164 EDBURY, The Kingdom of Cyprus, p. 147-148; FILETI, I Lusignan di Cipro, p. 97.
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§ 66. Petrarca
Francesco Petrarca tenta di comporre per lettera un dissidio che contrappone due suoi
carissimi amici: Socrate (Ludwig van Kempen) e Lelio (Lello di Pietro Stefano Tosetti); vi
riesce. Zanobi da Strada riceve la nomina a segretario della cancelleria pontificia ad
Avignone. Francesco Petrarca lo rimprovera aspramente perché ritiene Avignone la
«nuovissima Babilonia, brulicante, ribollente, oscena, terribile […], qualsiasi scelleratezza e
immoralità che sia stata sparsa per il mondo intero, tutto ciò potrai vederlo raccolto e
accumulato in questo luogo».172 È vero che il poeta ha rifiutato questo incarico in passato, ma
non è da escludersi un poco di gelosia per l’incoronazione poetica di Zanobi, che egli,
evidentemente, ritiene poco meritevole.
167 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, Lib. II, cap. 26; MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 134-136 e MICHELE DA
PIAZZA, Cronaca, Lib. II, cap. 34-37.
168 CORIO, Milano, I, p. 800.
170 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 86; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 86-87.
171 Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 457 e Ephemerides Urbevetanae,
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Carlo Ciucciovino
elementi linguistici diversi».178 Per noi invece Lorenzo spunta maturo e pronto al capolavoro.
Il fatto è che, all’inizio, Lorenzo dipinge con modi che sono troppo simili a quelli del maestro
per essere distinguibile la sua mano, poi inizia a percorrere la propria via e «su uno sfondo
sempre più attenuato, ma persistente, di bizantinismo pose un colorito proprio addensato in
toni profondi come di smalto, fortemente chiaroscurato, talvolta a macchia e già quasi
totalmente veneziano».179 Esistono a Verona due opere forse precedenti di Lorenzo, la
Madonna dell’Umiltà, tra i Santi Domenico e Pietro martire, nella chiesa di Sant’Anastasia, e una
grande Croce stazionale in San Zeno. Quest’ultima ha un particolare raro, in alto vi è la figura
del Creatore che invia lo Spirito Santo, quindi nella stessa opera abbiamo la Trinità e la
Crocifissione.180
Nel 1357 dunque, Lorenzo Veneziano, insieme a Francesco Bissolo, dipinge un grande
Polittico, commissionato da Domenico Lion, e quindi detto Polittico Lion, per la chiesa
veneziana di Sant’Antonio abate. L’arte di Lorenzo si colloca nell’insegnamento di Paolo
Veneziano, ma letto con sensibilità più moderna. «L'intensità espressiva dei volti,
l'articolazione dinamica dei panneggi, l'abbandono delle lumeggiature alla bizantina e delle
tracce di fondi scuri nelle carni a favore di una qualità cromatica schiarita e armonizzata con
la luce in funzione della resa plastica, con accostamenti timbrici raffinati e delicate sfumature
del tono locale, sono caratteristiche che sembrano postulare la conoscenza diretta di modelli
veneti ed emiliani, sollevando la questione cruciale dell'educazione pittorica di Lorenzo e
implicando un esame critico del contesto veneziano di metà Trecento nel suo complesso».181
Nel Polittico Lion, Lorenzo Veneziano si propone «quale indiscusso protagonista in Venezia
del nuovo linguaggio», un linguaggio pienamente gotico ed influenzato dal «mondo
figurativo di terraferma, che gli consentiva formulazioni accentuatamente plastiche e
volumetriche, e un più acuto senso della realtà».182 Il polittico è un grande altare, concepito
per la chiesa di Sant’Antonio Abate di Venezia.183 Le notizie che abbiamo di questo pittore
sono poche e confuse perché la sua identità si confonde con quella di altri pittori; siamo
quindi costretti ad indovinare le fasi della sua formazione. Nessuno mette in dubbio la sua
derivazione da Paolo Veneziano, ma vi è chi vede anche la conoscenza delle lezioni di
Guariento e Tommaso da Modena. Tuttavia, «resta problematico individuare gli antefatti di
un'opera già progredita come il polittico Lion, che tuttora si presenta come un esordio
enigmatico proprio per la sua maturità rispetto ai prototipi paoleschi».184 In totale coerenza
con il polittico Lion è lo Sposalizio mistico di Santa Caterina (oggi a Venezia, Gallerie
dell'Accademia), firmato e datato febbraio 1360. Nell’opera «un vivido naturalismo anima i
volti e le fisionomie dei personaggi instaurando tra loro un sottile legame affettivo. Ancora
l'azione del Figlio che coglie un frutto dalla Madre rende sciolta la composizione della
Madonna in trono col Bambino (Padova, Museo civico), firmata e datata 17 sett. 1361, dove la
linea si fa sinuosa inclinando il capo della Vergine e agitando l'orlo inferiore del suo
mantello».185
Nel 1358-1359 Lorenzo Veneziano dipinge una Madonna dell’umiltà i Santa Anastasia e
una Croce stazionale in San Zeno. La Madonna presenta ai lati gli offerenti, da identificare in
Cangrande II e sua moglie Elisabetta di Baviera.186
184 Ibidem.
185 Ibidem.
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La cronaca del Trecento italiano
187 A Roma, nella chiesa di Via Giulia ed oggi nella sala capitolare del convento dei Santi Domenico e
Sisto.
188 C. RANUCCI, Lippo di Vanni, in DBI, vol. 65°; G. CHELAZZI DINI, Lippo Vanni, in Enciclopedia dell’Arte
medievale.
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CRONACA DELL’ANNO 1359
§ 2. Neve
Dal 15 gennaio una eccezionale nevicata imbianca la pianura padana. Cade
ininterrottamente per cinque giorni e, quando cessa, nel Piacentino la neve accumulata è alta
tre braccia, mai stata così alta a memoria di vivente. Non è possibile percorrere le vie, né
condurre le bestie.6 Anche le cronache di Bologna riferiscono che una nevicata così intensa
non si ricordava a memoria d’uomo. La neve a Bologna è alta «oltra de quattro piedi
comunalmente in ogni luogho», per il peso crollano molte case e diversi portici. La neve
arriva quasi alla grondaia della casa del comune.7
7 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 87-88; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 87; Rerum Bononiensis, Cr. Vill.,
p. 87-88; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 87. GRIFFONI, Memoriale, col. 173 ci informa che nelle
conversazioni questa nevicata verrà citata come la neve grande; egli specifica che la neve cade nel giorno
Carlo Ciucciovino
§ 3. Malatesta Ungaro
Il 2 febbraio rientra a Rimini messer Malatesta Ungaro. Egli ha accompagnato il legato
Albornoz nel suo rientro ad Avignone, poi si è recato in Fiandra e in Inghilterra «e al
Purgatorio di San Patrizio». Viene accolto da grandi feste. Nel frattempo, Rimini, retta da
Malatesta e Pandolfo Vecchio «il quale fu molto saputo signore e quello – ch’è meglio – seppe
tenere bacchetta più che signore ch’io vedessi mai», afferma il cronista di Rimini, ha visto
iniziare il restauro della cinta muraria.11
di S. Antonio; S. Antonio abate si ricorda il 17 gennaio. Chronicon Estense, col. 484. Notizia della neve in
ANGELI, Parma,p. 190.
8 BAZZANO, Mutinense, col. 629-630. Egli ci fornisce una testimonianza di prima mano. CORNAZZANI,
Historia parmensis, col. 752. Zurita, Annales de Aragon, Lib. IX, cap. XX, enuncia lo stesso fenomeno
atmosferico in Spagna.
9 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 270.
11 Chronicon Ariminense,col. 906. Sul restauro delle mura, si veda TONINI, Rimini, I, p. 394-395. Il
Purgatorio di S. Patrizio è un varco verso l’oltretomba. Secondo una leggenda medievale, rielaborata dal
frate cistercense Enrico di Saltrey verso il 1170-1185, Gesù avrebbe indicato a San Patrizio una grotta o
un pozzo attraverso il quale entrare nell’oltretomba. Il pozzo è sull’isolotto che è nel Lago Derg o Lago
Rosso; LUDWIG BIELER, Pozzo di San Patrizio, in Enciclopedia Dantesca.
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La cronaca del Trecento italiano
nell’isola. Re Luigi invia ambasciatori, e tra questi Nicolò di Cesareo, a chiedere aiuto ai
comuni della Toscana, e manda il conte d’Ariano con 300 cavalieri e con fanti in Sicilia.12
La voglia di intervento di Luigi di Taranto, ora re di Napoli, è velleitaria. Egli non ha
nemmeno le risorse per tenere a freno la Puglia ed il Beneventano, né tanto meno per pagare
il censo al papa. Ambedue le terre sono in mano a briganti e ladroni, aiutati, o almeno non
contrastati dai baroni e nobili locali. «In più parti del regno si cominciarono a fare radunanza
di gente malandrina, disposta a rubare [...] e rompevano le strade, e corrieno per lo paese
hora in una hora in un’altra parte, forte conturbando i forestieri, e paesani con rapine e
violenzie e homicidj». Melfi ed Eboli sono in mano dei briganti, ed altri infestano la valle
beneventina. Gli unici che riescono a garantire una qualche forma di protezione sono i baroni
locali, segno certo che il brigantaggio non ha luogo a loro dispetto. Il sistema però si
autoregola: le violenze fanno diminuire i commerci, e quindi la preda delle rapine, il furore
degli abitanti incute timore anche ai briganti, per cui molti abbandonano la macchia e si
vanno a riunire a più organizzate forme di violenza, come la Gran Compagnia; i capi banda,
con minor seguito possono arrecar minor danno.13
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Carlo Ciucciovino
indiscusso e indiscutibile. Jacopo fugge e ripara a Siena, dove, «non havendo dal fratello
alcuna provisione, traheva la sua vita assai miseramente».15
15 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 5. Notevole il fatto che Cronache senesi, p. 589 accenni
appena al fatto, ci informa solo che «messer Bartolomeo di messer Ranieri de’ Casali era signore di
Cortona, e co’ lui el comuno di Siena fe’ lega e col comuno di Cortona. Jacomo suo fratello del detto
signore venne al soldo del comuno di Siena e ste’ due anni, e poi si ritornò a Cortona»; e poco dopo, «el
cassaro di Cortona si cavò sotto terra per lo comuno di Siena, perché v’era uno trattato dentro per uno
fratello del signore di Cortona, di marzo. E stavano in Cortona molti condottieri a piè e a cavallo per lo
comuno di Siena co’ molti cittadini commissari». MANCINI, Cortona, p. 207-208 attribuisce il fatto al 1358,
quando ancora la guerra ferve.
16 PASCHINI, Friuli, I, p. 308-309; DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 174.
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La cronaca del Trecento italiano
con la turba mercenaria, malgrado la ferma opposizione di Firenze, che bada a sorvegliare i
«valichi e i luoghi che, di Romagna, potieno dar loro via a venire» sul territorio fiorentino.18
18VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 4. Il 15 novembre la Compagnia è a Savigliano che
espugna con le armi in pugno uccidendo 134 difensori; MARIANI, I Malatesti di Sogliano, p. 18.
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Carlo Ciucciovino
alla Compagnia, Roberto Alidosi, uno dei negoziatori, Berardo di messer Rodolfo da
Camerino ed un figlio di Smiduccio da San Severino. La compagnia, passato il durissimo
inverno, scaldata dal sole primaverile e dai fiorini dell’Albornoz, e rinforzata da una gran
quantità di sbandati che di giorno in giorno aumentano la sua consistenza numerica, si
imbaldanzisce e grida a Firenze le sue minacce.19
La notizia della doppiezza del legato colpisce profondamente Firenze. Nella cronaca del
Villani si coglie il brusio fitto dei ragionamenti che i suoi cittadini vanno rimuginando,
amareggiati e delusi. Enumerano quanto abbiano fatto personalmente per il cardinale, le
accoglienze e i doni che gli hanno riservato, e per la Chiesa in generale: 400 ed anche 500
cavalieri in continuo servizio presso l’esercito ecclesiastico, e 700-800 balestrieri, oltre all’aiuto
privato dei suoi cittadini, ed i 100.000 fiorini sborsati durante la predicazione della crociata
contro l’Ordelaffi, ed ora l’offerta dell’esercito cittadino, purché ci si batta per scacciare la
Mala Compagnia. Il tutto ripagato con l’ipocrisia! Ma le notizie sono ancor peggiori, sembra
che Pisa e Siena e Perugia stiano cercando segreti accordi con la Compagnia; il che significa
che il nembo temporalesco della cieca furia della società dei mercenari si sta focalizzando
interamente su Firenze.20 Ma, in verità Firenze se la deve prendere con se stessa: aveva la
Compagnia in suo potere dopo il massacro delle Scalette, e non ha avuto la forza morale di
approfittarne.
Il legato Albornoz approfitta della tregua per impadronirsi di vari castelli che ancora
sono in mano a guarnigioni dell’Ordelaffi. Cadono in suo potere: Oriolo, Castrocaro, Rocca
d’Elmici, Predappio. Tutti vengono affidati ai Calboli.21
Avevamo lasciano il tiranno di Fermo, Gentile da Mogliano, quando questi era stato
catturato da Blasco di Belviso nel 1355, ebbene il 12 gennaio 1359 il cardinale Albornoz lo
condanna a morte insieme al figlio Ruggero ed alcuni seguaci.22
§ 9. Sicilia
Il 17 febbraio, Eufemia, sorella del giovane re di Sicilia, vicaria del regno, muore per
malattia a Cefalù.23 Finché Eufemia era viva, i buoni rapporti intercorrenti tra lei e il conte
Francesco di Ventimiglia hanno, in qualche modo frenato l’invadenza del Gran giustiziere
Artale d’Alagona. Morta Eufemia, Artale assume su di sé la reggenza, senza averne alcun
titolo e quindi spingendo ai margini i Ventimiglia, tuttavia, Francesco reagisce
autonominandosi reggente.24
I Chiaromonte iniziano a sganciarsi dalla tutela angioina, pur non ribellandosi
apertamente. Manfredi Chiaromonte è molto attivo, ma frenato da Niccolò Cesareo che si
rende conto che, senza rifornimenti dalla Calabria, Messina sarebbe alla fame. Manfredi va a
Napoli a cercare aiuti, ma re Luigi lo dirotta sulla Toscana. Quando, in primavera, Manfredi
rientra, concede in sposa una sua cognata a Niccolò Cesareo.25
Il re Federico IV, con il conte Francesco Ventimiglia, Enrico Rosso e Berardo Spatafora,
sferra un attacco deciso nella valle di Mazara, investendo Salemi. Dalla città escono 400
cavalieri per affrontare l’esercito regio, ma gli abitanti chiudono dietro di loro le porte e si
consegnano al re. I cavalieri usciti trovano precipitosamente riparo nel castello, ma vengono
poi costretti a capitolare. Dopo Salemi, il re prende anche Alcamo, Castellammare del Golfo e
il castello di Calatubo. L’esercito regio arriva alle porte di Palermo, senza però poter
concludere nulla; la spedizione si conclude con una tregua concordata fino al 30 settembre
19 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 6 ; FILIPPINI, Albornoz, p. 184-190; AMIANI, Fano, p. 285.
20 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 7.
21 CALANDRINI E FUSCONI, Forlì e i suoi vescovi, p. 891-892.
23 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, Lib. II, cap. 41; GIUNTA, Cronache siciliane, p. 48.
24 MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 137-138 e MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, Lib. II, cap. 41.
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1359.26 Il re e Federico Ventimiglia si recano ora a Trapani, e qui il conte Francesco commette
un sopruso, nominando capitano e castellano di Trapani suo fratello Guido, deponendo
l’amato e meritevole Nicolò Abate, figlio di Riccardo che ha dato la vita combattendo per il re
contro i Chiaromonte. Il conte di Ventimiglia commette anche un altro atto profondamente
riprovevole saccheggiando la villa di Bivona che si è volontariamente sottomessa alle truppe
regie. Il conte Federico Chiaromonte ha quindi buon gioco a prendere le armi contro
l’arrogante Francesco Ventimiglia ed a lui si unisce anche Nicolò Abate. Verso la fine di luglio
Federico IV lascia Trapani e si trasferisce a Polizzi Generosa.27
§ 10. Provenza
In marzo, in Provenza, si vivono giorni turbolenti. I nobili della provincia effettuano una
spedizione punitiva contro la Guglia, una «nobilissima e bella fortezza» di casa del Balzo, che
viene assaltata di sorpresa, conquistata e dirupata fino alle fondamenta. Il papa, preoccupato
per la guerra alle porte di casa, si interpone e ottiene che le ostilità cessino. Ma i Borgognoni e
i Provenzali stanno «in pessima disposizione, però che chi volea mal fare non era punito». E
di questi ve ne sono «assai e havieno grande seguito». Per tal motivo le strade sono insicure, il
traffico mercantile impedito: gli stessi corrieri pontifici si salvano a stento. A corte papale ad
altro non si intende che a completare le mura d'Avignone. Sulle bocche di tutti v'è il caso dei
due cardinali, Perigord e Boulogne, recatisi in Inghilterra per trattare la pace tra questo reame
e quello di Francia, che, assaliti sulla via del ritorno, hanno avuto dodici dei loro uccisi ed essi
si sono salvati grazie ai «buoni cavagli e gli sproni», che hanno consentito una fuga durata
quattro miglia, prima di ripararsi entro la sicura cerchia delle mura di Celona.28
Il conte Verde accorre in aiuto del duca di Borgogna per combattere le compagnie di
ventura. Ancora, sia in quest’anno che nel prossimo, si schiera a fianco del sire di Beaujeu
contro i mercenari.29
Anche nelle zone vicine si vive qualche turbolenza. Quando Carlo IV ha concesso i suoi
diplomi, tra gli altri, ha assegnato ai figli del defunto Enrietto del Carretto, Manuele e
Aleramo, il castello della Periola, che però è in possesso dei marchesi di Ceva. Forti della loro
pergamena e della propria potenza militare, Manuele e Aleramo del Carretto hanno strappato
con la forza la Periola alla guarnigione dei Ceva. Ora, nella primavera del ’59, Ghilardo,
marchese di Ceva, appoggiato da soldati di Asti, tenata di riprendersi il castello. Non
conosciamo i dettagli dell’impresa, sappiamo solo che interviene Federico d’Ormea, baiulo
delle valli di Gezza e Verminaglia e castellano del Borgo San Dalmazzo, per imporre la pace
tra i marchesi contendenti.30
26 MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 138-139 e MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, Lib. II, cap. 46-48.
27 MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 139-140 e MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, Lib. II, cap. 48-50.
28 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 17.
30 GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p. 302.
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gli esuli e scaccia da corte e da Ravenna i cattivi consiglieri del defunto genitore. «Atto non di
tiranno, ma di giusto signore naturale».31
31 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 13; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 88; Rerum
Bononiensis, Cr. Vill., p. 89 mettono al 10 marzo il decesso. Chronicon Estense, col. 484 parla del 9 marzo.
Una rapida sintesi delle caratteristiche del defunto Bernardino è in VASINA, Dai Traversari ai Polenta, p.
590.
32 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 8.
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realmente ingrata ai Fiorentini, che hanno parteggiato per lei nella guerra di Cortona. Non
solo: venuta a mancare la fedelissima Perugia, la tiepida Siena e la nemica Pisa non tardano a
seguirne le orme, concedendo viveri, passo e danaro.38
41 ROGGERO-BARGIS, Saluzzo, p. 45-46; MULETTI, Saluzzo, Tomo IV, p. 15; GIOFFREDO DELLA CHIESA, Cronaca
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persone. Duecento uomini fuggono da Ascoli e si rinserrano nei castelli vicini, dai quali
minacciano e tormentano l’Ascolano. Il legato ordina che i fuorusciti vengano riammessi in
città e, mentre si tratta, gli esiliati, al comando di ben 300 barbute e 500 fanti si presentano a
Ponte Porta Maggiore con rami di ulivo in segno di pace. Gli Ascolani intrinseci però non
vogliono sentire ragioni e rifiutano di aprire loro le porte. Si riunisce il consiglio cittadino, e
su mille presenti, solo in ventitre votano per respingere i fuorusciti, ma la volontà popolare
nulla può contro chi evidentemente ha in pugno la città. Si deve muovere il rettore Gomez,
con sette compagnie di cavalieri e 500 fanti, che arrivano ad Ascoli l’11 ottobre, per ordinare
che i banditi vengano riammessi. Gomez rimane qualche giorno in città per assicurarsi che il
rientro venga attuato pacificamente, poi, quando parte, reca con sé sei ostaggi per parte come
garanzia della pacificazione raggiunta. Non basterà.43
43 DE SANTIS, Ascoli nel Trecento, II, p. 80-82. De Santis dice che è il rettore Blasco che arriva, ho sostituito
con Gomez che è l’attuale rettore.
44 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 15; PELLINI, Perugia, I, p. 982-983; Diario del Graziani, p.
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quindi trasferito in Grecia e, il 15 maggio 1357 nuovamente spostato a Corone. Matteo Villani
lo definisce: «prelato antico e di buona fama».49
Il patriarca Ludovico è ad Aquileia il 5 settembre, dopo una sosta a Venezia. Il 10 è ad
Udine e il 25 tiene parlamento a Cividale.50 Il nuovo patriarca «ancor prima di mettere piede
nel suo principato, provvede a costituirsi una rete di appoggi internazionali, dall’imperatore
al pontefice, al re d’Ungheria, mentre tratta con gli avversari e, giunto in Friuli, si attiva per
coordinare le forze sociali ed economiche in appoggio alla sua autorità».51 Il 19 ottobre il
patriarca prende accordi per la coniazione di una nuova moneta.52
Ludovico della Torre deve subito fronteggiare l’emergenza dovuta alla peste e la difficile
situazione politica, avendo il duca d’Austria occupato Windisgratz, Tiven, Treven, Vipacco,
Venzone, la Chiusa e mentre il conte Mainardo di Gorizia occupava Tolmino e tutta la sua
valle.53
Grazie all’interessamento del papa e di Rodolfo IV d’Asburgo, il duro marchese di
Brandeburgo, conte del Tirolo, restituisce alla mensa vescovile le cose che spettano al vescovo
ed al Capitolo di Trento.54
49 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X, cap. 68. PASCHINI, Friuli, I, p. 310-311 fornisce qualche
notizia riguardo alle pressioni, su questo argomento si veda anche BRUNETTIN, Una fedeltà insidiosa, p.
329-330 e le note 366 e 367 ivi. Un cenno è in DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 173 quando il futuro
patriarca si lagna con Udine perché sta chiedendo al papa un vescovo francese.
50 PASCHINI, Friuli, I, p. 310-312. Il Chronicon Estense, col. 484 informa che il 21 agosto il nuovo patriarca è
a Ferrara.
51 BRUNETTIN, Una fedeltà insidiosa, p. 330-331.
56 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 33; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 88; Rerum
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Ricordiamo che vi sono stati gravi dissapori tra i fratelli Gonzaga, la Cronaca di Mantova
riporta: «Zaschun, fiol dil signor si tenìa; l’un più di l’altro volìa esser mazore, e per questo
nacque gran zilosia. Queli di Feltrino pensò, grand’errore, d’ucider Guido cum tutti li so nati,
e senza fallo Ugolino mazore. Ugolino vene a sentire li tratati e di tutto lo patre fe’ avisato, e
quelli a caval subito montati, a Verona, senza tor chomiato, cavalchono forte per scampare la
morte che a loro serìa dato. […] Guido cum Feltrino reconciliati stavan mostrando bona voia,
li chose fatte avian dementhegati».57
§ 26. Sardegna
In maggio, Brancaleone Doria, l’illegittimo figlio di Brancaleone fratello di Matteo,
ottiene un nuovo riconoscimento della sua legittimità dalla corona aragonese, che così lo
trasforma nel suo più fidato alleato sul suolo dell’isola. Egli ottine in feudo i castelli di
Monteleone, Chiaramonti, Castelgenovese, ma non Casteldoria.59
§ 27. Modena
Dopo aver tenuto per il marchese d’Este la funzione di podestà e capitano del popolo di
Modena per quattro anni sei mesi e dodici giorni, messer Ricciardi de’Cancellieri di Pistoia,
sabato 6 giugno, la consegna nelle mani di messer Gerardo de’ Bardi di Firenze e messer
Rainaldo Bulgarelli di Imola, podestà il primo, capitano del popolo il secondo.60
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Compagnia partirà, senza combattere, «il comune, veggendo la cortesia e l'amore c'havieno
mostrato, gli honorò di doni cavallereschi e cera e confetti». Dopo aver lungamente sostato
nel Perugino, la Compagnia si dirige verso Todi, ne devasta il territorio, i Tudertini pagano
un riscatto e il 25 giugno i mercenari sono a Bagno Vignoni, ben ricevuti e riforniti dai
Senesi.61
I Sangimignanesi garantiscono alla Signoria che sono in grado di mantenere 200 cavalieri
a difesa del loro territorio. Il 7 giugno Firenze manda a San Gimignano messer Rosso dei
Ricci, con l’incarico di fortificare la terra. Il consiglio della cittadina toscana designa sei
soprintendenti alle fortificazioni. Il 27 vengono nominati i capitani delle leghe del contado.62
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pisane, 800 barbute, mostrando di voler montare guardia al proprio territorio si schierano a
Fosso Arnonico, la loro reale intenzione essendo quella di soccorrere i Tedeschi in caso di
battaglia. Raggiunti dalla Compagnia, la scortano a Pontedera. Vistala accampata, ritornano a
sorvegliare l'esercito fiorentino. Il conte Lando ha sfiorato l'esercito avversario, sfilandogli a
sole due miglia, e non ha avuto nessuna voglia di attaccarlo, vistolo così provveduto e ben
disposto sul terreno. Per cinque giorni le due armate si confrontano, sempre sul chi vive, poi i
Tedeschi, constatato che la posizione avversaria è più forte, il 10 luglio levano le tende ed a
mezzodì giungono a Sampiero, nel Lucchese, accampandovisi. Durante tutto il percorso sono
stati tallonati dall’esperto messer Ricciardo Cancellieri, al comando di 500 cavalieri. Il giorno
seguente anche l'esercito collegato si muove e, lasciato un forte contingente a passo San
Romano, si accampa alla Pieve di Nievole, molto vicino al nemico. Tra i due eserciti il campo
è «piano e aperto, per fare d'arme, chi avesse voluto».64
Nel campo fiorentino continuano ad affluire nuovi combattenti, il figlio naturale di
Bernabò, messer Ambrogiolo è arrivato, portando con sé 500 cavalieri e 1.000 masnadieri;
molti Fiorentini, convinti che si arriverà al confronto armato, sono giunti sulle loro
cavalcature, pronti al combattimento. Anche due nobili banditi, messer Biordo e messer
Farinata degli Ubertini, hanno offerto aiuto, che è stato accettato con gran piacere e sono
giunti con trenta cavalieri, «nobilmente montati e bene in arnese: e veduti volentieri e lodati
da tutti». Messer Biordo, ch'era grande maestro di guerra, si prodiga tanto che si ammala e,
tornato a Firenze, a mezzo agosto muore.
I Pisani, 800 barbute e 2.000 fanti, sono a Montecarlo. Il conte Lando ne ha avuto garanzia
d'aiuto in caso di battaglia. Ed allora, il 12 luglio, invia la sfida a battaglia ai collegati. Dei
trombetti, facendo una sonante gazzarra si presentano al campo di messer Pandolfo Malatesta,
recando «una frasca spinosa, sopra la quale era uno guanto sanguinoso, e in più parti tagliato,
con una lettera che chiedeva battaglia». Pandolfo, «con molta letizia e letizia di tutta l'hoste»,
accetta battaglia, prendendo il guanto, ridendo e ricordando a tutti che in Lombardia, in
località La Frasca, ha già avuto occasione di sconfiggere il conte Lando. Sereno e tranquillo
dice poi ai messi: «Il campo è piano e libero e aperto in tra loro e noi: e pronti siamo e
apparecchiati a nostro podere a difendere ed assaltare il campo in nome e honore del comune
di Firenze, e la giustizia sua. E per niuna ragione qui siamo venuti, se non per mostrare colla
spada in mano, che i nemici del comune di Firenze hanno il torto e muovonsi male, sanza
niuna cagione di giustizia, o ragione di guerra. E pertanto speriamo in Dio, e prendiamo
fidanza e certezza d'havere vittoria di loro. E a chi manda il guanto, direte che tosto si vedrà
se la 'ntenzione sua rispondere alla fiera e aspra domanda».
Rifocillati i trombettieri tedeschi, Pandolfo li congeda e convoca il consiglio di guerra.
Tuttavia, la sfida raccolta sembra non stimolare il conte Lando, il quale, per più giorni, si
limita a fronteggiare l'esercito collegato. Finalmente, il 16 luglio, la Compagnia si schiera in
ordine di battaglia e muove contro l'armata fiorentina. Messer Pandolfo Malatesta, saviamente
consigliato, dai molti capitani esperti del suo esercito, dispone in bell'ordine i suoi e, a sua
volta, avanza verso i mercenari. Ma Corrado di Lando è stato più abile, vedendo venire i
Fiorentini, si ferma in un luogo, chiamato il Campo alle Mosche, «cinto di burrati e di aspre
ripe», che rendono difficile l'assalto all'avversario. I Fiorentini, intanto, attendono in basso,
volteggiano, provocano, suonano le trombe, poi, visto che la Compagnia, messi all'opera
palajuoli e marrajuoli, si sta rapidamente ed alacremente fortificando, Pandolfo fa bruciare il
campo base e si fortifica nel piano, a circa un miglio dai Tedeschi. Varie volte invia gli Ungari,
cavalieri armati alla leggera, a provocare i mercenari, sperando che si facciano stoltamente
attrarre al di fuori delle loro fortificazioni, ma i militi della Gran Compagnia sono dei
professionisti, e, tra l'altro, hanno tutto da perdere da un'eventuale sconfitta in battaglia: la
loro forza è costituita dalla potenza non espressa in azione, sostenuta dai molti e feroci atti di
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violenza contro gli indifesi; perché mai mettersi a rischio di un combattimento, i cui esiti sono
sempre incerti?65 Corrado di Lando ha agio di osservare con calma l'esercito collegato; lo
trova ben disposto, evidentemente ben comandato da un generale giovane, eppure prudente,
vede la freschezza delle truppe e capisce che gli avversari non temono lo scontro, anzi lo
cercano, ma non saranno tanto folli da farlo se non sul terreno da loro scelto. Corrado sa che
se Pandolfo vuole, può assediarlo, mettendolo in una posizione molto difficile. I mercenari
sono molto provati da un anno molto difficile, prima le Scalelle, poi il terribile inverno e la
fame patita, molti sono malandati e non bene in arnese ed ancora, se lo scontro militare
andasse male, tutto sarebbe perduto, se, invece, la Compagnia si sfilasse, forse, in futuro, per
Firenze potrebbe esser difficile ritrovare la concordia ed il morale che oggi evidentemente
dimostra. Poi si è vicino al mare ed alla possibilità di andare a guadagnarsi l'ingaggio che il
conte di Monferrato ha garantito. Occorre comunque far presto, infatti Pandolfo ha inviato
balestrieri e fanti sulle montagne del Lucchese, per tagliare la ritirata ed i rifornimenti alla
Compagnia. La notte sul 23 luglio, quasi un anno esatto dalla sconfitta e dal massacro
sull'Appennino, i mercenari danno fuoco al campo e si ritirano, valicano il Colle delle Donne
e raggiungono rapidamente Lucca, ancor prima che l'esercito collegato possa efficacemente
organizzare un inseguimento, con un minimo di sicurezza. Pandolfo ha avuto ordine di non
provocare i Pisani, e quindi si astiene dall'entrare nel loro territorio. Considerando il suo
operato, non si può che considerarlo positivamente: ha saputo coordinare un grande esercito,
dove sicuramente non sono mancati coloro che reputano di saperne più di lui. Ha frenato gli
sconsiderati che avrebbero comunque attaccato battaglia, ed ha costretto la temibile Gran
Compagnia a fuggirgli davanti, dopo averlo provocato a battaglia. L'unico neo consiste nel
non aver saputo prevedere che il Colle delle Mosche era una posizione tatticamente
importante, che doveva essere occupata prima che Corrado di Lando potesse farlo. Matteo
Villani sensatamente commenta che questa operazione ha dimostrato a tutti che la
Compagnia, malgrado sia numerosissima «e terribile per sua operazione scellerata e crudele»,
si può «vincere e annullare».66
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La cronaca del Trecento italiano
che lanciano palle di ferro. Le ostilità cercano immediatamente di far leva sul tradimento, ma
questo viene scoperto e Francesco Ordelaffi punisce esemplarmente e crudelmente i congiunti
dei traditori, essendo questi irraggiungibili perché fuorusciti.68 Nell’assedio, il legato usa armi
di notevole potenza: un mangano così grosso che è stato necessario operare particolari lavori
stradali per il suo transito, inoltre, un mastro Giovannino ha fabbricato bombarde in
Sant’Arcangelo e le palle di ferro che queste scagliano sono del peso di 33 libbre. Le
bombarde vengono accese accostando alla polvere da sparo delle verghe incandescenti.69
Il 30 giugno, Giovanni Visconti d’Oleggio invia al cardinale diciassette bandiere di
cavalieri agli ordini del capitano Tassino Donati.70
In una scaramuccia, Francesco Ordelaffi viene ferito al capo da un colpo di mazza da
Nicoluccio Calboli, ma si riprende in poco tempo.71 Egidio stringe l’assedio, ma non attacca. Il
tempo passa e il germe del dubbio si insinua, favorito dalle lunghe ore di attesa. Guido da
Polenta non è completamente fidato, e potrebbe dare il passo ai soldati di Bernabò, a cui, si
mormora, che Francesco Ordelaffi vorrebbe dare Forlì, piuttosto che cederla alla Chiesa. Le
voci sono suffragate anche da lettere intercettate, nelle quali Visconti e da Polenta promettono
soccorso, purché Francesco tenga duro. Meglio quindi concedere al capitano di Forlì
condizioni vantaggiose, che prolungare un’attesa dalla quale potrebbe scaturire qualche
sgradita sorpresa. Il negoziatore di pace è un uomo dell’Oleggio, Giovanni da Siena. Dal
canto suo, Francesco Ordelaffi, ridotto allo stremo, non può più contare sull’ammirevole
lealtà della sua gente, ormai troppo provata dall’assedio e dalle violenze dell’amica Gran
Compagnia. Accetta allora di intavolare trattative col cardinale Albornoz.
Il 25 giugno viene firmato un accordo tra Giovanni da Siena e un messo dell’Ordelaffi. Il
2 luglio vengono firmati i patti formali tra Egidio Albornoz e Francesco Ordelaffi. Il 4 luglio
Egidio entra a Forlì ed il giorno stesso madonna Cia, i suoi figli e gli altri illustri prigionieri
vengono rilasciati. Francesco Ordelaffi il 4 luglio apre le porte della città e il cardinale, fatte
prendere le fortezze, entra in gran pompa in Forlì alla testa dei suoi. In città premia due suoi
capitani che col braccio ed il consiglio gli sono stati di validissino aiuto in tutta l’impresa:
nella città conquistata ordina cavalieri Albertaccio Ricasoli e Petruccio di Cola Farnese, e un
giudice spagnolo Gundisalvo Roderigo de Cisneros, che, a maggio, ha riformato la ribelle
Cagli, sottraendola ai Montefeltro. Giovanni d’Oleggio, forse il vero protagonista del
successo, ottiene per sua moglie Antonia Benzoni, in feudo il castello di Dozza. Lasciato un
suo vicario in Forlì, Egidio si reca a Faenza e qui, in pubblico parlamento, Francesco Ordelaffi
gli si inginocchia dinanzi, riconoscendo le proprie colpe e sottomettendosi. Il cardinal legato
si leva la soddisfazione di sottolineare le iniquità e le malefatte del valoroso Francesco, lo
priva di ogni dignità ed onore, e gli impone, per penitenza, di visitare un certo numero di
chiese. Poi, il 17 luglio, di nuovo, lo vuole inginocchiato di fronte a sé ad Imola, di fronte a
tutti i nobili di Romagna, e qui, finalmente, lo perdona, gli restituisce l’onore della Cavalleria,
lo ricomunica, e lo lascia libero di vivere in forma privata in Forlimpopoli e Castrocaro. Con
le rocche della città in mano a persone di mutua fiducia. Francesco cede tutte le terre alla
Chiesa, senza contropartite. Per dieci anni a Francesco verrà pagata una pensione; la prima
rata il deposto tiranno la riceve il giorno stesso della sua firma con Albornoz, il 2 luglio: 2.600
fiorini. Il 22 luglio Egidio si concede una gran festa in Forlì. In questi anni di strenue fatiche
intellettuali e fisiche, il grande cardinale spagnolo è riuscito in un’epica impresa, utilizzando
tutti gli strumenti a sua disposizione, denaro, scomuniche, armi, astuzia, coraggio. Ben
meritati sono gli elogi che Innocenzo VI gli fa giungere. «E così hebbe fine la lunga e pertinace
68 I traditori sono Giovanni Savanelli, che già tradì Cia nel ‘57, e Bartolo Codiferri. Francesco Ordelaffi fa
decapitare un avunculum et unum consanguineum de domo dicti Bartoli, mentre ad un comandante, un certo
Boleta, fa strappare gli occhi ed amputare le mani. FILIPPINI, Albornoz, p. 198, nota 3.
69 ZAMA, I Malatesti, p. 66.
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guerra, e ribellione del Capitano di Forlì. E per la detta cagione la Romagna rimase in pace e
liberamente all’ubbidienza della Chiesa di Roma».72 Daniel Waley nota che questa è «una
vittoria resa possible dalle risorse finanziarie e dalla tenacia».73 Occorre però rendere onore
anche alle capacità diplomatiche e militari del grande cardinale spagnolo.
Il legato nomina Giacomo Gabrielli governatore di Faenza e toglie il bando a Gabriello
di Necciolo e Francesco di Ceccarello che hanno tolto il castello di Cagli al conte Nolfo.74
Il conte Nolfo da Montefeltro combatte contro Branchino Brancaleoni, vicario ad Orvieto
nel 1358, i combattimenti avvengono nella piana di San Giorgio e Castel Durante, luogo della
signoria dei Brancaleoni, soffre un’epidemia per le cattive condizioni igieniche degli eserciti
avversari. Il conflitto tra questi signori dura almeno fino a questo anno, quando il legato
interviene per sedarlo.75
Egidio Albornoz fa edificare in Forlì il palazzo pubblico, lastricare la piazza maggiore e
fa iniziare la costruzione della rocca di Ravaldino.76
72 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 36; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 89-90; Rerum
Bononiensis, Cr. Vill., p. 90-91 ci informano che Giovanni d’Oleggio va ad incontrare l’Albornoz ad Imola
il 13 luglio e ritorna il 18; FILIPPINI, Albornoz, p. 198-203; GRIFFONI, Memoriale, col. 173; Chronicon Estense,
col. 484; Chronicon Ariminense,col. 906-907. Niente di originale in TONINI, Rimini, I, p. 395-396. Qualche
cosa interessante in BONOLI, Storia di Forlì, p. 428-431. Buona la narrazione in SPADA, Gli Ordelaffi, p. 141-
144. Un rapido cenno in Annales Forolivienses,p. 67.
73 WALEY, Lo stato papale,p. 294.
77 Matteo Villani pone la fondazione della Felice Società al 1359, altri storici l’hanno retrodatata all’anno
precedente, ora MAIRE VIGUEUR, L’altra Roma, p. 134-140 avanza un’altra ipotesi, egli mette in luce che,
grazie a documenti notarili, sappiamo che a Roma, nelle contrade (frazioni dei rioni) esistono Capud XXV,
che, in omaggio a Bologna, lo scrittore definisce “venticinquine”. Ciascuna contrada mobilita una o più
venticinquine, i compiti dei cui componenti ignoriamo. Ora «le venticinquine dovevano essere l’unità di
base di quella milizia popolare di cui il regime popolare di Cola di Rienzo si era dotato nel 1347 e che
dal 1358, con la Felice società dei balestrieri e dei pavesari, era divenuta il pilastro del regime
comunale». Il primo atto notarile che testimonia l’esistenza dei Capud XXV è del 17 aprile 1357 e ciò
potrebbe, in via del tutto ipotetica, retrodatare l’esistenza della Felice società a questa data, in quanto la
Felice società è composta di parcelle di 25 uomini raggruppati in due corpi d’armata. Lo stesso Maire
Vigueur è esitante in proposito ed addirittura propende per la data del 1360 per la creazione della
società armata (si veda MAIRE VIGUEUR, La felice società dei balestrieri e dei pavesati, p. 582), egli fa
comunque acutamente rilevare che la riorganizzazione della milizia comunale operata da Sciarra
Colonna quando, nel settembre 1327, ha battuto l’esercito angioino all’attacco di Roma, è basata su una
ripartizione dei fanti in unità da 25 uomini, ognuna dotata di stendardo; sempre di 25 uomini è la
milizia popolare di Cola e potrebbe darsi che questi precedenti siano sopravissuti volontariamente nelle
abitudini dei cittadini delle contrade. Su balestre e pavesi (e lance lunghe) si veda SETTIA, De re militari,
p. 207-246.
78 GORI, Istoria della città di Chiusi, col. 958 scrive che Egidio Albornoz nel 1359, «per tor via le discordie
da Roma» vi mette un senatore forestiero: Raimondo Tolomei di Siena che governa per un anno. A
questi succedono il Pisano Ludovico da Ruota e Ungaro di Sassoferrato che reggono per sei mesi,
ognuno. In altri termini: Egidio Albornoz convince il papa a impedire che la massima carica di Roma
venga ricoperta da membri delle famiglie baronali, il senatore dovrà essere forestiero, come accade per
podestà e capitano del popolo nei comuni italiani. GREGOROVIUS, Roma nel Medioevo, Lib. XII, cap. 1.2.
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cittadina, di sette popolari, detti Riformatori della Repubblica, che assumono i poteri senatori.
Il braccio armato dei Riformatori sono i capi dei rioni, detti Banderesi, perché possono
innalzare il loro vessillo. Questa magistratura avrà vita corta, non più di tre anni, nel
frattempo qualche vantaggio lo dà, infatti un fratello del conte di Fondi, un certo Gaetano
della casata dei Caetani, che corre il paese compiendo furti e violenze, viene catturato e sanza
niuna redenzione impiccato, con altri componenti della sua banda. Roma può godere di un
periodo di relativa sicurezza.79
Il nuovo regime romano, sorto in opposizione ai grandi lignaggi baronali, deve poter
disporre di una forza armata che sostenga con le armi le disposizioni legislative. I Riformatori
istituiscono una milizia cittadina formato di due schiere di 1.500 uomini ciascuna, in una
militano soldati muniti di balestre pesanti, capaci di perforare qualsiasi corazza, nell’altro
uomini armati di spada e difesi da grandi scudi che vanno infissi nel terreno a formare veri
bastioni dietro i quali i balestrieri possono trovare riparo per colpire: i pavesi o palvesi. I
balestrieri ed i pavesari sono tutti cittadini romani, impegnati da un giuramento a difesa della
repubblica. L’esercito cittadino ha sicuramente ricevuto un addestramento specifico e, privo
di cavalleria, è aperto a qualsiasi strato sociale. Ognuna delle due schiere ha una propria
bandiera e chi lo issa viene detto banderese. Sulla bandiera è effigiato un balestriere e,
nell’altra, un pavesato. I banderesi sono scelti per influenza politica e, in sottordine, hanno
due prevosti per schiera, i veri capi militari. Questa milizia viene detta Felice Società dei
Balestrieri e dei Pavesati e il suo successo è misurato dalla sua lunga durata: rimarrà viva fino
al 1408. Alla Società sono affidati compiti di polizia, sia a Roma che nel distretto. Sono gli
uomini di questa società che debbono far rispettare ed eseguire la giustizia. La Felice Società è
un organismo addestrato e impressionante e può anche schierarsi a fianco del vero e
tradizionale esercito cittadino, di origine rionale e di scarsa efficacia. Chi dispone cosa i
banderesi debbano fare sono i Sette Riformatori. Ora veramente i baroni di Roma debbono
tremare: nessuno di loro dispone di una forza militare in grado di opporsi alla Felice Società
nelle vie di Roma ed appare evidente a tutti che i banderesi sono «destinati, in caso di
disordini interni, ad isolare ed espugnare i fortilizi dei baroni, a bloccare le loro scorribande
nelle strade della città, a sommergere i cavalieri e le loro costose cavalcature sotto una pioggia
di strali micidiali». Presumibilmente fin dalla loro istituzione, i due banderesi e i quattro
preposti vengono ammessi nel consiglio ristretto dei Riformatori.80 Vi è chi ipotizza che
nell’istituzione di questo corpo militare entri la capacità guerresca di Egidio Albornoz, quello
che è certo è che il papa non può che applaudire ad una potenza armata in grado di mettere
sotto controllo l’ordine cittadino.
A proposito dei Sette Riformatori così nota Jean-Claude Maire Vigueur: «hanno tutti i
poteri che, nei precedenti regimi di Popolo, erano delegati alla figura abbastanza carismatica
di un capitano o di un Tribuno: sono l’organo esecutivo del comune, ma anche l’istanza
abilitata a decidere dei grandi orientamenti della politica comunale da sottoporre ovviamente
all’approvazione del consiglio generale, composto in maggioranza dai rappresentanti dei
rioni e dai consoli delle Arti. Rimangono in carica per un solo trimestre e sono scelti secondo
un sistema non meno complesso di quello in vigore in città come Firenze, Perugia o Orvieto,
dove i Priori, o qualsiasi altro organo collegiale dello stesso genere, costituiscono ormai
l’organo motore del regime popolare».81
79 PELLINI; Perugia; I; p. 990 e VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 51. Ephemerides Urbevetanae,
Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 457-458 dice che è Albornoz che sceglie il Tolomei.
80 DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 661-663; MAIRE VIGUEUR, Il comune romano, p. 152-153.
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Aimone aveva concesso il suo speciale permesso perché il feudo passasse a Caterina, figlia di
Ludovico. Caterina ha prima sposato Azzo Visconti e ne è rimasta vedova nel 1337, quindi è
passata a nuove nozze con Raoul III di Brienne, conestabile di Francia, condannato a morte
per tradimento. In terze nozze, Caterina ha sposato Guglielmo di Namur che le ha fatto
generare figli. Il Conte Verde comprende che fecondità dell’unione gli potrebbe sottrarre il
Vaud ed allora decide di comprarlo. Il 30 gennaio 1359 viene concluso il negoziato: Amedeo
deve pagare 160.000 fiorini, divisi in tre rate. Per raggranellare il denaro, il conte tassa i suoi
sudditi e, nel luglio del 1359, il paese gli viene ufficialmente consegnato.82
§ 33. Orvieto
Il cardinale Albornoz fa edificare la sua rocca ad Orvieto nel posto che è difendibile più
facilmente e, tal fine, fa abbattere la chiesa di San Martino e molte case nelle vicinanze di
Porta Soliana. Quindi, provvede ad ottenere un giuramento di fedeltà dai membri delle
principali famiglie della città.83 Petruccio dei Monaldeschi del Cane viene allontanato dalla
città e Berardo di Corrado della Cervara e Pietro Orsini della Vipera «con lor più congiunti e
affini di parte Malcorina et Beffata» sono costantemente mantenuti fuori, al comando di
compagnie di soldati stipendiati dal legato.84
Secondo la cronaca di Orvieto, è sorta una contesa tra Ugolino conte di Montemarte e
Silvestro Gatti di Viterbo. Il legato li forza a concludere la pace tra loro. Quindi riforma il
Patrimonio e concede a Montegabbione di costruire una cinta muraria con torri e scavare una
cisterna.85
82 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 81-83; COGNASSO, Savoia, p. 147 ; Maggiori dettagli in
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nero.
89 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 44.
93 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 50; RICALDONE, Annali del Monferrato, I, p. 339-340;
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campo mille cavalieri, pone l’assedio a Sant’Agata. A lungo dura il tentativo di far capitolare
per fame la rocca, ma re Luigi non ammette azioni militari, né, tanto meno, devastazioni, per
cui Filippo di Taranto, deluso e scontento, è costretto a desistere.94
Firenze viene aiutata da Volterra; un cenno in Cronichetta d’Incerto, p. 251. Il vescovato di Arezzo affitta
Bibbiena per 7 anni a Firenze che ha così una scusa in più per strappare la città ai Tarlati. Donato Velluti
è uno degli incaricati che ha trattato la faccenda: VELLUTI, Cronica, p. 226.
97 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 48.
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Tuttavia, l’assedio viene condotto fiaccamente dal capitano del popolo e capitano
generale dell’esercito assediante, un Este; il governo di Firenze gli revoca perciò il mandato e
lo sostituisce col podestà messer Ciappo da Narni, «huomo d’arme valoroso e sentito assai».
Ciappo si mette energicamente all’opera, fa venire i maestri di legname e di cave e fa cingere
la terra di fossi e steccati, imbertescando dove necessario e iniziando la costruzione, o meglio
lo scavo, di gallerie. Quindi, eretti due edifici, da qui, giorno e notte, fa lanciare pietre dentro
la città nemica. Gli assediati rispondono ai mangani con manganelle, con le quali tentano di
distruggere le macchine da lancio. Ma messer Ciappo non riposa e tormenta tutti i castelli
circostanti ancora in mano dei Tarlati, ottenendo la resa di Corone, Giunghereto e Frassineto.
Alla fine di settembre si impadronisce di Faeto, un castelletto appartenente a messer Leale,
dove si ricava molto bottino. Tutti i castelli vengono consegnati agli Aretini, che, dal canto
loro non sono stati inattivi, e hanno conquistano un castello sul Giogo che il conte Ricciardo
dal Bagno, da lungo tempo aveva sottratto loro. A fine ottobre vengono completati tre
battifolle tra gli accampamenti. Bibbiena è ora circondata così strettamente che nessuno può
entrare o uscirne.99
102 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 51. Per comprendere quanto abbia ragione Matteo
Villani, basta leggersi MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, Lib. II, cap. 19 e seguenti.
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103 NATALUCCI, Ancona, p. 376 ci informa che la parte della rocca di San Cataldo che ospita il palazzo del
legato è terminata nel novembre di questo anno. I lavori del complesso termineranno nel 1365.
104 PELLINI, Perugia, I, p. 987-988; Diario del Graziani, p. 188-190; FILIPPINI, Albornoz, p. 203-204; SANSI,
Spoleto, p. 236-237.
105 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 50.
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ottobre, lascia l’esercito del Monferrato, passando in campo avverso con le insegne levate.
Con Giovanni di Monferrato rimane Anichino col resto della Compagnia, qualche centinaio
d’uomini, pochi ed infidi. I Tedeschi commentano sdegnati la mancanza di fede di Corrado e
dei suoi e proclamano la propria lealtà, attendendo l’occasione per passare, anche loro, dalla
parte avversa. Giovanni di Monferrato, profondamente deluso e avendo totale sfiducia nei
Tedeschi che gli sono rimasti, non osa mettersi a rischio per soccorrere Pavia.106
Bernabò invece ha inviato immediatamente il conte Corrado ad assediare Pavia. Fra’
Bussolaro, non sapendo a quale santo votarsi, inizia trattative con i Visconti. Queste
procedono spedite e, finalmente, il 13 novembre, messer Galeazzo Visconti ha il piacere di
entrare in Pavia, alla testa dei suoi. Galeazzo si mostra «benigno e piacevole», ammette il frate
rivoluzionario nel suo consiglio, trattandolo con deferenza, quasi fosse un santo. Lasciato un
forte presidio in tutte le fortezze della città se ne torna a Milano, portando con sé fra’
Bussolaro, dimostrandogli «affezione singulare», ma, in verità, per non lasciarsi dietro un tale
leader avverso. Infatti, non appena giunto nella sua Milano, lo fa prendere e mettere in galera.
Lo fa processare e condannare e lo invia a Vercelli, città natale del frate, avendogli qui
apprestata «una forte e bella prigione con poco lume e assai disagio, ponendo fine alle
tempeste secolari che, colla sua lingua ornata di ben parlare, avea commesse». Poi Galeazzo
ordina che venga costruito un fortissimo castello in Pavia, cui dà il nome di Cittadella, in cui
disporre tutta la sua gente d’arme e dove non viene ammesso alcun Pavese.107 Portasio dei
Caimi e Luchino dal Verme governano Pavia per Galeazzo.108
Piacenza festeggia la pace liberando 75 prigionieri ed organizzando un torneo al quale
partecipano i giovani delle illustri famiglie della città, Fontana, Fulgosi, Anguissola e alcuni
cavalieri dei mercenari. Il 29 novembre muore per malattia un capitano visconteo e illustre
Piacentino, messer Bernardo Anguissola, che è anche un ascoltato consigliere di Galeazzo
Visconti.109
106 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 54; per qualche dettaglio si veda DE MUSSI, Piacenza,
col. 504; POGGIALI, Piacenza, VI, p. 326.
107 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 55; RICALDONE, Annali del Monferrato, I, p. 340;
SANGIORGIO, Monferrato, p. 187; Annales Mediolanenses, col. 728-730; COGNASSO, Visconti, p. 235; Rerum
Bononiensis, Cronaca A, p. 91; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 92.
108 DE MUSSI, Piacenza, col. 505. Il frate, dopo 14 anni di prigionia viene liberato e trascorre il resto dei
suoi giorni nell’isola d’Ischia, dove suo fratello è vescovo. Qui muore, onorato come santo. GUALTIERI DI
BRENNA, Pavia, p. 684, nota 9.
109 DE MUSSI, Piacenza, col. 505. POGGIALI, Piacenza, VI, p. 327 ci dice che Bernardo si è ammalato il 15
novembre.
110 STELLA, I principati vescovili di Trento e Bressanone, p. 510-511; WALDSTEIN-WARTENBERG, I conti d’Arco,
p. 284.
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religiosi viene organizzata un'estesa congiura, il cui obiettivo è, in occasione del venerdì
santo, il 3 aprile, di uccidere gran parte dei maggiorenti, richiamare i Gambacorti e chiedere a
Firenze di tornare ad utilizzare il conveniente porto di Pisa. Ma un prete straparla,
insospettendo i governanti che lo convocano ed ottengono, non si sa con quali mezzi, una
confessione totale. Vengono immediatamente arrestati quattro preti e sette frati e circa cento
artefici delle Arti minute. La congiura ha un'estensione che sgomenta ed i rettori reputano
saggio fermarsi nelle indagini, punendo con l'impiccagione i dodici principali capi. Per gli
altri si provvede ad un'ammenda in danaro, che, grazie al sollievo per lo scampato pericolo,
viene immediatamente pagata. Ma l'evento ha rivelato tutto il malcontento che serpeggia
negli strati meno abbienti della cittadinanza e la fragilità del governo.111
Il sensale pisano Federico del Mugnaio è colui che si è dato a reclutare i mercanti
esasperati ed indebitati dallo spostamento del porto da Pisa a Talamone. La sua tecnica, molto
elementare, è esemplificata da uno dei suoi dialoghi con uno di loro: «”Come fate?” “Noi
facciamo molto poco”». E Federico, allusivo: «Li Gambacorti erano buoni cittadini, e pacifici,
e tenevano la città in grande pace...». E, quando trova che il mercante si lascia andare ad
approvare questo ricordo del buon tempo andato, quando i Gambacorti, alleati di ferro dei
Fiorentini, garantivano la pace e l’amicizia col forte vicino guelfo, gli confida il segreto
trattato che è in atto per rovesciare il governo e istaurare un potere che faccia capo a Cecco
Agliata: «Or sappi che a questo trattato si tiene ser Cecco Agliata, e li anderò di ciò a parlare».
Federico del Mugnaio frequenta in realtà messer Cecco, ma quando lo visita non gli parla
della congiura, bensì di denaro da prestare ai poveri mercanti le cui finanze sono dissestate
dalla mancanza d’affari. Ma una congiura v’è davvero, ed è favorita dai Frati Minori, un
esponente dei quali è il Pisano fra’ Bernardo del Pattieri. Il colpo di mano dovrebbe scattare
all’alba della vigilia dei santi Brizio, Vito e Portico, cioè il 12 novembre. I Bergolini
dovrebbero levare lo romore, gridando: «Viva lo popolo e li Gambacorta, e muoiano li
Raspanti!». Muoiano cioè coloro che governano Pisa e sono i responsabili dell’attuale
disastrosa situazione degli affari. I congiurati debbono andare alle case dei Raspanti, bruciarle
e saccheggiarle, prendere la piazza ed il Palazzo degli Anziani e «tagliare a pezzi messer
Gualtieri e lo conservatore». Ma la congiura è troppo estesa e troppo disinvolta, e la notte
precedente all’azione, alle due della notte, diciotto dei congiurati sono arrestati, e con la
tortura,112 estorta loro la confessione. Il 23 novembre, otto di questi, i più compromessi,
vengono impiccati sui prati fuori di Porta delle Piagge, gli altri dieci condannati all’esilio a
non meno di settanta miglia, ed a pene pecuniarie fino a 1.000 fiorini. Gli inquirenti decidono
di non scavare a fondo per identificare tutte le responsabilità, temendo di trovarsi di fronte a
una capillare ramificazione del malcontento. «E se li Raspanti avessino voluto cercare più
innanzi, arebbono votato Pisa di cittadini».113
Le lotte tra partigiani in Pisa provocano conseguenze anche a Campiglia Marittima e
viene distrutto un castello del territorio volterrano, Franciano, che appartiene all’abate del
Monastero di Monteverdi; il castello della Cornia o Rocca a Palmento, che è dei signori della
Rocca viene invece confiscato dai Pisani. Dopo la distruzione di Franciano, i Pisani prendono
anche il castello di Vignale.114
111 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 78; Cronache senesi, pag. 593.
112 Ebbono di molta colla. Vengono cioè torturati con il supplizio dello slogamento delle articolazioni.
113 Monumenta Pisana,col. 1034-1035; MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 724-726; molto dettagliato il
racconto di RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 147-150. Gli impiccati sono Leonino Stocco, pescatore,
Andrea da Lanciano, Bonagiunta da Cascina, Bartolomeo, farsettaio, Campana, bastaio, Masseo di Berto,
pollaiolo, Giovanni calzolaio da Monte Calvoli, Benacto, bastaio, come si vede tutti esponenti delle Arti
minute. Oltre a Federico del Mugnaio, l’altro capo è Ghele di Giante. Molti dettagli anche in RONCIONI,
Cronica di Pisa, p. 175-177; Roncioni descrive anche una congiura avvenuta a Pisa nel marzo 1360, che
Ranieri mescola con quella qui riportata.
114 FALCHI, Campiglia Marittima, p. 150-152.
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dicembre la presa di Castelfranco. GRIFFONI, Memoriale, col. 173 parla di dicembre e definisce l’Oleggio
perfidus tyrannus.
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dicembre entra nel Bolognese e mette l’assedio al castello di Crevalcore e vi sta per una decina
di giorni. Il castello, il 20 dicembre, s’arrende a messer Giovanni dei Pepoli che serve
nell’esercito visconteo. Nella fortificazione vengono trovati una gran quantità di viveri che
faranno passare un ottimo Natale ai combattenti. Dopo la caduta del castello, le cittadine dei
dintorni aprono le loro porte ai Milanesi, per allontanare il rischio di saccheggi. L’invernata è
«spiacevole e aspra per le molte piove», ciò malgrado, quotidianamente, i cavalieri viscontei
cavalcano sotto le mura di Bologna, predando e sequestrando persone e cose. I Milanesi si
dirigono a Casaletto sul Reno e qui, tra il canale ed il Reno, erigono una bastia, in località
Canonica di Casaletto. Intercettano le acque del fiume per impedire a Bologna di macinare,
poi vanno ad Argelato e castello d’Argile e, il 17 dicembre, ottengono per trattato
Castelfranco. Si attestano poi a Casalecchio con robuste fortificazioni, dalle quali ardiscono
compiere incursioni fino alle fosse di Bologna. I Viscontei sono comandati dal marchese
Francesco d’Este, e da Ugolino Gonzaga; con loro vi è Giacomo de’ Pepoli, che rimane a
Crevalcore, mentre suo nipote Andrea, figliolo di Giovanni de’ Pepoli, tiene Casalecchio. I
Viscontei tengono gente sul monte della Guardia, e battono tutta la contrada, la valle di
Samoggia, la val di Reno, Zola, Gesso, Coredolo, Medola, Anzola, il borgo di Panicale, in
breve tutta la zona a ovest ed a sud di Bologna, a brevissima distanza. La minaccia è tale che
tutta la regione è spopolata: «da Rheno in là non habitava cristiano». Bologna è tutta in armi e
si veglia notte e giorno. Il 24 dicembre l’esercito è al monastero di Santa Maria in Strada e vi
pernotta. A Natale è a Casaletto e a San Paolo di Raona, in pratica alle porte di Bologna. I
Viscontei intercettano l’acqua del Reno in modo che non possa arrivare a Bologna.
Giovanni d’Oleggio, cui il coraggio non manca, dispone le sue scarse forze a presidiare
le fortezze che gli rimangono, scacciandone dall’interno tutti coloro dei quali crede di non
potersi fidare. Riceve 400 barbute che il cardinale Egidio Albornoz gli ha inviato, sotto il
comando di Azzo degli Alidosi, e mobilita tutti gli armati di Bologna, incaricandoli di
montare la guardia notte e giorno. Cerca quindi di tirare dalla sua parte Firenze, ma questa
preferisce la pace subito al rischio di un vicino aggressivo come Bernabò.118 Giberto da
Correggio porta in soccorso di Bologna otto bandiere di cavalieri.119
Mentre si reca da Ancona a Forlì, per esser più vicino al teatro dell’azione, Egidio
Albornoz corre un gravissimo rischio. La sua comitiva sta transitando sotto le mura di
Forlimpopoli, quando viene bersagliata da bombarde, che, fortunatamente, non la colpiscono.
Forlimpopoli viene privata della sede episcopale, che viene trasferita nel castello di
Bertinoro.120
118 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 57; BAZZANO, Mutinense, col. 630-631; Chronicon
Estense, col. 484; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 91-92 e 94-95; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 92-93 e 94-
95; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 87-89; GRIFFONI, Memoriale, col. 173-174; AZARIO, Visconti, col. 385-386;
e, nella traduzione in volgare, p. 143-145; COGNASSO, Visconti, p. 236-237; Chronicon Estense, col. 484;
FILIPPINI, Albornoz, p. 205-208.
119 FILIPPINI, Albornoz, p. 208, nota 4.
121 UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 236-238; TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. ; Leonard, p. 484.
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122 I loro nomi sono: Andriolo Malaspina, Gualtiero da Montorio e Giachelino Tedesco.
123 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 59 e 60; ROSSINI, La signoria scaligera dopo Cangrande, p.
700-701; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 92-93; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 88-89; Rerum
Bononiensis, Cr. Vill., p. 93-94; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 90-92. VERCI, Storia della Marca Trevigiana,
tomo 14°, p. 271-275 nota che il momento dell’assassinio è ben scelto perché Cangrande ha inviato la sua
guardia del corpo a Bernabò Visconti per l’assedio di Bologna. Un epigramma per la morte di
Cangrande è in Poesie minori riguardanti gli Scaligeri, p. 127-128. Senza novità Annales Forolivienses,p. 67.
124 CARRARA, Scaligeri, p. 201; Carrara riporta anche una “profezia” di Tommasuccio da Foligno, che
chiama il fratricida con il nome di Caino, anche se il nome di Abele non sembra tanto appropriato per
quegli che fu chiamato Canis rabidus.
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collocare risolutamente il Boccaccio, come il suo Petrarca, quale autore classico accanto ai
greci e ai latini nei palchetti delle biblioteche dell’Europa civile, almeno fino ai primi del
‘700». Giovanni però compone anche in volgare, scrive sonetti fortemente influenzati dalla
maniera petrarchesca, rielabora la sua opera giovanile: l’Amorosa visione e, un paio d’anni
dopo, scrive la sua Epistola consolatoria a Pino de’ Rossi. Soprattutto si dedica al Trattatello in
laude di Dante, che Vittore Branca definisce: «un’esemplare e appassionata biografia e una
presentazione del poeta che è veramente un capolavoro in se stessa». Nel suo incontro a
Milano con Francesco Petrarca, Dante diventa un argomento di animata conversazione, con
Boccaccio che lo loda sperticatamente e Petrarca che esprime, forse non pensandole, alcune
critiche. La discussione è talmente animata che Francesco Petrarca pensa di avere offeso
l’amico e gli scrive poi per correggere le proprie dichiarazioni e per rassicurare Giovanni che
considera Dante un grandissimo poeta. Il primo aprile, Boccaccio è sulla via del ritorno e ha
già passato il Po. Rientrato a Firenze, il poeta gode di crescente considerazione e viene anche
incaricato di un’ambasceria a Bernabò Visconti, della quale ignoriamo gli scopi. Alla fine di
questo anno, Giovanni incontra Nicola Acciaiuoli che è venuto a Firenze per chiedere alla
Signoria aiuto per la riconquista della Sicilia. Francesco Buondelmonti, nipote del siniscalco,
acquista una copia del Decameron.131
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delinea all’orizzonte. Sono quarantuno galee e altri legni.134 Uno degli ufficiali che comanda la
flotta è il nostro cronista Pero Lopez de Ayala. La città di Barcellona viene mobilitata, il porto
protetto da catapulte, l’accesso ne viene sbarrato con dieci galee e tutto il naviglio da pesca. Il
10 giugno i Castigliani attaccano. Molti combattenti delle due parti vengono feriti dalla gran
quantità di frecce scambiate. La flotta castigliana si ritira. Il giorno seguente, Re Pietro il
Crudele ripete l’assalto, l’ammiraglia castigliana punta contro la più grossa nave aragonese; a
poppa della nave castigliana è montato un trabucco che scaglia contro la nave aragonese,
questa è però munita di una bombarda che, sparando, danneggia l’ammiraglia,
costringendola a ripiegare. Re Pietro di Castiglia non insiste nell’attacco ed il giorno seguente
salpa per Maiorca. I Castigliani sbarcano ad Ibiza, devastano l’indifeso territorio ed assediano
il castello. Pietro d’Aragona decide di accorrere in aiuto di Maiorca e salpa il 23 giugno,
attraccando a Maiorca il 3 luglio. Tra i suoi comandanti vi sono Bernat de Cabrera, Gilabert
Centelles e quegli che ha dato inizio al conflitto con la sua azione contro le navi genovesi:
Francesco de Perellos. La flotta aragonese è di trentotto galee.135 Pietro di Castiglia evita il
contatto con la flotta nemica e toglie l’assedio al castello di Ibiza, quindi salpa, senza
ingaggiare il combattimento. L’inseguimento aragonese è senza risultato. Il 26 agosto la flotta
d’Aragona lascia l’isola e rientra a Barcellona tre giorni più tardi.136 Pietro d’Aragona
approfitta della stasi dei combattimenti per convocare le Cortes ed ottenere denaro,
imponendo nuove esazioni.137
In settembre, Enrico Trastámara, alla testa di un esercito di Aragonesi e Castigliani ribelli,
attacca e sconfigge a Araviana un esercito superiore numericamente. Nello scontro muore il
comandante nemico, il camarero mayor di Pietro il Crudele, Iohan Fernandez de Henestrosa.
Per vendicare il suo lutto, il Crudele fa assassinare i fratelli più giovani di Enrico Trastámara:
il diciannovenne Juan e il quattordicenne Pedro, in custodia a Carmona.138
La fine dell’anno porta una buona notizia a Pietro d’Aragona, il difensore di Tarazona,
Gongalo Gonzalvez de Lusio, colpito dalla perdita del suo uomo di riferimento Fernandez de
Henestrosa, ha consegnato il castello contro 40.000 fiorini d’oro e la mano di Violante di
Urrea, erede d’Aragona.139
134 ESTOW, Pedro el Cruel, p. 197 ci informa che 28 galee sono castigliane, 10 sono mandate dal Portogallo,
3 vengono dal regno di Granada, inoltre vi sono 80 barche coperte, ed altri 7 legni.
135 20 armate da Barcellona, 10 da Valencia, 5 da Maiorca, 2 da Tortosa ed una rispettivamente da
Saragozza, Culibre e Puerto de Rosas. AYALA; Coronica del rey don Pedro, 1359, cap. XIII.
136 AYALA; Coronica del rey don Pedro, 1359, cap. XII-XVI; HILLGARTH & HILLGARTH, Pere III of Catalonia
Chronicle, vol. II, p. 522-527, cap. XXII-XXVI. O’CALLAGHAN, A History of medieval Spain, p. 422 se la cava
in due righe. Esteso il racconto in ESTOW, Pedro el Cruel, p. 197-199.
137 HILLGARTH & HILLGARTH, Pere III of Catalonia Chronicle, vol. II, p. 527, cap. XXVII; ZURITA, Annales de
139 AYALA; Coronica del rey don Pedro, 1360, cap. VI; ZURITA, Annales de Aragon, Lib. IX, cap. XXVI.
140 CONTAMINE, La Guerra dei cent’anni, p. 42; FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 100 e 105-114.
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§ 56. Le arti
Andrea Orcagna diventa capomaestro dell’opera del Duomo di Orvieto e ricopre tale
funzione fino al 1362.
In questo anno Lorenzo Veneziano dipinge lo Sposalizio di Santa Caterina. Lo data e lo
firma Lorenzo pentor in veneia. L’opera è pervasa da grazia cortese e l’abito di Santa Caterina è
un fastoso abito da sposa della più ricca moda veneziana, rosso corallo con arabeschi d’oro.142
Di natura diversa dalla corposità dei dipinti del Maestro di Montiglio (e Vezzolano) è
una lunetta affrescata in San Giovanni ai Campi a Piobesi Torinese. Essa è datata 1359, la sua
pittura, garbata e tenera, mostra nei panneggi la comune adesione ad un modello
piemontese.143
Da qualche anno, dal 1348, Vitale da Bologna si è stabilito ad Udine e ha dipinto degli
affreschi dei quali oggi sopravvivono solo pochi frammenti «ma quei pochi (almeno le scene
frammentarie della Susanna al bagno, della Flagellazione, dell’Andata al Calvario) sono di una
forza selvaggia, quasi sconvolgente». Il pittore mostra una grande scioltezza di segno, una
sbrigliata fantasia narrativa ed una grande capacità cromatica. Da qualche anno, diciamo dal
1350, Vitale ha affrescato il duomo di Spilimbergo con Storie bibliche e Storie della vita di Cristo.
Può darsi (la critica è divisa in proposito) che egli abbia avuto con sé un aiuto, conosciuto
come “Maestro dei Padiglioni” e ipoteticamente identificato con Cristoforo da Bologna.
Questo pittore ha dipinto un paliotto su tavola nel Duomo di Udine, con le Storie di San
Nicolò. In questo anno, il 1359, viene redatto il primo documento che riguarda Cristoforo da
Bologna. Scrive D’Arcais che «La presenza di Vitale a Udine significò una conversione in
massa per gli artisti della regione».144
Intanto, a Pisa, prosegue l’edificazione del Camposanto. Il muro esterno verso la piazza è
stato completato e così pure parte dei tratti adiacenti ad est ed ovest. L’angolo sud-est del
loggiato è stato terminato, manca almeno una parte del loggiato dalla parte meridionale e
tutto il loggiato a settentrione. Dopo la peste del 1348, è ormai pratica comune la sepoltura in
questo monumento non ancora finito. Dal 1349 è capomaestro dell’opera Cellino di Nese,
scultore ed architetto. L’8 giugno 1359 viene commissionata la tomba di un illustre professore
dello Studio di Pisa, Ligo Ammannati. Conosciamo i nomi degli scultori che hanno ottenuto
l’incarico: Francesco del fu Lippo, Colo Mucido del fu Coscio, Puccio del fu Landuccio e
Matteo di Tone. Il 17 maggio dell’anno successivo il monumento è completato. «La tomba è
del tipo ad arcosolio, con il defunto giacente sotto il baldacchino e nella cassa il Cristo in pietà
tra due stemmi del defunto; sul coronamento dell’arcata della camera funebre si imposta
un’edicola entro cui è rappresentato a bassorilievo Ligo in cattedra che tiene lezione ad otto
studenti». Antonio Caleca rileva che questi scultori dimostrano di essere stati influenzati dalla
stessa cultura dei figli di Andrea Pisano, Nino e Tommaso; «in particolare sono fortissime
analogie con le parti residue dei sepolcri tutti attribuibili a Nino, degli arcivescovi pisani
Giovanni Scherlatti e Andrea Moricotti […] e del doge Giovanni dell’Agnello». Uno degli
scultori, Puccio di Landuccio diviene capomaestro nel 1369. Dal 1349 al 1369 uno dei lati
brevi, forse quello occidentale, viene completato e si dà mano ad iniziare la cortina del lato
settentrionale, che viene completata entro il secolo, sotto la direzione di Lupo di Gante, che
subentra a Puccio nel 1389 e, dopo la sua morte, del fratello Nanni di Gante. In questo
periodo vengono iniziate le quadrifore e nel 1397-98 la costruzione del Camposanto può dirsi
completata. Per la ripresa della decorazione pittorica occorre attendere l’ultimo quarto del
secolo.145
1359
391
Carlo Ciucciovino
«La splendida stagione del gotico aostano, tutto orientato in direzione oltralpina, quasi
che le chiuse di Bard fossero state un confine invalicabile, si chiude con la preziosa cassetta
reliquiario di Sant’Orso, databile al 1359». Un’opera che Elena Rossetti Brezzi ipotizza sia
stata realizzata a Chambéry, «dove, data la presenza presso la corte sabauda del Fiorentino
Giorgio dell’Aquila, era verosimile sopravvivessero ancora le suggestioni di cultura giottesca
riconoscibile nelle figure a sbalzo del reliquiario».146
La tomba del cardinale Bertrando del Poggetto, morto nel 1355, viene eretta a Saint-
Didier d’Avignone nel 1359. Durante gli anni della rivoluzione francese, la tomba è stata in
gran parte distrutta, ma ne rimangono parti che ci consentono di apprezzare la finezza di
esecuzione dell’opera, in pietra di Pernes. Molti elementi sono ispirati alla vicina tomba di
papa Giovanni XXII.147
146 BREZZI, Per un profilo del tardo Gotico, in Il gotico nelle Alpi, p. 201.
147 GARDNER, The Tomb and the Tiara, p. 146-147.
1359
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CRONACA DELL’ANNO 1360
§ 1. La resa di Bibbiena
Bibbiena è sotto assedio da 2 mesi e 12 giorni. Un assedio pressante, in cui agli assalti
continui si aggiungono le gallerie che i Fiorentini stanno scavando sotto le mura, per minarle
e demolirle. Messer Marco e suo zio messer Leale Tarlati, con la loro instancabile operosità
affrontano tutti i problemi, sono presenti ovunque «e indurati ne gli affanni e ne' pericoli, non
si chinavano a nulla, ma con fronte dura e pertinace più si mostravano fieri che mai».
Tuttavia, la popolazione è di altra tempra e di altro avviso: più crescono i disagi ed i pericoli,
maggiore appare loro la giustizia della causa fiorentina, e maggiore la convenienza di
accordarsi con i Fiorentini. Una delegazione di cittadini si reca dai Tarlati, pregandoli che
«prendessono partito a buon'hora», ottenendone «spiacevole e mala risposta». Ma diciotto di
loro non si lasciano intimidire e congiurano insieme, eleggendo per loro capo un certo
Maestro Acciajo, «huomo secondo suo grado intendente e coraggioso». I diciotto si accordano
con cittadini scacciati da Bibbiena dai Tarlati per (giusto) sospetto, incaricandoli di negoziare
con l'esercito fiorentino. I fuorusciti incontrano Farinata degli Ubertini e due commissari
dell'ufficio della guerra, cui comunicano le basi della trattativa: i Fiorentini promettano di
astenersi dal saccheggio e i diciotto daranno loro la città. I signori ed i collegi danno pieno
mandato a Farinata e colleghi di negoziare «fede, sicurtà e patti». Farinata deve attendere
qualche giorno per poter nuovamente comunicare con i congiurati, precisamente fin quando è
il loro turno di montare la guardia ad un tratto delle mura. Ma, giunto il tempo, essi calano
dagli spalti un fante che si reca dal plenipotenziario. Farinata e messo vanno dal capitano
dell'esercito e concordano il piano. Per timore che trapeli qualcosa, il capitano fa preparare un
robusto contingente di soldati, quattrocento dei migliori e più gagliardi fanti e ottanta
cavalieri, ma che questa volta servono a piedi, anche se forniti di tutte le loro armi,
propalando la voce che ci si reca ad un agguato per sorprendere soccorsi a Bibbiena. A questo
anni: si veda SER GORELLO, I Fatti d’Arezzo,col. 842, che dice: Sexto de Jano in Pascha triumphale/Mille
trecento sessanta correa/Quando fur messi per l’oscure scale/De lor castella ciascun li mordea/La rocca Chiusi che
ha presa a inganno/De la lor parte adversa Tolomea/ Nove anni, e mesi nelle Stinche stanno/E con fatica se pon
mantenere. Anche Diario del Graziani, p. 190. AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XI, anno 1360, vol. 3°, p. 240-
241 ci dice che i Tarlati presi prigionieri sono Ludovico, Marco e Piero.
7 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX; cap. 66.
8 Tra i nemici di Nicola sono da enumerare Francesco del Balzo, conte di Andria, e marito di Margherita
di Taranto, sorella del re, Luigi di Sabran, conte di Ariano e l’ammiraglio Goffredo di Marzano.
UGURGERI DELLA BERARDENGA, Acciaiuoli, I, p. 247-248.
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394
La cronaca del Trecento italiano
sovrano. Nicola ha accettato volentieri una missione alla corte pontificia, per dirimere la
questione del censo non pagato che ha fatto fulminare l'interdetto sul regno di Napoli. Il
viaggio, lontano dall'angustia di corte, il contatto con correnti più vive e vitali, l'incontro con
personaggi degni della sua intelligenza e della sua capacità, è un soffio di aria fresca nella sua
vita. La missione è iniziata alla fine del ‘59 e subito è stato chiaro che il prestigio personale di
Nicola alla corte pontificia gli avrebbe garantito il successo. Viene sistemata la questione del
censo e dell'interdetto, ma, più importanti di tutto sono gli onori ed i riconoscimenti di cui il
papa colma Nicola. Contro il parere di tutti, il papa dà l'arcivescovado di Patrasso a messer
Giovanni di Jacopo di Donato Acciaiuoli. A Nicola, nel giorno di Pasqua rosata, il 24 maggio,
consegna la rosa d'oro, ornata di uno zaffiro e due rubini, un riconoscimento al più nobile che
si trovi alla corte pontificia, un premio consegnato anche a re Luigi una dozzina d’anni prima,
un’insegna regale quindi, che accomuna Nicola al suo sovrano. Il papa lo vorrebbe anche fare
Senatore di Roma a vita, e rettore del Patrimonio e conte di Campagna, ma Nicola declina i
grandi onori perché non si sente di accettarli senza licenza del re, per non esasperare le
invidie nei suoi confronti. Mentre è sul punto di congedarsi, la sua grande reputazione
procura a Nicola una brutta gatta da pelare: Innocenzo VI lo prega di andare a Milano, per
ricondurre all'obbedienza Bernabò. Il pragmatico Acciaiuoli accetta con grandi riserve
mentali l'impossibile, ma indeclinabile, missione.9
§ 5. Sardegna
Il regno d’Aragona è molto occupato nel suo confronto con la Castiglia e la Sardegna,
fortunatamente per ora in pace, passa in secondo piano, tuttavia gli amministratori catalani
dell’isola si occupano di migliorarne le condizioni di vita. All’inizio di questo anno, ad
Alghero e Sassari, viene estesa al territorio extra urbano la giurisdizione del veghiere, un
magistrato di primo grado in campo civile e penale. Questo magistrato sui nobili ha solo
poteri in campo civile. «Il veghiere nell’amministrazione della giustizia è affiancato da cinque
giurati, uno per ciascuna delle principali componenti sociali: nobili, patriziato, mercanti,
burocrazia regia, agricoltori». Ad Alghero viene introdotto un magistrato, dal nome curioso
di mostassaffo, che ha il compito di regolamentare il commercio al minuto. Il mostasaffo opera
a Cagliari dal 1331. Nel 1361 Iglesias viene dotata di una fiera annuale della durata di dieci
9 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX; cap. 95; Ugurgeri della Berardenga, Acciaiuoli, I, 253-255.
MALACARNE, I Gonzaga di Mantova, p. 56-58. Ruffino Landi è vescovo di Mantova dal 1347.
10
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Carlo Ciucciovino
giorni ed ai Sardi che decidono di trasferirvisi viene garantito il diritto della conservazione
dei loro beni nei paesi d’origine.12
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La cronaca del Trecento italiano
fortezza che domina Bologna da sud, Santa Maria del Monte, che affida a un galantuomo,
Vacchino de' Mezzavacchi. Ogni sera vi manda «cerne di fanti» a sorvegliarla. Si fortifica
anche San Michele in Bosco. Giovanni, che non si fida di nessuno, provvede a cambiare ogni
sera coloro che debbono sorvegliare una fortificazione, così che nessuno possa esser tentato di
accordarsi con i Viscontei per garantire loro l'accesso. La mattina del venerdì 10 febbraio si
scopre con sgomento che, durante la notte, vi è stato un tentativo di scalare le mura, vengono
infatti rinvenute otto scale, mannaie e picconi. Il primo giorno di Quaresima, mercoledì 19
febbraio, i Viscontei fanno una puntata ad Argelato. L'esercito visconteo è a Casalecchio, ad
un niente da Bologna, ed il capitano, Paganino di Panico, da qui lancia continue incursioni
che massacrano il territorio. Il 22 febbraio i Bolognesi tentano un assalto contro Casalecchio,
un grande impiego di cavalieri e fanti per dar fuoco a qualche casa.17
Gli Ubaldini, si sono divisi e alcuni parteggiano per l'Oleggio ed altri per il signore di
Milano. Il risultato è che le vie degli Appennini non possono essere usate da nessuno dei due
contendenti. Il cardinal legato, «che, come il nibbio, aspettava la preda», attende che Bologna
gli cada tra le braccia ed aiuta Giovanni d’Oleggio con tutte le sue forze, inviando
continuamente a Bologna gente e vettovaglie. Bernabò, furibondo, gli scrive, intimandogli di
cessare gli aiuti, e minacciandolo di portargli la guerra in Romagna e nelle Marche. Più
Bernabò minaccia, più Egidio raddoppia gli sforzi: non è certamente uno scontro tra timidi! Il
più spaurito è il povero Giovanni, che cerca di cavarsi d'impiccio mandando ambasciatori a
Milano per cercare pace, a Firenze a cercare aiuto, all'Albornoz, trattando la cessione di
Bologna. Mentre la guerra si sostiene e rafforza, e mentre, alla fine di febbraio, Castiglione (tra
Modena e Bologna) cade in potere del Visconti, Giovanni, «huomo al suo tempo riputato
astuto e di buona testa, e per molti anni pratico delle battaglie del mondo», sa che non potrà
reggere a lungo contro il fortissimo Bernabò, ma, intanto, «sagacissimamente si sostenea»,
scacciando gli infidi e usando la massima sorveglianza, per prevenire tradimenti. Ma
continuamente arrovellandosi su come possa «dare ad altrui i pensieri della guerra, e uscire
di tante persecuzioni, in luogo dove potesse il resto de' suoi giorni in pace vivere».18
Firenze, per meglio controllare le terre degli Ubaldini, apre una nuova strada in Mugello
che congiunga Scarperia e Fiorenzuola e così assicurare le comunicazioni con Bologna. Con
tale via i viandanti e i rifornimenti non sono più costretti a percorrere le strade di Sant’Agata
e Galliano, entrambe controllate dagli Ubaldini. Scarperia si avvantaggerà molto
economicamente da questa nuova infrastruttura.19
Mentre armi e tradimenti sono all'opera, le attività diplomatiche fervono
incessantemente. Giovanni d'Oleggio, dopo aver tentato invano di concludere la pace col
Visconti, vuol cedere Bologna all'Albornoz, che volentieri accetterebbe, ma la prudenza lo
trattiene per due motivi, il suo esercito non è sufficientemente forte da resistere a quello
milanese, e, soprattutto, Egidio sa che alla corte papale gli ambasciatori viscontei stanno
esercitando una pressione continua, resa persuasiva dalla grande disponibilità di denaro
stanziato a tal fine. Nondimeno Egidio, «ch'era d'animo grande e desideroso di torre quella
impresa per crescere suo honore e nome», tempesta di lettere e messaggeri il papa,
illustrandogli tutte le buone ragioni per le quali non si poteva proprio rinunciare alle
profferte dell'Oleggio. «La forza de' danari e de' doni» di Bernabò è però tale «che hora sì,
hora no, si dicea, con poco honore della Chiesa di Roma». Ma in febbraio finalmente la
decenza vince e il Santo Padre ed i cardinali deliberano che «nel nome di Dio facesse
la'mpresa». Bernabò però aumenta la pressione militare e raddoppia gli sforzi per tentare, col
tradimento, di ottenere quello che la diplomazia e le armi finora non gli hanno consentito. «E
17 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 96-97; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 96; Rerum Bononiensis, Cr. Vill.,
p. 96-97; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 96.
18 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 65; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 97-98; Rerum
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Carlo Ciucciovino
così la città di Bologna era di fuori tribolata, e dentro stava in gelosia. E prima non sappiendo
a cui fosse venduta, e sappiendo che di lei si facea tenere mercato, e non osava parlare».20
In febbraio, Bernabò prende contatto con Francesco Ordelaffi, «homo di grande animo e
ne l’arte militare non puocho experto», e lo trae dalla sua parte, nominandolo capitano
generale del suo esercito.21
Intanto, i giorni si sgranano col loro rosario di cattive notizie: un famiglio fedele per venti
anni a messer Giovanni, il comandante della rocca di Castelfranco,22 il capitano messer
Ardizzone di Novara, cede per denaro la sua fortezza ai Viscontei, che ne prendono possesso
la notte di mercoledì 26 febbraio. Tradimento certo, ma che risparmia violenze e saccheggi. Il
2 marzo si ribella la Molinella, guardata da un Lambertazzi.23 Il 13 marzo, di notte, il castello
di Serravalle, cosiddetto perché in effetti serra il passo che da Bibbiena porta in Romagna, si
dà ai Fiorentini.24 Montecchio si dà agli Aretini. Tardando i Fiorentini, quelli della Valle di
Chiusi si danno ad Arezzo; ma Guido, fratello di Marco Tarlati, riesce a tenere la rocca che è
fortissima, «e da non potersi mai vincere per forza», e gli Aretini altro non possono fare se
non cingerla d'assedio.25
24 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 99-100; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 99, dice che domenica 15 arriva
la notizia a Bologna che il castello di Serravalle, presidiato da Stefano Biffo per Giovanni d’Oleggio, si è
arreso a Taddeo, figlio del fu Mazzarello da Cusano.
25 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 70 e RIS; XV; Mutinense; col. 631.
26 Matteo Villani ci conferma che quella cifra rappresenta il costo dell'ingaggio di 300 cavalieri per 3
mesi, il che porta a uno stipendio mensile per cavaliere a qualcosa meno di 8 fiorini
27 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 72; MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 144.
28 Una macchina da guerra di Artale è capace di scagliare massi fino a tre quintali; MIRTO, Il regno
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MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 144-146; MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, Lib. II, cap. 53.
29
MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, Lib. II, cap. 56; MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 146.
30
33 AYALA; Coronica del rey don Pedro, 1360, cap. VII, X e XI; ESTOW, Pedro el Cruel, p. 200-201 ritiene
inesplicabile che Pietro di Castiglia abbia lasciato fuggire Trastámara. Anche VILLANI MATTEO E FILIPPO,
Cronica, Lib. IX, cap. 63 e VALDEÓN, Pedro el Cruel y Enrique de Trastámara, p. 87-88.
34 ZURITA, Annales de Aragon, Lib. VIII, cap. LX per le trattative in merito e Lib. IX, cap. XXXII per la
notizia.
35 Egli è Abu Sa’ad, suo cugino. Si veda ESTOW, Pedro el Cruel, p. 205.
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Messer Giovanni pone un'unica condizione per accettare una completa ubbidienza al
Visconti: di poter continuare a governare Bologna come suo vicario fino al termine della sua
esistenza. I Benzoni accettano, salvo conferma di Bernabò e, lietissimi, tornano a Milano. Qui
il signore conferma che si può concedere ogni cosa a chi gli ritorna in mano: una soluzione del
genere è sempre meglio che Bologna nelle capaci mani del temibile Albornoz. I giovani
Benzoni, inesperti e sconsiderati, sono ormai certi di aver in pugno il successo e festeggiano
anzi tempo, perdendo del tempo preziosissimo. L'Oleggio dal canto suo, da persona astuta e
sleale non si fida della parola del Visconti e, quando il termine ultimo concesso ai Benzoni è
scaduto da ormai tre giorni, decide di troncare ogni indugio e di concludere con il cardinal
legato. Quando, il giorno seguente, gli scriteriati Benzoni arrivano a Bologna, trovano la pietra
posta in calcina, il trattato concluso e la loro missione clamorosamente fallita. Bernabò non li
perdonerà: esilierà loro e le loro famiglie e incamererà tutti i loro beni.37
In cambio della cessione di Bologna, Giovanni ottiene la signoria a vita della città di
Fermo, sufficientemente lontano dalle grinfie del Visconti, il titolo di marchese della Marca, e
l'accollo da parte dell'Albornoz i tutti gli stipendi arretrati dei mercenari, fino al giorno del
passaggio dei poteri. Messer Azzo degli Alidosi da Imola, persona di fiducia di ambedue i
contraenti, si reca a Fermo a prenderne possesso in nome di Giovanni. Il 15 marzo entrano a
Bologna «a suono di trombe e con grande allegrezza», le genti della Chiesa, condotte da
messer Pietro Nicola Farnese, dopo che il castello di porta San Felice è stato consegnato alle
guardie ecclesiastiche e sopra ambedue le torri sono state issate le insegne di Albornoz.
Giovanni d'Oleggio consegna la bacchetta della signoria al Farnese; tutta Bologna, finalmente
libera dall'odiata tirannia, inneggia alla Chiesa. Il 16, Giovanni, che ancora intende trattenersi
in città per una quindicina di giorni, manda alcuni dei suoi a prelevare un Bentivoglio,
presumibilmente per operare una qualche vendetta. Ma il Bentivoglio è ben accompagnato, si
ribella e si difende, gridando «All'arme, all'arme!». Il grido si diffonde in un baleno e il
capitan Farnese ha un bel daffare per calmare gli animi della popolazione che vorrebbe
linciare l'Oleggio. Questi si è barricato nella cittadella, e tutta la notte veglia, armato, con la
sua guardia del corpo e sotto la protezione degli armati della Chiesa. Il giorno seguente, il 17,
arriva finalmente Blasco Fernando da Belviso, nipote di Egidio e suo braccio destro. Entra da
Porta di Stra' Maggiore e va a stare nel Palazzo di Giovanni de’ Pepoli, nella strada di
Castiglione.38 Anche il suo arrivo però non basta a calmare gli animi esacerbati e il giorno
dopo scoppia un'altra sommossa. Si dice che Giovanni d’Oleggio non voglia dar corso a
quanto promesso, e che Bernabò gli abbia concesso patti migliori di quelli dell’Albornoz. Il
popolo s’arma e scende nelle strade. I sostenitori di Giovanni inneggiano al suo nome, ma,
premuti dalla popolazione che urla: «Viva la Chiesa!», sono costretti a riparare dentro la
cittadella. «Fu una delle belle tratte che facessero mai più i Bolognesi», dice la cronaca di
Bologna. Il Farnese quieta il tumulto, prende la guardia delle porte, corre la città e,
provvedimento fondamentale, apre le porte delle prigioni, facendo uscire tutti i nemici di
Giovanni d'Oleggio, dando la sicurezza ai Bolognesi che, malgrado il tiranno appesti ancora
con la sua presenza la città, non vi è modo di tornare indietro. La situazione ritorna
lentamente sotto controllo, anche se l'odio e l'ingiustizia seminata dall'Oleggio, fanno temere
di momento in momento lo scoppio dell'ira popolare. Il 24 marzo, il consiglio dei
Quattrocento, su proposta di don Blasco, assolve l'Oleggio da ogni condanna o processo.
Messer Antonio da Fermo il 27 assume la carica di podestà. Giovanni, volpino come sempre,
fa spargere voci contrastanti sulla sua partenza: chiede la via agli Ubaldini, no, a Firenze: «i
Bolognesi stavano a orecchi levati, e non facevano motto, aspettando di predarlo, e di fare
strazio di lui gran voglia n'havieno». Giovanni, in gran segreto, a mezzanotte del 31 marzo,
sguscia fuori dalla cittadella e da Bologna, protetto da 1.000 barbute, pagate da Egidio, si
37 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 74. I negoziati tra Giovanni d’Oleggio e Albornoz sono
ben descritti in FILIPPINI, Albornoz, p. 212-213.
38 GRIFFONI, Memoriale, col. 174.
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avvia verso Imola, senza incontrare ostacoli e va a Cesena a visitare il legato. Nicolò Spinelli
viene assunto dal legato con uno stipendio di 50 fiorini al mese, Giovanni da Siena riceve
invece un premio di 1.000 fiorini dall'Oleggio e lo segue a Fermo in qualità di giudice.39
Un radioso risveglio attende i Bolognesi che, finalmente, si sono liberati di quel duro
tiranno che li vessa dal 20 aprile 1355. Giovanni ha fatto decapitare più di cinquanta dei
maggiori cittadini, ne ha scacciati ed esiliati innumerevoli ed ha munto e spolpato tutti i
Bolognesi. «E havendo fatte tante crudelitadi e tante storsioni e ruberie, come volpe vecchia,
seppe sì fare che con grandissimo mobile di moneta e gioielli liberamente se n'andò e
ridussesi in Fermo [...] E per certo s'egli era tenuto savio, questa volta lo dimostrò». Uscito il
tiranno, entrano in città i Bentivoglio e dalle facciate delle case vengono cancellate le insegne
del biscione visconteo, solo i Lambertazzi le mantengono, incrollabili nella loro colorazione
ghibellina.40 Lo stesso primo aprile assume la carica di vicario della Chiesa per Bologna il
valoroso Blasco. Egli e il Farnese iniziano la "luna di miele" con i Bolognesi, introducono
sgravi fiscali, formano il consiglio cittadino includendovi esponenti di ogni categoria sociale.
Il 13 aprile, di lunedì, viene fatto un gran consiglio nel quale si decide, con 1644 voti
favorevoli e 5 contrari, di inviare una delegazione a Roma, per dare, o meglio, restituire,
Bologna alla Chiesa.41 Unica nota allarmante nella letizia e nel ritrovato senso di libertà che ha
pervaso i Bolognesi è costituita dalla minaccia di Bernabò Visconti, i cui soldati, invitati dal
Farnese a uscire dal territorio della Chiesa reagiscono con scorrerie a Faenza e Forlì, rubando
bestiame e persone, distruggendo case e strade, seminando morte e terrore.42
39 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 100-102; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 100-101; Rerum Bononiensis,
Cr.Bolog., p. 96; VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 75 e FILIPPINI, Albornoz, p. 209-214. Anche
GRIFFONI, Memoriale, col. 174; BAZZANO, Mutinense, col. 631; GIULINI, Milano, lib. LXIX anno 1360.
GUALTERIO, Montemarte, 2°, p. 184 nota che il cardinale Albornoz evidentemente conta molto su alcuni
potenti Orvietani, tra cui i Farnese e, ci informa che con Pietro Farnese militano anche Ugolinuccio di
Montemarano e Giacomo di Vitozzo, entrambi appartenenti alla grande famiglia dei Baschi. MICHETTI,
Fermo, p. 101 registra che la moglie dell’Oleggio, Antonia de’ Bencioni ottiene a vita il possesso di
Marano e Grottammare. Diario del Graziani, p. 190. Sull’Oleggio signore in Fermo, un cenno in
COMPAGNONE, Reggia picena, p. 222. Una stringata sintesi moderna in DONDARINI, Bologna medievale, p.
271-272.
40 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 103; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 102-103; VILLANI MATTEO E FILIPPO,
evidenza che la cessione di dominio a Nicolò III nel 1278 e quella del 1327 al cardinale Ostiense sono
state fatte a nome della parte guelfa, mentre questa è a nome di tutta la città e per sempre. Ad ognuno
dei quattro legati viene concessa una retribuzione di 5 lire di bolognini al giorno. I legati sono messer
Catalano della Sala, messer Giovanni Caldarini, dottore, messer Simone di San Giorgio, abate di
Nonantola; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 104-105; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 103-105.
42 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 102; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 102; VILLANI MATTEO E FILIPPO,
Cronica, Lib. IX, cap. 77; Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 231.
43 Chronicon Estense,col. 484.
Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 231 e nota 1 ivi.
44
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Orvieto in questi anni gode di una relativa tranquillità e quindi non si registrano eventi
importanti nelle sue cronache; può comunque essere interessante, specialmente per la storia
delle milizie mercenarie, osservare che molti assoldati italiani, anzi umbri, servono il comune,
tra questi Panicale di Senso da Bevagna, conestabile di 20 paghe, Iacovuccio di Cecco da
Gagliole, conestabile dei balestrieri, Cecco di Riccotempo di Urbisaglia, conestabile dei
pavesari; tra i conestabili dei pavesari vi è anche Giacomo di Romano da Monte Santa Maria, i
conestabili teutonici di cavalleria, Enrico della Rosa e Giovanni di Gravillar.45
Un professore di grammatica e retorica, maestro Donato, il 12 luglio apre una scuola nel
centro della città di Orvieto, qualche tempo dopo inizia l’insegnamento anche un «geometra
aritmetico», maestro Ettore di Bartolomeo di Verona, le cui capacità vengono anche utilizzate
per le misure necessarie per l’esazione delle imposte. I professori vengono motivati a
rimanere dando loro la cittadinanza e l’esenzione della imposte per un quinquennio.46
Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 458 nota 1 e 459 nota 3.
45
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52 Baratonia, Fiano, Bruino, Trana, Cumiana, arrivando a minacciare Pinerolo. Vedi COGNASSO, Conte
Verde * Conte Rosso, p. 92.
COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 91-95; DATTA, I Principi d’Acaia, I, p. 187-189.
53
Milano l’8 ottobre, passando per le terre controllate dal Savoia. GALLAND, Les papes d’Avignon et la maison
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de Savoie, p. 276-277. TURLETTI, Savigliano, I, p. 227-232 narra con ampiezza di particolari le difese di
Savigliano, la composizione dell’armata che lo aggredisce e le nefandezze del saccheggio.
GALLAND, Les papes d’Avignon et la maison de Savoie, p. 276.
55
56 MULETTI, Saluzzo, Tomo IV, lib. XI, p.18-19; CIBRARIO, Savoia, III, p. 177-178.
57 Ne sono mediatori Giovanni Pepoli, Arrone Spinola e Florello Beccaria; MULETTI, Saluzzo, Tomo IV,
lib. XI, p. 19-20. Si veda anche CIBRARIO, Savoia, III, p. 178. Molto vaga ROGGERO-BARGIS, Saluzzo, p. 46.
58 Cronache senesi, p. 590-591.
59 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 94; UGURGERI DELLA BERARDENGA, Acciaiuoli, I, p. 257-
258.
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60 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 79; DE MUSSI, Piacenza, col. 505 e FILIPPINI, Albornoz, p.
217-218; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 102.
61 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 80. Le proteste di Bernabò alla corte avignonese
cadono nel vuoto perché, non avendo pagato il censo dovuto per Bologna, i suoi diritti vengono
automaticamente considerati decaduti; MOLLATT, Les papes d’Avignon, p. 231.
62 Si veda FILIPPINI, Albornoz, p. 219.
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Tra gli Ubaldini, il ramo di Tano da Castello tiene per Bernabò, mentre Maghinardo e
Albizzo da Gagliano sono col legato pontificio. La divisione tra parti avverse è tale che ogni
possibilità di percorrenza delle strade degli Appennini per andare verso Bologna è da
escludersi.65 I rifornimenti all'esercito visconteo arrivano invece dalla Lombardia tramite il
ponte sul Po guardato dal marchese d'Este, che, col dazio, introita una gran quantità di
denari. Non sono questi d'altronde che mancano al Visconti che spende per mantenere
l'esercito in armi la bellezza di 70.000 fiorini al mese. «E tanto era la sua entrata che niente
parea che ne curasse».66
§ 22. Roma
Roma, «che possiede le ruine», dell'antica e famosa città che fu il centro di un fantastico
impero, appare al Villani come «mobile e incostante e sanza ombra alcuna di morali virtù».
Tuttavia, il suo orgoglio fiorentino è lusingato dal fatto che le magistrature della Città Eterna
si configurano modellandosi su quelle della sua città. Hanno Priori e i Caporioni sono la copia
dei Gonfalonieri delle compagnie di Firenze. Hanno banderesi, comandanti delle compagnie
dei balestrieri, che hanno grande podestà e balia, ognuno dei quali con 1.500 popolari ben
armati. I banderesi comandano quindi 3.000 uomini, una forza considerevole, con cui tutti i
violenti e i sopraffattori, non importa anche se appartengano anche a famiglie baronali e forti
e abituate a non lasciarsi intimidire da nessuno, debbono fare i conti. Ispirati dai principi di
giustizia e libertà che il fantastico Cola ha lasciato loro in eredità, i governatori di Roma
catturano due potentissimi signori, Bello Caetani, zio del conte di Fondi, e Matteo della Torre,
«famosi capi e ritentori de' ladroni del paese, e molti dei loro seguaci, malandrini e rubatori
di strade». Tutti vengono impiccati con processo sommario.68 I banderesi, con i loro
balestrieri, hanno il compito di mantenere l’ordine in città e nel contado. Essi hanno il diritto
di partecipare al consiglio ristretto che ha sede in Campidoglio. Il pontefice è soddisfatto dal
fatto che il regime popolare romano stia diventando così forte ed in grado di opporsi ai
prepotenti baroni romani. Albornoz lo è meno, il suo carattere energico ed autoritario gli fa
vedere di mal occhio un rigoglio di potenza come quello che Roma sta esprimendo ora. Se ne
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trova traccia in un ordine che ha dato nel settembre del ‘59, in cui ha chiesto al rettore del
Patrimonio di aiutare il prefetto contro i Romani. In aprile, Gentile da Mogliano è a Roma e
Egidio non gradisce la presenza di un tal ribelle nella culla del papato. In luglio viene
intercettato il Cremonese Guglielmo Cavalcabò, emissario di Bernabò. Insomma, Roma dà
preoccupazioni ad Albornoz e quindi non può contare sulla sua simpatia.69
Jean-Claude Maire Vigueur in una sua recente opera ha messo in luce che non è certo
l’immaginazione politica che difetta al comune di Roma, egli scrive «l’egemonia dei baroni
nel corso del secondo periodo [dal 1250 circa al 1350, nel quale il potere esecutivo è nelle mani
di due Senatori scelti all’interno delle famiglie dei baroni] non ha impedito ai Romani di
sperimentare più di dodici differenti tipi di governo, cosa che rivela la loro sbalorditiva
capacità di inventare forme di governo adatte alle esigenze del momento e non soltanto ai
mutamenti di lunga durata della società romana».70
Egidio Albornoz premia Tommaso Pianciani, che lo ha aiutato a raggiungere la pace a
Spoleto, nominandolo Senatore di Roma nel 1360. Dopo Tommaso, dal marzo 1361 all’ottobre
dello stesso anno, il nuovo senatore è Ugo di Lusignano il nipote del re di Cipro, che è in
Avignone a rivendicare i propri diritti sul trono dell’isola. Poi, dall’autunno 1361, Paolo
Argento di Spoleto e quindi, nel 1362, Lazzaro dei Cancellieri di Pistoia. Reggente questi,
Roma muove il suo esercito contro Velletri, che sottomette nel maggio 1362. Dal novembre
1362 diventa senatore il Fiorentino Rosso dei Ricci, «uomo severo e giusto».71
§ 24. Bologna
Domenica 24 maggio, il giorno di Pasqua Rosata, vengono a Bologna messer Galeotto
Malatesta e suo nipote Malatesta Ungaro. Galeotto riceve il titolo capitano generale
dell'esercito ecclesiastico. Il Fiorentino messer Arrigo Cavalcanti viene nominato podestà di
Bologna. Il 25 maggio il cardinale Egidio Albornoz annuncia ai Bolognesi che presto messer
Nicola Acciaiuoli, siniscalco di re Luigi, di ritorno da Avignone transiterà per la loro città, nel
tentativo di metter pace col Visconti. L'11 giugno infatti Nicola arriva a Bologna. Prende
SANSI, Spoleto, p. 241; GREGOROVIUS, Roma nel Medioevo, Lib. XII, cap. 1.2 e 1.3.
71
72 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 486-489; UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 240.
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alloggio in San Domenico dei Frati Predicatori. Pernotta solo una notte, poi si reca dal
cardinal legato.73
§ 26. Gli ambasciatori bolognesi chiedono aiuti per la guerra contro il Visconti
Il 23 maggio, dopo un lungo viaggio,75 arrivano ad Avignone gli ambasciatori bolognesi:
Lodovico, abate di Nonantola, ed i dottori in legge Catalano da Sala, Giovanni Calderini e
Simone di San Giorgio. La loro missione è di consegnare al pontefice le chiavi di Bologna e
chiedere benefici, ma, principalmente, di ottenere denaro per combattere il Visconti. Il giorno
dopo vengono benevolmente ricevuti da papa Innocenzo, che, essendo ammalato, è a letto.
Gli ambasciatori si riposano e il pontefice li vede nuovamente il 5 giugno; Calderini espone
l’ambasciata e «il pontefice rispose con voce e volto ilare, prendendo il punto del salmo:
“Convertisti plantum meum in gaudium”, e dicendo che presto darebbe risposta gradita».
Passano lunghi giorni senza risposta, resi angosciosi dalle pressioni che Bernabò sta facendo
esercitare sulla curia pontificia. Finalmente, il 15 giugno, Innocenzo li convoca ad un
concistoro oltre il Rodano, e li informa che ha ricevuto lettere dal Visconti, che, in sette punti,
concludono tutte nella stessa maniera: vuole il possesso di Bologna. «Come se uno dicesse -
aggiunge il papa - scegli se vuoi essere impiccato, bruciato o affogato». Ma, malgrado lo
sfogo, Innocenzo ancora non prende una posizione definitiva sulla guerra che il Visconti sta
portando contro Bologna. I dottori in legge fanno ciò che sanno: inondano la curia di note,
relazioni, petizioni. Il 27 giugno il papa incarica Nicola Acciaiuoli di ottenere da Firenze un
prestito di 100.000 fiorini per finanziare la guerra e questo malgrado il tesoro papale disponga
di fondi immensi. Il 30 giugno gli ambasciatori vengono convocati: quasi tutti i privilegi
sollecitati sono stati concessi,76 ma riguardo al finanziamento della guerra, neanche una
parola.77
73 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 108; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 106-107. Anche FILIPPINI, Albornoz,
p. 221.
UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 254-255; TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 224-227.
74
75 Gli ambasciatori sono partiti da Bologna il 22 aprile; il 26 sono in Firenze, ottenendo promesse di aiuti.
Il 2 maggio, a Pisa, trovano un’accoglienza più fredda e vengono consigliati a stare in guardia, in quanto
nel territorio vi sono armati di Bernabò, che, dal castello di Lavenza, potrebbero rendere insicuro il loro
percorso. Prendono allora la via del mare ed arrivano a Genova sabato 9 maggio. Il doge organizza un
gran banchetto in loro onore per il 13 maggio, proclama la sua alleanza con Egidio, Bologna e la Chiesa.
Il 14 riprendono il mare verso Avignone. FILIPPINI, Albornoz, p. 221-222.
76 Chi sia interessato al dettaglio di questi lo può trovare in FILIPPINI, Albornoz, p. 223-224.
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The Hundred Years War, p. 18-20; FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 119-127 e 129 per la
liberazione di Giovanni. Una delle fonti primarie è la narrazione di VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica,
Lib. IX, cap. 67, 68, 69, 82, 84, 86, 98. Il racconto di Matteo è ricchissimo di particolari. URBAN, Medieval
Mercenaries, p. 95 sottolinea le gravi difficoltà finanziarie del re d’Inghilterra che gli hanno impedito di
trarre vantaggio dalla debolezza francese.
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Rouergue. Nel nord della Francia, oltre a Calais, tutte le fortezze che la circondano e la contea
di Guines che già le sue armi controllano; ora deve ottenere la città di Montreuil e la contea
del Ponthieu. Il trasferimento delle terre e delle fortezze deve essere completato entro il 29
settembre 1361. Da parte sua, Edoardo deve evacuare a sue spese tutte le fortezze prese dai
suoi soldati e dagli alleati conquistate in altri luoghi di Francia, particolarmente in Touraine,
Anjou, Maine, Berry, Auvergne, Borgogna, Champagne, Piccardia e Normandia, eccetto che
in Bretagna, dove deve ancora essere risolta la guerra di successione tra i rivali che si
considerano eredi del ducato. Durante la vigenza della tregua d’armi, i contendenti si
impegnano a non effettuare nuove conquiste e a far cessare rapine e depredazioni. Quanto
stabilito è più facile a scriversi che a farsi, perché molte guarnigioni debbono ricevere il loro
stipendio e non hanno intenzione di sgombrare le piazzeforti prima di essere pagate. Il conte
di Warwick libera nove fortezze intorno a Parigi, ottenendo un riscatto di 12.000 franchi in
oro, ma la sua decisione è insolitamente veloce; le violazioni della tregua sono così frequenti
da mettere a rischio la pace stessa. Viene istituita una commissione congiunta anglo-francese
per determinare il da farsi, caso per caso. Le trattative con le guarnigioni durano a lungo e, in
molti casi, i soldati continuano a vessare il territorio che circonda le fortezze. Alla fine,
l’evacuazione di cinquanta fortezze nella Francia settentrionale comporta il pagamento della
bella cifra di 1.431 chilogrammi d’oro. Non viene presa decisione alcuna su come trattare le
truppe sbandate. I soldati disoccupati si riuniscono in bande e si recano a terrorizzare diverse
zone di Francia.81 William Urban sottolinea che qualche idea creativa viene formulata in
proposito: deviare i mercenari, detti Routiers, verso l’Italia, farli assoldare dal re di Danimarca
Waldemar IV che nutre l’ambizione di ricreare un impero vichingo nel Nord Europa,
chiedere a re Ludovico d’Ungheria di assoldarli per organizzare una crociata per combattere
gli infedeli.82
FOWLER, Medieval Mecenaries, I, p. 24-28. Per il periodo tra la tregua e la pace si veda VILLANI MATTEO E
81
strada.
83 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 99.
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agevolmente fare, dotarlo cioè del denaro necessario a condurre la guerra, non avviene.
Egidio deve allora ricorrere ad esazioni fiscali, che gli alienano le simpatie popolari.
Poiché si attende che passi per Bologna Nicola Acciaiuoli, che torna da Milano, dove ha
negoziato infruttuosamente la pace con Bernabò, l'Albornoz vi manda Galeotto Malatesta. La
situazione è sempre la stessa: i Bolognesi in guardia e il nemico che ha il territorio in sua
balia.84
Quasi che i Viscontei avessero voluto dare ai Bolognesi il tempo di rifornirsi,85 verso la
fine di giugno, i cavalieri del biscione escono da Castelfranco e cavalcano verso Bologna,
«facendo danno d'arsioni più che non erano usati». Si stanziano ad un miglio da Porta Santo
Stefano e costruiscono una nuova bastia. Altre ne erigono nei dintorni per tenere sotto
pressante assedio Bologna, e continuamente cavalcano, rendendo impossibile a chiunque
andare intorno, senza una grossa scorta di soldati della Chiesa.86
Dopo aver rifornito Bologna, il cardinal legato torna ad Ancona, dove trova una
sommossa, fomentata dal Visconti. Il moto viene represso ed il partito ghibellino viene
scacciato senza tanti riguardi. Il cronista milanese, che vede le cose con l’ottica di parte
avversa alla Chiesa, dice: «Il predicto populo andò all’Oliva, insine a fanciulli chiamavano
misericordia, ma il perfido legato come aspido obturava l’orechie a tal lamentevole voce».
Bernabò, per l’avversione di Regina, la sua volitiva consorte, rifiuta il matrimonio di suo
figlio con la figlia di Francesco da Carrara, provocandone l’inimicizia.87
Scrive Mario Natalucci: «all’Albornoz si deve la prima istituzione del Consolato del
mare [ad Ancona], organo giuridico che doveva trattare tutte le questioni tra mercanti e
marinai. […] Nel 1360 il cardinale inoltre confermava lo statuto della città che conservava così
il suo pieno valore anche dopo la sottomissione della città alla Chiesa».88
84 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 100; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XI, anno 1360, vol.
3°, p. 242-243; TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 228-229. Il realtà re Ludovico d’Ungheria invia subito un
grosso soccorso di truppe che si mette in marcia per l’Italia, GIULINI, Milano, lib. LXIX anno 1360, sulla
traccia di Azario.
85 É comunque logico che mentre Bernabò sta ancora trattando col pontefice per ottenere la signoria di
CALISSE, I Prefetti di Vico, p. 132-134, con maggiori dettagli CALISSE, Storia di Civitavecchia, p. 163-166.
89
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non sappiano reagire, o, meglio, che i loro sostenitori riescano a trascinare i cittadini in loro
favore. Ma il comandante ecclesiastico della piazza, messer Catalano, reagisce bravamente,
mobilita il popolo armato e, alla testa dei suoi soldati, li conduce ad affrontare i Chiaravallesi.
Questi, «veggendo la moltitudine del popolo venire con furia contr'a loro, impauriti», si
danno alla fuga. Il popolo, esaltato li insegue, uccidendo quelli su cui riesce a mettere le mani.
Catalano dirige le truppe contro la Pietra, che viene presa «con grave danno di quegli v'erano
entrati».90
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Del trattato non si è quindi fatto niente e tutto ciò che Nicola ne ha tratto è un carico di
male parole che il tiranno di Milano vuole che pervengano al legato pontificio.96 In realtà ne
ha tratto qualcosa d’altro: una visita al Petrarca nel convento di San Simpliciano dove il gran
poeta abita. Francesco Petrarca si affretta a raccontare l’incontro a Zanobi da Strada,
decantando la modestia e l’umiltà di Nicola.97
Galeazzo, verosimilmente di comune accordo con Bernabò, invia suoi ambasciatori ad
Avignone a distinguere le proprie responsabilità da quelle del fratello, affermando che non
intende aiutare Bernabò, «né in segreto, né in palese», nell'impresa di Bologna. La sua buona
fede viene accettata e il processo contro di lui sospeso.98
96 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 110; GIULINI, Milano, lib. LXIX anno 1360 che aggiunge
che a Milano vi è un consigliere visconteo tal Girardolo, forse della Pusterla, che viene comunemente
soprannominato “il papa”, senza il cui consenso nulla viene fatto a corte riguardo i beni ecclesiastici.
97 UGURGERI DELLA BERARDENGA, Acciaiuoli, I, 255-256.
101 Cronache senesi, p. 591 e nota 1. La nota parla di 858 fiorini ed il testo di 858 lire.
102 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 112-113; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 111-113.
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103 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 104; MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, Lib. II, cap. 59;
PISPISA, Messina nel Trecento, p. 235-236; MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 147.
104 Domus Carrarensis, p. 91; CORTUSIO, Additamenta ad Historiam, col. 959.
106 Essi sono: Zanin da Peragha, Iacomin de Vitaliani, cavalieri, gli scudieri Albertin de Chastelnovo e
Frigerin Capodevacha, infine i dottori Iacomo da Santacroce, Tebaldo dei Cortellini e Francesco
Picegotto.
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fortificazioni. Una garanzia di 100.000 ducati d’oro viene versata nelle mani di Ludovico
d’Ungheria, istituito garante dell’accordo.107
I motivi di frizione tra Venezia e Padova non sono solo i castelli, ma anche una serie di
piccole controversie che avvelenano però il clima diplomatico tra le due signorie. Vero è che,
dopo l’appoggio dato al re d’Ungheria contro Venezia, difficilmente qualunque atto del
signore di Padova verrebbe lasciato passare senza condanna da parte della Serenissima. Le
differenze tra Venezia e Padova sono il confine tra Chioggia e Padova, l’estradizione di
qualche criminale di Venezia che ha cercato e trovato rifugio nel Padovano, discussioni tra il
monastero di Santa Giustina e un privato proprietario veneziano di Cavarzere, la protezione
data dal Carrara ad alcuni evasori fiscali di Venezia. Uno dopo l’altro questi problemi
vengono risolti, ma non senza lasciare qualche amaro strascico.108
Non pago dei castelli nuovi e presago dei guai futuri, il signore di Carrara fa murare
Montagnana e restaura il castello di Bovolenta.109
Il 5 di maggio, muore Giovanni Orsini, vescovo di Padova. Al suo posto, per
interessamento di Francesco da Carrara, viene eletto Piero, conte da Prata, cugino del signore
di Padova. In agosto, nella città, si tiene il capitolo generale degli Eremitani; viene eletto
generale dell’ordine fra’ Matteo da Ascoli, «homo ornado di scienzia e di costumi».110
107 GATARI, Cronaca Carrarese p. 41 e 42; il trattato è in CAPPELLETTI, Padova, I, p. 296-299; KOHL, Padua
under the Carrara, p. 110-111; ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 207; VERCI, Storia della Marca Trevigiana,
tomo 15°, p. 6-8.
108 Per maggiori dettagli si veda KOHL, Padua under the Carrara, p. 109.
110 CORTUSIO, Additamenta ad Historiam, col. 959; GATARI, Cronaca Carrarese,p. 42; Domus Carrarensis, p. 91.
112 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 111. Il percorso di Anichino è in ASCANI, Monte Santa
Maria e i suoi marchesi, p. 68, «attraversata la valle del Niccone e soffermatosi alquanto a Reschio, si
diresse poi verso Cortona, apportando ovunque desolazione e terrore».
LILI, Camerino, parte 2^, lib. III, p. 96; VILLANI VIRGINIO, I conti di Buscareto, p. 163-164 per discussione
113
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117 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 108; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XI, anno 1360, vol.
3°, p. 243. La notizia che i Fiorentini hanno preso Monte Carelli arriva a Bologna il 19 agosto; Rerum
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Bononiensis, Cronaca A, p. 110; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 108. Appena un cenno in STEFANI, Cronache,
rubrica 684.
118Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 110; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 108; anche GRIFFONI, Memoriale,
col. 176.
119 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 109 e CASTELOT-DECAUX, La France au jour le jour, p.
472-475.
120 URBAN, Medieval Mercenaries, p. 104. Robert Knollys diventerà uno dei comandanti inglesi più famosi,
egli, da oscure origini, giunge a occupare diversi castelli in Britannia; sfrutta le sue capacità militari e
diplomatiche per assurgere a grande fama. Da parte francese, solo Bertrand du Guesclin sarà alla sua
altezza. Arnaud de Cervole, l’Arciprete, è solo uno dei tanti importanti capitani. URBAN, Medieval
Mercenaries, p. 95.
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fuga. La Compagnia Bianca porta con sé arcieri armati di arco lungo, le cui caratteristiche
sono la grande gittata e una velocità di tiro estremamente più rapida di quella di una balestra.
Maneggiare un arco lungo presuppone truppe fisicamente forti e molto ben addestrate.
Frequentemente gli arcieri dispongono di un cavallo per gli spostamenti. Comunque, nelle
guerre d’Italia, l’arco lungo avrà vita breve perché non arriveranno rimpiazzi in Italia. Gli
uomini che compongono la Compagnia impressioneranno i combattenti d’Italia per il loro
fisico imponente e la loro resistenza alla fatica, i mercenari di queste formazioni sono abituati
a cavalcare giorno e notte ed a combattere anche d’inverno; godono di un grande spirito di
corpo. Essi recano con sé bombarde e scale pieghevoli, utilissime negli assedi. I soldati della
Compagnia Bianca hanno una grande reputazione di essere capaci di scalare segretamente
mura e sorprendere le guarnigioni con la loro comparsa improvvisa.121
Naturalmente, non vi sono solo i soldati che vogliono continuare ad usare la violenza per
procurarsi da vivere: molti tornano tranquillamente a casa, tra questi vi sono due uomini di
penna più che di spada, che si imbarcano sulla stessa nave a Calais per tornare in Inghilterra,
uno è Geoffrey Chaucer, che è stato catturato durante un’incursione francese nel 1359 e si è
riscattato per 16 sterline, l’altro è Jean Froissart, scudiere della regina Filippa, moglie di re
Edoardo III.122
121 MALLETT, Mercenaries and their Masters, p. 37-38 o anche MALLETT, Signori e mercenari, p. 44-45. Sulla
Compagnia Bianca e sulla Compagnia del Fiore si veda CANESTRINI, Milizia italiana, p. XL.
STONOR SAUNDERS, Hawkwood, p. 25.
122
CURZEL, I vescovi di Trento nel basso medioevo, p. 589; PIRRO PINCIO, Croniche di Trento, p. 81.
125
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§ 47. Orvieto
Alla battaglia di San Ruffillo ha partecipato anche Ugolino Montemarte. Con lui servono
nell’esercito pontificio Berardo, Corrado e Petruccio di Pepo Monaldeschi, con 10 poste per
ciascuno.
In settembre, Orvieto ottiene la rimozione dell’interdetto. È interessante osservare la
ritualità della cerimonia seguita alla redazione del documento pubblico che il 6 settembre
registra il rientro di Orvieto nel seno della Chiesa. Il procuratore del comune, Cola di Betto, si
reca al vescovado, si inginocchia dinanzi a Masseo da Narni, vicario del vescovo Ponzio, e gli
chiede in tutta umiltà l’assoluzione dall’interdetto e dalla scomunica, avendo il comune
ottemperato a tutte le richieste. Il vicario, visto l’atto di soddisfazione appena redatto, dà
istruzione al prete e cappellano di Santa Maria, ser Cecco di Pietro, di assolvere il sindaco ed
il comune. La difesa della città è affidata a Panicale di Senso da Bevagna, conestabile di 20
paghe, Iacovuccio di Cecco da Gagliole, conestabile de’ balestrieri, Cecco di Riccotempo di
Urbisaglia, conestabile dei pavesieri, Enrico della Rosa, conestabile teutonico. Vengono
assoldati altri conestabili, con 21 paghe ciascuno: Giliuccio di Neri, Vannuccio di messer Gallo
da Bevagna, Giovanni di Iuzio da Bettona, Gagliolo di Assisi e Federico ed Anselmo,
conestabili tedeschi.128
128 Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 458 nota 1.
129 Il padre di Carlo ed Elisabetta ha avuto 3 maschi e 3 femmine; di queste una ha seguito la vocazione
Champagne.
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131 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 103; DE MUSSI, Piacenza, col. 505-506; Annales
Mediolanenses, col. 730; CORTUSIO, Additamenta ad Historiam, col. 960; Domus Carrarensis, p. 92; AZARIO,
Visconti, col. 405; e, nella traduzione in volgare, p. 172-173; GIULINI, Milano, lib. LXIX anno 1360.
Piacenza, ci riferisce POGGIALI, Piacenza, VI, p. 328, ha contribuito con 25.000 fiorini d’oro.
132 FILIPPINI, Albornoz, p. 233.
133 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 111-112; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 109-110.
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ritira verso Castelfranco, lasciando un presidio alla fortezza sul ponte sul fiume Idice, ad est
di Bologna, e tornano in Lombardia. Il 17 settembre, i cittadini Bolognesi, comandati da
Galeotto Malatesta e da suo nipote, assalgono la bastia e la conquistano dopo un aspro
combattimento che vede soccombere quasi tutti i difensori della fortificazione. I pochi
sopravissuti sono condotti a Bologna. La bastia viene data alle fiamme. Il giorno seguente, il
18, capitola il castello di Varignana, seguito da altre fortificazioni presidiate dai Viscontei. Ma
il 26 settembre Galeotto Malatesta conduce i Bolognesi all’attacco della fortificazione, e la
espugna, uccidendone i difensori.136
Il 30 settembre, nel Bolognese si contano ben 6 o 7.000 Ungari137 al servizio della Chiesa,
seguiti da altri cavalieri che vengono alla crociata contro Bernabò Visconti. Lo stesso giorno,
nella notte sul mercoledì, i villani tolgono a Bartolomeo di Guglielmo Tebaldi il castello che
questi ha venduto a messer Bernabò per 4.000 lire di Bolognini.
Per l’arrivo degli Ungari, l'esercito visconteo, impaurito ed a corto di strame per i cavalli,
abbandona il campo e, nottetempo, valica Castelfranco, si arresta per non aumentare il
proprio pericolo con un atteggiamento di rotta, e, fermatosi pochi giorni, il primo ottobre
valica verso Modena, «in sua malora, tornando con gli orecchi bassi al loro signore», la rabbia
del quale si può facilmente immaginare. Per più giorni Bernabò si sforza di mostrarsi allegro
a fiducioso di fronte a terzi, minimizzando l'accaduto, ma rodendosi implacabilmente.138
Lentamente, tutti i ribelli di Val Samoggia e Val Reno allora tornano all'obbedienza di
Bologna, mentre rimangono pervicacemente ribelli Taddeo da Cusano e i da Panico. Il 3
ottobre, questi, selvaggi ed indisciplinati come sempre, vanno dalle parti del Borgo della
Medola, facendo grandi danni e rubando cose e sequestrando persone. I contadini
concepiscono per questo discordia contro Bologna, che accusano di non averli difesi.139
I Bolognesi intanto, informati della partenza dell'esercito milanese, sono usciti e con
grande ardire hanno assaltato la bastia che guarda verso la Romagna, e combattendola
fieramente l'hanno conquistata, saccheggiata e bruciata, uccidendone o imprigionandone i
difensori. Galvanizzati dal successo, corrono alle altre due e le espugnano e ardono. Ma,
arrivati a quella di Casalecchio sul Reno, trovano pane per i loro denti e sono respinti con
perdite. Si accontentano allora di tornare dentro il riparo sicuro delle mura di Bologna,
trascurando di assediare la fortezza, i cui soldati compiono frequenti e fastidiose scorrerie
fino alle porte di Bologna. Ma ormai la via per la città è aperta, e dalla Romagna cominciano
ad affluire i rifornimenti. Dei Viscontei di Casalecchio si occupano gli Ungari.140 Il 14 ottobre
gli Ubaldini lasciano il castello di Scaricalasino e rinforzano Montebeni. Aperta la via di
Bologna, e, raggiunta una ragionevole sicurezza, Egidio può entrare in Bologna. Fa quindi
preparare un convoglio ricco di molti viveri e rifornimenti, e, insieme a Nicola Acciaiuoli e a
messer Malatesta ed altri «valenti huomini della Romagna e della Marca», il 27 ottobre il
cardinale Albornoz pernotta al monastero dei Frati di San Michele de Bosco, presso Bologna.
Il giorno seguente, 28 ottobre, entra in Bologna liberata. Le accoglienze sono sontuose: il
cardinale viene incontrato fuori delle mura dal Carroccio, con il gonfalone ed otto tra cavalieri
e dottori. Il cardinale viene scortato in gran pompa fino a San Michele, dove lo vengono a
riverire il podestà e 16 anziani, «vestiti di una bella livrea per il comune». Il legato procede
sotto un baldacchino portato dai donzelli vestiti tutti del medesimo panno rosso. Passando
136 GRIFFONI, Memoriale, col. 175; BAZZANO, Mutinense, col. 631; ANGELI, Parma,p. 190.
137 Chronicon Estense, col. 484 riporta il transito di 6.000 Ungheri a Ferrara, in settembre. Sono comandati
da Simone, nipote del re; GUALTERIO, Montemarte, 2°; Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco
di Montemarte, p. 231 parla di 8.000 Ungari. DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 184 dice che 7.000
Ungari sono transitati in Friuli. RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 178 parla di 5.000 Ungari. Annales
Forolivienses,p. 68 se la cava informando che Simone Ungaro viene in Italia.
138 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X, cap. 3 e BAZZANO, Mutinense, col. 631.
139 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 114; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 113.
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Carlo Ciucciovino
per la strada di San Mammolo, il corteo arriva in piazza e a San Pietro Egidio smonta da
cavallo e ordina quattro cavalieri, due Galluzzi, un Ramponi e un Conforti. Le spade ai nuovi
cavalieri vengono cinte da Malatesta Malatesta e da Nicola Acciaiuoli. Finalmente il legato si
reca al suo alloggio nel palazzo dell’Oleggio, sulla cui facciata è l’effige rovinata di Bonifacio
VIII, che, immediatamente, viene restaurata.141
Pian piano, la vita ritorna alla normalità: l’acqua fluisce nuovamente nei canali che
alimentano i mulini il 13 novembre. Qualche sussulto di tradimento cova ancora sotto la
cenere: il 26 novembre Francesco de’ Ronaldi viene imprigionato ed esposto nella gabbia di
ferro che fa orrenda mostra sulla facciata del palazzo sulla piazza; egli è accusato di segrete
intelligenze con i Viscontei. Egidio gli salva la vita, togliendolo di lì ed affidandolo a un
prete.142
141 GRIFFONI, Memoriale, col. 175-176; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 118-119; Rerum Bononiensis, Cr.
Vill., p. 117-119; VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X, cap. 6; FILIPPINI, Albornoz, p. 235-236. I nomi
dei cavalieri sono Ugolino, detto Ghino, figlio del fu Guidochiero Galluzzi, Alberto del fu Opizzo
Galluzzi, Giacomo del fu Conte Ramponi e Gherardo, del fu Bartolomeo Conforti.
Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 121; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 121.
142
VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 8-9 e documento 1585 ivi.
143
145 E fecero contra di noi e contra la Santa Chiesa come se fossero stati dei nemici mortali. E ancora: rubavano e
ammazzavano uomini infino alle porte di Bologna. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 119-121; Rerum
Bononiensis, Cr. Vill., p. 119-121.
146 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X, cap. 10.
147 Si tratta del figlioletto di un certo Cecco, fratello di un Dosso, cimatore, evidentemente ben noto.
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La cronaca del Trecento italiano
trascurato di procurarsi armi così efficaci. Galeotto concentra allora un tal numero di
macchine d’assedio e di mangani da demoralizzare gli assediati che si arrendono a Simone
della Morte, capo degli Ungari. Il 6 novembre la bastia viene evacuata, ne escono, tra gli altri,
Paganino e Leonardo dei conti da Panico e Piccinello della Mostachia.148
Ma ora tutto i complica perché gli Ungari vi si rafforzano, mostrando di volerla utilizzare
come loro piazzaforte. È solo quando il legato fa arrivare al conte Simone lettere del re che
ordina ai suoi soldati di rendere la bastia al legato e di obbedirgli, che, finalmente, Albornoz
può entrane in possesso; infatti, il 10 novembre, vi entrano gli uomini del cardinale. Il conte
Simone viene raffermato, con 1.000 Ungheri, gli altri 2.000, congedati, si radunano in
compagnia attestandosi tra Bologna ed Imola e ottenendo vettovaglie dal legato. Confortato
dalla riduzione dell'esercito pontificio, Bernabò commette un errore capitale: congeda molti
dei suoi mercenari, indebolendosi troppo. Bologna può inoltre contare sui rinforzi che il duca
d’Austria ha inviato al cardinale Albornoz, soldati molto ben armati.149
Nel frattempo, re Ludovico d'Ungheria sta vivendo un dramma personale. Il re non
riesce ad avere figli dalla regina sua consorte. Amore, tenerezza e rispetto reciproco
connotano il loro rapporto, e la regina sembra si voglia risolvere a mettere in condizione
Ludovico di avere eredi al trono: si ritirerà in un convento e il re potrà convolare a nuove
nozze. Re e regina vanno a Zara, dimorandovi diversi mesi e facendo erigere un monastero,
nel quale, ottenuta la dispensa papale, la generosa regina dovrebbe ritirasi. Ma il re nutre
troppa tenerezza per sua moglie e «se ciò fu vero, l'amore della donna lo vinse e solo la fama
della volontà rimase».150
148 GRIFFONI, Memoriale, col. 176; FILIPPINI, Albornoz, p. 237 precisa che la data è l’11 novembre..
149 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X, cap. 11; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 122; Rerum
Bononiensis, Cr. Vill., p. 122; FILIPPINI, Albornoz, p. 237.
150 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X, cap. 12; FILIPPINI, Albornoz, p. 238. LAGO, memorie sulla
Dalmazia, 1°, p. 244 scrive «in quest’anno arrivano in Zara, spedite da Ludovico, la moglie Elisabetta e la
figlia Maria, con accompagnamento di funzionarj della più alta distinzione, affine di regolare le cose
della Provincia». LUCIO, Historia di Dalmatia, p. 275 al 3 novembre scrive che occorre accogliere la regina
che viene a Zara e il 19 vengono inviati 4 ambasciatori alla regina.
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fuggono le resistenze, però che dove le truovano non possono durare, né trarne furtivo
guadagno».151
151 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X, cap. 7 e 8. DE SANTIS, Ascoli nel Trecento, II, p. 82-83 ci
informa che il comandante dei rientrati è Filippo di Massa Tibaldeschi che è stato esiliato nell’autunno
del 1359. Si veda anche ROSA, Ascoli Piceno, p. 122; egli afferma che Filippo si avvale degli ebrei per
finanziare il suo governo aristocratico.
Cronache senesi, p. 592.
152
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La cronaca del Trecento italiano
comandante degli Ungheresi, che riconduce il suo esercito nel Bolognese. Un migliaio di
Ungari vengono stipendiati da Bernabò. L’esercito ungherese rientra a Bologna il 31
dicembre.155
155 CORIO, Milano, I, p. 804; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 121-122; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 122;
DE MUSSI, Piacenza, col. 506. Il 21 novembre gli Ungari transitano nel Modenese, operando violenze e
devastazioni; cfr. BAZZANO, Mutinense, col. 631.
156 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X, cap. 9; FILIPPINI, Albornoz, p. 229. LILI, Camerino, parte 2^,
lib. III, p. 97 attribuisce l’evento alla – improbabile - gelosia di Egidio nei confronti di Rodolfo.
157 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X, cap. 14; Domus Carrarensis, p. 96-99.
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probabile che Bernabò per togliersi di torno l'eterogenea truppa scagliatagli contro dal legato,
abbia comprato il conte Simone della Morte. L'esercito rientra a Bologna l'11 dicembre. Il
conte Simone, quando tornerà in Ungheria sarà dal suo re imprigionato, sotto accusa appunto
di essersi venduto a Bernabò. La stagione è comunque troppo avanzata perché si possano
compiere prolungate operazioni militari.158
L’Aquila, p. 107-108. Narrato in prima persona in Cronaca dell’Anonimo dell’Ardinghelli, p. 29. Sulla buona
difesa dell’Aquila, vividamente narrata, si veda BUCCIO DI RANALLO, Cronaca Aquilana, p. 266-269.
161 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X, cap. 19.
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162 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X, cap. 18 e Carrara, Scaligeri, pag. 202-203.
VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 5-6.
163
164 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X, cap. 20; MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 148-149 e
1360
427
Carlo Ciucciovino
Chiesa. Per cui, quando nell’aprile del ‘61, Lando tornerà non porterà con sé che 10 bandiere
di ribaldi, che non hanno nulla da perdere.165
VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. IX, cap. 105, ricchissimo di dettagli. Il duca di Lancaster
167
muore il 22 marzo del 1361, VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X, cap. 44.
168 Domus Carrarensis, p. 92; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 11-12; CORTUSIO,
1360
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La cronaca del Trecento italiano
parte del suo consiglio segreto. Nicola è quindi una gran personalità, appartenente ad uno dei
banchi più prestigiosi della città: nulla gli manca per sollecitare le invidie più pericolose.
Eppure il suo contegno è improntato a decoro e modestia: «mettendo ogni dì tavola
cortesemente e sanza alcuna burbanza», ed accettando alla sua mensa i Grandi e i popolari. I
cavalieri che Firenze promette sono 300, ma se la promessa è pronta, l’azione è lenta a seguire.
Il caso viene in soccorso del bravo Nicola. È ora di eleggere i nuovi Priori e nelle borse vecchie
non sono rimasti altri nomi se non Nicola Acciaiuoli ed i nuovi non possono essere estratti se
prima non si estraggono i vecchi. Nel passato, il nome di Nicola è stato estratto più volte, ma
è stato sempre imborsato di nuovo, perché assente. Ora, senz’altro, Nicola sarebbe estratto ed
eletto. Questa prospettiva a molti non sorride, perché egli appare troppo superiore a tutti e
sospetto di poter facilmente divenire un “uomo della Provvidenza”, un tiranno. Pensiero che
fa rabbrividire ogni buon Fiorentino. Anche se «l’animo del nobile cavaliere dalla detta
intenzione era tutto rimoto». Ma vi è dell’altro: uno degli ambasciatori di Firenze,
nell’accomiatarsi dal legato pontificio, uno che ha reputazione di «huomo grave e intendente
e d’autorità», è stato chiamato in disparte dal cardinale Albornoz, che gli ha confidato che in
Firenze è in atto un complotto per rovesciare il governo. L’ambasciatore non smentisce la sua
fama di prudenza ed intelligenza: chiede a Egidio di poter rivelare la cosa ai suoi governanti e
lo prega di non dirgli di più, per non aver motivo di disprezzare qualcuno dei suoi
concittadini. Rivelata quindi l’esistenza di una congiura ai Priori, i sospetti si concentrano
nella persona dell’Acciaiuoli. In gran fretta viene approvata una legge che impedisce di
assumere la carica a chi abbia sotto il suo dominio terre e castelli. Ma perché la cosa non suoni
troppo offensiva, gli vengono immediatamente concessi i 300 cavalieri richiesti, così che
Nicola abbia «honesta cagione di partirsi». Matteo Villani scrive : «In questo fortunoso
ravviluppamento assai per li savi non odiosi si comprese della magnanimità del gran
siniscalco, però che né in atto, né in parole, in lui veruno turbamento si vide o sentì, ma più
tosto tranquillità d’animo». E poi commenta: «E tutto che per lo trattato, che poco appresso si
scoperse, si manifestasse la innocentia sua e purità d’animo, non di meno la legge rimase, e fu
riputata utile e buona, perché si dirizzava a conservamento della libertà».
Da Firenze, il bravo Nicola va a Siena dove riceve tante belle parole, ma nessun aiuto
effettivo.172
172 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X, cap. 22 e 23; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XI, anno 1360,
vol. 3°, p. 244; UGURGERI DELLA BERARDENGA, Acciaiuoli, I, p. 258-260.
173 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X, cap. 26.
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palagio rimane sanza fanti e la porta verso la Condotta s’apre per uscire i Gonfaloni, lo capitano dei fanti
acconsenziente e lo frate, doveano lasciare, usciti i Signori fuori alla ringhiera e gonfaloni e fanti con essi in mano,
sì entravano li settaiuoli e certi fanti in palagio, la Terra romoreggiava; la setta andava alle porti colle chiavi, e
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o uccidere il fante, sbarrare la porta, salire sul corridoio del palazzo e con le pietre uccidere
chiunque si trovi sulla Ringhiera. Poi suonare le campane a stormo, radunando il popolo.
Tutto il calcolo è basato sul fatto che questo, offeso e malcontento dal governo, sia disposto a
prendere le armi e ribellarsi. Non valutando il fatto che se la reazione popolare fosse tiepida o
indifferente, i congiurati non avrebbero speranza alcuna di soccorso esterno, e sarebbero del
tutto in balia della prevedibile e forte repressione del governo. Comunque, a tal punto, i Ricci
prenderebbero le redini del governo, riformerebbero Firenze e ne scaccerebbero gli odiati
Albizi. «Ma Dio che è guardia dei semplici e innocenti», dispone che il trattato venga
scoperto. L’Albornoz non ha dato che indizi vaghi, ma Bernarduolo Rozzo, che, a tutti i costi
vuole cavar fuori qualcosa dall’avventura, viene a Firenze, e quando è a Santa Gonda, manda
un suo amico della casa Antellesi ad avvertire i Priori che, contro un pagamento di 25.000
fiorini, egli svelerebbe i dettagli della congiura. I signori, in consiglio segreto, accettano, e si
obbligano alla promessa con un atto formale che prevede il pagamento in Siena. Ma
Bartolomeo de’ Medici apprende che la congiura sta per essere svelata ed allora si consiglia
con suo fratello Salvestro, il quale ne era stato accuratamente tenuto estraneo. Salvestro,
«udito il voglioso e poco savio movimento del fratello», si appoggia alle sue amicizie influenti
e il 19 dicembre177 riesce ad essere ricevuto dai signori, da cui ottiene l’impunità di
Bartolomeo, narrando che è stato tratto nell’impresa per ingenuità, e denunciando come capi
del complotto Niccolò e Domenico Bandini. Questi, catturati, confessano e vengono
decapitati; gli altri subiscono condanne più o meno pesanti,178 Bartolomeo è libero, ma
bandito. Bernarduolo Rozzo, alla ricerca di un guadagno, quale che sia, consegna ai Priori
una lettera di mano di Uberto Infangati, nella quale sono elencati i responsabili della
congiura, ricavandone 500 fiorini. Con molta saggezza, radunato il consiglio, coram omnibus la
scritta viene bruciata. Ma, commenta amaro Matteo Villani: «La legge che era stata in gran
parte cagione e materia di tanto male, e peggio per l’avvenire promettea, per tutto ciò
amendata non fu, né regolata, né aggiustata in niuna sua parte».179
metteano dentro la gente di messer Giovanni detto (Giovanni d’Oleggio, che, però si è dissociato dalla
congiura), o di messer Bernabò, e così collo suo titolo si faceva la setta dei Ricci.
177 Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 103.
178 Vengono banditi: Niccolò di Guido da Sammontana de’ Frescobaldi, Luca di Feo Ugolini, Andrea di
Tello de’ Lischi, Attaviano di Tuccio Brunelleschi, Beltramo de’ Pazzi, Pazzino Donati, Tommaso
Adimari, Pelliccia de’ Gherardini, Andrea di Pacchio degli Adimari, oltre a Bartolomeo Medici. Si veda
STEFANI, Cronache, rubrica 685.
179 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X, cap. 25; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XI, anno 1360, vol.
3°, p. 244-247.
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maggiore fosse nel mezzo delle dette cappelle e cupola. Intorno al coro debbono essere 15
cappelle sotto la cupola, le quali debbono essere ciascuna larga braccia 14. La croce della detta
chiesa dee essere netta dentro braccia 190, la quale debbe essere di fuori tutta di marmo con
immagini di santi e storie e angioli grandi e di sottile lavoro; e altri onorevoli lavori
s’ordinarono, li quali sì li tacciamo, e quelli che a’ tempi faranno li vedranno come
successivamente si mura». Il comune assegna per l’edificazione della fabbrica 6 denari per lira
(il 2,5%) di ogni introito del comune e il 10% di ogni somma che ne esca. La cura e
l’amministrazione della chiesa viene assegnata a ufficiali e camerlenghi dell’Arte della
Lana.180
una volta terminate sarà di 120.000 fiorini per una cinta muraria di quasi 5 chilometri, mura alte 8 metri,
35 torri difensive, 7 porte munite di ponte levatoio. STONOR SAUNDERS, Hawkwood, p. 48.
183 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X, cap. 27. Una discussione delle diverse fonti in merito è in
FOWLER, Medieval Mecenaries, I, p. 30-32. Fowler nota che la strada percorsa dai mercenari è l’antica via
romana tra Forez e Velay, che scende nella valle del Rodano via Génolhac, Alès e La Calmette, al nord
di Nimes.
1360
432
La cronaca del Trecento italiano
del 27 dicembre sul 28, al senescalco di Beaucaire, Jean Souvain, che dovrebbe portarla sotto
scorta armata a Parigi. La presa dell’abitato e del ponte persuade i siniscalchi a tornare a
Nimes. La cifra che doveva essere trasportata era di 46,4 chilogrammi d’oro.184
Il papa, spaventato, invoca l’aiuto della Cristianità, e proclama una crociata contro i
mercenari. Rispondono all’appello l’Aragona, Linguadoca, il Beaucaire, Géuvadan, Velay,
Vivarais e il valoroso castellano di Emposte, oltre a Juan Fernandez de Heredia.185
Papacy, p. 51. GALLAND, Les papes d’Avignon et la maison de Savoie, p. 113 sottolinea che il papa ha chiesto
soccorso anche ad Amedeo di Savoia e molti altri.
186 Nel 1327, dei 44 contribuenti del luogo, solo 6 pagano più di Gilbert; STONOR SAUNDERS, Hawkwood, p.
43. MANNI, Giovanni Acuto, col. 633 chiama “Anizo” il padre del condottiero.
187 John riceve 20 sterline e 100 scellini (o soldi), 5 bushel di frumento e 5 di avena, un letto e qualche
minuscolo appezzamento di terra, inoltre, suo fratello maggiore, anch’egli di nome John, dovrà
provvedere al suo mantenimento per un anno. STONOR SAUNDERS, Hawkwood, p. 43.
188 STONOR SAUNDERS, Hawkwood, p. 26 nota che la campagna del principe Edoardo nel sud ovest della
Francia nel 1355 devasta ben 18.000 miglia quadrate di territorio in soli due mesi.
189 STONOR SAUNDERS, Hawkwood, p. 46.
190 Il nome della figlia che nasce dall’unione, Antiochia, richiama la stella che compare sullo scudo dei de
Vere, in memoria del miracolo della prima crociata, nel 1098, quando una stella che brillò sullo scudo di
1360
433
Carlo Ciucciovino
§ 72. Le arti
Giotto di Stefano, detto Giottino,195 verso il 1360 dipinge una Pietà per la chiesa fiorentina
di San Remigio. Di questo pittore dice Angelo Tartuferi: «Giottino si colloca perfettamente nel
solco della tradizione giottesca anche nel modo di dipingere per larghe campiture, mentre la
sua discendenza stilistica appare limpidissima: Giotto-Maso-Stefano-Nardo».196
Giovanni da Milano dipinge per la chiesa di Ognissanti di Firenze un Polittico. Della sua
tecnica pittorica, confrontandola con quella di Giottino, Tartuferi afferma: «Giovanni da
Milano conferisce alla superficie pittorica dei suoi dipinti l’aspetto vellutato di una
pergamena e, specialmente per quanto riguarda gli incarnati, si ha la sensazione di trovarsi di
fronte a delle miniature gigantesche. Non può lasciare altro che sbalorditi la sua fittissima,
Roberto de Vere mise in fuga i Musulmani che stavano razziando il campo crociato. STONOR SAUNDERS,
Hawkwood, p. 47.
Matteo Villani ci informa che l’Acuto nel 1359 è entrato in possesso di una forte somma, che però ha
191
HATCH WILKINS, Petrarca, p. 203-207; DOTTI, Petrarca, p. 338; UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli
194
Acciaiuoli, p. 255-256.
195 Giottino è pronipote di Giotto: una figlia di Giotto, Caterina, ha sposato un altro pittore, Ricco di
1360
434
La cronaca del Trecento italiano
indicibile tessitura cromatica in punta di pennello. Non sapremo mai quanto tempo
impiegassero a dipingere i due artisti [Giovanni e Giottino] ma verrebbe d’immaginare che al
pittore lombardo fosse necessario un periodo almeno quattro volte superiore a quello del suo
collega fiorentino».197
A marzo, Galeazzo Visconti fonda il castello di Pavia.198
Un pittore di cui conosciamo il nome, ma non le opere, dipinge in Lucca dal 1347: Paolo o
Pauluccio di Lazzerino. Figlio di un pittore, Lazzarino di Luporo, che è a Firenze dal 1320,
probabilmente è stato educato nella città del giglio. Antonio Caleca avanza con estrema
cautela l’ipotesi che gli si possa attribuire un dossale con Il seppellimento di San Paolino e dei
suoi soci, che è da sempre nella chiesa di San Paolino a Lucca e che è databile al 1350-60.199
Il 17 maggio 1360, nel Camposanto di Pisa viene completata la tomba al maestro dello
Studio pisano Ligo Ammannati. La tomba è ad arcosolio con baldacchino; nella cassa vi è un
Cristo in pietà tra due stemmi del defunto. Sul coronamento vi è un’edicola con una
interessante scena nella quale Ligo insegna ai suoi studenti. La tomba è stata scolpita dai
lapicidi pisani Francesco del fu Lippo, Colo Mucido del fu Coscio, Puccio del fu Landuccio e
Matteo di Tone. La formazione culturale di questi scultori appare vicina a quella di Nino
Pisano e di Andrea da Pontedera, alla cui bottega si sono presumibilmente formati.200
Nella chiesa di San Pietro a Maiella, vi è una cappella dei Leonessa o Lagonessa che viene
dipinta con affreschi che richiamano le Storie di San Martino di Simone Martini ad Assisi.201
È del 1360 l’unica opera firmata e datata che ci sia pervenuta di Turone di Maxio, un
pittore veronese il cui nome completo è Turone quodam domini Maxii de Camenago. Il quadro è
un polittico con la Trinità oggi a Castelvecchio. Le poche notizie che abbiamo su questo
pittore sono datate dal 1356 al 1387. I critici si sono esercitati nell’arte dell’attribuzione ed
alcune opere sono oggi unanimemente a lui assegnate: tra queste la lunetta del portale
laterale di San Fermo, datato 1363, e la Crocifissione sul portale maggiore. Del 1362 è la Vergine
col Bambino in trono tra San Giovanni Battista e San Zeno con donatori, in Santa Maria della Scala
a Verona.202
§ 73. Musica
Intorno a questo anno muore il compositore Jacopo da Bologna. Questo è l’anno delle
nozze tra Isabella di Valois e Gian Galeazzo Visconti, e per questi sponsali il grande e non
vedente compositore Francesco Landini, o Francesco degli Organi, compone il madrigale Una
colomba candida e gentile.
COZZI, Pittura a Verona, p. 342-347 e La Pittura nel Veneto: Il Trecento, scheda biografica di MAURO
202
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CRONACA DELL’ANNO 1361
1 COPPI, Sangimignano, p. 297 da una lettera scritta dalla Signoria a San Gimignano il 21 ottobre 1361. La
4 HATCH WILKINS, Petrarca, p. 208-210; ARIANI, Petrarca, p. 55; DOTTI, Petrarca, p. 338.
Carlo Ciucciovino
conquistati, chiede ed ottiene che gli esiliati castigliani ospitati dall’Aragona vengano espulsi.
Enrico Trastámara va in Francia a servire con i suoi soldati un signore della Linguadoca che
sta cercando di arginare i mercenari sbandati della guerra dei Cent’anni. Il trattato ristabilisce
lo status quo anteriore al 1356.5
Pedro di Castiglia festeggia facendo assassinare sua moglie Bianca di Borbone, detenuta
a Medina Sidonia da ben otto anni. La giovane ed infelice donna ha solo 25 anni. Poco dopo,
come se la mano divina volesse colpire l’efferato sovrano, l’amata Maria di Padilla muore a
luglio di morte naturale.6
5 HILLGARTH & HILLGARTH, Pere III of Catalonia Chronicle, vol. II, p. 529-530, cap. 29 e 30; ESTOW, Pedro el
Cruel, p. 203; AYALA; Coronica del rey don Pedro, 1361, cap. I e II; O’CALLAGHAN, A History of medieval
Spain, p. 423; VALDEÓN, Pedro el Cruel y Enrique de Trastámara, p. 90.
6 AYALA; Coronica del rey don Pedro, 1361, cap. III e VI. O’CALLAGHAN, A History of medieval Spain, p. 423;
VALDEÓN, Pedro el Cruel y Enrique de Trastámara, p. 90-92; ZURITA, Annales de Aragon, Lib. IX, cap. XXXVI.
7 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 123-124; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 123; Rerum Bononiensis, Cr.
9 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 29; FILIPPINI, Albornoz, p. 253.
11 In verità, Guido di Ventimiglia, fratello del conte Francesco e capitano della città, impedisce lo sbarco
e le navi catalane sono costrette a mettersi alla fonda nella vicina isoletta della Colombaia. MIRTO, Il
regno dell’isola di Sicilia, p. 151.
12 UGURGERI DELLA BERARDENGA, Acciaiuoli, I, p. 268-269. ZURITA, Annales de Aragon, Lib. IX, cap. XXXII
dice che Costanza ha atteso a lungo in Sardegna il tempo favorevole per salpare per la Sicilia e mette le
nozze all’11 aprile. MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, p. 406 narra la fuga di Federico., il matrimonio è a
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La cronaca del Trecento italiano
p.408. GIUNTA, Cronache siciliane, p. 48 dice che la flotta che accompagna Costanza è di 7 galee e due
navi, conferma l’11 aprile e dice che la sventurata Costanza morirà un anno più tardi, lasciando la
figlioletta Maria. Di sei galee parla CAMERA, Elucubrazioni, p. 224, che accenna anche all’evasione di
Federico.
13 RUSSO, I Peralta, p. 100.
14 Particolari su questo perdono e sulle successive provvidenze a favore di Federico sono in SARDINA,
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439
Carlo Ciucciovino
d’Alagona, che con folta scorta, accoglie la futura regina e la protegge. Don Artale conduce
Costanza ed i suoi a Mineo ad attendere il maturare degli eventi. Finalmente, il 23 febbraio, il
conte Francesco di Ventimiglia decide di andare ad una partita di caccia ed invita Federico
che accoglie con entusiasmo l’idea e chiede al conte di andare, ché egli lo avrebbe raggiunto
fra un paio d’ore. Francesco di Ventimiglia, senza sospetti, va e il re, con tre fidatissimi
seguaci, cavalca, ventre a terra, verso Mistretta, dove arriva, non senza qualche difficoltà,
dopo qualche ora. Il conte Francesco Ventimiglia è stato giocato. Il 26 febbraio don Artale
d’Alagona ed i suoi armati vanno prelevare il re nel castello di Mistretta e lo scortano a
Mineo, dove Federico può finalmente incontrare Costanza. Il 5 marzo Federico e Costanza
entrano a Catania, tra grandi festeggiamenti. Il 15 aprile Federico e Costanza si sposano nella
cattedrale di Catania. Brillano per la loro assenza il conte Francesco Ventimiglia e Federico
Chiaromonte, i quali però, rendendosi conto di aver perso la partita, sentono il bisogno di
giustificare la loro assenza.15
§ 6. I Peralta
Vediamo ora di avere qualche maggiore informazione circa la dinastia dei Peralta, così
rilevante nella storia di Sicilia nel Trecento.
Nel 1326 Raimondo Peralta si installa in Sicilia, diverrà conte di Caltabellotta e uno degli
uomini più autorevoli della nobiltà di stirpe catalano-aragonese. Raimondo è nato all’inizio
del Trecento da Filippo di Saluzzo e Sibilla Peralta, che si sono sposati nel 1298. Il matrimonio
è fecondo ed alla coppia nascono, oltre al maschio Raimondo, tre femmine: Eleonora,
Marchesa e Costanza.16 Raimondo assume il cognome della madre, invece che quello del
padre. Nel marzo del 1324, Filippo di Saluzzo, al comando di due galee, accorre in aiuto del
re d’Aragona che si accinge alla sua impresa di conquista della Sardegna. Filippo è un uomo
di guerra e di savio consiglio. Quando Cagliari viene conquistata e Alfonso d’Aragona torna
in patria, Raimondo, figlio di Filippo, lo accompagna. Filippo diventa invece governatore
generale dell’isola. Nell’esercizio di tale carica, concentra su di sé la gelosia e l’inimicizia degli
ambiziosi Carroz o Carroç, una dinastia valenciana che ha fortemente contribuito alla
conquista aragonese della Sardegna. Ben presto, nel 1324, Filippo muore e Francesco Carroz
assume il titolo di governatore dell’isola. Il 5 novembre 1325, Alfonso d’Aragona, che ha
potuto, con tutta evidenza, apprezzare le capacità di Raimondo, lo nomina capitano di guerra
della Sardegna e lo invia nell’isola per contenere lo strapotere di Francesco Carroz.
Raimondo, nel dicembre dello stesso anno, sconfigge le navi della flotta di Genova, Pisa e
Savona che sono scampate alla disfatta subita da Francesco Carroz. Questo evento segna
l’inaugurazione della fortuna di Raimondo e l’inizio della discesa per il Carroz. Raimondo,
raccogliendo l’eredità di suo padre, inizia ad opporsi a Francesco Carroz ed al suo alleato
Ramondo Cardona. L’odio tra i due schieramenti è palpabile e preoccupa Alfonso che però
non riesce a disinnescarlo. Si arriva anche a qualche scontro armato e, nell’aprile del 1326,
Raimondo e Francesco vengono processati, ma assolti entrambi. Tuttavia, il malanimo
permane e Alfonso, che non sa fare a meno delle qualità dei due avversari, progetta di spedire
Raimondo in Sicilia ad aiutare il suo parente nella lotta contro la dinastia angioina. Raimondo
lascia sua moglie17 nel castello di Bonaria ed affronta coraggiosamente la nuova impresa. Il 24
giugno sbarca a Trapani e si installa felicemente in Sicilia. I Carroz rimangono in Sardegna.
15 MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 151-154; MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, Lib. II, cap. 62-67.
16 Per i loro matrimoni, si veda RUSSO, I Peralta, p. 21, nota.
17 Egli ha sposato in prime nozze Aldonza de Castro, che gli ha partorito Guglielmo, Filippo,
Raimondetto e Berengario.
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La cronaca del Trecento italiano
18 Da questo secondo matrimonio nascono Giovanna, che sposa il conte di Augusta Matteo Moncada e
muore nel 1354-55, Eleonora e Giovanni. Isabella è vedova del conte di Empurias morto in questo stesso
1332.
19 Notizie desunte da RUSSO, I Peralta, p. 19-76.
22 RUSSO, I Peralta, p. 79-80 che riprende la narrazione di MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, p. 283, o, se
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Dopo la personalità per forza di cose sbiadita di Guglielmo, morto troppo giovane per
lasciare un segno duraturo, suo figlio Guglielmo, detto Guglielmone, sembra ritrovare
l’energia e la personalità del nonno Raimondo. Con lui, terzo conte di Caltabellotta «si
raggiunge l’acme della potenza militare e politica della famiglia».25 Guglielmone è nato verso
il 1339 a Sciacca da Guglielmo e Luisa Sclafani. Nel 1356 è ancora minore; egli sposa Eleonora
d’Aragona, figlia del fratello del re, Giovanni di Randazzo.
28 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 16-18; CORTUSIO, Additamenta ad Historiam, col. 960-
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costretto a ordinare ai suoi militi di consegnare il castello al vice domino del patriarca
d’Aquileia: Carlevario della Torre.29
Commenta Brunettin: «[il patriarca] non riuscì a predisporre le condizioni politiche,
diplomatiche e militari per poter fronteggiare l’emergenza»; il patriarca si avvicina al signore
di Padova, il quale è guardato con crescente sospetto da Venezia, per cui i nemici del
patriarca, come gli Spilimbergo, si avvicinano a Venezia. Il patriarca potrebbe ottenere
l’appoggio di Venezia solo cedendo Sacile, «vitale piazzaforte sul confine occidentale». 30 è
pur vero che quando Ludovico della Torre si doveva ancora insediare, rendendosi conto della
propria fragilità, ha cercato di costruirsi una rete di protezione internazionale, rivolgendosi al
re d’Ungheria, all’imperatore e raccomandandosi al papa. Tutto inutilmente, o quasi, come gli
eventi dimostreranno.31
29 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 16; CORTUSIO, Additamenta ad Historiam, col. 961;
PASCHINI, Friuli, I, p. 313; Domus Carrarensis, p. 94-95.
30 BRUNETTIN, L’evoluzione impossibile, p. 213.
31 BRUNETTIN, Una fedeltà insidiosa, p. 331. PASCHINI, Friuli, I, p. 313 scrive che «s’era diffusa la voce sul
principio del marzo 1361 che il patriarca, per avere denaro a prestito, sarebbe stato disposto a cedere
Sacile o il Cadore al signore di Padova». Ivi p. 313-314 ricorda che Valpertoldo e Spilimbergo sono stati
alleati di Venezia nella guerra del ’56-58.
32 BUCCIO DI RANALLO, Cronaca Aquilana, p. 272-275; con molti particolari Cronaca dell’Anonimo
dell’Ardinghelli, p. 29-30.
33 RACCAMADORI, Fermo, p. 52; ripreso anche da MORBIO, Novara, p. 134. Giovanni muore l’8 ottobre 1366.
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una tessera che riporta la quantità richiesta. Con tale documento ci si reca al granaio, «in casa
del fu Ser Alberto de i Cognoscenti», e se ne trae la frazione desiderata, pagandola 40 soldi la
corba.36 Il 2 marzo i Viscontei, sortiti dai castelli ancora in loro possesso, cavalcano alla bastia
di Coloredo, che è in costruzione, rompendo e catturando la gran parte di chi vi lavora.37
Egidio è disperato: non ha denaro e Bernabò invece può permettersi di stipendiare tutti
gli armati che desidera. Il biscione ha soldati a Castelfranco, Premilcuore, Piumazzo e Lugo.
Tanti armati che dominano le strade ed affamano Bologna. Verso gli Appennini le strade sono
interrotte dagli Ubaldini, e Firenze, tiepida, non vuole rompere col Visconti. Nessun signore
italiano o straniero sembra intenzionato a venire ad aiutare la Chiesa. Una delle poche
possibili scelte è il ricorso al re d'Ungheria. Le lettere non hanno approdato a niente ed allora
Egidio si risolve al viaggio, anche se tra mille esitazioni. Il pontefice, malgrado le promesse
non gli invia il necessario per mantenere la guerra. È pur vero che con le barbare compagnie
mercenarie a otto leghe da Avignone il pontefice ha altro a cui pensare che Bologna. Il 13
viene radunato il consiglio a Bologna. La partecipazione è grandissima, vi sono tutti:
«cavalieri e dottori e ogni altra gente». Interviene il cardinal legato in persona, che annuncia il
suo viaggio alla corte ungherese, per ottenere aiuti per la guerra contro il feroce Lombardo.
Fa giurare ad ognuno lealtà e fede a Santa Chiesa, ed al Papa, e a lui. Promette di esser di
ritorno tra fine aprile e l'inizio di maggio. Lunedì 15 marzo, Egidio sale in sella e, con grande
seguito si dirige ad Argenta, per la via della Mulinella. Di qui ad Ancona. Bologna è affidata a
Gomez ed a Galeotto Malatesta. Gomez ordina che venga ripresa la costruzione della bastia a
Coloredo e ne predispone personalmente la sorveglianza dei lavori, che affida a Malatesta.
Due quartieri di Bologna, Porta Steri e Porta Ravegnana sono comandati alla sorveglianza del
cantiere. Il secondo turno essendo di Porta San Pietro e Porta San Procolo. Chi sia
impossibilitato a cavalcarvi può esserne esentato pagando 40 soldi (al giorno), che è il costo di
un balestriere. Molti si trovano in difficoltà a far fronte a tale spesa, per cui si stabiliscono
cinque categorie di contribuenti, che paghino 40, 30, 20, 15 e 10 soldi.38
§ 14. Siena
Ad aprile, il comune di Siena invia un contingente militare in soccorso di re Luigi di
Napoli. Il comandante è Giovanaco Malavolti.40 Anche Bertoldo Farnese si sottomette al
FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 41. Annales Mediolanenses, col. 731 informa che Barnabò ha mandato a capo
del suo esercito Giovanni Bizozero, che uccide tutti i Bolognesi che sorprende isolati; in poco tempo ne
sopprime 300.
39 DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 192.
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comune di Siena. Gli strombi delle finestre della Sala del Consiglio nel Palazzo Pubblico
vengono affrescate da Lippo Memmi e Giovanni di Benedetto. Viene loro corrisposto un
compenso di 152 lire. In questo periodo viene anche dipinta la madonna fuori Porta Camollia.
Carlo IV di Boemia invia messi ovunque per annunciare la lieta novella della nascita di
un figlio maschio, cui è stato imposto il nome di Venceslao. Il cronista senese Donato Neri ci
informa che questo è lo stesso Venceslao che verrà a campo a Siena nel 1409.41
Cronica, Lib. X; cap. 38 e, per la morte dei cardinali e la nomina di otto nuovi, cap. 71. Tra loro nessun
Italiano.
44 Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 84.
45 DE MUSSI, Piacenza, col. 506-507; POGGIALI, Piacenza, VI, p. 337-338. De Mussi e, sulla sua impronta
Poggiali, raccontano che qualche caso di guarigione si è visto, solo quando nella peste inguinale la
pustola, accrescendosi, mostra una parte molle alla sommità o poco sotto; allora, in mancanza di febbre,
applicato un impiastro e rotta e spurgata la piaga, cauterizzandola con un ferro rovente, l’infermo può
guarire.
46 Annales Mediolanenses, col. 751, ripresa da MORBIO, Novara, p. 137. GIULINI, Milano, lib. LXIX anno 1361
parla di 77.000 morti a Milano e nei sobborghi, aggiungendo «e tante ne morirono nel contado che il loro
numero non si potrebbe descrivere».
47 AZARIO, Visconti, col. 379; e, nella traduzione in volgare, p. 133; per notizie in merito si vedano anche le
col. 396 e p. 161. Si veda anche BAZZANO, Mutinense, col. 633 per un quadro generale. COPPI,
Sangimignano, p. 300 dice che la peste nella sua città arriva nel ’63; anche PECORI, San Gimignano, p. 188
conferma.
48 STELLA, Annales Genuenses, p. 156.
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persone.49 La peste imperversa anche in Istria.50 Gli annali dell’Aquila parlano di 10.000
morti.51 Mentre la Cronachetta Anonima in Pansa parla di mille morti all’Aquila.52
49 CORNAZZANI, Historia parmensis, col. 751. Subito dopo, la cronaca scrive: «San Biagio cominciò a fare
miracoli presso il Battesimo di Parma». ANGELI, Parma,p. 192 scrive: «per la nota che se hebbe
dall’ufficio della riformatione, dove si teneva conto del tutto, morirono più di quaranta mila persone».
50 DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 184.
51 CIRILLO, Annali dell’Aquila, p. 43; Cronaca dell’Anonimo dell’Ardinghelli, p. 31 conferma 10.000 morti.
54 Una esauriente descrizione dei flussi di mercenari è in FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 33.
55 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 34. Per l’attività diplomatica del papa, si veda FOWLER,
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ché per servire la Chiesa e il Marchese». Malgrado che ben 6.000 cavalieri lascino la Provenza,
nella regione rimangono due compagnie, una su un lato e l'altra sull'opposto, del Rodano, «a
vivere di preda e di rapina sopra i paesani», ed a far trascorrere notti insonni agli
spaventatissimi Avignonesi. Il marchese intanto ha portato le sue truppe verso Marsiglia,
dove i soldati, rifiutati dagli abitanti, si sfogano a metter a ferro e fuoco i sobborghi, poi a
Nizza e, di qui, pochi alla volta, i mercenari sono passati in Piemonte.57
Il 7 giugno, il Capitano di Nizza invia il Nizzardo Carletto Simone, al comando di
balestrieri, a presidiare il guado sul fiume Siagna, per impedire il passaggio dei mercenari.58
Galeazzo Visconti, sapendo che le compagnie «erano per poco tempo provvedute di soldi
e che già la mortalità era tra loro», presidia con gente d'arme tutti i confini verso il Piemonte.
Bernabò lo soccorre, facendo affluire soldati da Lugo e Castelfranco. Non bisogna infatti
permettere che questi soldati si uniscano a quelli dell'Albornoz, altrimenti tutto il vantaggio
strategico dei Visconti sarebbe perduto. Nel frattempo, senza badare a spese, i signori di
Milano si forniscono di gente d'arme.59
Il vuoto lasciato in Provenza dalla partenza della compagnia della vedova del sire di
Ricorti, assoldata dal Monferrato, è rapidamente colmata da altre formazioni militari che, per
essere arrivate in un secondo momento, verranno denominate dei Tard-Venus, tra loro una
compagnia di Inglesi, Guasconi e Normanni, alla quale si aggiunge poi un'altra società di
mercenari, composta da Spagnoli e Navarresi. Questa viene ad Arles. Una delle compagnie è
comandata da Seguin de Badefol, un capitano del Périgord, e da Petetto Meschino Alvornazzo,
ovvero Petit Meschin, alias Heliés o Elia Machin.60
Per la peste, muore anche l’arcivescovo di Milano, Roberto Visconte. Giulini dibatte se sia
morto a Milano, rimanendo impavidamente nella sua diocesi, o si sia rifugiato, invano, a
Legnano, per fuggirla.61 Il pontefice designa come suo sostituto Guglielmo della Pusterla che
è ad Avignone alla corte papale.62
57 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 43. FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 36 dice che al
papa l’assoldamento dei mercenari costa 100.000 fiorini, dei quali 30.000 dati ai soldati e 70.000 pagati al
Monferrato, il quale, a sua volta, ne versa 60.000 agli avventurieri quando partano da Pont-Saint-Esprit.
John Hawkwood riceve 10.000 di questi fiorini. GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi,
vol. 3°, p. 314 scrive che i mercenari, seimila cavalli, guadano per il fiume Varo.
58 GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p. 313.
63 GRIFFONI, Memoriale, col. 176; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 130; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 130;
prigionia; quando sarà fatto prigioniero nel disastroso esito della battaglia di San Ruffillo, gli «fu posta
una taglia sì grossa, che non fu mai pagata e dopo pochi anni se ne morì prigioniero», GIULINI, Milano,
lib. LXIX anno 1361.
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fortificato. I Viscontei sono 1.500 cavalieri e 2.000 masnadieri; a loro si sono unite le truppe
degli Ubaldini. Altri trecento cavalieri sono stati inviati a scortare i rifornimenti. Bernabò si
reca a Lugo da Francesco Ordelaffi. Il 12 maggio lo raggiunge una ingiunzione
dell'imperatore, che gli intima di cessare la guerra contro la Chiesa e di ritirarsi entro 20
giorni, pena la decadenza da ogni onore e dignità: una scomunica laica. Ma Bernabò non se ne
cura affatto e inasprisce la guerra, esclamando:«Io voglio Bologna, mi!». Intanto, anche la
Chiesa lo ha condannato come eretico e contumace, facendo eseguire solenni cerimonie di
scomunica in molte città italiane. Bernabò lascia poi Francesco Ordelaffi al Ponte del Reno con
1.200 cavalieri e rientra a Milano. Ad inizio giugno la bastia sul ponte è forte e munita.65
I Bolognesi costruiscono un nuovo mulino «in Stra' Castiglione, a pie' del Serraglio
dentro». A valle di questo, un altro mulino utilizza la stessa acqua: in tal modo il
fondamentale servizio per la città è assicurato.66
Firenze resiste caparbiamente - ed un poco ottusamente - alle ripetute pressioni di
intervento per aiutare Bologna, che riceve dall'Albornoz, ma anche dai guelfi di Lombardia e
Romagna. Ha stretto alleanza, o meglio non belligeranza, col Visconti e teme di contrariarlo;
ha inoltre il ragionevole timore di esser lasciata sola da tutti nel momento del bisogno. Non
può però esimersi dal cercare di rifornire la città affamata, e provvede perciò a riaprire la
strada degli Appennini. Gli Ubaldini non osano affrontare anche i Fiorentini e si astengono
dal minacciare la via dei rifornimenti, che possono così affluire abbondanti grazie anche ad
un raccolto eccezionalmente favorevole. I Bolognesi fanno campo a Carburaccio.67
Giovanni Bizozero non intende tuttavia assistere passivamente alla forzatura
dell'assedio, e ordina una cavalcata a Pianoro. Malatesta Ungaro viene però informato
dell'azione, e, di notte, predispone in agguato i suoi sulla strada per la quale sono attese le 200
barbute viscontee. La trappola riesce ed i cavalieri del biscione sono rotti, ed in gran parte
uccisi o catturati. Messer Giovanni, furibondo, fa pagare al territorio il conto di tanto sangue
e, a metà di giugno, dopo aver lasciato sufficienti presidi nelle altre bastie, porta l'esercito
sulla strada tra Bologna ed Imola, e si ferma a Ponte Maggiore a solo mezzo miglio dalle
afflitte mura di Bologna.68
Il comandante milanese, Giovanni Bizozero, ha identificato un punto debole nella difesa
di Bologna: l'avidità di uno Spagnolo, Blasco di Verdaccio,69 cui, con estrema fiducia, Egidio
Albornoz ha affidato la guardia della fortezza che protegge Porta San Felice verso Modena.
Lo sleale Spagnolo viene corrotto ed egli, insieme ai suoi due figli, si accorda per aprire il
varco per Bologna nella notte di San Bartolomeo d'Agosto. Questa volta l'imprevisto prende
la forma di un ragazzino che manda a monte il piano, e, quando Bernabò in persona cavalca
alla testa di 2.000 barbute, per entrare nella tanto agognata città, non può che constatare,
stupito ed irritato, che la porta rimane chiusa. Il 25 agosto il castellano ed i suoi complici
conoscono l'orribile morte dei traditori: le tenaglie roventi e l'impiccagione. Al supplizio di
questi si aggiunge quello di un Fiorentino, ha ucciso il suo capo, il conestabile fiorentino
Zaccaria de' Donati. Per tutti la pena è terribile: la carne viene strappata con tenaglie roventi
e, vivi o morti, sono quindi impiccati.70
65 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 48 e 49; DE MUSSI, Piacenza, col. 506; FILIPPINI, Albornoz,
70 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 137; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 137; VILLANI MATTEO E FILIPPO,
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DELLA BERARDENGA, Acciaiuoli, I, p. 260-261. Baumgarden è scritto in molti modi anche dagli storici
odierni, Baungarten, Baungarden.
74 FILIPPINI, Albornoz, p. 258. Uno degli ambasciatori del papa è il vescovo di Vicenza, frate Egidio Boni
da Cortona, il quale muore proprio durante la legazione. MANTESE, Chiesa Vicentina, III, p. 166.
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79 Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 452 e nota 4 ivi; VILLANI MATTEO E
FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 51 e Cronache senesi, p. 593.
80 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 52; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XI, anno 1361, vol.
3°, p. 247-250, poco prima i Fiorentini hanno comprato da Attaviano e Gioacchino Ubaldini il castello di
Monteccoloreto.
81 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 53; FILIPPINI, Albornoz, p. 259.
83 Pietro Azario pone questi avvenimenti nel giugno 1362, ma debbono essere precedenti all’arrivo degli
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ricchissimo Pietro di Lastria, molti dei Talianti. Questi guerrieri sono troppo orgogliosi e
pugnaci per condurre una guerra di rimessa, asserragliandosi entro le mura, decidono quindi
di dare battaglia, ma in posizione a loro favorevole.84 Gli uomini a loro disposizione sono
ottimamente armati, in Caluso non vi è nessuno che sia armato meno di un cavaliere e molti
hanno addirittura due corazze. Decidono quindi di abbassare il ponte levatoio dalla parte
dove sono le truppe del marchese e di aprire le porte, pronti ad aspettare l’attacco nemico
dominando da una posizione superiore, infatti la via dalla porta alla piazza è in salita. Il
marchese di Monferrato, vedendo la porta cittadina aperta ed il ponte abbassato si aspetta
una sortita dei difensori, ma nessuno esce, allora Giacomo di Monferrato decide di non
lasciarsi sfuggire l’occasione, invia un distaccamento ad occupare il ponte levatoio perché non
venga rialzato, quindi lancia i suoi all’attacco. I difensori li aspettano armati, a piè fermo, un
muro d’acciaio contro cui l’attacco monferrino si deve arrestare e, mentre combattono, gli
armati del marchese vengono bersagliati dalle case vicine con sassi ed altri proiettili.
Finalmente, sono costretti a ritirarsi fuori delle mura. Un secondo attacco ha la stessa sorte del
primo. Il marchese riorganizza le sue fila e determina di condurre un ulteriore attacco, ma
questa volta trae insegnamento dai primi due: incarica un contingente, una volta entrato, di
seguire non la via diretta, ma le strade che costeggiano le mura, mentre lo sforzo principale
attaccherebbe nuovamente i difensori in piazza. Il gruppo che segue vie secondarie ha il
compito di appiccare le fiamme alle case che fronteggiano la piazza, così da sloggiare chi
scaglia proiettili ed ucciderli quando cercano scampo dalle fiamme. La torre che sovrasta la
porta viene scalata e munita con balestrieri che colpiscano i difensori eventualmente
all’inseguimento. Il contingente che segue vie laterali arriva alle case alle quali danno
agevolmente fuoco perché molte di queste hanno fienili sostenuti da pali di legno, il
marchese, senza temere più attacchi ai fianchi, conduce i suoi per la via diretta e porta un
attacco così violento che i difensori sono costretti a sbandarsi e, quelli che non vengono uccisi
nel combattimento e nell’inseguimento, a rifugiarsi nel fortilizio della città. Il marchese
rimane padrone di Caluso ed assedia la fortezza. Nottetempo, rotto un muro, parte dei
difensori fugge, gli altri, sorto il sole, capitolano, salve le loro vite. Il marchese presidia la
fortezza e la città. La terra conquistata viene donata a Ottone di Brunswick, in riconoscimento
del suo valore.85 Il marchese quindi ottiene Ivrea, che gli viene data dai Solaro e Bonatti.86
Un messer Bertolino ha consegnato Castel Castiglione e Càndia Canavese a Galeazzo
Visconti, per consentirgli il passo in Piemonte. Prima della presa di Caluso, un consigliere del
marchese, Pietro di Settimo, ottiene il castello di Volpiano, una fortezza robusta con una torre
eccelsa che controlla la valle. La conquista è il risultato di un’azione ardita: con uno
stratagemma, un suo uomo si è introdotto nella torre, di qui ha calato una fune sulla quale si
sono arrampicati 25 fegatacci, che, dall’interno attaccano la sprovveduta guarnigione,
massacrando un monaco che ne è il castellano. Pietro di Settimo è però un mascalzone che, da
questa fortezza compie «mali infiniti» al territorio. Il marchese, in partenza per Avignone, lo
ha lasciato per suo vicario e, al ritorno, constatandone l’arroganza e la superbia, lo fa
catturare e decapitare insieme ad un suo figlio.87
84 Dicono che non temono il marchese neanche un denaro, asseruerunt Marchionem cum gentibus suis extra
Terram uno denario se non timere.
85 AZARIO, De Bello Canapiciano, col. 434-437.
87 AZARIO, De Bello Canapiciano, col. 437-439; la malvagità di Pietro viene descritta così dall’Azario:
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La cronaca del Trecento italiano
territorio: «diedero sì grave iactura che, a ricordar d’huomo, di quegli tempi in Lombardia
mai non fu gente che con tanto furore et insolentia si deporta sino, a veruno sexo come a
bestie non perdonavano la morte». I mercenari si installano a Sizzano e, di qui, occupano
Castelnuovo Scrivia, nel Tortonese, e Romagnano, sopra Novara.88
Mentre la Compagnia Bianca è a Castelnuovo Scrivia, Galeazzo Visconti invia contro di
loro a Tortona il conte Lando e il conte Nicolò Othin, al comando di 500 Ungari. Tortona è
stata affidata a Giovanni Pepoli che provoca continuamente – e inutilmente - a battaglia gli
Inglesi. Per le devastazioni degli Inglesi si ribellano ai Visconti molte terre e castelli. Nel corso
del 1362, Luchino dal Verme, nominato luogotenente visconteo nella regione, «con poca
gente, neppure 500 barbute, e con la propria sagacia e coraggio» li recupera quasi tutti. Nel
frattempo, la Compagnia Bianca si è trasferita nel Novarese, entra combattendo in
Romagnano, una città devastata dalla peste, nella quale i difensori non hanno neppure la
forza di opporre resistenza. Ciò che non può la spada, può la malattia che falcia 500 militi
inglesi. Luchino si stabilisce a Tortona ed assedia il castello che è in mano ai ribelli.89
Pietro Azario, che ne è testimone oculare, ci racconta come i successi degli Inglesi siano
dovuti anche agli errori di Galeazzo Visconti, che ha scontentato gravemente gli assoldati,
riducendo i loro stipendi e pagandoli con ritardi che arrivano fino a sei mesi. La superiorità
numerica dei Viscontei è due a uno, ma il morale fiacco e la mancanza di una strategia
penalizzano gli assoldati del biscione.90
Da Tortona, Luchino compie una incursione verso Voghera e, mostrandosi con pochi
armati, attrae i Vogheresi usciti dalle mura in un agguato, ne uccide un centinaio e ne trascina
prigionieri a Tortona settanta; giustizia solo tre dei capi. Quando, operata la riconquista,
rientra a Pavia si ammala gravemente.91
88 AZARIO, Visconti, col. 380; e, nella traduzione in volgare, p. 134-135, con molti dettagli. RICALDONE,
ha assaltato inutilmente Tortona, ibidem, p. 384 e 139-140. Il conte Lando ha svernato a Novara, ma gli
abitanti non lo lasciano entrare in città e gli assegnano il sobborgo di Sant’Agabio, i suoi soldati
depredano spietatamente i dintorni. MORBIO, Novara, p. 135-136. Le devastazioni compiute dagli Inglesi
sono elencate, paese per paese, in MORBIO, Novara, p. 136-137. Giovanni Pepoli è il consigliere militare di
Galeazzo Visconti, gli altri ascoltati consiglieri sono Protasio Caymi e Roberto Fronzola, AZARIO,
Visconti, col. 403; e, nella traduzione in volgare, p. 169. Pietro Azario ci informa che con lo Sterz milita
anche il fratello del doge Boccanegra di Genova, cfr. col. 408, e, nella traduzione in volgare, p. 178.
GIULINI, Milano, lib. LXIX anno 1362 dice che nell’esercito genovese milita anche Luchino Novello,
sedicenne, il quale ha sposato una figlia di Simone Boccanegra.
90 AZARIO, Visconti, col. 403-404; e, nella traduzione in volgare, p. 171; GIULINI, Milano, lib. LXIX anno
92 Edificarono una bastia sul luogo che fu di Gherardino de' Rossi, ch'è sopra la Fontana che si dice la
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Carlo Ciucciovino
dirottato sul Riminese, si può finalmente tentare qualche iniziativa. Galeotto Malatesta,
«cavaliere di grande ardire, e maestro di guerra», ha raccolto a Faenza 500 barbute e 300
Ungari comandati da messer Pietro Farnese. Ora, avvertendo il pericolo per Bologna, parte e
si dirige ad Imola. La tarda sera del 19 giugno, un sabato, lascia Imola e, con una cavalcata
notturna, in piena notte, segretamente, arriva a Bologna. Malatesta Ungaro lo riceve. Non si
sono accorti di nulla né i nemici né i Bolognesi, che hanno ritenuto che il rumore fosse causato
dal cambio della guardia.
Tuttavia, i Bolognesi non riposano: la domenica mattina, il 20 giugno, serrate le porte
della città, viene emessa una grida: «che il Popolo e i Cavalieri della Città di Bologna fossero
armati, e apparecchiati, e quando udissero sonar la campana dell'arringo, che dovessero
seguire le insegne di Santa Chiesa, in quella parte dove volessero andare al nome di Dio e di
gran buona ventura». Dopo la colazione, il popolo e i mercenari sono prontissimi nell'armarsi
e, al suono della campana, si radunano seguendo tutti i potenti di Bologna: Gomez, Galeotto,
Malatesta Ungaro, il podestà spagnolo messer Fernando, Pietro Farnese, il conte Ugolino di
Montemarte. Prendono la via del Ponte Maggiore e poi la Ghiara. Sono 700 barbute e 300
Ungari e 4.000 Bolognesi, la maggior parte ben armati, molti con i falcioni in mano, armi
terribili tese a sventrare i cavalli. Solo 100 uomini d'arme sono rimasti a sorvegliare Bologna:
ci si gioca il tutto per tutto. La strada è quella del corso del Savena, la via per cui sono
penetrati i Viscontei e l'intenzione è di sbarrare loro la strada, per evitare che possano ritirarsi.
Una parte degli armati sono infatti lasciati sulle ripe del fiume.
L'esercito bolognese, poco prima delle tre del pomeriggio piomba inaspettato sui
Viscontei, assalendo da due parti, con gran decisione, il campo e l'oste dei nemici. La sorpresa
è totale, ma i Viscontei sono gente esperta, ottimi combattenti, e riescono in qualche modo ad
organizzare una difesa, «facendo testa e ordinandosi alla battaglia in gran fretta». Mandano
un contingente a prendere un colle che domina l'accampamento ed il ponte, per cercare di
bloccare le truppe che ancora debbono arrivare sul campo di battaglia. Ma vedendo
l'aggressività ed i numero dei Bolognesi, questi si perdono d'animo ed abbandonano la forte
posizione. I cavalieri bolognesi, condotti da Galeotto Malatesta, hanno assalito i Viscontei,
senza attendere che il popolo, appiedato, sia giunto. I nemici li ricevono francamente e
bravamente combattono. La lotta è breve ma intensa, la battaglia precipita però quando i
Bolognesi, armati di falcioni, arrivano in mezzo ai cavalieri, abbattendo cavalcature e
guerrieri. La durezza della lotta è testimoniata dal fatto che tutti i comandanti vengono feriti:
Galeotto, Malatesta Ungaro, Gomez e Pietro Farnese. Il podestà Ferrando Blasco viene ucciso.
Ma il successo è totale: vengono catturati il comandante messer Giovanni Bizozero, Gasparo e
Giovanni, figli di Nanni da Susinana, ed Andrea delle Piaggiole, tutti Ubaldini, e Girolamo da
Rimini; e con loro 946 soldati, quasi tutti Tedeschi. In un piccolissimo spazio, quello dove la
bastia doveva esser eretta e dove la lotta è stata ingaggiata, si contano 456 morti viscontei.
Tutti vengono sotterrati in una fossa comune. Ma anche i caduti bolognesi sono altrettanti.
Questa breve ma intensa battaglia ha ucciso 970 uomini e 400 cavalli.94 Il cronista di Bologna
scrive ammirato: «e rasonossi che zaschuno fusse uno lione».
Il venerdì seguente i conestabili ed i caporali ed i soldati stranieri vengono lasciati liberi
sulla parola. I conestabili hanno il permesso di recare con sé le armi, ed un ronzino, ai
caporali viene consentito di portare barbuta, sopraveste e spada, ma sono appiedati. Gli
Italiani invece rimangono prigionieri, per ricavarne un riscatto, o per scambiarli con i
prigionieri bolognesi. Tutti vengono tradotti ad Ancona. Nel campo del nemico si è trovato
94 Per i morti ho usato le cifre del Villani, per i prigionieri, la cronaca bolognese. Matteo Villani parla di
1.300 catturati. La presenza di Ugolino conte di Montemarte alla battaglia è desunta da GUALTERIO,
Montemarte, 2°; Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 184-185; Ephemerides
Urbev.; p. 231. Si veda anche DE MUSSI, Piacenza, col. 506 che conta 1.500 tra prigionieri e morti. FILIPPINI,
Albornoz, p. 262-264; BAZZANO, Mutinense, col. 632 parla di un totale di 800 morti e 1.000 prigionieri.
CORTUSIO, Additamenta ad Historiam, col. 964. Annales Forolivienses,p. 68.
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cibo in quantità, una splendida notizia per gli affamati Bolognesi, e 25.000 fiorini, «e gli arnesi
che presono furono di gran valuta, però che molta adorna era la cavalleria e i masnadieri
d'arnesi d'argento e robe».95
Il 12 agosto i prigionieri di San Ruffillo vengono trasferiti ad Ancona. Il 19 agosto viene
eletto il nuovo podestà: messer Tommaso da Spoleto. Il lunedì seguente si comincia a
vendemmiare. La sconfitta dei Viscontei ed il buon raccolto fanno diminuire vistosamente il
prezzo del frumento.96
I trecento militi Viscontei che scortano i rifornimenti, avuta notizia della sconfitta,
abbandonano la roba e si danno alla fuga. Le guarnigioni delle bastie, per evitare di essere
intrappolate da un assalto, le abbandonano alle torce bolognesi, riparandosi nel castello di
Piumazzo. In poche ore tutti i grandi successi di Bernabò sono stati annichiliti, e Bernabò,
«quando questa novella sentì ne mostrò dolore singulare, rodendosi dentro a guisa di cane
arrabbiato, e vestissene a nero, e molti giorni stette che niuno gli poté parlare». Messer
Francesco Ordelaffi, appresa la sconfitta, non frappone indugi, si mette in marcia di notte
lungo la via della marina, e in 24 ore cavalca per 56 miglia, portando in salvo la gente a lui
affidata dentro Lugo.97
Intanto, i molti fiorini di Bernabò Visconti corrono a rivoli, fomentando ogni sorta di
tradimenti. Uno dei tanti trattati orditi riguarda il castello di Correggio. Messer Giberto, che
ne è signore, ricevuta delazione del fatto, chiede segretamente aiuto ai Gonzaga, che gli
inviano 15 bandiere di cavalieri (circa 300 cavalieri), che, nottetempo, entrano in Correggio.
Al mattino si presentano sotto le mura 17 bandiere di Viscontei; viene loro consentito di
entrare nelle barre che sono davanti alle mura, poi vengono aperte le porte e calati i ponti,
invitanti. Ma di qui si scatena una carica della cavalleria dei Gonzaga, affiancata da fanti. I
Viscontei stretti tra le barre ed il nemico, storditi, non riescono a reagire decentemente e si
arrendono tutti.98
95 La battaglia viene celebrata da un affresco in una cappella del Convento di San Francesco. L’opera non
ci è pervenuta, ma ne abbiamo una descrizione fatta da Joanne Sabatino degli Arienti e riportata da
FILIPPINI, Albornoz, p. 266, «Pareano li cavali cum spumanti freni per le fatiche sentire fremire, li quali
non cum manco felicità pareano pinti che fusse il cavallo pinto da Appelle, excenllentissimo di tutti li
picturi, tanto naturalmente formato che li altri cavalli vedendolo incominciavano a fremire. Si vedevano
ancora l’arme de’ militi et il viso de’ pedoni, insanguinati et pulverosi per la percossa terra da cavalli et
da homini combattenti. Se vedea dono Alfonso, nepote del nobilissimo Egidio cardinale di Spagna,
legato, cum molte ferite morto cadere a terra in favore del bolognese popolo. Se vedeano cum strenui
acti et gesti li arcieri tiranti le nervose corde dagli archi fino a le aurechie, che le saette cazavano, et
similmente le baliste caricare et trare. Se vedeano li trombetti rubicondi cum le guancie enfiate, per la
forza che davano a la tube per inanimare li combatenti. Se vedeano li pavaglioni et li tentorii tesi et
molti istrumenti bellici. Se vedea il vexillo di S. Chiesa et quelli del popolo et libertà di Bologna, donati
al valoroso capitano et quello de esso capitano cum Malateste insegne, che pareano dal vento
combattute; si vedeano ancora ventilanti li vexilli de li collegi de l’arte de la città. Se vedeano poi
pigliare de li inimici et menare a la città et rapire li stendardi per intiera victoria, che certo credo che ai
nostri tempi che cosa bellica più degnamente pincta già mai se vedesse. Altro non restava se non audire
vociferare li affigurati combattenti». Le fonti per la narrazione sono: Rerum Bononiensis, Cronaca A, p.
132-135; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 123-125; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 123; Rerum Bononiensis,
Cr.Bolog., p.132-136 e Cronaca Bolognese, p. 125-128. VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 59;
Chronicon Estense,col. 484-485; Domus Carrarensis, p. 100-101. Le cronache di Bologna ci informano che
vengono ordinati sei cavalieri nelle file di Albornoz: Gomez ordina Galeotto Malatesta che, a sua volta,
dà il cingolo militare a Egano di Gardo (o Guido) Lambertini, Azzo Alidosi, poi detto Azzo Spagnolo a
memoria di chi l’ha ordinato, Giovanni conte di Sarzana, Antonio di Albertaccio Ricasoli e Antonio,
figlio di messer Armanno di Spechem, Piacentino. Solo un cenno in Annales Forolivienses,p. 68.
96 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 134; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 125; Rerum Bononiensis, Cr. Vill.,
p. 135.
97 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 60.
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103 RENDINA, I Dogi, p. 153, citando Andrea da Mosto; LAURA GIANNASI, Celsi Lorenzo, in DBI vol. 23°.
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104 Si veda Familiares, XXIII, 20. STELLA, I principati vescovili di Trento e Bressanone, p. 512 nota che il
cancelliere del duca Rodolfo IV, Giovanni Lenzburg di Platzheim è un produttore di molte falsificazioni.
105 HATCH WILKINS, Petrarca, p. 212-217; ARIANI, Petrarca, p. 55-56; DOTTI, Petrarca, p. 340-343.
107 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 65. CAMERA, Elucubrazioni, p. 234 dice che le scosse
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108 Il 9 agosto il patriarca ha inviato suoi soldati contro i signori di Spilimbergo. DI MANZANO, Annali del
Friuli, V, p. 193.
109 La questione riguarda alcune terre che, al tempo di una vacanza di potere seguita alla morte del
patriarca, dal duca suo padre, sono state indebitamente strappate al Patriarcato, e che, negli ultimi anni
il Patriarcato si è ripreso. Non parliamo di poca cosa, perché tali terre danno un reddito annuo di 5.000
fiorini.
110 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 16-20; DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 193-194 e
nota 1 a p. 194; PASCHINI, Friuli, I, p. 312-315 che mette in evidenza il fatto che gli uomini del patriarca si
sono mossi perché la tregua stava per scadere e volevano mettere l’Asburgo di fronte al fatto compiuto.
111 KOHL, Padua under the Carrara, p. 111.
112 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 68. Notizia dell’arrivo del duca d’Austria anche in
Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 138; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 139; BRUNETTIN, L’evoluzione
impossibile, p. 214; Domus Carrarensis, p. 99-100.
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influenti dei popolari, e proprio loro sono i responsabili di aver trascinato nella congiura un
migliaio di questi.
Ma un uomo di penetrante intuito, messer Tivieri Montemelini,113 sospetta qualcosa e
riesce ad avere anche qualche indizio dell'occulta trama. La denuncia ai Priori (Arlotto dei
Michelotti, Benedetto del Rosso, Bettolo de' Pelacani, Contuccio di Fanciardo, Guido di
Magiuolo, Nicolò di Bettolo) che, non avendo prove dirette dibattono indecisi cosa si debba
fare: la presentita congiura sembra estesa, si dice che vi partecipino anche mille popolari; l'uso
del pugno di ferro potrebbe portare a conseguenze incontrollabili. Inoltre il satanico
Trebaldino ha continuamente fatto propalare notizie di congiure, che si sono sempre rivelate
infondate, destituendo di credibilità anche gli indizi, pochi, e coperti, di questa invece vera ed
estesa e pericolosa congiura.
In una convulsa riunione, si prendono le decisioni: si sceglie la via di far trapelare la
notizia che la trama è stata scoperta. I capi di questa, temendosi perduti, decidono di
cambiare aria e «si partirono a poco a poco, secretamente, di notte, dalla città». Si rifugiano a
Montemelino e Montesperello. Escono messer Alessandro Vincioli, messer Averardo di
Montesperelli, Giacomo di messer Guido Montemelini, Colaccio di Cuccho de' Baglioni,
messer Francesco, detto il Zeppa, di messer Ranuccio, Renzo di Nicolò di Balduolo detto lo
Squartana e Trebaldino di Manfredino. Vengono catturati Niccolò delle Mecche114 e
Ceccherello de' Boccoli, «con quattro loro masnadieri di nome e con sette altri mascalzoni».
Gli altri fuggono tutti. Il giorno seguente, il giorno di San Michele Arcangelo, si tiene
adunanza generale, si denuncia il trattato e si impartiscono le condanne.
Usciti volontariamente i principali degli oppositori, i Priori istituiscono guardia continua
nella piazza, di notte il servizio è affidato ai cittadini, di giorno ai mercenari tedeschi. Ma la
fuoruscita dei colpevoli continua incessante; ai primi si aggiungono Giovanni di messer
Francesco Montemelini, Guido della Corgna, Pellino di Cuccho, fratello di Colaccio, Nicolò di
Carluccio Baglioni, Pietro e signor Nicolò di Neri di Pellolo, Vico e Nicolò di Mascio,
Tancreduccio di Ottaviano, Guiccione e Giovanni d'Agabito, Borgaruccio di Nardo di
Consolo, Cecchino e Giovanni di signor Feo, Ceccholo e Marinello di Petruccio di messer
Giovanni di Montesperello, Ciardolino dalla Fratta, Tommaso di Mattiolo di Diotiaite,
Pocciarella, Mattiolo fratello d'Ercolano della Buona, messer Nicolò, Bartolomeo e Gugliemo
Montemelini, Ceccharello di Ciuccio de' Boccoli, Ciardolino detto Ciabacca, e suo fratello,
Bartolomeo e Giovanni di Berardello, Agnolo di Paoluccio Gratiani, il conte Niccolò delle
Mecche,115 Giovanni, fratello di Cecco de' Boccoli, Agnolo di Lello di messer Lezzo, Bartolo da
Montebiano, Lodovico, Guccione e Teneruccio di Neri de' Montemelini, Giacomo di
Agnolello, Francesco di Betto del Giudice, Marinello signor Lello di Maffer, il cavalier di
messer Baglione, Francesco nipote del Vete, Petrino di Ranalduccio e Pietro detto Pater Nostro
e molti altri nobili e popolani. Una lunga lista, e ognuno protagonista di un dramma
dell'ambizione, del potere, ognuno al centro di un dramma familiare. Tutti sono messi al
bando. Ma i capi, i primi otto nominati, quelli che risulta abbiano fatto firmare un patto agli
altri, vengono condannati a morte, alla confisca dei beni, ad esilio perpetuo con figli e nipoti,
e ad esser effigiati a testa in giù come traditori; per sommo disprezzo non sulla facciata del
Palazzo di Priori, ma su quella del Palazzo del Sindaco. Parte degli altri a pene simili, ma non
estendibili a figli e nipoti. I rimanenti a multe da 100 a 300 fiorini e esclusi dai pubblici uffici.
In tutto 55 al bando, 32 pagano 300 fiorini, 34 ne versano 100. I due capi catturati: ser Niccolò
di Nino de Montemelini, arciprete della Pieve di Confino, e Ceccarello di Ciuccio de' Boccoli,
vengono decapitati, insieme ad altri quattro popolari; i sette mascalzoni sono impiccati. In
settembre i rifugiati in Montemelino, temendo che le simpatie popolari degli abitanti possano
113 Villani diversamente da Pellini, dice che Tivieri da Montemelini è uno dei congiurati, che si pente e
rivela tutto a Leggieri d'Andreotto, che lo reca con sé a rivelare la trama ai signori.
114 Dovrebbe essere la stessa persona di Niccolò di Nino dei Montemelini.
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arrecar loro danno, fuggono a Monte Sperello; altri a Monte Gualandro, Monte Biano e
Compignano, che si ribellano a Perugia. Il governo perugino allora manda l'esercito a Monte
Sperello. Mentre gli armati si accostano da un lato, i fuorusciti, temendo di esser troppo
deboli, «si gittarono tutti nudi dall'altra parte delle mura, e lasciando l'armi e tutti gli altri
arnesi», si salvano senza problemi. I soldati entrati sequestrano armi e beni dei fuggiaschi che,
portate a Perugia, sono messe all'asta. Firenze invia cento uomini a cavallo. Anche i Pisani,
domandato il permesso - i Pisani, sempre in odore di ghibellini, non possono prendere
iniziative ambigue - inviano armati ed ambasciatori.116
116 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 75 e PELLINI; Perugia; I; p. 991-994. Diario del Graziani, p.
119 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 135; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 136; .
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120 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 136-137; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 136-137.
121 CORIO, Milano, I, p. 807.
122 AZARIO, Visconti, col. 402-403; e, nella traduzione in volgare, p. 169-170.
123 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 69; D’ANDREA, Cronica, p. 95 che dà la data del 26
agosto.
124 DELLA TUCCIA, Cronaca di Viterbo, p. 34.
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consigliano la prudenza. Meglio trattare: Amedeo si piega ad un nuovo arbitrato i cui membri
sono Antonio di Beaujeu, Ludovico di Chalon, Aimone di Ginevra, Ludovico di Neuchâtel,
Guglielmo Granson, Giovanni de la Chambre, Guglielmo de la Baume, Ugo di Granmont,
Ludovico di Rivoire e il bastardo Umberto di Savoia. Il lodo decide che Amedeo debba
restituire il Piemonte a Giacomo, ma questi deve pagare 160.000 fiorini, rinunciare ad Ivrea, al
Canavese e giurare fedeltà al Savoia, cioè esattamente ciò che Giacomo aveva rifiutato di fare
anni fa. Filippo dovrà giurare anche lui. Inoltre, il principe non è libero di scegliersi i suoi
funzionari. I 160.000 fiorini sono riducibili alla metà qualora Giacomo o suo figlio Filippo
sposassero la contessa de la Marche o la contessa di Beaujeu, evidentemente entrambe care al
Savoia. Ne vedremo gli sviluppi nel 1362.127
127 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 95-96; DATTA, I Principi d’Acaia, I, p. 191-192; D’ORVILLE JEAN,
130 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 71; un breve cenno in OKEY, The Story of Avignon, p.
161.
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134 VARANINI, Il principato vescovile di Trento nel Trecento, p. 365; STELLA, I principati vescovili di Trento e
Bressanone, p. 512.
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di Montorsaio per la ragguardevole somma di 1.500 fiorini d’oro. I residui 3/4 verranno
acquistati da Martinello di Nicolò di messer Nicolò Salimbeni per 5.100 fiorini, nel febbraio
del ‘62. Il castellano che vi viene inviato è uno speziale, Jacomo di Stefano. L’acquisto è stato
fatto contro la volontà di Giovanni d’Agnolino Bottoni de’ Salimbeni.135
In ottobre Giovanni d'Agnolino Bottoni, con 150 cavalieri e 800 fanti cavalca contro
Montalcino, per rimettervi dei fuorusciti, appartenenti alla sua fazione. L'ingresso in città gli è
stato garantito da cittadini influenti, ma il sentimento popolare di simpatia per la vicina
Siena, spinge i terrazzani ad opporsi anche ai potenti alleati di Giovanni. Questi vede le porte
ostinatamente chiuse, e si aggira nei dintorni, cercando di escogitare altre maniere di
realizzare la propria missione. ma i Senesi gli inviano messi a domandare il perché di tale
atteggiamento ostile, e che cosa stia cercando di ottenere. Giovanni, ipocritamente, sostiene
che sta compiendo tale spedizione militare per assicurarsi che i terrazzani si mantengano
fedeli a Siena. Ma gli abitanti di Montalcino non si prestano a tale doppiezza, eleggono
ventiquattro ambasciatori, scelti tra i cittadini più in vista e li inviano a Siena a sottolineare la
loro fedeltà. Giovanni fa buon viso a cattivo gioco e consiglia fraudolentemente il comune di
Siena di approfittare di avere in mano il fior fiore dei cittadini per insignorirsi totalmente di
Montalcino. Il consiglio è troppo attraente per esser disatteso, ed infatti i signori trattengono
gli ambasciatori, dicendo loro che saranno rilasciati solo quando Montalcino accetterà un
contingente senese a guardia della terra. Difficile resistere ad argomenti tanto convincenti, e
Siena ottiene Montalcino e la libertà dei ventiquattro amareggiati ambasciatori.136
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Il movimento di Paolo è appoggiato, o, almeno, non ostacolato dai Pisani, che ancora
hanno la guardia della città. Bocchino non è però totalmente incosciente, e corrompe i Pisani.
Il 24 agosto i Fiorentini, attratti dalla possibilità di ottenere per tradimento il Torrione del
Monte, vi cavalcano, ma vengono scoperti dai Pisani e costretti a ripiegare. I Fiorentini allora
fanno un ulteriore passo aggressivo e portano il loro esercito sotto Volterra. Messer Bocchino
compie qui l'ultimo e decisivo errore, intavolando trattative con i Pisani per cedere loro
Volterra, contro 30.000 fiorini. L’infame commercio diviene però di pubblico dominio e Paolo
riesce a far sollevare la città, sorprendere i Pisani nell’osteria dove se ne stanno
tranquillamente a mangiare, catturarli ed accompagnarli delicatamente fuori delle porte della
città, senza arrecare loro male alcuno. Bocchino viene sorpreso nel suo palazzo, a nulla
valgono le sue promesse e i dinieghi di tradimento, viene imprigionato e in una fresca
mattinata d’ottobre, il 10, il suo capo viene pubblicamente spiccato dal busto. I Volterrani
mandano ambasciatori a Siena a richiedervi il Podestà ed a Firenze perché invii il capitano di
guardia. La volontà facilmente penetrabile dei Volterrani è di tenere a freno la forza di
Firenze, con l'aiuto di Siena. Sia Firenze che Siena provvedono prontamente, e «temendo i
movimenti dei popoli vari e vani», mandano anche ambasciatori per accertarsi che la
situazione non prenda pieghe pericolose. Quelli fiorentini sono Nicolò Tornaquinci e Paolo
Covoni. I Fiorentini pregano il comune di liberare i membri della famiglia Belforti
imprigionati e di rendere giustizia (leggi: terre e denaro) alla vedova di Bocchino, la
Fiorentina Bandecca de’ Rossi. Ma i Volterrani rispondono aumentando la sorveglianza ai
prigionieri e, il 19 ottobre, ordinando che si tolgano dalla cattedrale le bandiere che recano
l’arme gentilizia dei Belforti. Ma, in nome della famiglia umiliata, si ribellano i castelli di
Berignone e Montecatini,137 costringendo Volterra ad un’operazione militare per ridurli
all’obbedienza. Comunque, una qualche simpatia Volterra dimostra a Siena, piuttosto che a
Firenze, ed allora questa manda truppe ad occupare Montecatini e Montegemoli, a sud ovest
della città. Il possesso delle due terre assicura a Firenze il controllo della via della Val di
Cecina, che collega Volterra al mare. Le discussioni tra Volterra e Firenze si intrecciano
affannosamente, ambasciatori volterrani sono a Firenze, e, in Volterra vi sono, per i Senesi, il
capitano di guerra, ambasciatori e gran parte dei Nove. I Fiorentini presentendo che la parte
che favorisce i Senesi sta trattando con loro per ammetterli nascostamente in città, fanno
stringere le truppe fiorentine intorno a Volterra. I Senesi commettono infatti un passo falso e
un loro contingente di 50 cavalieri e 150 fanti, comandato da un Malavolti, nella notte si dirige
verso una delle porte della rocca, che deve esser aperta per riceverli. Ma quando i soldati
sono giunti alla fonte presso la città, vengono sorpresi in un agguato teso dai Fiorentini,
cadendo tutti prigionieri. Vengono inizialmente trattati con durezza, poi, per non crearsi altri
problemi con Siena, che dopotutto è un buon alleato, i Fiorentini decidono di trattarli
cortesemente e, restituite loro armi e cavalcature, li spediscono rapidamente per la via dalla
quale sono giunti. I Volterrani, realisticamente, decidono allora di darsi ai Fiorentini, con il
patto di ottenere la restituzione della rocca trascorsi 10 anni, e di non poter accogliere come
ufficiali del comune cittadini di comuni entro un raggio di trenta miglia da Volterra. Firenze
mette come castellano e capitano del popolo Rosso de’ Ricci, con lo stipendio di venti lire al
mese, più sette per i soldati.138
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Carlo Ciucciovino
comandanti. Solo un cenno in Cronichetta d’Incerto, p. 251. CECINA, Volterra, p. 157-162 cita quanto detto
da Villani, poi alle p. 162-170 riporta notizie originali.
139 PASCHINI, Friuli, I, p. 316-317; DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 196.
143 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 138; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 138.
144 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 139-140; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 139-140.
145 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 139-140; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 139.
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La cronaca del Trecento italiano
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Carlo Ciucciovino
§ 58. Avignone
Alla fine di novembre, in Avignone si scopre un maldestro trattato che alcuni forestieri
hanno intrattenuto con la compagnia mercenaria spagnola, per consentirle l'accesso nella
ricca città. Vengono imprigionati trenta traditori che vengono giustiziati, e la guardia della
città resa più stretta.152
149 MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 155-158 e MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, Lib. II, cap. 70-73.
150 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 140; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 140.
151 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 81 e Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 141; Rerum
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La cronaca del Trecento italiano
Tommaso Caracciolo, un grande amico degli Aquilani, che accompagna gli ambasciatori
aquilani a negoziare con Nicola Ungaro. Ci si accorda per dividere i mercenari in due schiere
di 400 soldati l’una. Nicola con sessanta dei suoi verranno trattenuti in ostaggio all’Aquila,
finché le sue truppe non abbiano lasciato il territorio. La vigilia di Santa Lucia, il 12 dicembre,
I primi 400 passano. Vanno speditamente, diritti per la loro strada; passano sotto le mura
della città, «vedevano per le mura et dentro multa gente; passaro in granne prescia, non se
fixero niente, non aspettava l’uno l’altro, né amico né parente». Li segue una scorta di
Aquilani, incaricata di sorvegliarli e di recare loro orzo, pane e vino. Due giorni dopo li segue
l’ultimo contingente. Tutto avviene tranquillamente, senza violenze.153
§ 62. Naufragi
A dicembre una nave pisana torna dalla Romania, carica di molta mercanzia. Vuole
metter fonda nel porto, ma mentre è «tutta con li suoi ferri fuori del porto di Genova, venne
una grande tempesta di vento, e ruppe tutte le sar(i)e, e portolla al molo di Genova, e
percosse le navi ed altri legni e tutti gli affondoe in mare».157
156 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 42; BONOLI, Storia di Forlì, p. 431-432.
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Carlo Ciucciovino
paura; la popolazione si raduna nelle chiese a implorare misericordia. Nelle piazze e sui prati
di Camollia vengono erette tende e padiglioni per consentire alla gente di non rientrare nelle
loro case. In tutto, le scosse si protraggono per quattro giorni, e se ne contano 17 tra grandi e
piccole.158
§ 66. Genova
Prosegue la tensione tra Genova e Nizza a causa del possesso del castello di Monaco.
I Grimaldi mettono in piedi una congiura per riacquistarlo per loro, ma la macchinazione
viene scoperta e Genova protesta con Nizza che ha dato ricetto ai Grimaldi. I Nizzardi si
rivolgono a invano a Folco d’Agoult per riceverne protezione; Genova intraprende azioni
militari contro Nizza.163
161 ESTOW, Pedro el Cruel, p. 206-208; VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 79 e 88.
163 GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p. 303-306.
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La cronaca del Trecento italiano
§ 67. Le arti
Dal 1361 Barnaba da Modena risiede a Genova e vi rimane fino al 1383. Egli influenza
notevolmente la pittura ligure ed il suo allievo più dotato è Nicolò da Voltri. Barnaba si trova
molto bene nell’ambiente genovese, fondamentalmente conservatore dal punto di vista
artistico e attento alle novità che arrivano da Bisanzio. In questi anni opera in Genova
Giovanni Re di Rapallo. Come troppo spesso accade in questo secolo, abbiamo nomi senza
opere e opere alle quali non sappiamo associare autori. Questo accade anche nel caso di
Giovanni Re, sappiamo che lavora nel Palazzo ducale di Genova, ma non abbiamo opere che
ce lo illustrino. Nel 1361 Guariento viene chiamato a Venezia per realizzare la tomba del doge
Giovanni Dolfin in San Zanipolo. Perché un Padovano a Venezia? La ragione è da ricercarsi
nella volontà di affrescare la tomba e, se per le tavole e i mosaici i Veneziani sono il massimo,
per l’affresco occorre andarsi a cercare degli specialisti in terraferma.164
Alberto Arnoldi scolpisce la Madonna nella lunetta dell’Oratorio del Bigallo.
Appartiene all’agosto 1361 una “per grazia ricevuta” ordinata da Franceschino de
Brignole, forse di Genova, che scampato per la seconda volta ad un naufragio, quando tutti i
suoi compagni sono invece morti, sente il bisogno di riflettere sulla Morte. Il bassorilievo che
ci tramanda la sua memoria è nel Museo di San Martino di Napoli, proveniente dalla facciata
di San Pietro Martire. L’immagine che contempliamo è un contrasto tra il vivo, Franceschino,
e la Morte in vesti di cacciatore. Sotto i piedi della Morte in caccia vi sono tredici cadaveri.
L’uomo le offre una borsa di denaro, chiedendo alla Morte di risparmiarlo. Lo scheletro
risponde: «Se tu me potissi dare/ quanto se pote demandare/ no te scamparà la morte / se te
viene la sorte».165 Notevole è il senso laico che pervade la lapide, Franceschino non si è salvato
dalla fine per l’intercessione di un qualche santo, ma solo perché non è giunta la sua ora.
Il castello di Pandino, nel quale in questo anno è stata conclusa la pace tra Albornoz e
Visconti, è un sontuoso edificio visconteo appena finito di costruire. La decorazione
ricchissima del maniero allude alla potenza viscontea ed è «il più vasto e meglio conservato
corpus della pittura riservata ad una residenza castellare: pittura aniconica di altissima
qualità, che è estremamente riduttivo definire “decorativa”».166 L’ambiente di maggior
rappresentanza, quello probabilmente dove è stato firmato il trattato, è la sala orientale a
piano terra, di circa 36 metri di lunghezza rischiarato da sei bifore. Grandi stemmi dei
Visconti e della Scala, la famiglia da cui proviene la moglie di Bernabò, ornano le pareti.167
Impossibile attribuire ad un nome gli affreschi, visto il loro carattere non iconico, tuttavia vi
sono alcune, poche, immagini che è possibile avvicinare alla maniera di qualche artista, tra
queste la bellissima figura di un cervo morente nel salone orientale, e Serena Romano fa i
nomi di qualcuno legato alla cerchia di Turone de Maxio, anche se non a lui personalmente,
ed avanza l’ipotesi che il giovane Altichiero «la cui data di nascita è ignota, non possa aver
conosciuto e chissà, forse lavorato ancora giovanissimo nei grandi cantieri viscontei e in
particolare in quello milanese dell’arcivescovo Giovanni, dove la presenza di pittori bolognesi
non disdice affatto a quel che poi si sa di Altichiero, attivo con Avanzo a Verona già nei primi
anni Sessanta».168
164 DAVIDE BANZATO, L’impronta di Giotto e lo sviluppo della pittura del Trecento a Padova, in Giotto e il
Trecento, p.147.
165 BOLOGNA, I Pittori alla corte angioina, p. 310.
166 SERENA ROMANO, Palazzi e castelli dipinti, in Arte di corte in Italia del Nord, p. 257.
167 SERENA ROMANO, Palazzi e castelli dipinti, in Arte di corte in Italia del Nord, p. 251-274 per una esauriente
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CRONACA DELL’ANNO 1362
4 Su Artale, ZURITA, Annales de Aragon, Lib. IX, cap. XXXII dice: «valor grande del conde don Artal de Alagòn,
intreccia trattative per sposare Federico con la bella figlia di Ludovico di Durazzo. Le
trattative hanno almeno l’effetto di accelerare quelle per il matrimonio con Costanza, che nel
gennaio del ’61 sbarca a Trapani, sotto la protezione del partito dei Catalani. Federico,
durante una partita di caccia, riesce a sottrarsi alla sorveglianza di Francesco di Ventimiglia e
fuggire a Mistretta, dove Artale d’Alagona lo accompagna dalla sposa. Il 5 aprile a Catania
vengono celebrate le nozze. Questo matrimonio salda il partito dei Catalani con quello degli
Aragonesi e fa prevedere la pacificazione dell’isola sotto un unico sovrano.
Questa situazione spinge Nicola Acciaiuoli a intraprendere una missione in Sicilia,
lasciando l’assedio di Ludovico di Durazzo. Alla fine del ’61 si imbarca praticamente senza
truppe su tre galee e va a Messina. Forte solo della sua autorità e del suo personale carisma,
Nicola riesce a ottenere che Manfredi di Chiaromonte, che sta progettando di passare nel
campo di coloro che giudica gli inevitabili vincitori, si rechi alla corte napoletana, con una
delle sue galee, a fare atto di sottomissione. Nicola rimane a Messina a riformare il governo.
Ne partirà dopo il 9 luglio.5 Dall’unione tra Federico e Costanza nascerà dopo due anni
l’infanta Maria.6
5 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 493-495; UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Acciaiuoli, I, p. 268-269; TOCCO,
Niccolò Acciaiuoli, p. 273-274.
6 ZURITA, Annales de Aragon, Lib. IX, cap. XXXII.
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La cronaca del Trecento italiano
Fiorentini non reagiscono, non inviano armati a soccorrere Giovanni da Sasso, ed allora gli
impazienti Pisani rompono guerra aperta, cavalcando in gennaio contro Sommacolonna, che
pensano di prendere di sorpresa, fallendo. Sempre più furiosi, assalgono ed uccidono sette
conestabili fiorentini che, andando alla guardia di val di Pescia, si sono attardati su poggio
della Romita, sopra Pietrabuona, a vedere, incuriositi, «badaluccare e gittare li trabocchi,
dando così palese e aperto principio alla guerra». I Pisani mettono i loro armati alla Cerbaia
nel territorio di Firenze e devastano fino al Cerruglio. I Fiorentini rispondono mandando il
loro esercito a prendere Montecarlo e Pietrabuona.7
7 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 83; STEFANI, Cronache, rubrica 690; SOZOMENO, Specimen
Historiae, col. 1063; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XI, anno 1362, vol. 3°, p. 251. Cronichetta d’Incerto, p.
251-252 chiama Giovanni da Sasso «uomo molto guelfo e molto pro[de]». SERCAMBI, Croniche, p. 115-116;
CECCHI-COTURRI, Pescia, p. 127-128; RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 180-182.
8 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 85; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1064; AMMIRATO,
Storie fiorentine, lib. XII, anno 1362, vol. 3°, p. 255-256; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 152-156 descrive
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Carlo Ciucciovino
tutti i movimenti militari dei Pisani e, ricolto agli Ungari, conclude: «Iddio gli strughi [distrugga] tucti!».
In queste pagine Ranieri parla di sé e risulta essere camerlengo del comune.
9 CATUREGLI, Giovanni Agnello, p. 29.
10 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 92; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1065. Un breve
resoconto delle azioni della Compagnia è in AZARIO, De Bello Canapiciano, col. 439-440, in sostanza il
marchese li mette dentro Caluso, quindi lancia gli Inglesi nel distretto di Novara e Vercelli, dove
commettono atrocità. I mercenari opprimono il Canavese ai danni dei conti di San Martino, ai quali
strappano castelli e fortezze. Sembrano non curarsi della peste che si sta portando via il 70% della
sventurata popolazione e continuano a rubare e violare. Con Anichino prendono Savigliano. La
pressione dei mercenari spinge i signori guelfi della regione, i San Martino, i Valperga e Riparia a darsi
al conte Verde. Con questa notizia Azario conclude la narrazione della guerra nel Canavese. SOZOMENO,
Specimen Historiae, col. 1064. Si veda anche GIULINI, Milano, lib. LXIX, che, sbagliando sulla scorta
dell’Azario, mette l’impresa nel ’63, e dice che «gli Inglesi si gettarono nell’acqua co’ loro cavalli e
vennero di qua nel territorio milanese nel quarto giorno di gennaio dell’anno 1363».
11 Nel maggio 1360, davanti al notaio a Parigi, vi è stata la prima transazione di tal genere in Francia,
pratica, come sappiamo, invece diffusissima in Italia. In tale sede Thomas de Beauchamps, conte di
Warwick, grande comandante inglese datosi al brigantaggio, accetta di liberare tutte le fortezze a nord
di Parigi, previo pagamento di 12.000 fiorini. CASTELOT E DECAUX, La France au jour le jour, II, p. 475.
12 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 87.
13 DE MUSSI, Piacenza, col. 506, sulla scorta di De Mussi, POGGIALI, Piacenza, VI, p. 333..
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La cronaca del Trecento italiano
presente intendevano a tenerle polite, sì che, quando comparivano a zuffa, loro arme
parevano specchi, e tanto erano più spaventevoli». Alcuni di loro sono arcieri, armati del
temibile arco lungo inglese, di legno di tasso. I cavalieri combattono quasi sempre a piedi,
affidando i cavalli ai paggi, si stringono in una schiera convessa, reggendo le lance a due a
due, «e così legati e stretti, colle lance basse a lenti passi si facevano contro ai nemici con
terribili strida, e duro era poterli snodare». Sono dotati di scale ingegnose, in cui un pezzo si
monta sul sottostante, con un innesto ad imbuto, «e con essi sarebbero montati in su ogni alta
torre. Ed essi furono i primi che recarono in Italia il condurre la gente da cavallo sotto nome
di lancie, che prima si conducevano sotto nome di barbute o a bandiere».15
19 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 86; CAMERA, Elucubrazioni, p. 225-226.
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Carlo Ciucciovino
mentre i Durazzo, leali nei confronti della corona di Francia, lo avversano, i Taranto sono
propensi a vedere nelle rivendicazioni del sedicente sovrano qualche fondatezza, così come
anche lo stesso re d’Ungheria. La fantastica pretesa di Giannino viene utilizzata a diverso
titolo dai diversi potentati: Giannino è arrestato in Francia il 7 gennaio 1361, il papa lo vuole
ad Avignone e ne fa richiesta a metà aprile, ma egli viene invece inviato alla corte napoletana,
dove giunge solo ora.22
§ 9. Francesco da Carrara
Messer Tolberto da Prata apprende che i suoi parenti gli stanno preparando insidie, ed
allora chiede ed ottiene aiuto da suo cugino Francesco da Carrara. Gli abitanti di Sacile
temono però che i militi inviati da messer Francesco abbiano il segreto incarico di provocare
sommosse e, approfittandone, impadronirsi della terra. Sospetto aggravato dal fatto che il
capitano della città messer Federico (Fedrigin) dalla Torre è amicissimo del Carrara e in
discordia con i terrazzani. Costoro, dando corpo al tradimento, si intendono con Venezia che
invia truppe e assedia il castello che garantisce il possesso di Sacile. Tolberto da Prata,
generosamente, risponde alla richiesta d’aiuto di Fedrigin, fornendogli i fanti ed i cavalieri
che Francesco aveva inviati a lui. Malgrado tutto, in pochi giorni, il capitano, «como homo
vile, habiando paura de’ nemisi», fugge a Prata, lasciando tutti i suoi militi nel castello.
Ovunque, nel Friuli, si dice che Francesco voglia conquistare la terra per sé, allora il signore
di Padova scatena un’offensiva diplomatica, inviando messer Bartholin di Ruin da Reço,
dottore in legge, ad Udine e messer Carlevario dalla Torre, vicario del patriarca, al consiglio
di Sacile. La buona fede di Francesco viene riconosciuta, «et abhominado el mal parlar di
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La cronaca del Trecento italiano
cativi». Bartholin ed il vicario, con fanti e cavalieri, si recano a Sacile, dove, in nome del
patriarca, prendono in consegna il castello, sostituendo la guarnigione padovana con quella
del patriarca.25
§ 10. Bologna
Il 15 febbraio viene eletto il nuovo podestà di Bologna, messer Zappo de Armiso. Non
darà buona prova di sé, al termine del suo mandato verrà sottoposto a sindacato e
condannato a pagare 11.000 lire di bolognini. Imprigionato, riesce a fuggire con tre dei suoi.26
Il 13 marzo si ribella a Bologna il castello di Badalo, che si consegna a Paganino da
Panico, sembra che l’autore del tradimento sia stato un prete abitante nel castello. Il castello
verrà restituito in luglio.27
25 Domus Carrarensis,paragrafo 222, p. 94-96; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 16-18.
26 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 144 e 149; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 144 e 151.
27 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 144; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 144 e 148; Rerum Bononiensis,
30 Cronaca di Ser Guerrieri da Gubbio, p. 15; VELLUTI, Cronica, p. 229 lo definisce: «valentrissimo e esperto
Congelato, Francesco di Carpegna, Giovanni, conte di Montedolio, Pietro di Gattara, Galasino e Pietro
di Teramo, Nicola di Gariolo, l’abate di Galeata, Tedaldi, l’arciprete di Galata, il vescovo di Montefeltro,
il podestà ed I 2 massari di Montecorvario, Nicola del Gattolo, il vescovo rubiense, il vicario della chiesa
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di Ravenna in Terra Poderi, I conti Bandino, Rizzardo ed Azzone Ubertini. FILIPPINI, Albornoz, p. 280 e
287-293.
32 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 93.
33 Cronache senesi, p. 595-596. Non specificando il mese, ASCANI, Due cronache quattrocentesche, p. 58 dice
che Anichino passa per la valle del Niccone ed alloggia a Reschio, che appartiene ai marchesi Santa
Maria. Egli conduce 3.000 cavalli e molti fanti, poi va nel Cortonese e al soldo del Visconti. Riferito al
1361, ma credo sia nel 1362.
34 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 31. Non trovo notizia di questa congiura né in
37 Gli ambasciatori che hanno condotto le trattative sono: per l’Albornoz, Nicolò Spinelli e Giovanni da
Siena; per Cansignorio e Paolo Alboino della Scala, Francesco Bevilacqua e Giacomo Cavalli; per
Francesco da Carrara, Manno dei Donati di Firenze e Bartolomeo dei Piacentini di Parma; per i marchesi
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La cronaca del Trecento italiano
trattare l'accordo e, finalmente, a marzo, la cosa è fatta. Ma Cansignorio della Scala non si fida
a sufficienza dell’Este: occorre suggellare la nuova alleanza con un'unione forte, il signore di
Verona dà sua sorella Verde della Scala in sposa al marchese di Ferrara, Nicolò II, detto lo
Zoppo, a causa della gotta che lo affligge. A cose fatte, Bernabò viene informato, e questi «se
ne turbò dicendo: "Io son fatto cognato di uno sterpone”».38 Matteo Villani commenta che
malgrado il tradimento,« il marchese ... era di animo nobile e valente huomo magnanimo e di
grande cuore, e compare di messere Bernabò e molto l'haveva servito contro alla Chiesa nella
guerra di Bologna, dando libero il passo a sua gente d'arme, e a suo piacere vittuvaglia per
acqua e per terra». Nel seguente mese d'aprile, viene stipulata lega e compagnia tra la Chiesa
ed i tre signori. Viene costituito un esercito di 3.000 cavalieri, la metà a spese della Chiesa, e
gli altri equamente ripartiti tra Padova, Verona e Ferrara. Nell'alleanza ci si impegna al mutuo
soccorso. Gli ambasciatori dei collegati si recano a Milano ad annunziare la nuova alleanza.
Bernabò li fa ricevere da un suo notaio, che, ascoltate le nuove, congeda i messi per riferire al
suo signore. «Et tornati i dicti ambasciatori alla hostaria, el fo comandà che elli no se dovesse
partire de là. Le qual cose po’ per lo dicto nodaro recitade a mesier Bernabò, incontinente,
pieno d’ira et como lyon andando smaniando per la camera et digando pur parole ai danni
dei dicti ambasciatori», comanda che gli stessi non possano lasciare gli alloggi. L’ordine viene
recato da un famiglio accompagnato da molti armati. Lo spiegamento di forze spaventa i
malcapitati ambasciatori, che vengono trattenuti agli arresti domiciliari, fintanto che non
vengono loro recapitate tre paia di vesti bianche, abiti da pazzi, e viene richiesto loro di
indossarle e giurare di non toglierle fino a quando la risposta di messer Bernabò non venga
loro recapitata. Quando i malcapitati prestano il giuramento vengono portati al cospetto del
gran Lombardo e tenuti per due ore innanzi alla corte attenendo che Bernabò si degni di
mostrarsi. Finalmente il signore arriva, ma non dice parola sull’argomento, e porta con sé gli
ambasciatori per tutta Milano, «straparlando molto di signori di Ferrara et de Verona, ma
pocho del signor mesier Francesco da Carrara». I poveri ambasciatori, smarriti e umiliati,
vengono congedati. Mentre rientrano ai loro alloggi, Bernabò comanda una scorreria fino a
Peschiera. Ma Cansignorio richiede aiuti al Carrara e obbliga i Viscontei a ritirarsi. Quando
gli ambasciatori dei tre signori si ripresentano alla corte milanese, a pregare che il Visconti
voglia astenersi dalla guerra contro la Chiesa, perché, d'ora in innanzi, «con tutto il loro
sforzo si porrebbero alla difesa di questa lega, il superbo tiranno ebbe singulare e altero
sdegno, e nelle sue rilevate parole molto li avvilì, usando queste parole: "Essi sono matti
fantisini”».39 E, facendo seguire gli atti alle parole, con derisione e minaccia invia loro per
dono vasellame d'argento con raffigurazioni a smalto; a quel di Verona lo smalto mostra una
scala appesa alla forca, al Carrara colombe volanti, all'Este una «(s)ferza, in considerazione
della sua vana e superba fantasia».40 La Lega viene solennemente proclamata a Bologna, nel
consiglio generale, il 22 maggio.41 Successivamente, anche Feltrino Gonzaga si aggiungerà
all’alleanza.42
Ugo ed Alberto d’Este, Riccardo dei Cancellieri da Pistoia. Si veda FILIPPINI, Albornoz, p. 277-279. Anche
DE MUSSI, Piacenza, col. 507.
38 Verosimilmente nelle intenzioni di Bernabò a questa parola viene assegnato il significato di “storpio”.
40 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 96; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1065; BAZZANO,
Mutinense, col. 633; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 27-28 e documento 1590; CORTUSIO,
Additamenta ad Historiam, col. 961-963; TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 40.
41 GRIFFONI, Memoriale, col. 178; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 145; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 145.
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Simone di Valvasone, a gennaio riescono a fuggire dalla prigionia e tornano in Friuli, dove
narrano le pressioni che Rodolfo d’Austria sta esercitando sul patriarca, per indurlo a
consentire patti in disonore e danno delle comunità friulane. Il patriarca scrive all’imperatore
il primo febbraio e lo informa delle vessazioni alle quali Rodolfo IV lo sottopone per
costringerlo a firmare un accordo che lo vede ostile.43 I comuni friulani hanno «tanto anemo
che, per força d’arme, elli recovrò molti castelli che era rebellà alla Patria», costringendone gli
abitanti a prestar giuramento di fedeltà. Intanto, il re d’Ungheria, amico del patriarca
d’Aquileia, sta cercando di apprestare azioni diplomatiche per consentirne la liberazione.
Scrive dunque a Francesco da Carrara, e gli invia il cavaliere messer Federico di Mattelor,
perché ne ottenga un ambasciatore che con lui vada a cercar di comporre il dissidio tra il duca
d’Austria, il conte di Gorizia e il patriarca. Francesco designa Simone dei Lupi di Parma.
Federico e Simone iniziano la difficile trattativa, e spuntano un primo successo quando
convincono i Friulani ad accettare una tregua d’armi fino al quindici d’agosto,44 sfruttando il
tempo fino ad allora per tentar di raggiungere una pace equa. I Friulani mandano con messer
Simone Lupi, i loro ambasciatori alla corte del re, a Zagabria, ma la contessa di Gorizia, che
governa in assenza del consorte, in viaggio, assolutamente non accetta la tregua,
impegnandosi solo a scriverne al marito, il quale deciderà secondo il proprio giudizio.
Impegnandosi comunque a comunicare «a quilli della Patria de Frioli» la decisione finale del
conte con 15 giorni di preavviso.45 Il re d’Ungheria manda a Vienna i vescovi di Cinquechiese
e Zagabria, essi qui giungono il 6 marzo. Il 23 marzo Boemondo, arcivescovo di Treviri, esige
che il duca si rimetta all’arbitrato dei principi e intanto liberi il patriarca. Ma Rodolfo non
ascolta nessuno e il 21 aprile impone al patriarca la firma dei patti.46 Nel documento il
patriarca accetta che il duca metta in Friuli un suo capitano con 50 e più armati, a spese del
Friuli e gli fosse dato un castello. Il compito del capitano è di pacificare il Friuli e difendere il
patriarca. Ludovico della Torre concede a Rodolfo e ai suoi successori Windischgratz e Laas e
tutti i feudi che il Patriarcato ha in Stiria, Carniola, Carinzia, Marca Schiavona e sul Carso,
inoltre un rimborso di 1.000 marche d’argento per le spese del duca per Chiusa, Manzano,
Buttrio. Solo il re d’Ungheria e il duca d’Austria hanno facoltà di modificare queste
condizioni. Il 2 maggio Ludovico d’Ungheria impone a Rodolfo importanti modifiche ai patti:
il duca deve rinunciare alla sua guarnigione in Friuli ed alle 1.000 marche d’argento, inoltre i
feudi transalpini verranno dati dal patriarca al duca nella misura e nel tempo convenienti ed
opportuni. Come rimborso spese, Chiusa viene concessa al duca, ma solo per 24 anni.
L’azione del re d’Ungheria e quella del legato Egidio Albornoz ottiengono finalmente la
libertà per il patriarca che rientra ad Udine il 2 giugno.47
43 PASCHINI, Friuli, I, p. 317-318 scrive che Rodolfo vuole Chiusa, la terra e le fortezze di Gemona e di
Sacile, di Manzano e di Bruttio, l’abbazia di Rosazzo e anche i castelli di Savorgnano, Valvasone,
Cuccagna, Prapero, inoltre pretende ben 40.000 marche d’argento, come spese di guerra. Non basta:
anche Windischgratz, il castello di Adelsberg, tutti i feudi in Austria, Stiria, Carinzia, Slavonia, Carniola,
nella contea di Gorizia (salvi i diritti dei conti), sul Carso, Cividale, il castello di Villalta e infine
l’avvocazia del Patriarcato. Naturalmente il patriarca preferisce la morte alla firma di una tale
spoliazione. Ludovico scrive una lettera al papa chiedendogli di scomunicare il duca Rodolfo.
44 Fina la festa de sancta Maria Vergene del mese d’agosto.
45 Domus Carrarensis, p. 100-101, cap. 225; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 35; CORTUSIO,
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La cronaca del Trecento italiano
49 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 99; BAZZANO, Mutinense, col. 633-634 che lo chiama
Anchino de Mengardo; FILIPPINI, Albornoz, p. 280. TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 40 ci informa che Solara
è dei Pichi della Mirandola, alleati di Bernabò.
50 FROISSART, Chroniques, I, para. 634.
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Carlo Ciucciovino
Beaujeu e Arnaldo di Cervoles, detto l’Arciprete. Ha una consistenza di 6.000 cavalieri e 4.000
fanti. Un secondo esercito viene affidato al maresciallo Audrehem, creato luogotenente di
Linguadoca, e la sua missione è di tallonare i mercenari, rimanendo nel Mezzogiorno della
Francia, per sbarrare loro la via di Linguadoca. Il piano è di far convergere i due eserciti e
schiacciare gli avventurieri. Audrehem arriva a Lione il 9 aprile e ne assume la difesa.51
Quando l’esercito reale giunge a Lione, la compagnia ha conquistato il castello di Brignais, a
sole tre leghe da Lione. L'esercito reale esce dalla città, cercando la battaglia campale con i
mercenari, ed invia cavalieri ad esplorare il territorio. Questi trovano facilmente l'avversario,
ben disposto e pronto alla battaglia. Senza approfondire la ricerca, i cavalieri tornano
prontamente al quartier generale annunciando di aver localizzato la compagnia, di averla
trovata agguerrita e ben ordinata, ma molto più scarsa di quanto si aspettassero: non più di
6.500-7.000 armati. Ciò che gli esploratori non hanno scoperto è che i maliziosi ed esperti
mercenari hanno nascosto almeno altrettanti uomini appiedati ai piedi della montagna, pronti
ad intervenire, Giacomo di Borbone cade nella trappola e decide l'attacco. Ordina i suoi in
schiere di 6.000 uomini, ed al comando della prima pone l'esperto Arciprete. Il 6 aprile,52 prima
dell’alba, gli armati si mettono in marcia.53
L’esercito reale, per scontrarsi con quello mercenario, deve affrontare un passaggio
difficile, un sentiero che passa sotto lo schieramento nemico e finisce in una vasta e scoscesa
ripa, sulla quale domina la Compagnia dei Tardi Venuti. L’Arciprete e messer John Chalos
conducono la prima consistente schiera sul delicato cammino. Mentre i Francesi iniziano ad
avviarsi, i mercenari, dall’alto, li bersagliano con pietre e massi che abbondano sul fianco
petroso dell’erta. Nessuna difesa è possibile contro i proiettili, cui non resistono né bacinetti,
né cappelli di ferro, né cotte d’armatura. Le pietre rompono, fracassano, maciullano i poveri
cavalieri e scudieri che coraggiosamente stanno avanzando, fermandoli. Regredire comunque
è impossibile, perché la via stretta e la folla degli armati che segue lo impedisce. In questo
momento delicatissimo il fior fiore dell’esercito mercenario, nascosto in fondo alla valle,
aggredisce l’ala sinistra dell’esercito francese. Caricano urlando i cavalieri, condotti da Seguin
de Batefol, Petit meschin, Naudon de Bagerat, il bourcq Camus, Espiote, Batillier, il bourcq de
l’Espare, Lamit, Guoit du Pin, il bourcq di Bretuel. Il loro grido è: “Aye Dieux, aye as
Compaingnes!”. La sorpresa è totale, i cavalieri reali sono rotti, poche isole di resistenza sono
vinte e lo stesso comandante Giacomo di Borbone ferito gravemente e trasportato a Lione,
dove morrà pochi giorni dopo. Molti sono i prigionieri, e tra questi John Chalos. Vengono
catturati il conte di Triciavilla (Tancarville), il conte di Forese (Forez), il maliscalco di Dunana,
l'Arciprete di Guascogna, messer Broccardo di Finistagion, Tedesco e capitano di ben 1.400
barbute, messer Amelio del Balzo e il conte di Clugny. Il bottino è immenso ed esalta la
Compagnia dei Tardi Venuti, che, in giugno, spinge il suo ardire fin ad arrivare sotto le mura di
Parigi.54
51 Questi numeri sono desunti da CASTELOT E DECAUX, La France au jour le jour; Froissart parla di un
esercito molto più consistente, come dimostra il fatto che esso viene ordinato in schiere, la prima delle
quali ha ben 6.000 armati.
52 Froissart dice il 12.
54 FROISSART, Chroniques, I, para. 638. Vedi anche VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 95 e A.
CASTELOT E DECAUX, La France au jour le jour, II, p. 476-477. Quest’ultimo dà della battaglia una versione
leggermente diversa: “Pitetto ha preso il castello di Brignais e lo ha presidiato con 300 armati. Egli, con
3.000 barbute e 2.000 fanti, per massima parte Italiani, cavalca nel contado di Forez per procurarsi
rifornimenti. I Francesi in pochi giorni giungono sotto Brignais e lo cingono d'assedio. Pitetto è ad un
giorno e mezzo di cammino, ma decide di giocare l'arma della sorpresa e, con una marcia forzata in
piena notte, piomba sui Francesi quando mancano alcune ore all'alba del 6 aprile. I Francesi non
sospettano nulla e sono mal provveduti; senza neanche prender fiato Pitetto assale il nemico con gran
tempesta e romore. La sorpresa sconcerta e demoralizza i Francesi, che resistono come possono, ma le
continue cariche della cavalleria mercenaria impediscono che un qualsiasi nucleo organizzato possa
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La cronaca del Trecento italiano
funzionare da addensante della massa scompigliata d'armati. In breve tempo la rotta è totale: il duca di
Borbone è ferito gravemente, e pochi giorni dopo, in Lione, spira”. Solo un cenno in SOZOMENO,
Specimen Historiae, col. 1065. Si veda anche URBAN, Medieval Mercenaries, p. 107; FOWLER, Medieval
Mercenaries, I, p. 44-52.
55 FILIPPINI, Albornoz, p. 282-286.
56 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 88; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1064-1065.
57 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 97; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1066; ESTOW,
Pedro el Cruel, p. 209-210; AYALA; Coronica del rey don Pedro, 1361, cap. I e II; O’CALLAGHAN, A History of
medieval Spain, p. 423.
58 DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 665; SILVESTRELLI, Regione romana, I, p. 102; FALCO, Campagna e Marittima, p.
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la descrizione dettagliata del rito. Si veda anche MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 726.
62 Zato Passavanti è elencato come Gonfaloniere di giustizia per il quartiere di San Giovanni, in STEFANI,
Cronache, rubrica 689. Ma lo è dal primo gennaio 1361 al primo gennaio 1362. I Gonfalonieri del ’62 sono:
Tommaso di Neri di Lippo (quartiere San Giovanni), Schiatta Ridolfi (Santo Spirito), Niccolaio di Jacopo
Alberti (Santa Croce), Maffio di Cante di messer Guatano de’ Pigli (Santa Maria Novella), Cherico Gerini
da Sommaia (San Giovanni) e Giovanni di Giunta (Santo Spirito). Stessa fonte, rubr. 693.
63 Chi voglia leggere il bel discorso di Zato, forse inventato, ma, comunque bello ed interessante, legga
AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1362, vol. 3°, p. 257-259.
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ser Vanni Botticella, della Cappella di Santa Lucia. Il castello di Pietrabuona è tormentato da
dodici trabocchi, che non cessano, giorno e notte, di bersagliare gli assediati. Prendono anche
il poggio della Romita, che, sovrastando i battifolle pisani, sarebbe stato il posto ideale dove
attestare le truppe fiorentine. I Fiorentini si dispongono allora di fronte a Pietrabuona, con la
Pescia in mezzo, così da garantire entrata ed uscita ai difensori di Pietrabuona. I Pisani a fine
maggio iniziano a gettare con i trabocchi «fuoco temperato, che eziamdio offendea alle
pietre». Ben comandato, l'esercito pisano inizia a costruire un castello mobile di legname,64
per affrontare le mura nemiche e, gettando un ponte volante, riversarvisi. La costruzione
avviene al riparo dei battifolle pisani. A nulla valgono gli sforzi dei trabocchi fiorentini contro
la costruzione di questa pericolosa macchina d'assedio, o per l'imperizia o per il tradimento
del maestro che ne ha la direzione, un Aretino e quindi, commenta Matteo Villani, d'animo
ghibellino. Solamente dall’interno delle mura v’è «uno che gettava la bombarda molto a filo, e
era la bombarda di peso più che 2.000 libbre; e fece molto danno, che uccise più uomini».
Vanni Scaccieri e Vanni Botticella più volte provocano a battaglia i difensori del castello, ma
senza concluder niente. Vengono intercettate delle lettere della Signoria di Firenze ai
castellani, che dicono: «Tenetevi voi di Pietrabuona, perché vogliamo, che e' sia un Purgatorio
a' Pisani». Intanto, i Pisani non scrivono, ma lavorano: completano la costruzione del castello
di legno a sei piani, con l'ultimo più alto delle mura del castello assediato. Finalmente giunge
a Firenze il capitano di guerra designato: messer Bonifazio, della guerresca stirpe dei Lupi di
Soragna. Egli immediatamente si reca a fare una ricognizione sui luoghi del conflitto ed il 4
giugno scrive una lettera ai Priori di Firenze, affermando che la difesa è impossibile. Quasi ad
attiva conferma alle sue opinioni, il giorno seguente, il 5 giugno, il dì di Pentecoste, i Pisani
scatenano l'attacco generale. Essi muovono la gente d'arme e i loro ottimi balestrieri,
rimorchiando il castello di legname ed affrontandolo alla rocca di Pietrabuona. Ma la
resistenza dei difensori è ammirevole, e i bravi balestrieri impediscono che il ponte volante
possa arrivare ad appoggiarsi alle mura, inoltre il passo è impedito da un grande ceppo di
radice d’olmo, che impedisce alla macchina di guerra di potersi accostare alle mura. Dopo
parecchie ore di combattimento i Pisani si ritirano, portando con sé il castello di legname. I
difensori, estenuati, e convinti che, per la giornata, l'attacco non sarebbe stato rinnovato, si
rifocillano e rinfrescano,65 abbassando la difesa. I cavalieri fiorentini comunque vegliano da
posizioni riparate dai colpi di trabocco pisano. I Pisani si danno a segare l'albero; sono bravi e
veloci e riescono a rimuovere rapidamente l’ostacolo, e mettere la macchina accosto alle mura.
Il nuovo attacco è più aspro del precedente: il castello mobile riesce ad esser trascinato a
distanza utile, ed il ponte volante posa il proprio orlo sulle mura della torre, permettendo agli
assaltatori pisani di lanciarsi sugli spalti. Gli armigeri pisani saltano dal ponte di legno sulle
mura, le conquistano e vi pongono l'insegna del comune di Pisa, gridando: "Viva Pisa!". Al
grido i difensori, alzatisi dalle mense, cercano di reagire. Nulla sarebbe ancora perso, infatti il
fronte limitato che la larghezza del ponte offre, permette solo a tre militi per volta il
combattimento, e i difensori potrebbero reggere a lungo, facendo continuamente affluire forze
fresche, ma il morale crolla, molti degli armati cedono e pensano a fuggire, mettendo in salvo
sé e i beni che possono trasportare. I caporali danno fuoco alla torre, nel tentativo di rallentare
gli aggressori. Vana illusione! I Pisani combattono francamente, si lanciano dentro il castello e
passano a fil di spada tutti quelli che incontrano. Cade sotto il taglio delle armi nemiche
anche il capitano generale dei difensori, un «antico e pregiato masnadiero»: Neri da Monte
Carulli, arresosi a discrezione e trucidato.66 La ferocia pisana non conosce misura, vengono
uccisi tutti i difensori, e coloro che vanno a cercare superstiti o feriti tra i caduti, e coloro che
64 «Uno chastello di legname a sei solaia, con uno ponte, e quello si misse tanto appresso alle mura di
Pietrabuona che il ditto ponte si calò in sulle mura» dice SERCAMBI, Croniche, p. 115.
65 Quelli di dentro andorono a cenare maccaroni.
66 Cronache senesi, pag. 596 dice che Neri era gagliardo omo ed era gentile omo, e capitano di tutti quelli che
v’erano dentro.
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§ 29. Orvieto
Il 15 maggio 1362, il cardinale Egidio Albornoz nomina il conte Ugolino Montemarte
vicedelegato di Romagna, ovvero conte di Romagna. La sua sede è Faenza ed egli comanda
1.500 cavalieri e un migliaio di fanti. Ugolino conserva anche l’ufficio di rettore del ducato di
Spoleto. Da Faenza scatena azioni offensive contro Bagnacavallo, tenuto dai Viscontei.
Alcuni dei soldati che militano nelle bandiere che sorvegliano il comune di Orvieto,
vengono incaricati di infiltrarsi tra i mestatori di discordia. In effetti, il precedente vicario,
Giorgio di Fidismino da Camerino, sembra che abbia utilizzato un certo Barto di Cino Barti,
per collegarsi con Giovanni dei Prefetti di Vico, e con sua moglie, ai danni del comune e della
Chiesa. Per scoraggiare eventuali facinorosi, vengono raddoppiate le pene per malefici
commessi nelle piazze e vie principali della città: Piazza Maggiore, Piazza del Popolo e la
Mercanzia, cioè la via che corre da Piazza Maggiore fino alla torre dei Mazzocchi.69
67 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 101; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1066;
MARANGONE, Croniche di Pisa; col. 721-723 e Monumenta Pisana; col. 1037-1038.
68 CATUREGLI, Giovanni Agnello, p. 22-29 per la cronistoria dei dissidi tra Pisa e Firenze e specialmente per
le condizioni che hanno portato all’abbandono di Porto Pisano da parte di Firenze ed al conseguente
impoverimento di Pisa. Ivi alle p. 31-32 il caso di Pietrabuona.
69 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 231 e Ephemerides Urbevetanae,
Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 460 e nota 1 alla pagina successiva.
70 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 94; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1065..
71 SANGIORGIO, Monferrato, p. 193. Con molti dettagli AZARIO, Visconti, col. 408-409; e, nella traduzione in
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73 La data è in Cronaca dell’Anonimo dell’Ardinghelli, p. 30, che narra la vicenda con qualche particolare
diverso da Cirillo. Il dipanarsi della vicenda e la sua esatta collocazione cronologica, che si espande dal
1348 al 1380 è nelle note a cura di Vincenzo di Barthlomaeis a BUCCIO DI RANALLO, Cronaca Aquilana, p.
283-293.
74 CIRILLO, Annali dell’Aquila, p. 41-42; BONAFEDE, L’Aquila, p. 108 riprende quasi parola per parola quello
che ha scritto Cirillo. Cronaca dell’Anonimo dell’Ardinghelli, p. 30-31 specifica che per l’acquisto dell’Orsa
l’Aquila spende 800 fiorini d’oro.
75 GALASSO, Il regno di Napoli, p. 197.
76 Luigi muore verso mezzanotte, come riportato nella lettera che la regina Giovanna scrive al pontefice:
“praecedenti nocte mirabilis Ascensionis domini nostri Iesu Christi, in matudinis, dum medium silentium
tenerent omnia et ipsa nox medium iter in suo cursu perageret, serenissimus princeps (si noti la scelta del titolo)
Ludovicus…, reverendus dominus vir meus, diebus triginta tribus vehementia morbi per successum dierum
afflictus, etc”. In Chronicon Siculum incerti authoris ab anno 340 ad annum 1396 in forma diarii. Soc.
Napoletana di Storia Patria, Monnum, St. I, Cronache, a cura G. De Blasiis, p. 20, nota. Sul pellegrinaggio,
RAIA, Giovanna I d’Angiò, p. 137.
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consiglio, e di maggiore potenza, e con loro non havea honorevole conversazione di vita.
Mobile fu, timido e pauroso ne' casi dell'avversa fortuna, perch'appresso di sé non volea
huomini virtudiosi né d'autorità. Molto era cupido di fare moneta, e la giustizia mollemente
mantenea, e poco si facea temere a' suoi baroni. Con il suo balio messer Nicola Acciaiuoli
grande siniscalco, e da cui a' bisogni havea aiuto e consiglio, alle grandi cose, molte volte per
punzellamenti e malvagi conforti de' suddetti suoi baroni venne in sospetto. E quando la
virtù di colui s'allungava dalla corte, i fatti del re andavano male. Alla reina faceva poco
honore, e o per suo difetto, ch'assai n'havea, o per fallo della reina, molte volte come una vil
femmina con grande vituperio della Corona la battea, e di quello ch'era suo non le lasciava
fare né a sé né a altrui il debito honore. Delle magnifiche cose che a lui parea havere fatto a
tempo di guerra e di pace tanto si lodava e vantava, che ogn'huomo che l'udia tediando facea
maravigliare, e di tali fatiche fece comporre scritture d'alto dittato, compiacendosi nelle
proprie lusinghe».77 Nicola Acciaiuoli, che si trova a Messina, accorre immediatamente a corte
per essere d’aiuto alla vedova regina Giovanna, che ha “solo” 36 anni. La sovrana potrebbe
essere oggetto e vittima delle ambizioni del cognato Filippo di Taranto e della sua ambiziosa
moglie Maria, sorella di Giovanna. Nicola riesce a stabilizzare il partito della regina la quale,
il 5 giugno, di fronte ad un’assemblea solenne dà inizio al suo regno personale.78 Il papa
probabilmente tira un sospiro di sollievo: ora il regno di Napoli è più debole e il pontefice
non gradisce che vi sia un potere forte contiguo allo Stato della Chiesa, specialmente ora che il
valoroso ed abile Egidio Albornoz è riuscito a riconquistarlo.79 Bernardino Cirillo parla di
dispiacere universale (almeno in Abruzzo) per la morte del re ed aggiunge che era è stato
«bellissimo di corpo & quanto altro huomo che si trovasse in quella età». Matilde Oddo
Bonafede scrive: «il re, prima di morire, fece due cose buone: la prima fu che investì di grande
autorità Galeotto Malatesta, cui affidò l’incarico di purgare il regno dai malfattori che lo
infestavano, ciò che fu eseguito appuntino e con allegrezza di tutti i buoni. La seconda fu che
convocò in Napoli, come a parlamento, i baroni delle città dello stato. In quella grande
assemblea il re si dolse dei danni che i sediziosi, gli scellerati e le turbolenze dei tempi
avevano recato al regno» e poiché ciò lo aveva costretto a imporre tasse, ora desiderava
restituire ai sudditi la metà delli pagamenti dovuti».80 Il 25 giugno Luigi di Durazzo segue
nella tomba Luigi di Taranto.81 La Cronaca di Partenope ci tramanda che Filippo di Taranto,
temendo che la regina Giovanna voglia sposare il prigioniero Luigi di Durazzo, prima di tutto
riesce ad ottenere una lettera della regina che esclude la sua intenzione di sposare Luigi,
quindi mette suoi uomini fidati a guardare il prigioniero e, non bastandogli, fa intossicare il
principe mediante clistere avvelenato. Vera o falsa che sia questa diceria, ciò è quello che il
popolo scandalizzato si racconta. Gli sopravvive suo figlio Carlo di Durazzo, futuro vindice
del padre.82 Giovanna affida Carlo alla speciale cura di Marino Rumbo, un cavaliere
napoletano, siniscalco della corte. Dopo pochi mesi, morto Rumbo, l’incarico di siniscalco e
tutore di Carlo passa a un altro cavaliere napoletano: Guglielmo Maramaldo.83
77 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 100; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1066; CAMERA,
Elucubrazioni, p. 240-243.
78 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 506-507; TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 274-275.
79 MOLLATT, Les papes d’Avignon, p. 292-293; UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Acciaiuoli, I, p. 269-270. Sulle
ambizioni di Filippo di Taranto, si veda MOORE, Joanna of Sicily, p. 47. Cronaca di Partenope, p. 161.
80 CIRILLO, Annali dell’Aquila, p. 42-43; BONAFEDE, L’Aquila, p. 108-109.
81 Chronicon Siculum; pag.21. Non appare inverosimile il fatto che la morte di re Luigi abbia provocato
quella di Ludovico di Durazzo: vi poteva infatti esser qualche timore che Giovanna avrebbe voluto
sposare l’illustre prigioniero, e quindi messer Filippo di Taranto avrebbe provveduto a farlo avvelenare.
82 Cronaca di Partenope, p. 161-162. Registrato anche in DE BLASIS, Le case dei Principi angioini, p. 384-385 e
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86 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 3; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1362, vol.
3°, p. 260.
87 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 6; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1066; MATTEO
PALMERI, De Temporibus, col. 726-727; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1362, vol. 3°, p. 260-261;
Cronichetta d’Incerto, p. 252-253; SERCAMBI, Croniche, p. 116-117; RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 183-185.
88 SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1066. La notizia è in contrasto con l’assoldamento degli stessi da
HILLGARTH & HILLGARTH, Pere III of Catalonia Chronicle, vol. I, p. 535; ESTOW, Pedro el Cruel, p. 213-215;
VALDEÓN, Pedro el Cruel y Enrique de Trastámara, p. 93-95; AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1362, cap. VI,
32.
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Grimaldi. Quando i capi dei balestrieri arrivano a Firenze, non vi trovano verrettoni che li
soddisfino; per cui gli Otto scrivono al bravo Francesco chiedendo che ne invii 200 casse. Ma
anche tale merce è soggetta a proibizioni di esportazione dal Genovese, e Francesco Alderotti,
messosi d'accordo con i doganieri, ne manda subito 170 casse, «li quali legati a quattro casse
per balla con paglia, e invogliate a guisa di zucchero, e per zucchero si spacciarono alla
dogana». Matteo Villani, mercante orgoglioso, racconta il fatto con fierezza.90
90 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 10; GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in
volumi, vol. 3°, p. 317.
91 Come il capitano nullo consiglio loro volea seguire, e ch'era huomo di sua volontà, e di mettere il comune in
pericolosi luoghi
92 Uso indifferentemente la forma Ridolfo e Rodolfo, come uso la forma Lupo o Lupi.
94 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 13; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1066-1067;
AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1362, vol. 3°, p. 260-261. Registra la nomina di Rodolfo, LILI,
Camerino, parte 2^, lib. III, p. 98 che delimita l’assunzione dell’ufficio da parte del signore di Camerino
dal 25 giugno a tutto dicembre, con provvigione di 2.000 fiorini d’oro, conducendo 100 cavalli e 100
fanti. Bonifacio ammalato, o fingendosi ammalato, torna poi a Firenze.
95 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 15.
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99 FILIPPINI, Albornoz, p. 280; BAZZANO, Mutinense, col. 634. ANGELI, Parma,p. 192 registra una cessione di
Rubiera al legato da parte di Leonardo Orlandi da Rubiera nel maggio del 1360.
100 DE SANTIS, Ascoli nel Trecento, II, p. 83; solo un cenno in FILIPPINI, Albornoz, p. 287.
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Pandolfo è ancora giovane, avendo 37 anni e decide di risposarsi, chiede consiglio a Petrarca
e, alla fine, sposa Paola di Bertoldo Orsini, che sarà al suo fianco per soli nove anni, morendo
poi nel 1371, ma non prima di avergli partorito un maschio e due femmine.103
105 Cronache senesi, p. 596-597. BRUSCALUPI, Pitigliano, p. 169 sottolinea che Aldobrandino Orsini il 9 luglio
107 Il presidio pisano era cavalcato sul Volterrano, ma cavalieri e fanti fiorentini, di stanza nella zona,
organizzano I contadini e si fanno incontro agli invasori. Questi si trovano stretti in modo tale che non
sono in grado di ritornare per la via da cui sono venuti. Abbandonano dunque la preda e, al far della
sera, si arroccano su un colle. Durante la notte, col favore delle tenebre, fuggono in Maremma. VILLANI
MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 18.
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attacco vero non sia il caso di portarlo, perché pur essendo lungo il perimetro delle mura,
peraltro esso è «forte di muro e di ripe». Pertanto, dando corso alla sua natura, procede
nell'assedio, dormendo al mattino fino a tardi, dopo aver faticato nel suo letto «fornito di
dishonesta compagnia». Messer Bonifacio Lupo, «huomo d'honesta vita, e di vergogna
pauroso», considera insopportabile questo comportamento, e, fingendosi malato, torna a
Firenze, per domandare licenza di tornarsene in Lombardia. Ma i Priori e gli Otto di guerra
cominciano a comprendere che forse l'indipendenza di messer Bonifacio è meglio
dell'infingardaggine di messer Ridolfo, e gli negano il permesso, pregandolo anzi di voler
continuare ad assistere con i suoi preziosi servizi. Messer Ridolfo intanto, stimolato dalle
lettere che gli arrivano da Firenze, lancia un debole attacco e male ordinato, tanto che viene
costretto da quei quattro gatti dei difensori a ripiegare ignominiosamente, lasciando nei
fossati scale e grilli. Ma la continua sorveglianza cui sono costretti, fiacca i pochi difensori che
il 30 luglio stabiliscono che, se per il 10 agosto, Pisa non invii loro soccorsi, si arrenderanno. In
garanzia danno otto dei loro notabili in ostaggio e due Pisani. I Fiorentini, ricevuti gli ostaggi,
mandano 1.000 balestrieri e 200 uomini a cavallo, e rifornimenti. «E come lo intento de' Pisani
tutto si dirizò ad havere Pietrabuona, così lasciando stare ogn'altra cosa, tutto quello de'
Fiorentini s'adirizò ad havere Pecciole». I Pisani, ascoltati gli ambasciatori di Pecciole,
tengono una burrascosa seduta in Duomo, nella quale nessuna azione concreta viene decisa.
L'unico effetto negativo anzi è che un nuovo quartiere di Pisa dovrebbe andare a sostituire i
difensori di Fosso Arnonico, ma, rifiutando di andarvi, la fortezza viene abbandonata e data
alle fiamme.108 Come spiegare questa inerzia pisana? In realtà, quando l’esercito fiorentino ha
iniziato l’invasione del territorio pisano, messer Gualtieri, vicario dell’imperatore nella città,
ha condotto l’esercito pisano a Fosso Arnonico. Ma qui giunto, un Pisano della fazione dei
Raspanti gli confida che è in atto un colpo di mano in città.109 Messer Gualtieri percorre a
perdifiato le nove miglia che separano Fosso Arnonico da Pisa, dove entra per la Porta di
Pace, la sera dopo cena. Quando giunge al Nicchio, ode il grido che segnala l’inizio
dell’insurrezione da parte dei Raspanti: «Viva il Popolo, e mojano li traditori!». Al suono delle
trombe i rivoltosi si radunano sulla Piazza del Popolo, e si incitano a vicenda per andare
contro le case degli Agliata. Ma anche i Pisani leali al governo sono scesi in piazza, e il
tumulto si acqueta.110 Nessuna meraviglia quindi se il governo ghibellino non vuole far uscire
truppe, per evitare il ripetersi di possibili rivolte guelfe.
Il castellano di Pecciole però non è facile ad arrendersi e, malgrado i patti, provoca i
Fiorentini e li combatte, convinto di poter tenere a lungo le due forti torri fatte erigere da
Castruccio. Messer Ridolfo, ad ogni buon conto, fa scavare una cava per minare una delle due
torri, unite da un ponte. Il castellano, imprudentemente, continua a beffeggiare gli assedianti,
finché il fumo del fuoco appiccato alle travi e lo scricchiolio delle strutture non lo avvisano
che una delle torri sta crollando: fa quindi ritirare urgentemente i suoi nell'altra, mentre il
maschio crolla rovinosamente, travolgendo nella caduta ben quaranta braccia di mura. I
soldati si vorrebbero precipitare nella breccia, ma quel gran galantuomo di messer Bonifacio
Lupo, «sotto la sua insegna colla sua gente si misse alla guardia del luogo, e non lasciò né il
dì, né la notte», affermando che il termine del patto non era ancora scaduto. Finalmente, il
mattino seguente, 11 agosto, alle nove del mattino, il conte Aldobrandino Orsini con la sua
brigata e tre cittadini di Firenze entra nella terra, prendendone possesso pacificamente,
«senza offesa niuna o di fatti o di parole». Sono anche fatti rientrare i dieci ostaggi dati.
L'acquisto del castello che domina la Val d’Era, costituisce un grande vantaggio strategico per
i Fiorentini, posto com'è a sole sedici miglia da Pisa. Ora il castellano si perde d'animo,
108 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 18; un cenno alla conquista di Peccioli in VELLUTI,
Cronica, p. 228-229.
109 Che egli cavalcasse con la masnada a piè e cavallo a Pisa, che era per mutarsi stato.
110 E se prima lo ditto messer Gualtieri fusse entrato per la Porta di San Marco, elli sarebbe stato tagliato a pezzi.
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vedendo con quale facilità la prima torre è caduta, si arrende a discrezione del comune e
viene imprigionato. Nello stesso intorno di tempo, anche il castello di Pava, sul passo per
andare da Valdera in Maremma, si dà a Firenze. L’esercito pone poi il suo campo a San
Miniato e qui, più di 2.000 soldati, disgustati per non aver avuto il permesso di far bottino alla
presa di Pecciole, lo lasciano.111
Può essere di qualche interesse per chi studia gli assoldamenti dei mercenari quanto
riportato in alcuni documenti:112 il comune di Firenze, a giugno, ha assoldato un certo numero
di sergenti Umbri con le loro bandiere di fanti, ogni bandiera di 26 fanti, per 10 giorni; i loro
stipendi variano tra 61 lire, 9 soldi e 8 denari a 71 lire, 9 soldi e 4 denari.113 La stessa fonte
riporta che, in agosto, Firenze delibera di assoldare molti conestabili ungheresi e, con loro, un
conestabile di Bevagna, Lodovico Franceschini, con un cavallo per lui e 26 fanti, la ferma di
questi ha inizio il 2 agosto.114
111 MARANGONE, Croniche di Pisa; col. 721-723; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1068; AMMIRATO, Storie
fiorentine, lib. XII, anno 1362, vol. 3°, p. 262-263.
112 Citati in DEGLI AZZI VITELLESCHI, La repubblica di Firenze e l’Umbria, p. 129.
113 I nomi dei sergenti sono Piero Bambacario da Foligno, Angelo Guidarelli da Foligno, Giliuzzo da
Montefalco (questo ha 28 fanti), Giliuccio Nerij di Bevagna. Altri stipendiari sono reclutati a ottobre e
nominati ivi a p. 130-131, le loro ferme variano da 8 giorni a 4 mesi e le retribuzioni sono
conseguentemente diverse. Tra gli stipendiari appaiono anche quelli già assoldati a giugno.
114 DEGLI AZZI VITELLESCHI, La repubblica di Firenze e l’Umbria, p. 129.
115 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 96-97; DATTA, I Principi d’Acaia, I, p. 198-200.
116 Tra le famiglie guelfe che si schierano contro il Visconti sono: Brusati, Confalonieri, Poncarali, Sala,
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svevi in luglio passano di fronte alle mura della città di Brescia, dove alberga Bernabò
Visconti con moltissimi cavalieri. Sono partiti da Gavardo e Panegolo, castelli del Bresciano, e
stanno dirigendosi alla rocca di Peschiera sul Garda. La domenica, mentre i cavalieri veronesi
sono tra Panegolo e Smaccano, vengono intercettati da 900 barbute viscontee, uscite dalla loro
stanza nel castello di Lenado. È l’ora del Vespro ed i poveri veronesi, in forte svantaggio di
numero e di terreno, si rendono conto che stanno per subire una carica. I loro comandanti,
arditi e pugnaci, «nella disperazione presono cuore, e assalirono francamente i nimici in su
l'ordinarsi», cogliendoli clamorosamente impreparati e mettendoli in rotta. Molti ne uccidono
e di più ne catturano, tra cui messer Masetto Rusca da Como, loro capitano, con 25 conestabili
«assai pregiati in arme» e cento altri cavalieri. Molti sono i caduti. Dopo alcuni giorni la gente
della lega sconfigge un altro contingente di 300 barbute viscontee, sempre nel Bresciano.117
§ 46. Perugia
In luglio Perugia perde Tuoro (sul Trasimeno), conquistato da fuorusciti perugini, tra i
quali: Renzo di Nicolò di Baldolo, detto Squatrano, Giovanni di ser Feo ed altri, con fanti
forestieri. Il 13 agosto Perugia lo riconquista, per il tradimento dei fanti forestieri, e cattura e
mette a morte sedici ribelli, tra questi lo Squatrano e Giovanni di ser Feo.119
§ 47. La peste
Cieca come la grandine, la peste torna ad affannare la Toscana, e gran parte d'Italia. «Nel
Casentino fino a Decomano nelle terre del conte Ruberto fe' grande dannaggio d'ogni maniera
gente. Toccò Modona e Verona assai, e la città di Pisa e di Lucca, e in certe parti del contado
di Firenze vicine all'Alpi, e nell'Alpi delli Ubaldini. A' Pisani tolse molti cittadini, ma più
soldati. Nell'isola di Rodi in questi tempi ha fatti danni incredibili, e nel 1362 del mese di
luglio e d'agosto, assalì l'oste de' collegati di Lombardia sopra la città di Brescia, per modo
convenne se ne partisse, e nella città fece danno assai. Nella città di Napoli, e in molte terre
117 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 9; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 23;
CORTUSIO, Additamenta ad Historiam, col. 963-964 e Domus Carrarensis, p. 100-101, cap. 226.
118 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 102 e Lib. XI; cap. 8.
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del Regno, ove assai e ove poco facea, ove niente. Nelle case vicine a Fighine cominciò in
ottobre in una ruga, e l'altre vie non toccò. In Firenze, ove in una casa, ove in un'altra di rado
e poco per infino a calendi di dicembre».120 A Pisa la morìa comincia a luglio e dura fino a
novembre, sterminando gran parte della popolazione, senza riguardo a censo e condizione, «e
moriano di male di bolle, e di foditelli, e di anguinaje, di tinconi, di faoni. E non fue casa in
Pisa né nel contado, che non avesse morti. […] E la festa di Santa Maria di mezzo agosto non
si fece in Pisa, né si corse lo palio, ma si fece poi lo dì della Purificazione di Santa Maria
Candelaja, per cagione della moria e della guerra».121 A Bologna, da maggio ad ottobre, cresce
la virulenza della peste. Molti sono quelli che cercano scampo fuggendo a Ferrara, dove non
si registrano casi. I decessi sono quasi altrettanti di quelli della peste del ’48. Dopo ottobre
decresce ed a gennaio si spegne.122
123 Domus Carrarensis, p. 101-102, cap. 227 e CORIO, Milano, I, p. 808-809. In particolare quest’ultimo dice
che i collegati dil mese di agosto cavalcarono per la rivera di Garda nel Bressano, credendosi havere la cità. Il che
veramente si sarebbe exequito se la sagacità di Bernabò non li havessi interropto, imperò che lui il tutto havendo
inteso, senza amissione di tempo la nocte cavalcò et in x hore sopra una mula pervenne a Bressa, dove, essendo
giunto al ponte de la cità, la mula cadette in terra morta. TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 40.
124 CORIO, Milano, I, p. 809-810.
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i soccorsi non arrivino entro un certo numero di giorni. La lega ha messo nel castello 28
bandiere (circa 600 persone) di cavalieri e molti fanti, «i quali non pensando che soccorso
potesse venire, stavano sciolti e con poco ordine». Il castellano assediato se ne avvede e
manda qualcuno ad informare a messer Bernabò, che, nottetempo, si introduce con una gran
quantità di militi nel castello e nel borgo, e, rastrellando i collegati tra case ed alberghi, ne
imprigiona la maggior parte. Inoltre, la peste con l'estate si rinvigorisce, e l'esercito della lega
decide di abbandonare l'assedio di Brescia e tornare a Verona.125
La guerra per terra non basta, e Firenze ad agosto invia Perino Grimaldi e Bartolomeo126
con due galee e un legno per combattere la marina di Pisa. A queste si aggiungono altre due
galee armate da Niccolò Acciaiuoli. Oltre che la marina, la flotta si occupa del Giglio e di
Capraia.127
128 Annales Caesenates, col. 1186; Annales Cesenates³, p. 195. Con questa notizia ha termine la cronaca di
Cesena.
129 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 20; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1068.
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conte Aldobrandino Orsini, dopo aver ben servito, prima di tornare a Roma, si congeda da
Firenze, che gli tributa generosi festeggiamenti. Il 29 di agosto, alla presenza di messer
Bonifacio Lupo, procuratore di Firenze, il comune lo nomina cavaliere del popolo.
Aldobrandino, a sua volta, impartisce l'investitura a un suo fratello minore. Ricevuti doni e
cavalcature, i due Romani se ne tornano alla loro città.131
131 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 22; BRUSCALUPI, Pitigliano, p. 169-170..
132 SODDU, I Malaspina e la Sardegna, p. 378-391.
133 SODDU, I Malaspina e la Sardegna, p. 390-391.
134 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1362, vol. 3°, p. 264, dice, più sensatamente, che i Fiorentini
traggono da Pecciole 25 famiglie, una per ogni caduto, e deportano i componenti di queste a Firenze,
dando loro una pensione per sostentarsi.
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Insomma è una continua scorreria «il contado di Pisa verso le parti dove potieno cavalcare,
non s'habitava, né si poneva a seme».135
135 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 23; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1068.
136 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 24; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1068;
AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1362, vol. 3°, p. 265; sulla peste a Pisa si veda RONCIONI, Cronica
di Pisa, p. 186-187 che afferma che di questo morbo muoiono la metà delle persone che vivono in città.
137 HATCH WILKINS, Petrarca, p. 217-225; ARIANI, Petrarca, p. 56; DOTTI, Petrarca, p. 357-368.
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Brusati e Corradino Confalonieri, uno di Gussi ed altri compagni suoi. A Milano fa decapitare
Gerardo Brusati, nipote di quel Tebaldo fatto impiccare da Arrigo VII.138
138 CORIO, Milano, I, p. 809-810; GIULINI, Milano, lib. LXIX anno 1362.
139 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 25; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1068-1069.
140 La cronaca dice di lui, con gustosa espressione: Era uno titolone.
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mascherare lo strazio fatto del povero Ludovico - col capuccio a gote, fasciati gli ochi, sotto il
ponte de’ Fortiguerri su la Postierla, il fe ponare in terra, e fecegli tagliare la testa, non
confessato, e in uno tapeto da some lo involsero. E dierli tre colpi sul capo prima che gli
tagliasse la testa, trovosseli la barba pelata, e le braccia e le gambe rotte, e tutto livido e
infiato, e così ne fu portato a Santo Austino». Ma non tutti i Senesi sono d’accordo
coll’inumano trattamento riservato all’ex-conservatore, infatti il comune di Siena gli tributa
funerali pubblici e per questi spende 340 lire. Il nostro cronista commenta, amaramente, che
tale è la ricompensa resa a Ludovico ed a Agnolino Salimbeni per aver strappato Montalcino
a Firenze e averla riportata alla devozione a Siena. Tutti i beni di Lodovico Pii sono rubati e
tutti i suoi sostenitori costretti a fuggire. Ceccolo Orsini veglia, organizza servizio di guardia
in tutta Siena, usando trecento balestrieri; al Palazzo del Campo stanno trecento uomini del
contado e i luoghi elevati142 sono sorvegliati da balestrieri, che, per evitare possibili sorprese,
si sono portati viveri per parecchi giorni. A molti cittadini l’Orsini commina il confino.143 Dai
confinati si rastrellano, per multe, più di tremila fiorini che i Dodici si spartiscono tra di loro.
Le truppe di Montalcino vengono inviate a distruggere Bagno Vignoni, appartenente
all’odiato Giovanni d’Agnolino Salimbeni. In consiglio generale del 4 novembre, viene deciso
che il bando a Giovanni d’Agnolino ed agli altri dovrà durare cinque anni, ma «poco stero che
furo ribanditi e tornaro a Siena».144
142 La torre dei Sansedoni, il campanile del Duomo, il Palazzo dei Cerretani, il torrione dei Buonsignori e
quello dei Peri.
143 I loro nomi sono: Peccia Manetti, Domenico di Guiduccio, Jacomo di Vannuccio, Tomasso d’Ugo,
Teroccio di Mino, Tomasso di Francesco, Pietro di Reame, Domenico di Guido, Giovanni di Tura,
Guelfuccio di Ghino, Armanno di messer Guelfo, messer Tollo da Montalcino, Tone Piccolomini,
Giovanni d’Ambrogio Francia, Nastagio e Salvestro di Meo de’ Marzi.
144 Cronache senesi, p. 597-599. È questo un episodio cui ben si confanno le meste parole di Buccio di
Ranallo: Multe fiate scrivo. per fastidio et per ira/Per quello che vegio et sento, ma la mente gira/Ca pare che me
venga allo core una tira/Però la mia persona spisso piagne et sospira. Buccio di Ranallo, Cronaca Aquilana,
pag. 282. Sostanzialmente male informato si rivela VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 12.
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posizione.145. Infatti Amedeo preferisce trattare subito, prima di trovarsi a mal partito;
concorda un riscatto di 180.000 fiorini, una prima parte subito ed il resto in una seconda rata.
Versata la prima parte dei fiorini, e date le garanzie, Amedeo torna precipitosamente al sicuro
nelle sue terre.146
Luigi Cibrario afferma che il Conte Verde seppe trarre insegnamento dalle nuove
tecniche di combattimento della Compagnia Bianca: quando egli si trova ad affrontare gli
Inglesi, che combattono appiedati, egli fa lo stesso, ordina ai suoi di scendere dalle
cavalcature e combattere appiedati. Naturalmente tale tecnica non può essere improvvisata e
necessita un addestramento apposito e lance lunghe. Comunque, nel 1362, Amedeo di Savoia
combatte in molti scontri con varie compagnie, specialmente a Carignano e presso Staffarda
contro un tal David, battendolo e prendendo molti prigionieri. Tra le truppe di Savoia
combatte anche Jacopo di San Giorgio, capitano di una compagnia chiamata Parva Societas.147
In novembre, nel territorio di Vercelli e Novara, la Compagnia Bianca al servizio del
Monferrato commette atrocità.148
145 COGNASSO, Conte Verde*Conte Rosso, p. 112-113 e JEAN D’ORVILLE, Chronique de Savoie, p. 199-201.
146 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. X; cap. 84; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1064. CIBRARIO,
Savoia, III, p. 170-171 narra invece che Amedeo per pura fortuna sarebbe scampato ad un’incursione dei
mercenari a Lanzo, terra cinta da deboli mura, dove egli risiedeva. A p. 173 cita l’iscrizione che
ricordava il fatto. GALLAND, Les papes d’Avignon et la maison de Savoie, p. 113 non è in grado di precisare
quando il conte sia stato sorpreso. Galland critica l’ammontare del riscatto che pare enorme.
147 CIBRARIO, Savoia, III, p. 172-173 e nota 1 a p. 172. Lo scontro con David è del 12 febbraio.
149 FILIPPINI, Albornoz, p. 281. Sono castelli a settentrione di Monte Adone, prossimi al luogo avito dei
conti: Panico.
150 FILIPPINI, Albornoz, p. 301.
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il 30 di ottobre. Arriva a sera, solitario. Il suo cavallo trae schizzi dall’acqua delle fosse, ormai
nessuno più l’aspetta e nessuno l’accoglie; solo il giorno successivo il Sacro collegio lo
informa della sua elezione. Il 31 viene annunciato che il nuovo pontefice è stato designato. Il 6
novembre vengono imposti al frastornato Guglielmo, il quale non è cardinale, il manto e la
corona. Egli prende il nome di Urbano, il quinto di questo nome. Il nuovo pontefice viene
dall’ordine dei Benedettini ed è reputato congiungere «all’integrità dei costumi, la fermezza
del carattere e la coscienza dei fini superiori affidati al governo dei successori di Pietro». Ci si
aspetta da lui che segni «un indirizzo nuovo e un’orma più profonda nella politica della
Chiesa, dopo il pontificato del debole Innocenzo VI». Il nuovo pontefice ha conosciuto il
cardinale Albornoz durante una sua missione ad Ancona, nell’aprile 1360, nel tentativo di
evitare la guerra tra Bernabò e il legato. Probabilmente è persona gradita anche al tiranno
milanese.151 Andrea di Buonaiuto ci ha lasciato il ritratto del nuovo pontefice nel Cappellone
degli Spagnoli in Santa Maria Novella, Urbano è per l’appunto effigiato nel papa.
Innocenzo VI, all’atto della sua elezione, aveva espresso il desiderio di riportare il papato
a Roma; non c’è riuscito, ma ha indubbiamente tentato di ricondurre all’obbedienza lo Stato
pontificio, grazie alla capace e tenace opera del cardinale Egidio Albornoz. Il defunto papa ha
anche altre attenuanti al suo insuccesso: la guerra tra Francia ed Inghilterra, quella tra
Aragona e Castiglia, i conflitti dinastici nell’Impero bizantino di Oriente e quindi
l’impossibilità di effettuare una nuova crociata per liberare i paesi orientali dalla minaccia
turca e, ultima attenuante, l’alluvione di mercenari seguita alla pace di Bretigny. Può darsi
che al termine della sua vita avesse deciso di cedere alle pressanti esortazioni di Brigida di
Svezia e del Petrarca di riportare la sede del papato a Roma, ma la saluta malferma e la morte
glielo hanno impedito. La sua tomba, con la figura giacente scolpita da Barthélémy Cavailler,
ci mostra un volto magro, barbuto, con un naso camuso, un viso non banale e, all’apparenza,
volitivo, naturalmente occorrerebbe vedere i suoi occhi per giudicare meglio il suo aspetto.152
Il nuovo papa, Urbano, farà un vero tentativo di ricondurre la sede pontificia nella città
eterna. Guillaume Grimoard è nato verso il 1310 a Grizac da una famiglia della piccola
nobiltà, tributaria del vescovo di Mende. Guillaume dimostrerà sempre molto attaccamento
alla sua terra nativa del Gévaudan ed agli uomini del suo ordine monastico benedettino. Il
giovanissimo Guillaume ha ricevuto la tonsura a 12 anni; studia diritto canonico a Tolosa,
Montpellier, Avignone e Parigi, si addottora in diritto canonico a Montpellier nel 1342. Egli
insegna con successo ad Avignone; nel 1352 diventa abate di Saint-Germain d’Auxerre, nel
1357 viene nominato vescovo di Uzés. Nel 1354 è stato inviato in Italia da Innocenzo VI e qui
ha incontrato l’Albornoz, Bernabò Visconti, ha successivamente incontrato Giovanna regina
di Napoli ed è stato anche a Roma. Come abbiamo visto l’elezione è stata fatta mentre egli era
alla corte napoletana. Guillaume ha un grande amore per i libri e la cultura.153 Gli storici
moderni sono divisi sul motivo per il quale il nuovo papa ha assunto il nome di Urbano,
Dominique Paladilhe lo fa derivare dal fatto che il pontefice ha già deciso di riportare il soglio
a Roma, Urbano da Urbe, mentre Yves Renouard ipotizza che sia invece perché Urbano II ha
predicato la prima crociata.154 Il nuovo papa è giovane ed è in buona salute, è un bravo
cristiano, indossa di preferenza l’abito nero dei Benedettini, conduce una vita semplice,
digiuna due volte a settimana e sempre in Quaresima. Prima di dire messa si confessa.155
151 FILIPPINI, Albornoz, p. 305-307; VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 26; SOZOMENO, Specimen
Historiae, col. 1069; notizia dell’elezione e brevi cenni biografici anche in MONALDESCHI MONALDO,
Orvieto, p. 112 verso.
152 Per un suo profilo biografico si veda Pierre GASNAULT, Innocenzo VI, in Storia dei Papi, vol. II.
153 Michel HAYEZ; Urbano V, in Storia dei Papi, vol. II. Il cardinale, prima della sua nomina a papa, è stato
per 5 mesi alla corte di Napoli, MOORE, Joanna of Sicily, p. 46 e CAMERA, Elucubrazioni, p. 245.
154 PALADILHE, Les papes d’Avignon, p. 217; RENOUARD, The Avignon Papacy, p. 57.
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§ 61. Eclisse
Monaldo Monaldeschi della Cervara scrive: «avanti la sua morte [di Innocenzo VI] si
vidde l’eclisse del sole grande più che mai fosse. Il ché, se bene è effetto naturale, fu da gli
huomini in profidio della morte del pontefice tolto».156
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162 ALIPRANDI, Cronaca di Mantova,p. 137; MALACARNE, I Gonzaga di Mantova, p. 73-75; gli assassini sono
164 R. GREGORIO, Considerazioni sopra la storia di Sicilia, II, p. 274, citato da Mirto p. 160.
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importante deve comunque esser presa solo dopo aver ascoltato il parere di Ventimiglia e
Chiaromonte e dei quattro giudici della regia Magna curia, due debbono essere nominati da
Ventimiglia e Chiaromonte. Così commenta Corrado Mirto: «la pace di Piazza e
Castrogiovanni è importante perché segna la conclusione della guerra civile cominciata nel
luglio del 1348 e protrattasi per quattordici anni fra tregue, paci effimere, avvicendarsi e
scomparire di protagonisti, rovesciamenti di alleanze». L’unico che permane nella sua
condizione di ribelle alla corona è il bastardo di casa Chiaromonte, Manfredi, ancora collegato
agli Angiò. Manfredi è però troppo intelligente per non comprendere che la sua posizione è
estremamente labile e, alla prima occasione, ritornerà alla lealtà verso il re.165
178-179.
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visto che non vengono più menzionati. Dal prossimo anno Antonio riunisce nelle proprie
mani la signoria d’Arco.168
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La cronaca del Trecento italiano
Genova, fatta in sua presenza, il 12 ottobre del ’58, nel castello di Calvi. Un altro successo il
quasi quarantenne Leonardo lo riporta durante un’ambasceria a Carlo IV, quando
l’imperatore riconosce il potere dogale a Simone e dimostra di aver gradito il modo nel quale
Leonardo ha eseguito la sua missione, conferendogli, il 7 aprile 1359, la carica ereditaria di
conte palatino. Nel marzo del ’59 Leonardo è stato incaricato di trattare la pace con il re Pietro
d’Aragona, con la mediazione del marchese di Monferrato. Qui Leonardo commette un passo
falso ed accetta alcune terre nel Logudoro in dono dall’Aragona. Simone, sospettando
Leonardo di fare più i suoi affari privati che quelli di Genova, nel febbraio 1360 lo richiama e
sostituisce con Gabriele Adorno, destinato a divenire il suo maggiore nemico. La nomina che
Leonardo ottiene questo anno a podestà di Pera e capitano generale dei domini genovesi in
Romania appare come un mezzo per allontanarlo da Genova e tarparne le ambizioni
politiche. Non che non ci fosse bisogno di un uomo di notevoli capacità per affrontare la
situazione nel Levante, infatti i Turchi sono alla riscossa e l’imperatore di Bisanzio appare
totalmente incapace di contenerne l’aggressività.172
172 PETTI BALBI, Simon Boccanegra, p. 191; RICCARDO MUSSO, Montaldo Leonardo, in DBI vol. 75°.
173 L’11 ottobre dice Monumenta Pisana; col. 1039.
174 Ma e’ funno riscossi da quelli di Pisa.
175 Cronache senesi, p. 597, VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 29; SOZOMENO, Specimen
Historiae, col. 1069; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1362, vol. 3°, p. 265-266; SERCAMBI, Croniche,
p. 117; RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 185-186 e RIS; XV; Monumenta Pisana; col. 1039.
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Carlo Ciucciovino
opera dei bravi carpentieri fiorentini, che puntellano il tutto, che riesce ad evitare il disastro.176
Anche l’Arno esonda.177
In novembre, alcuni signori della riviera del Garda, minacciati dal naviglio scaligero che
incrocia nel lago, decidono di darsi ai collegati. Questi stanziano le truppe a
Sommacampagna, tra Verona e Sirmione sul Garda. Un tentativo di assalto contro Salò
fallisce.178 Bernabò manda da Parma, in soccorso di Lugo, mille Ungari, che assaltano i
Bolognesi che attendono alla costruzione di una forte e bella bastia sul ponte sul Reno.
L’edificio è talmente ben fatto, che, nel poco tempo a disposizione, gli attaccanti non possono
recare molto danno. Il rettore di Bologna, avuta la notizia, fa suonare la campana dell’arengo,
ed ogni uomo atto alle armi accorre a portare la sua opera. Gomez Albornoz guida l’esercito
bolognese alla bastia, ma il nemico si è dileguato. Gomez fa rientrare allora le milizie
appiedate a Bologna e, con messer Pietro Farnese e 1.500 cavalieri, si lancia all’inseguimento.
La notte del 19 novembre sorprende gli Ungari a Granarolo, li attacca e li sconfigge, facendo
un gran numero di prigionieri.179
Tuttavia, in novembre, stagione poca adatta alla guerra, fervono invece le iniziative
diplomatiche. Un legato, inviato dal defunto Innocenzo VI accompagnato dal giurista Nicolò
Spinelli da Napoli, viene a Milano per allacciare trattative di pace con Bernabò. L’intenzione è
quella di raccogliere le opinioni al riguardo di tutti i collegati e, solo successivamente, inviare
l’ambasciata a trattare col Visconti. Invece questi pretende che ognuno dei collegati gli invii
ambasciatori, che egli, brillantemente, turlupina, raccontando e scrivendo cose diverse ai
diversi signori. «Alla fine i ambazaori de zaschun fò remandà sença pase». Sono venuti a
Cesena da Egidio, anche gli ambasciatori del Monferrato e del doge di Genova, per trattare
l’adesione alla lega, ma senza successo.180
Uno dei primi atti del neoeletto Urbano V è quello di fulminare la scomunica su Bernabò
Visconti, il quale si rifiuta di sottomettersi all’arbitrato imperiale, ma anche sugli Ubaldini che
parteggiano per lui.181
176 Chronicon Estense,col. 485. VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 33. Rerum Bononiensis,
178 Domus Carrarensis, p. 102, cap. 228; CORTUSIO, Additamenta ad Historiam, col. 965.
179 FILIPPINI, Albornoz, p. 281 e Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 151; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 152.
181 FAVIER, Les papes d’Avignon, p. 480; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1069.
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Venezia e Nicolò Filippo Brancaleoni costretto a lasciare il territorio della Chiesa. Dopo
Brancaleoni ora tocca ai Montefeltro sentire la dura mano del legato.182
Egidio Albornoz è molto attento a procurarsi il dominio della Massa Trabaria, per
assicurarsi i passi sull’Appennino. Egli nomina rettore della Massa Trabaria Gundisalvo
Rodecici di Cisneros, un uomo deciso e capace che già nel 1359 è stato riformatore di Cagli. Il
legato si fa restituire il castello di Pianciano, apre un contenzioso con i conti di Carpegna che
si rifiutano di restituire alcuni loro beni, si interpone come paciere nelle discordie che agitano
i Montefeltro. Lo stesso comune di San Marino, che ha aperto un contenzioso con il legato a
causa di un censo di 500 fiorini, viene scomunicato e per due anni soggiace all’interdetto.183
Bernabò riprende ai collegati Ponte Vico sull'Oglio facendo prigioniere diciotto bandiere.
A Novembre riporta dei successi nel Reggiano.
182 Cronaca di Ser Guerrieri da Gubbio,p. 14-15. Il cronista pone imprecisamente gli avvenimenti intorno al
1359, e il fatto viene delimitato tra la notizia della morte di Malatesta Ungaro (e, poiché questi è venuto
a mancare nel ‘72, la notizia è da riferirsi al decesso di Malatesta Malatesta, avvenuta nel ‘62), e quella
della morte di papa Innocenzo VI. Ho scelto di collocare tentativamente il fatto nell’autunno del ‘62. Eco
dei dissidi tra Brancaleone e Montefeltro è in PERINI, La signoria dei Brancaleoni, p. 43 che definisce il
dissidio tra Enrico, Feltrano, Bonconte e Nolfo Montefeltro da un lato con Branca di Monaldo
Brancaleoni di Castel Durante, dall’altro. Questa fonte fornisce anche i nomi degli sposi: Agnese, figlia
di Federico figlio di Nolfo, sposa Gentile e Bartolomea, figlia di Margherita del conte Galasso, sposa
Pierfrancesco, l’altro figlio di Branca. Si veda anche FILIPPINI, Albornoz, p. 288.
183 FILIPPINI, Albornoz, p. 289-293 con molti dettagli.
184 FILIPPINI, Storia di Corsica, lib. III, p. 198; ASSERETO, Genova e la Corsica, p. 82.
185 Sulla scorta degli Annali Milanesi, GIULINI, Milano, lib. LXIX anno 1361, narra che Bernabò ha
costretto due ambasciatori pontifici a mangiare la lettera che gli hanno recapitato, uno dei due è il futuro
odierno papa. Altre notizie, ivi al 1362.
186 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 31 e 32; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1070.
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Giovanna di Napoli, dal canto suo, non ha nessuna voglia di mettersi nel letto un uomo
che possa dominare su di lei, grazie alla potenza dei suoi congiunti: ella è alla ricerca di un
uomo che «possa soddisfare la sua accesa sensualità» e, al tempo stesso di rango non troppo
importante, per tale motivo ha declinato l’offerta di sposare Filippo, figlio di re Giovanni di
Francia. Vi è però un giovanotto, «tenuto il più leggiadro e bell’uomo che in quel tempo si
trovasse» che è anche un principe: Giacomo III di Maiorca, l’unico problema è che il
giovanotto è rinchiuso da ben 14 anni in una gabbia di ferro, dove lo ha relegato Pietro IV
d’Aragona. Giacomo, nel maggio del 1362, riesce ad evadere dalla sua prigione e vi è chi vede
in ciò la mano della corte di Napoli. Il papa accorda il 14 dicembre la sua autorizzazione alle
nozze, che si terranno a Napoli nel maggio del prossimo anno.187
190 FILETI, I Lusignan di Cipro, p. 98-100 e EDBURY, The Kingdom of Cyprus, p. 148-149. Edbury dice che
Pietro arriva ad Avignone nel marzo 1363. GALLAND, Les papes d’Avignon et la maison de Savoie, p. 279
nota che in dicembre anche Amedeo VI di Savoia è ad Avignone e partecipa alla discussione per la
crociata.
191 Chronicon Estense,col. 485.
192 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 38-40; CORTUSIO, Additamenta ad Historiam, col. 966;
ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 212 dice che il re è a Venezia il dicembre, data in contrasto con il 6 a
Ferrara. Si legga anche AZARIO, Visconti, col. 410; e, nella traduzione in volgare, p. 180.
193 DE MUSSI, Piacenza, col. 507; qui si chiarisce che il sovrano è accompagnato da 200 armigeri.
194 GALLAND, Les papes d’Avignon et la maison de Savoie, p. 114; PALADILHE, Les papes d’Avignon, p. 218-221.
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195LEONARD, Angioini di Napoli, p. 507-509; DE BLASIS, Le case dei Principi angioini, p. 386-388; De Blasis
nota che Giacomo è nipote della regina Sancia, nonna della regina. Sulla romanzesca fuga di Giacomo, si
veda ZURITA, Annales de Aragon, Lib. IX, cap. XXXIX. Si legga anche GALASSO, Il regno di Napoli, p. 198-
200. CAMERA, Elucubrazioni, p. 246-248 registra tutte le trattative per maritare Giovanna.
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giorni la ferita conduce alla tomba Gioacchino, che lascia in eredità la sua proprietà al comune
di Firenze. Questo ne prenderà possesso nel febbraio del '63.196
§ 80. Pavia
Galeazzo Visconti sta facendo edificare il forte e bel castello di Pavia; egli fa impiccare il
funzionario che sovrintende ai lavori, a causa della sua superbia ed arroganza. Galeazzo è un
individuo che non esita di fronte alla crudeltà: fa inorridire la pena da egli concepita per
punire i traditori, una tortura che si prolunga per 40 giorni e che dal numero di questi è
chiamata la Quaresima. L’orribile tormento trasforma il malcapitato in un moncone umano e
se, sopravvive, viene posta la fine ai suoi tormenti attanagliandolo su un carro e uccidendolo
alla ruota.197
Galeazzo e Bernabò Visconti ottengono dall’imperatore Carlo IV il privilegio di istituire
lo Studio in Pavia, «colle immunità e grazie concesse alle altre città di Studio, dove poi si è
sempre mantenuto».198 Galeazzo dota lo Studio di Pavia con insegnanti di chiara fama.199
Galeazzo ordina che tutti coloro che vogliono studiare, invece di recarsi altrove, ora
frequentino l’Università di Pavia.
I castelli di Rubiera e Gavardo, tra Modena e Reggio, si ribellano ai Visconti.200
§ 81. Le arti
Galeazzo Visconti, che nella divisione degli averi, ha ottenuto anche le case che abitavano
suo nonno Matteo e Galeazzo, Azzone e Luchino Visconti, non esita a demolirle dalle
fondamenta, distruggendo anche gli affreschi di Giotto e chissà quante altre opere d’arte.201
Nel 1362 il cardinale Egidio Albornoz incarica l’Eugubino Matteo Guattacapponi, o
Gattaponi, di costruire la Rocca di Spoleto. L’architetto ne fa «il più notevole monumento
bellico dell’Italia centrale». Nel settembre 1362 Gil Albornoz incarica Matteo Gattaponi di
costruire una cappella nella basilica inferiore di San Francesco e la vuole dedicata a Santa
Caterina.202 La completerà nel 1367.
Giovanni Baronzio dovrebbe essere morto prima di questo anno, infatti un registro delle
sepolture della chiesa di S. Francesco a Ripa di Rimini, parla della sua tomba, come esistente.
Niccolò di ser Sozzo, insieme a Luca di Tommè, dipinge a Siena un polittico che raffigura
la Madonna con il Bambino e i Santi Giovanni Battista, Tommaso Apostolo, Benedetto e Stefano.
Nicolò di ser Sozzo è stato a lungo confuso con il suo omonimo, figlio del notaio Francesco
Tegliacci. Invece, il nostro pittore e miniaturista è figlio di un altro miniatore di nome Stefano,
detto Sozzo. È molto plausibile l’ipotesi che il padre sia stato il suo primo maestro e che,
quindi, in Niccolò l’attività di miniatore preceda quella di pittore. Niccolò muore il 15 giugno
1363. Il capolavoro di Niccolò è la splendida miniatura del Caleffo Bianco con l'Assunta, da
lui firmata (Nicholaus, Ser Sozzi de Senis me pinxit ) e miniata nel 1334 circa. In questa opera è
evidente l'influenza dello stile di Simone Martini e di Lippo Memmi. Il Polittico è l’unica sua
opera di pittura certa, tutte le altre opere che gli vengono attribuite lo sono su basi stilistiche e
i critici non sono unanimi sull’argomento. Alcune opere inizialmente a lui attribuite (il
196 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 35; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1070;
AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1362, vol. 3°, p. 268-269; CHINI, Storia del Mugello, Lib. V, cap. X,
p. 308.
197 AZARIO, Visconti, col. 410-411; e, nella traduzione in volgare, p. 181-182
198 GORI, Istoria della città di Chiusi, col. 958. GIULINI, Milano, lib. LXIX anno 1361 pone l’avvenimento al
201 MORBIO, Novara, p. 139, citando AZARIO, Visconti, col. 402-403; e, nella traduzione in volgare, p. 169.
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polittico di San Gimignano con l'Assunzione della Vergine e Santi, e l'Assunzione della Vergine,
oggi a Boston) sono state poi passate nel catalogo di Bartolo di Fredi. Gli viene attribuito
anche un antifonario che è nel Museo dell’Opera del Duomo di San Gimignano.203
L’altro pittore del Polittico, Luca di Tommè, è un Senese del quale ignoriamo la data di
nascita. Il suo nome compare per la prima volta nel 1356, nel Breve dell'arte de' pittori senesi.
Il polittico dipinto con Niccolò era probabilmente destinato alla chiesa di S. Tommaso degli
Umiliati a Siena.
207 CRISTINA RANUCCI, Luca di Tommè, in DBI, vol. 66. GIULIETTA CHELAZZI DINI, in Il gotico a Siena, p. 276
crede invece che Nicolò non avrebbe consentito al giovane Luca di co-firmare l’opera se questi si fosse
limitato alle predelle e considera suo, oltre al San Giovanni, anche il San Tommaso.
208 CRISTINA RANUCCI, Luca di Tommè, in DBI, vol. 66.
209 DE BENEDICTIS, Pittura a Siena, p. 353 e CRISTINA RANUCCI, Luca di Tommè, in DBI, vol. 66. Su tale
277.
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Carlo Ciucciovino
211 Detto così dagli affreschi raffiguranti alcuni santi fondatori di ordini religiosi realizzati nel 1342 nella
volta del coro di S. Francesco a Pisa, e citati da Giorgio Vasari.
212 Per dettagli, si veda SARA MAGISTER, Jacopo di Mino del Pellicciaio, in DBI, Vol. 62°.
213 La chiesa di Fontebranda è stata demolita nel 1940, e il trittico è ora nella Pinacoteca nazionale di
Siena.
214 SARA MAGISTER, Jacopo di Mino del Pellicciaio, in DBI, Vol. 62°. Si legga questo studio per le opere
attribuite.
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La cronaca del Trecento italiano
oggetti di metallo; due valige di cuoio, una campana dove fare acqua rosata, un banco adatto
a vendere vino, tre lanterne: due di ferro ed una d’osso.215
§ 85. Musica
Il musicista Nicolò del Preposto, detto anche Nicolò da Perugia, questo anno visita il
monastero di Santa Trinita, in compagnia di ser Gherardello. Nicolò vive a Firenze tra il 1350
e il 1375, è uno degli amici più stretti di Franco Sacchetti ed il suo più importante
collaboratore musicale. Una sua composizione, un madrigale dal titolo La fiera testa, fa
riferimento al breve dominio visconteo su Perugia, che ha luogo dal 1400 al 1402. Egli è uno
dei rappresentanti della transizione dal madrigale alla ballata. Di lui ci rimangono sedici
madrigali a due voci, quattro cacce, una ballata ad una voce, venti ballate a due voci. Sono
andate perdute altre tre ballate e due madrigali.
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CRONACA DELL’ANNO 1363
5 WALDSTEIN-WARTENBERG, I conti d’Arco, p. 285-286; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo XV, p. 66-
molta parte delle sue preoccupazioni, anche perché il signore di Padova è saldamente
spalleggiato dal forte re Ludovico d’Ungheria.6 I conti di Gorizia, Alberto III, Mainardo VII ed
Enrico III, vantano diritti sul Tirolo, ma non sembrano molto caldi in proposito. Essi sono stati
alleati con re Ludovico d’Ungheria dalla metà del decennio precedente, quando però, nel
1358, Venezia rinuncia alla Dalmazia e re Ludovico conclude un’alleanza decennale con il
Patriarcato, i conti si rivolgono all’astro in ascesa di Rodolfo IV e concludono con lui un
trattato di alleanza. Da allora frequentano spesso la corte asburgica, ne ottengono beneficvi
economici e, dal canto loro, sostengono l’azione espansiva del duca d’Austria. Durante il
conflitto di Rodolfo IV con il patriarca, che si conclude con la velata prigionia del primate, i
conti di Gorizia sono dalla parte di Rodolfo. Il 21 settembre del ‘61 la promessa di matrimonio
di Leopoldo, fratello di Rodolfo, con Caterina figlia di Mainardo, sembra preludere ad un
rafforzamento dell alleanza.7 Enrico III di Gorizia muore, senza prole, verso il 1362 e Rodolfo
IV ne rivendica blandamente l’eredità. Il 27 aprile del 1363 il duca si accorda con i superstiti
Alberto III e Mainardo VII in questi termini: all’eventuale morte di Alberto, i suoi beni
passerebbero a Mainardo e, solo quando questi non avesse eredi maschi, allora l’Asburgo
otterrebbe i suoi beni e l’intera loro signoria.8
Il vescovato di Trento è il grande assente in questo momento storico: il vescovo Mainardo
di Neuhaus non si è mai insediato nel suo episcopato ed anzi, nel 1360, ha rinunciato
formalmente al suo incarico. Il papa nomina Alberto di Ortenburg quale nuovo vescovo di
Trento ed egli arriva a Trento il 24 gennaio e, il 5 febbraio, unitamente al vescovo di
Bressanone, Matteo Konzmann, investe Rodolfo IV d’Asburgo dell’avvocazia sulle rispettive
chiese. Il nuovo vescovo è destinato ad un lungo periodo di guida della sua diocesi: la terrà
infatti fino al 1390.9 Il patriarca Ludovico della Torre ha potuto constatare la propria
debolezza ed il suo sostanziale isolamento quando è stato tradotto in virtuale prigionia a
Vienna ed è stato costretto a cedere molti dei suoi diritti al prepotente Rodolfo IV d’Asburgo.
Molti dei suoi nobili sono filo asburgici, Walterpertoldo di Spilimbergo, i da Prata, Francesco
da Strassoldo, Andrea di Polcenigo, i Villalta di Urusbergo. Il baluardo del patriarca è
Francesco da Savorgnano, il quale identifica il suo futuro con quello del Patriarcato.
La pedina più debole è Margherita Maultasch, sola e desolata dopo la perdita del consorte
Ludovico di Brandeburgo e del figlio, non ha più possibilità di resistere ai lupi rapaci che ne
reclamano le spoglie e, come vedremo, decide di cedere alle pressanti richieste di Rodolfo IV
d’Asburgo. Ciò cambia tutto: Carlo IV, ben valutando le mire di Rodolfo sul Tirolo e
temendone la crescente potenza e il fatto che suo fratello Giovanni Enrico di Moravia, il
primo marito, ripudiato di Margherita, avanza diritti sul Tirolo, si mette di traverso ed, il 4
aprile 1363, annulla quanto il patriarca è stato costretto a concedere a Rodolfo d’Asburgo,10 in
quanto estorto con la violenza. Non può sfuggire inoltre all’attenta considerazione di Carlo il
fatto che, Rodolfo, avendo sposato Caterina, figlia dell’imperatore, mira a cingere la corona
imperiale, quando che sia. Un mese più tardi, il 9 maggio, Carlo IV proclama ribelle il duca
6 Il doge Lorenzo Celsi sembra reagire favorevolmente ad una lettera del 24 febbraio 1363, nella quale
Rodolfo d’Asburgo annuncia la sua volontà di procedere contro il Carrarese che ha occupato alcuni suoi
possedimenti. Anzi, il 27 luglio Venezia spinge Rodolfo IV a scendere in Veneto contro Francesco da
Carrara. PASCHINI, Friuli, I, p. 321-323. Giustamente, PIGOZZO, Treviso e Venezia nel Trecento, p. 33, nota
che Venezia, occupata a domare la ribellione di Creta, non se la sente di affrontare altre spese.
7 Leopoldo invece sposerà Verde Visconti.
9 VARANINI, Il principato vescovile di Trento nel Trecento, p. 365-366; CURZEL, I vescovi di Trento nel basso
medioevo, p. 589-590. Il vescovo chiede il giuramento feudale ai suoi vassalli e, tra questi, Antonio d’Arco
che lo fa nell’autunno del 1363; WALDSTEIN-WARTENBERG, I conti d’Arco, p. 287. Anche STELLA, I principati
vescovili di Trento e Bressanone, p. 512.
10 Cioè Chiusa, Laas, Windischgraz, Adelsberg.
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La cronaca del Trecento italiano
§ 2. Il re di Cipro a Milano
Il 22 gennaio arriva a Milano il giovane re di Cipro, Pietro.12 È in transito per recarsi ad
Avignone, dal papa, che vuole convincere a chiamare a raccolta la Cristianità per una nuova
crociata. I Visconti lo ricevono magnificamente. Da Milano va a Pavia, poi a Voghera, accolto
dal marchese di Monferrato; il 2 febbraio è a Tortona, quindi a Genova e qui si imbarca per la
Francia.13 Il re è passato anche per Venezia e, quando ha puntato su Padova, Francesco da
Carrara, lasciando il sicuro rifugio dalla peste di Bassano, gli è venuto incontro per onorarlo.14
A fine gennaio gli Annali di Genova registrano la presenza del sovrano in città. Re Pietro
ordina cavaliere Battista, figlio di Simone Boccanegra. Il 5 marzo il re di Cipro conferma a
Genova tutti i precedenti privilegi in merito di aiuti.15
§ 4. La scomunica di Bernabò
Il 3 di marzo17 papa Urbano V pubblica il processo contro Bernabò. Qualche misero
tentativo del Visconti di far rimandare la sentenza fallisce, ed il signore di Milano è
condannato come eretico ed infedele, e pronunziato scismatico e maledetto di Santa Chiesa.
Viene spogliato di qualsiasi titolo ed autorità e perfino il suo matrimonio dichiarato nullo. La
scomunica si estende a chiunque l'aiuti contro la Chiesa, mentre invece assolve chi si penta di
averlo soccorso. Viene inoltre annunciata una crociata contro di lui. «Pronunciata la sentenzia
il Santo Padre si levò ritto, e missesi in ginocchio colle mani giunte e levate al cielo»,
implorando che ciò che egli aveva legato in terra, come vicario di Cristo, così Gesù, San Pietro
e San Paolo volessero legare in cielo. Re Giovanni di Francia, procuratore di Bernabò ad
Avignone, «forte se ne scandalizzò».18
11 Il brano è basato sugli studi di PASCHINI, Friuli, I, p. 321-323; BAUM, I conti di Gorizia, p. 182-183;
BRUNETTIN, L’evoluzione impossibile, p. 214, oltre ai già citati CURZEL e VARANINI. L’osservazione sulle
ambizioni imperiali di Rodolfo è in WANDRUSZKA, Gli Asburgo, p. 62-63. Raccomando di leggere le
interessanti considerazioni di BRUNETTIN, Una fedeltà insidiosa, p. 330-333. Mainardo vescovo di Trento è
morto nel 1362 a Praga, DEGLI ALBERTI, Trento, p. 249.
12 In realtà Pietro è stato ad Avignone il dicembre scorso.
13 GIULINI, Milano, lib. LXIX, anno 1363; Annales Mediolanenses, col. 733.
17 Per la data vedi FILIPPINI, Albornoz, p. 307, nota 5; anche GIULINI, Milano, lib. LXIX, anno 1363 e le
cronache di Bologna; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 154; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 155.
18 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 41; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 154; Rerum
Bononiensis, Cr. Vill., p. 155; GIULINI, Milano, lib. LXIX, anno 1363.
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Carlo Ciucciovino
decidono di creare doge messer Gabriello Adorno, sia che Simone viva o muoia. Eletto
Gabriello, «mercatante di buona condizione e fama», ogni tumulto cessa, né eventuali
oppositori si fanno vivi. Simone viene lasciato quietamente morire, anche se vi è chi sussurra
che si sia aiutato il suo trapasso.19 Simone Boccanegra viene sepolto nella chiesa di San
Francesco in Castelletto, dove, poi, gli verrà eretto un mausoleo.20
Clemente Fusero lancia uno sguardo sul futuro: «con Gabriele Adorno si apre una serie
accidentatissima di dogi perpetui, dalle sorti precarie e burrascose, alcuni tanto fortunati da
durare in carica per anni, altri così traballanti da ruzzolare a terra dopo qualche mese, dopo
qualche giorno, o addirittura dopo qualche ora, come accadde il 17 giugno 1378 ad
Antoniotto Adorno». Ed ancora: «il dogato è sempre più apertamente alla mercé d’una lotta
politica che supera in ferocia quella dell’età comunale. Si va avanti a colpi di scena, con
elezioni nate da moti di piazza, con destituzioni provocate da complotti e da rivoluzioni. Il
doge che cade viene quasi sempre incarcerato o sbandito con tutta la famiglia. Ben dodici
dogati si susseguono nello spazio di tredici anni».21
L’ascesa al potere dei popolari in Genova apre la strada alla pacificazione tra Nizza ed i
rivieraschi che tradizionalmente appoggiano Genova. L’inimicizia risale al 1359 e lo stato di
perenne guerra è stato mantenuto per tutti questi anni, in modo più o meno violento. Ora, per
impostare serenamente le trattative, viene indetta una tregua d’armi e, dopo mesi di
negoziati, finalmente il 5 settembre viene firmato il trattato di pace a Mentone, nella chiesa di
San Michele; firmano, per la regina Giovanna, Ponzio de Ferres, vicario e Capitano di
Ventimiglia e della valle di Lantosco e, per la controparte, Imperiale Doria, signore di
Dolceacqua. Pace fragile e destinata a poca vita.22
19 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 42. STELLA, Annales Genuenses, p. 157 dice che Simone è
stato avvelenato nel pranzo a casa di Pietro Malocello, pranzo in onore di re Pietro di Cipro. Anche
ACCINELLI, Genova, p. 85 crede all’avvelenamento. PETTI BALBI, Simon Boccanegra, p. 41-43 dibatte
l’avvelenamento e propende per la morte per grave infermità e mette in luce che, data la malattia, si sia
prepararato da tempo il colpo di mano di Gabriele Adorno «uomo a lui vicino, abile ed esperto».
FUSERO, I Doria, p. 299, senza sbilanciarsi troppo, scrive: «nessuno esitò a parlare di veleno».
20 STELLA, Annales Genuenses, p. 158, nota 2 di Giovanna Petti Balbi.
22 GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p. 320-321.
23 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 43; RICOTTI, Storia delle compagnie di ventura in Italia, vol.
2, pag.101; Chronicon Estense, col. 486. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 158; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p.
159-160; DE MUSSI, Piacenza, col. 507 dice che sono morti da entrambe le parti 200 combattenti e viene
catturato il figlio di Protasio Caimi. GIULINI, Milano, lib. LXIX, anno 1363 sostiene che i Tedeschi sono
costretti a scendere di cavallo perché il ponte è molto stretto. Anche SANGIORGIO, Monferrato, p. 193-194
che scrive che: «il conte Lando era venuto più presto per trattare la pace che per offenderli».
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La cronaca del Trecento italiano
§ 8. Il marchese di Saluzzo
Il fratello di Federico di Saluzzo, Galeazzo, compie un’incursione nel Delfinato, forse per
rivalersi di antichi crediti, e danneggia e dà alle fiamme case e ville. Il marchese Federico, che,
saviamente non vuole contenziosi con la corona di Francia, invia suoi ambasciatori al
governatore del Delfinato, Rodolfo di Loupy, offrendogli soddisfazione per i danni causati. Il
15 marzo viene stilato un documento nel quale si registra la restituzione delle terre e del
castello di Ponte Bellino.28
28 MULETTI, Saluzzo, Tomo IV, p. 36-41; Muletti pubblica il documento. Gli ambasciatori saluzzesi sono
Ugo de’ Gebenni e Bergadano Muricola da Pavia. Su questi due, ivi p. 44-45.
29 VELLUTI, Cronica, p. 229; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1363, vol. 3°, p. 269..
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Carlo Ciucciovino
aumentato la sua popolarità. Inoltre, nel suo congedo, le maniere sono state sbrigative e
irritanti, tali da far dire a Matteo Villani che «con poco honore s'era partito, e mal contento, e
con fama di poco leale cavaliere». I Pisani, bene informati, decidono di sfruttare l'interregno
tra i due comandanti per sferrare un'offensiva, e domenica 27 marzo, la Domenica delle
Palme, con 1.000 cavalieri e 4.000 fanti, «nel pieno della notte, con molto ordine, con scale e
altri ingegni s'accostarono a Barga, sanza nessuno sentore de' terrazzani». L'assalto è deciso e
rapido: vengono facilmente conquistate una parte delle mura e l'ospedale che è ad esse
accostato. Una parte del muro dell'ospedale viene abbattuto per permettere ai cavalieri di
entrare in città, ma i terrazzani, svegliati dal rumore, prendono le armi, senza spaventarsi.
L'odio per i Pisani fornisce animo alla resistenza e il combattimento viene affrontato
coraggiosamente. I nemici che sono nell'ospedale sono troppi per pensare di ricacciarli, ed
allora il fabbricato viene dato alle fiamme. Il fumo ed il fuoco costringono i Pisani ad
abbandonare il muro, poi l'ospedale, infine la città. Lasciano dietro di sè molti morti e feriti,
ma, indomiti, costruiscono tre forti bastie per stringere d'assedio la città, sapendo che i
Fiorentini possono soccorrerla solo passando per il territorio di Pisa. (la si vuole prendere per
scambiarla con Pecciole, «la quale tenieno i Fiorentini in sulle ciglia di Pisa»).30
30 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 45. Sulla venuta di Bonifacio Lupo, inviato dal Carrara,
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34 PALADILHE, Les papes d’Avignon, p. 220-221. Pietro di Lusignano è a Avignone dal 29 marzo, cfr.
vescovo di Orvieto. FILIPPINI, Albornoz, p. 317, ed è confermata da Chronicon Estense; col. 486.
36 Ludovico dall'Occa da Pisa, Guido Savina da Fogliano, Antonio d'Ungheria, Luchino de Asalis da
Milano, Guido da Fogliano, Mocolo delli Pelagri, Alessandro da Verona, Giovanni Scipioni, Paolo
Zuppa da Parma, Mattiolo da Labro di Milano, Damulo Dusmago di Milano, Baroncio del maestro
Manno.
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Carlo Ciucciovino
bastia, non avendo abbastanza rifornimenti, e ritenendo che Bernabò non abbia mezzo per
soccorrerli, s'arrendono, salve le persone. Il 27 aprile37 la bastia viene restituita al marchese
Nicolò d’Este.38 Si mormora che anche Anichino sia stato preso prigioniero, ma liberato poi
dai mercenari tedeschi. Il teatro della battaglia è accanto alla bastia, in località Mulino dei
Rangoni.39 Nella battaglia è morto Garcia Albornoz, figlio di Alvaro e nipote di Egidio.40
La cattura di Ambrogio Visconti è un forte vincolo per Bernabò: naturalmente ottenere la
liberazione di suo figlio è una priorità e ciò connoterà gli sforzi diplomatici viscontei; il
signore di Milano chiama a raccolta tutti i suoi potenti amici: gli Scaligeri, suoi parenti per il
suo matrimonio con la bella e volitiva Regina, e il re di Francia, Giovanni, divenuto suo
consuocero. Ora il pontefice di Roma non potrà ignorare le pressanti richieste che il re di
Francia gli rivolgerà, anche perché il sovrano dovrebbe essere il massimo esponente della
preannunciata crociata, che sta mobilitando l’Europa del nord, ma non l’Italia, dove il
passaggio non viene predicato.
Tra i prigionieri vi è anche Ardizzone da Novara, reo di aver consegnato Castelfranco a
Bernabò. Colpa che non solo non può esser perdonata, ma che anzi deve venir punita in
modo esemplare. Egli viene condotto a Bologna e giovedì 27 aprile viene letta la sua
condanna. Viene rinchiuso in una gabbia nella Piazza del Comune, accosto al muro della
Ringhiera, e vi viene lasciato fino al sabato seguente. Il mattino di questo giorno viene messo
su un carro, tormentato con tenaglie roventi durante il tragitto fino al Mercato, qui viene
calato in una fossa del terreno, che gli lascia fuori solo la testa. «I putti gli tagliarono la testa e
portarono la testa per tutta la città, sicchè maggiore straççio ne fecero che si facesse mai di
persona e tormento». Bernabò Visconti non si rassegna, e per otto giorni, quasi senza
prendere cibo o riposo, si dedica a provvedere quanto necessario perché non gli crolli intorno
tutto l’edificio della guerra. In questi giorni fa «grandissimo apparato de gente da cavallo e da
piede, guastatori, victualie, artellarie et ogni altra cosa necessaria a l’arte bellica».41 Il 25 aprile
invia Antonio di Maghinardo e Paganino da Panico al castello di Formigine. Nel frattempo, il
2 giugno, comanda che venga eretta una nuona bastia a Villa di Cesa, nel Modenese; la
rinforza con fossa e spalti; da questa minaccia Modena non meno che da Solara.42 Ma suo
figlio Ambrogio è prigioniero e nelle mani dell’energico cardinale spagnolo, occorre quindi
frenare gli impeti guerreschi e ricorrere alle armi della diplomazia. Vengono allora messi in
moto gli influenti amici del signore visconteo: il re di Francia Giovanni ed il re di Cipro,
Pietro, che esercitano pressioni sul pontefice, affinché voglia far tornare pace e concordia in
Italia, visto che la Cristianità deve affrontare una crociata e che la data dell’imbarco è
imminente. Giovanni e Pietro si offrono di essere intermediari affinché Bernabò restituisca i
castelli del Bolognese, e, principalmente, Lugo. Il primo maggio, Urbano V invia una lettera
segreta ad Egidio, in cui lo informa delle iniziative dei sovrani, e lo esorta, a restituzione
avvenuta, a trattare la pace, anche se il cardinale fosse in disaccordo. Ma se Egidio ritenesse di
Bononiensis, Cronaca B, p. 153-154; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 155-159; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p.
155; GIULINI, Milano, lib. LXIX, anno 1363; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo XV, p. 43-45;
CORTUSIO, Additamenta ad Historiam, col. 967; DE MUSSI, Piacenza, col. 507; Annales Mediolanenses, col. 734
elenca alcuni prigionieri non compresi sopra; Domus Carrarensis, cap. 232 o p. 104-107 con interessante
elenco prigionieri. Anche TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 41-42, MAFFEI Annali di Mantova, p. 707;
POGGIALI, Piacenza, VI, p. 340.
40 FILIPPINI, Albornoz, p. 316. Ambrogio Visconti è tradotto in prigionia ad Ancona, nelle salde mani del
BAZZANO, Mutinense, col. 634. In quest’ultima fonte, Cesa, viene chiamata Villam de Zexiis.
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43 FILIPPINI, Albornoz, p. 320-323. Tra gli ambasciatori vi sono «il beato Pietro di Tomaso, carmelitano,
arcivescovo di Creta, e Filippo di Mezieres, gran cancelliere del regno di Cipro»; GIULINI, Milano, lib.
LXIX, anno 1363.
44 CALANDRINI E FUSCONI, Forlì e i suoi vescovi, p. 901.
45 Havendo rispetto alla natura de'Pisani sottratta e vaga di trattati, per contrapesare a.lloro ingegni, e tenerli in
paura, cercò trattato in Lucca. VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 46.
46 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 46 e MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 723-724.
48 Cronache senesi, p. 605-606 e Monumenta Pisana; col. 1041 parlano, esagerando, di 10.000 combattenti.
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Ma la pioggia, incessante, impedisce ogni ulteriore azione militare, costringendo gli armati a
rientrare a Pisa. Rinieri rifornisce il castello con una buona guarnigione e se ne torna a Pisa a
godersi il successo.49
49 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 47; Cronache senesi, p. 605-606; RONCIONI, Cronica di
Tommaso di Neri di Lippo, Maffio di Cante di messer Gaetano de’ Pigli, Schiatta Ridolfi, Cherico Gerini,
Giovanni di Giunta. STEFANI, Cronaca Fiorentina, rubr. 693.
51 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 48.
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dei Pisani, sono tornati sui loro passi. La ribellione ha avuto vita corta e fine tragica: più di
cento Lucchesi sono imprigionati ed a molti di loro viene mozzato il capo.53
53 Cronache senesi, p. 605 e Monumenta Pisana; col. 1040-1041; RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 188-189 che ci
informa che i capi della congiura sono Giovanni di Nicolò Diversi e Coluccino Sornachi. Si veda anche
MEEK, Lucca under Pisan rule, p. 102-103.
54 Il Pellini dice che secondo alcuni questo Tuoro starebbe nell’Aretino e secondo altri nelle montagne tra
Cortona e Castiglion Fiorentino. Ma, poichè un Tuoro esiste sul Trasimeno, a sud del monte Castiglione,
non credo vi sia bisogno di cercare altrove questo castello.
55 I loro nomi sono: Contuccio di Tibe de’ Vincioli, l’Abate e due suoi fratelli bastardi, Borgaruccio di
Nardo di Consolo, Guiccione di Agabiso, Guglielmo Montebiani e un suo fratello, Giovanni di messer
Feo, Agnolo di Lello, lo Squatrano, Tomaso di Mattiolo, Mattiolo della Buona, Magiuolo, Giovanni di
Berardello della Corgna, Cecco di Petruccio di messer Gianni e Giovanni di messer Averardo
Montesperelli.
56 PELLINI, Perugia, I, p. 998-1000.
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forte sopra i nimici, e li strinse a fuggire. Rinieri come ardito e pro’, fu preso con la spada in
mano, e molti altri valenti huomini. E per certo e messer Piero e Rinieri si portarono come
valenti capitani e come arditi e pro’ cavalieri, però che per spazio di due hore e mezza si
combatterono pertinacemente sotto l'incerto della vittoria». Molti sono i caduti e molti i feriti.
Un gran numero di cavalcature sono state uccise dai Fiorentini che ferivano di costa. Piero
Farnese ha corso dei brutti rischi, è stato ucciso il cavallo sotto di lui, ed egli è rimasto a piedi
e quasi solo in mezzo ai nemici, incontrato un mulo da soma, lo ha fatto scaricare, vi è
montato in groppa ed è rientrato nella battaglia. Il vittorioso messer Piero Farnese entra a
Firenze, portando con sè 140 prigionieri.58 Vi entra l'11 maggio, tra accoglienze trionfali.
Modestamente, rifiuta una corona d'alloro che gli viene porta. Molto festeggiato è anche un
giovane, distintosi e fatto cavaliere nella battaglia, messer Simone da Camerino. Il 14 maggio
il Gonfaloniere di giustizia del comune, messer Niccolajo degli Alberti, dà le insegne a Piero
Farnese, che, appena le impugna, ha un brivido di piacere vedendo che «surse una lieve aura
che le dirizzò verso Pisa».59
Il 20 maggio i Pisani ottengono da Dante60 degli Scali, castellano d'Altopascio, questa
fortezza, per 3.000 fiorini d'oro. Il giorno seguente, domenica Pasqua Rosata, i Priori e
l'Esecutore di giustizia si recano alle case degli Scali, che fanno saccheggiare e dare alle
fiamme.61 In sostituzione del prigioniero Riniero del Buffa, i Pisani eleggono a loro capitano
Ghisello degli Ubaldini, «coraggioso, di grande animo, dotto in guerra, e corale nimico del
comune di Firenze».62
Il 17 maggio messer Piero Farnese conduce l'esercito fiorentino, forte di 2.500 cavalieri e
molti balestrieri contro Pisa. Le sue intenzioni sembrano cattive: ha infatti con sè «molti
guastatori e segatori da fieno e da grano». Ma dà il guasto solo lungo il percorso. Pernotta tra
Castel del Bosco e Marti. Il giorno seguente passa il fosso, nonostante trecento Pisani che
vorebbero impedirglielo. Quando annotta, si ferma a Ponte a Sacco, vicino a Cascina. Arriva a
Pisa il 21, Pasqua Novella. Messer Amerigo, Tedesco, alla testa di sessanta barbute cavalca
verso le porte, dove trova cento barbute avversarie, che assale e rompe, ma altre duecento
barbute escono dalla città, e lo costringono a ripiegare. Lo soccorre un altro Tedesco, messer
Otto, al comando di cento barbute, che ferma i Pisani e li volge in fuga. Ormai è diventata una
vera battaglia: da Pisa esce il podestà con seicento barbute e molto popolo. L'urto di queste
forze preponderanti disperde i Fiorentini: i due conestabili sono catturati, con molti dei loro.
Ma messer Piero Farnese, con trecento barbute scelte, si lancia all'attacco, piomba sui Pisani, li
rompe e li fa fuggire. Tuttavia, la calca impedisce a molti di rientrare per la porta, alcuni
cercano scampo nell'Arno, annegando. Moltissimi sono catturati (i prigionieri sono tanti che i
soldati preferiscono averli e chiederne il riscatto, che avere mese compiuto e paga doppia per
la vittoria). Gustosamente, una cronaca descrive l’azione come segue: «i Pisani [u]sciro fuore
alla squadernata e li Fiorentini cacciandoli indietro a la mescolata, entraro molti co’ Pisani in
fino al Borgo San Marco, e fuvene alcuno di loro presi e due morti».63 Piero, vittorioso,
testimonia il suo controllo del territorio facendo battere moneta a Rignone ed Ospedaluzzo.
Nella moneta d'argento fa effigiare una volpe, simbolo dell'astuzia pisana, sotto i piedi di san
Giovanni. Poi, soddisfatto, dà il segnale del ritorno. La retroguardia viene attaccata dai Pisani
58 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 50. La storia del mulo è narrata da AMMIRATO, Storie
Fiorentine, XII, anno 1363. Egli dice che la storia è anche suffragata dal fatto che il monumento che
Firenze ha fatto erigere al bravo Piero lo mostra con lo stocco in mano, su un mulo.
59 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 51. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 159-160; Rerum
figlio di Dante. Non è nuovo a tali imprese: nel ’43 aveva dato al nemico il castello di Rondine.
61 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 52.
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che sono usciti dalle porte. Nella retroguardia vi sono due cavalieri appena elevati a tale
dignità, questi si rifiutano di ripiegare ed affrontano i Pisani in un sentiero strettissimo,
costeggiato dalla riva dell'Arno.64 La battaglia infuria violenta, finchè i Fiorentini riescono a
respingere gli incursori pisani, costringendoli a rientrare tra le mura di gran carriera, inseguiti
dai cavalieri fiorentini. Un'ultima zuffa si ha all'ingresso nella porta, dove i Fiorentini si
mescolano ai Pisani, cercando di entrare. Cade un trombettiere fiorentino, colpito da una
freccia scagliata dalle mura. La mischia si accende furibonda per impadronirsi del Giglio
fiorentino del trombettiere, o per impedirlo. Agrissimamente si combatte, e finalmente, la
bandiera viene recuperata dai Fiorentini che si ritirano, ma lasciando alcuni cadaveri sul
terreno e i due cavalieri novelli tra i prigionieri. Gli incursori fiorentini si congiungono col
grosso delle loro forze, a Riglione delle Capanne,65 ma solo un miglio li divide da Pisa, e,
nottetempo si potrebbero subire attacchi dal nemico, allora, anche se stanchi, si marcia verso
Ponsacco e poi a Peccioli, dove la sera è posto il campo. La fatica è stata tanta, che pochissime
sono le guardie mantenute a sorvegliare il campo. Il mattino seguente i Fiorentini si scagliano
contro Marti; vi danno due assalti, rompono in più parti le mura e vi poggiano molte scale,
ma i bravi balestrieri pisani li bersagliano incessantemente, respingendoli. È curioso notare
che tra le armi scagliate contro i Fiorentini vi sono degli alveari d’api. Il giorno seguente, i
Fiorentini, dopo aver sepolto molti cadaveri e curato vari feriti, si dirigono verso a
Montecalvoli, dove rizzano due trabocchi, ma dove incontrano egual fallimento; tornano
allora a Firenze.66
§ 19. Teramo
Il 27 maggio, la popolazione di Teramo invia una supplica al Giustiziere di Abruzzo
Ulteriore ed al Capitano di Atri perché difendano Teramo dalle molestie che Lalletto, figlio di
Lalle Campioneschi, le arreca.67
64 AMMIRATO, Istorie Fiorentine, XII, anno 1363, ci comunica i nomi di due che in questo giorno hanno
compiuto prodigi di valore: Guglielmo dei Bolsi, ed un Giovanni di cui non è noto il cognome.
65 O delle Campane?
66 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 54; Monumenta Pisana; col. 1041; RONCIONI, Cronica di
Pisa, p. 190 dice che siamo ormai al primo di giugno. Scarno il resoconto di SERCAMBI, Croniche, p. 130-
131.
67 PALMA, Teramo, vol. II, p. 71.
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poi dichiarato festivo.68 La cronaca di Terni ci informa che anche questo comune vuole dotarsi
di Banderesi, che chiama Banderari.69
Dopo l’energico Fiorentino Rosso de’ Ricci, diventa Senatore il Pratese Guelfo dei
Pugliesi, anche egli molto apprezzato dai Romani. A novembre, gli succede Bonifacio dei
Ricciardi di Pistoia.70 Tra i segni di benevolenza del nuovo papa verso Roma, Duprè
Theseider nota la concessione fatta nel giugno del ’63 ai Sette perché sottopongano a
sindacato il Senatore in scadenza, «ciò voleva dire nientemeno che restituire a Roma una delle
titolature che, a suo tempo, il papato aveva tenuto ad appropriarsi e a mantenere».71
Naturalmente, non appena il nuovo papa è stato eletto, il comune di Roma gli ha
rinnovato l’invito a riportare la cattedra del vescovo di Roma e papa della Cristianità nel suo
luogo naturale, Roma. Urbano V, il 23 maggio, scrive che il suo intimo desiderio di tornarvi è
stato espresso agli ambasciatori di Roma, ma vi sono ancora dei gravi ostacoli che si
oppongono alla sua immediata realizzazione. Oltre alla necessità di assicurarsi le spalle con
una pace negoziata con i Visconti, vi è una flotta da noleggiare e, oltre a tutto ciò, vi è da
pensare a come vincere la ritrosia dei cardinali e dei funzionari della curia, ormai abituati alla
tranquillità di Avignone, dove, è vero, c’è il pericolo delle compagnie di ventura, ma dove,
almeno, non vi sono i rissosi e prepotenti baroni romani a rendere irrespirabile l’aria
dell’Urbe. Uno dei grandi problemi è dove alloggiare perché il palazzo del Vaticano è in
rovina ed ha bisogno di grosse riparazioni, mancano porte e finestre e molto vi è da riparare e
consolidare. Al termine dei lavori di riattamento risulteranno stati spesi ben 15.569 fiorini
d’oro!72
68 DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 665-669. Un cenno in FILIPPINI, Albornoz, p. 355. Sullo statuto si veda anche
l’introduzione di Vito La Mantia, al volume LA MANTIA, Statuti di Olevano Romano del 15 gennaio 1364,
Roma, 1900. GREGOROVIUS, Roma nel Medioevo, Lib. XII, cap. 1.3 registra la solenne ambasceria di Roma
ad Avignone.
69 ANGELONI, Terni,p. 177.
73 Partecipano Francesco da Carrara, Guido da Polenta, Malatesta il vecchio, Malatesta Ungaro, Feltrino
Gonzaga. Chronicon Estense, col. 486; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo XV, p. 47; CORTUSIO,
Additamenta ad Historiam, col. 968.
74 FILIPPINI, Albornoz, p. 319. Rammentiamo che Bernabò è imparentato agli Scaligeri per il matrimonio
con Regina della Scala, donna dal carattere volitivo, in grado di farsi rispettare da tutti i congiunti.
Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 160-161; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 162. Domus Carrarensis, cap. 233
o p. 107.
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togliermi dalla Lega e dal conflitto contro Bernabò. La chiara minaccia, muove il marchese ad
inviare un’ambasceria a Venezia, i cui governanti si mostrano disturbati dall’intromissione,
pur promettendo una tregua di 15 giorni. Ma senza far passare il termine, i Veneziani
scrivono al marchese di Ferrara, mostrando di essere molto meravigliati dal tono e dal
contenuto di quanto pronunciato dagli ambasciatori. Il messaggio prosegue enunciando che
Venezia non intende recedere dalle proprie pretese, e preferisce comunicarlo apertamente ad
un amico, che dissimulare nutrendo «dentro dal so cuore algun ranchore». Il marchese d’Este
si preoccupa e scrive a Francesco, informandolo. Francesco reagisce, ma è ormai chiaro che né
Este, né la Chiesa combatteranno per lui. Si rivolge allora agli Scaligeri, ma Cansignorio non
ha nessuna intenzione di inimicarsi i forti Veneziani. Francesco, amareggiato, scrive al suo
grande amico al re d’Ungheria. Ma questi è già stato informato degli avvenimenti da
Giovanni Sordi di Piacenza, un arcivescovo che si trovava a Padova quando giunse la lettera
veneziana. Il re Ludovico reagisce immediatamente inviando a Venezia suoi ambasciatori, e
informando Francesco da Carrara di non prendere iniziative fino a San Michele, perché è sua
intenzione, per quella data, di intraprendere azioni contro Venezia. Francesco si riconforta,
comunica all’Este la lodevole iniziativa del re, ma ne ottiene un sostanziale distinguo e,
sicuramente un rifiuto dall’intraprendere azioni che portino a problemi con Venezia. Neanche
l’intercessione del pontefice in persona, che scrive al senato di Venezia, sottolineando come la
loro azione rafforzi Bernabò, sortisce effetto alcuno. Francesco da Carrara, amareggiato e
deluso, consegna l’isola di Sant’Ilario a Venezia.75 L’isola è «un importante snodo logistico ai
margini della laguna» e Venezia è rimasta scottata dal verificare quanto labile sia il suo
sistema di difesa in terraferma, vista la facilità con cui il re di Ungheria, quando l’ha
aggredita, è riuscito a penetrare fino a Chioggia.76
Francesco non ha solo crucci di politica estera, in maggio e giugno si deve dedicare anche
a maritare due sue sorellastre, Lieta viene data in moglie al principe romano Luca Savelli, e la
minore, Giovanna, al Tedesco Ulrico, conte di Monteforte. Appena passate le nozze, un lutto
si abbatte sui Carrara, muore il giovane Carlo Ubertin, fratellastro di Francesco. «Et fo -dice
l’aggiunta ai Cortusi – el ditto zovene sì costumado, sì provetto in scienzia, & era sì grande la
fama della so’ vertù, che Urban Quinto Summo Pontefice se lo havea adottato in fiolo».77
Venezia teme che Francesco da Carrara si appresti ad invadere l’entroterra della città
lagunare, e, visto che non può sostenere ulteriori spese per l’arruolamento di mercenari, il 14
giugno ordina la mobilitazione degli uomini atti alle armi nel Trevigiano e nel Cenedese.
Sono circa 10.000 uomini, dei quali un quarto viene effettivamente inquadrato in bandiere e
messo in linea, mentre gli altri 7.500 uomini sono tenuti in riserva. Il 23 luglio fallisce un
tentativo di conciliazione di Albornoz. Ora occorre veramente prepararsi al conflitto. I nobili
friulani, nemici del patriarca, si schierano con Venezia e Walterpertoldo di Spilimbergo va a
servire la Serenissima con quattro bandiere per una consistenza totale di 100 barbute.78 Il 27
giugno il Collegio ordina ai suoi ambasciatori di offrire a Rodolfo d’Asburgo 25.000 ducati
per attaccare il Carrararese per quattro mesi con una forza di almeno 1.000 lance. Come
appena visto, la minaccia obbliga Francesco da Carrara ad accettare immediatamente di
75 Domus Carrarensis, p. 103, cap. 234 che annacqua le considerazioni strategiche con una storia di corna,
e poi, molto diffusamente, alle p. 107-110. Si veda anche CAPPELLETTI, Padova, I, p. 301-302.
76 PIGOZZO, Treviso e Venezia nel Trecento, p. 34 e per le considerazioni strategiche p. 10-11.
77 Domus Carrarensis, cap. 235. Domus Carrarensis, p. 112 cap. 237; VERCI, Storia della Marca Trevigiana,
17 giugno, DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 206. KOHL, Padua under the Carrara, p. 122, leggendo i
documenti, elenca i soldati messi in campo dalla Serenissima: 1.100 inviati a Treviso 268 ad Asolo, 216 a
Mestre, 270 a Castelfranco, 100 a Serravalle, 150 a Noale, 85 a Valmareno. Venezia sta inoltre
provedendo a reclutare altri mercenari.
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abbandonare l’isola di Sant’Ilario.79 Il 7 luglio viene conclusa la pace tra Venezia e Padova e
questo, «per alcuni anni, allontana la guerra dalla pianura veneta».80
84 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 55; RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 190.
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fiamme. Soddisfatti da tale ulteriore successo, i Fiorentini rientrano al campo, senza trovare
alcuna opposizione.85
85 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 58; un cenno in VELLUTI, Cronica, p. 230.
86 AMIANI, Fano, p. 287 che sottoliea come per la malattia i consigli cittadini vengano considerati validi
anche se il numero dei presenti è inferiore a quello dettato dagli statuti. Registra la peste a San
Gimignano COPPI, Sangimignano, p. 300 ed anche qui gli Ottanta consiglieri si sono ridotti a
Ventiquattro.
87 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 57 e 59.
91 I 2 dei Dodici deceduti sono ser Lorenzo di Dota e Giovanni di Cecco Arzochi, entrambi morti a
Camerino.
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giugno la Madonna compare anche ad un bambino di Ascoli. Questa visione sembra sia stata
accompagnata da miracoli.94
§ 28. Matrimoni
Gran festa alla corte degli Scaligeri, il 6 giugno, per il matrimonio tra Agnese di Durazzo
e Cansignorio. «E si disse che fu una delle belle corti e feste che si facesse in Lombardia». Vi è
convenuta anche la bellissima Beatrice, detta Regina, della Scala, moglie di Bernabò,
convenientemente accompagnata da ben mille uomini a cavallo, con un fasto al di là dei limiti
del buon gusto (troppo onorevolmente), in compagnia di «donzelli, e di grandissime donne
nobilissime, belle e ricche».95 Il 9 luglio, donna Costanza, figlia della buonanima di messer
Obizzo d’Este, va a Rimini in sposa a messer Malatesta Ungaro.
94 DE SANTIS, Ascoli nel Trecento, II, p. 103-104. Non trovo traccia di queste apparizioni nello studio Tutte
le apparizioni della Madonna in 2000 anni di storia, di HIERZENBERGER e NEDOMANSKY.
95 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 162; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 163. Vi è chi mormora che
Giovanna di Napoli abbia favorito le nozze per appropriarsi di 5.000 fiorini, maldicenza alla quale la
regina reagisce con sdegno, cfr. CAMERA, Elucubrazioni storico diplomatiche,p. 249-250. VERCI, Storia della
Marca Trevigiana, tomo XV, p. 54-56; CORTUSIO, Additamenta ad Historiam, col. 970. Per 15 giorni
consecutivi alla corte scaligera si tiene corte imbandita. CASTELLINI, Storia di Vicenza, lib. 13°, p. 83.
Questo autore ci informa che nel 1364 vengono fatti cittadini di Vicenza i da Sesso e gli Angiolelli;
enuncia inoltre l’origine della dinastia dei de Sesso.
96 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 60. Le cronache di Bologna chiamano le cavallette
grilli, Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 158; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 160.
97 Proemio di Filippo Villani alla prosecuzione della cronaca del padre.
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innamorata di Aimone III di Ginevra e non vuol sentire parlare di altri pretendenti alla ua
mano. Si pensa allora di proporre a Federico di impalmare la sorella minore di Giovann:
Margherita di Durazzo, ma, per ora, Federico rifiuta. Mentre proseguono le missioni
diplomatiche per negoziare una utile unione matrimoniale, proseguono le trattative per
arrivare ad una pace definitiva tra Napoli e la Sicilia; a tal fine arriva a Catania, nel marzo del
’64, un ambasciatore della regina Giovanna: Lorenzo Buondelmonte, che riesce a concludere
una tregua fino alla fine di ottobre del 1365.105
Nel frattempo, Manfredi Chiaromonte, che è cosciente che questo è il momento
opportuno per il ritorno all’obbedienza al suo re, prima che un trattato di pace gli sfili dalle
mani qualsiasi potere contrattuale, si sottomette a re Federico IV, ricevendo in premio la
nomina ad ammiraglio del regno e governatore di Messina e del suo territorio, anche se
queste terre debbono ancora tornare nel potere della corona. La conquista di Messina e
territorio avviene tempestivamente, tra maggio e giugno del ’64. Il conte di Aidone, Enrico
Rosso, schiavo della sua irruenza, non riesce a cogliere il momento propizio e, quando
Messina cade, si schiera con gli Angiò, con l’unico risultato di essere deposto dalla sua carica
vitalizia di Cancelliere del regno. L’immediata preoccupazione di Federico IV è quella di
rassicurare Giovanna di Napoli che la presa di Messina non costituisce una rottura delle
trattative di pace, ma Giovanna, furibonda, reagisce con sdegno, interrompe i negoziati e
minaccia fantomatici interventi militari che ben sa di non potersi permettere. La rottura dei
rapporti porta con sé anche l’interruzione dei negoziati per il matrimonio di Federico, il
quale, molto prudentemente, decide di attendere il maturare degli eventi e di non cercarsi
un’altra sposa, per non pregiudicare una delle sue leve negoziali per la pace. In fondo questo
re tanto “semplice” non appare.106
105 Chi voglia addentrarsi nelle trattative, legga MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 175-178.
106 MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 178-185.
107 Sono «messer il conte di Maleto, siniscalco della provincia di Francia, il vescovo di Anversa,
ambasciatori del papa e del re di Francia, e l’arcivescovo di Candia ed il cancelliere segreto del re di
Cipro, suoi ambasciatori». Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 153-164.
108 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 163-164; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 164-165. La Cronaca A, p. 161 e
la Cr. Vill., p. 162-163 racconta di un possibile tradimento dei soldati Ungheresi al servizio della Lega,
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che si sarebbero venduti a Bernabò per mettere in rotta l’esercito al momento giusto. Feltrino Gonzaga
scopre il complotto, imprigiona molti conestabili e li invia all’Arbornoz per il giudizio.
109 MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 729; VELLUTI, Cronica, p. 231. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 166
dice che Pisa ha dato Lucca a Bernabò, come garanzia per la restituzione, per un certo lasso di tempo.
110 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 62. DE MUSSI, Piacenza, col. 508 aggiunge che sono
circa 3.000 cavalieri «qui omnes erant fortissimi bellatores», gran combattenti.
111 Vestiti a una taglia isvariata.
112 Con probabile esagerazione, Monumenta Pisana; col. 1042, prosegue dicendo: e contasi che l’oste dei
Pisani funno li pedoni e balestrieri più di 30.000, e 6.000 a cavallo. RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 193 conta
30.000 Pisani, 4.000 uomini a cavallo della compagnia degli Inglesi e 2.000 cavalleggeri tedeschi assoldati
dal comune.
113 VELLUTI, Cronica, p. 232-233 ci fornisce qualche gustoso particolare: i Pisani inviano una lettera a
Firenze «la più brutta e villana che udissi mai», nella quale dicono che i poveri asini sono stati impiccati
perché disturbavano una festa e si chiamano Brunello degli Strozzi, Asino dei Ricci, Somaio degli
Albizzi e [Miccio?] de’ Medici, unendo tutti appellativi di asini con quello delle casate illustri di Firenze.
114 A questi MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 730, aggiunge un messer Andrea Buglia. VILLANI MATTEO E
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115 Due asini ed un cane dice MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 730.
116 Dei fiorini con la Madonna che ha il bimbo in braccio, e sul verso, l’aquila; e grossi d’argento con
l’aquila che tiene il leone sotto le zampe, sempre la Madonna sul recto. MARANGONE, Croniche di Pisa, col.
730.
117 Cronache senesi, pag. 600-601e 606; MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 730; Monumenta Pisana; col. 1042-
1043; RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 191-197; SERCAMBI, Croniche, p. 131-133; con molti dettagli VELLUTI,
Cronica, p. 233-234.
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118 DE SANTIS, Ascoli nel Trecento, II, p. 94-100. De Santis scrive anche che nel successivo autunno la fame
spinge molti lupi ad entrare nell’abitato ed a rapire bimbi. SANSI, Spoleto, p. 242 ci informa che Spoleto,
devastata dalla peste, è costretta malvolentieri a inviare uomini alla riconquista di Ascoli.
119 Per dettagli, DE SANTIS, Ascoli nel Trecento, II, p. 100-102. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 163-165
sottolinea che è la terza volta che Ascoli si ribella: Notizia della ribellione sedata arriva a Bologna il 31
luglio; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 166-167. Domus Carrarensis, p. 112-113.
120 DE SANTIS, Ascoli nel Trecento, II, p. 103. Eco della ribellione in CORTUSIO, Additamenta ad Historiam, col.
971.
121 Cronache senesi, p. 605-607. I Senesi, per ingraziarsi Anichino gli donano anche un bel cavallo con
gualdrappa e molta cera e confetti, e vino solenne e biada ed altre cose. Il tutto per la bella cifra di 400
fiorini.
122 Cronache senesi, p. 600.
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127 La notizia comunque è nota da qualche giorno, perché Chronicon Estense; col. 486, dice che il 31 agosto
viene praeconizata la pace. Vedi anche BAZZANO, Mutinense, col. 634 e VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica,
Lib. XI; cap. 64. Si legga GIULINI, Milano, lib. LXIX, anno 1363, sulla trattativa tra Bernabò e gli
ambasciatori, si diffonde sulla trattativa anche VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo XV, p. 57-58 e
Domus Carrarensis, p. 113-114.
128 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 167-168; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 168-169.
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duro, amaro, infiammato d’ardore guerresco contro Bernabò, il quale, dal canto suo si mostra
furibondo e ruggente come un leone.129 Ma gli atteggiamenti iniziali, e personalistici, si sono
stemperati col passare dei mesi ed ora, all’inizio di settembre, si è pervenuti all’importante
passo. Tuttavia, Egidio Albornoz non si convincerà mai della buona fede del Milanese, che
d’altro canto fa di tutto per dimostrarsi sleale, come quando, approfittando dell’assenza di
Gomez da Bologna, che si è recato a Cesena a conferire con Egidio, rifornisce i suoi castelli nel
Bolognese.130 A settembre, per fuggire la peste, Francesco da Carrara ha spostato la sua corte
al castello di Bovolenta, tra Padova e Chioggia. Qui sono venuti a conferire con lui i marchesi
d’Este, Nicolò ed Ugo. Qui lo sono venuti a trovare gli ambasciatori incaricati di trattare la
pace con Bernabò. Francesco ha accettato, come tutti i capi degli altri Collegati, la tregua, e,
come tutti, è rimasto disgustato dal fatto che il Visconti abbia approfittato delle armi deposte
per rifornire i suoi castelli. Non solo, ma il protervo Milanese ha rinforzato le guarnigioni,
tanto che Modena, alla fame, viene rifornita con le armi in pugno. Per questi episodi gli Este e
il Carrara non vorrebbero inviare i propri rappresentanti a trattare la pace definitiva, poi,
visto che l’assenza si potrebbe risolvere in loro danno, si decidono a mandarli.131
129 Nelle parole di frate Pietro Tomasio, arcivescovo di Candia: “Durum, amaricatum, ad guerram
inflammatum et contra dominum Bernaboum indignatum” Egidio, e “Furibumdum et velut leonem rugientem et
pacem despicientem”, Bernabò. FILIPPINI, Albornoz, p. 324. Francesco Filiipini, da bravo biografo, dedica
molto spazio alle idee del cardinale Albornoz, contrario alla pace, ed alle sue buone ragioni; Filippini
vede la pace come un successo di Bernabò ed una sconfitta non solo per l’Albornoz, ma per tutta la sua
politica di recupero e pacificazione del Patrimonio Beati Petri. Si veda la trattazione alle p. 322-327.
130 FILIPPINI, Albornoz, p. 324-327.
131 Domus Carrarensis, cap. 240; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo XV, p. 57; CORTUSIO,
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Acaia (Revello, Carmagnola, Racconigi). Il conte di Savoia può invece tenersi le terre
conquistate nella campagna militare. Il contenzioso tra Saluzzo e Acaia verrà sistemato con
l’arbitraggio di Amedeo. A Villafranca Federico di Saluzzo viene lasciato libero, ma subito
dopo, verso il 20 agosto, convocato a Rivoli, viene imprigionato e costretto a firmare nuovi
patti e sborsare 16.000 fiorini, quale indennità di guerra. Il 4 settembre, Federico, nuovamente
libero, si dirige velocemente verso le Alpi, ad Ebrun rinnova l’omaggio al Delfino. Amedeo ha
infatti fatto i conti senza l’oste: se una politica di fermezza ed ipocrisia gli può riuscire con
l’indifeso Acaia, molto diversa è la situazione con un protetto del re di Francia. Il governatore
del Delfinato il 9 settembre comanda al capitano di Briançon di essere a disposizione del
marchese di Saluzzo, contro ogni aggressione.134
Però Galeazzo Visconti non ha ingoiato agevolmente le false promesse di Amedeo ed il
31 agosto gli scrive lamentandosi delle trattative che il Conte Verde sta impiantando col
Monferrato. Infatti il 18 settembre, all’ospedale di Stura, vicino Torino, il generale francescano
Marco da Viterbo assiste alla firma del trattato di pace tra Savoia e Monferrato. Lo stesso
Marco il 27 gennaio 1364 metterà d’accordo i Visconti e il Paleologo.135
Giacomo d’Acaia stenta molto a radunare i fiorini che gli consentono di riottenere il
Piemonte: I fratelli Gerbaix di Belley gliene prestano 77.000, e Antonio di Beaujeu 50.000;
inoltre è costretto a vendere diversi feudi, ma, finalmente, a settembre 1363, riesce a riottenere
il Piemonte. Malgrado tutto però, quest’anno sembra molto positivo per il principe: i rapporti
con Amedeo di Savoia sembrano esser tornati molto buoni e le grazie della giovane moglie
sembrano rallegrarlo. Quest’anno Margherita gli dà un figlio cui viene imposto il nome di
Amedeo. Un secondo figlio, Ludovico, gli nascerà nel 1364. Tali rampolli sono però un
problema, Filippo, l’erede al titolo, non può non guardare con preoccupazione all’incanto che
Margherita sembra esercitare sul suo maturo consorte e, giustamente, teme che lo si voglia
penalizzare per favorire i neonati.136
134 COGNASSO, Conte Verde*Conte Rosso, p. 114-116; ROGGERO-BARGIS, Saluzzo, p. 47-48; CIBRARIO, Savoia,
III, p. 180-182;. Maggiori dettagli e documenti in MULETTI, Saluzzo, Tomo IV, p. 46-60 e 62-65; TURLETTI,
Savigliano, I, p. 235-236 sulla conquista di Barge il 2 luglio.
135 COGNASSO, Conte Verde*Conte Rosso, p. 117-118; DATTA, I Principi d’Acaia, I, p. 193-196. GALLAND, Les
papes d’Avignon et la maison de Savoie, p. 278-279 nota che il papa vuole staccare il Savoia da Bernabò e il
mezzo è la pace tra Savoia e Monferrato, a tale scopo, il 5 luglio, incarica Marco da Viterbo della
missione. RICALDONE, Annali del Monferrato, I, p. 342 ci dice che i primi accordi vengono stipulati il 18
settembre all’Ospedale di Stura tra il marchese di Monferrato e Amedeo di Savoia.
136 COGNASSO, Conte Verde*Conte Rosso, p. 97-98; DATTA, I Principi d’Acaia, I, p. 198-201..
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segna un buon punto quando riesce a trarre dalla sua parte messer Tolberto da Prata, cugino
germano di Francesco da Carrara, che questi «havea alevà dalla cunna (culla) et fatto possente
e temù nella Patria (in Friuli)». Tolberto, forte del fatto che il podestà di Cividale è suo
suocero, vi si avvia, ma Francesco da Carrara è vigile, fa catturare il suocero e lo fa tradurre a
Padova, e poi nelle carceri di Castelbaldo.137 Incamerato il Tirolo, questo «viene tolto dalla
sfera d’influenza bavarese e unito dinasticamente alla casa d’Austria». 138
Il 7 settembre le truppe asburgiche, collegate ai soldati di Walterpertoldo di Spilimbergo,
di Biachino e Tolberto da Prata e di Francesco d’Ossalco di Strassoldo, eseguono manovre
militari intorno a Valvasone e San Vito (al Tagliamento), dove si trovano le truppe patriarcali
comandate da Francesco da Savorgnano. L’invasione del Friuli è tesa a recuperare con le armi
quello che il patriarca aveva ceduto con un tratto di penna e che Carlo IV aveva annullato. Gli
Asburgici non riescono a far accettare uno scontro e, devastato il territorio, tornano indietro. È
solo l’avvisaglia di serie intenzioni di guerra: il duca prepara altre truppe condotte da
Ermanno conte di Cilli e da Ortenburg e da Colo di Saldenhofen per occupare tutto il paese. Il
patriarca chiede aiuto a Carlo IV e lo sollecita a pretenderlo anche dai signori di Lombardia e
dagli ex-collegati. Per non lasciare nulla di intentato, Ludovico della Torre invia messi ad
informare la Serenissima, la quale il 17 settembre, invia le sue congratulazioni al duca
Rodolfo per l’acquisizione del Tirolo, lo invita a cercare un accordo pacifico e richiesta di
soccorso militare dal duca, lo nega il 18 ottobre.139 Francesco da Savorgnano si prepara ad una
lotta dura e, anche se le fonti non ci tramandano gli avvenimenti, la sua azione deve essere
fortunata, infatti a novembre si combatte ancora e i signori di Spilimbergo inviano
ambasciatori a Venezia per chiedere di mediare una tregua o la pace. La tregua viene
dichiarata.140
137 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo XV, p. 67-72; CORTUSIO, Additamenta ad Historiam, col. 972-
973; WALDSTEIN-WARTENBERG, I conti d’Arco nel M.E., p. 286-288; Domus Carrarensis, p. 114-115 cap. 241;
G. Pirro Pincio, Croniche di Trento, pag 113.
138 CURZEL, I vescovi di Trento nel basso medioevo, p. 589-590. Malgrado la pace firmata tra Venezia e
Francesco da Carrara, Rodolfo IV continua ad attaccare i possedimenti patriarcali in Friuli nota KOHL,
Padua under the Carrara, p. 112.
139 PASCHINI, Friuli, I, p. 323-324.
140 PASCHINI, Friuli, I, p. 324-325. Echi della guerra sono in DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 209-213;
in nota a p. 212 vi è la consistenza delle truppe del patriarca: 279 elmi e 117 balestrieri, a questi, credo
vadano aggiunte truppe assoldate. Si veda anche Vite dei patriarchi d’Aquileia, col. 58-59
141 Monumenta Pisana; col. 1043; MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 729-731; RONCIONI, Cronica di Pisa, p.
1363
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e bestiali, rivelano la propria natura quando gli sciagurati abitanti sono in loro dominio. Il
castello viene dirupato e i soldati si rafforzano nel borgo.142
Messer Pandolfo conduce l’esercito fiorentino ad Incisa, a meno di tre miglia da Figline.
Qui giunto, decide di accamparsi, ma distende il campo dal poggio fino all’Arno, contro il
parere del suo consiglio di guerra, che ritiene di non avere abbastanza forze per poterlo
guardare e preferirebbe erigere una bastia intorno a Torre Bandinelli. Ma Pandolfo fa valere
la sua autorità e, lumeggiando la possibilità che la Compagnia del Cappelletto costringa i
Pisani a far affluire parte delle loro forze da Figline in Maremma, prende con sè messer
Amerigone e 500 barbute e se ne torna a Firenze. Il campo viene lasciato al comando di
messer Ranuccio Farnese, che, a parte pochi Italiani, può disporre di ragazzaglia e vile gente,
perché Pandolfo si è portato via tutti i migliori. Il 2 ottobre molti esperti Inglesi si fanno,
senz’armi, sotto al campo fiorentino, per valutarne la consistenza. Poi, la mattina del giorno
successivo, scatenano l’attacco contro più punti dell’accampamento, per costringere i
difensori a dividere le proprie forze. Il conte Artimanno, che è alla difesa di Incisa, si guarda
bene dall’intervenire ad aiutare il collega, messer Ranuccio deve fare tutto da solo, e,
malgrado che si prodighi senza risparmio, è costretto a cedere alle superiori forze nemiche.
Gli Inglesi entrano nel recinto del campo e ne catturano il comandante, con molti dei suoi.
Ranuccio verrà poi scambiato con messer Ranieri degli Ubaldini, che l’anno scorso è stato
catturato a Pontedera. Alcuni Fiorentini cercano scampo verso l’Arno, annegandovi. «La
preda de’ cavalli fornimenti da campo e armadura fu grande». Tra caduti e catturati, i
Fiorentini hanno perso 400 combattenti. Il giorno seguente, il 4 ottobre, gli Inglesi si
presentano, a schiere ordinate, sotto Incisa; messer Artimanno, «che se havesse havute
altretante femmine come havea huomini d’arme, harebbe difeso quel luogo», si lascia
prendere dal panico e fugge per la porta verso Firenze. Pandolfo Malatesta sta accorrendo con
le sue 500 barbute, per portare soccorso ai suoi; a San Donato in Collina incontra Artimanno
che sta fuggendo precipitosamente, potrebbe attestarsi sul luogo, e, forte della sorpresa,
lanciare un contrattacco contro gli inseguitori, che, certamente, si saranno disordinati nella
caccia all’uomo. Invece volge il cavallo e si dà alla fuga come huomo rotto. Malgrado che il
Malatesta si sia coperto di disonore, il governo di Firenze gli chiede di accettare il titolo di
capitano di guerra, al posto del prigioniero Ranuccio. Pandolfo pretende che i soldati giurino
fedeltà a lui e non al comune, i Priori, udendo «le sconcie e le male colorate domande di
messer Pandolfo», radunano il consiglio generale. L’incertezza è grande: le richieste di
Pandolfo sono inaccettabili, ma, al tempo stesso, i governanti sembrano convinti di non poter
fare a meno di lui; finalmente, si alza Simone di Rinieri Peruzzi, e dice «francamente, che
nulla di ciò le si concedesse, che questo era un domandare d’essere fatto signore, e che
ciascuno si recasse alla mente il tempo del duca d’Atene, e come da lui erano stati trattati, e
che conoscessono la dolcezza della libertà, e che volessono vivere e morire in essa». Le parole
del savio Simone danno una sferzata d’energia al consiglio, che, immediatamente, fa giurare
ai soldati fedeltà al governo di Firenze nelle mani del Gonfaloniere Guido della Pecora; viene
creato Difensore della città Baldo de’ Magalotti da Città di Castello. Pandolfo, fingendo di
non aver compreso l’accaduto, accetta il capitanato. Appena assunto il comando, fa licenziare
Artimanno e le sue 800 barbute, e rimane solo con altre 800, tra i conestabili inglesi v’è anche
Giovanni Acuto.143 Poi, «mostrando smisurata paura, fa levare sulle mura bertesche e merlate
armate di ventiere, armando la città d’eterna vergogna. E avevono messo tal terrore in ne’
Fiorentini, che solo il nome degli Inghilesi faceva tremare le persone». Presa Figline, i Pisani
142 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 68; RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 197-198; MARANGONE,
Croniche di Pisa, col. 731, che chiama Manetto di Lomo da jesi, Matteo d’Arezzo..
143 CERRETANI, St. Fiorentina, p. 140.
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La cronaca del Trecento italiano
stanno nel territorio di Firenze per oltre due mesi. Quando lo abbandonano danno alle
fiamme i quattro castelli conquistati e trascinano con sè molti prigionieri e tanto bestiame.144
144E poi il popolo di Firenze, volendo soccorrere l’Ancisa, fu rotto e fuvi battaglia giudicata, e fuvene assai morti e
presi, e molti v’anegaro in Arno, e si trovaro più di 1.000 cavalli a buttino: e questa vittoria fu a dì***, el dì di
Santo Adovardo, re d’Inghilterra (13 ottobre), de la qual festa Inghilesi e la Chiesa fa gran solennità. Cronache
senesi, p. 607 e Monumenta Pisana; col. 1043; VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 69 e
MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 731-732; Cronichetta d’Incerto, p. 254-255; SERCAMBI, Croniche, p. 133-
134. Si veda il prossimo paragrafo.
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Carlo Ciucciovino
§ 46. Incendi
Il 10 di ottobre un incendio arde un terzo di Bagnacavallo, che è sotto la sorveglianza di
Giovanni dei Manfredi. Anche Ostiglia, che è governata dal marchese di Ferrara, in data
imprecisata, ma in questo anno, brucia. I danni sono gravissimi: la cronaca dice: «arse
tucta».148
145 Cronache senesi, pag. 601-604 e VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 71. RONCIONI, Cronica di
Pisa, p. 198 nota che la battaglia è avvenuta il 13 ottobre, «lo dì della festa di santo re Adoardo, e ffu
inghilese, e la Chiesa santa ne fa festa grande». Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 172 specifica che i capi
della compagnia sono: Ugolino de’ Sabbadini di Bologna, il conte di Sartigliano e un altro Lombardo,
cioè il conte di Sevrino; anche in Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 173 che chiama il Lombardo conte di
Scurino.
146 L’elenco completo delle multe è il seguente: Andrea di Pietro Malavolti, libr. 648; Tommaso di
Francesco Ruffaldi, 212; Teroccio di Mino di Teri, 648; Tomasso di Francesco Ranieri, 548, Jacomo di
misser Tancredi, 370; Giovanni di Tura di Gieri, 201; Domenico di Guduccio Ruffaldi, 380; Cinque di
misser Arrigo Saracini, 680; Misser Vanni Malavolti, 460; Nanni di Riccardo de’ Marzi, 1.600; Francesco
di misser Branca, 340; Branca di Francesco Accarigi, 250; Pongatillo Salimbeni, 362; Jacomo di Vanuccio
Baldiccioni, 340; Tomasso d’Ugo Cinughi, 440; Petro di misser Tancredi, 620; Giovanni d’Agnolino
Salimbeni, 1.240; Ser Nardo da Montalcino, 200. Per un totale di circa 3.000 fiorini. Cronache senesi, p.
603-604.
147 CASTELBARCO, I Castelbarco ed il Trentino, p. 130. Bonifacio e Tommasino alla morte del loro padre nel
1342 era infanti, quindi, ora, passati 21 anni sono ormai pronti a ottenere e difendere i loro feudi.
148 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 174; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 174.
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La cronaca del Trecento italiano
è totale: molti abitanti sono sorpresi nei propri letti e chi prova a resistere viene ucciso, molti,
fuggendo, annegano nell’Arno. I prigionieri sono quattrocento; più di mille capi di bestiame,
tra asini e buoi, sono rubati Le insegne dell’invasore sono levate sulla Pieve a Ripoli, «facendo
gran trombata». Il mattino seguente, senza che nessun Fiorentino o mercenario si sia
arrischiato ad andare a vedere cosa stia accadendo, gli Inglesi levano il campo, bruciano le
umili case da lavoratori che sono sulla strada, e, carichi di preda, tornano a Figline. Solo ora,
messer Pandolfo, «sapiendo che erano partiti», con gli 800 mercenari rimasti e con gran
popolo, viene alle sbarre a Ricorboli, e, di qui, guarda impotente i nemici sparsi per le coste e
gli incendi appiccati. Potrebbe forse fare qualcosa, Filippo Villani ci informa che ha con sè
10.000 contadini armati, che, sicuramente sono furibondi per il danno portato al loro bel
paese, ma no, Pandolfo «si tenne al primo serraglio, lasciandosene tre innanzi». V’è chi dice
che Pandolfo speri che gli Inglesi si stabiliscano nelle belle dimore dei dintorni, facendo
sentire il peso della loro presenza alle porte di Firenze, così che questa, disperata, voglia
implorare il Malatesta di accettare la signoria. Ma gli Inglesi se ne vanno, e se messer
Pandolfo nutre questa illusione, deve crudamente ricredersi.149
1363
551
Carlo Ciucciovino
vacillare il coraggio dei mercenari, che, chiesto ai fuorusciti da chi aspettino soccorso, ed
avuta la risposta che nessuno verrà, decidono di pensare a sè, convincendosi che non vale la
pena di scannarsi per quei ribelli, destinati a sicura catastrofe. I mercenari si recano dai
fuorusciti e li informano delle loro decisioni, lasciandoli a provvedere a’ casi loro. Gli sciagurati
ribelli, «vedendosi così miseramente traditi, pigliarono partito di mettersi piuttosto alla
discretione de’Perugini, che, ostinati nella loro opinione, esser dati da suoi in mano à nimici».
Per cui, il 10 novembre, dopo che i mercenari hanno ottenuto di poter uscire indenni dal
castello, con tutti i loro averi, «i fuorusciti, spogliati d’ogni sorte d’armi, con una canna in
mano, e con la correggia alla gola, uscirono del castello, e andati dinanzi a’ signori Priori e
capitano dell’essercito, domandarono humilmente misericordia, e perdono, astringendosi
solamente che fosse loro perdonata la vita, offerendosi per se stessi a una perpetua carcere».
Ma i Priori, senza ombra di pietà, li fanno catturare e mettere nella vicina rocca di Cola
Pesciaiolo. E il mattino seguente fanno a tutti spiccar il capo dal busto.151 Si sono salvati con la
fuga Ercolano della Buona, che all’inizio dell’assedio, una notte si è calato dalle mura e con
una piccola barca è riuscito a dileguarsi, e l’uccisore di Leggieri d’Andreotto, Donato de’
Boccoli, che si favoleggia che sia fuggito a nuoto.152
151 Il numero non è certo, si parla di 13 o 16 persone, ma anche di 40. Tra questi, comunque vi sono:
messer Alessandro Vincioli, Coluccio Baglioni, Giacomo di Gocciolo, Bartolomeo di Berardello
Montibiani, Giovanni di Agabiso, il conte delle Mecche, Cecchino di Alessandro, Agnolo di Paoluccio
Gratiani, Giovanni di Galeotto Montesperelli, Marinello di Petruccio di messer Gianni Montesperelli,
Francesco di messer Ranuccio, detto il Zeppa, Nicolò di Lello.
152 PELLINI, Perugia, I, p. 1000-1002; Diario del Graziani, p. 194 e VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI;
cap. 66.
153 Che non debbano correre buoni rapporti tra i Priori e i Villani lo testimonia il fatto che tra gli
ammoniti tra il 28 aprile 1362 e il 16 gennaio 1363, v’è anche Matteo Villani. Vedi STEFANI, Cronaca
Fiorentina, rubr. 692.
154 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 65. VELLUTI, Cronica, p. 235.
1363
552
La cronaca del Trecento italiano
in Firenze gode di ottima reputazione per le sue «franche operazioni contro il defunto conte
Lando». Non ci vuole molto ad ottenere una convergenza generale sulla scelta e vengono
scelti gli ambasciatori che vadano a Pesaro ad offrire l’ufficio al condottiero. Il trentottenne
Pandolfo prende tempo e, lasciati gli ambasciatori a Pesaro, si reca a conferire con Malatesta il
vecchio e con il giovane. Quando torna, fa richieste così spiacevoli e dishoneste, che gli
ambasciatori non hanno altra scelta che rifiutarle. «Et essendo per mettere i piè nella staffa»,
messer Pandolfo, parzialmente pentito, li fa richiamare, e comunica loro che non intende
venire cone capitano, ma, e per soli due mesi, come amico del comune. Il 15 agosto messer
Pandolfo entra a Firenze con cento uomini a cavallo e cento fanti, «e con grande allegrezza fu
da tutti universalmente ricevuto, parendo a ciascuno essere in viaggio d’honorato fine alla
guerra». Il giorno seguente, vengono nominati due cittadini per quartiere, otto in tutto, gli
Otto di Guerra, con l’incarico di decidere sopra le questioni della guerra. È compito loro
concordare con il nuovo comandante cosa fare; «nelle lunghezze delle parlanze messer
Pandolfo non mostrò cruccio di perdere tempo».155
1363
553
Carlo Ciucciovino
insegne levate, muove la cavalleria verso Porta Santa Croce e San Salvi. Giunto alla porta, la
far serrare, rimanendo dentro le mura, e lasciando i cittadini «sanza rifugio al taglio delle
spade, e in preda de’ nimici, che bene conoscea chi era il popolo e chi gli Inglesi» (vale a dire:
quanto valessero gli uni e gli altri). Non solo, fuori della porta vi è una confusione
indescrivibile, per la gran ressa di coloro che vivono fuori e vogliono entrare per porsi al
riparo, prime tra tutti le «femmine che fuggivano co’ figli in collo». Finalmente, cedendo ai
rimproveri di molti buoni cittadini, Pandolfo acconsente ad aprire una porticina. «Et io
scrittore, - scrive Filippo Villani - che era in quel luogo viddi molti cittadini grandi e da bene,
e a cui era cara la libertà della città, piagnere e lagrimare vedendo il caso pericoloso e
ricordando il tempo del duca d’Atene, e come si fece signore». Molti di questi consigliano ai
Priori di munire il Palazzo della Signoria di balestre grosse e bombarde, per evitare eventuali
colpi di mano di messer Pandolfo. Mentre si è nel trambusto di fornire il palazzo, ai Priori
arriva un esploratore, che informa che gli Inglesi hanno bruciato il campo di Figline, ed
invece di venire a Firenze, hanno preso la via del Chianti. I Priori mandano a comandare a
Pandolfo che apra le porte e faccia tornare le truppe ai loro alloggiamenti. Il Malatesta, «ciò
udito, caduto della speranza, colli occhi bassi e mal volto di tutti, si tornò a casa». I Priori
radunano un gran consiglio, nel quale la cura principale è premunirsi affinchè Pandolfo non
abbia speranza di insignorirsi della città. La guerra con Pisa quasi non esistesse. Messer
Pandolfo riceve rimproveri solenni, e gli viene detto «che stesse dove li paresse alle frontiere a
guerreggiare li nimici, ch’el popolo di Firenze ben saprebbe guardare la città».158 Quanta
acqua è passata sotto i ponti dell’Arno, da quando, nel 1359, messer Pandolfo era «riputato
grande maestro di guerra, e huomo di grande cuore». Ma cosa è successo a Pandolfo da
quando, nel gennaio del ’57, è scampato ad un tentativo di omicidio da parte dell’iracondo
Bernabò? Dopo esser fuggito da Milano, Pandolfo è tornato in famiglia, in Romagna. Ancora
indignato, si è messo in viaggio per Praga, verso la fine di febbraio, convinto che se svelerà
l’infamità del tiranno di Milano, l’imperatore non avrà altra scelta che rimuoverlo dalla carica
di suo vicario. In questo Pandolfo si rivela, al tempo stesso ingenuo e orgoglioso, incapace di
“digerire” un’offesa. Alla corte imperiale di Praga si trova a competere coll’ambasciatore
visconteo Sagremor de Pommiers, che cerca di neutralizzare quanto riferito dal giovane
Malatesta. Carlo IV non dà evidentemente soddisfazione a Pandolfo che si reca alla corte
inglese, da Edoardo III; Sagremor lo segue. Il comportamento del giovane condottiero gli vale
una sfida a duello da parte di Sagremor, che, di fronte al re d’Inghilterra, si pone come
difensore dell’onore visconteo. Pandolfo non ha raccolto la sfida, e Edoardo fa stilare un
documento nel quale condanna i risentimenti di Pandolfo, non appropriati per un cavaliere.
Verso l’autunno il Malatesta ritorna in Italia e si reca a Venezia. Di qui si muove per andare a
servire Firenze contro il conte Lando. All’inizio di settembre del 1361 Pandolfo è a Padova
presso Francesco da Carrara, per assumere la carica di suo capitano di guerra; qui rivede il
Petrarca di cui è grande amico ed ammiratore. Nell’estate del ’62 Pandolfo rimane vedovo
della moglie Lapia Francesca dei conti di Marsciano. Nello stesso anno si risposa con Paola di
Bertoldo Orsini, che gli darà un maschio e due femmine, per lasciarlo nuovamente vedovo nel
’71.159
158 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 73 e AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1363,
vol. 3°.
159 FRANCESCHINI, Malatesta, p. 133-138
1363
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inventandosi false cavalcate nemiche nella terra, e facendo loro pervenire da diverse parti
lettere che lumeggiano gravi pericoli. Ma senza effetto, «che gli Inglesi che s’erano molto
affannati, e bisogno havieno di riposo, e erano caldi di danari, di prigioni e di preda, se ne
feciono beffe. Il perché i Pisani vivevano in gran gelosia».160
160 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 74 e AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1363,
vol. 3°.
161 Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 461-462 e nota 1 in 462;
163 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 158-159; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 160. MANCINI, GIBERTI,
VEGGIANI, Imola nel Medioevo, Vol. I p. 202-203 dice che Bertrando ha congiurato con altri Alidosi: Lippo,
vescovo di Imola e Gentile.
164 MANCINI, GIBERTI, VEGGIANI, Imola nel Medioevo, Vol. I p. 203.
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169 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 75 e AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1363,
vol. 3° p. 286.
170 STONOR SAUNDERS, Hawkwood, p. 78.
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173 LAURA CAVAZZINI, Un’incursione di Bonino da Campione alla corte dei Carraresi, in Arte di corte in Italia del
Nord, p. 44-47.
174 R. BOSSAGLIA, Bonino da Campione, in DBI, vol. 12°
175 Scrive Fernanda de’ Maffei: «la smaliziata statua di Cangrande a Verona (1330 c.), sapida e ardente di
vita, non ha mancato di impressionare l’artista lombardo, che ha invano tentato di riprodurne il
baldanzoso sorriso nel suo S. Alessandro».
176 F. DE’ MAFFEI, Campionesi, in Enciclopedia Universale dell’Arte, III.
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del duomo. Dal 1343, Nino apre bottega a Pisa e qui scolpisce un capolavoro: la Madonna del
latte ed altre belle statue nella chiesa di Santa Maria alla Spina,179 citate da Giorgio Vasari.
La personalità di Nino appare già formata nella tomba dell’arcivescovo di Pisa Simone
Saltarelli, morto nel 1342, nella chiesa di S. Caterina. Qui mostra «autonomia e originalità nei
bassorilievi del basamento che sviluppano una concezione spaziale nuova per la scultura
pisana e non priva di riferimenti a quella senese».
Nel 1349, Nino è capomaestro dell’Opera del duomo di Orvieto, subentrando a suo padre
Andrea, che ha ricoperto questo incarico tra il 1347 e il 1348. Nel 1351 è già in carica il suo
successore, Matteo di Ugolino. A Nino o, più verosimilmente a suo padre Andrea, appartiene
una bellissima Madonna col Bambino che è nel Museo dell’Opera di Orvieto. Morto Andrea,
Nino inizia a lavorare autonomamente e scolpisce un’opera firmata: la Madonna col Bambino
della chiesa di S. Maria Novella a Firenze, che reca la scritta: “HOC OPUS FECIT NINUS
MAG[IST]RI ANDREE DE PISIS”. Questa statua « mostra attenzione a modelli francesi, e si distacca
dal “classicismo gotico” di Andrea e dai modelli giotteschi seguiti dal padre». «Un tratto
evidente e costante del fare artistico di Nino è l’estrema politezza della finitura del marmo,
che testimonia la padronanza di un raffinato magistero tecnico». Una seconda statua firmata è
un Santo Vescovo che è stato scolpito per una chiesa di Oristano e che reca l’iscrizione: “NINUS
MAGI[S]TRI ANDREE DE PISIS ME FECIT”. La critica la attribuisce a un periodo tra gli anni
Quaranta e gli anni Sessanta.
Nel 1358 a Nino ed altri orafi pisani viene affidata una tavola con figure scolpite, con
armi smaltate dell’Opera del duomo di Pisa, ornata con molto argento.180
Nel 1362, Nino ottiene la commissione per la tomba dell’arcivescovo di Pisa Giovanni
Scarlatti. Nell’atto che ci rimane a riguardo Nino è definito «aurifex et magister et sculptor
lapidum». Lo scultore ottiene poi la commissione per il sepolcro Moricotti. Il committente
morirà molto dopo Nino (nel 1395 vs 1368) e la tomba è molto simile a quella Scarlatti, si
ipotizza quindi che Nino vi abbia lavorato subito appena ricevuta la committenza, verso il
1363, e l’abbia completata prima del suo decesso.
Nino scolpisce poi una Annunciazione nella quale pare vi fossero due iscrizioni, oggi
perdute, una con la data: il 1370, e la seconda, sulla base dell’angelo: “QUESTE FIGURE FECE
NINO FIGLIUOLO D’ANDREA PISANO”. Poiché nel 1370 Nino era morto da un paio d’anni, è
ipotizzabile che Giorgio Vasari abbia mal trascritto la data che dovrebbe forse leggersi: 1360.
Comunque, l’Annunciazione è stilisticamente prossima al sepolcro Scarlatti.
Negli anni Sessanta, Nino Pisano esegue il sepolcro per il doge Giovanni dell’Agnello. La
scultura è oggi perduta, ma ne rimane forse un Cristo che è simile a quello del sepolcro
Scarlatti. Forse alcune statue che ornano il sepolcro del doge veneziano Marco Cornaro,
morto nel gennaio 1368, sono riferibili a questa tomba dell’Agnello, perché una di esse ha
un’iscrizione che la riferisce a Nino Pisano.
Nino risulta ancora in vita nel giugno 1366. Muore, probabilmente a Pisa, prima del 5
dicembre 1368.
Viene attribuita a Nino la Madonna annunciata del Louvre, «di altissima qualità,
capolavoro della produzione lignea italiana, nella quale spiccano i legami di Nino con la
scultura francese».181
179 Una Madonna col Bambino (Madonna della Rosa) e un S. Giovanni Battista e S. Pietro.
180 Gli orafi sono Coscio del fu Gaddo e Simone detto Baschiera.
181 ROBERTO PAOLO NOVELLO, Nino Pisano, in DBI vol. 78°.
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raffigura la vittoria senese contro la Compania del Cappelletto. L’affresco è datato e firmato.
Di fianco, Lippo dipinge San Paolo e sette Virtù.182
Dal 1361, ma forse da metà secolo, è a Genova Barnaba da Modena e vi rimarrà fino al
1383. Egli diviene la figura dominante in Liguria in questa parte di secolo e influenza sia
alcuni pittori locali, come Nicolò da Voltri, sia anche pittori provenienti da altre parti della
penisola, come Taddeo di Bartolo, che è qui da molti anni. In Liguria esistono senz’altro
anche notevoli figure artistiche, ma non ci sono pervenute né notizie documentarie, né
sufficienti opere per consentirci una valutazione di prima mano; tra questi Giovanni Re,
proveniente da Rapallo, che deve essere stato molto stimato, infatti gli è stata affidata la
decorazione del palazzo ducale a Genova e molti altri lavori, sia a levante che a ponente. Egli
è documentato dal 1348 al 1367. Barnaba matura qui il suo linguaggio artistico e tra le prime
opere note vi è una Madonna con Bambino firmata e datata in Genova 1367.183
Prima del 1364, un anonimo pittore affresca il palazzo comunale di Udine raffigurandovi
scene del ciclo di re Artù. Sulla parete si assiste ad una scena di combattimento
contemporanea, con cavalieri in armatura, lance e spade brandite. Il colore e la tecnica
richiamano le decorazioni araldiche sottolineando gli ideali cavallereschi che hanno ispirato
l’opera.
Un notevole pittore, del quale purtroppo sappiamo molto poco, è il Pace da Faenza di
Giorgio Vasari,184 o Pace di Bartolo. Abbiamo su notizie tra il 1344 e il 1367 ed è «una
personalità in possesso di una complessa cultura, certamente a conoscenza di esempi di
pittura monumentale nordica forse attraverso un incontro con maestranze transalpine». La
sua principale opera sono gli affreschi nella controfacciata della cappella di San Giorgio in
Santa Chiara d’Assisi, forse del 1348. Filippo Todini in proposito scrive: «Nella scena di San
Giorgio e la principessa colpisce il tono di siglata eleganza che infonde all’immagine un valore
astratto di un simbolo araldico. L’allungata figura della giovane dama con le vesti sontuose
tempestate di borchie d’argento, ha riscontro solo nella miniatura francese e in alcuni aspetti
della pittura lombarda del tardo Trecento, come i cicli di Lentate o di Albizzate. Di estremo
interesse è quindi la datazione di questi dipinti verso la metà del secolo, che permette di
riconoscere in Pace di Bartolo un geniale precursore del gusto tardogotico».185 Si ravvisa
l’inizio della sua geniale opera in un paliotto che, a Gubbio, viene commissionato dalla
famiglia Pamphilj ed è datato 1343, questa opera non ha nulla a che vedere con le opere che si
stanno dipingendo a Gubbio in questi anni, mentre invece mostra affinità con il linguaggio di
Pace, che mostra di riferirsi alla miniatura francese. Dopo la metà del secolo, Pace viene
influenzato dall’arte senese, come mostra una sua piccola ancona con Cristo in Pietà, negli
affreschi per la Confraternita di San Cristoforo e nel Tabernacolo di vicolo Santo Stefano del
1363. Nel 1368 Pace affresca la tomba del cardinale Albornoz nella cappella di Santa Caterina
in San Francesco d’Assisi e forse collabora con Andrea de’ Bartoli. L’anno precedente il pittore
è stato pagato per aver raffigurato il papa Urbano V su alcune delle nuove porte cittadine di
Assisi.186
182 G. CHELAZZI DINI, Lippo Vanni, in Enciclopedia dell’Arte medievale; C. RANUCCI, Lippo di Vanni, in DBI,
vol. 65°.
183 ROSSETTI BREZZI, Pittura ligure, p. 37.
184 Il Vasari lo dichiara discepolo di Giotto e gli attribuisce la perduta decorazione della cappella di
Sant’Antonio abate in San Francesco, eseguita dopo il 1360. Giorgio Vasari fa un poco di confusione,
perché confonde questo pittore con un altro, allievo di Gherardo Starnina, mette ordine nell’argomento
STEFANO L'OCCASO, nella voce Pace di Ottone di Faenza, in DBI, vol. 80°.
185 TODINI, Pittura in Umbria, p. 407-408.
186 TODINI, Pittura in Umbria, p. 408. Su questo artista si veda anche la scheda biografica a cura di ELVIO
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La cronaca del Trecento italiano
Nel 1363 il pittore Francesco da Pisa riceve l’incarico di dipingere un polittico per la
chiesa di Santa Caterina di Pisa. Questa opera è attualmente nella collezione Cini di
Venezia.187
Nella Certosa di Val-de-Grace viene elevato il monumento funebre a papa Innocenzo VI
e questa è probabilmente la tomba meglio conservata di tutte quelle del Trecento ad
Avignone. La testa del papa è stata però ampiamente restaurata e non si può giurare che sia
simile all’originale. Sulla statua del papa che giace sul sarcofago vegliano le statue in piedi di
Gesù e dei Santi Pietro e Paolo.188
Il Maestro di Montiglio affresca la Magna aula del Castello di Quart. Di questa impresa
rimangono solo frammenti che comunque permettono l’attribuzione a questo artista.189
319.
190 Nicolaus de Senis me pinxit.
192 Senili, I, 5.
1363
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Carlo Ciucciovino
Boccaccio che è vicino. Probabilmente nella seconda metà di marzo o in aprile, l’autore del
Decamerone, raggiunge il suo amico a Venezia. I due amici trascorrono allegramente il tempo
insieme, approfittando anche della benevolenza di Benintendi Ravagnani, che, spesso, li
conduce a visitare la bellissima città nella sua gondola. Il poeta del Canzoniere ospita anche un
amico del Boccaccio, Leonzio Pilato, il quale sta traducendo l’Iliade e l’Odissea dal greco al
latino. Leonzio è un individuo sgradevole ma è il mezzo tramite il quale Giovanni e
Francesco, che non conoscono il greco,193 potranno finalmente gustare i due capolavori
immortali. Non tutte le novità sono però liete, in poco lasso di tempo, arrivano ferali notizie:
sono morti Lelio (Lello di Pietro Stefano dei Tosetti), Barbato da Sulmona e Francesco Nelli (il
Simonide di Petrarca). Nel frattempo, lo sgarbato Leonzio è tornato sgarbatamente a
Costantinopoli, lanciando ingiurie all’Italia e disprezzando gli Italiani. Quando però Leonzio
prende contatto con la realtà greca, scrive a Petrarca di richiamarlo, disprezzando i Greci ed
elogiando, ora, gli Italiani. Francesco lo ignora.194
Dopo tre mesi di permanenza presso il suo amico, Boccaccio, che non stima i
Veneziani,195 parte e, a luglio, torna alla sua Certaldo. Nella prima decina di ottobre Petrarca
parte per Padova e, infine, per Pavia, dove è ospite di Galeazzo Visconti. A Pavia egli avrà
probabilmente ricevuto la visita di sua figlia Francesca, della sua nipotina Eletta e di
Francescuolo da Brossano, genero del poeta. Quando, a dicembre, Francesco rientra a Venezia
la trova sconvolta e turbata per la ribellione di Creta e per la recrudescenza della peste. A
Venezia il poeta riceve l’invito di Roberto di Battifolle, dei conti Guidi.196
§ 64. Musica
Dal 1358 è in Italia, al seguito del cardinale Egidio Albornoz, un Vallone, Johannes
Ciconia, nato a Liegi verso il 1335. Johannes sarà il massimo artefice della transizione alla
maniera musicale del Quattrocento in terra fiamminga. Sempre che si tratti della stessa
persona: infatti questa è una delle figure musicali più controverse della musica medievale, in
quanto le opere che ci sono pervenute sono tutte relative alla permanenza di Johannes alla
corte dei da Carrara e vi è chi sostiene che non si tratti della stessa persona. Comunque,
questo Johannes Ciconia nel 1350 è ad Avignone al servizio di Alienor de Commiges-
Turenne, nipote di papa Clemente VI. Qui viene educato. Lo troviamo poi appunto al servizio
di Gil Albornoz. Nel 1362 viene ordinato sacerdote e gli viene assegnata una prebenda a
Liegi, nel collegio dove ha ricevuto la prima educazione. Nel 1400 va al servizio dei da
Carrara, a Padova, sempre che sia la stessa persona e non suo figlio.197
193 In realtà Boccaccio qualche rudimento di greco lo ha appreso, ma non tale da consertigli di gustare
Omero senza sforzo. Userà il suo greco per cercare di migliorare il latino di Leonzio nella traduzione.
194 Leonzio Pilato si imbarcherà finalmente per l’Italia, ma, giunto nell’Adriatico, un fulmine incendierà
la nave che lo trasporta e lui annegherà. BRANCA, Boccaccio, profilo biografico, p. 151 ; MARCHI, Boccaccio, p.
240.
195 Si legga MARCHI, Boccaccio, p. 242-247.
196 HATCH WILKINS, Petrarca, p. 225-230; ARIANI, Petrarca, p. 56; DOTTI, Petrarca, p. 369-374; BRANCA,
BACCO, JOHN NÁDAS, MARGARET BENT AND DAVID FALLOWS, Ciconia, Johannes, in The New Grove Dictionary
of Music and Musicians, 2nd Edition. London: Macmillan, 2001.
1363
562
CRONACA DELL’ANNO 1364
Mesier Francesco da Carrara se ligò col dicto patriarcha fin a anni tri
contra dusi de Ostorico.3
condividere il suo letto, nonostante l’evidente pericolo che correvo e la profonda amarezza
del mio animo. Sennonché accadde recentemente, al cambiare dell’attuale luna, che
improvvisamente, un mattino, come folle e digrignando i denti, si mise a gridare che
intendeva essere il padrone e il riformatore generale della giustizia del regno - come ricordo
di avervi scritto - e prendere i provvedimenti che gli pareva, a spregio della mia persona, e
che gli facessi sottoporre una relazione su tutte le pensioni e i diritti vigenti, perché voleva
sapere tutto. Aderii per tema che la sua follia crescesse e ordinai, per contentarlo e contro il
consiglio che mi si dava, di fargli avere la detta relazione. Ma, abusando delle mie buone
intenzioni, e della mia compiacenza, egli divenne più arrogante e pretese che tutti i
beneficiarii di qualsiasi graziosa concessione, dal tempo di messere […] di felice memoria a
tutt’oggi, ne venissero immediatamente privati. Gli risposi con calma, costringendomi col
freno della pazienza, pregandolo di volersi contentare del suo onorevole stato e del mio
affetto, poiché non doveva venir meno alle promesse fatte quando venne convenuto il nostro
matrimonio, e convalidate da un atto della Sede Apostolica; egli non doveva indignarsi che io
non osassi contravvenire al testo dell’atto pontificio. Sopportando con impazienza la mia
risposta, ribatté replicando ciò che aveva spesso proclamato pubblicamente, e cioè che, se
avesse potuto divenire il padrone, non vi avrebbe rinunciato né per il papa né per la Chiesa (e
qui aggiungendo gesti di spregio) dato che non pensava nemmeno ad obbedire loro. Lo
consigliai a non parlare in tal modo in pubblico, al che si volse verso di me, dicendo che lo
avrebbe mostrato chiaramente. Gli domandai che cosa avrebbe osato fare, e rispose che
avrebbe preso a coltellate anche il corpo di Cristo.
Certo è, mio venerabile Padre e Signore, che egli aveva già dettate cinquanta lettere di
donazione ai suoi familiari, di 3.000, 2.000, 1.000 fiorini o più o meno, da riscuotere
annualmente sui suoi diritti reali. E che lanciandomisi impetuosamente contro, mi prese per
un braccio alla presenza di vari testimoni, cui parve persino che dovessi cadere a terra.
Sebbene fossero in molti e mordessero il freno per l’ingiuria che mi veniva fatta, affinchè non
dovesse accadere nulla di più grave, ordinai che nessuno si azzardasse a muoversi, lasciando
intendere che non lo faceva per malanimo, ma per scherzo e che non aveva creduto di darmi
uno strappone tanto violento. Ma egli si volse a me lasciandosi andare a una serqua di insulti
diffamatori per la mia reputazione, dicendo a voce alta che avevo ucciso mio marito, che ero
una cortigiana da pochi soldi, che tenevo presso di me dei mezzani che, nottetempo,
introducevano da me gli uomini e che egli se ne sarebbe vendicato in maniera esemplare…
Quando mi resi conto che simili cose non potevano essere tenute segrete, e che in tutta la città
facevano le spese delle conversazioni, subito l’illustre imperatore di Costantinopoli, principe
d’Acaia e di Taranto, mandò a tenermi compagnia per quella notte sua moglie e la sorella
duchessa d’Andria. Esse dormirono meco nella stessa camera, dimostrandomi molta
premura, pensando che la crisi di follia di mio marito sarebbe passata, ma il mattino
successivo lo si trovò in peggiori condizioni. Cosicché la sera stessa il predetto imperatore
venne da me personalmente, insieme con mia sorella la moglie di messere Filippo di Taranto
e con buon numero di gente d’armi, non per abbandonarsi ad azioni sconvenienti, sibbene
per frenare l’audacia dei familiari del re […] qualora questi si fossero temerariamente lasciati
andare a qualche insolenza. Codesti principi e il mio consiglio discussero allora in mia
presenza sulla condotta da tenere, sia per la mia sicurezza che per l’onore del mio nome. Si
tenne conto diligentemente e soprattutto, fra l’altro, del fatto che le insanie che egli
commettesse potevano provenire - e ciò a sua scusante - dagli accessi di follia conseguenti
improvvisamente ad intervalli lucidi, fin tanto che egli non acquistasse il giusto e libero uso
del proprio senno, cosicché la decisione da prendere era dubbia, stante l’incertezza sulle ore
del giorno o della notte in cui si potevano avere quegli intervalli lucidi. Alla fine venne deciso
[…] che il mio signor marito ed io non ci trovassimo mai soli in un letto o in una camera […]
finché non si potesse esaurientemente definire ciò che fosse da fare per la salvezza della mia
persona […]. Da parte mia, di giorno e in ore convenienti, mi reco dalla mia camera alla sua,
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La cronaca del Trecento italiano
apertamente, con l’opportuno seguito, per confortarlo, rivederlo, e rendergli tutti gli onori, a
volte con doni confidenziali». La risposta di Urbano V è di circostanza, e, d’altronde non si
vede cosa egli avrebbe potuto fare: è evidente dal testo della lettera che Giovanna ha
rinunciato per sempre al bel Giacomo.4
Le vicissitudini di Giovanna e Giacomo non sono l’unico ghiotto elemento di scandalo
alla corte napoletana. Mentre Giovanna è in attesa di un erede, la successione per ora spetta a
Maria, che, dice Léonard, «metteva nel perseguire il potere una pervicacia pari a quella della
regina nel riconquistarlo e conservarlo». Da qui, brighe continue a corte. Dal suo terzo marito,
Filippo di Taranto, Maria ha tre figlie, Giovanna, che sicuramente è donna di gran carattere,
Agnese, che, il 6 giugno 1363 è andata sposa a Cansignorio della Scala, e Margherita. Poiché
nell’estate del ’63 è morta la moglie di Federico IV d’Aragona, la regina Giovanna vorrebbe
che sua nipote Giovanna sposasse il re di Sicilia, per poter finalmente troncare la questione
isolana. Ma questa rifiuta, si è infatti innamorata del bel giovane che il cardinale di Boulogne
le ha proposto: suo nipote Aimone di Ginevra, fratello del vescovo di Therouanne, il futuro
Clemente VII. Il 15 dicembre 1363 Aimone è giunto alla corte napoletana, molto ben accolto
da tutti, specie da Giovanna di Durazzo, che ha voluto ballare con lui, senza dargli tempo di
cambiarsi gli stivali e togliere gli speroni. I due giovani non si tolgono più lo sguardo di
dosso, e la questione siciliana, di colpo, si complica. I due innamorati hanno contro la regina
Giovanna, Nicola Acciaiuoli, e tutta la nobiltà, e, probabilmente la stessa opinione pubblica.
Anche il pontefice ha scritto lettere nelle quali si approva solo il matrimonio col re di Sicilia, e
se ne deplora qualsiasi altro. Giovanna però ha respinto la proposta di matrimonio ed è stata
messa agli arresti nei suoi appartamenti, senza poter partecipare alle celebrazioni, né
religiose, né laiche, del Santo Natale. Ora, all’inizio di gennaio, mentre esplode lo scandalo
della crisi matrimoniale tra Giovanna e Giacomo, Aimone, col cuore spezzato è costretto a
lasciare Napoli. Qualche speranza all’orizzonte però si profila, infatti l’accordo matrimoniale
tra Aragona e Taranto era fortemente sostenuto dal cardinale Périgord, il grande amico di
Egidio Albornoz, e il 17 gennaio il cardinale è morto. Il 27 gennaio Urbano V, invita la regina
Giovanna a liberare la nipote e consentirle di esprimere apertamente i suoi desideri.5
Non sono certamente gli scandali che mancano alla corte partenopea, uno di questi dà
motivi di conversazione pruriginosa ai cortigiani; due patrizi rapiscono Mattiella, la
bellissima moglie di un Fiorentino residente a Napoli, Neri di Buttino. La legge, con la dovuta
lentezza, procede e dà tutto il tempo ai mascalzoni di godersi l’avvenente signora, quindi,
dopo aver esaurito la loro passione, la restituiscono al marito e ne ottengono il perdono. La
regina Giovanna, a sua volta, alla fine di febbraio concede loro l’indulto.6
In questo periodo di tempo si colloca un aneddoto sulla cavalleria che testimonia il
prestigio di cui gode l’avvenente regina di Napoli. Un cavaliere, il nobile Galeazzo di
Mantova, riconoscente per essere stato invitato ad una ballo della regina a Gaeta, si
inginocchia e le promette che le condurrà due valenti cavalieri vinti in duello. Qualche tempo
dopo, si presenta alla sua corte il nobile Galeazzo che conduce effettivamente due cavalieri e
glieli dona, soddisfacendo il proprio voto. Giovanna accetta con grazia l’omaggio e libera i
cavalieri, sperando che diffondano la fama della sua cortesia e clemenza, invitandoli a
rimanere nel regno a visitarne le bellezze per tutto il tempo che vogliano.7 Il felice momento
vissuto dalla regina Giovanna e il suo prestigio presso i suoi sudditi è testimoniato da
Antonio di Buccio, che scrive: «Dallu tempo che nostro Rene Carlo primo Rene fosse,/ […]
4 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 511-515. Quanto Giacomo sia estraneo ai sudditi del regno è
testimoniato dai versi di ANTONIO DI BUCCIO, Delle cose dell’Aquila, col. 714-715.
5 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 515-518; TOCCO, Niccolò Acciaiuoli, p. 275-276; UGURGIERI DELLA
BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 273-274. Solo un cenno in CAMERA, Elucubrazioni storico diplomatiche,p. 254.
6 CAMERA, Elucubrazioni storico diplomatiche,p. 251.
7 MOORE, Joanna of Sicily, p. 49-52, basato su quanto narra Costanzo nella sua Storia di Napoli. Anche
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Melliore signoria che lla soa non fone;/ Dalla Regina de Oriente in poi paro non trovone./
Tutte le soe vertute non poczo recontare,/ Che fora longa storia, se non avesse de autro a
parlare».8
Fiorentini accorrono ad Altopascio ed inviano il guanto della battaglia agli Inglesi che lo accettano e si
dispongono a battaglia in 3 schiere. Allora e’ Fiorentini vegiendo venire i Pisani così schierati non volsero
battaglia co’ loro e ritornorsi indietro. Cronache senesi, p. 605. Monumenta Pisana; col. 1040 e MARANGONE,
Croniche di Pisa, col. 729.
11 Cronache senesi, p. 605. E questo fu di genaio 1363 (ricordiamoci che l’anno per Siena e Firenze si
conclude a Pasqua). Monumenta Pisana; col. 1040 e MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 729.
12 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 37; RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 187-188.
13 Le quali reliquie recoro in Pisa con grande divozione. Monumenta Pisana; col. 1040.
14 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 39; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1363, vol.
3°, p. 268.
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scalare le mura, ma, in quel momento, un incaricato della sorveglianza sulle guardie, scopre i
cadaveri e lancia l'allarme, mettendo in fuga i poco decisi Pisani.15
Templo.
18 Il cui cognome è sconosciuto.
20 Filippini, desumendo la data da una lettera dell’Albornoz, dice che l’ingresso è avvenuto il 7 febbraio,
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privazioni si sia allontanato per sempre. «Ma non fu libera pace», scrive Filippo Villani,
significando che di armistizio si tratta e non di pace definitiva, in attesa che vi aderiscano gli
altri partecipanti alla Lega. L’adesione avverrà il 3 marzo prossimo. Lunedì 22 fra' Daniele
rimette il suo incarico nelle mani di Androino di Cluny, che prende su di sé sia la legazione di
Romagna che il rettorato di Bologna. Nelle mani di messer Androino giurano gli Anziani e il
podestà. Il 27 Daniele parte ed il 28 Androino conduce i soldati a prender possesso delle
fortezze che Bernabò gli deve restituire. Tutti i mercenari vengono liquidati, con grosso
esborso di denari.21 «In questo anno fu un gran gelo e un forte inverno di neve, e di ghiacci,
che durò più di due mesi e mezzo... Incominciò innanzi Natale. […] A dì primo di febbraio
tirarono due grandissimi tremuoti, e fu tenuto gran fatto».22
L'arcivescovo di Creta, Almerico, vescovo di Bologna e il cancelliere del re di Cipro sono
coloro che, prendendo in consegna i castelli che i Viscontei restituiscono, accolgono il
giuramento di fedeltà dei relativi castellani. Castelfranco, Crevalcore, Piumazzo, il giorno di
Sant'Agata (5 febbraio) entra in Bologna Androino.23
I prigionieri delle due parti vengono liberati, ma non il povero Giovanni Bizozero che è
morto in cattività. I prigionieri liberati arrivano a Bologna domenica 31 marzo, mentre
Anbrogiolo Visconti vi arriva il 3 aprile e di qui si dirige verso Milano.24
La cruciale questione del possesso di Lugo viene affidata al giudizio di Androino;
Bernabò rinuncerà ai suoi diritti su Bologna solo dopo aver ricevuto il pagamento completo
concordato, cioè mezzo milione di fiorini d’oro, in otto rate annuali e, qualora Androino
venisse richiamato ad Avignone prima degli otto anni, tutti i castelli dovrebbero essere
restituiti al signore visconteo. «Il signore di Milano rimaneva ancora, virtualmente, il “vicario
di Bologna”, secondo la lettera di concessione data da Clemente VI a Giovanni Visconti, anzi
prolungava il termine del vicariato per otto anni, senza computare il tempo già trascorso».25
Un risultato che è la sconfessione completa di quanto operato dal bravo e leale Gil Albornoz.
Il cardinale spagnolo si rivela ancora una volta di una lealtà a tutta prova, inviando
prontamente a Bologna tutti i prigionieri fatti nella battaglia della bastia di Solara, incluso
Ambrogio Visconti.
Quasi in concomitanza con la pace, con lettera di Nicolò Spinelli, scritta il 26 febbraio, ma
pervenutagli il 13 marzo, Egidio apprende l’intenzione pontificia di liberarsi della sua
ingombrante presenza in Romagna, nominandolo Legato nel regno di Napoli.26
Bernabò Visconti, valuta eccessivo il numero di fortezze che costellano la Lombardia e
che, conquistate da qualcuno dei suoi avversari, potrebbero minacciare il cuore stesso del
Milanese, pertanto ordina che alcune di queste vengano demolite: Colorna nel Parmigiano,
Robecco e Scandalaria nel Cremonese, Gua e Gavardo nel Bresciano, Martinengo nel
Bergamasco e molte altre «nel contato de Milano, maximamente in Gera d’Adda».27
Tiraboschi si diffonde sul miserevole stato di Reggio, desolato da trenta anni di guerra e
sventure, molte sono le case diroccate, i campi incolti e la popolazione è vessata da tasse
esose. Non diversa è la situazione di Modena.28
21 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 175-183; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 175-178; Rerum Bononiensis,
Cr. Vill., p. 175-183; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 175-180; FILIPPINI, Albornoz, p. 335-340; POGGIALI,
Piacenza, VI, p. 343.
22 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 184; Annales Mediolanenses, col. 734.
24 GIULINI, Milano, lib. LXIX, anno 1364; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 190; Rerum Bononiensis, Cronaca
B, p. 178; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 190; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 181.
25 FILIPPINI, Albornoz, p. 341.
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§ 4. Montepulciano
Ai primi di gennaio, Giovanni d’Agnolino Bottoni, a capo di una folta schiera d’armati, si
impadronisce di Montepulciano, governata da messer Niccolò dei Cavalieri del Pecora.
Giovanni corre la città e, grazie a Santi d'Agnolino Bottoni ed ai suoi congiunti, caccia Nicolò
dalla città. Niccolò, sprovvisto di tutto, si rifugia a Perugia, dove spera di trovare soccorso
perché l'azione ostile è contraria ai patti di pace tra Siena e Perugia, ma i Perugini, «per non
ricominciare guerra passarono la vergogna a chiusi occhi».29
§ 7. Orvieto
Dal 23 dicembre ’63, Aliotto della Valle è vicario di Orvieto per Gil Albornoz. Il 4 gennaio
Pietro Beati da Bologna, cancelliere del comune di Orvieto e noto umanista, scrive che la
terribile peste ha tanto martoriato la città, che ben un quarto dei consiglieri è morto. Si forma
un nuovo consiglio composto da 60 cittadini del quartiere di Pusterla, quello dove sorgerà la
rocca, 31 di Santa Pace, 27 dei Santi Giovanni e Giovenale e 42 di Serancia. La città però versa
in condizioni disastrose, pochi cittadini, un'economia depressa, il morale bassissimo. Si tenta
di fare qualcosa dedicandosi a coltivare lo zafferano, una spezia costosa perché rara.32
Nella prima parte dell'anno la Compagnia del Cappelletto si insedia a Castel Giove e, di
qui, scaglia continue incursioni sul territorio, facendo tremare gli scarsissimi - e male armati -
difensori del castello di Lugnano. Qui vengono inviati in soccorso da Orvieto, Monaldo di
Rigo e Cola della Nina, Orvietani, con i balestrieri del comune. Mentre Turco d'Assisi con i
suoi militi, si unisce con un contingente di soldati del Patrimonio, condotti da Vecchiuzzo da
Firenze, Surro da Montefalco e Mattiolo da Trevi, e con Benedetto dei Pepoli, inviato dal
legato pontificio, per cercare di costituire una forza di dissuasione contro i mercenari. L'8
aprile i Sette nominano il nuovo responsabile della fabbrica del Duomo, Paolo di Antonio da
Siena, scultore.33
Benedetto e Berardo di Corrado Monaldeschi della Cervara, che il legato, come tutti gli
altri nobili, ha espulsi da Orvieto, si sono ritirati nella Cervara, un loro castello posto vicino a
Bagnorea. Ma il bando non è eguale per tutti, infatti quelli della parte Malcorina e di quella
Beffata, sono rimasti in città. Allora i gelosi Cervara inviano in Orvieto un loro emissario,
messer Francesco Bindo, huomo astuto et di mala sorte, a intessere accordi contro i Malcorini.
Bindo è stato loro raccomandato dal conte Nicola Orsini di Pitigliano, parente dei
29 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 77; CARNIANI, I Salimbeni, p. 227-228.
30 Per dettagli: GRASSI, Storia di Asti, vol. II, p. 45; SANGIORGIO, Monferrato, p. 194. Anche SANGIORGIO,
Monferrato, p. 195.-198 che riporta l’atto di permutazione.
31 Cronache senesi, p. 605.
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Monaldeschi.34 Quando Gomez Albornoz si reca nel regno per la regina Giovanna, conduce
con sé Petruccio di Pepo Monaldeschi, della parte del Cane, «huomo di gran prodezza e
valore, con una banda di cavalli e fanti de sua fattione Malcorina».35
Il cardinale Albornoz, oltre alle potenti rocche di Narni, Orvieto e Spoleto, si occupa di
far fortificare anche località minori. Nel 1364 Blasco Fernando di Belviso è occupato a dirigere
la fortificazione di Piediluco. Il comune di Rieti concorre alle spese della costruzione.36
37 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 79; TREASE, The Condottieri, p.41-54 e MANNI, Giovanni
Acuto, col. 634. Sui vantaggi concessi agli Inglesi, si veda AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1364,
vol. 3°, p. 287.
38 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 80.
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li venti freddi fu grosso, e a passare per li cavalli quasi impossibile, e massimamente in certi
pendenti di vie che non si potieno schifare». Ma questa è per l'appunto la diversità degli
Inglesi, che «in prima essi havieno la consuetudine di guerreggiare così di verno come di
state, che a' Romani di cui è scritto : "Fortia agere et pati, Romanum "che in volgare suona :
"Forti cose fare e patire, romana cosa è». Tuttavia, gli Inglesi «tutti giovani, e per la maggior
parte nati e cresciuti nelle lunghe guerre tra' Franceschi e Inglesi, caldi e vogliosi, usi alli
homicidi e alle rapine, erano correnti al ferro, poco havendo loro persone in calere».
Gli Inglesi combattono il castello di Vinci, ma trovano dei difensori «con franco animo e
fronte senza paura», molti dei mercenari vengono uccisi e in numero ancor maggiore feriti,
«sanza altro acquistare che onta e vergogna». Per ben due volte pensano allora di rivalersi su
Carmignano, dove però trovano la medesima, se non peggiore accoglienza: delusi si volgono
verso Montale, sopra Montemurlo, volendo valicare per Valmarina in Mugello. Ma vi trovano
1.500 pedoni de' paesani e del Mugello che s'erano ai passi recati e loro, con allegrezza, aspettavano.
Gli Inglesi valutano la situazione, certamente non allegra: passare forse si può, ma con sicure
perdite e probabilmente ingenti, e, una volta valicato, si sa che tutto è stato portato dentro le
fortezze, per cui non c'è da aspettarsi né cibo né bottino senza sanguinosi assalti. Decidono
quindi di tornare sui loro passi, per il passo di Serravalle verso Pistoia, Montecatini e Pisa. ma
anche questo percorso non è indolore, e dai contadini e dai soldati che li attendono a
Serravalle, e dai Pistoiesi accorsi, vengono combattuti e debbono subire perdite. Il bilancio
dell'impresa è disastroso: di Inglesi «tra morti e presi nella detta cavalcata si trovarono assai
più di trecento […] li prigioni ch'havieno havuto a Vinci sulle letta non passarono li quindici,
né li morti cinque. La preda che feciono, a pena gli pote' nutricare nelli giorni che stettono non
arsono casa, molti de' loro cavalli perderono per lo gran disagio, e freddo soffersono,
nevicando loro addosso il dì e la notte. Il perché tornati a loro stallo molti huomini se ne
morirono, e così ,a poco a poco, si logoravano gli Inglesi».39
39 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 81; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1364, vol.
Cr. Vill., p. 185-187; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 179-180. Domus Carrarensis, p. 118-119; VERCI, Storia
della Marca Trevigiana, tomo XV, p. 59-60; CORTUSIO, Additamenta ad Historiam, col. 974 per l’itinerario del
cardinale.
42 Chronicon Estense, col. 486-487.
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Un mese prima della pace con i Visconti, l’imperatore Carlo IV ha rinnovato ai marchesi
Lupi l’investitura di Soragna e di Castione.43
III, p. 182-183.
46 D’ORVILLE JEAN, Chronique de Savoie, p. 198-199 ; PARADIN, Chronique de Savoye, p. 238; CIBRARIO, Savoia,
III, p. 187-188; COGNASSO, Conte Verde*Conte Rosso, p. 121-122. Si veda MULETTI, Saluzzo, Tomo IV, p. 60
per una possibile origine della scritta e del collare, spiegazione ritenuta molto debole da Muletti stesso.
47 PALADILHE, Les papes d’Avignon, p. 222. OKEY, The Story of Avignon, p. 161 ricorda che il papa è costretto
49 In verità, qualche difficoltà esiste ancora, poiché Galeazzo Visconti si rifiuta di firmare la pace,
affermando speciosamente di non aver partecipato al conflitto. Notizia in FILIPPINI, Albornoz, p. 346, che
riporta una lettera di Urbano V ad Androino, datata 13 marzo. I negoziati sono durati per tutto febbraio
ed uno dei nodi da sciogliere è stato includere nel trattato di pace i Gonzaga che non hanno mai aderito
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qualche gustoso sarcasmo da parte viscontea: è infatti trascorso un anno esatto da quando
Urbano V ha pubblicato il processo contro Bernabò Visconti, e questi esce dal conflitto né
scomunicato, né sconfitto. Bernabò deve rinunciare a tutti i castelli del Bolognese, e riceverà
in cambio 500.000 fiorini, suddivisi in rate annuali, in otto anni, con il primo pagamento
dall’aprile ‘64. Se, per qualche ragione, una rata non venisse pagata, dopo un mese dalla
scadenza tutti i castelli dovranno essere restituiti al Visconti. Analogamente per le fortezze
del Modenese. Fino al pagamento dell’ultima rata, Bernabò ha diritti di vicariato su Bologna.
È compito di Androino decidere di chi è il possesso di Lugo. Queste clausole sono
evidentemente favorevoli al tiranno milanese, è quindi comprensibile l’avversione del
cardinale Egidio Albornoz, che vede messi a rischio tutti gli sforzi ed i sacrifici sopportati
sotto la sua guida. Inoltre le clausole hanno un codicillo importante: se Androino dovesse
esser richiamato ad Avignone prima degli otto anni, tutti i castelli dovranno essere restituiti a
Bernabò. Bologna non è completamente soddisfatta perché il marchese d'Este ha
irragionevolmente preteso il possesso di due fortezze bolognesi, Bazzano e Nonantola. Ma il
ritorno alla pace non è senza problemi, specie perché la guerra le privazioni e la peste hanno
aperto grandi vuoti nella popolazione e il comune di Bologna in aprile emette una grida,
esortando i contadini a ritornare dalle loro famiglie, pena una multa di 40 bolognini, e i
Bolognesi a rientrare in città. Non solo, ma si provvede ad incentivare l'immigrazione dei
forestieri, concedendo esenzioni fiscali per cinque anni a chi decida di stabilirsi a Bologna o
nel suo contado.50
Il 13 marzo, Egidio Albornoz riceve una pessima notizia, una lettera del 26 febbraio,
speditagli da Avignone dal suo amico e fiduciario, Spinelli, gli comunica che lo si vuole
nominare legato nel Regno di Napoli, con l’ovvio obiettivo di toglierlo di mezzo dalla
Romagna. Egidio scrive immediatamente al pontefice chiedendo di esonerarlo da questo
incarico e richiamarlo ad Avignone, oppure di aggiungere alla legazione di Napoli quella
della Tuscia e la conferma di quella di Romagna.51 Come se le amarezze per l’intrepido
cardinale non bastassero, vi si aggiunge anche il rifiuto di Bernabò alla nomina di Enrico di
Sessa, cancelliere di Gil e vescovo di Ascoli, al vescovado di Brescia.52 Il 20 marzo il nuovo
legato si reca a visitare il precedente. Androino viene onorato, ma quanto sinceramente ci
possiamo immaginare; comunque, accompagnato da ambasciatori estensi e lombardi,
Androino di Cluny si trattiene presso Egidio fino alla fine di marzo. Il 25 marzo si elimina la
guardia dalle mura di Bologna e l'ultimo giorno di marzo, domenica, avviene lo scambio dei
prigionieri. La fortezza di Santa Maria al Monte viene distrutta. Il 9 aprile il vecchio
Malatesta, accompagnato da messer Galeotto, viene a visitare Androino. Per modeste somme
(9 lire di bolognini) vengono ribanditi gli esiliati per debiti del comune di Bologna. 53
La peste in primavera può dirsi completamente passata anche dalla Marca Trevigiana.
Per ripopolare le città di Padova e Belluno, Francesco da Carrara ordina di riammettere i
cittadini banditi.54
apertamente alla lega, perciò alla loro inclusione nel trattato di pace si oppongono Bernabò e
Cansignorio. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo XV, p. 61.
50 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 187-190; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 187-190; Rerum Bononiensis,
Cr.Bolog., p. 177-178; FILIPPINI, Albornoz, p. 340-344; Chronicon Estense, col. 487; VERCI, Storia della Marca
Trevigiana, tomo XV, p. 61-62.
51 FILIPPINI, Albornoz, p. 344 e 352-353.
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consegnato ai Perugini che ne hanno preso tale esemplare vendetta. Simile fine tocca anche a
quel Tanuccio che è fuggito dalla prigione di Gubbio e, catturato a Montone, è stato condotto
a Perugia.55
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qualora si scelga la pace. Quindi si alza a parlare l'amministratore del comune, Spinello della
Camera, che illustra il bilancio comunale ed afferma che, «pagate le dette brigate per tutto il
mese d'ottobre, il comune rimanea in debito di» 166.000 fiorini. Resisi conto che i discorsi
pronunciati hanno predisposto i mille convenuti alla guerra, viene finalmente fatto entrare il
generale dei Minori. Fra' Marco espone «le domande dei Pisani, le quali erano superbe troppo
e fastidiose e tali che se havessono havuto il comune in prigione sarebbono state
sconvenevoli, sconcie e disoneste». Tutti coloro che si alzano a parlare, sono contrari alla pace,
«e avvenisse ciò che avvenire ne potesse». I Pisani, nel frattempo, hanno inviato quale loro
ambasciatore ai Visconti, Giovanni dell’Agnello.57
Ma fra' Marco non è solo il centro di accolta dei desideri, o sogni, pisani e fiorentini;
affluiscono presso di lui anche gli ambasciatori di Siena,58 Perugia, Genova, tutti vogliosi di
pace. Fra' Marco da Viterbo torna a Pisa ed informa i governanti che Firenze vuole la pace
solo se sopportabile e honesta, trovando i Pisani arroganti ed alteri «per lo caldo della buona
gente d'arme» al loro servizio. Gli ambasciatori di tutti i comuni focalizzano i loro sforzi nel
cercare di far arrivare tutti a un ragionevole accordo, «innanzi che le cose inzotichissino più».
Firenze intanto, anche se non ha visto arrivare la Compagnia della Stella, rallentata dai molti
quattrini profusi da Galeazzo Visconti, è però stata confortata dall'arrivo di molti e valenti
cavalieri. Sono giunti messer Bonifazio Lupo, messer Tommaso da Spoleto, messer Manno
Donati, Messer Ricciardo dei Cancellieri, Giovanni Malatacca da Reggio, tutti «pregiati
maestri di guerra, e stato ciascuno capitano di grande esercito e havutone honore». Sono
anche arrivati a Firenze il conte Arrigo di Monforte e i conti di Soave, Giovanni e Ridolfo, con
«500 huomini da cavallo tutti giovani e per la maggior parte gentil'huomini grandi e belli del
corpo. E quanto per un fiotto di tanta gente a giudizio di tutti non era ricordo che entrasse in
Firenze più bella, né meglio in punto di gente d'arme e di cavalli, e esso conte era di bello e
gentile aspetto». Sentendosi forti, i Fiorentini rifiutano le gravose profferte di pace pisane. Ma
i Pisani sono obiettivamente fortissimi, avendo al loro servizio seimilacinquecento cavalieri
inglesi e tedeschi, capitanati da due formidabili comandanti come Anichino e Giovanni
Acuto, e circa millecinquecento fanti cittadini e del contado, usati per lo più come guastatori.
Il 13 aprile l'armata pisana si muove, percorre la Valdinievole, si porta nella pianura pistoiese,
dove pone il campo. Il giorno seguente, ordinate le schiere al combattimento, i mercenari si
dirigono verso Prato, dove, combattendo contro i difensori della città, conquistano con
meravigliosa sicurezza il ponte levatoio, impedendone il sollevamento. Il 15 aprile, in piena
notte, mille Inglesi a cavallo si presentano sotto la porta di Prato, provocando un subbuglio
generale. Quattro dei più spericolati si spingono arditamente fin sotto le caditoie delle mura,
per toccare beffardamente la porta. Uno di loro rimane ucciso. Gli incursori, senza tentare
nessun attacco, e senza fermarsi, tornano sui loro passi, dopo aver rapito i borghigiani nei
loro letti e aver trafugato il bestiame. Il 16 gli Inglesi passano in Mugello, per il passo di
Valmarina, senza che i Fiorentini abbozzino alcuna reazione. A Firenze si dice che gli Inglesi
passeranno per San Salvi e verranno, questa volta sì, a ordinare un prete novello sotto gli
occhi degli impotenti abitanti della città del giglio. Anichino intanto ha messo il suo campo a
Peretola. Gli Inglesi, giunti inaspettati a Barberino e Tora, catturano un centinaio di villani e si
impadroniscono di buoi, pecore, maiali, vino e grano. Filippo Villani commenta desolato che
tanto ben di Dio è caduto nelle mani del nemico perché i Priori di Firenze, invece di abbassare
le gabelle per la vendita di prodotti agricoli in città, hanno ritenuto opportuno raddoppiarle,
per cui i contadini hanno tenuto per sé ogni derrata, attendendo tempi più opportuni.59
Pandolfo Malatesta vorrebbe condurre le milleduecento barbute al servizio di Firenze contro
57 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 83; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1364, vol.
3°, p. 289-291.
58 Gli ambasciatori di Siena sono: i cavalieri Ramondo Tolomei, Mino di Carlo, Cristofano di Mino
Verdelli ed il dottore in legge Mino di Meo Filippi. Andaro il 24 di marzo. Cronache senesi, p. 605.
59 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 84.
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Carlo Ciucciovino
gli invasori in Mugello, ma i Priori e gli Otto di guerra, impauriti dal comportamento che il
capitano ha tenuto l'anno passato, frappongono continui indugi ed ostacoli. Pandolfo è
costretto a lanciare un ultimatum: o gli si consentirà di svolgere il suo incarico o egli
rassegnerebbe le dimissioni. Malgrado la loro titubanza, gli Otto avvertono la crescita del
malumore generale per la colpevole inattività, e concedono a Pandolfo il permesso, ma gli
mettono alle costole il conte Arrigo di Monforte, cui è affidato l'incarico di non fidarsi di
messer Pandolfo. Finalmente l'esercito fiorentino si porta a Scarperia e il conte alloggia nel
castello, mentre Pandolfo tiene il borgo. La guardia inattiva ha di che alimentare la sua voglia
di grandi imprese: un distaccamento di trenta militi del conte, si scontra per avventura con
cavalieri inglesi, almeno tre volte più numerosi. Lo scontro, violento e cavalleresco, dura per
un paio d'ore. Uno dei cavalieri del conte, un Tedesco, disceso di cavallo, lancia in mano, ha
disarcionato, da solo, più di dieci Inglesi, uccidendone due. Al termine, gli Inglesi si ritirano,
lasciando sul campo diversi morti e molti prigionieri appiedati. Le milizie dei conti Arrigo e
Ridolfo accrescono con tale azione la loro popolarità, tanto da far affermare al nostro cronista
che sono le uniche di cui gli Inglesi si diano pensiero.60
«Gli Inglesi, essendosi assaggiati co’ Tedeschi e co’ paesani che havieno cominciato
mostrare loro il volto, e a volere de' loro cavalli, sentendo che il passare di Mugello a San
Salvi per li molti stretti passi era loro pericoloso e quasi impossibile, e veggendo il luogo dove
s'erano condotti, incominciarono forte a dubitare», e decidono di rientrare. Per non esser
molestati, mostrano di voler mettere il campo a San Michele in Bosco, diffondendo la voce,
che, malgrado le difficoltà, andranno a San Salvi. I Fiorentini, incredibilmente, abboccano, e
per la seconda volta in due anni gli Inglesi riescono a ripercorrere dei difficili passi, senza
subire disturbo. La notte di San Giorgio, i cavalieri percorrono la valle del Bisenzio e sboccano
nella pianura di Pistoia.61 Pandolfo, nella frustrante attesa nel borgo di Scarperia, medita un
tentativo per aumentare il suo potere in Firenze: decide, chiedendo un permesso di un paio di
settimane, per sopraggiunti gravi problemi nel Riminese, di spaventare Priori ed Otto, ed
ottenere maggiori libertà ed autorità. Ma quando la sua richiesta arriva a Firenze, gli Otto in
consiglio, decidono di accogliere il punto di vista di Bindo di Bonaccio Guasconi, il quale,
forse beffardamente, afferma che Pandolfo è ottimo amico del comune, ed allora perché
negargli il permesso, anzi, perché possa meglio dedicarsi ai suoi affari, lo si congedi
immediatamente, eleggendo al suo posto Arrigo Monforte. Lo stesso Bindo si reca da messer
Pandolfo a illustrargli la deliberazione, con piacevole commiato. Bindo va, sottolinea la cattiva
reputazione popolare di cui gode il Malatesta, insinua che «agevolmente potea avvenire che,
perseverando in cotali pensieri con opera forte, il popolo un giorno li farebbe un sozzo
scherzo, al quale non potrebbono porre riparo né Signori, né Otto», quindi molto meglio per
tutti che Pandolfo prenda congedo. Pandolfo reagisce indispettito e cavalca immediatamente
a Firenze per affermare che le faccende del comune sono per lui più importanti di quelle della
sua casata, quindi avrebbe deciso di rimanere, e completamente a sue spese, senza neanche
chiedere più congedo alcuno; ma deve subire una seconda e più cocente umiliazione, quando
si sente ringraziare, e rispondere «che 'l comune non havea né di lui, né di sua brigata
bisogno». Pandolfo Malatesta, ingoiando la sua umiliazione, per la seconda volta, se ne parte
da Firenze.62
Gli Inglesi, lasciatisi alle spalle gli Appennini ed i suoi difficili passi, sono in salvo e si
accampano tra Sesto Fiorentino e Colonnata, vegliando però sulla sicurezza del proprio
esercito dalle forti posizioni di Monte Morello. Per qualche giorno si trattengono nella
60 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 85; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1364, vol.
3°, p. 291-293; MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 732. Arrigo e gli altri sono degli Svevi, Soave ne è la
corruzione, come pure Soavia, come scrive Cronichetta d’Incerto, p. 256.
61 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 86.
62 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 87; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1364, vol.
3°, p. 293-295.
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pianura, ed i guastatori «hebbono destro a fare male», bruciando case e palazzi. La terra
bruciata si estende per la bellezza di tre miglia tutt’intorno all’accampamento. Scorazzando
impunemente per tutto il Monte Morello, entrano in Pescina, «luogo aspro e riposto», a quasi
500 metri d’altitudine, e qui trovano molti viveri e roba che sono stati messi al riparo. «Oltre
andarono infino a Calicarza, Montile e Curliano, paesi malagevoli assai a cavalcare, sanza
trovare alcuna contesa». Ma sul loro cammino trovano una fortezza: la Petraja, ch’era sopra il
loro capo, munita a difesa dai figli di Boccaccio Brunelleschi. La combattono e quella resiste.
Sdegnati che quel piccolo castello osi opporsi alla loro potenza, si apprestano ad assaltarla
con le schiere ordinate. Gli Inglesi attaccano, ma vengono respinti con perdite. È la volta dei
Tedeschi che subiscono analoga sorte. Un tentativo estremo, un assalto a forze congiunte
viene tentato, respinto ancora. Saviamente, i mercenari si rassegnano e lasciano alla loro sorte
i difensori, andandosene.63 L’ultimo giorno d’aprile, i Pisani, levano il campo e si spostano a
Fiesole e al colle di Montughi: sono a due miglia da Piazza della Signoria! Il primo maggio
con le schiere ordinate a battaglia, vengono «sopra la costa della via di San Gallo, di sotto al
podere d’Altopascio, dove erano fatti tre serragli, il primo sopra la via che va a Santo
Antonio, l’altro sopra la via che va a San Gallo, il terzo sopra le case poste sopra (la) via che
va lungo le mura». Quest’ultima barricata è fatta con carri e vi sta il conte Arrigo di Monforte,
con tutti i suoi cavalieri. Ai primi due serragli si affollano molti cittadini, usciti di volontà, cioè
sfuggiti al controllo dei comandanti militari. Costoro si affollano, ansiosamente, e, con la loro
presenza intralciano le operazioni della «buona gente dell’arme ch’erano alla difesa». I bravi
comandanti, i messeri Manno Donati, Bonifazio Lupo e Gianni Malatacca si affannano ad
esortarli a tirarsi indietro e lasciarli fare, ma gli stolti, con le menti esaltate dal terrore per le
proprie case e famiglie e da una velleitaria voglia di menar le mani, non si spostano. Questo
comportamento cagionerà «la perdita de’ serragli, con morte e presura di molti di loro.
Intanto il nemico viene: due notabili huomini e pregiati in arme, Averardo Tedesco e Cocco
(Cock) Inglese, a lento passo, l’uno da un lato della via, l’altro dall’altra, si calarono giù a’
serragli, facendo rilevate prodezze». Le schiere che li seguono combattono e conquistano le
barricate, uccidendo e ferendo molti dei difensori, specialmente di quei velleitari cittadini che
hanno sconsideratamente affollato i serragli. Averardo arriva a Piazza San Gallo, dall’altro
lato della piazza, attestato al piè delle case sta il bravo conte di Monforte, «il quale stando
come una massa di ferro, mai da’ nimici non fu tentato, tutto che le freccie delli arcieri inglesi,
che scendeano sopra l’altra brigata, sembrassono gragnuola». Effettivamente il conte Arrigo
deve esser dotato di eccezionale sangue freddo e pugno di ferro per tenere compatta la massa
dei suoi armati, in una tale frustrante condizione. Ma quella è l’ultima difesa, dopo nulla
tratterrebbe più gli Inglesi dall’assaltare le porte di Firenze. Da queste e dall’antiporta e dalle
mura scoccano incessantemente i loro verrettoni i balestrieri fiorentini, «e a tornio e a staffa»,
ma è più il rombo che producono che il danno arrecato agli assalitori. I cavalieri tedeschi ed
inglesi scendono da cavallo ed appiccano le fiamme a Sant’Antonio del Vescovo ed ad altri
casamenti. Al riverbero delle fiamme, sotto i dardi nemici, avvolto dal rumore assordante, in
vista della porta, Anichino di Bongardo si fa armare cavaliere, e a sua volta, ordina messer
Averardo ed altri valorosi. Poi le trombe suonano a raccolta e «tutti accortamente e sanza
impaccio si ritrassono indietro, chi a Montughi, chi a Fiesole». La notte, nel campo pisano si
festeggiano i cavalieri novelli. «Le brigate, a 1cento i più, a venticinque i meno, con fiaccole in
mano si vedieno danzare, e l’una brigata si scontrava con l’altra, gittando le lor fiaccole, e
ricevendole in mano, e talhora mettendole a giro, a modo d’armeggiatori, seguendo l’uno
l’altro ordinatamente, e queste fiaccole passavano le duemila, con gran gavazzi di grida e
stromenti». I Pisani nella notte si fan presso le mura e lanciano frasi di scherno contro i
Fiorentini, frasi ben intese da quelli che sono di guardia sopra le mura e da quegli arditi che
sono fuori, a sorvegliare il nemico. Verso le tre hore di notte, inviano un trombettiere ed un
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Carlo Ciucciovino
tamburino sul fosso delle mura di Porta alla Croce, i quali, sonando come a stormo, fanno
levare dai loro letti i Fiorentini, che si affrettano ad armarsi e un brivido di terrore percorre
tutta Firenze, correndo voce che il nemico ha preso le mura, là dove sono state apprestate
bertesche, e già è disceso all’interno della città. La paura è terribile «e li cittadini come
smemorati correvano qua e là per la terra, e le femmine ponieno le lucerne alle finestre, e con
lamenti l’armavano di pietre». Ma, lentamente, si fa strada la convinzione che tutto è
tranquillo e che si è trattato solo di uno scherzo atroce, la paura svanisce, lasciando il posto
alla vergogna. Il 2 maggio, il nemico, schierato, passa l’Arno, «di sotto alla Sardigna, assai
presso alla città» e mette il campo alla Verzaia, spargendosi per tutti i dintorni, mettendo a
ferro e fuoco tutto ciò che è fuori le mura. Quindi, con le schiere fatte, con «le loro barbere
strida e suoni di stromenti di battaglia» si fanno sotto Porta San Friano, per combatterla come
Porta San Gallo. Filippo Villani narra: «Li nostri, che ne’ giorni passati s’erano assaggiati con
loro, e trovato havieno ch’erano huomini e non lioni, havieno armato il casamento delle
Monache da Verzaja, e quivi fatte le sbarre, ricevettono francamente il baldanzoso assalto,
rispondendo cò loro ferri in mano in modo e forma, che li ributtarono indietro con molti
fediti, e alcuni morti». Gli Inglesi si ritirano, ma danno alle fiamme Bellosguardo e molte altre
belle ville e palazzi. Dopo aver soggiornato qualche giorno, per dar possibilità ai propri feriti,
duemila conta Villani, di riaversi, fanno i bagagli e partono. Passano per San Miniato al
Monte, Incisa in Valdarno. Si fermano al Tartagliese, il giorno seguente, senza troppa
convinzione, assalgono Terranuova, ma vengono respinti, provano ad ottenere inutilmente
altre terre in Valdarno. Poi passano nell’Aretino, vanno a Cortona, e nel Senese «facendo
danno assai d’arsioni, prigioni e prede». Finalmente, per la Valdelsa e la Valdinievole, vanno
verso Pisa. A San Piero in Campo passano in rassegna le truppe e debbono constatare che
hanno perduto seicento «buoni huomini d’arme» e più di duemila sono feriti, «de’ quali assai
poscia perirono».64
Tuttavia, l’onore di Arrigo di Monforte non gli consente di rimanere inattivo, pertanto,
mentre il nemico è intento alle sue scorrerie in Valdarno, raduna a San Miniato al Tedesco
1.500 barbute, 500 balestrieri scelti, altrettanti cavalieri scelti fiorentini che l’hanno voluto
seguire di loro volontà, e, con viveri per 15 giorni, il 21 maggio parte verso il contado pisano.
La sera mette campo all’Era, vicino al castello di Gello. La mattina seguente, un sabato, sfiora
Pisa correndo e portando guasto e si stabilisce a San Pietro a Grado. Ma la fortuna sembra
arridere ai Pisani, infatti quel giorno stesso arrivano a Pisa dalla Lombardia 1.400 uomini a
cavallo, alla ricerca di ingaggi in Toscana. I Pisani danno loro 2.000 fiorini, e, unitili ai
Tedeschi ed agli Inglesi che sono rimasti di guarnigione in città, e con parte della milizia
cittadina, escono di Pisa, schierati, e si dirigono verso San Pietro in Grado. Messer Manno
Donati sollecita il comandante Arrigo da Monforte a volersi dirigere verso Livorno, Arrigo
esita, poi decide di passare il ponte sullo stagno. L’esercito è appena tutto transitato sull’altra
riva, che, all’orizzonte si scorge la nuvola di polvere sollevata dal nemico che è in arrivo.
Manno non perde tempo, chiama a sé Filippone di Giachinotto Tanaglia (il solo nome fa
capire che è persona adatta alla funzione descritta) ed, estratte due scuri, con lui si dà a
tagliare i due pali su cui poggia il ponte. Appena in tempo: quando il ponte piomba nello
stagno arrivano i Pisani ed i nuovi arrivati mercenari. Messer Manno però «conoscea tutti i
soldati che praticavano in Lombardia, e pertanto domandò di volere parlare con alcuno di
loro caporali». In breve, gli viene riservata una calorosa accoglienza, e non gli occorre molto
per far desistere i nuovi arrivati dalla loro già scarsa voglia di menar le mani. I caporali gli
promettono, «che, per suo amore, lentamente procederebbono», e, preso congedo da lui, a
passi scarsi, ritornano a Pisa. Il governo di Pisa, realisticamente, prende atto dell’accaduto, ma
comanda che i soldati si rechino a Monte Scudaio a bloccare il passo all’esercito fiorentino. Vi
è infatti da immaginare che i Fiorentini non abbiano intenzione di ritornare sui propri passi,
64VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 89; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1364, vol.
3°, p. 295-299; Cronichetta d’Incerto, p. 255-256.
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rischiando così di incontrare il resto degli Inglesi, che, dopo aver predato il Valdarno, stanno
rientrando a Pisa, e l’unica altra strada passa appunto per Monte Scudaio ed il Volterrano. Gli
armati trascorrono la notte a Pisa, poi, il mattino seguente, si armano con molta calma, e con
ancor più flemma si dispongono in ordine di marcia. Nel frattempo, i Fiorentini non esitano,
sono arrivati a Porto Pisano e Livorno, che hanno trovato indifeso, perché la guarnigione,
spaventata, si è data alla fuga, con le loro famiglie e gli averi, tutto è stato caricato sulle navi,
che hanno salpato veloci l’ancora. Per la fretta annegano una quarantina di persone, tra
uomini e donne, ed altrettanti cadono nelle mani dei Fiorentini.65 Quando messer Arrigo
arriva a Livorno nel fondaco trova solo «una balla di panni ed una ricca cortina». Dati alle
fiamme gli edifici, occorre pensare al ritorno, e messer Manno Donati, da esperto uomo di
guerra, vola immediatamente col pensiero alla possibilità che il nemico li stia attendendo a
Monte Scudaio; ne discute con Arrigo e determinano cosa fare. Mettono all’avanguardia i
fanti, e, dopo essersi riposati, si mettono in marcia quando è notte da tre ore. Vi sono da
coprire 38 miglia; e procedono verso Monte Scudaio «per vie montuose e aspre e malagevoli.
E tutta quella notte sanza arresto cavalcarono, e il seguente dì con dare poco d’agio alle bestie
e a loro, missono in cavalcare come fossono in fuga». Finalmente, 24 ore dopo esser partiti,
varcano a Monte Scudaio ed entrano nel Volterrano, in salvo. Quattro ore dopo giunge a
Monte Scudaio l’esercito pisano, per impedire il passo, ma gli escrementi dei cavalli ed il
terreno smosso di recente parlano chiaramente, i Fiorentini sono sfuggiti, «e dallo scorno che
loro parea havere ricevuto presono cordoglio».66
65 Cronache senesi, p. 608. La notizia è attribuita al ’65, ma in questa parte delle cronache senesi la
cronologia è imprecisa. Tutta la ricostruzione da me tentata è basata sulla data certa della pace tra
Firenze e Pisa. RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 200-201 specifica che Livorno non era murata e steccata da
nessuna parte. Anche Chronicon Ariminense,col. 1044-1045. SERCAMBI, Croniche, p. 134-136 la pone nel
1364.
66 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 90; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1364, vol.
3°, p. 299-302; VELLUTI, Cronica, p. 235-238; MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 733.
67 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1364, vol. 3°, p. 298-299;. VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica,
Lib. XI; cap. 95. RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 201. Diario del Graziani, p. 196 parla di 80.000 fiorini pagati
agli Inglesi ed aggiunge che la guerra con Pisa è costata a Firenze ben «dodici centonaia de migliaia de
fiorini d’oro e più».
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Carlo Ciucciovino
ropta, sì come è usanza de chierici che sempre seguitano quello, non obstante alchuna fede,
che è il suo migliore». Bernabò, il quale forse non crede al perdurare della pace, si prepara ad
eventuali atti ostili, e provvede ad abbattere le fortezze che, nel suo territorio, sono in mano a
guelfi; tra queste Colorno (ma la sua rocca viene conservata), Robecco e Scandalaria, nel
Cremonese, Gua e Guavardo nel Bresciano, Martinengo nel Bergamasco.68
Finora i due fratelli, Galeazzo e Bernabò si sono serviti di un vicario comune, Tommaso
de Groppello, ora, dall’agosto di questo anno, preferiscono averne uno ciascuno, Bernabò
conserva Tommaso come suo vicario, mentre Galeazzo nomina Manuele da Ponzano. Giulini
osserva che questo potrebbe rivelare l’esistenza di dissapori tra i fratelli.69
68 CORIO, Milano, I, p. 812-813; GIULINI, Milano, lib. LXIX, anno 1364; Annales Mediolanenses, col. 735, qui si
aggiunge che a giugno Bernabò proibisce di girare armati in città, sia di giorno che di notte, pena 100
fiorini di multa, o un anno di carcere, o impiccagione, a discrezione del Visconti.
69 GIULINI, Milano, lib. LXX, anno 1364. Giorgio Giulini offre qui molte informazioni sulla responsabilità
dei vicari, sugli altri loro incarichi e sul territorio milanese in generale.
70 Sono stati pagati circa 400.000 fiorini d’oro, ne restano da pagare un milione.
71 CONTAMINE, La Guerra dei cent’anni, p. 46. Giovanni è stato costretto dal suo onore a tornare, quando
uno degli ostaggi consegnati agli Inglesi, il duca d’Angiò, ha mancato alla sua parola.
72 CASTELOT E DECAUX, La France au jour le jour, II, p. 492; ZURITA, Annales de Aragon, Lib. IX, cap. LVIII;
FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. CLX e CLXI; CAMERA, Elucubrazioni storico diplomatiche,p. 251.
73 CASTELOT E DECAUX, La France au jour le jour, II, p. 495 e 498-499.
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La cronaca del Trecento italiano
rimangono a Fano fino al 29 luglio, quando, saputo dell’aggravarsi della malattia del
Guastafamiglia, partono verso Rimini.76
192; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 192; Chronicon Estense; col. 487.
79 ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 217; CESSI, Storia della repubblica di Venezia, I, p. 323 ci elenca le
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Carlo Ciucciovino
Andrea Contarini viene fatta arrivare al palazzo ducale tra due ali di folla minacciosa e
tumultuante e, esposta la loro missione, viene sprezzantemente liquidata. Gli ambasciatori,
costretti a fendere nuovamente la plebaglia urlante, guadagnano le navi e salpano,
mantenendosi al largo ad attendere i rinforzi. La Serenissima scrive a tutti i potentati
invitandoli a guardarsi dal fornire aiuto ai ribelli, assolda mille cavalieri scelti dalla
Lombardia e duemila fanti che pone agli ordini del reputatissimo Luchino dal Verme,
allestisce una flotta di trentatre galee, la metà delle quali adatte al trasporto dei cavalli, che,
accompagnata da dodici navi onerarie, cariche di munizioni e viveri, e, imbarcati anche
cinque provveditori, il 10 aprile 1364 salpa alla volta dell’isola. I ribelli possono mettere in
mare solo quattro galere e otto grippi, che pongono al comando di Giovanni Calergi. Tutte le
fortezze dell’isola vengono rifornite e presidiate. Leonardo Gradenigo, con giudizio ormai
velato, abiura la fede cattolica e abbraccia quella ortodossa e consente che i coloni veneziani
che sono in Candia vengano massacrati dai Greci. Molti che hanno aderito alla ribellione,
inorriditi, rivedono la propria posizione; si arriva ad offrire l’isola a Genova, pur di ricevere
soccorsi. La paura e la disperazione partoriscono il tradimento e alcuni ribelli della prima ora,
tra cui Francesco Mudazzo, si incaricano di informare di tutto i Veneziani. Il 7 maggio la flotta
veneziana approda al porto di Fraschia, a sole cinque miglia dalla capitale, diviso da questa
da un alto monte. Grazie anche al tradimento di Francesco Mudazzo che, improvvisamente,
cambia bandiera e consente il passo agli uomini di Luchino dal Verme, i Veneziani occupano i
sobborghi. Una delegazione ribelle offre le chiavi della città purché venga risparmiata dal
saccheggio, e ci vuole tutta l’autorità e la capacità di Luchino dal Verme per riuscire a far
accettare ai mercenari la rinuncia al bottino. Una dopo l’altra, tutte le città dell’isola
capitolano. I capi dei ribelli fuggono, alcuni vengono uccisi dai contadini, altri, presi, vengono
decapitati, tutti vengono inseguiti. Il 4 giugno 1364 approda a Venezia la galea di Pietro
Soranzo, che paludata a festa, annuncia la vittoria e la sottomissione di Candia. A Luchino dal
Verme viene espressa riconoscenza con una pensione vitalizia di mille ducati annui.
Francesco Petrarca ci ha tramandato le feste per la notizia e l’ingresso trionfale della galea del
Soranzo. Giovanni e Giorgio Calergi, dai monti dove hanno trovato rifugio, issano
nuovamente la bandiera della ribellione, e devastano e uccidono chi loro si oppone. Il loro
tentativo avrà vita breve: nel 1366, dopo essere stati più volte sconfitti in combattimento, i
Calergi vengono catturati e decapitati. Con mano pesantissima, la Serenissima abbatte le
mura e distrugge tutte le fortezze che sono servite di ricetto ai ribelli.80
80ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 217-227; CESSI, Storia della repubblica di Venezia, I, p. 323-324 che mette
in evidenza il quadro generale e la crisi che sta vivendo Venezia, dopo la sconfitta ad opera di re
Ludovico d’Ungheria. Solo un breve cenno in GORI, Istoria della città di Chiusi, col. 958.
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sia fedele e devoto come la popolazione di Orvieto: «che se ll'è niuna gente de chui el Signore
viva sichuro et che creda che lli sia deuota e amorevole, credo che noi d'Oruieto siamo dessi»,
scrive Ugolino, dimostrando molta più confidenza con la spada che con la penna.81 In effetti
quando il cardinale apprende della ribellione, scrive parole durissime contro i facinorosi:
«inaudita ingratitudine et presentuosa cervice», esortando il vicario Diego dei Tornaquinci a
punire con giustizia esemplari i capi della sommossa. Egidio invia un suo commissario,
messer Vanni da Siena, ad appurare i fatti e trovare i responsabili. Giunte alla fine le indagini,
messer Vanni dà ordine che si catturino quelli che ha identificati come i capi del moto
popolare, ma qualcosa trapela, e degli otto identificati, se ne riescono a catturare solo tre, gli
altri si sono dileguati. I tre imprigionati vengono condotti nella piazza che hanno
insanguinato con la loro ribellione, per essere giustiziati, ma il popolo radunatovi
rumoreggia, tanto da spaventare gli incaricati dell'esecuzione, che rilasciano i prigionieri, due
di loro spariscono tra la folla, mentre uno viene ripreso da qualche ufficiale più coraggioso.
Costui, Boccajolo Tanezuani, solo costui viene decapitato, ed il suo cadavere gettato nella
piazza, sprezzantemente, «et dipoi rimase il romuore, et la terra si venne riposando per
pagura di non venire incontra alla signoria del legato».82 In verità sono gli stessi bravi
cittadini che chiedono all'Albornoz di erigere una o due fortezze che assicurino il rispetto
degli ordini del cardinale e la completa obbedienza del popolo. Il 25 settembre ha luogo
l'inizio della costruzione, a spese del comune. Il capitano del Patrimonio, Giordano dal Monte
degli Orsini, sorveglia in Orvieto l'andamento dei lavori. Poco prima, il 4 di settembre, i
Tedeschi di Anichino sono entrati in Ficulle e vi hanno soggiornato per 8 giorni, facendo
gravi danni nei dintorni. Poi partono e vanno verso Todi, per recarsi quindi in Sabina. In
questa terra passano l'inverno, sostenuti dall'aiuto di Orso Orsini e della sua famiglia. A
marzo del '65 conquistano il castello di Porano, tre miglia a sud di Orvieto, catturando molti
prigionieri.83
Quando, ad agosto, il cardinal Albornoz ha saputo che Anichino progettava di invadere
il Patrimonio, ha emesso un duro proclama contro di lui, intimando a tutte le terre di non
dare ricetto, né rifornire le sue masnade, sotto pena di interdetto e scomunica. I mercenari
però non hanno bisogno di chiedere e quello che non viene spontaneamente venduto o dato,
viene rapinato.84 Per affrontare gli avventurieri, Egidio chiama a raccolta i suoi feudatari di
Romagna, Marche, Spoleto e Patrimonio, assolda Sterz con 5.000 cavalli e 1.000 fanti ed affida
l’esercito al valido Gomez Albornoz. Egli scaglia i suoi 15.000 uomini su Vetralla, che è
occupata da Anichino. Gli Inglesi però, messo l’assedio, non hanno voglia alcuna di mettere a
rischio la propria vita e quella dell’avversario in una battaglia campale o in un deciso assalto
alle mura e si baloccano per un mese, reclamando di venir pagati prima di impugnare le armi.
Su consiglio dello zio, Gomez investe il denaro comprando Anichino e i suoi e dirigendone le
armi contro gli Inglesi.85 Stupisce che le fonti non parlino mai dell’atteggiamento del prefetto
di Vico, Feliciano Bussi cita una tradizione che lo vuole morto in un tumulto, è certo,
comunque, che il 23 aprile 1366 Giovanni di Vico è sicuramente già defunto.86
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Acciaiuoli ha chiesto molto denaro, che il gran siniscalco non ha mai provveduto a pagare,
malgrado le intimazioni e le minacce del comune. Firenze allora sequestra la Certosa del
Galluzzo. Questo fa andare in bestia Nicola che pretende che i frati della Certosa vengano
lasciati in pace, altrimenti egli si rivarrà sui beni fiorentini nel Regno, e poi su quelli in
Provenza, e, se non bastasse, manderebbe le proprie navi a predare quelle di Firenze. Il
linguaggio è di quelli ben comprensibili dai Priori di Firenze, ancora una volta colpiti in ciò
che hanno di più caro: il denaro, per cui si arriva alla deliberazione che rinuncia ad ogni
credito nei confronti del Gran Siniscalco del Regno di Napoli.87
Rainaldo, detto Buccio di Ranallo, il nostro cronista in versi dei fatti dell’Aquila; cfr. BONAFEDE, L’Aquila,
p. 110. Bonafede afferma che nella peste sono morti 10.000 Aquilani, desumendo la cifra da PANSA,
Quattro cronache, Cronaca dell’Anonimo dell’Ardinghelli, p. 31 ed anche Cronachetta anonima, p. 59.
90 Cronaca dell’Anonimo dell’Ardinghelli, p. 29.
91 MULETTI, Saluzzo, Tomo IV, p. 67-69; CIBRARIO, Savoia, III, p. 183. TURLETTI, Savigliano, I, p. 2040-241 ci
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difficili tra monti e boschi,95 aggirando il nemico e giungendo in vista di Spilimbergo, a sole
otto miglia. Ma qui commette un errore: dà fuoco ad alcune case, per segnalare alla parte
degli armati che lo segue la via da seguire. Il fumo è visto anche dai soldati dell’unione, che
accorre e si schiera in piano, a battaglia. Bertoldo accetta lo scontro: per due volte i suoi
vengono rotti, e per due volte si radunano per affrontare i collegati; ma, alla fine, sono
costretti a cedere il campo, lasciando sul terreno 100 morti e 100 prigionieri. Ben 200 cavalli
con valise e some vengono presi. Il comandante dei Padovani è messer Bertuzzo da Monte
Melon che ha sostituito messer Manno.96
Venezia si preoccupa del conflitto tra duca d’Austria e Carrara, e forse, ancor più dei
successi padovani, e invia una solenne ambasceria a cercare di sedare il conflitto. I toni usati
dai messi veneziani sono improntati ad una inusitata gentilezza. Dignitosamente, Francesco
da Carrara risponde che l’arbitro eletto per metter fine ai dissidi è il re d’Ungheria, ma ove si
convenisse di sceglierne un altro, egli preferirebbe a tutti Venezia.97
Francesco da Carrara ripartisce tutti i beni patrimoniali con i suoi fratelli Marsilio e
Nicolò. A questi spettano i due terzi del totale. Francesco prende per sé la casa grande di
Santa Lucia e le altre contigue. Qui va ad abitare con sua madre Costanza, in occasione del
Santo Natale. La cifra che Francesco stanzia per “bene entrada e governo della casa” è di
24.000 lire.98
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mesi, lo scrutinio sia operato da quattro “uomini savi e prudenti” e gli scrutatori siano 72,
cioè 36 per ognuna delle parti.101
I cittadini di Borgo, angariati insopportabilmente da Brancaleone, dopo 18 mesi di
malversazioni, nel giugno 1364, nel giorno del Corpus Domini, mentre il vescovo102 guida la
processione, aiutati dai Perugini, prendono le armi e «come tigri crudeli» maltrattano il
vescovo e lo cacciano. Catturano o cacciano i Castellani e la famiglia Boccognani e ne
trucidano una parte. Brancaleone ed alcuni fidi si serrano nella rocca, ma, dopo otto giorni,
sono costretti ad arrendersi a patti. Tutta la famiglia Boccognani viene massacrata, solo il
bimbo Antonio viene risparmiato. La loro torre detta di Berta, all’angolo della piazza viene
abbattuta.103
§ 32. La Marca
Baldinisco di Cicco di Castignano, una fortezza posta sette miglia ad occidente di Offida,
si mette a capo di tutti i fuorusciti del castello e in un giorno di luglio entra nell’abitato, suona
l’allarme la campana di San Vittore. Nello scontro molti sono i caduti.105
101 Ibidem.
102 LAZZARI, Città di Castello, p. 113 ci informa che questi è Buccio Bonori, nobile di Città di Castello.
103 COLESCHI, Sansepolcro, p. 52-53.
105 SANTOGIUSTANO; Castignano, pag. 17; in COLUCCI; Antichità Picene, vol. XVI.
106 FILIPPINI, Albornoz, p. 352-353; Egidio in aprile era tanto sicuro di poter tornare ad Avignone, che,
come riferisce Filippini, riferendo una lettera a Nicolò Spinelli del 12 aprile, ha inviato provviste per la
sua casa: ben 1.000 Salme di grano e 400 d’orzo. FILIPPINI, Albornoz, p. 356, nota 2.
107 FILIPPINI, Albornoz, p. 357-358.
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§ 35. Sardegna
Sviluppiamo un poco l’argomento del ritardo del pagamento del censo da parte di Pietro
Il Cerimonioso. Il papa è disturbato dal ritardo ed in un concistoro si dibatte se privare il re
aragonese dell’isola di Sardegna per darla in feudo a colui che sta dimostrando di esserne il
vero dominatore: Mariano IV d’Arborea. Mariano, dal canto suo, sta stringendo accordi con il
re di Castiglia. Il re d’Aragona che si è anche appropriato delle rendite ecclesiastiche dei
prelati assenti dai suoi regni, invia un’ambasceria ad Avignone, che ottiene di sospendere
ogni decisione in merito. La corona aragonese è comunque preoccupata dalla crescente
autorità del giudice d’Arborea in Sardegna, ma, per il pieno possesso dell’isola a Mariano
occorre l’approvazione della Chiesa e non è cosa facile perché il peso politico del giudice nello
scacchiere internazionale non è neanche da paragonarsi a quello del re d’Aragona.112
FILIPPINI, Storia di Corsica, lib. III, p.198. Importante invece è ASSERETO, Genova e la Corsica, p. 84-88; egli ci
informa che il risibile presidio di Calvi, prima che vi arrivi Triadano è di un balestriere e 4 fanti. Forse la
famiglia di Triadano è di Chiavari, si veda ivi nota 1 a p. 86.
112 CARTA RASPI, Mariano IV d’Arborea, p. 131-132; ANATRA, Sardegna, p. 80; ZURITA, Annales de Aragon,
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Il re d’Aragona ha così forti difficoltà a pagare il suo censo al papa perché la guerra
contro la Castiglia lo sta letteralmente dissanguando. Bruno Anatra scrive che la guerra di
Castiglia fa crescere le spese militari e il sovrano è costretto sempre più frequentemente a
ricorrere alle Cortes, le quali approfittano della loro crescente importanza per aumentare il
proprio peso politico. L’esecuzione di Bernardo de Cabrera, «campione dell’autoritarismo
regio» va letto in tale chiave.113
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difesa. Gli informatori riportano le notizie a Giovanni Acuto, che, rapidamente, prende la
decisione di agire, fa armare il popolo ed esce di città con i suoi Inglesi e con cavalieri e fanti
pisani. Si attesta a San Savino. Poi lancia una serie di tre attacchi diversivi per disorientare i
Fiorentini. Ma la vera azione d'assalto è stata affidata al nerbo dei suoi cavalieri inglesi, che ha
fatto scendere dalle loro cavalcature ed obbligato ad una lunga marcia per accostarsi,
silenziosamente e senza sollevare polvere, al campo avversario. Una marcia davvero lunga,
visto che San Savino e Cascina sono separati da quattro miglia «di polveroso e rincrescevole
piano». Inoltre il caldo è intenso e insopportabile, ed il peso delle armi gravoso. Ma Giovanni
sa che i suoi Inglesi sono temprati a tutte le fatiche, ed inoltre ha provveduto a motivarli,
informandoli che nell'esercito nemico militano 300 giovanotti delle famiglie più ricche di
Firenze, ognuno dei quali può riscattarsi con non meno di 1.000 fiorini. Giunto a portata
d'assalto, l'Acuto ha aspettato che il sole calasse, così da averlo alle spalle e invece i Fiorentini
diritto nei loro occhi, occhi che saranno inoltre offesi dalla polvere spinta contro di loro dal
vento di ponente che, al crepuscolo, si leva.116 Tutto John Hawkwood ha predisposto
accortamente, e nulla è giunto alle orecchie di messer Galeotto Malatesta che se ne sta
beatamente nel suo letto, intento solo a combattere la calura, ed infastidito persino dal fatto
che il campanaro ha segnalato col suono a stormo i precedenti attacchi diversivi, tanto
infastidito che ha minacciato di tagliargli un piede, qualora osi suonare nuovamente senza
suo specifico ordine. Al momento opportuno, messi di fronte alle sue schiere, «quelli aspri e
duri Inglesi cui tirava la voglia della preda», Acuto fa muovere l'esercito. La sorpresa è totale:
Inglesi e Pisani sono vicini alle sbarre prima che il nemico li scorga o senta; ma ora la
previdenza di messer Manno Donati ottiene il suo premio: i difensori sono combattenti non
meno duri o meno esperti degli assalitori. I fanti, «che per lo giorno furono assai più che
huomini, francamente presono l'arme, non curando le spaventevole strida, ma, ordinati
subito alla resistenza, non si lasciarono torre una spanna di terra». Il valente messer Grimaldi
intanto ha appostato i suoi balestrieri nelle case di mattoni, rovinata testimonianza di passate
cavalcate, dai pertugi delle quali lanciano instancabilmente i loro verrettoni sul fianco degli
attaccanti. Il primo attacco, trovata una resistenza inaspettata, è costretto a rallentare il
proprio vigore, dando tempo a messer Manno, l'eroe della giornata, di accorrere sul luogo,
richiamato solo dal rumore e dalla voce che si è fulmineamente sparsa nell'accampamento,
senza però che il campanaro, molto attaccato alle proprie estremità, abbia trovato il coraggio
di agitare il batacchio nella campana. Manno con un colpo d'occhio vede che vi sono troppi
cavalieri dentro le sbarre, e, non potendo manovrare sarebbero inutili, allora esce
dall'accampamento e carica al fianco il nemico, costringendolo a sbandarsi. Sono intanto
arrivati anche il conte Arrigo di Monforte, alla testa dei suoi coraggiosi feditori, e con lui il
conte Giovanni, ed il conte Ridolfo, chiamato dal volgo il conte Menno. Questi fa abbassare le
sbarre e si avventa sopra i nemici, «facendo colla spada cose da tacere, perché hanno faccia di
menzogna». Il conte Arrigo ed i suoi Tedeschi, nel frattempo, hanno crudelmente spronato i
loro cavalli e, passando letteralmente, sopra il nemico si stanno aprendo un sanguinoso varco
verso i carri, carichi di vino, dove vi è l'Acuto, con le insegne. Giovanni Acuto, capisce che è
116John sta cercando di sfruttare una delle caratteristiche delle corazze inglesi: esser lucidate a specchio.
L’impresa è così narrata da MANNI, Giovanni Acuto, col. 634: “Egli in Italia usò (…) ai danni della nostra
fiorentina nazione, quando, portandosi i Pisani a danneggiare intorno a Firenze, aspettò l’Auguto la voltata del
sole, perché venendo i soldati suoi, e le sue lance alle mani cò nostri, fossero questi percossi nel volto cò raggi del
sole, ed egli e i suoi gli ricevessero senz’alcuna noia alle spalle; nella qual ora sapendo di più che ivi solea levarsi
un’aura che menava la polve verso i nemici, in questa pur poneva qualche speranza”. Un astutissimo
comandante quindi. A favourite contemporary detergent was the marrow from the legbones of a goat. Greased
with this, the armour did not rust, and could soon be polished to the blinding brighteness expected of the White
Company, dice TREASE, The Condottieri, p. 64, cioé: Un detergente contemporaneo molto utilizzato era il
midollo delle zampe di capra. Una volta ingrassata con questo, l’armatura non arrugginiva e poteva
esser facilmente polita fino all’accecante splendore che ci si aspetta dalla Compagnia Bianca.
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stato battuto e, «sanza aspettare colpo di spada», di buon passo si ritira a San Savino, dove
sono stati lasciati tutti i cavalli, e «lasciando nelle peste il popolo de' Pisani, faticato e poco
uso e accorto nelli atti dell'arme». Genovesi, Aretini e fanti dell'Appennino si lanciano
all'inseguimento, catturando molti dei nemici. Viene avanzata di quasi un miglio l'insegna
reale dei Tedeschi, per servire di punto di riferimento a chi si è lanciato ad inseguire il
terrorizzato nemico. I conestabili suggeriscono a Galeotto di sfruttare l'occasione e di puntare
immediatamente su Pisa; ma il Malatesta è vecchio, o, forse, troppo esperto, ed è pago del
grande successo riportato, anche se non si può certo ascrivere alla sua abilità,117 affermando di
temere agguati o controffensive fa quindi suonare a raccolta, consentendo a molti Pisani ed
Inglesi di poter sfuggire alla caccia. Molti Inglesi, feriti di verrettone e riparati a San Savino,
temono di farseli estrarre cruentemente, e preferiscono aspettare di tornare a Pisa, dove sono
scioccamente rimasti i loro migliori chirurghi. Molti ne morranno. La notte che è calata, cela
alla vista il campo di battaglia, ma il mattino seguente la luce illumina molti cadaveri in fossi
e vigne, ed annegati nell'Arno, cercando scampo o ristoro alla sete. I morti sono un migliaio, i
prigionieri il doppio. I forestieri, spogliati delle armi, vengono rilasciati, ma i Pisani tradotti
invece in catene a Firenze. Galeotto decide di concedere mese compiuto e paga doppia ai
soldati, quale ricompensa per la fulgida vittoria. Un extra di circa 170.000 fiorini, che fa
illividire gli amministratori di Firenze. Il livore si sfoga in chiacchiere: come ha potuto un
maestro della guerra come Galeotto Malatesta farsi sorprendere così ingenuamente, sia pure
da uno non meno bravo e famoso di lui? E poi chi gli ha concesso di riconoscere quei premi ai
combattenti, sia pur bravi? Il partito della pace, trova alleati nelle borse colpite, e recupera
terreno. Il 30 luglio messer Galeotto, alla testa delle truppe vittoriose, bene in ordine, prende
la strada di San Miniato del Tedesco: durante la gloriosa cavalcata ordina cavalieri Lotto di
Vanni da Castello Altafronte, giovane di gentile aspetto, Piero Ciaccioni da San Miniato e
Bostolino dei Bostoli d'Arezzo.118
I prigionieri pisani arrivano a Monticelli, fuori della Porta di San Friano, ma solo a fatica
vengono ceduti dai soldati fiorentini, che vogliono garanzie di paga doppia e mese compiuto.
I popolani «di basso stato con alquanti d'un poco meno che mezzano» vengono stipati
indecorosamente su carri, 44 carri, e portati in mezzo alla folla di Fiorentini che lancia loro
ingiurie e li sbeffeggia. I nobili e la gente da bene hanno il permesso di entrare a cavallo. Tutte
le campane suonano a distesa e davanti ai carri tutti gli strumenti del comune richiamano
l'attenzione del popolo. «Vista certamente esemplare di diversa e varia fortuna, verificante
quello che disse David, che disse: "Vario è l'avvenimento della guerra, e quinci e quindi
consuma il coltello”». I prigionieri vengono alloggiati nelle galere del comune ed assistiti e
117 Cronache senesi, p. 609, racconta che i Fiorentini vanno intorno a San Piero, e vi stanno per 2 giorni, e
corrono il palio sul prato di Sant’Anna Vecchia, che è a meza via di San Piero, e apicaro due asini, e due
castroni e uno cane, e dicevano: “Venite cò gli asini e cò montoni e cò li cani a rodare l’osso”. Per poi andare a
Firenze. La stessa fonte afferma che l’Acuto si è lanciato all’attacco senza aspettare di essere raggiunto
dai Tedeschi che sono al servizio di Pisa.
118 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 97; GRIFFONI, Memoriale, col. 180 e Cronache senesi, p.
608-609; RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 202-204; Chronicon Ariminense,col. 1045-1046. RANIERI SARDO,
Cronaca di Pisa, p. 157-158; Ranieri che è stato uno degli Anziani di Pisa il settembre-ottobre dell’anno
scorso, sottolinea le responsabilità dei capitani politico-militari dei Pisani: Nanni Scaccieri, Vanni
Botticella, messer Jacopo del Fornaio e Bindaccio di Benetto, che non sono stati capaci di imbrigliare
l’irruenza dell’Acuto. Ranieri conclude il paragrafo scrivendo: «Iddio li distrugha [probabilmente i
nemici, ma potrebbe essere anche gli Inglesi], ma li nostri cittadini n’ebbono cholpa di tucto». Si veda
anche CATUREGLI, Giovanni dell’Agnello, p. 32-34 e, come sempre, l’articolato racconto di AMMIRATO,
Storie fiorentine, lib. XII, anno 1364, vol. 3°, p. 301-306. Scipione Ammirato nota che, quando attacca,
l’Acuto cura di avere il sole alle spalle. Anche MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 734-735. Anche
Cronichetta d’Incerto, p. 257-258. SERCAMBI, Croniche, p. 135-136 registra 20 Inglesi morti e 500 prigionieri.
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119 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 98. AMMIRATO, Istorie Fiorentine, XII, anno 1364,
afferma che una relazione nelle sue mani racconta che ad ogni prigioniero che è stato fatto passare per la
porta della città è stato fatto pagare un pedaggio di 18 soldi, e che, giunti alla Piazza San Giovanni, sono
costretti a baciare le terga del Marzocco., cioè del leone simbolo di Firenze. L’Ammirato aggiunge che i
prigionieri sono costretti a lavorare per costruire la Loggia dei Priori (oggi Loggia dei Lanzi) in Piazza
della Signoria.
120 Con intenzione di migliorarla - dice Filippo Villani - perche' vegnendo la chiesa a sua perfezione,stare non
può quivi dove è; e ogn'anno vi fanno solennemente celebrare la sua festa, con bella offerta della parte (Guelfa) e
poi nel giorno fanno correre un ricco palio di drappo a figure, foderato di drappo vergato VILLANI MATTEO E
FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 99.
121 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 100. AMMIRATO, Istorie Fiorentine, XII, anno 1364, nella
nota di Ammirato il Giovane, dà invece 10 nomi: Andrea de’ Bardi, Filippo Corsini, Piero Guicciardini,
Niccolò degli Alberti, Francesco Rinuccini, Luigi della Torre, Simone Altoviti, Piero degli Albizzi,
Gherardo Adimari e Giorgio di Bencio Caruccio.
122 CORIO, Milano, I, p. 813 fornisce la notizia dell’elezione di Giovanni Agnello e registra la sua amicizia
con Bernabò.
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basano le considerazioni che seguono. I Raspanti governano Pisa e Lucca dal 1355. La
signoria del vicario dell'imperatore, Marcovaldo, per due anni, e poi, dalla partenza di suo
nipote Gualtieri, non è se non uno schermo al potere che è realmente nelle mani dei Raspanti,
forti come partito, ma non capaci di esprimere un leader carismatico. Il vicario a Pisa non ha il
potere di nominare gli ufficiali del comune, non ha potere finanziario, né decisionale in
merito di politica interna ed estera; tutti tali poteri sono nelle mani dei difensori e dei
governatori. Inoltre, a Lucca, il vicario imperiale non ha potere alcuno. Quello che gli compete
è il controllo ed il comando dell'esercito, ma non di quello destinato a Lucca o al Cerruglio, ed
il potere giudiziario. I Raspanti lo mantengono al potere, ed anzi fanno di tutto perché non ne
venga rimosso (La prova è costituita dal fatto che nell'agosto del '62 Carlo IV minaccia di
richiamare Gualtieri se Pisa non gli pagherà i 5.000 fiorini che ancora gli deve, ed i Raspanti,
pur di non correre tale rischio, si affrettano ad effettuare il pagamento, chiedendo scusa
all'imperatore per il ritardo).123
I Raspanti sono deboli perché basano la propria politica sul rilancio delle industrie
cittadine della lana, in opposizione e concorrenza con l'industria fiorentina. Tale politica è
però solo un sogno, a causa della sproporzione tra la potenza di Firenze e quella di Pisa. La
politica antifiorentina ha condotto alla disastrosa decisione di imporre gabelle ai mercanti
fiorentini, ed ha portato il comune pisano al generale impoverimento. I Bergolini, che invece
fanno una politica pro - Firenze, hanno dalla loro una gran parte delle Arti minori, convinte
che una ripresa dei traffici non possa che portare ricchezza anche a loro. I Raspanti inoltre
hanno la fama di «arraffatori dei beni del comune». Il vicario Gualtieri costituisce il pretesto
per il mantenimento al potere del partito, contro una reazione popolare fortissima, e
testimoniata dalle congiure del novembre del '59 e del marzo del '60.124
La decisione del governo pisano di imporre una gabella ai commercianti fiorentini
appare dettata da vero odio di parte contro i Bergolini che traggono profitti dalla presenza
fiorentina a Porto Pisano. Solo sei mesi mancano alla naturale scadenza del trattato del 1343
(doveva durare 14 anni e durò 13 anni e sei mesi) e la ragione avrebbe voluto che si aprissero
trattative per negoziare le condizioni di rinnovo, invece la decisione unilaterale e vessatoria
degli Anziani di Pisa colpisce Firenze come un ceffone.125
Verso la fine del '59, i rapporti tra Pisa e Firenze sembrano migliorare: il blocco navale
pisano si è dimostrato praticamente inutile, ed i commercianti fiorentini sono avidi di
sicurezza; il 17 luglio del 1360 le parti si sono incontrate a San Miniato ed un accordo sembra
imminente.126 Ma anche se i Pisani sarebbero forse disposti a confermare la franchigia ai
Fiorentini per l'uso di Porto Pisano, in realtà il ritorno di Firenze in questo scalo
significherebbe un successo per il governo dei Raspanti, per il conseguente miglioramento
delle condizioni economiche generali dei Pisani, quindi è necessario che i negoziati di pace
falliscano. Firenze, in verità, a Talamone non gode di franchigia, pagando tre denari per ogni
mezza soma, e sei per soma, e le vie sono insicure ed infestate da briganti, ma le ragioni di
politica estera e l'orgoglio impediscono a Firenze di accettare il ritorno a Porto Pisano,
bloccando così una situazione che troverà il suo sfogo solo nell'azione militare.127
L'atteggiamento di Genova nei confronti della guerra tra Pisa e Firenze non è quello
tradizionale di aiuto a Pisa, anzi i Genovesi aiutano velatamente Firenze. La ragione di tale
comportamento è da ricercarsi nel rinsaldamento dell'alleanza tra Pisa ed i Visconti. Il timore
che il potente nemico lombardo possa arrivare ad installarsi durevolmente in Toscana, è più
123 CATUREGLI, Giovanni dell’Agnello, p. 13-15. MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 736.
124 CATUREGLI, Giovanni dell’Agnello, p. 3-15.
125 CATUREGLI, Giovanni dell’Agnello, p. 17-21.
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forte del timore che Firenze conquisti Pisa, minacciando così nuovamente la supremazia
genovese sul mare, supremazia affermata definitivamente con la vittoria della Meloria.128
Giovanni dell’Agnello è appena reduce da un'ambasceria alla corte di Milano, presso
Bernabò Visconti. Ha ottenuto un patto d'alleanza, una sorta di patronage del Visconti su Pisa
e un generoso contributo di 30.000 fiorini dal tiranno milanese.129 Tornato sulle ali del
successo, pare a lui che nessun traguardo sia troppo ambizioso, e punta le proprie mire
sull'insignorirsi di Pisa, convinto che i Fiorentini vedrebbero più di buon occhio lui, che non
Bernabò in persona o un suo diretto vicario. Gli storici contemporanei e moderni non riescono
a spiegare la genesi del tentativo di insignorimento da parte del mercante Giovanni. Egli
appare a tutti gli effetti come uno dei principali dirigenti dei Raspanti, ma nulla della sua
passata vicenda lascia presagire la sua preminenza nel gruppo. Perché non ipotizzare che
Bernabò, insieme ai 30.000 fiorini, non abbia anche inviato qualche raccomandazione al
gruppo dirigente dei Raspanti?
Giovanni dell’Agnello, tornato in città quindi, fa convocare un consiglio dei «più gravi e
notabili cittadini della terra». Il clima nel quale si svolge la riunione è felicemente tratteggiato
da Filippo Villani con poche parole: «Essendo [...] Pisa sospesa, in tremore e spavento, e più
volte abbandonati dalla speranza della pace». Sicuramente, l'inattesa sconfitta degli Inglesi,
ed il rafforzarsi dell'esercito fiorentino, sgomenta la cittadinanza, già provata da una
durissima crisi economica conseguente alla perdita della Sardegna prima, e dei traffici
marittimi toscani poi, per il trasferimento del porto a Talamone. Il tema del consiglio è quali
provvidenze prendere per la conservazione dello stato. Giovanni dell'Agnello, «reputato
buono mercatante e fedele cittadino», si alza e propone di accentrare tutto il potere, per un
anno, nelle mani di un signore. Poi aggiunge una candidatura: messer Piero di messer
Albizzo da Vico, dottore in legge, già designato per l'ambasceria di pace a Pescia, quindi un
uomo di gran reputazione e totale fiducia dei Pisani. Ma il bravo Piero, per quante suppliche
gli rivolgano i componenti del consiglio, rifiuta, ed, anzi, affretta i tempi della sua partenza
per Pescia. L'idea di avere un signore ha però fatto presa, ed allora si alza, per candidarsi, ser
Vanni Botticella, «anticamente per genia di beccajo», ma, prontamente, Giovanni osserva che
occorre avere 30.000 fiorini da spendere per assoldare truppe. Il velleitario Vanni dichiara la
propria impotenza, e torna nei ranghi. Su tale episodio, la seduta viene genericamente
aggiornata ai giorni seguenti, invitando tutti a riflettere.
Mentre i buoni Pisani discutono nei fondaci, nelle piazze, nelle case, Giovanni non perde
tempo: innanzi tutto stringe a sé Giovanni Acuto, comprandone i servizi, o, meglio,
garantendogli il pagamento del soldo, con i 30.000 fiorini avuti da Bernabò. Poi imposta un
qualche piano d'azione, distribuendo i soldati in case sicure di persone di sua fiducia. Ma il
movimento non può passare del tutto inosservato, e quei Pisani che già in consiglio erano
rimasti sgradevolmente colpiti dal suo atteggiamento e dalla sua proposta, si radunano,
armati, e insieme vanno al Palazzo degli Anziani, a denunciare ciò che essi ritengono un
tentativo di colpo di stato. Ma Giovanni ha i suoi buoni informatori, che, tempestivamente gli
dicono cosa stia avvenendo. Giovanni comprende che il momento è venuto e passa all'azione:
impartisce precise disposizioni ai soldati «che egli havea (di)stribui(ti) per le case di certi suoi
fidati e singolarissimi amici, e alla moglie, e alla famiglia di casa». Quindi, armato di tutto
punto, con «una fonda cappellina in capo», si mette a letto, facendo coricare sua moglie
128 CATUREGLI, Giovanni dell’Agnello, p. 39, citando P. VILLARI, I primi due secoli della storia di Firenze,
Sansoni, Firenze, 1898, vol. I, p. 303. La discussione sull’atteggiamento di Genova è in CATUREGLI,
Giovanni dell’Agnello, p. 38-41.
129 Natale Caturegli crede all’accordo tra Giovanni e Bernabò, nota infatti come sia nella linea politica
attuale dei Visconti impadronirsi di Pisa per disturbare le operazioni ed il traffico marittimo di Firenze;
egli cita il caso del 1953 quando Giovanni Visconti abbandona la lotta contro Firenze perché non riesce a
garantirsi l’alleanza dei Pisani e la congiura del 1355 quando Paffetta da Montescudaio ha tentato di
dare Pisa ai Visconti, cfr. CATUREGLI, Giovanni Agnello, p. 47-48.
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accanto a lui. In piena notte, i cittadini armati, col viatico degli Anziani, si recano a casa di
Giovanni e bussano vigorosamente al portone. Come da istruzioni ricevute, la porta viene
immediatamente aperta e la turba armata ammessa a dirigersi verso al camera da letto del
padrone di casa, da cui giunge il rumore di una sonora russata: Giovanni dello Agnello
sembra dormire il sonno del giusto. Sua moglie invece, allo scorgere gli intrusi, si leva a
sedere sul letto, mostrando il seno nudo ed invitando a rispettare il sonno di suo marito che
ne ha veramente bisogno. Ma aggiunge «che se lo volieno svegliare, che lo farebbe».
L'intimità violata, un'intimità che appare in tutto naturale ed innocente, il pudore sorpreso
della donna, l'imbarazzo alla vista di quel seno nudo, la inaspettata facilità con cui sono stati
ammessi ad entrare nell'abitazione, raffredda le convinzioni degli intrusi, forse si sono
sbagliati, forse hanno creduto a delle voci destituite di ogni fondamento; fatto sta che, si
affrettano a lasciare la casa e ritornano al Palazzo degli Anziani a riferire l'accaduto ed ad
ammettere l'abbaglio nel quale sono caduti. A tarda notte, ognuno se ne torna alla propria
abitazione. Ma Giovanni non perde un attimo, chiama a sé Giovanni Acuto ed un pugno di
fidatissimi soldati e con loro si reca al Palazzo degli Anziani, penetrandovi con facilità. Lascia
dei soldati alla guardia della porta e sale lo scalone, entra nella sala del consiglio e
immediatamente si siede sullo scranno del Preposto. Poi, ad uno ad uno, fa svegliare gli
Anziani e li fa venire dinanzi a sé, comunicando loro che la Vergine Maria in persona «gli
havea rivelato che, per il bene e riposo della città di Pisa, dovesse prendere sotto titolo e nome
di Dogie la Signoria e'l governo della città di Pisa». La presenza nella sala di Giovanni Acuto
e dei suoi soldati rende estremamente credibile la visione di Giovanni, inoltre questi aggiunge
che ha trovato i 30.000 fiorini per pagare gli stipendi agli Inglesi, che quindi sono ora contenti
e, non lo dice ma lo sottintende, a lui fedeli. Ottiene così di esser confermato signore dagli
Anziani, «e sotto lo splendore delle spade», li fa immediatamente giurare nelle sue mani. Poi
impone agli Anziani di mandare a chiamare i cittadini che potrebbero essergli avversi, e,
quando giungono alla spicciolata, li informa che ora è signore e per qual motivo, e, invece di
minacciarli, li colma di gentilezze e di promesse di cariche e prebende. Tutti, per amore o per
paura, si prestano a giurare nelle sue mani. Quando finalmente l'alba illumina le case di
fronte, l'opera è compiuta, Giovanni dell'Agnello si è insignorito di Pisa, ed ora sì, può
veramente dormire, sfinito. Il giorno seguente, con gli Anziani, con i notabili della città e con
la gente d'arme cavalca per la città «e a grida di popolo fu fatto signore»; assume il titolo di
Doge. Il colpo di mano non ha provocato violenza alcuna: «né fu chi ricevesse un buffetto».
Anche tutti gli armati vengono a giurare nelle sue mani; per mostrare che vuole signoreggiare
mansuetamente sceglie sedici membri di famiglie popolari per consigliarlo (si fece a'consorti)
ed afferma che, di anno in anno, si farà un nuovo doge. Si fa uno stemma in cui un leopardo
d'oro rampa su un campo rosso.130 «E infine seguitando il consiglio del conte Guido da
Montefeltro a papa Bonifazio, le promesse fur larghe e lunghe, ma lo attendere stretto e corto,
che di cosa che promettesse niente osservò». Mutevole nel giudizio, abbandona poi il titolo di
doge, forse perché rammenta troppo la sua promessa di nuove scelte annuali, e si fa chiamare
signore. «E se mai fu signoria fastidiosa, piena di burbanza, quella fu dessa, e nelli ornamenti
e nel cavalcare con verga d'oro in mano. E quando tornato era al palagio si mettea alle finestre
a mostrarsi al popolo come fanno le reliquie con drappo a oro pendente, tenendo le gomita
sopra guanciali di drappo a oro. E patìa e volea che come al papa o all'imperatore, le cose
ch'elli s'havessono a sporre innanzi, si sponessono ginocchione; e altre simili cose molto più
130In verità nella miniatura che illustra la cronaca di Giovanni Sercambi, e dove appare un ritratto di
Giovanni dell’Agnello bel connotato fisiognomicamente, gli stendardi sono mostrati riportare un
agnello e non un leopardo, ma forse questa è una libertà del miniatore. Codice n° CLXVII, Archivio di
Stato di Lucca.
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Carlo Ciucciovino
vane».131 Il racconto degli eventi da parte dei cronisti pisani è complementare e non in
contrasto sulla vicenda raccontata, con qualche sapore romanzesco, da Filippo Villani. Il 12
agosto avviene un grande raduno di gente al Nicchio, e, di qui, i dirigenti dei Raspanti:
Giovanni della Rocca, Totto e Guido Aiutamicristo, Bindaccio di Benedetto, accompagnati da
molti armati, vanno a casa di Giovanni dell’Agnello, nella cappella di Santa Cristina, dove
sono già radunati molti cittadini e molti altri armati. Qui li raggiunge Bartolomeo Scarso, un
altro dei principali del partito. Tutti vanno al palazzo degli Anziani; sul loro capo sventolano
le insegne delle società del popolo di quartiere: della Cerva Nera e di San Casciano, quello
della Maddalena e quello degli Spiedi. Giungono molto presto e trovano solo alcuni Anziani;
come evidentemente preordinato, Ludovico della Rocca e Rinieri di Bonifazio insediano
Giovanni nel “palmento”, cioè dove siedono e da dove parlano gli Anziani, in mezzo agli
altri. «Lo decto ser Giovanni dell’Agniello, essendo quivi, baciò in boccha li decti signiori
Anziani e poi, avendoli baciati, Andrea Scharso incominciò et disse: “Sia dogio! Sia dogio et
signiore a vita!”». La presenza dei soldati inglesi consiglia tutti ad approvare la proposta. Il 13
agosto, sacro a San Casciano, il nuovo doge, accompagnato dagli Anziani, dai suoi sostenitori
e dagli armati va al duomo, ascolta la messa, poi il cancelliere degli Anziani, ser Gaddo Sasso,
legge il documento di elezione del doge, Giovanni giura e accetta l’incarico, ricevendo il titolo
di signore di Pisa e Lucca e difensore del popolo. Giovanni decreta che i confinati possano
rientrare, diminuisce qualche tassa e nomina suo vicario messer Bartolomeo di ser Colo
Scarso. Ser Gaddo viene confermato cancelliere e Bartolomeo di Compagno è nominato
tesoriere. 132 Pochi giorni più tardi viene firmata la pace con Firenze.
Riguardo l’elezione di Giovanni dell’Agnello, così scrive Marco Tangheroni nella sua
scheda biografica del doge: «Il Sercambi attribuisce l'iniziativa a Bindaccio Benetti "homo
savio e amato in Pisa, benché della persona non fusse sano", al quale il dell’Agnello. avrebbe
promesso il governo di Lucca. Ancora due punti del racconto del Sercambi (Croniche, cap.
CLX, Come messer Iohanni dell'Agnello fu fatto dogio di Pisa) meritano di essere sottolineati: il
rapporto che stabilisce tra l'istituzione del dogato e il desiderio di pace di non meglio precisati
"alcuni di Toscana" e il fatto che l'elezione sarebbe avvenuta con molta concordia e "senza
romore" (cioè senza tumulti) "e saputa di molti". In conclusione: un colpo di Stato promosso
dai capi della fazione raspante - il cui potere era traballante - sostenuto anche da alcune
società di popolo (i cui gonfaloni era presenti al palazzo degli Anziani secondo il racconto del
Sardo), privo di opposizioni, facente capo ad una persona non troppo compromessa ma di
sicura esperienza. Quanto al titolo assunto dal dell’Agnello, "doge", più che l'esempio
veneziano dobbiamo considerare l'attrazione che su Pisa poteva esercitare il dogato genovese;
di quella Genova in cui, per commercio o per ambascerie, si era spesso recato proprio il
dell'Agnello. "Al modo che reggeva Genova", come infatti scrive il Sercambi».133
131 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 101 è differente da quanto narrato dai cronisti pisani,
ha però il pregio di colpire con il suo intreccio romanzesco e non sembra incompatibile con ciò che
Ranieri Sardo e gli altri cronisti di Pisa narrano.
132 RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 158-161; RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 206; Chronicon Ariminense,col.
1046. Scarna notizia dell’elezione in Cronichetta d’Incerto, p. 258 e anche SERCAMBI, Croniche, p. 136-137.
133 TANGHERONI, Dell’Agnello Giovanni, in DBI vol. 37°.
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La cronaca del Trecento italiano
d'agosto, «non sappiendo l'una parte dell'altra, che ciascuna voglia n'havesse», viene conclusa
e firmata la pace. Questa viene pubblicamente annunciata in Firenze il primo di settembre,
all'entrata dei nuovi Priori, Gonfaloniere di giustizia Simone Peruzzi, uomo visto dal popolo
come eroe della libertà per la sua opposizione a Pandolfo Malatesta. La pace è
sostanzialmente buona per Firenze: infatti riconferma tutte le franchigie di cui il comune di
Firenze ed i suoi mercanti hanno goduto in passato; inoltre, Pietrabuona rimane nelle mani
dei Fiorentini, ed alcuni castelli pisani dovranno esser distrutti, tra questi Castel del Bosco.
Anche le forme sono umilianti per Pisa: per dieci anni i Pisani saranno tributari di Firenze e,
alla vigilia di San Giovanni Battista, dovranno pubblicamente recare 10.000 fiorini d'oro. La
pace viene confermata in nome di Urbano V dall'arcivescovo di Modena Piero Cini e da fra'
Marco da Viterbo, generale dei Frati Minori.134 Secondo il Graziani, la guerra è costata a
Firenze 1.200.000 fiorini d’oro! Il cronista di Pisa, Ranieri Sardo, esclama contento per la
raggiunta pacificazione: «Iddio mantenga lo nostro signiore missere lo dogio et a llui dia
gratia di fare bene!».135 Stranamente, in Firenze si diffonde la voce che la pace sia ingiusta, e
che sia stata motivata dalla gran fretta di concluderla da parte di Carlo Strozzi, perché l'onore
della sua conclusione sia ascritto alla sua famiglia ed alla sua magistratura. Il popolo in
piazza mormora e si teme che dalle parole passi ai fatti, per cui Simone Peruzzi dà ordine che
sia accompagnato alla sua dimora dai mazzieri e dai fanti, e la sua abitazione presidiata,
fintantoché sia sbollita l'irritazione. Dopo qualche giorno, il popolo si convince della
sostanziale vantaggiosità dell'accordo stipulato: tra l'altro consente di togliersi di dosso
«dolcemente la spesa di messer Anichino di Bongardo e delli Inglesi». Anichino conduce la
sua compagnia e «molti mascalzoni, che non sapieno e non potieno vivere se non di rapina»,
verso il Lazio. A novembre vi entra, spadroneggia per la Sabina, poi prende Sutri, dove
sverna. Gli Inglesi invece, dopo aver predato il Senese, passano nel territorio dell'Aquila e si
dirigono verso la Puglia a svernare.136
134 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1364, vol. 3°, p. 306-309, nella nota di Ammirato il Giovane a
p. 308, vengono riportate in dettaglio alcune delle altre clausole: secondo una certa sequenza temporale,
Pisa dovrà restituire Castelvecchio, Altopascio, poi Pietrabuona (la nominale causa della guerra), poi i
castelli di Sorano e Lignano. Firenze deve rendere la terra e la fortezza di Pave, il castello di Ghizzano,
Peccioli, l’isola, il castello e la rocca del Giglio. Pisa deve demolire Castel del Bosco e Firenze il castello
di Toiano e renderne il territorio ai Pisani. I prigionieri debbono essere restituiti senza riscatto.
RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 204-205; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 161-163 elenca i fuorusciti ai
quali il doge dell’Agnello permette di rientrare. MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 736-737.
135 RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 163. La cifra di 1.200.000 fiorini è registrata anche da Ammirato il
giovane nella nota 1 a p. 309 di AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1364, vol. 3°; SERCAMBI,
Croniche, p. 137-138.
136 VILLANI MATTEO E FILIPPO, Cronica, Lib. XI; cap. 102; sull’importante mediazione di pace di Francesco
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1364 Giovanni ha acquisito una certa preminenza tra i membri delle famiglie che governano il
partito dei Raspanti: i Della Rocca, gli Aiutamicristo, gli Scarso. In ciò favorito dalla scarsa
visibilità nei confronti dei Bergolini, che invece hanno giurato odio e distruzione nei confronti
di Masino Aiutamicristo e dei Della Rocca. Durante i giorni della battaglia di Cascina,
Giovanni è a Milano, in ambasciata presso i Visconti. Tornato a Pisa, ed ottenuto l'accordo dei
suoi colleghi di parte politica, per ben due volte parla ai cittadini caldeggiando la nomina di
un doge, come rimedio straordinario, ma riscuotendo freddezza. La notte sul 13 agosto si
attua il colpo di stato.137
Di Giovanni non conosciamo la data di nascita, che è probabilmente da collocare, nel
secondo decennio del secolo, quindi egli è ora un quarantenne. Ha due fratelli Piero e
Lemmo, quest’ultimo è stato catturato nella battaglia di Cascina. Il loro padre ha nome Cello e
il nonno è Jacopo. Il fratello del padre, zio Netto ha un maschio, Jacopo che è quindi cugino
del doge e il figlio di Jacopo ha nome Lemmo come lo zio.
Il doge viene da una famiglia non nobile, ma della più alta borghesia mercantile,
immigrata in città, forse dalla Maremma verso l'inizio del secolo scorso. Alla fine del
Duecento ha ormai raggiunto un alto livello politico e sociale connesso ad un'attività fondata
soprattutto sul commercio, e parte della sua ricchezza è investita in beni fondiari in città e nel
contado. La famiglia dell’Agnello ha interessi in Sardegna ed evidentemente è in ottime
relazioni con il giudice Mariano d’Arborea che ha prestato, su sollecitazione di Giovanni, ben
16.000 fiorini a Pisa per la guerra. L’attività commerciale della casata si svolge anche
nell’Africa del nord. Giovanni, seguendo le orme del padre, ha scelto di vivere nella
"cappella" di S. Cristina, a meridione dell'Arno, nel quartiere di Chinzica, come altre famiglie
mercantili. Come abbiamo già visto, Giovanni ha qualche notevole abilità nelle relazioni
esterne, ed ha effettuato varie trattative ed ambasciate in nome del comune. I suoi successi e
le sue qualità gli hanno valso la stima dei colleghi e l’ammirazione del popolo, ma anche
quella dei potenti con i quali è venuto in contatto, primo fra tutti il bellicoso signore
visconteo.138
§ 41. Le cavallette
Come già accadde l'anno scorso, ad agosto si assiste ad un'invasione di cavallette, gli
insetti invadono Romagna e Marche «volavano, e dove si ponevano non vi rimaneva niente se
non la terra brolla».139 Lo stesso Bernabò, a colloquio col suo fido Francesco Ordelaffi, in
Cremona, la vigilia di San Bartolomeo, sull’ora del vespro le vede arrivare. Per due ore intere
gli insetti oscurano il cielo.140
140 CORIO, Milano, I, p. 813; GIULINI, Milano, lib. LXX, anno 1364; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo
XV, p. 65.
141 Chronicon Estense; col. 487. Notizie di Beatrice le abbiamo nella Genealogia dei principi d’Este, in Gli
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Antico, p. 131-139 riporta le disposizioni testamentarie del vecchio Malatesta. AMIANI, Fano, p. 287-288
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L’anno scorso è venuta a mancare una figlia di Malatesta, madonna Taddea, «molto
spirituale donna, la quale fu moglie di misser Giovanni degli Ordelaffi da Forlì».144
registra che nel 1363 Galeotto Malatesta è stato chiamato a Rimini da suo fratello perché il vecchio
Guastafamiglia vuole abdicare. VERNARECCI, Fossombrone, p. 318-319. Anche JONES, The Malatesta of
Rimini and the Papal State, p. 87-88.
144 Chronicon Ariminense,col. 908; AMIANI, Fano, p. 287.
146 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 194; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 194.
147 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 195; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 195.
148 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 521. I possessi che passano al demanio reale sono Brindisi, Monopoli,
Bari, Giovinazzo, Molfetta, Bisceglie, Trani, San Severo e Potenza. Serviranno per pagare il censo al
papa. Cfr. CAMERA, Elucubrazioni storico diplomatiche,p. 252.
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149 DEL BALZO DI PRESENZANO, A l’asar bautezar!, vol. I, p. 287-289; CAMERA, Elucubrazioni storico
diplomatiche,p. 255-256.
150 DEL BALZO DI PRESENZANO, A l’asar bautezar!, vol. I, p. 284-289.
151 PINZI, Viterbo, p. 322; nella nota 1 riporta integralmente il proclama. Vale la pena di leggerlo, perché
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Se le armi riposano, gli animi continuano ad odiare, e ognuno dei contendenti appresta
ciò che necessita alla continuazione della guerra. Ma l'imperatore Carlo IV e il re d'Ungheria
Ludovico, non apprezzano questo conflitto, vedendone i gravi rischi di destabilizzazione,
concordano pertanto di inviare come loro paciere il vescovo di Firenze, messer Pietro Corsini,
allora legato pontificio in Alemagna. Pietro non è persona da poco e saviamente conduce le
trattative, che vengono coronate dal successo e conducono alla pace firmata nel gennaio del
1365. Ne esce vittorioso Rodolfo d'Austria, cui rimane il Tirolo, il duca di Baviera si deve
accontentare di una contea passatagli da Rodolfo.155
cui nascono Alberto e Federico III, imperatore e, da questi, «Maximiano a’ nostri giorni [quelli del Corio]
serenissimo re de Romani». Per la morte di Rodolfo d’Asburgo, si veda il prossimo anno.
158 Chronicon Estense, col. 487.
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ricercarsi in una lite sulle acque del fiume Trebbia. Francesco Scoto viene bandito, le sue case
distrutte ed i suoi beni confiscati. Con Francesco altri otto Piacentini che l’hanno aiutato
vengono banditi.159
fonte principale è FALCO, Campagna e Marittima, p. 628-633, FALCO, Velletri, p. 48-49, che pubblica
integralmente molti documenti.
162 Accordi gravosissimi, che ci sono puntigliosamente e amaramente riportati dalla cronaca senese: «…e
fero accordo in questo modo, che li Senesi dessero a detta compagnia fior. 26.000 d’oro e la detta
compagnia promissero di non offendere el comune di Siena, né essere contra per tempo di 3 anni: el
detto accordo fu a dì 29 ottobre. E’ Sanesi, non avendo i denari così in punto, dero e mandaro statichi
(ostaggi) al detto misser Alberetto capitano d’essa compagnia, e mandaronvi 6 cittadini di Siena. El
detto capitano volse anco per statico el conservadore di Siena: e così andoro el detto conservadore cò gli
altri. Misser marchese Opizzino Malaspina, conservadore di Siena, fu contento e andò per statico del
comuno di Siena cò gli altri cittadini di Siena, cioè misser Bartolomeo di misser Orlando Malavolti,
misser Andrea di conte de’ Piccolomini, Mino di Monaldo di Puccio Franceschi, Bartalomeo di Giovanni
del Peccia, Giovanni (di) ser Dini e Giovanni di ser Mino da Percena. E così si partì la detta compagnia
di quel di Siena, e andarone a Gracciano in quello di Montepulciano, a dì 30 d’ottobre, e menaronne li
detti statichi, e stero tanto che la detta compagnia ebbe interamente 26 milia fior, d’oro, e anco più, come
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inglese si porta a Gracciano, nel territorio di Montepulciano, e di qui entra nel territorio di
Perugia, e, predando e rubando, arriva fino a Passignano, sul lago Trasimeno. Posto il campo
a Cortona, ogni giorno gli Inglesi corrono il territorio, portando violenza e rubando.
Strappano ai Michelotti Castel Nuovo, vicino al Castello della Pieve. A novembre si spingono
sempre più vicino a Perugia, fino ad arrivare a San Marco, poco più di un miglio a Nord-
Ovest della città. I Perugini, non avendo forze sufficienti, non escono a proibire le violenze, e
si limitano a rafforzare le guardie e inviare messi a chiedere aiuto ad Anichino, che è nel
Patrimonio. Questi accorre a capo del suo ingente esercito.163 Il Tedesco mette i suoi
alloggiamenti a San Martino in Colle, un paio di miglia a sud di Perugia, e la riserva
strategica a San Fortunato, poco a Nord di Marsciano. I militi dell’amico Anichino non fanno
danni minori di quelli del nemico inglese. Il podestà di Perugia cavalca al campo di Anichino
a San Martino, per concertare la difesa. Vengono fatte fabbricare varie armi: 500 lance ferrate,
altrettante asce, e 500 «archibugetti, una spanna lunghi, detti […] bombarde, che le portavano
in mano, e erano tanto gagliarde che passavano ogni armatura». Gli Inglesi non sono in una
situazione allegra: il cibo scarseggia perché il poco che ne è rimasto è stato portato al riparo
delle città murate, la prospettiva di uno scontro con Anichino non li rallegra, propongono
allora di trattare. Accetterebbero di andarsene per pochissimo danaro. Ma Anichino consiglia
che non si paghi neanche questo. Finalmente, il giorno dopo San Martino, si conclude un
accordo: gli Inglesi si possono trattenere per 10 giorni nel Perugino per acquistare viveri, a
loro spese, per un anno si asterranno da azioni ostili nei confronti di Perugia o di Anichino.
Sicuramente l’accordo è stato facilitato dal fatto che il compagno in comando di Anichino è
Albaret Sterz, e questi indubbiamente nutre stima ed ha ascendente nei confronti degli
Inglesi. Gli Inglesi sciamano quindi verso Gubbio, Nocera, Foligno, Assisi, ed Anichino torna
verso Roma.164
qui sotto contaremo, senza molte spese e altre cortesie. E prima Sanesi mandaro a la detta compagnia de
l’Inghilesi fior. 14.400 d’oro, i quali si mandoro a li detti statichi, e così li detti statichi pagoro al detto
misser Alberetto loro capitano per parte di pagamento de la maggior somma fior. 14.400. E più lò
mandò 1.000 fiorinate di frecce e di verrettoni e uno cavallo al detto capitano e molte altre cose…fior.
1.000. E più pagoro al notaio de la detta compagnia per scritture fatte per lo detto accordo fior. 50. E poi
ebero fior. 12 milia d’oro, i quali mandaro a li detti statichi che li pagassero al detto capitano per resto
della composizione di fior. 26 milia, come di sopra è detto, e fu di dicembre, fior. 12.000. E anco
mandoro fior. 2 milia a li detti statichi, i quali si pagassero a più persone singulari di detta compagnia,
per questioni aveano col comuno di Siena, e questi furo come taglia sopra taglia, fior. 2.000. E anco
mandoro a li detti statichi fior. 500 d’oro perché li pagassero a li conseglieri del detto capitano di detta
compagnia, perché uscissero del comuno di Siena. E anco mandoro a la detta compagnia 9 muli carichi
di frecce e guirettoni, per acordo fatto cò loro. Anco pagoro Sanesi nella riparazione di detta compagnia
in comissari a tutte le terre e ambasciatori e proveditori e messi mandati per lo contado e altrui, e per la
guardia de la città, et altre spese trasordinarie per cagione di detta compagnia, che furono più che fior.
20 milia d’oro. E anci ebero molto denaro molti cittadini per rimunerazione e fadiga durata nella detta
compagnia». Cronache senesi, p. 607-608.
163 Pellini parla di addirittura 10.000 cavalli e 6.000 fanti.
164 PELLINI, Perugia, I, p. 1.007-1.008; Diario del Graziani, p. 196-198, il Graziani aggiunge che sia gli Inglesi
che gli uomini di Anichino vengono invitati «a stare un dì a mangiare a spese del Comuno». Rifocillati,
comprano viveri e rifornimenti a Perugia.
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nella deformata grafia del Sangiorgio: Nicolò Azaiolo (Acciaiuoli), Raimondo de Bauzio (Del
Balzo), Nicolò Alisia (Alife), cancelliere del regno, ed altri, tra i quali Antonio Spinola. In virtù
di tale donazione, le armi del regno di Maiorca compaiono nello stemma del Monferrato.165
§ 55. Savona
Tutto fila liscio a Savona, nella tranquillità generale. Unico problema sono alcuni conflitti
di confine che oppongono il comune ai del Carretto di Noli. L’oggetto del contendere è il
castello di Segno che domina la rada e la terra di Vado, posto quasi in posizione baricentrica
tra Noli e Savona. Chi sia interessato ai termini del contenzioso, può riferirsi allo studio di
Scovazzi e Noberasco, basti qui sapere che è dagli anni Trenta che i del Carretto e il comune
litigano per il possesso dei luoghi. Poiché Savona teme che la causa da anni in corso davanti
al doge Gabriele Adorno possa emettere una sentenza a lei contraria, si appella all’imperatore
Carlo IV, il quale, benignamente, il 15 dicembre emette un diploma nel quale conferma i
privilegi e le concessioni che i suoi predecessori avevano dato a Savona e, annullando i
giudizi di chiunque altro, delega al marchese Giovanni di Monferrato ed a Ottone di
Brunswick di arbitrare la contesa. Solo il 29 gennaio 1369 i due nobili emetteranno la loro
sentenza, che assegnerà la ragione a Savona.166
165 SANGIORGIO, Monferrato, p. 194-195. Ho messo l’atto nel 1364 e non nel 1363, come indicato dal
Sangiorgio, perché egli specifica Indizione II. RICALDONE, Annali del Monferrato, I, p. 342 dice che il 1363.
166 SCOVAZZI e NOBERASCO, Savona, p. 119-127; TORTEROLI, Savona, p. 206-210 che si diffonde sulla
monetazione di Savona, anche eprché Carlo IV ha confermato il diritto del comune a battere moneta.
167 FILIPPINI, Albornoz, p. 358-359.
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§ 59. Arte
Un pittore affresca una Madonna con Bambino in trono nella chiesa di S. Andrea a
Sommacampagna. Questo autore, che forse oggi ha un nome: Giovanni da Volpino, ha
dipinto numerose opere in Lombardia, nel Bergamasco, una delle quali è datata 1364. Esso è
comunemente noto come Maestro di Sommacampagna. «è un pittore dal linguaggio
semplificato, talvolta perfino rozzo, che rinuncia a effetti di spazialità e, adottando una
gamma cromatica assai ristretta, terrosa, ravviva e alleggerisce i contorni delle sue immagini
con l’inserimento di bianche “perle”, in un modo assai caratteristico che lo rende facilmente
riconoscibile». La maggior parte dell’attività di questo pittore si svolge in Trentino,
specialmente in Val di Non.
Non stupisce che esempi di pittura a soggetto profano ornino le pareti di castelli e
residenze signorili. I temi scelti sono principalmente quelli tratti dalle leggende cavalleresche
che nutrono le menti e lo spirito dei cavalieri e delle loro damigelle che vi soggiornano. Per i
più colti non mancano richiami a miti del mondo greco e romano. A chi soggiorna in questi
luoghi piace richiamare modi di vita cortese, giostre, duelli, ed anche giochi di scacchi,
musica, scene di vita amorosa. Non mancano scene di vita campestre o, comunque, ispirate
alla natura, del tipo di quelle che sono state dipinte sulle pareti del palazzo papale di
Avignone, animali comuni o esotici in un paesaggio boscoso o fiorito. Cacciatori e pescatori.
Un precursore di tali affreschi è stato Jean de Grandson che nel 1342-44 ha affrescato la
camera del conte Aimone di Savoia nel castello di Chillon, con animali, anche esotici, in un
giardino fiorito. Oltralpe, nella Casa-forte di Les Loives a Roybon, viene raffigurata una
Giostra tra il conte Amedeo VI e il Delfino di Vienne, chiaro richiamo ai conflitti che hanno
opposto Savoia e Delfinato per il controllo della Bresse e del Bugey. Il richiamo al mondo
cortese non è solo sulle pareti delle stanze, ma anche sui cassoni istoriati, in particolare quelli
nuziali, sulle pagine di codici miniati, sui cofanetti di cuoio istoriato ed anche su piastrelle
decorate. Uno straordinario esempio di illustrazione di un mondo cavalleresco è la Tela di
Sion, un tessuto non ancora ben studiato, che riproduce scene di danza e di combattimento.
Sono gli abiti che ci aiutano a datare questo tessuto agli anni 1360-1370. Il telo era
probabilmente usato per ornare una parete e, secondo Pietro Toesca, le scene sono ispirate al
Romàn de Thèbes. L’uso degli arazzi conoscerà un impiego sempre crescente nel corso degli
anni: Amedeo VI, il Conte Verde, tra il 1377 e il ’79, acquista a Parigi 105 tappezzerie
dall’arazziere Nicolas Bataille «di cui 36 con disegni araldici su fondo verde, 18 a fondo rosso
con rose e pappagalli alle armi di Savoia e di Borbone e 12 con immagini di fontane».170
Anche nell’oriente dell’Italia settentrionale, numerosi castelli ci hanno conservato
l’immagine di decorazioni che si richiamano ai poemi cavallereschi. L’esempio più antico di
tale genere è in Castel Rodengo, sopra Bressanone, con scene di Ivano. I massimi esempi a noi
rimasti sono il Castello di Sabbionara d’Avio, che domina la valle dell’Adige, feudo dei
Castelbarco e il Castello di Arco, degli omonimi signori, su una rupe a guardia del lago di
Garda e della valle del Sarca. Il primo è ornato di pitture che risalgono agli anni Trenta del
secolo. Sono tre cicli di affreschi distinti tra loro. Il corpo di guardia è ornato da scene di vita
militare, nel palazzo sono dipinte scene di vita cortese e, nell’alta stanza del mastio centrale,
dove è la camera da letto del signore, vi sono raffigurati soggetti di vita amorosa e di caccia.
In particolare, la Caccia al cinghiale, ora ben visibile dopo il restauro, ha una qualità molto alta
che richiama gli insegnamenti di Giotto. «Il Maestro della Camera di Amore dovrebbe
provenire dall’ambiente veneto, ma con spiccate valenze emiliane che si colgono nel gesto del
cavaliere, nella corsa sfrenata del cavallo di Amore, nell’assalto alla preda del levriero, nella
raffigurazione del verde drago dalle ali particolarmente appuntite». Gli affreschi di questa
stanza vengono datati al 1330-1335. Gli affreschi della camera del palazzo sono molto più
170 CASTRONOVO, Il mondo cavalleresco. L’Italia nord-occidentale; in Il gotico nelle Alpi, p. 225-228.
1364
607
Carlo Ciucciovino
rovinati e meno maturi di quelli della camera da letto. Anche questi vengono datati allo stesso
periodo e sono attribuiti a maestri veronesi. La Stanza delle guardie descrive le arti della
guerra. Vi sono gli esercizi di addestramento, come lotta e scherma, e anche «il cimento
supremo: la Lotta con il drago». Quindi scene di battaglia, duelli corpo a corpo. Le armi che i
guerrieri indossano permettono di datare gli affreschi agli anni 1350-60. Il pittore «è di gran
lunga inferiore [al …] Maestro della Camera di Amore, ma non per questo meno efficace». Gli
affreschi del Castello d’Arco sono tornati alla luce durante i restauri del 1986. Una parete,
quella meridionale, mostra I giuochi, qui sono rappresentate varie figure intente al gioco dei
dadi (o della zara), dama, scacchi, filetto, tavola reale, presenti più volte donne,
probabilmente ad esemplificare la buona educazione impartita alle giovani dame di casa
d’Arco. La parete occidentale mostra scene di svago di vita cortese: un roseto, musica, danza.
Nella parete occidentale vi è anche raffigurata l’Uccisione del drago. Nella parete settentrionale
vi sono scene di cavalleria: il Congedo, una Giostra, il Premio della Giostra. Purtroppo rovinati,
gli affreschi mostrano una notevole qualità; il Maestro d’Arco è molto attento ai particolari,
abiti, armature, oggetti da gioco, note naturalistiche. Giovanna degli Avancini mette bene in
evidenza le miniature del Codice di Manesse alle quali i soggetti appaiono ispirati, così come
pure la libertà con la quale sono trattati. Il maestro non appare interessato alla volumetria
giottesca e discende invece da esperienze veronesi. Ma «nella sua arte c’è quel soffio di
novità, che nel Veneto era stato introdotto da Tomaso da Modena tra il 1352 […] e il 1358». Il
Maestro d’Arco dunque opera dopo che si è concluso il ciclo di Sant’Orsola a Treviso, quindi
negli anni Sessanta del secolo. Il maestro però risente anche dell’esperienza di Giovanni da
Milano.171
§ 60. Musica
Guglielmo di Machaut compone la prima messa polifonica di un solo autore: la Messa di
Notre-Dame, forse composta per l’incoronazione di Carlo IV di Boemia nel 1364. Guglielmo è
considerato uno dei fondatori dell’Ars nova. Egli è nato tra il 1300 e il 1305 nella Champagne,
nella stessa regione di Philippe de Vitry, e morirà nel 1377 a Reims dove è canonico di Notre-
Dame. Già nel 1323 Guglielmo diventa segretario del re di Boemia, Giovanni di Lussemburgo.
Per molti anni accompagna l’irrequieto monarca e cavaliere per tutta l’Europa. Nel 1327
partecipa alla campagna di Slesia ed assiste alla presa di Breslavia; nel 1328 è in Lituania e ci
confessa che vi patisce il freddo. Nel ’29 è a Thorn in Polonia ed infine a Parigi. Non
sappiamo se abbia accompagnato in Italia, nel 1330, Giovanni di Boemia. Dal 1340 però egli si
stabilisce a Reims dove è canonico di Notre-Dame e la sua vita meno movimentata gli
consente di dedicarsi alle composizioni musicali. Guglielmo, dopo la morte di Giovanni serve
Carlo II di Navarra e gode della stima e dell’appoggio di Amedeo VI di Savoia. Guglielmo
diventa molto amico della figlia di Giovanni di Boemia, Bona di Lussemburgo e dei suoi figli,
i nipoti del re di Boemia, il maggiore di questi nel 1364 viene incoronato re di Boemia, ed il
minore diventa Duca di Berry. Questi è uno dei più squisiti bibliofili e conoscitori d’arte del
suo secolo. Tra i suoi volumi vi è un libro di Guillame de Machaut finemente miniato. Bona
può molto perché sposa Giovanni II, futuro re di Francia. Alla morte della donna, nel 1349,
Guglielmo passa al servizio di Carlo di Navarra. Nel 1359 è a Reims quando la città viene
assediata da Edoardo III; il compositore ha vissuto l’arrivo della peste a Reims nel 1359-60.
Nel 1360 Guglielmo accompagna Giovanni duca di Berry a Saint-Omer dove si deve
imbarcare per Londra, ostaggio richiesto da Edoardo III in cambio della liberazione di
Giovanni il Buono. Nel 1361 il Delfino, il futuro Carlo V di Francia, è ospite a casa del nostro
compositore. Tra il 1362 e il 1365 il vecchio Guglielmo, afflitto da gotta e orbo, intesse una
tenera storia d’amore con la giovane ed aristocratica Péronne d’Armantières ed i due
innamorati si scrivono lettere d’amore e si incontrano in occasione di pellegrinaggi. La
171 GIOVANNA DEGLI AVANCINI, Il Trentino e la pittura profana nel Trecento, in Il gotico nelle Alpi, p. 290-321.
1364
608
La cronaca del Trecento italiano
relazione gli ispira un romanzo epistolare con sette composizioni musicali: Le voir dit (Il vero
detto, 1365). Nelle celebrazioni di Parigi nel 1368 il musicista incontra lo storiografo Jean
Froissart, e Amedeo VI di Savoia acquista una collezione delle composizioni di Machault.
Negli ultimi anni della sua esistenza, il compositore morirà nel 1377, Guglielmo si dedica a
riordinare i suoi componimenti musicali e letterari. Oltre alla Messa, il repertorio di
Guglielmo di Machaut comprende diciannove lai, sedici dei quali monodici, quarantadue
ballate, trentatre virelais, ventitre mottetti. Guglielmo ha incontrato Petrarca due volte: nel
1327 e nel 1342 o ’43. Guglielmo di Machaut «è il primo importante compositore di musica
polifonica il cui nome ci sia noto». Nel 1323-24 potrebbe aver incontrato Philippe de Vitry, un
incontro tra due giovani uomini, uno ventenne e l’altro trentenne, capaci di ottime relazioni
sociali e uniti dallo stesso genio per la musica. Tra gli estimatori e sodali di Guglielmo vi sono
stati Filippo duca di Borgogna, Pietro di Lusignano, Carlo di Navarra.172
172 RENE CLEMENTIC; Guillaume de Machaut; Arte nova Musikproductions GmbH; 1999 e 2001. München ;
è un CD; WULF ART; Guglielmo di Machaut, in The new grove Dictionary of Music and Musicians; vol. 15°;
ARMAND MACHABEY/CLAUDIO CAPRIOLO; in Dizionario Universale della Musica e dei Musicisti; vol. 4°.
173 Senili, IV, 1.
174 HATCH WILKINS, Petrarca, p. 231-234; ARIANI, Petrarca, p. 56;DOTTI, Petrarca, p. 375-379.
1364
609
Carlo Ciucciovino
ordini religiosi, forse solo i minori, ma non può sperare in una grande carriera ecclesiastica in
quanto figlio illegittimo.176
Roberto Battifolle è il maschio che Simone Battifolle dei conti Guidi ha avuto dalla prima
moglie, del cui casato ignoriamo il nome, mentre dalle seconde nozze con Novella di
Francesco degli Estensi ha avuto altri due maschi: Francesco e Carlo. Sia dalle prime che dalle
seconde nozze, Simone ha anche avuto figlie femmine. Simone è morto a Poppi nel 1348,
ghermito dalla Morte Nera. Simone ed Ugo sono figli del conte Guido, morto verso il 1322-23,
grande alleato di Firenze. Alla morte di Guido, Simone ed Ugo si spartirono l’eredità paterna
e Simone prese il nucleo più compatto dei beni che sono nel Casentino, tra cui Poppi; mentre
Ugo si deve accontentare di possedimenti più frammentari, sparsi tra Mugello, Val di Sieve,
Romagna e Valdarno superiore. Ugo ha un maschio di nome Guido. Simone Battifolle è
quegli che è accorso a Firenze, al momento della cacciata del Duca d’Atene, per garantire il
ritorno della quiete e della legalità. Roberto è stato sempre al fianco di Firenze, anche se la
Signoria, dopo essersi impadronita di castelli appartenenti ad altri rami dei conti Guidi, è
penetrata nel Casentino. Una volta che Firenze si è consolidata nel Casentino, i conti Guidi
hanno realisticamente preso atto della cosa e si sono accontentati di legarsi «alla città con patti
di accomandigia che li pongono in rapporti di dipendenza semifeudale verso il comune
fiorentino». Sempre più dipendenti da Firenze sono anche i figli di Simone, Roberto,
Francesco e Carlo, i quali, nell’ottobre 1357, formalizzano il loro rapporto con un patto di
accomandigia perpetua al comune. Nel novembre 1363, i tre fratelli si dividono i beni
ereditati dal padre, ai due minori, in indiviso, va la parte principale dell’asse ereditario, tra
cui Poppi. I tre fratelli, in armi, sono presenti nell’esercito di Firenze nella guerra che l’oppone
a Pisa.177
1364
610
La cronaca del Trecento italiano
L’apogeo della potenza feudale dei Guidi viene raggiunto da Guido Guerra III (Guido VII),
quando, nel 1164, l’imperatore gli concede un diploma di conferma dei beni e feudi in
Romagna e Toscana. La prima indicazione di un castello a Poppi è del 1169. Ora, l’abbazia
stessa si trasferisce nei pressi del castello, a settentrione di questo. Una serie di sconfitte di
Guido Guerra III sancisce la superiorità del comune di Firenze nella sua lotta con la dinastia
feudale dei Guidi. Guido Guerra III realisticamente accetta la sua condizione di inferiorità e,
vedovo della prima moglie, nel 1176, impalma una fanciulla di un’importante famiglia
fiorentina, Gualdrada dei Ravignani. Da lei ha cinque figli maschi: Guido, Tegrimo, Ruggero,
Marcovaldo e Aghinulfo. Quando Guido Guerra III muore, nel 1214, i figli riescono a
presentarsi uniti di fronte all’imperatore Federico II che conferma loro, nel 1220, diritti e beni.
Ruggero muore in Sicilia nel 1225 e i quattro fratelli superstiti sperimentano contrasti tra loro
ed avviano una divisione del patrimonio. Marcovaldo si leva presto di mezzo, morendo nel
1229. Da questi quattro fratelli, nel giro di un paio di generazioni, prendono nome i diversi
rami della famiglia. Guido VIII, il primogenito, detto anche Guido il Vecchio, ottiene metà dei
castelli di Modigliana e Marradi, altri beni in Romagna, nel Pistoiese e soprattutto in
Casentino, tra cui Battifolle e Poppi. Poppi diventa probabilmente la residenza preferita dal
conte che qui muore nel 1239. Egli lascia due figli minorenni, nati dalle nozze con Giovanna
Pallavicini: Guido Novello e Simone, la vedova ottiene per i suoi figli la conferma dei loro
diritti da Federico II. Quando i due giovani diventano maggiorenni non possono evitare di
confrontarsi con la crescente potenza di Firenze. Nel 1247 Guido Novello diventa podestà ad
Arezzo, poi, tre anni più tardi, a Cortona e si schiera con la ghibellina Pisa contro Firenze,
mentre Simone aiuta i ghibellini di Pistoia. Morto Federico II nel 1250, la posizione del partito
imperiale si indebolisce e i Guidi sono costretti a vendere a Firenze molte terre, tra cui
Empoli, Vinci e Cerreto. Guido Novello e Simone vengono banditi da Firenze per l’appoggio
dato al partito ghibellino. Guido Novello combatte a Montaperti sotto lo stendardo imperiale
e, ottenuta la vittoria, diviene podestà di Firenze. Manfredi di Sicilia lo nomina suo vicario in
Toscana. Simone, contemporaneamente, è alla ricerca della supremazia ad Arezzo. I due
fratelli, la cui madre continua a risiedere a Poppi, espandono il castello e costruiscono una
nuova cerchia di mura e una chiesa all’interno. La popolazione del borgo aumenta e le case
riempiono tutto lo spazio disponibile, espandendosi anche sui fianchi del colle verso
occidente. Poppi diviene sede di mercato. Per ringraziare per la vittoria di Montaperti, i Guidi
fondano il convento francescano di Certomondo. Simone finanzia la Cappella delle Stimmate
e cinque celle dei frati alla Verna, legandosi all’emergente ordine francescano. La sconfitta di
Manfredi a Benevento nel 1266 rimette in gioco la supremazia dei Guidi, Guido Novello lascia
Firenze e Simone combatte in difesa dei beni familiari in Mugello. Tramontata anche la stella
di Corradino di Svevia, Guido Novello si rifugia a Siena e viene sconfitto nel 1269. Nel 1273 i
fratelli sono costretti alla pace con Firenze, ma, mentre Guido Novello, si ribella a questa e
fugge a combattere con Faenza e Forlì contro gli Angioini, Simone si adegua al mutamento
della situazione politica e diventa guelfo, amicandosi Firenze. Simone muore prima del 1280 e
suo figlio Guido prende il nome di Guido di Battifolle. Questi, giovanissimo, nel 1282, guida
la cavalleria fiorentina che soccorre Carlo d’Angiò. Suo zio Guido Novello è schierato sul
fronte opposto e caccia i guelfi da Arezzo e combatte Firenze, subendo una rovinosa disfatta a
Campaldino, proprio all’ombra del castello di Poppi, nel 1289. Firenze manda le sue truppe a
bruciare una parte del castello (Guido Novello ne conserva in parte la proprietà), ma
risarcisce con 3.000 fiorini l’alleato Guido di Battifolle per i danni. Nel 1291 Federico Novello
tenta un’incursione nel Casentino per impadronirsi di castelli tolti da Firenze a suo padre
Guido Novello e pare che sia morto proprio sotto Poppi in uno scontro con i suoi cugini
Guido Salvatico di Dovadola e Tancredi di Modigliana. Guido di Battifolle riesce
gradualmente a appropriarsi completamente del castello di Poppi.
Torniamo a Guido Guerra III e vediamone tutta la discendenza. Guido, una volta vedovo
della prima moglie Agnese che non gli ha dato figli, ha sposato Gualdrada di Bellincione di
1364
611
Carlo Ciucciovino
Uberto dei Ravignani e ha avuto cinque figli maschi.178 Guido, il primogenito è noto anche
come Guido il Vecchio, Tegrimo, Ruggero († 1225), Marcovaldo e Aghinolfo.179
Guido il Vecchio o Guido Guerra IV o Guido VIII, è nato verso il 1180, sposato in seconde
nozze con Giovanna Pallavicini, da lei ha due maschi: Guido Novello e Simone. Guido
Novello a sua volta ha tre figli maschi: Federico, Manfredi e Guglielmo, tutti questi per
distinguerli dai loro omonimi, vengono indicati come Novello. Per la discendenza di Simone
si veda sopra.
Da Tegrimo nasce Guido da Modigliana e da questi Corrado. Ruggero muore senza prole
nel 1225.
Marcovaldo ha due maschi: Guido e Ruggero. Da quest’ultimo nasce Guido Salvatico.
Aghinulfo infine, ha un maschio: Guido da Romena, e da questi nasce Aghinolfo di
Romena.
Guido conte di Battifolle è probabilmente l’uomo in armi effigiato nel Cappellone degli
Spagnoli.
1364
612
Guidi Tavola I
fonte: Rossella Rinaldi; Le origini dei conti Guidi e le voci relative di M. Marrocchi e di M. Bicchierai in DBI, vol. 61° Alberto
e Natale Rauty, I conti Guidi in Toscana nz. 1085
Rainerio Tegrimo III Berta gen.
diacono nz. 1034-1059 nz. 1085 Umberto
nz. 941 sp. Uberto nz. 1085
† >967 Uberti
Rugieri
Teudegrimo gen. Guido I gen. Tegrimo II gen. Guido II gen. Guido III gen. Guido IV gen. † < 1097
ovvero nz. 941-958 † < 992 nz. 992-1029 nz. 1034-1056 ovvero
Tegrimo I † < 963 sp. Gisla † < 1034 † < 1066 Guido Guerra Tegrimo IV
nz. 927 sp. Gervisa figlia del marchese sp. Imilda sp. Adelaida nz. 1056-1103 nz. 1086-1099
† < 941 Teobaldo figlia di Ildebrando sp. Ermellina † < 1100
sp. Engelrada figlia di Alberto
Guido V si veda sotto
Ruggero senza eredi ovvero
† 1125 Guido Guerra I
Adaleita nz. 1086-1122
Sofia nz. 1162 Aghinolfo conte di Romena † < 1124
Badessa di n. 1182-88 sp. Imilia Rainaldi
Prato Vecchio Imilia † < 1147
nz. 1134-1176 sp. Conte Alberto Berta
Alberti Marcovaldo conte di Dovadola Badessa di Rosano
Guido V gen. 1158 † 1129
ovvero Guido VI Guido VII
Guido Guerra I ovvero ovvero Guido VIII Per tutti gli eredi di Guido VII
nz. 1086-1122 Guido Guerra II gen. Guido Guerra III gen. ovvero si veda la Tavola II
† < 1124 nz. 1122 4° decennio XII sec. Guido Guerra IV
sp. Imilia Rainaldi † 1157 † 1214 n. 1180 c.ca
figlia di Alberto sp. (ignoriamo) sp. Agnese (sf) † 1239
sp. Gualdrada di
Bellincione Tegrimo conte di Modigliana e Porciano
dei Ravegnani
figlie femmine
Sofia
Imilia
Gualdrada
Guisiana
Guidi Tavola II
Andrea
Parta
Elisabetta
Guidi di
Modigliana
Simone
Carlo
Luigi
Fiore
Tegrimo gen. Enrico
1240/50 -1315 Guido Domestico
sp. Giovanna figlia Adelasia
di Federico Primavera
di Battifolle Smeraldo
CRONACA DELL’ANNO 1365
Mortuus est ille qui a teneris annis […] semper assistens fideliter […]
direxit studio recuperatione regni.3
§ 1. Dopoguerra a Firenze
La fine della guerra tra Firenze e Pisa e quella tra Milano e la Lega della Chiesa ha lasciato
liberi sul territorio molti mercenari, intenti solo a depredare tutto ciò che possono. Le bande
colpiscono necessariamente i comuni meno potenti e più indifesi, sono inoltre trattenute dal
compiere scorrerie sul Fiorentino dai trattati di pace (e Firenze è troppo potenziale buon cliente,
per romperli senza grave motivo). Giungono continue richieste di aiuto da tutte le comunità che
sono state oggetto di “attenzioni” da parte dei mercenari, e Firenze nega sempre aiuto, il ché la
rende fortemente sospetta agli occhi di tutti. Alle rimostranze di Siena occorre però dedicare
un’ambasceria, per stroncare sul nascere il crescente astio nei confronti della troppo potente, ed
ora indifferente, Firenze. Gli ambasciatori sono Biagio dei Guasconti e Niccolò dei Popoleschi.
Vengono invece delegati i messeri Uguccione Buondelmonti, Rosso dei Ricci e Francesco dei
Rinuccini ed il dottore in legge Filippo Corsini, ad incombenza molto più lieta: andare a
congratularsi con Urbano V per la sua elezione, certamente molto in ritardo, ma scusabile per le
gravi circostanze che il comune si è trovato ad affrontare recentemente. Si raccomanda al
pontefice che voglia tornare a Roma, sua sede naturale. Lettere di augurio vengono inviate a
Bernabò Visconti per il matrimonio di sua figlia Verde, quattordicenne, col duca d’Austria
Leopoldo il Buono.4 Tutti compiti da città in pace, ordinaria amministrazione, e, proprio per
questo, tanto più dolce e gradita, dopo la convulsione ed i pericoli della guerra.
informazioni in GIULINI, Milano, lib. LXX, anno 1365. COGNASSO, Visconti, p. 241 nota la giovane età di
Verde. Annales Mediolanenses, col. 736 registra il matrimonio sotto l’anno 1366.
Carlo Ciucciovino
§ 4. Congiura a Verona
Cansignorio della Scala, carattere violento ed ombroso, sospetta, non sappiamo quanto a
ragione, suo fratello Paolo Alboino di congiurare per strappargli la signoria, e, con questa, la vita.
Senza attendere che la congiura maturi, Cansignorio passa all’azione e nella notte del 21 gennaio
fa arrestare il fratello, ed i suoi collegati: fra’ Domenico, predicatore della chiesa di
Sant’Anastasia, Giannetto Sacramosto, Bartolomeo Pitati, Alvise Morando, Bonomo Aleardi,
Alberto da Mizzole. Questi sono impiccati, dopo un sommario processo, Paolo Alboino viene
invece inviato nella fortezza di Peschiera sul Garda, per non uscirvi se non cadavere, dieci anni
dopo.8
5 FILIPPINI, Albornoz, p. 364. Data l’alta probabilità di insolvenza della regina, il cardinale si è cautelato
ottenendo garanzie da molti nobili, per 1.000 fiorini ciascuno.
6 FILIPPINI, Albornoz, p. 365.
8 ROSSINI, Verona Scaligera, p. 747; CARRARA, Scaligeri, p. 205; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 197; Rerum
Bononiensis, Cr. Vill., p. 198. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo XV, p. 73-74 dice «in tutto
quell’anno Cansignorio stette ritirato nel suo palagio, lasciandosi vedere rare volte in pubblico;
perciocché, avendo offeso molti, di molti avea sospetto e timore». CASTELLINI, Storia di Vicenza, lib. 13°,
p.84.
9 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 196; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 196; Rerum Bononiensis, Cr. Vill.,
1365
614
La cronaca del Trecento italiano
§ 6. Piemonte
Giacomo di Savoia Acaia, il primo di febbraio, si porta sotto Barge, che vuole recuperare.
Federico di Saluzzo, che è rinserrato al suo interno, teme di venir intrappolato ed evade.
Giacomo, dopo un bombardamento di artiglieria, la costringe ad arrendersi. Dieci giorni più
tardi, il principe guida l’esercito contro Pianezza e lo ottiene. Finalmente, i due eserciti
vengono a contatto nelle vicinanze di Fossano e combattono presso Santa Marta. Federico di
Saluzzo viene nettamente sconfitto e, con tali perdite che la piana prende il nome di Macellere.
Poiché Amedeo deve recarsi ad accogliere e scortare Carlo IV, accetta una tregua dal 13
aprile, Pasqua. La durata concordata è di 8 mesi.10
10 MULETTI, Saluzzo, Tomo IV, p. 69-71; CIBRARIO, Savoia, III, p. 183-185; molti dettagli in TURLETTI,
Savigliano, I, p. 244-245.
11 FILIPPINI, Albornoz, p. 361-363.
14 PINZI, Viterbo, pag. 326, commenta intelligentemente che è notevole la mancanza di informazioni
sull’atteggiamento seguito da Giovanni di Vico. Dopo un suo tentativo di alleanza con gli Orsini nel
1362, nulla si sa più di lui. Potrebbe darsi, vista la vicinanza tra Anichino ed Orsini, che il prefetto di
Vico abbia colto l’occasione per schierarsi nuovamente contro la Chiesa, ed una nota nella cronaca di
Viterbo afferma che il suo castello sia stato appunto bruciato dalle truppe ecclesiastiche in quest’anno,
ma nessuna notizia certa si ha sull’argomento. Si sa solo che Pietro al 23 aprile 1366 è già morto, in
quanto l’imperatore Carlo IV, in quella data, scrive ai Fiorentini perché sospendano il pagamento della
pensione annua da lui concessa al defunto prefetto. Giovanni di Vico è feudatario di Civitavecchia nel
1364, SILVESTRELLI, Regione romana, p. 17. Si veda anche CALISSE, I Prefetti di Vico, p. 136-137. NISPI-LANDI,
Sutri, p. 406 afferma che oltre a Vetralla i mercenari conquistano anche Sutri, a danno della Chiesa.
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615
Carlo Ciucciovino
da suo nipote Gomez è grandissima, e grande è il pericolo. Intervengono truppe dalla Romagna,
dalla Marca, dal Patrimonio e dal Ducato di Spoleto, e, fondamentale, viene assoldata la
compagnia degli Inglesi contra dampnatam Societatem Anichini de Bongardo […] ad deprimendum
eorum superba cornua. Per premunirsi da eventuali desideri di rivolgimenti da parte degli esiliati
del comune, i Sette di Orvieto ordinano ai Filippeschi ed ai Monaldeschi di non avvicinarsi a
meno di tre miglia dalla città.15 La cronaca di Viterbo di Nicolò della Tuccia riporta una notizia
che è difficile spiegare: «fu arso il castello di Vico da’ Viterbesi, per comandamento di Nicolao
capitano della Chiesa».16 O la notizia è errata o il prefetto di Vico, della cui sorte nulla sappiamo
da altre fonti, si è reso protagonista di un cambiamento di fronte, ma, ripeto, nulla risulta da altri
autori.
§ 11. Terremoti
Il 4 marzo, di notte, grandi terremoti vengono avvertiti a Venezia, Padova, Treviso e
Ferrara. Le scosse si susseguono per un'ora intera.18 L’attività sismica è notevole quest’anno,
ne avremo ulteriori notizie il 25 luglio.
15 Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 87 e nota 1. La frase il latino è tolta da una lettera
dell’Albornoz, datata gennaio 29, 1365; nella stessa missiva il gran cardinale esorta gli Orvietani a
vegliare giorno e notte: Ad bonam igitur custodiam die noctuque sollicitissime intendatis, ne aliquid posset
vobis evenire sinistrum.
16 DELLA TUCCIA, Cronaca di Viterbo, p. 34 e note a p. 396. Anche D’ANDREA, Cronica, p. 95 dove la nota 5 fa
18 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 198; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 198. Il 6 marzo dice Chronicon
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La cronaca del Trecento italiano
voluto da Egidio Albornoz sul luogo dove sorgevano le case dei Dalfini. L’opera è stata
affidata all’architetto di fiducia del cardinale, Matteo Gattapone.20
Anche Francesco da Carrara ha eretto un collegio per dodici studenti in legge; lo ha fatto
costruire a Padova, nella «contrada del Santo, in le case che furono dei Pellizari».21
20 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 198; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 198-199; tutto il ca. XVIII di
FILIPPINI, Albornoz,è dedicato al collegio di Spagna.
21 CORTUSIO, Additamenta ad Historiam, col. 974; Domus Carrarensis, p. 117-118.
22 Domus Carrarensis, cap. 251; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo XV, p. 74-75 e doc. 1604;
modo di rifiutare l’aiuto, in quanto sta facendo celebrare il matrimonio di sua figlia Verde con Leopoldo
d’Asburgo, nota VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo XV, p. 76.
24 Domus Carrarensis, p. 125, cap. 253.
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Carlo Ciucciovino
25 Molto gustosa la frase di Domus Carrarensis, p. 125-126, cap. 254, che scrive orgogliosamente che
Rodolfo chiede un mediatore al re d’Ungheria, «no cognossando el senno degli Italiani, del quale et de
sciencia i passa tutti quelli del mondo».
26 Domus Carrarensis, p. 127.
29 Bellissima è la narrazione del torneo di Rennes nel quale Bertrand diciassettenne si presenta in
incognito e batte 16 cavalieri, rifiutandosi poi di incrociare le armi con quelle di suo padre Robert.
MINOIS, Du Guesclin, p. 44-47 e STODDARD, Du Guesclin, p. 7-10.
30 L’episodio che richiama l’attenzione su Bertrand è un duello giudiziale a Dinan nel quale il Bretone
batte un cavaliere inglese, Thomas de Canterbury, che, malgrado la tregua in atto tra Francia e
Inghilterra, ha catturato Oliver du Guesclin, fratello di Bertrand e pretende 1.000 fiorini di riscatto. Il
duello è presieduto dal duca di Lancaster e vi assistono uomini eminenti, la fama della bravura di
Bertrand arriva alle orecchie del re di Francia, o meglio del delfino Carlo. Al duello assiste anche la
futura moglie del condottiero: Tiphanie Raguenel. STODDARD, Du Guesclin, p. 71-75 e MINOIS, Du
Guesclin, p. 120-125.
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La cronaca del Trecento italiano
il castello di Roche-Tesson nella bassa Normandia, una posizione strategica e possente che lo
eleva al rango di cavaliere bannereto e ne fa uno dei consiglieri reali.31 Nel 1363 Bertrand si
sposa con la figlia di un feudatario di Dinan, un luogo dove egli ha trascorso un anno della
sua giovinezza, presso uno zio e che lo ha visto affermare il suo valore in un duello vittorioso:
Tiphanie di Roberto Raguenel. Non sappiamo se sia bella o no, sappiamo che ha rifiutato
molti pretendenti e che è una donna “sapiente”, ovvero molto istruita e tra le sue passioni vi è
l’astrologia, nonché, evidentemente, l’ammirazione per le belle imprese cavalleresche. Nel
1364 Bertrand du Guesclin conferma le aspettative di Carlo regalandogli la splendida vittoria
di Cocherel contro le forze congiunte di Navarra e Inghilterra. Per compensarlo, il re lo
nomina conte di Longueville. Il 29 settembre 1364 egli partecipa alla battaglia di Auray.
L’armata anglo-bretone è comandata dal duca Giovanni di Montfort, coadiuvato dall’Inglese
sir John Chandos. Si oppone loro l’esercito franco-bretone di Charles de Blois, dove a
Bertrand viene affidata l’ala destra delle truppe francesi. Entrambe le parti vogliono che il
combattimento sia conclusivo. L’armata franco-bretone viene sconfitta e Carlo di Blois viene
ucciso da un soldato inglese; Bertrand du Guesclin, dopo aver rotto tutte le sue armi, è
costretto alla resa e viene imprigionato da John Chandos, il quale fissa il suo riscatto in 40.000
o, secondo altri, 100.000 fiorini.32
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34 PALADILHE, Les papes d’Avignon, p. 222. Le bolle sono Cogit nos del 27 febbraio 1364, seguita da
Miserabilis nonnullorum e, nell’aprile 1365, Clamat ad nos, FOWLER, Medieval Mecenaries, I, p. 119-120.
35 Carlo, re di Navarra, verrà chiamato il Malvagio solo nel XVI secolo, non certo dai contemporanei.
36 CASTELOT E DECAUX, La France au jour le jour, II, p. 497. Anche re Pietro di Cipro ha messo i suoi buoni
uffici per la pace, cfr. FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. CLVII.
37 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 197.
38 PALADILHE, Les papes d’Avignon, p. 224 e MINOIS, Du Guesclin, p. 265-266. Vi è un altro potenziale
alleato nell’impresa : il re di Navarra, Carlo il Malvagio, non perché abbia simpatia per qualcuno dei
contendenti, anzi, non ama re Carlo, ma egli ha un disperato bisogno di denaro e sa che qualunque
esercito che voglia penetrare in Spagna deve traversare i Pirenei, passando per il suo regno, passaggio
che egli è ben deciso a vendere a caro prezzo ; ivi p. 263.
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La cronaca del Trecento italiano
protezione con la sua autorità. Da Morat, Carlo ed Amedeo vanno a Losanna, poi, per
Ginevra e Rumilly, l'11 maggio arrivano a Chambéry, dove la contessa li attende con uno
stuolo di belle dame fatte affluire da tutti i castelli vicini. A Chambéry Amedeo rende
omaggio all'imperatore con un fastoso corteo, dove sventolano decine di bandiere con la croce
bianca. Quando il conte entra dalla porta del castello e trova l'imperatore assiso in trono,
l'etichetta vorrebbe che le bandiere venissero inchinate in segno di sottomissione all'autorità
imperiale. Ma Amedeo prega Carlo IV: «Sire, delle altre bandiere fate a piacer vostro, ma
questa qui, con la croce bianca, non fu mai buttata a terra, né mai lo sarà, se a Dio piace».
L'imperatore, accoglie benignamente la fiera richiesta. In quell'occasione Carlo nomina
Amedeo suo vicario. Partiti il giorno seguente, il 22 maggio i cavalieri arrivano ad
Avignone.39 L’accoglienza riservata all’imperatore, che è preceduto da un’aquila viva, è
descritta nelle cronache di Bologna.40
Dopo dieci giorni di negoziati e colloqui, e dopo una puntata ad Arles, dove, il 4 giugno,
vuole essere incoronato re di Arles. Carlo riparte da Avignone il 9 giugno, ripassando per la
Savoia. Il 19 è a Ginevra. Con Amedeo si reca ad un pio pellegrinaggio alle reliquie di San
Sigismondo di Borgogna, suo antenato. Amedeo ottiene dall'imperatore un diploma di
fondazione di un'università a Ginevra, della quale il conte Verde è nominato protettore e
conservatore.41
Il 28 maggio l’imperatore Carlo IV è ad Avignone per incontrare il papa Urbano V; il suo
ingresso è fastoso, il corteo preceduto da un paggio con un'aquila viva posata sulla mano.42 Si
parla del ritorno del papato in Italia. Tornare in Italia, significa allontanarne il rischio
rappresentato dalle compagnie di ventura, e proprio uno dei scopi principali dell’incontro è
mettere a punto un piano per allontanare dall’Italia le compagnie di ventura. Inoltre l’imperatore
è molto preoccupato per la situazione in Italia. Il re d’Ungheria, suo rivale personale, sta
cercando di rivendicare per sé il regno di Napoli e un Ludovico d’Ungheria vittorioso in Italia
costituirebbe un grave pericolo per Carlo in Europa centrale e per la casata dei Lussemburgo.
Carlo deve quindi convincere il papa a tornare in Italia e rimanervi, così che il pontefice possa
controllare la situazione della penisola, evitando pericolosi e avventurosi squilibri.43
Sono convenuti ad Avignone anche molti guelfi signori d’Italia: il marchese d’Este,
Galeotto Malatesta, nonché gli ambasciatori di Guido, Ludovico e Francesco Gonzaga e di
Francesco da Carrara. Carlo imperatore ha in mente un piano brillante, suggerito da Filippo
l’Ardito: organizzare una crociata, assoldando i mercenari. Costoro verrebbero avviati verso i
confini dell’Ungheria, dove ci si aspetta che re Ludovico conceda il passaggio. In caso contrario ci
sono sempre le navi dei Veneziani. Il piano ha bisogno di ulteriori messe a punto e del consenso
dei signori italiani, anche perché se i comandanti mercenari rifiutassero l’ingaggio, bisognerebbe
allora organizzare una lega contro i venturieri. Si stabilisce che un convegno verrà tenuto a
Bologna, ma poi si perdono le tracce di questa riunione generale, anche se molte riunioni
particolari avranno luogo, con alterno successo. Un colpo decisivo al piano lo danno i Fiorentini,
profondamente restii ad aderirvi, e Giovanni Acuto, che, su ispirazione di Bernabò Visconti,
chiama a sé i capitani inglesi di ritorno dal Regno, li ingaggia e li conduce verso Perugia.44
uno degli scopi del viaggio dell’imperatore è quello di sottrarre il papa, almeno parzialmente, dalla
influenza della corona di Francia.
42 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 198-199; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 199.
44 FILIPPINI, Albornoz, p. 365-366 e ANGELI, Parma,p. 194. AMIANI, Fano, p. 289 ci informa che a maggio
sono convenuti a Fano Nicola Acciaiuoli e Stefano di Buonincontro, ambasciatori fiorentini, per
convincere Galeotto Malatesta a partecipare all’alleanza contro gli avventurieri.
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Carlo IV garantisce l’eventuale passaggio nei suoi territori. Sono le compagnie che
rifiutano di partire, solo Arnaud de Cervoles, l’Arciprete, si dichiara disponibile.45
49 DE MUSSI, Piacenza, col. 508; Annales Mediolanenses, col. 735. POGGIALI, Piacenza, VI, p. 347 lo definisce
“inutil lavoro”.
50 FILIPPINI, Albornoz, p. 369-370.
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51 Chronicon Estense; col. 487, afferma che il 20 giugno cresce il Po, ed il 22 si rompono gli argini.
52 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 199-200; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 200.
53 Domus Carrarensis, cap. 255, p. 127.
54 Domus Carrarensis, cap. 256, p. 127-128; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo XV, p. 80-82;
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immediatamente dagli abitanti e dai Perugini. Dopo otto giorni, disperando di poter ricevere
soccorso, si arrende salve persone e cose.55
55 COLESCHI, Sansepolcro, p. 52-53. Mi sembra una notizia fuori luogo. MUZI, Città di Castello, vol. I, p. 164
non ne accenna, anzi dice che il 9 settembre 1365 si obbligano ad abitare a Città di Castello Guidobaldo e
Nardo Boccognani ed altri .
56 BONOLI, Storia di Forlì, II, p. 4-5; PECCI, Gli Ordelaffi, p. 90. Erroneamente Bonoli mette in questo anno la
morte di Francesco Ordelaffi, il quale invece si spegnerà nel 1373, non prima di aver combattuto ancora.
CALANDRINI E FUSCONI, Forlì e i suoi vescovi, p. 901-902 mette in luce che la consegna dei beni allodiali ad
Ordelaffi è stato concessa da Daniele del Carretto, rettore di Romagna, per ordine di Urbano V il 21
giugno 1363, mentre è il perdono che viene sancito nel 1365.
57 GRIFFONI, Memoriale, col. 180.
60 Tra’ quali ci morì messer Tommaso di Spoleti, bon soldato che serviva messer Gomese.
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La cronaca del Trecento italiano
consistenza dei due eserciti, probabilmente esagerandola; comunque essa dice che la gente
della Chiesa, tra fanti e cavalieri assomma a 15.000 combattenti, quella di Anichino, più di
10.000 a cavallo. Gli Inglesi, prima accolti come la manna dal cielo, e molto stimati: «erano
molta gente e bene armati et fortissime genti et molto ricca compagnia», hanno dimostrato la
loro superbia ed arroganza, e, ancor peggio, non sono disposti ad obbedire: «erano troppo
orgogliosi et superbi et che cosa che avessero promesso alla Chiesa, non volivano osservare,
et non temevano chapitanio di guerra, né altra gente, et robavano ogni gente». Non vi è altra
soluzione che venire a patti con i Tedeschi di Anichino. Dopo una breve trattativa ci si
accorda e Anichino lascia il territorio di Vetralla. La conclusione negoziata del conflitto non
addolcisce la Compagnia degli Inglesi che si vedono strappata la possibilità di continuare ad
arricchirsi alle spalle degli abitanti del luogo, contando peraltro di battere gli odiati Tedeschi,
e di spartirsene le spoglie. Gomez, non tollerando i molti dispetti che gli oltremontani fanno ai
Tedeschi ed agli Ungari che militano nel suo esercito, ed a lui medesimo, calma l'ira del conte
Nicolò Toldo e dei suoi 2.000 Ungari e si diparte da loro con tutta la brigata della Chiesa.
Arrivato a Mugnano vi mette l'accampamento, ma, non fidandosi degli Inglesi, preferisce
entrare dentro Orvieto, dove arriva il 17 luglio. Intuizione, o informazione, giusta: il giorno
seguente l'esercito inglese si presenta nella valle del Paglia, sotto Orvieto, reclamando a gran
voce le paghe arretrate. Gomez invia messi a chiedere ad Anichino di accorrere contro gli
Inglesi, slealtà contro slealtà. Per cinque o sei giorni la Compagnia Inglese si aggira nel
territorio, poi, finalmente, arrivano i Tedeschi: tutta la compagnia, con Anichino ed Albaret
Sterz. Gomez consente che entrino in città, onorandoli. Gli Inglesi, dopo aver esaminato la
situazione concludono che sono a corto di viveri e che nutrire speranza di averne da Orvieto è
irrealistico, pertanto levano le tende e cavalcano verso Perugia, accampandosi a San Mariano,
una pianura a cinque miglia a Sud-Ovest dalla città. Nel loro tragitto essi sono tallonati e
controllati dai Tedeschi. Questi si collegano con i Perugini, ed insieme assediano gli invasori.
Quando, alla fine di luglio, i Tedeschi di Anichino ed Albaret arrivano a Bagnaia, scorgono in
lontananza l’accampamento inglese, tutt’intorno al castello di San Mariano; alcuni vorrebbero
attaccar subito battaglia, ma i comandanti sono consci della stanchezza per la marcia ed il
caldo soffocante. Si decide quindi di pernottare ed attendere che i Perugini si congiungano
alle forze tedesche. Gli Inglesi hanno naturalmento scoperto l’arrivo dei Tedeschi e
vorrebbero sfilarsi senza affrontare il rischio di una battaglia in condizioni di svantaggio.
Durante la notte fanno i preparativi per essere in condizioni di mettersi in marcia prima
dell’alba. Quando sono pronti, mettono all’avanguardia gli Ungari ed i saccomanni con tutti i
bagagli e loro, armati e schierati, si preparano a seguirli. Ma i grandi fuochi che hanno acceso
durante l’allestimento della spedizione, hanno svelato ai Tedeschi, ed ai Perugini che si sono
loro uniti, che sta avvenendo qualcosa. Anichino ed Albaret danno fiato alle trombe ed
ordinano rapidamente i loro soldati per l’attacco. I Tedeschi della Compagnia della Stella
aggrediscono la retroguardia inglese, comandata da Andrea Belmonte; dove sono inquadrati
alcuni tra i migliori soldati inglesi. La battaglia è furibonda,61 anche perché la consegna è
tassativa: bisogna permettere ai compagni di sgusciar via con tutti i bagagli, quindi non si
può cedere terreno. Ma la pressione tedesca e perugina è intensa, dalle porte di Perugia esce
anche l’esercito cittadino, e gli Inglesi sono costretti a ripiegare intorno al castello di San
Mariano, dove, dopo aver aspramente combattuto, si ritirano. Quando le grandi porte si
chiudono, molti sono i caduti che si possono contare sul terreno, e tra costoro anche un gran
comandante inglese, conosciuto come il Marescalco, e due nipoti carnali di Anichino. Anche i
Perugini si sono fatti onore, e tra questi si è particolarmente distinto Bolgaro dei conti di
Marsciano, che viene fatto cavaliere sul campo, e Nicolò di Buscareto.62 Ma il castello non è un
61Aspra e grande, e li Tedeschi vinsero per lor senno, e ucisero molti Inghilesi.
62Su Nicolò di Buscareto, VILLANI VIRGINIO, I conti di Buscareto, p. 164, riporta quanto scritto da BONAZZI,
nella Storia di Perugia, p. 463: «… niuno trasse spada dal fodero, fuori che il capitano Nicolò di Boscareto,
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Carlo Ciucciovino
sicuro rifugio: è anzi una trappola, perché sprovvisto d’acqua e vino. La calura grande e
l’arsura seguita alla battaglia tormenta i malcapitati Inglesi, che, allo stremo, bevono persino
il sangue dei loro cavalli. Si decidono alfine a scrivere una lettera ad Anichino, ponendosi
sotto la sua protezione; in fondo molti di questi hanno militato personalmente col
comandante tedesco, e sicuramente molti sono gli amici personali che il Baumgarten ha tra
loro; gli Inglesi concludono umilmente la loro missiva con la firma: vestri pauperes carcerati
servitores anglici. Anichino concorda la resa, dopo aver ascoltato il governo di Perugia. Dopo
due giorni, gli sconfitti escono dandosi, con termine immaginifico: per huomini morti a
discrezione dei vincitori. Sfilano dalle porte più di mille prigionieri;63 questi, con le canne in
mano vengono avviati verso Perugia, scortati da milleduecento cavalieri di Anichino, decisi a
difendere la dignità dei soldati contro qualche vigliacco affronto del popolo della città. A
Perugia si scelgono quelli tra i prigionieri che sono in grado di pagare un riscatto, in tutto
circa trecento, che vengono avviati alle carceri, «tutti gli altri, così svaligiati e senz’armi»,
vengono liberati ed hanno il permesso di rimanere in città.64
Giovanni Acuto, con gran parte dell’esercito e dei carriaggi è sfuggito e con gli altri
scampati, viene verso Siena. Il comandante inglese trascorre giorni molto difficili, da animale
braccato: infatti i Senesi hanno chiamato a sé Albaret Sterz e Anichino, pregandoli di
inseguire gli Inglesi in rotta. I Tedeschi tallonano i fuggiaschi dalla Valdipogna alla Val di
Rosia, un gran giro intorno al Trasimeno, poi la fuga verso la Maremma, passando per San
Quirico e Sant’Angelo in Colle. Da Siena esce il Conservatore Isnardo d’Armanno da Rigliano
d’Abruzzo, con tutte le genti della città e tenta d’intercettare l’Acuto, che è costretto ad
ingaggiare una serie di scontri per alleggerire la pressione e, finalmente, riesce a sgusciare in
Maremma, verso Magliano. Ad agosto è nel Genovese, in salvo. Anechino ed Albaret tornano
a Siena a ricevere i pagamenti pattuiti e i risarcimenti per i cavalli feriti o morti. I due
comandanti si spartiscono quindi il bottino inglese e si dividono, Anechino va a Perugia,
Albaret a Pisa.65
Perugia esulta per la bella vittoria, gli stendardi catturati, quattro, appartenenti ad
Andrea Belmonte, Ugo di Montimer, Giovanni di Brise e il conte Nicola Ungaro, vengono
mostrati per più giorni alle finestre del Palazzo dei Priori.66 Nei primi giorni di agosto si tiene
un consiglio generale nel quale viene deliberato che, per ringraziare Anichino ed Albaret,
venga loro concessa la cittadinanza e donata una casa, ad Anichino tocca l’Osteria del Cervo
ed ad Albaret Sterz la casa che fu di Leggieri di Nicoluccio d’Andreotto. Ad un certo Andrea,
li quali furono buoni uomini, e vi morì un nepote di detto Nicolò…». Buscareto, il conte di Marsciano e
il capitano generale Enrico Paier sono fatti prigionieri e tradotti a Pisa.
63 1.024 o 1.600; la cronaca d’Orvieto parla di 200, ma, come si vedrà poi, questo dovrebbe essere il
pag. 1012 che è caduta nel giorno di San Vittore papa, il 28 luglio; è probabile che il 31 sia la
capitolazione degli Inglesi a San Mariano. La narrazione della battaglia è essenzialmente basata su
PELLINI, Perugia, I, p. 1009-1010; le altre fonti sono Cronache senesi, p. 609; Ephemerides Urbevetanae, Degli
accidenti di Orvieto, p. 87-88 e Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 231-
232. Un’eco in DE MUSSI, Piacenza, col. 508 che registra 3.000 morti da ambo le parti e 1.500 prigionieri tra
gli Inglesi. Quest’anno Albornoz comanda che Francesco Montemarte, il nostro brillante cronista e
nipote d'Ugolino, prenda in moglie la sorella di Francesco di Matelica. Un cenno, ma esatto, in ASCANI,
Due cronache quattrocentesche, p. 58-59. Di prima mano, Diario del Graziani, p. 198-200 e nota 1 a p. 199.
65 Cronache senesi, p. 609-610. Un cenno ridicolmente succinto in Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 202-203;
campo bianco ed una stella bianca vicino all’angolo, un terzo stendardo mezzo bianco e mezzo rosso
con un grifone rosso nel campo bianco e un leone bianco nel campo rosso, l’ultima bandiera un campo
rosso con banda gialla ed una «colonda piccola roscia». La bandiera di Anichino mostra un merlo nero
su una banda rossa in campo argenteo; Alberet ha un corvo nero in campo d’argento.
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La cronaca del Trecento italiano
cittadino di Perugia, che milita nella Compagnia della Stella, e che, evidentemente, si è
portato molto bene nell’occasione, viene donata un’altra casa. Nel consiglio si delibera altresì
di erigere una chiesa a San Vittore, nella cui ricorrenza è avvenuta la battaglia.67 I mercenari
vincitori, o meglio i loro ufficiali, vengono invitati a desinare con i Priori di Perugia, tra loro il
capitano della Compagnia della Stella e messer Grandebure, maniscalco della compagnia e
altri caporali.68
Servire in una compagnia di ventura alleata, non è però garanzia assoluta di immunità:
infatti Manfredino del Chicciola, detto Sozzo dè Balzetti, che milita con Anechino, è anche un
bandito da Pisa, e, quando la compagnia transita per Quarto, Manfredino entra in
Monteriggioni, ma viene riconosciuto e catturato dal podestà di Siena, messer Paolozzo di
messer Rinaldo da Staffolo, che lo invia a Siena, dove, subito, viene decapitato. Il podestà
riceve 500 fiorini di ricompensa per la ghiotta cattura.69
70 Claudio Rendina sottolinea che è molto strano che, insieme al doge, sia morto anche il cancelliere
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e spiegato il processo istituito contro di lui dal Consiglio dei dieci, poco prima della sua morte
o immediatamente dopo. Il 30 luglio 1365, a dodici giorni dalla morte, l'istruttoria si chiuse
con la decisione di distruggere tutti gli atti inquisitoriali e con l'ordine di mantenere su essi il
massimo segreto. Non sappiamo dunque quali precisamente fossero i capi di imputazione.
Ma una delle correzioni apposte alla promissione ducale, approvata il 19 luglio 1365, un
giorno dopo la morte del Celsi, lascia supporre che egli fosse sospettato di aver mirato a un
maggior potere personale. Infatti, per impedire ai suoi successori di agire "contra formam, sue
promissioni", si dava facoltà agli avogadori de Comun, qualora risultasse che il doge "in aliquo
fecisse vel commisisse contra libertatem et arbitrium sibi datum, volens sibi attribuere quae non sunt
sibi concessa per formam suae promissionis", di assegnare un termine alla cessazione dell'abuso.
In particolare la nuova clausola doveva riferirsi, per sancirlo e perfezionarlo, al divieto di
dare "operam ad habendum maiorem potestatem in ... regimine ad ... propriam utilitatem et proprium
factum ...", espresso nel 1249 nella promissione di Marino Morosini. Tutto ciò comunque non
costituisce ancora la prova della colpevolezza del Celsi, anche se nel Consiglio dei dieci non
fu accolta la proposta dei capi di riabilitarlo ufficialmente. Forse, nonostante i capi
affermassero: "facta examinatione diligenti, est repertum iliam infamiam nullatenus esse veram",
qualche ombra gravava ancora sull'azione del Celsi, o piuttosto prevaleva la volontà di far
dimenticare tutto al più presto, quasi che la morte del doge fosse giunta al momento
opportuno perché lo scandalo non coinvolgesse altre persone. Nessun documento d'altra
parte presenta prove della colpevolezza del Celsi e tanto meno comprova una sua
identificazione con gli oltranzisti, né prima del dogado né durante. Nemmeno l'elezione
dogale può essere giustificata a priori con una adesione del Celsi alla loro parte, data la
presenza fra i quarantuno elettori di esponenti di tutte e due le fazioni e la candidatura di due
oltranzisti (Pietro Gradenigo e Antonio Contarini). Né il Celsi da doge appoggiò i disegni più
intransigenti come il ripristino dell'officium de navigantibus a cui anzi si oppose, prima
avvalendosi di correttivi costituzionali e poi proponendo la soluzione di compromesso che,
caduta nel 1361, sarebbe stata, nella sua sostanza, approvata nel novembre 1363. Durante il
biennio protezionista, coerentemente alle posizioni iniziali, sembrò condividere il programma
del Senato volto a vuotare di valore la dannosa normativa dell'officium, anche se si allineò con
lo Zane, il capo oltranzista, nel proporre provvedimenti dettati da precisi interessi di parte.
Negli anni successivi, fino al processo, non è possibile trovare testimonianze di una
involuzione in senso oligarchico. Ad alimentare i sospetti potrebbe aver contribuito
l'abitudine del Celsi di farsi precedere da un servo con in mano una bacchetta che poteva
ricordare lo scettro regale e apparire come simbolo di un potere non accordato al doge. Ma
forse questa abitudine è spiegabile ricordando la particolare tendenza del Celsi al lusso e alla
magnificenza che caratterizzò anche il suo dogado (si ricordano infatti le fastose cavalcate per
la città e alla Giudecca, la sfarzosa accoglienza riservata al duca d'Austria e al re di Cipro e i
grandi festeggiamenti in occasione della vittoria sui ribelli di Creta). Morì il 18 luglio 1365 e fu
sepolto nella chiesa della Celestia, ora demolita. Dal suo matrimonio con Maria, di cui
ignoriamo il casato e che nelle genealogie è confusa con Marchesina Ghisi, moglie di Lorenzo
Tiepolo, nacquero varie figlie (sopravvissero solo Anna ed Orsa), ma nessun figlio maschio,
come invece vorrebbe la tradizione».72
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Bernabò, e Stefano di Baviera, e quelle di Marco Visconti, primogenito del signore milanese,
che impalma Isabella di Baviera. Bernabò in persona si è recato a Losanna ad accogliere
Isabella e Stefano, e li ha accompagnati per il Gran San Bernardo.74 Le nozze si inseriscono nel
quadro della politica del duca d’Austria che ricerca l’alleanza di Bernabò Visconti contro
Francesco da Carrara, con il quale è in conflitto per Feltre e Belluno, compito facilitato dal
fatto che Bernabò a Francesco voleva gran male. Dopo la metà di giugno è giunto a Milano lo
stesso Rodolfo, a capo di 300 cavalieri, ma, ammalatosi, vi muore il 20 luglio.75 Le esequie non
sospendono gli sponsali. Due giorni prima del decesso del duca d’Austria, è venuto a
mancare il doge di Venezia, Lorenzo Celso, che ha il merito di aver riacquistata l’isola di
Candia, ribelle alla Serenissima. Ha governato per quattro anni e due giorni. Il 25 di luglio gli
succede Marco Corner o Cornaro, «uomo di gran sapere e di maggiore prudenza».76 Pochi
giorni prima, il 19 di luglio, gli abitanti della colonia genovese di Caffa hanno occupato
Soldaia e diciotto casali del suo circondario.77
Verci afferma che pochi mesi dopo la morte di Rodolfo, anche Margherita Maultasch
conclude la sua esistenza.78 In realtà l’infelice Margherita morirà a Vienna nel 1369.
79 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo XV, p. 87-90; PASCHINI, Friuli, I, p. 332-333 e 337-338. Ivi p.
341-342 è descritto l’itinerario del nuovo patriarca: presumibilmente proveniente dalla valle dell’Adige,
egli è a Padova il 18 dicembre, si propone di passare per Treviso il giorno seguente, entra in Friuli il 24
dicembre. DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 222-223 registra la morte del patriarca al 29 luglio. La
nota a p. 223 chiarisce che la data giusta è il 30 luglio. DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 224 dice che
Marquardo viene eletto il 23 agosto; conferma il suo ingresso in Friuli al 24 dicembre, ivi, p. 226.
80 PASCHINI, Friuli, I, p. 339-341.
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Carlo Ciucciovino
328-329.
84 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1365, vol. 3°, nota di Ammirato il Giovane, p. 313.
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La cronaca del Trecento italiano
Firenze, vuole che Carlo IV entri in Italia a sua difesa. La sola menzione di una discesa
imperiale in Italia fa venire l’orticaria alla Signoria, il governo di Firenze organizza allora una
missione diplomatica, affidandola a Giovanni Boccaccio. Egli alla fine di agosto si reca ad
Avignone, «con istruzione di certificare il papa che i rapporti fattigli contra di loro erano
falsi», e di far notare al papa che se Arezzo non ha potuto partecipare alla guerra contro i
mercenari, è perché essa è inclusa nel trattato di pace stipulato da Firenze. Inoltre, l’aiuto dato
al tempo della guerra contro l’Ordelaffi e della guerra di Romagna, non sono parole, ma fatti.
Boccaccio deve aggiungere che se il pontefice vorrà venire a Roma, Firenze garantirà una
scorta di cinque galee ben armate, e, toccata terra, 500 barbute con la bandiera del comune,
per accompagnarlo nella città santa. Quindi che bisogno avrebbe dell’insegna imperiale a sua
difesa?85
Giovanni Boccaccio parte da Firenze il 21 agosto e punta su Avignone percorrendo la
costa ligure, anche perché la Signoria l’ha incaricato di protestare con il doge per le vessazioni
fatte subire ai Grimaldi, la cui flotta ha aiutato Firenze nella guerra contro Pisa. Dopo
Genova, Boccaccio va a Nizza e qui incontra i Grimaldi e relaziona il suo incontro con il doge.
Il nostro letterato arriva ad Avignone alla fine di agosto o all’inizio di settembre. Viene
accolto caldamente dal nuovo segretario apostolico Francesco Bruni e dal grande amico del
Petrarca Filippo di Cabassoles, ora patriarca di Gerusalemme. La missione di Giovanni è
coronata dal successo: lo prova il fatto che Carlo non verrà chiamato ad accompagnare il papa
ed il fatto che, quando Urbano arriverà in Italia, Giovanni Boccaccio verrà inviato ad
accoglierlo. A novembre, per la stessa via percorsa all’andata, rientra a Firenze. Quando è a
casa, invia al Petrarca la traduzione latina dell’Odissea.86
In questo periodo, probabilmente nel 1365, Giovanni Boccaccio scrive il Corbaccio, un
pamphlet colmo di misoginia, presumibilmente scaturito dalle ripulse di una vedova che lo ha
rifiutato, rifiuti ai quali il piacente e colto letterato e uomo di mondo non è abituato.87 Come
poi la ricerca di piaceri femminili possa conciliarsi con l’aver assunto gli ordini ecclesiastici,
sia pure i minori, lo lasciamo alla sua coscienza.
85 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1365, vol. 3°, nota di Ammirato il Giovane, p. 313-314;
BRANCA, Boccaccio, profilo biografico, p. 146-149; MARCHI, Boccaccio, p. 259-261. Branca nota che Boccaccio
non viaggia volentieri per la corporis atque animi gravitatem e perché la cosa lo distoglie dagli amati
studi.
86 BRANCA, Boccaccio, profilo biografico, p. 146-152; MARCHI, Boccaccio, p. 258-264. Branca nota che, prima di
partire per Avignone, Boccaccio è stato probabilmente incaricato del controllo delle milizie e degli
armamenti cittadini, come risulta da un appunto di uno studioso; cfr. BRANCA, Boccaccio, profilo
biografico, p. 146 e nota 1 ivi.
87 BRANCA, Boccaccio, profilo biografico, p. 138-139; MARCHI, Boccaccio, p. 204-217; Marchi si diffonde
principati vescovili di Trento e Bressanone, p. 512 afferma che “è incerto se il vescovo simoniaco di Trento abbia
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Carlo Ciucciovino
Può risultare istruttivo leggere come Giano Pirro Pincio neanche menzioni le compattate
ed anzi esalti i tentativi di Alberto di Ortenburg per assicurare la libertà del vescovado.89 Nel
1364, Azzo Castelbarco, signore di Lizzana e fratello di Marcabruno, signore di Beseno e
Castelpietra, riceve dal vescovo di Trento suoi feudi, a nome proprio e dei suoi fratelli.90
§ 38. Assisi
Quando, ad agosto, Anichino di Baumgarten ed Alberto Sterz vengono ad Assisi, questo
comune organizza dei festeggiamenti in loro favore. Con poca coerenza visto che nei
documenti del giugno precedente il condottiero è definito «dampnatum Anechinum et eius
dampnatam sotietatem».91
A settembre viene assunto ad Assisi un maestro di grammatica, magister Barnabuccio di
Norcia; egli dal primo ottobre deve insegnare per un anno grammatica, e trattati di logica e di
retorica e Catone, Esopo, Prospero, Orazio, Boezio e Orosio ed altri autori, secondo la capacità
degli scolari. Il suo compenso è di 30 fiorini.92 Questa cifra basta a sostentare un uomo solo,
ma non una famiglia, il salario è comunque dimostrazione di scarsa considerazione per il
maestro: si pensi che a un tamburino, Angelo Sanctis Manni, nel 1380 si danno tre fiorini al
mese.93
davvero acconsentito alle clausole iugulatorie di quel documento di assai dubbia autenticità”. Per le
compattate si veda ivi a p. 513.
89 PIRRO PINCIO, Croniche di Trento, p. 81-82.
91 Una libbra di cera costa 14 soldi. CENCI; Documentazione assisana; vol. I; pag. 151-152.
96 CAMERA, Elucubrazioni storico diplomatiche,p. 255, per lui giura Raimondo del Balzo, conte di Soleto e
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La cronaca del Trecento italiano
Raimondo che papa Clemente VI raccomanda il suo legato Aymery de Châtelus. Dopo la morte
dello sventurato Andrea d’Ungheria, Raimondo è stato nominato capitano generale e Giustiziere
di Capitanata. Raimondo del Balzo è l’unico che rimane nel regno quando, partiti i reali angioini,
e anche re Ludovico d’Ungheria, vi è da mantenerlo unito e fedele agli Angiò. Quando Luigi
ritorna a Napoli, Raimondo gli si schiera al fianco e lo assiste nella riconquista del reame in mano
alle bande ungheresi e ai ribelli. Viene catturato alla battaglia di Melito e nel 1350 riacquista la
libertà. Il conte va poi in Provenza a rappresentare gli interessi dei reali e riceve Gaeta in premio
dei suoi preziosi servigi. Nel 1352 è con re Luigi quando questi sconfigge fra’ Monreale ed i suoi
avventurieri. La statura del conte si ingigantisce col passare degli anni e con l’accumularsi dei
servizi resi; è con Nicola Acciaiuoli alla conquista della Sicilia e nell’impresa militare viene
nuovamente catturato, per essere liberato scambiandolo con le principesse Bianca e Violante. Nel
1357 si occupa di lotta contro i banditi nei territori di Avellino e Salerno. Nel ’60 è a fianco del re
a combattere contro Ludovico di Durazzo. Il 13 novembre del 1362 il conte ottiene dal papa il
permesso di erigere nel suo castello nei pressi di Aversa, un monastero con il titolo di Santa
Maria di Casaluce che ospiti 12 monaci celestini.97 Il conte è tra quelli che garantiscono con 1.000
fiorini i 15.000 che Albornoz ha anticipato alla regina Giovanna per il pagamento del censo.
Dopo aver prestato il giuramento di fedeltà a Giovanna in nome di Carlo, il conte di Soleto si
reca a Montecassino a vigilare sul monastero e sui beni del convento, minacciato dai predoni.98
Questo robusto vegliardo vivrà fino al 1375, continuando ad essere un leale e saldo collaboratore
della corona.
§ 41. Savoia
I timori di Filippo d’Acaia di perdere i propri diritti, nei confronti dei figli avuti dal
nuovo matrimonio del padre, si rivelano fondati: il 7 marzo del ’64 è stato costretto a cedere al
padre, con atto solenne, tutti i diritti a lui spettati nel corso dell’emancipazione del ’46. Il 23
agosto 1365, padre e figlio compaiono alla presenza del Conte Verde, e Filippo dona al padre
tutte le sue terre ed i suoi diritti. Il 6 settembre l’atto viene registrato nei registri della curia
pontificia.99 Leggiamo il commento di Francesco Cognasso su questi dieci anni di conflitti tra i
potentati della regione:100 «in conclusione, il periodo di guerre dal 1355 al 1365 aveva
condotto a sostanziali mutamenti: eliminati i milanesi dal Piemonte, reinsiedatisi gli Angioini,
ma in posizione incerta e inferiore rispetto al Savoia che si atteggiava a protettore; stabilita la
dominazione monferrina in Asti, piccolo frammento del grande edificio costruito dal
marchese con le sue illusioni multiformi, ma nell’impossibilità di avere pace sicura coi
Visconti; il Principe d’Acaia umiliato dal Savoia e ridotto a posizione secondaria;
impossibilitato ad agire, anche se non domo, il marchese di Saluzzo».
d’Ungheria.
98 DEL BALZO DI PRESENZANO, A l’asar bautezar!, vol. II, p. 404-418.
101 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 232 e Ephemerides Urbevetanae,
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Carlo Ciucciovino
Spinelli ed Enrico di Sessa. Il 6 settembre, dopo esser passato per Macerata e Marano, giunge ad
Ascoli. Impiega una settimana a metter ordine nella città, ribelle alla Chiesa dal ’63, quindi il 13
riparte. Il 14 è a Teramo, il 22 a Sulmona, il 24 a Castel di Sangro. Giunge ad Aversa ai primi
d’ottobre. Qui si recano ad accoglierlo Giovanna e Giacomo di Maiorca.102
Ad Ascoli il 9 settembre, il cardinale perdona agli abitanti la ribellione di due anni prima,
condona le pene temporali e dissequestra i beni. Sono esentati dai benefici i capi della rivolta:
Cecco di Francesco, il defunto Filippo di Massa, Muccio Canuccio, Mano del fu Vanni, il defunto
Massio del fu Monte. Il 13 parte da Ascoli.103
§ 45. Provenza
Nel febbraio del 1360, Bertran du Guesclin incontra il duca Luigi d'Angiò, fratello del re
di Francia, nella bassa Linguadoca. Il disegno del duca è di impadronirsi della Provenza.
Questa regione, che ha sempre mal tollerato il governo di Luigi di Taranto, dopo la morte di
costui, è stata ben governata dalla regina Giovanna, che ha provveduto con atti di perdono a
riportare la serenità nel suo possedimento,106 ha sostituito il valoroso Folco d'Agout al
napoletano Ruggero Sanseverino nella funzione di siniscalco, ha legiferato con giustizia ed ha
punito le sopraffazioni nei confronti dei più deboli. Il papa inoltre, invece di cercare di
approfittare della debolezza del governo della Provenza, per espandere i propri domini
temporali nella zona, si è sempre comportato con grande lealtà nei confronti degli Angiò di
Napoli. Addirittura, Urbano V è stato il promotore di una lega tra Chiesa, Provenza,
Delfinato e Savoia per la difesa della riva sinistra del Rodano. Ciò ha garantito qualche anno
di pace alla regione. Nel 1365 due ufficiali regi, il logoteta Napoleone Orsini e Landolfo
Crispano, sono venuti in Provenza a chiedere il suo contributo per il censo arretrato che
Giovanna deve pagare alla Chiesa. Debbono raccogliere la bella somma di 31.400 libbre. Nel
settembre del '65, Raimondo succede al padre Folco d'Agoult nella funzione di Siniscalco, e
Giovanna ne approfitta per riformare la carica, limitandone i poteri. L'amnistiato Raimondo
del Balzo, ripaga la generosità di Giovanna, portando ancora violenza nel dominio: nel 1365
prende il castello della signora di Courthezon, imprigionandola. Occorre una campagna
militare nel '66 per riprendere la fortezza e restituirla alla legittima proprietaria.
106 Amnistia per Raimondo des Baux ed i suoi uomini, amnistia per i delitti commessi a La Seyne
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107 Per questo episodio, ZURITA, Annales de Aragon, Lib. IX, cap. XLVII.
108 Si veda ZURITA, Annales de Aragon, Lib. IX, cap. LII e LVII.
109 O’ CALLAGHAN, A History of medieval Spain, p. 424; un quadro sintetico anche in ESTOW, Pedro el Cruel,
p. 219-221 e BISSON, La corona d’Aragona, p. 137-139. Chi voglia approfondire, può vedere HILLGARTH &
HILLGARTH, Pere III of Catalonia Chronicle, vol. II, p. 534-569, oppure ZURITA, Annales de Aragon, Lib. IX,
cap. XXXVIII-LIX; FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. CXCVII; VALDEÓN, Pedro el Cruel y Enrique de
Trastámara, p. 93-102. Qualche notizia in CALATAYUD, Historia de la corona de Aragon, p. 157-158.
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Carlo Ciucciovino
con il comandante milanese: per cinque anni, anche mutandone il capitano, la Compagnia di San
Giorgio si asterrà dall’offendere Firenze, Pistoia, Arezzo e San Miniato, in cambio Ambrogiolo
riceve 6.000 sonanti fiorini e l’impegno ad avere guide e passo concesso per il territorio della
repubblica, beninteso pagando i viveri, e l’impegno di Firenze a non aiutare gli eventuali
avversari della compagnia.110
Ambrogio Visconti, dopo aver condotto la sua compagnia a derubare il Senese, si ferma sul
territorio di Firenze, prima di passare verso Pisa. Firenze invia suoi ambasciatori111 a sollecitare il
comandante milanese a procedere velocemente e senza arrecare ulteriori danni. Ora veramente
la situazione si è complicata, perché, oltre alle continue pressioni di Chiesa e comuni toscani
perché Firenze aderisca alla lega contro i mercenari, vi è il fatto obiettivo che una delle
compagnie è agli ordini di un Visconti, e aderire ad un patto contro i mercenari vorrebbe dire, in
qualche modo dispiacere anche ai potenti signori di Milano. I Priori di Firenze volgono a proprio
dialettico vantaggio l’argomento, annunciando che non possono proprio aderire alla lega, anche
se volessero, per non rompere la pace di Sarzana.112
110 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1365, vol. 3°, nota di Ammirato il Giovane, p. 315; FILIPPINI,
112 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1365, vol. 3°, nota di Ammirato il Giovane, p. 316.
113 CORNAZZANI, Historia parmensis, col. 751; ANGELI, Parma, p. 194, che dice: «Vennero l’anno seguente
un’infinita quantità di cavallette nel Parmigiano, le quali ponendosi in terra rodevano le biade, l’herbe e le radici
tutte, che poteano havere, in maniera che, mutando luogo, lasciavano la terra talmente scoperta e nuda,
che pareva chèl foco ogni cosa abbruciato havesse; le quali poi, levandosi a volo, presero il camino verso
Roma».
114 Et fuit hoc dum essent uve mature. STELLA, Annales Genuenses, p. 159-160. Anche TONINI, Rimini, I, p. 402-
403 parla di locuste in Romagna. DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 215 registra il passaggio di locuste
nel 1364, l’11 agosto. Corio pone erroneamente l’invasione degli insetti nel 1354, ANGELI, Parma, p. 194
afferma che le locuste «lasciavano la terra talmente scoperta & nuda, che pareva ch’el fuoco ogni cosa
abbrusciato havesse».
115 ANTONIO DI BUCCIO, Delle cose dell’Aquila, col. 715-716, quartine 37-43.
117 FILIPPINI, Albornoz, p. 373; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 202-203; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 203.
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Molti sono coloro che rimpiangono il forte Egidio, che ha «guadagnato Bologna e la
Romagna con la spada in mano». Androino, nella sua meschinità, è geloso della popolarità
dell'Albornoz, e, quando il cardinale offre a Rodolfo di messer Filippo Ramponi la podesteria
di Ancona, Androino impedisce al giovane di accettare la carica. Egidio incassa un altro
successo quando annuncia che si è collegato in alleanza contro le compagnie di ventura con il
Carrara e col marchese di Ferrara.118
Giunge notizia a Bologna che il re di Spagna si è rinnegato, ed ha quindi subito un
attacco da parte dell'esercito cristiano. Si favoleggia di 100.000 cristiani in campo. Questo a
testimonianza di come gli echi delle vicende che avvengono lontano vengano deformate.119
118 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 205; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 205.
119 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 205; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 205.
120 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 202; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 203. Come si ricorderà, alla corte
di Avignone vi è Ugo di Lusignano ed il papa insiste perché i congiunti si rappacifichino, il re Pietro gli
assegna una pensione annua di 50.000 bisanti e nel gennaio 1365 lo nomina principe di Galilea, EDBURY,
The Kingdom of Cyprus, p. 149.
121 FILETI, I Lusignan di Cipro, p. 101-102. Su questo argomento si veda anche il § 27 del 1366.
123 Probabilmente Ivano-Fracena, presso Strigno, 5 miglia ad Ovest di Grigno. Sia Strigno che Grigno
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Lo strapazzo presenta il suo conto a Rodolfo d'Austria: egli, a Milano, cade nuovamente
ammalato, ed i medici non nutrono più speranze per la sua vita. Bernabò dà evidenti segni di
dolore per l'imminente perdita dell'amico. Mentre la malattia ed il dolore impegnano le
giornate del signore milanese, Blasio da Castelnovo, non cessa di inviargli messaggeri ad
implorarne l'aiuto, assediato, premuto, disperato com'è. Finalmente Bernabò si risolve a
mandargli 500 armati, per trarlo d'impaccio. I cavalieri passano per il territorio scaligero,
favoriti da Cansignorio, cosa che spinge Francesco da Carrara ad inviare fanti a rinforzare
l'assedio al castello. Dopo che ben sette contingenti carraresi sono arrivati alla bastia contro il
castello di Ivan, il signore di Padova ritiene di avere abbastanza soldati da poter fronteggiare
qualsiasi evento. Comunque, «dì et nocte andavan façeando (facendo) diligente guard(i)a».125
Ma i soccorsi tardano ad arrivare e Blasio patteggia col comandante carrarese, messer
Giovanni degli Obizzi, che, se entro otto giorni, non arriveranno le truppe viscontee, ed al
loro arrivo, con le bandiere spiegate, i Carraresi non toglieranno le tende, fuggendo, egli si
arrenderebbe. Blasio invia tre messi a Trento a render noto il patto alle truppe milanesi di
soccorso. Queste si muovono varcando «luog(h)i sealvadegi (selvaggi) e alpestri»,
dimostrando di voler veramente venir ad aiutare gli assediati. Ma, evidentemente intimoriti
dalla massa di armati padovani, i Milanesi non si mostrano. Blasio, impaziente, manda altri
messi, ma questi non torneranno mai, ed i giorni trascorrono inesorabili, fino a portarsi via
tutti quelli pattuiti, ed allora mercoledì 24 settembre egli, le sue donne, i suoi e tutte le loro
cose escono dalle porte del castello, liberi e umiliati. Il nobiluomo Cecco da Leone riceve la
fortezza a nome di Francesco da Carrara. La ribellione di Blasio è durata un mese e mezzo.126
Giunge ora notizia della morte di Rodolfo. Morto di dissenteria, o de una altra tacita morte.
In realtà nessuno conosce il male che si è realmente portato via il duca, ma si parla di
dissenteria perché per tale male lo ha seguito nella tomba il nobile Aldrigeto de Castelbarcho
el qual serviva alla mensa et persona del dicto duse.127
Cansignorio sa comprendere quando il vento muta direzione, e, malgrado le sue
convinzioni e le sue relazioni, con impareggiabile ipocrisia invia ambasciatori a Francesco da
Carrara per rassicurarlo che egli non darebbe passo per il suo territorio a nessuno che venisse
a danno del Padovano. Anzi, farebbe di tutto per difenderlo, o, non potendo, accetterebbe che
il Carrara si difendesse da solo sul territorio veronese.128
Francesco da Carrara intanto a mandato a chiedere aiuto a Firenze, «fermamente
credando quello no ge dover posser manchar». I Fiorentini fanno viso benevolo, molte
promesse, ma i militi tardano ad arrivare, obbligando il signore di Padova a insistere, finché i
Priori della città toscana, vinti da vergogna, si risolvono a mandare Paolo da Castel San Pietro,
loro condottiere, con dieci bandiere di gente armata e tre bandiere di Ungheresi, circa 300
uomini a cavallo, ma il castello di Ivan è già stato conquistato. Ai soldati inviati dai Fiorentini,
i Priori hanno ordinato di non andare contro i Visconti allo scopo di non infrangere la pace di
Sarzana; l’intesa è che i soldati fiorentini non vengano utilizzati sul fronte della Lombardia,
ma solo nelle operazioni nel Padovano e nella Marca Trevigiana, verso Civita e Feltro.129 I
militi, «gente assai mal in arme», rimangono, inattivi, a Padova, fino al loro richiamo a
Firenze.130 Ma non solo Firenze ha risposto tardi e male, anche il cardinal legato, Androino di
Cluny ha pronunciato promesse con volto allegro, ma tirando poi la decisone per le lunghe,
invia solo cinque bandiere di cavalieri, e solo dopo il successo del Carrara.131
129 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1365, vol. 3°, nota di Ammirato il Giovane, p. 313.
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137 Domus Carrarensis, cap. 270. Per tutto il paragrafo VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo XV, p. 81-
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§ 53. Montepulciano
Firenze modera la legge del 1302 che commina la condanna a morte per i successori maschi
di coloro che hanno fatto ribellare una terra a Firenze, e vi risiedano. La legge applicherà ora la
massima severità solo a coloro che sono iscritti nei libri del comune come banditi. Le esenzioni
fiscali a chi sia venuto a risiedere nel contado sono portate a dieci anni.139
In ottobre, il comune di Siena invia due suoi ambasciatori, Andrea d’Ambrogio e Betto
d’Agnoluccio, a cercare di far tornare la pace tra i due litigiosi signori di Montepulciano:
Giacomo e Bartolomeo [?] Cavalieri.140
§ 56. Sardegna
Mariano giudice d’Arborea approfitta della debolezza delle forze aragonesi nell’isola per
scatenare la sua offensiva in Sardegna. Quando, in ottobre, egli attacca il castello di Sanluri ha
a sua disposizione anche milizie mercenarie, «turcis, theutonicis, lombardis, anglicanis et aliis
estranei gentibus». Marino non riesce ad espugnare Sanluri e neanche Acquafredda, ma si apre
138 CORIO, Milano, I, p. 814; GIULINI, Milano, lib. LXX, anno 1364, che aggiunge: «è ben verisimile che
Bernabò molto si rallegrasse d’esser rimasto solo in Milano».
139 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1365, vol. 3°, nota di Ammirato il Giovane, p. 315.
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comunque la via verso Cagliari e si schierano dalla sua parte i nobili non catalani di Iglesias.
Queste sono comunque solo le mosse di apertura di una partita che si prolungherà per anni.143
rossa sormontata da capelli rossi; i suoi denti sono lunghi e prominenti, il suo aspetto generale è
selvaggio; ha reputazione di mangiare per quattro e bere per dieci. Il battaglia è estremamente freddo e,
al tempo stesso, audace. Nonostante tali caratteristiche è un cattolico osservante. STODDARD, Du Guesclin,
p. 154-155. Egli è coetaneo di Bertrand e forse fratellastro di Robert Knolles.
146 Una settimana più tardi i due Du Guesclin firmano un documento molto più dettagliato, che contiene
il piano finanziario completo: Carlo V anticipa a Chandos 40.000 fiorini d’oro, versamento da farsi a
Poitiers prima di Pasqua del ’66, se Bertrand non sarà stato capace di restituire la somma al re per la
data, il sovrano terrà in garanzia la contea di Longueville, che però Bertrand potrà riscattare entro la
Pasqua del ’67. Nella realtà Chandos dovrà sospirare il denaro a lui dovuto, il primo pagamento di
20.000 fiorini gli verrà corrisposto nel ’67, il 16 dicembre 1367 avrà 12.500 fiorini e, per ottenere il saldo,
dovrà proporre una transazione. La contea di Longueville non sarà restituita a Du Guesclin. MINOIS, Du
Guesclin, p. 268.
147 Si tratta di Chronique de Bertrand Du Guesclin par CUVELIER, publiée pour la premiere fois par E. Charriere,
1365
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Carlo Ciucciovino
dichiarano disposti all’impresa. Non tutti però, venticinque capitani accettano l’avventura,
altri rimarranno in Francia, quindi l’obiettivo del re di Francia e del papa di liberarsi
totalmente di questa minaccia non è pienamente realizzato.
Subito dopo l’incontro, l’esercito si mette in marcia verso il sud. Si percorre la valle della
Saone, poi quella del Rodano, sulla riva destra. La lunga colonna si estende per miglia e
miglia, sono 30.000 uomini secondo Froissart, più verosimilmente la metà. Il 27 ottobre i
mercenari sono in prossimità di Villeneuve-lès-Avignon. Urbano V da una finestra del
palazzo papale guarda la massa degli armati, guarda e trema, ma esclama: «ecco della gente
che si dà gran pena per trovare la sua strada per andare al diavolo!». Urbano manda un
cardinale a capire cosa vogliano, infatti egli non si aspettava che gli avventurieri passassero
nuovamente nei pressi di Avignone. Per i mercenari conduce le trattative il maresciallo
Arnoul d’Audrehem, sia per il prestigio di cui gode, sia per assicurarsi la lealtà degli
avventurieri. Chiede l’assoluzione collettiva per tutti e 200.000 lire per coprire i costi di
spedizione. Nessun problema per l’assoluzione, ma qualche obiezione per il denaro, dice il
cardinale, tuttavia il maresciallo afferma che non può garantire la disciplina dei suoi se non
saranno pagati. Il prelato torna a riferire al papa, ma la forza di persuasione della soldataglia
consiste nelle rapine che si danno a commettere immediatamente nel territorio. In fondo,
200.000 lire è la somma che il papa aveva già annunciato di essere disposto a sborsare al re di
Francia, quindi, dopo 15 lunghi giorni di permanenza sul territorio, i mercenari ottengono
l’assoluzione ed il denaro e partono. Il 5 novembre il primo distaccamento di truppe è a
Montpellier, alla fine del mese arrivano tutte le altre, compreso Du Guesclin. Un ambasciatore
inviato a re Pietro il Cerimonioso ha chiesto un ulteriore pagamento. Una parte delle truppe si
imbarca ad Aigues-Mortes per sbarcare a Barcellona, il resto, il grosso, va a Perpignano, in
territorio aragonese, dove pone il campo. L’esercito è un insieme di nazionalità, ognuna delle
quali è connotata da alcuni vizi, «cupidigia e invidia per i Guasconi, astuzia e crudeltà per i
Catalani, Aragonesi, Navarresi, durezza ed avarizia per i Tedeschi, orgoglio per gli Inglesi,
venalità per gli Italiani, ubriachezza ed ingordigia per i Fiamminghi, Brabanzoni, Hainaut,
ferocia per i Bretoni, particolarmente numerosi nella spedizione, tanto che il cronista
spagnolo Ayala indica l’insieme come “i Bretoni”».148 Re Pietro d’Aragona riceve i capi
dell’esercito ed illustra le modalità predisposte per il loro passaggio: saranno lasciati partire a
gruppi duecento, accompagnati da guide locali. Gli abitanti sono stati istruiti a mettere i loro
beni e le loro donne al sicuro. Viveri e materiali saranno forniti ai soldati contro pagamento. I
Bretoni passano i Pirenei verso la metà di dicembre, per i colli di Perthus e Figueras.
L’esercito, o meglio la prima parte di questo, entra nella piana di Barcellona il 20 dicembre.
Enrico Trastámara è già a Saragozza con un esercito di nobili di Castiglia. A fine dicembre
tutte le compagnie sono arrivate e si accampano in Catalogna.149
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sono in sordo conflitto con la regina, e Giovanna ne ha alimentato l’astio quando, alla morte di
Roberto di Taranto, si è impadronita di molte terre in Puglia e Basilicata. Le finanze poi versano
in una situazione disastrosa, ben delineata dalle parole dell’arcivescovo di Napoli, Pietro Amiel:
«Persone degne di fede mi hanno detto che il reddito annuo del regno ammonta quest’anno a
290.000 fiorini, eppure Madama (Giovanna) ha appena un pezzo di pane per mangiare, ben lungi
quindi da poter difendere Messina e proteggersi dalle compagnie, che combattiamo
energicamente solo a parole». Fatto sta, che Giovanna non ha di che pagare il debito del regno, e
neanche la cifra che il pontefice ha ridotto ad un decimo del totale: 38.000 fiorini. Egidio si
scontra con un’ostilità diffusa e scoperta da parte di moltissimi, se non tutti, nei suoi confronti.
Evidentemente si trova più a suo agio su un campo di battaglia che in mezzo agli intrighi di
palazzo. Forse all’orgoglio dei baroni ed alla situazione economica riuscirebbe a metter riparo il
Nicola Acciaiuoli dei tempi migliori, ma egli è ormai stanco e deluso, anche se ha solo 56 anni, e
pochi giorni dopo l’arrivo del cardinal legato, in un triste giorno di novembre,150 muore. La
regina Giovanna cerca di approfittare della morte del suo gran siniscalco, per vedere di
recuperare parte dei suoi possedimenti. Fa imprigionare nel castello di Aversa il figliolo Angelo,
conte di Malta ed il nipote Francesco Buondelmonte. I Fiorentini, cui stanno a cuore i buoni affari
che l’influenza di una famiglia fiorentina può garantire ai fiorentini mercanti, scrivono alla
regina, per la sua liberazione, ed al pontefice, perché si adoperi per la stessa. La
raccomandazione non può esser ignorata e Giovanna li libera prontamente e conserva la carica di
gran siniscalco ad Angelo. Solo due anni dopo però, e grazie all’intervento diretto di re Ludovico
d’Ungheria, i suoi beni gli saranno restituiti.151
È così scomparso un uomo non banale, molto complesso e dalla straordinaria carriera. Da
banchiere straniero è diventato il pilastro della corona di Napoli, unendo sagacia politica,
intelligenza acuta e fraudolenta, coraggio e fascino personale. L’unico vero pregio che mancava
alla sua sfaccettata personalità era la capacità militare, curiosamente quella che egli aveva sempre
ricercato nel corso della sua vita, probabilmente per dimostrare per primo a se stesso di esserne
provvisto. Possiamo formarci un’idea delle sue imprese non solo dalla narrazione degli eventi
della sua esistenza, ma anche dalla lettura dei suoi molti scritti, nei quali possiamo apprezzare la
voce vera dell’uomo e il divenire dei suoi problemi ed incertezze. Il bilancio della sua carriera e
della sua vita è tracciato dal suo biografo Francesco Paolo Tocco in molte pagine,152 e non tenterò
qui una impossibile sintesi, voglio solo citare un episodio che denota una singolare
incomprensione umana del grande siniscalco. Nicola ha avuto una giovanile amicizia con
Giovanni Boccaccio, le loro strade si sono poi allontanate, anche geograficamente, e, quando
Nicola ha iniziato la sua ascesa, non ha avuto tempo o voglia di ascoltare la richiesta di aiuto del
letterato che stava traversando momenti molto difficili. Negli ultimi suoi anni, il siniscalco
chiama a sé Giovanni Boccaccio, ma commette un errore: decide di umiliarlo e, sfortunatamente
per lui, ha scelto la persona sbagliata, il Boccaccio scrive una lettera al priore di Santi Apostoli,
Francesco Nelli, nella quale descrive vizi, virtù e manchevolezze dell’Acciaiuoli. Chiaramente, la
lettera di uno dei padri fondatori della letteratura italiana ha la potenza di fornire ai posteri una
verità sul siniscalco, che questi non è in grado di smentire neanche con le proprie gesta. Lo scritto
di Giovanni Boccaccio è poi ricco di particolari che ci inducono a schierarci con lui e quindi a
biasimare l’Acciaiuoli. L’arroganza del siniscalco viene così punita forse al di là dei suoi
150 L’8 novembre, nel suo palazzo a Napoli, colpito da una qualche forma infettiva, forse peste; CAMERA,
Elucubrazioni storico diplomatiche,p. 257 scrive la morte è dovuta ad «apostema [tumore o accesso] del
capo». UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 277. GAGLIONE, Converà ti que aptengas la flor; p.
446 nota che al suo capezzale vi sono sua sorella Lapa e Santa Brigida di Svezia, che ne aveva predetto la
morte in Revelationes, IV, 7, 22-30.
151 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1365, vol. 3°, nota di Ammirato il Giovane, p. 316 e
sua dimensione familiare. Si veda anche UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p. 278-317.
1365
643
Carlo Ciucciovino
demeriti.153 Alla morte di Nicola, la carica di gran siniscalco del regno viene affidata a suo figlio
Angelo.154
153 Per chi sia interessato si veda quanto i biografi di Nicola hanno scritto in merito: TOCCO, Niccolò
Acciaiuoli, p. 137-140, 257-262, 349-352; UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaiuoli, p.279-314.
154 CAMERA, Elucubrazioni storico diplomatiche,p. 256. Sulla disavventura di Boccaccio presso Acciaiuoli, si
156 STEFANI, Cronache, rubrica 695 e AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1365, vol. 3°, nota di
1365
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La cronaca del Trecento italiano
§ 64. Le arti
Tra il 1360 ed il ’65, Guariento di Arpo viene chiamato a Bolzano per affrescare la
cappella di San Nicolò dei Botsch, ai Domenicani; lo segue il pittore veneziano Nicolò
158 STELLA, Annales Genuenses, p. 159. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 204-205; Rerum Bononiensis, Cr.
Vill., p. 205.
159 Leonardo lo lasciò alla sua morte alla chiesa di S. Bartolomeo degli Armeni in Genova, dove è ancora
conservato.
160 RICCARDO MUSSO, Montaldo Leonardo, in DBI vol. 75°.
1365
645
Carlo Ciucciovino
Semitecolo. Suoi allievi ne continueranno l’opera nella chiesa, affrescando Storie di eremiti
nella parete settentrionale e Storie di San Cristoforo. L’influsso del Guariento segna lo sviluppo
successivo della pittura nella regione. Un seguace di tale corrente pittorica, aggiornata con gli
insegnamenti di Giusto de’ Menabuoi, è il Maestro delle Storie di Maria in San Vigilio a
Virgolo. «Finissimo colorista ed abile compositore egli avviò all’arte un collaboratore, certo
tedesco, autore delle Storie di San Vigilio nella stessa chiesa, che in seguito si staccò dalla sua
bottega, affrescando da solo Storie della passione di Cristo e Santi nella chiesa di San Cipriano a
Sarentino, il registro inferiore di San Giovanni in Villa, San Giacomo a Oltrisarco (Bolzano),
San Nicolò a Bolzano, la chiesa della Maddalena (Bolzano), un grande dipinto votivo
rappresentante la Madonna in trono fra Santi nel chiostro dei Domenicani ed un affresco
all’esterno di castel Reinegg a Sarentino».161
Nel 1364, Guariento, insieme al suo allievo Nicoletto Semitecolo che lo ha seguito da
Venezia, affresca l’abside della chiesa degli Eremitani. Tali affreschi, come troppi altri, sono
andati distrutti nello sciagurato bombardamento della seconda guerra mondiale. Dopo la
prova della Cappella della Reggia, «Guariento sembra sperimentare soprattutto la
problematica spaziale in composizioni più grandiose e monumentali. Si può datare alla prima
metà del settimo decennio la decorazione del presbiterio e dell’abside della chiesa degli
Eremitani, con un fiorito Paradiso nel catino tra i costoloni, e Storie dei Santi Filippo, Giacomo e
Agostino alle pareti; nella zona inferiore, uno zoccolo a finto marmorino con le raffigurazioni a
monocromo – evidente omaggio alla cappella degli Scrovegni – raffigurano i Sette pianeti con
le rispettive età dell’uomo e Storie della Passione». «Nello zoccolo Guariento si rivela stupendo
protagonista del mondo gotico nella raffinata eleganza lineare delle figurette dei pianeti e dei
personaggi che li accompagnano, dove compare anche una minuta analisi, quasi
miniaturistica, dei costumi alla moda».162
L’ultima opera di rilievo del pittore padovano è il vastissimo affresco fatto per la
Serenissima nella Sala del Maggior Consiglio, voluto dal doge Marco Correr e distrutto
dall’incendio del 1577. La parte dove era l’affresco sarà poi coperta dall’immensa tela di
Jacopo Tintoretto: il Paradiso.163
Molto peculiare è la decisione del doge di affidare la decorazione della Sala del Maggior
Consiglio, appena trasformata, ad un pittore non Veneziano. Mauro Lucco nota che la scelta
non è dovuta alla mancanza di ottimi pittori a Venezia, ma che forse testimonia la volontà del
governo della Serenissima di aprirsi verso la terraferma, inaugurando nell’arte ciò che è sul
punto di avvenire in politica.164 Fatto è che l’opera del Guariento nel Palazzo Ducale non
mancherà di influenzare i pittori veneziani successivi. «Specie quando attenua gli aspetti
plastici e spaziali, Guariento riesce a derivare da Giotto un rinnovato modello di “grazia”
pittorica, emblema stesso del gusto cortese padovano, fatto di sottigliezze grafiche,
raffinatezze decorative, colorismo vivace, di espressioni e di “racconti” che traspongono il
reale in una dimensione di favola. Questa operazione si rivela cruciale per la pittura
veneziana permettendole un decisivo “aggancio” alle istanze dell’arte occidentale».165 Sul
Guariento, Davide Banzato scrive: «nella straordinaria coerenza dei suoi circa trent’anni del
suo percorso stilistico arrivò a precorrere numerosi aspetti del gotico internazionale».166
161 RASMO; Pittura in Trentino e Alto Adige; p. 103. DAVIDE BANZATO, L’impronta di Giotto e lo sviluppo della
163Su Guariento si veda anche DAVIDE BANZATO, Guariento, in Giotto e il suo tempo, p.176-185 e SPIAZZI,
165 VITTORIO SGARBI, Un veneziano nella Padova “postgiottesca”: Nicoletto Semitecolo; in Giotto e il suo tempo,
p. 187.
166 DAVIDE BANZATO, L’impronta di Giotto e lo sviluppo della pittura del Trecento a Padova, in Giotto e il
Trecento, p.145.
1365
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La cronaca del Trecento italiano
Andrea di Buonaiuto verso il 1365 esegue la sua opera più importante, gli affreschi nella
sala capitolare nella chiesa di Santa Maria Novella, poi chiamato Cappellone degli Spagnoli
dal XVI secolo, commissionato come opera di propaganda e rafforzamento ideologico
dell'ordine domenicano. Il livello artistico delle pitture non è considerato altissimo, ma la loro
vivacità e ricchezza dei dettagli hanno da sempre suscitato un grande interesse. Il punto
debole dell'artista, che operò parallelamente all'Orcagna, è la mancanza di spunti originali
seguita da una certa ripetitività di maniera nella stesura del colore e nei dettagli del
modellato, anche se la grandiosità della rappresentazione e la vivacità, influenzate della
scuola senese, in particolare da Bartolo di Fredi piuttosto che da Ambrogio Lorenzetti,
attirano subito l'ammirazione dello spettatore.
Giovanna Ragionieri nota che i dipinti eseguiti nella volta da Andrea Bonaiuti sono «un
po’ più sciolti, forse per la collaborazione di Antonio Veneziano; […] Quello in cui Cristo salva
gli Apostoli dalla tempesta assume interesse anche come derivazione da un originale di Giotto,
il mosaico della Navicella in San Pietro a Roma».167 Andrea Bonaiuti trascura «ogni possibilità
di raccordo sintattico, in un effetto che è in primo luogo di figurazione bidimensionale, in
completa indipendenza dal contesto architettonico in cui gli affreschi si collocano. Più di
quella dell’Orcagna, di cui è profondamente debitrice, la pittura del Bonaiuti sovverte le
conquiste spaziali di Giotto».168
Questo anno, Giovanni da Milano dipinge la Pietà dell’Accademia di Firenze.
Nel 1365 circa, un pittore di Praga raffigura realisticamente Rodolfo IV duca d’Austria.
Allegretto Nuzi si tiene molto informato sugli sviluppi pittorici toscani e lo ravvisiamo
variamente influenzato da Giovanni da Milano, dall’Orcagna, da Jacopo di Cione. Sotto tale
influsso Allegretto dipinge le Storie di S. Lorenzo nel Duomo di Fabriano e, sempre nella sua
Fabriano, ma in San Domenico, le Storie di Sant’Orsola, il Martirio di Santo Stefano ed altre, tali
opere sono in rapporto con un Trittico che è nella Pinacoteca vaticana, questo datato 1365
«che sa di Firenze e di Siena». Dopo tale data, Allegretto appare sempre maggiormente
attratto da particolari decorativi e da ornamenti, avvicinandosi ancor più al modo di Siena ed
a Ambrogio Lorenzetti in particolare. Tale tendenza verrà espressa nella Madonna in trono del
1372, attualmente ad Urbino, nel Palazzo Ducale.169
Un buon pittore di scuola emiliana, Monte da Bologna, realizza le Storie di San Giuliano
nel transetto settentrionale del Duomo di Trento. Non sappiamo altro di questo pittore, a
meno che non sia quel miniatore Monte, ucciso a Bologna nel 1370 da uno studente inglese
impazzito. «Per l’eleganza delle figure e l’attenta osservazione della moda del tempo, egli ci
fa supporre una lunga familiarità con l’ambiente aristocratico delle corti settentrionali di cui
esprime gli ideali estetici».170
Lorenzo Veneziano dipinge un polittico per il Duomo di Vicenza, nella scena centrale vi
raffigura la Dormitio Virginis, la morte della Madonna, sovrastata da una Crocifissione.
Lorenzo dimostra un’attenzione ai dettagli, sia dell’abbigliamento che dell’arredamento, che
trascende l’insegnamento di Paolo Veneziano; è il risultato di rapporti con la pittura
bolognese, e la conoscenza di Tomaso da Modena.171
Un maestro del quale ignoriamo l’identità e che chiamiamo il Maestro d’Offida, per un
ciclo che egli ha affrescato nella chiesa di Santa Maria della Rocca ad Offida, è il «titolare di
un corpus di opere geograficamente molto diramato, eseguito prevalentemente a fresco». Il
ciclo da cui prende il nome riguarda scene della vita di Santa Caterina d’Alessandria,
Madonne con Bambino, scene della vita di Santa Lucia e immagini di Santi, dimostra una
1365
647
Carlo Ciucciovino
vena di realismo cortese ed è stato realizzato verso il 1365. Il maestro si è formato nelle
Marche, dove si è nutrito ai giotteschi di Rimini. Le opere più antiche di questo artista
dovrebbero essere gli affreschi della chiesa di San Salvatore a Canzano e dovrebbero essere
del 1334-37. L’artista si dedica poi ad affrescare il duomo di Atri. Gli viene attribuito un
polittico che è nella chiesa della Rabátana a Tursi, che testimonia di essere stato fortemente
influenzato da Maso di Banco e che risalirebbe alla metà del Trecento. Negli anni Cinquanta,
il Maestro affresca l'abside destra della chiesa di Santa Maria di Ronzano. Poi si reca nelle
Marche e realizza un’opera che testimonia un raggiunto equilibrio tra le sue formazioni
culturali: un affresco che, su due registri, effigia San Matteo in trono tra i Santi Norberto di
Magdeburgo e Nicola di Bari. Successivamente, dipinge l'abside della chiesa di S. Francesco a
Montefiore dell'Aso.172
Nel 1365 Allegretto Nuzi, pittore di Fabriano, ora nei suoi quarant’anni, dipinge un
dittico, oggi a Berlino, che raffigura la Vergine in trono con il Bambino tra i Santi Bartolomeo e
Caterina. Allegretto ha avuto contatti con la pittura senese e con quella fiorentina ed appare
influenzato da Bernardo Daddi e, successivamente, anche dal grande Maso di Banco e
dall’Orcagna. A Firenze, Allegretto è entrato in contatto con Puccio di Simone ed insieme a lui
dipinge il Trittico Hamilton, oggi a Washington, datato 1354. Formatosi a Siena, rientra a
Fabriano in occasione della peste del ’48.
Le opere certe di Allegretto appartengono tutte all’ultimo decennio della sua vita. Del
1365 è il polittico conservato nei Musei Vaticani, eseguito per la chiesa di Santa Lucia, dono di
una famiglia di Fabriano. Anche questa è una Vergine in trono con Bambino ed, ai lati i
committenti. Nei due pannelli laterali sono raffigurati San Michele con la spada e la corazza e
Santa Orsola con la bandiera e la palma del martirio. Il pittore firma e data l’opera: Alegrittus
Nuttii me pinxit anno MCCCLXV. La Madonna dell’umiltà, una tavola dipinta per la chiesa di
San Domenico a San Severino Marche, è datata 1366. Nel 1369 dipinge la Madonna in trono e il
Bambino tra figure di santi per Monte Cassiano. L’ultima sua opera nota è del 1372: una
Madonna in trono, oggi nel palazzo Ducale di Urbino. In questa, Allegretto appare influenzato
dall’arte di Venezia, quella di Paolo e Lorenzo Veneziano. Allegretto muore a Fabriano nel
1373.173
172 S. MANACORDA, Maestro di Offida, in Enciclopedia dell' Arte Medievale e NERI LUSANNA, Pittura nelle
Marche, p. 420. Si veda anche la scheda biografica a cura di VALERIO TERRAROLI in La pittura in Italia
Duecento e Trecento. Solo una sintesi in PACE, Pittura in Abruzzo e Molise, p. 449.
173 NERI LUSANNA, Pittura nelle Marche, p. 420; GHISALBERTI, Allegretto Nuzi, Enciclopedia dell' Arte
1365
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CRONACA DELL’ANNO 1366
§ 1. Riforme a Firenze
Il primo Gonfaloniere della repubblica fiorentina del 1366, Michele Castellani, riceve
insieme con i Priori in Santa Reparata il giuramento del nuovo podestà Guglielmo de’
Pederzocchi, cavaliere bresciano. Questa amministrazione, prendendo atto della propria
scarsa capacità di riscossione delle tasse, decide di appaltarle a privati.4
Il Gonfaloniere Jacopo del Bene, per evitare le mancanze nell'amministrazione della
giustizia, ristabilisce l'ufficio di capitano del popolo, che è stato tolto nel ’52; inoltre
diminuisce a 200 il numero di cittadini del consiglio del podestà, che la Peste Nera aveva
consigliato di aumentare, 160 dei quali popolari, 40 per quartiere, e 40 tratti dai Grandi, anche
questi 10 per quartiere.5
A Firenze, ogni tre anni, viene fatta la «imborsagione degli uffici della città», vale a dire
vengono messi nella borsa i nominativi di quelli che possono essere estratti come Priori,
Buoni Uomini e Gonfalonieri. Poiché alla estrazione è connesso il potere, molti vogliono
essere nominati per poter fare gli interessi della propria casata. La procedura vuole che i
Priori, il Gonfaloniere e i Dodici capitani di parte, i Cinque di Mercanzia e il Proconsole e i
Ventuno consoli debbono scegliere cinque uomini per ogni gonfalone. Alcuni, con la
corruzione riescono ad essere tra i prescelti, ma la simonia viene scoperta e i colpevoli
vengono condannati.6
Preoccupata per le voci di una possibile discesa in Italia di Carlo IV, Firenze ordina a San
Gimignano di fortificare la terra, si provvedessero le «sue muraglie di ventiere, corridoi e
bertesche e si ristecconassero i fossi». Il comune deve inoltre provvedersi di 50 corazze, 50
1 Questo è l’aforisma di un monaco francese, che vuole così rispondere a chi vuole che il papa ritorni a
Roma e, tra questi, il Petrarca. Si veda PINZI, Viterbo, III, p. 330, nota 2.
2 PARADIN, Chronique de Savoye, p. 240.
4 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1366, vol. 3°, p. 317, nota di Amm. il Giovane.
5 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1366, vol. 3°, p. 317, nota di Amm. il Giovane.
bacinetti, mille verrettoni minuti e duecento grossi, dodici bombarde, cento mazzarulli,
cinque pali di legno “arsicciato”, mille panelli; inoltre debbono essere disponibili in armeria
duecentocnquanta tra corazze e coretti e cento balestre a staffa. Ogni cittadino valido alle
armi deve poi provvedersi di cervelliera barbuta ovvero bacinetto di ferro.7
don Tello. Fortunatamente per lui, questi si è recato a pescare; mentre è sulla barca viene avvisato
dell'intento di don Pietro, e fugge immediatamente a Bayonne. Don Pietro imprigiona Giovanna, la
moglie di Tello, e cognata di suo figlio Giovanni. Il nipote del re, Giovanni commette l'errore di
reclamare per sè la Biscaglia. Pietro gliela nega, poi il 12 di giugno, vero mostro, fa assassinare il nipote
con un colpo di mazza da un balestriere, Iohan Diente, uno degli assassini di Fadrique. AYALA, Coronica
del rey don Pedro, 1350, cap. 4 e 6.
10 L’elenco delle sue malefatte, riportate puntigliosamente da Ayala, nella sua Coronica del Rey don Pedro,
è stupefacente; la facilità con cui decreta la morte di coloro che sospetta suoi nemici o che,
semplicemente, si rifiutano di portare a termine i suoi crimini, la ferocia degli assassini di cui si
circonda, tutto ci comunica l’orrore verso questo mostro umano, sicuramente afflitto da gravi disturbi
della personalità. Per chi desideri avere un’impressione dei crimini perpetrati da don Pietro, valga la
seguente lista, sicuramente incompleta, degli assassinii da lui ordinati: Eleonora de Guzman, donna di
suo padre Alfonso, Garçi Llaso, (1351), Alfonso Fernandez Coronel, Pero Coronel, Iohan Gonzalez de
Deça, Ponce Diaz de Quesada, Rodrigo Yniguez de Biedma, (1352), Giovanni Nunnez de Prado, (1353),
Pero Ruyz de Villegas, Sancho Ruyz de Rojas, un loro scudiero: Martin Nunnez de Arandia, sei alleati di
Enrico Trastámara in Toledo, tra cui un vecchio ottantenne e suo nipote diciottenne (1355), Pedro
Estevanez Carpentero, Ruy Gonzales de Castanneda, Martin Alfonso Tello, Alfonso Tellez, (tutti questi
alla presenza di Maria, madre di re Pedro e di Giovanna, moglie di Enrico Trastámara), Gomez
Manrique, Diego Monniz Godoy, ed altri (1356), don Fadrique, suo fratellastro, ed il suo
accompagnatore Sancho Ruiz de Villegas, questi personalmente per mano di Pietro, riesce invece a
fuggire don Pero Ruyz de Sandoval Rostros de Puerco. Sfugge alla morte anche don Tello, fratellastro di
re Pietro, fuggendo per nave, e il re ne imprigiona la moglie donna Giovanna. Nella sua frenesia di
sangue, il sovrano, nello stesso anno (12 giugno 1358), fa uccidere suo cugino don Giovanni, infante di
Spagna, cioè suo successore al trono; ne fa poi immediatamente imprigionare la madre, sua zia Eleonora
d’Aragona, che fa uccidere, e la moglie Isabella de Lara. Subito dopo, si fa portare le teste di Lope
Sanchez de Vendanna, Gonçalo Melendez, Pero Cabrera de Cordoba, Ferrando Alfonso de Gahete,
Alfredo Jufre Tenorio e Alfonso Perez Fermosino (1358). Dopo la sconfitta che Enrico Trastámara ha
inflitto al suo esercito ad Araviana, re Pietro invia suoi sgherri ad assassinare i fratelli di Enrico,
Giovanni, 19 anni, e Pedro, 14 anni, suoi fratellastri (1359). Pero Alvarez de Osorio e due figli di Ferrand
Sanchez de Valladolid sono uccisi e decapitati subito prima che uno sventurato chierico, colpevole solo
di aver narrato un sogno premonitore - che tra l’altro annunciava correttamente la morte di re Pietro per
mano di suo fratellastro Enrico - venisse bruciato. A Siviglia viene fatto uccidere don Pero Nunnez de
Guzman, in Alfaro viene decapitato Gutier Ferrandez de Toledo. Su una nave che lo trasporta ad
Algesiras, viene decollato Gomez Carrillo. Sotto tortura muore Samuel el Levi, tesoriere del re (1360).
Nel 1361 re Pietro fa assassinare la sua venticinquenne sventurata consorte, Bianca di Borbone, giovane
generosa, bionda e di pelle chiara. Come per vendetta del Cielo, nello stesso anno muore Maria di Padilla,
l’adorata amante di Pietro. Vengono assassinate le due sorelle Giovanna, moglie di don Tello, e Isabella,
1366
650
La cronaca del Trecento italiano
d'orrore e di severità», che accentra su di sé l'odio dei suoi sudditi. Come se non bastasse, il re
è in ottimi rapporti con sovrani infedeli: il re di Granada, quello di Fez, detto di Benamarin
dal nome della famiglia che lo governa, e quello di Tremecen, in Barbaria. Suo padre, il buon
re Alfonso di Castiglia, ha avuto da Eleonora di Guzman tre figli,11 tre bastardi, Enrico, il
maggiore, poi Tello, conte d’Asturia, e Sancio. Molto amati dal loro padre, finché in vita, i
bastardi sono invece odiati da Pietro il Crudele, che li avrebbe senz'altro fatti eliminare se
fossero caduti in suo potere, come ha fatto assassinare la loro madre Eleonora.12 Enrico, conte
di Trastámara,13 quasi coetaneo di don Pietro, è un cavaliere ardito e prode, ha servito in
Francia dal 1356 ed è stimato dal nuovo sovrano, Carlo V, che sarà detto il Saggio o il Sapiente,
sul trono dal maggio del 64, dopo la morte di suo padre re Giovanni il Buono. Enrico, recatosi
ad Avignone, alla corte papale, accompagnato dal re Pedro d’Aragona, ha ottenuto con
facilità che papa Urbano lo riconoscesse quale autentico sovrano di Castiglia contro lo
scomunicato, ed eretico, ed assassino re Pietro. Appare ora possibile trovare altra
destinazione, diversa dalla Terra Santa, per le compagnie di ventura che infestano la Francia:
possono essere utilizzate per aiutare Enrico Trastámara a riconquistare il proprio regno. Le
compagnie, nell’ottobre del ’65, accettano, vi è però un piccolo inconveniente: sono anch’esse
scomunicate; il pontefice allora si impegna ad assolverle, ma i mercenari, beffardamente, gli
rispondono che essi possono far a meno dell’assoluzione, ma non del denaro, occorre quindi
che sua santità accordi loro sia i tesori della sua benedizione, che quelli dei suo patrimonio. Il
re d’Aragona si impegna a consentire il passaggio per il suo territorio ai soldati, ed a fornir
loro viveri e rifornimenti. Il re di Francia sposa entusiasticamente l’iniziativa, mette a
disposizione denaro e due dei suoi migliori capitani: messer Bertrand du Guesclin e messer
Jean (o John) Chandos.14 Quest’ultimo, molto legato al regno d’Inghilterra, declina
moglie dell’ucciso infante Giovanni. Pietro comanda l’assassinio, subito prima di abbandonare Burgos,
di Iohan Fernandez de Touar, fratello di Ferrand, che ha avuto il torto di aver dato la città di Calahorra a
Enrico Trastámara (1366). Nello stesso anno Pietro fa anche uccidere don Suero, l’arcivescovo di
Santiago; l’assassinio avviene sulla soglia della chiesa di Santiago, mentre Pietro assiste dall’alto
dell’edificio. Alcuni moderni storici hanno sottolineato che la diffusione delle malefatte del Cruel è
dovuta ai suoi nemici, primo tra tutti Ayala, ma occorre sottolineare che, se è vero che la storia la
scrivono i vincitori, è pur vero che re Pietro di Castiglia ha indubbiamente ordinato e talvolta eseguito
personalmente omicidi e nessun revisionismo storico gli può lavare le mani imbrattate dal sangue
sparso. In proposito si veda FOWLER, Medieval Mecenaries, I, p. 160-161 che conclude la sua analisi con
queste parole: «it is difficult to avoid the conclusion that Pedro was not an attractive personality and that was
fundamentally unstable. He was remorseless in his treatment of those who betrayed him and frequently
treacherous in his action. The bloody executions, the odious and futile murders […] were not invented by his
enemies».
11 In realtà i figli della coppia Alfonso-Eleonora sono ben più di tre, come si può trovare in Ayala,
Coronica, anno 1350, cap. 3. Tra loro vi sono don Fadrique, maestro di Santiago, spessissimo in coppia
con Enrico, nelle imprese militari fino al 1356, poi don Ferrando, signore di Ledesma, Giovanna, che
sposa Ferrando di Castro, don Giovanni, don Pedro. Due altri figli della coppia sono morti da bambini.
Il fatto è che la crudeltà e la bestiale gelosia del re Pietro lo ha indotto ad assassinare tutti gli altri, meno
Giovanna che è la sposa di un suo fedelissimo, don Ferrando de Castro. Don Fadrique viene fatto
uccidere da don Pietro nel 1358, il 29 di maggio. AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1358, cap. 2 e 3.
L'atroce assassinio è vividamente narrato nel cap. 3. Nel 1359, dopo una sconfitta subita dal suo esercito
per opera di Enrico e Tello, l’indegno sovrano manda a trucidare i due fratelli minori dei suoi
fratellastri: il diciannovenne don Giovanni e il quattordicenne don Pedro, colpevoli solo di essere fratelli
dei suoi nemici. Si veda AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1359, cap. 23.
12 AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1351, cap. 3.
14 Non sarà inutile notare che Bertrand du Guesclin è stato diversi mesi prigioniero di Jean Chandos,
dopo esser stato preso prigioniero nella battaglia di Auray, avvenuta il 29 settembre 1364, e l’armata
franco-bretone quasi distrutta. Bertrand è stato liberato solo il 27 agosto, grazie al re che ha versato il
riscatto di 100.000 fiorini a Chandos.
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651
Carlo Ciucciovino
cortesemente l’invito, volendosi prima accertare dell’atteggiamento del suo sovrano, tenuto
ad un trattato di alleanza con re Pietro stipulato nel ’62; ma all’impresa partecipano nobili e
cavalieri del Principe di Galles.15 Il capitano generale dell’esercito è Jean de Bourbon, conte de
La Marche, che deve vendicare l’assassinio di sua cugina Bianca. Ma il conte è un giovane
cavaliere, e pertanto si avvarrà dei consigli dell’esperto Bertrand du Guesclin. All’impresa
partecipano molti valenti signori francesi.16 L’esercito si raduna a Châlon-sur-Saône. Di qui
Bertrand du Guesclin si dirige su Avignone. Urbano V, quando da una finestra del suo
palazzo, vede la lunga colonna di mercenari che si snoda sull’altra riva del Rodano, esclama:
«Ecco della gente che si dà una gran pena per trovare la strada che li porterà al Diavolo!». Il
colto maresciallo Arnoul d’Audrehem dirige i negoziati con la corte pontificia, egli ottiene dal
papa il pagamento di 200.000 franchi d’oro per il mantenimento dell’esercito; poi, dopo due
settimane di sosta a Villeneuve-lès-Avignon, continua il viaggio nella bassa Linguadoca,
arrivando a Montpellier il 20 novembre 1365. Vi soggiorna fino al 3 dicembre, poi, traversato
il Roussilion, il primo gennaio del ’66, perviene a Barcellona, dove lo attendono il re Pedro e
Enrico Trastámara. L’esercito ammonta a 30,000 combattenti e vi militano i principali capi
delle compagnie, tra cui le petit Meschin le bourg Camus, le bourg de l’Espare,17 «tutti d’un
accordo e tutti d’una alleanza». Notizia dell’arrivo di tale grande esercito è ovviamente giunta
alle orecchie di re Pietro, il quale ride all’ingenua comunicazione che gli arriva dagli invasori:
che voglia il re di Castiglia consentire il passo ai devoti pellegrini che stanno recandosi a
recuperare il regno di Granada, strappandolo agli infedeli, e risponde che non crede a tali
imbroglioni. L’armata allora muove, decisa a combattere: Francesi, Bretoni, Normanni,
Inglesi, Piccardi e Borgognoni, nonché Aragonesi finalmente guadano l’Ebro, confine tra
Aragona e Castiglia, ed entrano ostilmente nel regno di Pietro il Crudele. Questi ordina ai suoi
nobili e feudatari che accorrano prontamente presso di lui, per organizzare la resistenza agli
aggressori, ma la risposta è quasi nulla, egli ha seminato troppo odio e nessuno lo vuole più
aiutare, fa eccezione un leale cavaliere, Ferrand de Castro, fratello d’Ines de Castro, che, dopo
la sua morte, verrà riconosciuta come regina del Portogallo. Pietro non si spaventa ed è deciso
a vender caro il trono e la pelle. Da Siviglia, la migliore città di Spagna, dopo aver messo al
sicuro tesori e famiglia,18 El Cruel parte contro Enrico Trastámara.19
§ 3. Rivolta ad Imola
Il 25 gennaio, messer Rinaldo Borgarello solleva il popolo di Imola e lo conduce
all'assalto del palazzo dei signori, messer Beltrame e messer Azzo Alidosi. Il palazzo viene
preso, saccheggiato e dato alle fiamme, ma non prima che siano partiti veloci cavalieri a
cercare l'aiuto di un fratello degli spodestati signori, messer Todeschino. Alle tre di notte
questi entra in città al comando dei suoi fanti, tra squilli di tromba e suon di tamburi. Messer
Rinaldo si prova ad affrontarlo, ma viene sconfitto e rotto e ucciso.20
15 Tra questi sir Hugh Calveley, detto il Gigante Rosso, sir Eustache d’Aubrecicourt, sir Gautier Huet, sir
Matthieu de Gournay, sir Perducas de Labreth (Albret) e molti altri.
16 Tra questi: Antonio, sire di Beaujeu, messer Arnoul d’Andrehen, maresciallo di Francia, messer Le
Bègue de Vilaine, messer Le Bègue de Villiers, messer Gauvain de Bailleul, il sire d’Antoing en Hainaut,
messer Allard de Briffeuil, messer Jean de Neufville, messer Jean de Berguetes, l’Allemand de Saint-
Venant.
17 Bourg o Boucq significa bastardo; altri sono: messer Robert Briquet, Jean Carsuelle, Naudon de
Bagerant, Lamit, le bourg de Breteuil, Batillier, Espiote, Aimemon d'Ortige, Perrot de la Savoye.
18 Essa è composta dalla moglie e da 2 figlie, Costanza, che sposerà più tardi Jean de Gand, duca di
Lancaster, figlio d’Edoardo e Isabella, che sposerà Edmondo duca di York, fratello di Jean de Gand.
19 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 198. Una buona sintesi moderna si può trovare in G. MINOIS,
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La cronaca del Trecento italiano
§ 6. Gli Este si danno molto da fare per il rientro del papa in Italia
L’11 febbraio il marchese Ugo d’Este è andato a Modena a sciogliere un qualche voto.
Dopo il passaggio di Giacomo di Maiorca, i marchesi di Ferrara, Ugolino e Nicola d'Este, il 24
febbraio, lasciano Ferrara per recarsi a Roma, incaricati di una qualche missione connessa con
il rientro del pontefice nella Città Eterna. Infatti, Nicolò, il 19 maggio, insieme a suo cognato
Malatesta Ungaro, parte di nuovo, alla volta d'Avignone, per visitare Urbano. Quando
ritorna, il 15 ottobre inforca nuovamente il suo cavallo, andando a Firenze, latore di messaggi
papali, presumibilmente tendenti a convincere i Fiorentini ad aderire alla lega contro i
mercenari.27
21 NESSI, I Trinci, p. 66. Le ambascerie spoletine sono del 21 dicembre 1365 e 13 gennaio di questo anno.
LAZZARONI, I Trinci, p. 49-50
22 NESSI, I Trinci, p. 67.
24 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 206-207; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 207; Rerum Bononiensis, Cr.
accompagnamento per un monarca napoletano», VERCI, Storia della Marca Trevigiana, Lib. XV, p. 91.
26 Chronicon Estense,² p. 487. Anche le parole della fonte sono molto caute: Giacomo è onorato «sicut erat
207. FRIZZI, Storia di Ferrara, vol. III, p. 340 precisa che il marchese d’Este va a Roma con un seguito di
ben 225 persone e torna a Ferrara il 31 marzo.
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La cronaca del Trecento italiano
§ 9. Bologna
Il 20 marzo Androino è partito per un giro ispettivo in Romagna. Ne ritorna il 21 maggio,
accolto festosamente da tutti i notabili bolognesi.33
Rosso dei Ricci di Firenze, uomo energico e con alto senso di giustizia, è podestà di
Bologna. Messer Francesco de Calboli di Forlì gli succede nei secondi sei mesi.
gode del sostegno dei Fieschi e Spinola. Nicola Fieschi è in contraddizione con la politica del vescovo
Giovanni Fieschi, il quale contende Vercelli a Galeazzo Visconti, NUTI, I Fieschi, p. 202-203. Qualche
notizia anche in GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p. 334-335.
35 STELLA, Annales Genuenses, p. 161; GIULINI, Milano, lib. LXX, anno 1366; BARGELLINI, Genova, p. 222.
SPADA, Gli Ordelaffi, p. 152 ci informa che Francesco Ordelaffi è tra i capitani viscontei che combattono
Genova.
36 RICCARDO MUSSO, Montaldo Leonardo, in DBI vol. 75°.
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Carlo Ciucciovino
38 PETTI BALBI, Genova e Corsica nel Trecento, p. 42-49, qui si trovano molti più dettagli di quanti io ne
abbia riportati, tra questi i nomi dei podestà e dei confalonieri; praticamente nulle le informazioni di
MONTERISI, Corsica; ASSERETO, Genova e la Corsica, p. 90-95; FILIPPINI, Storia di Corsica, lib. III, p. 198.
39 Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 207-208 e Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 207.
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41 PASCHINI, Friuli, I, p. 342-343. DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 228 e nota 1 ivi riporta le molte
investiture feudali effettuate da Marquardo. Per le altre notizie DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 228-
235. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, Lib. XV, p. 93-94.
42 PASCHINI, Friuli, I, p. 344-346 ; DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 233 e nota 1 ivi.
46 BRUNETTIN, Una fedeltà insidiosa, p. 335-336. WAKOUNIG, Una duplice dipendenza, p. 341 mette in luce che
Rodolfo d’Asburgo è riuscito a far fallire il progetto di matrimonio tra un’altra figlia di Mainardo di
Gorizia e un Visconti. Per le contese di Mainardo per Haimbirg e i possessi di Diex e Saualpe, si veda
BAUM, I conti di Gorizia, p. 187.
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di Azzo e Luigia Gonzaga. In questo modo i conti possono in qualche modo contare
sull’alleanza dei Gonzaga e dei Correggio. L’appoggio dei Gonzaga non è vantaggioso solo
dal lato politico, Arco beneficia anche di traffici commerciali con Mantova e quindi i buoni
rapporti con la corte dei Gonzaga sono necessari ed opportuni.47
47 WALDSTEIN-WARTENBERG, I conti d’Arco, p. 289-290. Luigia Gonzaga è zia, perché sorella del padre
Guido, dei fratelli Luigi e Francesco che governano Mantova.
48 VITOLO, Rivolte contadine e brigantaggio nel Mezzogiorno angioino, a stampa in «Annali dell’Istituto
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precipita nel Patrimonio.50 Egidio, che ha una cura fondamentale: assicurare la difesa e la
tranquillità del Patrimonio, si dedica con la consueta energia a rendere totalmente sicuro il
futuro viaggio del papa in Italia, ricorrendo alla diplomazia ed alla forza. Ottiene il 13 maggio
la sottomissione di Orte, ribelle dal '64, ed importante per la sua posizione strategica di
controllo della via per Roma; fa costruire rocche ad Orte ed a Sassoferrato; intraprende
un'azione militare, e scaccia dai loro domini i Brancaleoni di Castel Durante, pericolosi per la
loro capacità di controllare i valichi nella Massa Trabaria e nel Montefeltro.51 L’energico
cardinal legato può contare sulla fedeltà di Trincia dei Trinci, signore di Foligno, di Rodolfo
di Camerino, Smeduccio di San Severino, Bisaccione di Lippo da Cingoli, Pagnone di
Tanarello dei Cimi da Cingoli.52
50 FILIPPINI, Albornoz, p. 382 riferisce la date e le tappe del cardinale, partito il 9 giugno e giunto a Norcia
il 21 giugno, il 27 a Macerata e il 7 luglio a Ancona.
51 FILIPPINI, Albornoz, p. 393.
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avuto luogo il consiglio che ha determinato di restituire i prigionieri, verrà detta Sala del
Malconsiglio, a testimonianza della delusione dei Perugini per l’effetto della decisione.55
I Perugini, tradendo lo spirito della lega contro le compagnie, accolgono onorevolmente
Anichino di Baumgarten ed Alberto Sterz, capi di soldati tedeschi, che possono difendere la
città dagli Inglesi.56
Savoia, p. 157-158. RICALDONE, Annali del Monferrato, I, p. 343 ci informa che tra i capitani agli ordini di
Monaco vi è un Tommaso della Torre dei marchesi del Carretto. CIBRARIO, Savoia, III, p. 205-209.
58 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 209; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 209; VERCI, Storia della Marca
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La cronaca del Trecento italiano
compagnie e senta il bisogno di lanciare una lega toscana alternativa a questo disegno. Gli
ambasciatori fiorentini prontamente inviati alla corte pontificia chiariscono che «dubitandosi
quella città (Siena) fosse per sottoporsi a qualche potente signore, erano i Fiorentini stati
costretti per la libertà di Toscana a farla». Scusa curiosa, motivata dal tentativo di tradimento
dei seicento stipendiati mercenari.60
60 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1366, vol. 3°, p. 319, nota di Amm. il Giovane.
61 Per la partenza si veda CAMERA, Elucubrazioni storico diplomatiche,p. 252.
62 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 524-525; DEL BALZO DI PRESENZANO, A l’asar bautezar!, vol. I, p. 290-291.
63 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 525-526; KIESEWETTER, Giovanna I d’Angiò, DBI, vol. 55°. Molti dettagli
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in Italia. Secondo Kiesewetter, il merito dei buoni rapporti con il papa si deve attribuire al
nuovo cancelliere del regno; egli scrive: «vero architetto della rinnovata alleanza pontificio-
angioina fu soprattutto Niccolò Spinelli di Giovinazzo, che godeva della migliore reputazione
in Curia e che, dopo la morte di Niccolò Acciaiuoli e di Niccolò d'Alife, aveva preso il loro
posto come primo consigliere della regina e cancelliere del Regno di Napoli».64
§ 24. Milano
Timoroso di agitazioni intestine, in giugno, Bernabò Visconti ordina che nessuno osi
definire sé o altri con il titolo di guelfo o ghibellino, pena il taglio della lingua. «E però furono
tagliate le lingue di alcuni contravventori».68
L’arcivescovo di Milano, Guglielmo della Pusterla non è ancora venuto a prendere
possesso della sua sede; il suo vicario generale è suo nipote Tommaso della Pusterla.69
67 CAMERA, Elucubrazioni, p. 258-259 e LEONARD, Angioini di Napoli, p. 532-533. Per l’azione del principe
d’Orange che si è impadronito del castello di Courtheson e della sua signora Caterina, si veda DEL
BALZO DI PRESENZANO, A l’asar bautezar!, vol. II, p. 393-394 e 418 e sulle ragioni di Raimondo del Balzo
principe d’Orange, p. 479.
68 GIULINI, Milano, lib. LXX, anno 1366.
69 Ibidem. Giulini non ci sa dire se fosse loro parente il podestà di Piacenza, Zanardo della Pusterla, che
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La cronaca del Trecento italiano
quale Amedeo si unirebbe a Giovanni Paleologo per scacciare i Turchi dalla Tracia, mentre re
Ludovico d'Ungheria, dal Danubio, scenderebbe nella valle della Morava, per prendere alle
spalle gli infedeli. Giovanni Paleologo, vedendo a portata di mano la possibilità di riscattarsi
dalla sua penosa situazione, si adopra moltissimo per rendere attuabile il piano: si reca
personalmente dal re d'Ungheria e scrive al papa per appoggio. Il pontefice pone però come
condizione l'abiura, mentre benignamente scrive a Genova e Venezia, chiedendo di aiutare
Amedeo di Savoia nella meritoria impresa. Il 3 gennaio 1366 Amedeo, nel suo castello di
Bouget, predispone quanto necessario al governo dello stato durante la sua assenza,
affidandolo a sua moglie Bona di Borbone. Poi il conte fa una puntata ad Avignone per gli
ultimi accordi con Urbano VI, specialmente in merito alla richiesta abiura dell’imperatore di
Bisanzio. L'8 febbraio Amedeo lascia definitivamente la Savoia, passa per Milano e Pavia,
dove partecipa al battesimo del primogenito di Gian Galeazzo Visconti, noleggia quindici
navi da trasporto (sei veneziane, sei genovesi e tre marsigliesi), poi si reca a Venezia, dove
arriva l'11 giugno. Dopo alcuni fervidi e festosi giorni trascorsi nella bellissima città, a fare
acquisti e ultimare i preparativi per l'avventuroso viaggio, il trentenne conte di Savoia, il 20
giugno salpa le ancore, godendosi l'ammirazione di tutta la gente schierata a San Marco,
sognante per l'ardita impresa. Sulla galea di Amedeo sventolano al sole la croce bianca dei
Savoia ed il leone di San Marco.70
Bella ed esauriente la narrazione di COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 136-140. Si veda anche
70
COGNASSO, Savoia, p. 159-161. Breve descrizione della partenza in BERTOLOTTI, Savoia, p. 75.
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Carlo Ciucciovino
Ma la vera e crescente potenza è quella turca, alimentata dalle cure dei figli di Osman:
Orkhan e Alaeddin, che hanno riorganizzato l'esercito, facendone una macchina di
straordinaria flessibilità. Orkhan assume il titolo di sultano e conia propria moneta. Solo
l'Armenia, dal '42 governata da un ramo della famiglia cipriota dei Lusignano, resiste alla
potenza turca; per conquistarsi l'appoggio dell'Occidente, e della Chiesa, essi decidono di
aderire alla Chiesa Latina.
Nel 1354 un contingente turco si stabilisce a Tzimpe, nei Dardanelli, e, quando un
terremoto devasta Gallipoli il 2 marzo del '54, i Turchi si appropriano del sito e lo
ricostruiscono. Lo stretto dei Dardanelli è ora sotto il loro controllo, chi se ne dovrebbe
preoccupare sono Genova e Venezia, troppo occupate in una guerra fratricida, per
avvedersene. Tra il '57 ed il '65 la Balcania cade totalmente in mano turca. Ludovico
d'Ungheria spia assorto il susseguirsi degli avvenimenti, valutando le possibilità di
espandersi verso il sud, verso la valle della Morava.71
La debolezza dell’Occidente deriva essenzialmente da un motivo: un odio ed
un'incomprensione profonda dividono i Cattolici dagli Ortodossi. Questi sono visti dai Latini
come scismatici ed eretici, e ripugna portare loro aiuto e soccorso. La Chiesa chiede agli
Ortodossi l'abiura o, almeno, la sottomissione; ma la religione è il valore intorno cui si
raccolgono i Bizantini, ciò che dà loro il senso della loro identità, chiedere loro di rinunciarvi è
pura utopia. Nondimeno tutti intuiscono il crescente pericolo turco e le trattavive non si
interrompono mai, per cercare di far costituire un fronte comune tra Occidente ed Oriente
cristiano. Molti sono i mediatori di livello, Anna di Savoia, vedova di Andronico III e zia di
Amedeo VI, che nel '43 invia ambasciatori ad Avignone; Giovanni Cantacuzeno, che divenuto
imperatore e collega di Giovanni V Paleologo, nel 1347, inizia nuovamente i contatti col
papato. Come sempre, il papa, che risponde con enorme ritardo, tre anni, subordina gli aiuti
all'abiura, e i Bizantini l'abiura ad un concilio ecumenico: la situazione è di stallo totale.
Quando, nel '54 i turchi sono a Gallipoli, l'urgenza di ottenere aiuti dal più forte Occidente
diventa inderogabile: nel '56 Giovanni V Paleologo riprende sincere trattative con Avignone:
vuole l'unità della Cristianità, e, in cambio, soccorsi. Tutti, Venezia, Genova, Cavalieri di
Rodi, rifiutano d'impegnarsi. Solo Pietro I di Lusignano, sovrano di Cipro, sente l'urgenza del
pericolo musulmano e intraprende, nel dicembre del 1362 un viaggio in Europa. Il 29 marzo
del '63 arriva ad Avignone e, con notevole eloquenza, convince rapidamente Urbano V, che
già il Venerdì Santo, 31 marzo, bandisce una crociata, alla presenza del re di Francia Giovanni
Il Buono, che vi aderisce immediatamente. La partenza per la crociata è fissata per il primo
marzo 1365, ma Giovanni muore a Londra l'8 aprile 1364, e il re di Cipro che è compreso
dall'urgenza del pericolo turco, dopo aver girato, con risultati scarsissimi, tutta l'Europa, si
reca a Venezia a cercare di allestire una flotta di guerra. Venezia però, ha altre priorità,
innanzi tutto la ribellione di Creta, alla cui sistemazione subordina la crociata. Finalmente, nel
giugno 1365, Pietro II di Lusignano salpa da Venezia e si riunisce col resto della flotta a
settembre, nell'isola di Rodi. Il 10 ed 11 ottobre 1365 conduce un improvviso attacco ad
Alessandria, che conquista.72 Anche sei vascelli genovesi che sono alla fonda nel porto e «che
non avevano voluto prender parte all’assalto si misero di buona voglia nella partita del
saccheggio, e per un errore più o meno in buona fede, estesero il sequestro a molte merci della
colonia veneziana».73 Nel frattempo, nel 1363, sprovvisto di aiuti, Giovanni Paleologo si è
dovuto sottomettere a Murad I, dichiarandosi suo vassallo.74
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Scrive Felice Fileti: «La presa di Alessandria esemplifica nel modo migliore questo nuovo
spirito di crociata di rapina: assalita di sorpresa, la pacifica città cadde in poche ore e fu
vittima di un tremendo massacro e saccheggio: forse ventimila furono gli abitanti uccisi, e
almeno cinquemila quelli condotti in schiavitù». Re Pietro vorrebbe proseguire nell’azione e
dedicarsi ad altri obiettivi, ma i suoi comandanti sono contrari e con questi si schierano anche
i due fratelli di Pietro, Giovanni e Giacomo; a fine ottobre le navi crociate, stracariche di preda
salpano.75
Non tutta la Cristianità approva l’impresa di Alessandria, in particolare Venezia è
estremamente critica, perché il sultano d’Egitto, avuta la notizia della conquista e del
massacro, ha arrestato i mercanti veneziani che commerciavano in Egitto e ne ha sequestrato i
beni. Se il re di Cipro avesse voluto “capitalizzare” la conquista, avrebbe dovuto mantenere il
possesso della città e, contemporaneamente, portare un attacco a fondo in Egitto e in Siria.
Non sarebbero mancati i volontari cristiani, perché la presa della ricca, e colta ed antica città
aveva galvanizzato l’immaginazione di molti. Gli stessi Mamelucchi si aspettano di essere
assaliti, ma nulla accade. Venezia vorrebbe la pace, ma i Mamelucchi negano una pace
separata nella quale Cipro non abbia parte. La Serenissima allora fa pressioni su re Pietro. In
giugno una delegazione egiziana viene a Cipro, ma Pietro avanza delle richieste irricevibili:
vuole territori in Gerusalemme, esenzione dagli oneri per il suo commercio, e, naturalmente,
il rilascio dei prigionieri. Il re manda a sua volta i suoi ambasciatori al Cairo, ma, nel
frattempo, approfitta del tempo per riarmarsi. Venezia decide di credere alla buona fede di
Pietro e chiede ed ottiene da Urbano V un permesso di commercio con l’Egitto. Quando il re
di Cipro avverte la Cristianità che egli non ha intenzione di concludere la pace, il papa revoca
il permesso a Venezia, questa risponde vietando a tutti di partecipare alla spedizione del
Lusignano e esercitando un embargo su armi e cavalli ai Ciprioti. La Serenissima, per
sottolineare il suo distacco da re Pietro, invia doni al personaggio più influente del Cairo,
l’emiro Yabulga. A novembre, dopo diversi rinvii, la flotta cipriota prende il largo, è una bella
compagine di 56 galee e 60 altri legni. Il mese scelto però è il peggiore: un violento fortunale
disperde la flotta, che si rifugia a Cipro, senza aver scagliato un dardo; solo 15 galee, che sono
riuscite ad arrivare in vista del porto siriano di Tripoli, sbarcano e lo saccheggiano. La
spedizione comunque è stata un fiasco. Ora anche Genova si unisce a Venezia per chiedere a
re Pietro di non insistere nella sua lotta con l’Egitto, inoltre la guerra costa e Urbano V,
irritato, ha già fatto sapere a re Pietro di non aspettarsi contributi dalla Chiesa.76
75 FILETI, I Lusignan di Cipro, p. 102. Anche EDBURY, The Kingdom of Cyprus, p. 162 rileva che le aspettative
di questo tipo di crociata sono ben diverse da quelle tradizionali di liberazione della Terrasanta. Ivi, a p
163-164, Edbury traccia un profilo delle vicende che hanno confrontato Ciprioti e Mamelucchi in tutto il
secolo. A p. 167-168 la descrizione della presa di Alessandria e dei dubbi sul cosa fare dopo.
76 EDBURY, The Kingdom of Cyprus, p. 168-169; FILETI, I Lusignan di Cipro, p. 102-103.
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vista come un grande errore. Le campagne del 1360 contro Egitto e Siria hanno sviato
l’attenzione dal Mediterraneo orientale e dall’Egeo proprio quando i Turchi Ottomani
stavano consolidando le proprie posizioni sul lato europeo del Bosforo. Nello spazio di una
generazione essi avrebbero governato gran parte dei Balcani. Per quanto riguarda l’Europa, il
teatro del conflitto con i Musulmani è ora slittato definitivamente e Cipro è diventato un
avamposto distante ed insignificante. Con l’eccezione dell’incursione del maresciallo
Boucicault in Siria nel 1403, e, a parte occasionali atti di pirateria, non vi saranno più
aggressioni di Cristiani contro il sultanato dei mamelucchi. A questo riguardo la spedizione
di Alessandria è stata il capitolo finale di una saga che è iniziata con la prima crociata e la
presa di Gerusalemme nel 1099».78
In un altro saggio,79 Edbury espone quali potrebbero essere state le ragioni dell’attacco di
Pietro contro Alessandria. L’importanza commerciale di Cipro e di Famagosta è andata
declinando nel tempo: le navi veneziane che negli anni 1334-1345 attraccavano a Famagosta
erano sette od otto all’anno; nel 1346, quando Venezia ottiene la licenza del papa a
commerciare con l’Egitto, il totale delle galee è lo stesso, ma solo una parte si reca a Cipro,
mentre le altre vanno ad Alessandria. Negli anni 1357-59, un totale di quattordici galee fanno
rotta su Alessandria, mentre solo nove su Cipro. La declinante importanza di Cipro
naturalmente preoccupa re Pietro il quale potrebbe aver concepito l’idea di crearsi un suo
scalo commerciale fuori della sua isola, e Alessandria potrebbe essere stata il suo obiettivo.
Presa però la città, il re non è riuscito a fermare le devastazioni e le depredazioni, facendo
fallire il suo disegno e facendo diventare furibondi i mercanti italiani che si sono visti
derubati delle loro merci.
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occidente, si passa il fatidico torrente Najerilla, presso Najera, e si punta su Burgos, dove è
Pietro il Crudele.
L’armata si dirige verso occidente e giunge a Briviesca. La città è difesa da una doppia
cerchia di mura ed ha fama di essere imprendibile. Briviesca rifiuta di capitolare ed Enrico
dispone l’attacco generale. L’esercito di Enrico si lancia all’attacco da tutti i lati
contemporaneamente, Calveley, cui è assegnato il quartiere ebreo, il conte de la Marche,
Arnoul d’Audrehem, Robert Scot, Devereux, Robert Briquet, Gautier Huet, Guillaume Boitel,
Guillaume de Lannoy, Mathieu de Gournay, le Bourg de Laines, Alain de La Houssaye, il
Cavaliere Verde, Jean e Alain de Beaumont, malgrado la pioggia di dardi, le pietre lanciate
d’alto, i ribaltamenti di scale, i difensori sono sovrastati dall’impeto degli assalitori.
Finalmente, un Bretone piazza la bandiera di du Guesclin sugli spalti e inizia la caccia ai
cittadini, e, in particolare, agli Ebrei. L’imprendibile Briviesca è caduta in una sola giornata di
combattimento. L’espugnazione è narrata da Cuvelier con dettagli orripilanti, il
combattimento è durissimo, ma da quando il Bretone riesce a piantare sugli spalti la bandiera
di du Guesclin, i mercenari sono irrefrenabili. Quando dilagano in città, compiono un
massacro, non risparmiando né donne né bambini; finalmente i combattenti, padroni di
Briviesca, convengono verso il quartiere ebraico, le cui barricate sono inutili contro il furore
dei mercenari; i difensori vengono travolti e duecento di loro arsi vivi dentro una torre. In
questa città il Guascone Bernardo della Sala cattura in combattimento il comandante della
piazza, Men Rodriguez de Senabria.81 Quando la notizia, dopo solo un giorno, arriva a re
Pietro, questi si rifiuta di crederci e fa impiccare i due sventurati messaggeri che la hanno
annunciata. Dopo Briviesca, tutte le città aprono pacificamente le porte a quest’esercito di
forsennati.
Pedro El Cruel è furibondo e vede in tutti dei traditori. Quindi, il 28 marzo, il fuggiasco
scortato da pochi fedelissimi di Castiglia,82 ma da ben 600 cavalieri mori mandatigli dal re di
Granada Maometto V, (Mohammed ben Youssef),83 prende la strada dell’Andalusia,
attraverso il passo Guardarrand, senza organizzare alcuna resistenza. Ha preso comunque la
precauzione di mandare la sua famiglia in Portogallo e anche il suo tesoro, che ha affidato al
leale Martin Yanez. Burgos ritiene prudente non opporsi all’esercito di Trastámara e gli apre
le porte.84 Il nuovo re di Castiglia vi entra il 29 marzo, domenica delle palme: c’è voluto meno
di un mese per raggiungere un obiettivo incredibile. Dopo i primi, ferocissimi combattimenti,
non ha dovuto più battersi, l’odio verso re Pietro ha indotto tutte le città e ville e castelli e
borghi ad aprirgli pacificamente le porte, ed ad acclamarlo come nuovo re: «Viva Enrico, e
morte a Don Pietro, che è stato così crudele e duro verso di noi!» è il grido che prorompe dai
petti dei sudditi di Castiglia. Tutti i grandi signori,85 i prelati, i conti i baroni, i cavalieri lo
riveriscono come re ed a lui giurano fedeltà, fino alla morte. Enrico si comporta da gran
signore e premia con ricchi doni i Francesi e Normanni e Bretoni che lo hanno accompagnato
nell’impresa; ai suoi fratelli dà importanti titoli nobiliari, a don Tello la contea di Biscaglia e di
84 Burgos si è arresa senza combattere, perché non era ben cerchiata, ché il muro era molto basso. Inoltre,
quando re Pietro è fuggito verso Siviglia, ha lasciato in città la gran parte dei suoi signori e questi hanno
o disertato, unendosi all’armata di Enrico, o se ne sono tornati alle proprie terre, in attesa del maturarsi
degli avvenimenti. AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1366, cap. 4. BARBER, Life and Campaign of the Black
Prince, p. 106-107, riportando quanto ne scrive Chandos Herald.
85 Tra questi: don Diego de Padilla, don Garcia Alvarez di Toledo, Gomez Carrillo, tutti importanti
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Castaneda, a don Sancio quella di Albuquerque.86 In soli due mesi il bastardo ha conquistato
la Castiglia, rimangono in mano di Pietro di Castiglia tutti i territori soggetti a don Ferrando
de Castro, la città di Agreda, i castelli di Lognoño, Soria, Anedo, San Sebastian e Guetaria.87
La cerimonia dell’incoronazione avviene il 5 aprile, domenica di Pasqua. I giudei
vengono minacciati di terribili rappresaglie se non si riscattano e sono quindi costretti a
versare 3.000 maravedis88 il giorno dell’incoronazione. Re Enrico copre di onori i suoi
principali collaboratori, du Guesclin e Calveley in testa.89
Non si riposa sugli allori: il 20 aprile l’esercito di re Enrico muove verso Toledo. Il caldo
che inizia a farsi sentire obbliga ad una marcia lenta per le 220 miglia che separano Burgos da
Toledo. Man mano che procede, l’esercito riceve la sottomissione dei vari centri incontrati
sulla via. Finalmente, si arriva in vista di Toledo ai primi giorni di maggio. La città è
ottimamente difesa dalla natura e dalle fortificazioni costruite. In città vi è chi vorrebbe
resistere al nuovo re, ma, in maggioranza, i cittadini sono contrari a patire gli orrori di un
lungo assedio e della probabile conquista a mano armata, con tutto il corollario di nefandezze
che questa comporta. L’arcivescovo viene mandato ad offrire le chiavi della città a re Enrico.
Trastámara entra in città e vi si trattiene per 15 giorni; gli ebrei vengono obbligati a pagare la
fantastica cifra di un milione di maravedis (40.000 fiorini), con tale denaro il sovrano può
pagare i suoi mercenari. La prossima tappa è la capitale di re Pedro El Cruel, l’amata Siviglia,
distante altre 250 miglia. Il 20 maggio l’armata prende la via del sud; ora il calore è intenso.
Cordoba si sottomette, ci si aspetterebbe un forte resistenza di Siviglia, ma, anche se non
disponiamo di particolari, la città cede senza combattere. Ora l’armata può finalmente
riposare, anche perché il calore della bella Siviglia martella ed impedisce i combattimenti o le
marce.
informazioni e di cifre. Si veda anche STODDARD, Bertrand du Guesclin, p. 163-165 e VALDEÓN, Pedro el
Cruel y Enrique de Trastámara, p. 149-151 che narra come Pietro giunga alla decisione di lasciare Siviglia.
90 FILIPPINI, Albornoz, p. 387; GIULINI, Milano, lib. LXX, anno 1366 e CORIO, Milano, I, p. 815.
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98 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1366, vol. 3°, p. 317, nota di Amm. il Giovane.
99 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1366, vol. 3°, p. 318, nota di Amm. il Giovane.
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§ 34. Locuste
Nei mesi di luglio e agosto si assiste alla, ahimè consueta, invasione di locuste in Italia
settentrionale. I cronisti, rassegnati, quasi non ne registrano neanche più i danni.102 A
Savigliano viene garantito un premio di sei denari a chi porti una libbra di insetti e due soldi
a chi ne rechi un rubbo. In 45 giorni il comune paga oltre 124 lire di premi.103
Niccolò di Borbona registra l’invasione al prossimo anno, ma nessun altro cronista ne
parla, quindi lo cito qui: «nell’anno 1367 fone grandissima novitate in questo pajese, che
venero tanta quantità de grilli, overo locuste, che tutto l’aira cropiano [coprivano] e
offuscavano e mangiavanose tutte le biadi de grano, e d’ongni vittovallo, ficché per niuno
riparose potiano difendere, né con alcuno ingegno o artifizio, né co facca, né co acqua, che
non ne facessero tanto danno che multo poco ne fo scampato, de que ne sequio grande
carestia».104 Antonio di Buccio registra, forse più correttamente, l’invasione dei “grilli” nel
1364.105
100 PISPISA, Messina nel Trecento, p. 240-241; PISPISA, Messina Medievale, p. 97.
101 MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 185-188.
102 Chronicon Estense,² p. 487; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 208.
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La cronaca del Trecento italiano
inviato suo nipote Gomez ad Avignone con quattro galee, ad illustrare al papa la situazione
italiana. Il 3 luglio Gomez riparte per l'Italia ed il 20 luglio Urbano annuncia il viaggio.107 Il 28
agosto il papa chiede ad Egidio Albornoz di apprestargli la rocca di Viterbo.108 Onde evitare la
corsa dei cardinali all’accaparramento delle migliori dimore in Viterbo, il pontefice il 7 ottobre
pubblica un editto nel quale vieta di prendere in affitto immobili in Viterbo, senza l’espressa
autorizzazione del pontefice e affida a un camerlengo dotato di pieni poteri di affittare le case
e di distribuirle ai prelati ed al loro seguito.109
Le resistenze dei cardinali alla notizia del viaggio sono notevoli: vi sono solo due Italiani
nel collegio cardinalizio, Niccolò Capocci e Rinaldo Orsini, mentre la maggioranza dei
cardinali è francese. Ma lo spopolamento di Avignone a seguito della peste e la continua
minaccia degli avventurieri che taglieggiano la zona sono un incentivo a cercare zone più
sicure. L’Italia forse lo è diventata, a Roma le prepotenze dei baroni sono state in qualche
modo sedate dal nuovo governo, Gil Albornoz ha riconquistato e sedato il Patrimonio e la
Marca; le armi dei potenti signori del settentrione della penisola sembrano, per il momento,
tacere o essere tacitabili, quindi ora o mai più.
111 In realtà VALDEÓN, Pedro el Cruel y Enrique de Trastámara, p. 148-149 fa notare che esistono senz’altro zone
leali a re Pietro nella zona orientale del Cantabrico, e, non lontano da Guipùzcoa, la città di Lognono.
112 MINOIS, Du Guesclin, p. 289-292 ; FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 179-185, alle p. 172-177 vi sono le
precauzioni prese da Carlo di Navarra per il passaggio delle truppe nel suo territorio. Si veda anche
STODDARD, Bertrand du Guesclin, p. 165-166,
113 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 200. E AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1366, cap. 15.
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114 AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1366, cap. 9 e 14; BARBER, Life and Campaign of the Black Prince, p. 107-
108, riportando quanto ne scrive Chandos Herald.
115 AYALA, Coronica del rey don Pedro, anno 1366, cap. 16.
116 AYALA, Coronica del rey don Pedro, anno 1366, cap. 18.
117 Ferrand ha sposato nel 1354 Giovanna, sorella di Enrico Trastámara. Ayala, Coronica, anno 1354, cap.
36.
118 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 201. Il percorso di Pietro, partito da Santiago de
Compostella, dove ha fatto assassinare l’arcivescovo, è passato per la Coruña, dove si è imbarcato, per
approdare a Bayonne. La sua flotta era costituita da 25 navi. AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1366, cap.
13. BARBER, Life and Campaign of the Black Prince, p. 108-110, riportando quanto ne scrive Chandos
Herald.
119 Edoardo incontra don Pietro a Capbreton e, insieme, vanno a Bordeaux.
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troppo vuole, nulla stringe,121 e che la sua consolidata gloria non ha certo bisogno di nuove
avventure di tal genere, né di tali compagni. Pietro è scomunicato, ed è un tiranno, in guerra
con Aragona e Navarra, e un uxoricida. Ma a tutte le obiezioni, che Edoardo riconosce
fondate, egli non sa obiettare niente di meglio che: «Non è cosa conveniente, né ragionevole,
che un bastardo scacci dal trono suo fratello legittimo. Ciò sarebbe un gran pregiudizio contro
lo stato reale». La vera ragione politica dell’alleanza è che la Castiglia in mano ad Enrico
significa un importante regno in potere di un forte alleato del re di Francia, evento da
scongiurare con tutti i mezzi, in vista dell’inevitabile ripresa della guerra tra Francia ed
Inghilterra. Comunque, Edoardo conferma la sua decisione e la sua volontà d’alleanza con re
Pietro. Il principe chiama a sé tutti i suoi alleati di Guascogna e di Berna , e tutti rispondono
positivamente,122 meno il conte di Foix, che, avendo male ad una gamba, non può cavalcare.123
Viene tenuto un parlamento generale a Bordeaux, il cui ordine del giorno consiste nel
discutere dell’eventuale alleanza con Pietro di Castiglia. Vi convengono i signori di Poitou,
Xaintonge, Aquitania, Rouergue, Quersin, Limosin e Guascogna. Per tre giorni durano le
discussioni, sempre presenti Edoardo e Pietro, i pareri sono discordi, finalmente si risolve di
chieder consiglio a re Edoardo III d’Inghilterra, padre del principe di Galles. Ci si rimetterà al
suo parere. Quattro cavalieri124 vengono inviati alla corte inglese, che è a Windsor. Il re
convoca un consiglio a Westminster, nel quale viene deciso di aiutare re Pietro a riacquistare
il suo dominio. Pietro, esultante, promette di pagare gli stipendi a tutti i cavalieri con il suo
tesoro. Ma manca ancora un consenso, quello del re di Navarra, che tiene in suo potere il forte
passo di Roncisvalle, essenziale per penetrare in Spagna, e che ha annunciato la sua alleanza
con re Enrico Trastámara.125 Vengono inviati al re di Navarra, che è a Pamplona, Jean
Chandos e Thomas Felton, i più abili consiglieri di Edoardo. In fondo, Carlo V di Navarra ha
un soprannome che ben si armonizza con quello di re Pietro, è infatti detto il Malvagio, e fino
al maggio dell’anno scorso è stato in guerra contro il re di Francia.126 A luglio, Edoardo ha
mandato John Chandos ad ottenere il permesso di passaggio per loro dal conte di Foix. La
doppiezza di Carlo di Navarra è dimostrata dal fatto che in luglio consente al cugino di
Bertrand du Guesclin, Olivier de Mauny, di attraversare la Navarra con un certo numero di
Bretoni che vanno a rinforzare l’esercito di Trastámara. Carlo può giustamente sostenere che
l’accordo con il Principe e con re Pietro non è stato ancora formalizzato; questo sarà firmato a
settembre a Libourne. In verità Carlo V si lascia convincere abbastanza facilmente dai delegati
del Principe Nero, solo, eviterà di scendere apertamente in campo, al fianco del principe di
Galles e di don Pietro, anzi, per giustificare la sua assenza dal campo di battaglia di Enrico
Trastámara, egli simulerà di lasciarsi imprigionare da Olivier de Mauny, parente di du
Guesclin. Il 23 settembre il re di Navarra firma a Libourne un trattato in virtù del quale
concede il passo attraverso il suo dominio agli Inglesi e si impegna a rifornirli; in cambio avrà
200.000 fiorini d’oro, le città di Logroño, Salvatierra, Calahorra, Alfaro e Vittoria; parteciperà
alla battaglia dalla parte di Edoardo di Galles, inviando 300 lance al comando di Martin
Enriquez, suo alfiere.127 Una clausola molto importante ai fini del futuro sentimento di
Edoardo nei confronti di Pietro è che i prigionieri siano di chi li cattura; soltanto i prigionieri
125 Infatti il re di Navarra si è incontrato con Enrico Trastámara a Santa Cruz de Campezo, al confine tra
Navarra e Castiglia, vicino alla fatidica Najera. Qui Carlo si impegna ad impedire il passo di Roncisvalle
all’esercito inglese. In cambio avrà Logroño. AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1367, cap. 1.
126 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 203.
127 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 204 e AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1367, cap. 1. Martin
Enriquez è chiamato Martin de la Kare da Froissart. Si veda anche quanto scrive Chandos Herald in
BARBER, Life and Campaign of the Black Prince, p. 110-111.
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che sono traditori del re di Castiglia, compresi Enrico, Tello e Sancio, le loro mogli ed i loro
figli spetteranno a El Cruel.128
Ora che si è ottenuto il passi, occorre munire l’esercito e Bordeaux diventa il luogo dove
si concentrano truppe ed ogni tipo di armamento. Il principe Nero invia una lettera a Hugh
Calveley, Bertrand du Guesclin e Enrico Trastámara chiedendo che le bande inglesi vengano
lasciate partire. Il gigantesco e leale Calveley non ha altra scelta che rispettare il giuramento
che lo obbliga verso Edoardo di Galles, si separa con amicizia dal re e da du Guesclin e
marcia verso il nord per riunirsi all’esercito d’Aquitania. Gli altri comandanti inglesi partono
alla spicciolata sempre con direzione Pirenei ed Aquitania.129 Le compagnie di ventura che
hanno accettato l'ingaggio del principe di Galles, si sono poste in marcia per raggiungerlo.
Alcune passano per il Foix e Berna, altre per la Catalogna, altre tra Aragona e Foix, col
consenso dei signori di Foix, Labreth e del conte d'Armagnac. In quest'ultimo paese circa
tremila mercenari sono in viaggio, a gruppi sparsi di qualche centinaio di uomini, male
armati, peggio montati, non ben ordinati; il loro percorso passa tra Tolosa e Montalban. Ma il
senescalco di Tolosa, messer Guy d'Azay, non ha intenzione di assistere inerte alla
concentrazione di truppe che si propongono di combattere contro i Francesi, si collega con il
conte di Narbonne e col siniscalco di Carcassonne ed a quello di Beaucaire per impedir loro il
passo. I collegati riescono a mettere insieme 500 lance e 4.000 fanti armati alla leggera130, e si
schierano a sette leghe da Tolosa.131 Montalban è presidiata dagli Inglesi, comandati da
messer Jean Trivet. Questi apprende dalla viva voce del conte di Narbonne la ragione dello
schieramento di forze e consiglia ai mercenari che sono arrivati in città di attendere gli
avvenimenti. Passano così cinque giorni, finché messer Perducas de Labreth giunge a
Montalban; apprese le novità e la cattiva disposizione dei Francesi, la sera si tiene consiglio e
si decide di non lasciarsi intimidire dall'avversario, malgrado che egli sia in vantaggio di tre
ad uno. Il mattino del 14 agosto, di primissimo mattino, gli assediati, ben armati e a cavallo
escono dalla città, dirigendosi verso il campo francese, decisi a forzarlo. Perducas è di fronte
alla colonna e con lui Robert Cheney, i Francesi si sono schierati a battaglia, e rispondono
attaccando alla richiesta di passo dell'avversario: «Avanti! Avanti! Contro questi
saccheggiatori che predano e rubano il mondo e vivono senza ragione!». I mercenari
scendono di cavallo, si allargano e si dispongono per la battaglia, pronti a ricevere l'attacco
dei Francesi che si stanno precipitando su loro con molto ardire. Si ingaggia il combattimento,
una battaglia che diventa sempre più dura, e ben combattuta, ma la sproporzione di forze in
campo in breve comincia a farsi sentire, i mercenari sono costretti a cedere terreno e rinculare,
ma Jean Trivet fa armare tutti gli uomini di Montalban e li esorta a combattere per gli uomini
del principe; anche le donne, dall'alto delle mura, gettano pietre sui Francesi, che, disorientati
rallentano l'attacco. Ma mentre il combattimento procede indeciso, arrivano 400 mercenari,
comandati da bourg de Breteuil e Naudon de Bagerent, che hanno cavalcato tutta la notte per
portare aiuto ai loro commilitoni, ed ora, senza riprender fiato, si scagliano contro i Francesi,
mettendoli in rotta. La battaglia è durata dalle nove del mattino alle tre del pomeriggio, più di
cento Francesi e Provenzali vengono fatti prigionieri, e tra questi i principali capitani: Guy
d'Azay, i siniscalchi di Carcassonne e Beaucaire, il conte d'Uzes, il sire di Montmorillon.132
Anche al sud fervono i preparativi e Bertrand si dimostra un abile organizzatore.
L’assedio di Lugo viene abbandonato con un accordo: se, per la Pasqua del ’67 re Pietro non
128 FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 194-196 per un esame completo del documento d’alleanza.
L’accordo viene completato da altri due documenti firmati il 27 settembre a Saint-Emilion. Si veda anche
VALDEÓN, Pedro el Cruel y Enrique de Trastámara, p. 164-165.
129 Il loro elenco è in MINOIS, Du Guesclin, p. 295.
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avrà riconquistato il suo regno, Lugo di arrenderà. Ora, quando i preparativi saranno
completati, la parola passerà alle armi.133
136 MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 738; RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 206-207.
139 MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 739-740; RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 207; la decapitazione dei sette
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pronto a rinunciare al dogato. Carlo IV in una lettera di risposta, datata 11 luglio 1366, «gli
dice che non bastava la rinunzia al titolo di doge fatta da lui; ma era necessario che tale
rinunzia gli fosse fatta anche dal comune pisano». A Giovanni pochi giorni dopo, il primo
agosto del ’66, arriva una lettera dal patriarca Marquardo, uomo di fiducia di Carlo e già
vicario imperiale di Pisa, sicuramente favorevole ai Raspanti, che gli raccomanda di far di
tutto per ottenere l’amicizia dell’imperatore. Oltre alla lettera, Marquardo ha raccomandato a
voce ad Anichino quali passi compiere.140
Montecassino,p. 60.
143 JANNUCCELLI, Subiaco, p. 199-200; DELL’OMO, Montecassino,p. 58-60.
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milizie locali, ma è con queste che, il 22 settembre 1366, impartisce una solenne sconfitta a
Giovanni Acuto, vividamente narrata da Francesco Montemarte che l'ha vissuta in prima
persona: «Et il conte Ugolino (Montemarte) con molti di Orvieto, et io con forse 400 e più
huomeni dè nostri a piede et da 40 cavalli, condotti da Guido di messer Ugolino del conte
Farolfo, et presi in mezzo da lui et da me, l'assalimmo di notte e furo tutti colti dentro che non
se n'accorseno e fu messo foco all'uscio che ne restaro morti arsi più di 80, et da 60 ne furo
menati prigioni, mal trattati dal foco, a Corbara. Fra questi ci fu il detto Ughino Extorn,
conestabile et altri caporali, et questo fu la notte di Sant'Orsola del 1366».144
Gomez Albornoz non ha preso parte alla vittoriosa azione, perché è intento a riportare
all'obbedienza Castel Durante che si è ribellata alla Chiesa, per incitamento dei figli di messer
Branca. Gomez si congratula per l'azione e si raccomanda di non rilasciare nessun
prigioniero, temendo che i combattenti si ripresentino contro di lui. Gli Inglesi rimarranno
detenuti per sei mesi, parte in Orvieto, e parte in Corbara. Riportata all'obbedienza Castel
Durante, Ugolino Extorn offre di riscattarsi per 4.000 fiorini, ma messer Gomez non accetta.145
I mercenari, comandati da Giovanni Acuto, stanno alcune settimane nella montagna
orvietana, a Casaglia, (Ceriaglia?).
Ripercorriamo brevemente le cause per le quali Castel Durante ed i Brancaleoni siano
ribelli alla Chiesa. Brancaleone Brancaleoni, in contesa con Gil Albornoz, nel 1363 ha ospitato
nel suo territorio le truppe viscontee, che avrebbero soccorso Francesco Ordelaffi, assediato
dall’esercito del legato. Non basta: il cardinale ha chiesto a Brancaleone di mandare suo figlio
a militare nel suo esercito con 100 balestrieri e, dieci giorni più tardi, il 16 aprile, ha chiesto al
comune di Castel Durante di mandare soldati per tre mesi. Né l’una né l’altra richiesta sono
state onorate. Il dissidio è diventato difficilmente sanabile, quando i Brancaleoni si sono
imparentati con matrimonio ai Montefeltro. Quando finalmente Brancaleone e suo figlio si
recano ad Ancona a colloquio con il legato per chiarire la loro posizione, Gil li accoglie bene,
ma li trattiene in ostaggio. In ostaggio li trattiene anche Anglico Grimoard quando questi
succede a Egidio. Branca, sdegnato per l’arresto del padre e del fratello, si ribella e il 6 ottobre
1366 le truppe del legato pongono l’assedio a Castel Durante e Sant’Angelo in Vado.146
144 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 232. Il 18 aprile Francesco da
Montemarte, il nostro cronista e combattente, fresco sposo, si è portato via da Matelica, alla sua casa di
Corbara la giovane moglie Imperiuccia.144
145 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 233.
146 ASCANI, Apecchio, p. 57-58, questo autore chiarisce che Brancaleone verrà rilasciato solo quando il
cardinale Pietro d’Estaing succederà ad Anglico e per motivi di salute. ASCANI, Due cronache
quattrocentesche, p. 59 riporta molte notizie in merito, i pontifici mettono l’assedio il 6 ottobre.
147 Chronicon Estense,² p. 487.
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150 PASCHINI, Friuli, I, p. 343-344 ; DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 236-237 e 238.
151 FILIPPINI, Albornoz, p. 388-389, il documento è riportato in CANESTRINI, Milizia italiana, p. 89-118. Alla
fine del preambolo, viene data la lista delle compagnie di ventura presenti in Italia: Societas Domini
Ambrosii, Soc. Domini Iohannis Acuti, Soc. Domini Anechini, Soc. Domini Comitis Iohannis, ovvero quella di
Ambrogio Visconti, di Giovanni Acuto, di Anichino di Baungarten e di Giovanni d’Asburgo.
152 FILIPPINI, Albornoz, p. 389. Il documento è integralmente in CANESTRINI, Milizia italiana, p. 89-118.
155 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 208; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 20; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p.
208. AMIANI, Fano, p. 290 ci informa che il legato ha ordinato al castellano di Fano, Assalonne da Ascoli,
di condurre ad Imola una compagnia di fanti, per suo presidio.
156 Chronicon Estense,² p. 487.
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che colui morisse di sua morte, imperocché fu quegli che guastò questa terra colle guerre,
colle ruberie, co’ dazi, con le prestanze, e col far morire uomini senza cagione. Finalmente non
si potrebbe scrivere tutto il male ch'è fece; sicché il Diavolo il porti, e non credo peccato il
dirlo» commenta livido il cronista bolognese.157 Ne porta il lutto la vedova, Antonia Benzoni.
Malgrado il cupo ricordo che ha lasciato a Bologna, Giovanni a Fermo ha governato con
moderazione, senza violenza o crudeltà, senza ricercare arricchimenti: liberatosi del pesante
fardello di Bologna, si è veramente dedicato a trascorrere in serenità i suoi ultimi anni.158
157 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 209-210 ; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 208-209; Rerum Bononiensis,
Cr. Vill., p. 210; GIULINI, Milano, lib. LXX, anno 1366 che specifica che Giovanni muore «dopo lunga
malattia».
158 FILIPPINI, Albornoz, p. 395. Per l’iscrizione del suo monumento sepolcrale nella cattedrale di Fermo, si
veda MORBIO, Novara, p. 134-135. Il defunto non ha cercato arricchimenti perché, quando si è qui
trasferito da Bologna, era arrivato «con grandissimo mobile di monete e di gioielli», DE MINICIS, Fermo,
p. 111 citando Matteo Villani. De Minicis pubblica anche il suo testamento alle p. 119-120.
159 Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 464. Pellini afferma che non trova
traccia del rivolgimento in Perugia nelle cronache che sono nelle sue mani, egli si dichiara convinto che
la notizia sia stata messa da Cipriano Manenti in questo anno per errore. Pellini motiva le azioni di
Egidio Albornoz non con il desiderio di rovesciare un governo ghibellino al potere, ma con la necessità
di riacquistare al controllo pontificio quante più terre possibili prima della venuta del papa. PELLINI,
Perugia, I, p. 1018. Che i Raspanti siano al governo a Perugia lo dice Ephemerides Urbevetanae, Estratto
dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 464; ma anche Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di
Montemarte, p. 233, redatta da diverso cronista; ciò significa, almeno, che ad Orvieto vi è la convinzione
che il governo di Perugia sia retto da forze di ispirazione ghibellina. Questo potrebbe anche esser frutto
di propaganda mirante a giustificare le azioni aggressive di Egidio Albornoz. Altrettanto forte è la
convinzione in Orvieto che Giovanni Acuto sia mosso dall'Albornoz. Certezza forse nata dalla rapidità
con la quale Egidio ha saputo approfittare della sconfitta perugina a Ponte San Giovanni, e dal fatto che
egli intercede presso Orvieto per la liberazione di Ugolino Extorn e degli altri Inglesi, come riportato da
Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 233.
160 MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 187-188.
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debbono averlo sortito, infatti Enrico Rosso torna all’obbedienza verso re Federico e fra due
anni otterrà il reintegro nella sua carica vitalizia di cancelliere.162
167 La procedura per ulteriore vaglio è in STEFANI, Cronache, rubrica 695 e in AMMIRATO, Storie fiorentine,
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Velluti e Pazzino degli Strozzi168 tentano di opporsi ad Uguccione, ma questi minaccia di far
prendere le armi al popolo. La deliberazione che viene approvata prevede che nessuno possa
essere ammonito senza la decisione dei Ventiquattro, inoltre all’ufficio del capitano vengono
aggiunti due artefici delle quattordici Arti minori, questi debbono essere presenti ad ogni
votazione congiuntamente a cinque popolari, non sostituibili. Accettata la deliberazione,
questa viene confermata dal consiglio del popolo. In luogo dei Sei capitani, ne vengono
nominati Nove, due Grandi, due “minuti”, e cinque altri. In questo modo «contentaronsi
ghibellini e non veri guelfi».169
168 Gli Strozzi, ricorda Donato Velluti, sono i principali sostenitori degli Albizi, nemici di Uguccione de’
Ricci.
169 VELLUTI, Cronica, p. 249-251; STEFANI, Cronache, rubrica 695. Stefani, alla rubrica 696, elenca gli
ammoniti di questo anno. Velluti alla p. 252 riporta gli ulteriori aggiustamenti alle decisioni. In
particolare che i Grandi debbono avere uno dei 4 maggiori uffici «di fuori», cioè vicario di Valdinievole,
podestà di Prato, di Colle e di San Gimignano. Anche AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1366, vol.
3°, p. 311-320 e nota di Amm. il Giovane a p. 320.
170 PASCHINI, Friuli, I, p. 346 ; DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 239.
172 Gli costa 90.000 fiorini al mese. G. MINOIS, Du Guesclin, Fayard, 1993, pag. 296-297.
175 Jean de Gand ha sposato nel 1359 Bianca, figlia del duca di Lancaster. Rimasto vedovo, ha impalmato
Costanza, figlia di re Pietro di Castiglia. Giovanni è lieto di unirsi a suo fratello Edoardo, che ama ed
ammira. MINOIS, Du Guesclin, p. 297.
176 Don Giacomo II, padre del marito di Giovanna di Napoli, è stato detronizzato il 29 marzo 1344 dal re
d'Aragona Pedro il Cerimonioso. Per cercare di riconquistare il suo trono, il 18 aprile del '49 ha venduto
Montpellier al re di Francia per 120,000 fiorini, finalmente ha trovato la morte in uno scontro con
l'avversario il 25 ottobre 1349. FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 211.
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guerra.177 Ogni giorno pervengono al principe lamentele della popolazione, che deve subire
la sgradita e violenta presenza dei mercenari, tutti lo sollecitano a partire prontamente per la
campagna di guerra, pur di levarsi di torno quella turba che non fa che compiere rapine e
violenze, ma la moglie di Edoardo è incinta, e la gravidanza è difficile e desidera il marito
vicino a sé, inoltre l'inverno è vicino e sconsiglia campagne militari, si decide pertanto di
rimandare la partenza al nuovo anno, continuando gli apprestamenti militari. Edoardo, il 7
dicembre, scrive al sire di Labreth chiedendogli le mille lance promesse. Il sire di Albret
risponde che ne ha appena congedate ottocento, non avendo notizie da Edoardo sulla data di
partenza, e molti di questi guerrieri non sono più assoldabili, perché partiti per la Prussia, o
Costantinopoli, o Gerusalemme. Ma ha il torto di dare alla sua lettera, dal contenuto sgradito,
una forma arrogante, mal accettabile da un signore orgoglioso come il Principe Nero. Questi,
quando riceve la risposta crolla la testa e, adirato, dice che Labreth (Albret)gli darà le mille
lance a tempo debito. Albret viene iscritto per 200 lance, ma ha perso l'amore del sovrano.178
177 Et lui faisoit le dit prince, pour honneur, la plus grand'partie de ses dèlivrances, pour tant que il ètoit lointain
et ètranger, et n'avoit mie (pas) ses finances a' son aise.
178 Et fut adonc le sire de Lambeth en grand pèril, car le prince etoit grand et haut de courage et cruel en son air, et
vouloit, fut à tort ou à droit, que tout seigneurs auxquels pouvoit commander tinssent de lui. FROISSART,
Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 211.
179 FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 201-202.
182 La data è in AMIANI, Fano, p. 290, che dice che il comune di Fano regala un “ricco gioiello” per la lieta
ricorrenza.
183 ZAMA, Malatesta, p. 71.
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La cronaca del Trecento italiano
184 CARRARA, Scaligeri, p. 204-207; ROSSINI, La signoria scaligera dopo Cangrande, p. 711-712; VERCI, Storia
della Marca Trevigiana, Lib. XV, p. 92 pone la costruzione della fontana al 1366.
185 Domus Carrarensis, cap. 271.
1366
683
Carlo Ciucciovino
gigantesche mani di Francescuolo. Poco dopo, a gennaio o a febbraio, nella famiglia nasce un
bimbo al quale, in onore del nonno, viene imposto il nome di Francesco.
Alla fine della primavera, il copista consegna al poeta la copia del De vita solitaria, che
vent’anni prima Petrarca ha dedicato a Philippe de Cabassoles e che ancora non gli ha
consegnato. Ora può rimediare e, per il tramite di Sagremor de Pommiers, glielo fa arrivare.
Francesco Petrarca compone una lunga ed articolata lettera per esortare Urbano V a
riportare a Roma la sede del papato.186 È una composizione laboriosa e, quando la completa,
Francesco vi pone la data: Venezia, 29 giugno 1366. Il poeta non osa inviarla direttamente al
pontefice, la fa recapitare a Francesco Bruni, pregandolo di leggerla e farla leggere a Agapito
Colonna e Philippe de Cabassoles, se tutti fossero concordi, allora farla pervenire nelle mani
del papa. Quando finalmente la lettera arriva ad Urbano, questi la riceve con grande
benignità e con grande interesse. In luglio, il Petrarca torna a Pavia, dove entra in contatto con
Pandolfo Malatesta, che rappacificatosi coi Visconti, milita per loro. Qui il poeta compone De
remediis utriusque fortune, che completa il 4 ottobre. A fine ottobre, un giovanotto che da due
anni è con Petrarca, Giovanni Malpaghini, completa la stesura delle Familiari, mettendo in
bella copia le minute di Francesco; sono 24 libri per complessive 350 lettere. Il Petrarca stima
moltissimo il giovane, per la sua cultura e modestia, e lo ama come un figlio. Ora lo incarica
della trascrizione del Canzoniere. Verso la fine dell’anno, Francesco ritorna a Venezia.187
Nel frattempo, Giovanni Boccaccio trascorre il suo tempo dedicandosi agli amati studi a
Certaldo, sempre con la nostalgia nel cuore per Napoli e la perduta giovinezza.
Saltuariamente, fa puntate a Firenze, dove intrattiene amicizie e relazioni.188
§ 60. Le Arti
Nel 1356, Luca di Tommè è iscritto nel ruolo dei pittori senesi e questa è la prima volta
che abbiamo notizia di lui.189 Luca, rispettivamente negli anni 1366, 1367 e 1370, firma e data
una Crocifissione, un polittico con S. Anna Metterza per la chiesa dei Cappuccini fuori dal
castello di San Quirico d'Orcia e la pala, Madonna col Bambino e santi, per l'altare maggiore
della chiesa di S. Domenico di Rieti. Recano inoltre la sua firma un dipinto raffigurante la
Madonna col Bambino e S. Antonio in S. Francesco a Mercatello sul Metauro (Pesaro) e un
pentittico, Madonna col Bambino e santi, destinato alla chiesa parrocchiale di Forsivo presso
Norcia. Si tratta delle ultime opere note di Luca, che mostra nel polittico di Rieti un
sostanziale avvicinamento all'arte dei Memmi. La sua collaborazione con Niccolò di Ser Sozzo
«è evidente anche in altri casi. Il rapporto tra i due artisti comunque non è stato ancora del
tutto chiarito: alcuni critici ritengono Niccolò l’ideatore delle opere e Luca l’abile esecutore,
altri invece vedono Niccolò fortemente influenzato dal pittore più giovane». A luglio-agosto
del 1373 Luca è membro del Consiglio maggiore della Repubblica senese, carica che ricoprirà
ancora nel 1379. Nello «stesso anno e nel mese di febbraio 1380 il suo nome compare in due
note di pagamento, la seconda dell'ammontare di 105 fiorini, pertinenti l'esecuzione della pala
d'altare della cappella di S. Paolo nella cattedrale di Siena, la cui realizzazione era stata già
deliberata nel 1363 in seguito alla vittoria del Comune sulla Compagnia mercenaria del
Cappelletto». Luca nel ’74 lavora nel duomo di Orvieto, ma l’anno seguente è nuovamente
nella sua Siena e qui sposa madonna Miglia (Emilia) del fu Giacomino. Di lui non abbiamo
altre notizie negli anni dal ’75 all’88. Luca viene citato in alcuni documenti nel 1389, tra cui il
Breve dell'arte de' pittori senesi. Non sappiamo né dove né quando sia morto.190
190 Monica LEONCINI, Luca di Tommé, in La Pittura in Italia, il Duecento e il Trecento, schede biografiche e
CRISTINA RANUCCI, Luca di Tommè, in DBI, Vol. 66. Anche GIULIETTA CHELAZZI DINI, in Il gotico a Siena, p.
276.
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La cronaca del Trecento italiano
194 TOESCA, Pittura e miniatura in Lombardia, p. 114-116 ha una completa descrizione degli affreschi che
decorano la chiesa.
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CRONACA DELL’ANNO 1367
Die sabbati XVI mensis Octobris, Sanctissimus Pater Dominus Papa intravit
in civitatem Romae.2
§ 1. Francesco da Carrara
Il 10 gennaio di questo anno, Francesco da Carrara rimborsa la terza rata, pari a 5.000
ducati, di un prestito di 27.000 ducati ottenuto da Firenze nel giugno del ’64. Le altre rate
sono state rimborsate, 3.400 ducati il 25 ottobre 1365, 8.000 il 15 agosto del ’66. Benjamin Kohl
sottolinea come gli interessi della Signoria e del Carrara siano convergenti: entrambi contrari
alla volontà espansionistica dei Visconti oltre gli Appennini, entrambi convinti che il
Patriarcato di Aquileia debba essere garantito nella sua integrità per dominare il Friuli e così
contrastare le mire espansionistiche degli Asburgo, entrambi contrari ad una maggiore
influenza dell’imperatore nelle cose d’Italia. Firenze compenserà Francesco il Vecchio e sua
moglie Fina con la concessione della cittadinanza fiorentina nel 1370. Amico ed alleato del
potente re d’Ungheria, Francesco da Carrara mantiene buone relazioni con Carlo IV e con la
sospettosa Venezia. Il primo gennaio 1366, l’imperatore lo ha nominato conte palatino,
conferendogli il potere di creare notai e legittimare bastardi a Padova.4
5 Chronicon Estense,² p. 488. Niccolò ed Ugo d’Este sono andati a Padova il 26 gennaio, VERCI , Storia della
§ 3. Eclissi di Luna
Il 15 gennaio, a le tre ore di notte la luna scurò, cioè subisce un'eclisse. Il fenomeno dura
per quattro ore, producendo viva emozione: «e la più nuova e scura cosa che fussoe veduto»
per chi viveva.6
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La cronaca del Trecento italiano
Anche le cronache senesi ci riferiscono di questa epidemia: «In questo tempo del mese di
febbraio furo(no) certi venti sottili, per la qual cosa infermò molta gente di feb(b)re, in modo
che molti ne moriva e massime de’ vecchi, e chi campava non potea guarire, e questo fu quasi
per tutto e grande verno e grandissimi fred(d)i».10
Antonio di Buccio registra «la mortalità del catarro» in Abruzzo, scrivendo che non
muoiono solo i denutriti, ma anche i “carnuti e grassi”. Nessun rimedio dei cerusici il «duro
catarro ammollare non potìa».11
§ 6. Genova e Visconti
La pace in Genova è momentanea, infatti, in gennaio, i Fieschi attaccano e danno alle
fiamme la chiesa di Sant’Olceste a Polcevera; gli armati di Genova ribattono assalendo
Savignone.12 Solo la pace con i Visconti concluderà il periodo di turbolenza.
In febbraio, Galeazzo Visconti dà inizio alla cittadella di Strada Levata a Piacenza, da
destinare a residenza della guarnigione viscontea. L’edificazione richiede cinque anni e molto
denaro.13
§ 7. La crociata di Cipro
A febbraio gli ambasciatori Mamelucchi arrivano a Cipro per discutere un trattato di
pace, questa volta Pietro Lusignano è disponibile ad affrontare seriamente la trattativa e a
marzo viene concordata una bozza di trattato. L’ambasciatore di Cipro si reca in Egitto ad
illustrarla al sultano, il quale nega la sua approvazione. Nel frattempo, la situazione si è
evoluta negativamente per Cipro: i Turchi hanno attaccato Gorhigos e la guarnigione cipriota
di Satalia si è ammutinata. In giugno, torna l’ambasciatore cipriota con i legati del sultano che
presentano un trattato meno favorevole a Cipro. Pietro, appena tornato dall’aver sedato la
ribellione di Satalia, non vuole neanche discuterla e imprigiona i Mamelucchi che l’hanno
portata. L’uomo forte d’Egitto, Yabulga viene assassinato ed il giovane sultano Shaban è
troppo verde per manifestare ciò che vuole. A fine settembre una nuova flotta cipriota salpa
da Limessol ed attacca Tripoli in Siria. Devasta altri porti, ma, incontrando una forte
resistenza, è costretta a ripiegare. All’inizio di ottobre il raid è concluso. Un altro sostanziale
fiasco che ha alienato a Cipro le simpatie delle repubbliche marinare e di tanti occidentali.14
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689
Carlo Ciucciovino
del suo lignaggio, ha ricevuto. Egli combatte per i Tarlati e per i Malatesta e, nel 1347,
Galeotto Malatesta lo invia come suo rappresentante ad Osimo a concertare le azioni militari
contro Nolfo di Montefeltro e i suoi fratelli. Probabilmente è al seguito di re Ludovico
d’Ungheria, quando questi porta il suo esercito contro la regina Giovanna. Nel 1351 è
nell’esercito pontificio e milita nel Patrimonio contro i Viscontei.
Sin dal 1351 lo troviamo impiegato come conestabile di cavalleria al servizio di Firenze;
poi serve Galeotto Malatesta e poco dopo, nel ’54, milita per l’Albornoz nella campagna
contro il prefetto di Vico. Poi, sotto le insegne dell’Albornoz, combatte contro il prefetto di
Vico ed è alla presa di Viterbo del 24 luglio 1354. L’anno seguente si distingue nella presa di
Fermo. Quando, il 26 luglio 1355, Albornoz firma la pace con i Montefeltro, il legato deve
accettare che gli esuli rimangano tali: Nicolò, insieme a suo zio Angelo ed a suo fratello
Galeotto, rimane tra gli esiliati. Deluso, si arruola nella compagnia del conte Lando e, con lui,
si reca nel Napoletano, al servizio di Luigi di Taranto e della regina Giovanna. Nel 1362 è con
il conte Orsini a combattere per Firenze. Il 30 agosto 1362 è tra i comandanti16 che, in dissidio
con Firenze, fondano la compagnia del Cappelletto o Societas Italicorum.17 Migrata nel
Patrimonio, nel 1363 la Societas torna al servizio di Firenze e viene impiegata contro Siena. Il 6
ottobre, nella battaglia della Val di Chiana, Nicolò viene battuto e catturato. Una volta
liberato, Nicolò continua la sua vita di guerra e rapina, finché la compagnia del Cappelletto,
nel 1365 si scioglie. Nicolò ed i suoi militi si uniscono a Giovanni Acuto e confluiscono nella
compagnia di Ambrogio Visconti. Egli tratta per la liberazione dei soldati catturati
dal’’esercito pontificio. Grazie alla sua grande fama, Nicolò, nel febbraio 1367, viene
nuovamente impiegato nell’esercito dell’Albornoz con il prestigioso titolo di capitano
generale. Grazie a tale titolo, ora Nicolò può finalmente rientrare ad Urbino ed il matrimonio
con Agnese sancisce la pace fatta tra i diversi rami della famiglia.18 Nelle cronache di Fano e
Fossombrone19 abbiamo notizia della presenza di Giovanni Acuto e Ambrogio Visconti nel
territorio tra Urbino e Fossombrone nel mese di giugno. Contro di loro Egidio Albornoz
manda suo nipote il conte Gomez che, rinforzato dalle milizie di Rimini, Pesaro, Fano e
Fossombrone, condotte dal «valoroso» Malatesta Ungaro, fanno sloggiare e tallonano i
mercenari fino al confine con il regno di Napoli.
16 Gli altri sono Ugolino de’ Sabatini di Bologna e a Marcolfo de’ Rossi di Rimini,
17 Tra i soldati che si allegano a questa compagnia, vi sono uomini delle Marche, dell’Umbria e della
Toscana.
18 FRANCESCHINI, Montefeltro, p. 275-286; T. DI CARPEGNA FALCONIERI; Montefeltro Nicolò di, in DBI, vol.
76°.
19 AMIANI, Fano, p. 291; VERNARECCI, Fossombrone, p. 333.
20 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1367, vol. 4°, p. 318, nota.
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La cronaca del Trecento italiano
hanno anche l'incarico di comprendere quale che sia l'accordo tra Urbano V e Carlo IV,
imperatore. Dissuaderlo «con gli antichi e con i moderni esempi di quanti scandali e rovine
fossero state e fossero per essere le venute degli imperatori in Italia, essendo d'ordinario il
refugio di tutti quelli che desideravano novità». Gran paura regna in Firenze per questa
temuta discesa imperiale. A poco valgono le rassicurazioni del papa, troppo vivo è il ricordo
delle venute di Arrigo VII e del Bavaro, sempre state occasioni di pericolo, guerre, e grandi
spese.21 Firenze intercede presso Egidio Albornoz in favore di Perugia e di Brancaleone da
Casteldurante, che «essendo buon guelfo non pareva che tornasse conto di lasciarlo rovinare,
anche per non far ridere i ghibellini e rivoltare Massa Trabaria».22
I marchesi d’Este, che si sono recati in pellegrinaggio a Prato, dove viene custodita la
reliquia della cintola della Madonna, arrivano a Firenze, dove vengono accolti con
magnificenza. La Signoria spende 2.500 fiorini per la loro accoglienza e i festeggiamenti.23
21 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1366, vol. 3°, p. 319, nota.
22 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1366, vol. 3°, p. 320, nota; VELLUTI, Cronica, p. 252-253.
23 VELLUTI, Cronica, p. 254-255.
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Carlo Ciucciovino
Genova per procurarsi le navi. Invia comunque lettere a Amerigo Cavalcanti e Bartolo
Bonciani, a Napoli, perché ne conducano due o tre, armate di tutto punto, al soldo del
comune di Firenze.25 Tutti i cronisti fiorentini che narrano delle trattative tra il pontefice e la
Signoria per la discesa del papa in Italia e della lega contro le compagnie di ventura, si
diffondono in particolari e discussioni riguardo agli argomenti in oggetto. Risulta che
ambascerie si susseguono ad ambascerie, alcune in contrasto con quanto annunciato poco
prima. Il papa non può che essere disturbato da tante parole e poca sostanza.26 Papa Urbano
ha fondati motivi di disgusto nei confronti di Bernabò Visconti, egli infatti, quando ancora era
Guglielmo Grimoard, era uno dei nunzi pontifici ai quali il sanguigno signore visconteo, sul
ponte sul Lambro, aveva chiesto se preferisse bere o mangiare.27
§ 12. Vittorie della Compagnia di Giovanni Acuto contro Orvieto, Siena e Perugia
All'entrata di marzo, la Compagnia, dura e aggressiva, torna nel contado di Siena, verso
Ilci. Le truppe orvietane, comandate dal conte Ugolino da Montemarte, nel cui esercito
militano molti Ungari, ha tallonato la compagnia inglese a Casole, Radicondoli e Belforte,
dove, ordinate le schiere, procede decisamente ad affrontare gli Inglesi che sono a
Montancinello. Il 6 marzo ha luogo una battaglia, nella quale i Senesi hanno la peggio, il conte
Ugolino viene catturato, e gli viene posto un riscatto di 10.000 fiorini d'oro. Ranieri del Bussa
da Vitozzo assume il comando dello sconfitto esercito, mentre la carica di Conservatore viene
assegnata al figlio di Ugolino, messer Cinello, in città da pochi giorni, in visita al padre.28 La
Compagnia di San Giorgio, intanto, cavalca per il Vescovado e a Buonconvento, rubando,
bruciando e distruggendo. La compagnia penetra nel Perugino da Sud-Ovest, marcia su
Piegaro, poco ad Est di Città della Pieve, poi su Bagnaia,29 San Mariano, San Biagio della
Valle, San Soste, sempre più vicino a Perugia, e, con le parole del Pellini: «Sempre
abbruciando case e palazzi e uccidendo quante persone incontravano, e per lo spatio di
quindici giorni, perché non s’uscì mai dalla città (Perugia), circondarono gran parte del nostro
contado, e vennero per infino a San Costanzo, e avanti agli occhi de’ cittadini abbruciarono la
casa di Paternostro e di Bernarbuccio e tutte le case del Trebbio di Lisciano, ch’erano poco
lungi dalle porte, e indi, passato il Tevere sotto Torsciano, se n’andarono verso il territorio
d’Ascesi, e fecero gli alloggiamenti sotto Bastia, allora chiamata l’Isola Romanesca».30 I
Perugini mettono in campo quanto più armati possono, e li pongono agli ordini di Enrico
Paier, un fidatissimo Tedesco, capitano della guardia ordinaria della città, ad Enrico vengono
dati per consiglieri militari Nicolò Buscareto signore di Hiegi, da poco fermatosi in Perugia,
cui ha offerto i suoi servizi, e Bolgaro da Marsciano. Il 29 marzo messer Paier ha il permesso
di lasciare Perugia con tutta l’armata, si unisce alle truppe senesi e si reca a Ponte San
Giovanni, il ponte sul Tevere immediatamente a Sud-Est della città. Il 31 marzo, gli
esploratori informano che il nemico è nel piano sotto il castello di Brufa, ed Enrico Paier
sposta l’esercito verso Collestrada, prendendo senza contrasto uno dei due monticelli tra
Colle e Brufa. Il comandante tedesco decide di combattere gli Inglesi secondo il loro stile, fa
smontare i cavalieri e li ordina in tre schiere, una la pone agli ordini di Frezza degli Scacchi,
mastro di campo, detto il Marescalco, poi muove le tre colonne ad occupare il secondo
monticello. Ma questa volta gli Inglesi non assistono passivamente, anzi attaccano; solo la
schiera di Enrico Paier e di Nicolò Buscareto resiste, quelle di Frezza degli Scacchi e dei Senesi
si danno alla fuga, senza neanche abbozzare un tentativo di combattimento. I Perugini di
Enrico ripiegano lentamente sotto la pressione inglese e si ritirano sotto le mura del castello di
25 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1367, vol. 4°, p. 6, nota di Amm. il Giovane..
26 Si veda ad esempio quanto narrato da VELLUTI, Cronica, p. 257-259.
27 Nel senso di mangiare la pergamena o saltare nel fosso. COGNASSO, Visconti, p. 244.
29 Percorrendo la strada che oggi è la N° 220. Si veda anche ASCANI, Due cronache quattrocentesche, p. 60.
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La cronaca del Trecento italiano
§ 13. Firenze continua a negare la propria adesione alla lotta contro i mercenari
La Compagnia di San Giorgio è stata disfatta dall'esercito napoletano, Ambrogiolo
Visconti è prigioniero e il comando dei mercenari è stato assunto da Giovanni Acuto, che ora
sta terrorizzando Perugia. A questi i Priori di Firenze inviano ambasciatori (Doffo dei Bardi e
Bono Strada) per ricordargli l'impegno di non offendere la repubblica. A Firenze, davanti al
podestà bresciano, messer Baruffaldo de’ Grifi, e al Gonfaloniere di giustizia Sandro di
Simone da Quarata,33 si presenta l'abilissimo Niccolò Spinelli, nuovo cancelliere del Regno di
Napoli, che porge lettere papali, che danno conto dell'intenzione di Urbano di venire in Italia,
e che richiedono ai Fiorentini di aderire ad una lega «a difesa comune, e a distruzione de’
nimici di Santa Chiesa e di parte guelfa». I governanti di Firenze fa buon viso al bravo
Spinelli, ma, non fidandosi completamente delle sue parole riguardo la venuta
dell'imperatore, inviano il notaio ser Brunellesco (il padre del grande architetto) alla ricerca di
notizie certe sull'argomento. Ser Brunellesco ha l’incarico di andare a Padova e Ferrara ad
ottenere le notizie che risultano al Carrara e all'Este; da Padova e Ferrara ne manderanno
lettere in proposito rispettivamente Manno Donati e Riccardo Cancellieri, mentre Brunellesco
deve passare a Vienna, o dovunque fosse Carlo IV, e, apprese notizie di prima mano, se
trovasse che Carlo non sarebbe venuto in Italia, tornare immediatamente, altrimenti rimanere
con lui, scortarlo in Friuli o Lombardia e, ottenute informazioni definitive sulle finalità della
discesa, rientrare a Firenze.34
Firenze intanto, per dimostrare quanto sia intenzionata a combattere la mala pianta dei
venturieri, ha dato la cittadinanza, senza poter ricoprire uffici, ad Hanneken von Baumgarten,
che prende il nome di Anichino Riccardi, dal nome del sarto di Colonia, padre del
condottiere.35
31 Cronache senesi, p. 613; PELLINI , Perugia, I, p. 1021-1022. Tra i cittadini catturati vi sono Berarduccio di
Andrea di Berardello, riscattatosi per 2.600 fiorini, Petrosello e Mostaccio. I cittadini catturati sono
riscattati a spese del comune.
32 PELLINI, Perugia, I, p. 1023; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 211-212..
34 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1367, vol. 4°, p. 6, nota 1.
35 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1367, vol. 4°, p. 6, nota 1.
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Carlo Ciucciovino
questo argomento, al signore di Padova sono giunti ambasciatori anche da parte del re
ungherese e Giovanni da Siena, messo di Egidio Albornoz.36
Graziani, p. 203.
40 FILIPPINI, Albornoz, p. 405.
42 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1367, vol. 4°, p. 6, nota 1. Per la città di Perugia gli accordi di
pace sono stati negoziati da messer Baldo degli Ubaldi, dottore famosissimo, e da ser Ugolino di Pellolo.
PELLINI; Perugia; I; p. 1024
43 PELLINI; Perugia; I; p. 1024; ASCANI, Due cronache quattrocentesche, p. 60.
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pontefice pretende che esistano atti che testimoniano la dedizione di Todi alla Chiesa, se si
troveranno, gli abitanti saranno ben lieti di dirsi sottomessi al pontefice, altrimenti si affidi il
governo perpetuo della città al cardinale fratello di Urbano, che vi porrà podestà a sua scelta.
Il fratello del papa, il cardinale Anglico Grimoard, cui è affidato l’arbitrato, dovrà sentenziare
entro il prossimo novembre. I fuorusciti Datteri (Degli Atti), cacciati lo scorso anno, sono
riammessi in città, in opposizione ai Chiaravallesi.44
44 PELLINI; Perugia; I; p. 1028-1029, Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p.
464; Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 90; Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte
Francesco di Montemarte, p. 233.
45 Su questo argomento si veda FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 197-198. Le cifre citate sotto sono
desunte dai cronisti, sono quindi esagerate. BARBER, Life and Campaign of the Black Prince, p. 111-113,
riportando quanto ne scrive Chandos Herald.
46 FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 203.
47 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 212-213. Re Pedro IV d’Aragona ha proposto a du Guesclin
di venire a servirlo per sedare la rivolta del giudice d’Arborea in Sardegna, si veda l’informatissimo
FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 203-204.
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Carlo Ciucciovino
L’esercito del Principe Nero si muove. L'esercito di Edoardo e don Pietro, ottenuto il
permesso di passare, si trova dinanzi un cammino molto difficile: vi sono nelle montagne
della Navarra che debbono varcare, precipizi e torrenti, passi difficilissimi, tali che trenta
uomini sono in grado di fermare qualsiasi armata. Inoltre, l'inclemente tempo di febbraio non
aiuta il transito.48 L'esercito non può ovviamente passare tutto insieme: vengono formate tre
colonne, ognuna delle quali passerà in una giornata, la prima il lunedì, le altre seguiranno, se
tutto va bene, ad un giorno di distanza ognuna. L'avanguardia è capitanata dal duca di
Lancaster, e con lui cavalca il conestabile d'Aquitania John Chandos, con 1.200 bandiere
(30.000 cavalieri), composte di gente molto ben armata e cavalcata.49 Tra coloro che formano
l'avanguardia vi sono Robert Cheney, Guillaume de Beauchamps, il figlio del conte di
Warwick,50 in tutto 10.000 cavalli, e passano il lunedì, senza inconvenienti.51 Il martedì tocca al
principe di Galles, a re Pietro ed al re di Navarra, che è rimasto con loro in garanzia del
pacifico transito. Sono con loro Louis de Harecourt, visconte di Chasteaulerault, e il visconte
di Rochehouart, il siniscalco d'Aquitania, messer Thomas Felton e suo fratello Guillaume,
siniscalco del Poitou, messer Neel Lornich,52 in tutto circa 7.000 cavalli. La giornata è brutta, fa
molto freddo e il vento non dà tregua, l'esercito è tormentato anche dalla neve, ma il passo
avviene senza problemi particolari. Tutti gli armati trovano alloggio sulla collina di
Pamplona, Carlo di Navarra accoglie il principe Edoardo e don Pietro nella città di Pamplona,
a cena.53 La retroguardia passa il mercoledì. La comanda Giacomo di Maiorca, e ne fanno
parte il conte d'Armagnac, il sire Perducas di Lambreth, con le sue 200 lance, il captal de
Buch, il bourcq de Breteuil, il bourcq Camus, Bernard de la Salle,54 ben 10.000 cavalli. Il tempo
è migliorato ed il passaggio è più facile di quello toccato ad Edoardo il giorno precedente. Gli
armati si concentrano intorno a Pamplona, terra ricca e grassa; ma i venturieri continuano a
compiere ruberie e violenze, provocando lo sdegno di Carlo di Navarra, che comincia a
pentirsi di aver voltato gabbana.55 Il carriaggio con i rifornimenti segue una via meno
impervia, passando per Bayonne e San Sebastian, riunendosi poi al grosso delle truppe ad est
di Salvatierra. Il 7 marzo arriva la notizia che Olivier de Mouny, al quale Trastámara ha
affidato Borja, ha catturato Carlo di Navarra mentre questi se ne andava tranquillamente a
48 Se sembra strano che il difficile passaggio dei Pirenei avvenga in pieno inverno, ciò è dovuto
all’elevato costo dell’esercito inglese, che non può attendere con le armi al piede, si veda VALDEÓN, Pedro
el Cruel y Enrique de Trastámara, p. 166.
49 Tous pare de ses armes d'argent a sept pels aiguises de gueles. Sull’avanguardia, BARBER, Life and Campaign
Etienne de Cousentonne, che issano il pennone di San Giorgio, messer Hugues Hastings de Gresinghall,
il sire di Neufville e quello di Rais, Bretone, che porta 30 lance a sue spese, il sire d'Aubeterrre, messer
Garsins du Chatel, messer Richard Canton, messer Robert Briquet, Jean Cresuelle, Aymery de
Rochechouart, Galliard de la Motte, Guillaume de Clayton, Willebolz le Boutellie e Pennerel.
51 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 214.
52 Gli altri principali comandanti sono: il sire di Pons e quelli di Partenay, Poyane, Tonnay-Bouton,
il visconte di Carmaing, il conte di Comminges, i 3 fratelli di Pommiers: Jean, Heyle e Aymemon, i sire
di Chaumont, Mucident, Clisson, Eparre, Rosem, Condom, Estrade, Labarde, Picornet, messer Robert
Canolle, messer Petiton de Courton, messer Aymery de Tarse, messer Bertrandd de la Tande, messer
Thomas de Wettefale, Naudon de Bagerant, Hortingo, Lamit e tutti i rimanenti conestabili dei
mercenari.
55 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 216; BARBER, Life and Campaign of the Black Prince, p. 115,
1367
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La cronaca del Trecento italiano
caccia. A tutti pare evidente che questa è solo un’azione organizzata dallo stesso Carlo per
evitare di partecipare direttamente alla guerra di Castiglia.
Mentre re Enrico Trastámara attende l'arrivo di du Guesclin, ordina la mobilitazione di
ogni uomo valido a portar le armi, minaccia la pena della decapitazione a chi non obbedisca,
ma non ha bisogno di far molta pressione, troppo vivo è il ricordo delle ingiustizie e violenze
perpetrate da don Pietro, per non spingere tutti a prendere volentieri le armi, per difendere la
Castiglia da quel mostro scomunicato, e dal suo alleato inglese. Enrico si attesta a Santo
Domingo de la Cazalda, una città che controlla l’accesso a Burgos, dalla Navarra. Qui
concentra 60.000 uomini, sia a piedi che a cavallo.56 Poi invia un messaggero al principe di
Galles, con una lettera dove esprime la propria meraviglia per essere aggredito nel suo regno
da un sovrano cui nulla di male ha fatto, e che si è alleato con i suoi nemici per «toglierci una
tal piccola eredità che Dio ci ha donato (pour nous tollir tant petit héritage que Dieu nous a
donnè)». Enrico aggiunge di sperare che Edoardo voglia esser pari alla sua «grazia e fortuna
d'armi, superiore a quella di qualsiasi altro», perché Enrico gli si parerà di fronte a
contrastargli il suo paese. Il principe di Galles, quando riceve la lettera convoca il suo
consiglio, ma non desidera dare risposta scritta e prega l'araldo di trattenersi presso di lui fino
a quando sarà pronto a mandare una lettera a re Enrico. L’attesa dell’araldo sarà molto
lunga.57 La sera stessa, il principe Edoardo invia messer Thomas Felton ad esplorare il paese e
trarre informazioni sulla disposizione dell'esercito castigliano. Non è un piccolo contingente
di esploratori, ma un vero esercito con molti cavalieri e ben 8.300 arcieri, ben montati. Grazie
a guide esperte del luogo, passano l'Ebro a Logroño58 e si installano in un villaggio, chiamato
Navarrete, fortificandolo. Finalmente, anche il resto dell'armata, col Principe Nero si decide a
muoversi e penetra in Castiglia, sotto l'esperta guida di messer Martin de la Kare o Martin
Enriquez, che riesce abilmente a condurre l'esercito attraverso tutti i malagevoli passi, fino
alla città di Salvatierra, in Biscaglia.59 Questa città, dall’altra parte della montagna rispetto a
Lognoño, è provvista di ogni ben di Dio, ma è nelle mani di re Enrico Trastámara. L'armata
inglese avanza, decisa a prenderla d'assalto: i maggiorenti della città, sbigottiti alla vista delle
truppe sterminate che si stanno per scagliare contro le loro deboli difese, decidono di trattare
la capitolazione. La dissennata crudeltà di don Pietro di Castiglia vorrebbe radere al suolo la
città, ma, fortunatamente, il principe Edoardo si oppone e città e cittadini sono salvi. Entrano
in Salvatierra Giacomo di Maiorca, ed il duca di Lancaster, oltre che Edoardo e Pietro. Il resto
dell'esercito, agli ordini del conte d'Armagnac si accomoda nei villaggi vicini. Nel frattempo,
Felton, da Navarrete, compie quotidiane ricognizioni, cercando di intercettare i Castigliani.
Analogamente fa don Tello, fratello d'Enrico, che si propone di attaccare almeno qualche
frazione dell'esercito inglese. Mentre i due avversari si cercano, una sera gli Inglesi trovano
un distaccamento spagnolo, ingaggiano una scaramuccia, uscendone vincitori e portando con
sé molti prigionieri, merce preziosa, in grado di fornire informazioni sull'esercito castigliano.
Re Enrico rompe gli indugi e porta il suo esercito decisamente contro gli Inglesi, passa un
ruscello, detto Najarilla e pone gli accampamenti a Vittoria, di fronte a Najara.60 Quando la
notizia dello schieramento dell'esercito castigliano arriva ad Edoardo, questi pronunzia
parole di ammirazione per l'ardire di Enrico Trastámara, che, invece di attendere il nemico,
56 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 217. La cifra è sicuramente esagerata; comunque i Franco-
Castigliani sono più numerosi degli Inglesi e Spagnoli, nel rapporto 2:1.
57 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 218; Chandos Herald in BARBER, Life and Campaign of the
60 Molto discussa è la decisione di traversare il Najarilla, un torrente gonfiato dalle piogge, che offrirebbe
una valida barriera alle truppe anglo-castigliane, ma Enrico, obbedendo al proprio carattere aggressivo,
vuole evitare che il Principe Nero si sfili e rifiuti la battaglia, prolungando la guerra. La decisione di
Enrico costerà la vita a molti dei suoi, catturati o annegati nel torrente.
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Carlo Ciucciovino
sfibrandolo con la resistenza e gli assedi, decide di giocare il tutto per tutto in uno scontro in
campo aperto. Edoardo dà l'ordine di partenza, e si riunisce con Felton davanti a Vittoria.61
Gli esploratori inglesi hanno scorto cavalieri castigliani, esploratori o avanguardia?
Comunque, il nemico è evidentemente molto vicino, ed Edoardo fa suonare le trombe ed
organizza l'esercito in colonne. Preferirebbe ancora non dover affrontare la battaglia, perché
sta attendendo la sua retroguardia, seimila combattenti, che dista ancora sette leghe da
Salvatierra, ma se il nemico attaccherà egli dovrà esser pronto a battersi. Ciò che il principe di
Galles non sa è che anche Enrico attende di congiungersi con Bertrand du Guesclin che gli sta
portando quattromila tra Francesi ed Aragonesi. L'avanguardia inglese è comandata dal duca
di Lancaster e dall'esperto John Chandos. Mentre si attende, ben ordinati, l'attacco dei
Castigliani, diversi combattenti, più di trecento!, vengono cinti del cingolo di cavaliere. Nella
colonna d'avanguardia tra i nuovi insigniti dell’onore, per mano di Edoardo, principe di
Galles ed Aquitania, sono lo stesso re Pietro, Tommaso d'Olanda (figlio della principessa sua
consorte), Hue, Philippe e Pierre de Courtenay, Jean Trivet e Nicolas Bond.62
Il successo di don Tello ad Ariñez. Finalmente, la sera cala e le sue ombre inducono i
due marescialli, messer Guischard d'Angle e messer Etienne de Cousenton, ad ordinare il
ritorno agli accampamenti, ciascuno si ritira, pronto a riprendere la stessa posizione
l'indomani, al suono della tromba. Solo quel fegataccio di Thomas Felton cavalca con i suoi
verso i Castigliani, per essere i grado di spiarne le intenzioni e poter allertare in tempo il
proprio esercito. Egli pone il suo accampamento a ben due leghe da Edoardo e i suoi. Ma
anche nel campo di Enrico vi sono novità: è infatti arrivato Bertrand du Guesclin con le
truppe, e don Tello domanda l'onore di andare a scovare il nemico, e portare informazioni.
All'aurora, Tello monta a cavallo e guida seimila cavalieri verso il nemico. Sono ginetti,
cavalieri armati alla leggera, capaci di grande mobilità e di sganciarsi rapidamente in caso di
inseguimento.63 Mentre il sole si leva, i Castigliani sorprendono in una valle una parte della
gente di Hugh Calveley, con i carriaggi. Immediatamente, gli Spagnoli attaccano,
sgominando in un batter d'occhio le truppe impreparate e, forse, inesperte. Messer Hugh, che
è già in cammino, viene informato e torna precipitosamente sui suoi passi per soccorrere i
suoi, ma viene caricato e rotto, e costretto a fuggire presso il duca di Lancaster. Gli Spagnoli
inseguono i fuggitivi che stolidamente li conducono direttamente dove è il duca. Quando
l'esercito avversario è in vista, senza esitazione, gli Spagnoli attaccano, al grido: «Castiglia!»
provocando lo scompiglio generale e mettendo in fuga gran parte degli Inglesi.
Fortunatamente per costoro, il duca di Lancaster è già armato e pronto: egli prende il proprio
stendardo e conduce i suoi su un'altura nelle vicinanze, per attestarsi e richiamare a sé gli
altri. Infatti lo seguono, uno per uno, i conestabili con i militi che riescono ad armarsi. Arriva
John Chandos, i due Marescialli, e molti altri cavalieri. Il contingente si ingrossa e si può
ordinare a battaglia. La posizione è tatticamente forte, infatti è la stessa che re Enrico e don
Tello avevano deciso di prendere prima di portare l'attacco all'esercito inglese. Una volta
rinfrancatisi, alcuni degli Inglesi e dei Guasconi, scendono dal monte caricando, e, dopo lo
scontro riparano al sicuro, verso l'alto, protetti dalla forte posizione dei commilitoni. I
Castigliani intanto, non potendo sloggiare dalla forte posizione l'avversario, stanno tornando
verso re Enrico, per avvisarlo dello scontro, e, sulla via, incappano in sir Thomas Felton che,
con 200 cavalieri e scudieri, Inglesi e Guasconi, sta dirigendosi verso il clangore delle armi. Il
povero sir Thomas si vede investito dalla grossa colonna di Spagnoli e non può schivarli,
anch'egli si ritira su una piccola altura, cercando di sfruttare il vantaggio della posizione. Gli
d’acciaio, scudi rotondi e giavellotto. Cavalcano agili e veloci cavallini arabi, colpiscono e si ritirano,
sconcertando il nemico.
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La cronaca del Trecento italiano
64 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 223 e AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1367, cap. 7, 8 e 9.
Tra i prigionieri vi è Thomas Felton. La collina dove si è svolto il combattimento si chiama ancor oggi
Altura de los Ingleses. Per la parte inglese, Chandos Herald in BARBER, Life and Campaign of the Black
Prince, p. 119-121.
65 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 224
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alla notizia della partenza del nemico ha mobilitato l'esercito e ha inseguito Edoardo ed ora, il
30 marzo, si trova a la Najarilla, sull'Ebro. Edoardo è ammirato dalla combattività di Enrico, e
vibra di speranza all’idea di poterlo affrontare. Riunisce il consiglio e, finalmente, il 30 marzo,
delibera di rispondere alla missiva che gli è stata inviata da Enrico oltre tre settimane or sono.
«Al nobile poderoso principe Enrico, conte di Trastámara, (quindi non re) che per il presente
si fa chiamare re di Castiglia (e llamastes vos rey de Castillia e Leon)...», Edoardo gli testimonia la
sua irrevocabile volontà di onorare l'alleanza di Edoardo III con re Pietro di Castiglia e di
voler riportare questi sul trono Addolcisce il messaggio promettendo a Enrico, se deporrà la
corona, largo spazio nel regno. Promessa vana che non tiene conto della spietata e barbara
natura di don Pietro, ben conosciuta da Enrico che fin troppi lutti ha dovuto sopportare a
causa del feroce sovrano.66 Enrico riceve la risposta, la legge e valuta in consiglio: non vi è
altra scelta che la guerra.67
La battaglia di Najera. I due accampamenti nemici passano tutto il venerdì 2 aprile,
preparando i piani di battaglia ed inviando esploratori ad appurare consistenza e posizione
dei rispettivi eserciti nemici. L'esercito di Edoardo è a Navarrete, quello di Enrico davanti a
Najera.68 Il re di Castiglia ordina ai suoi uomini di andare a dormire, ed essere pronti ad
armarsi a metà della notte, per poter partire alle prime luci dell'alba: domani si combatterà. A
mezzanotte la tromba risveglia i pochi che sono riusciti a dormire. L'aurora vede lo
schieramento di Castiglia e Francia ripartito in tre battaglie, o colonne, la prima è comandata
da Bertrand du Guesclin, ed è forte di 4.000 cavalieri, tra loro i più valenti e i più duri, il
maresciallo Arnoul d'Audrehem, il visconte di Roccaberti al comando dei suoi Aragonesi,
l'Aragonese conte Luna, i due baroni d'Hainaut, il sire di Antoing, messer Allard sire di
Breuteil, i Castigliani agli ordini di don Sancio,69 e molti altri valenti baroni di Francia,
Aragona e Provenza. In prima linea vi è anche il fior fiore dei Castigliani, i cavalieri della Sash
(cavalieri della Sciarpa).70 La seconda colonna, all’ala sinistra, è comandata da don Tello e da
Juan Fernandez de Heredia, gran maestro dell’ordine degli Ospedalieri; essi hanno ai loro
ordini 16.000 tra cavalieri pesanti e leggeri.71 L’ala destra è condotta dal conte di Denia, nipote
66 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 225-226; Chandos Herald in BARBER, Life and Campaign of the
Black Prince, p. 122-123. Le lettere che si conservano hanno un aspetto differente, anche se la sostanza è
la stessa, nella prima, datata 1 aprile, Edoardo enumera le ragioni per cui è sceso al fianco di Piero e si
offre come mediatore dei loro dissidi. la risposta di Enrico, datata 2 aprile, riaffermando i propri diritti e
le ragioni per cui è stato costretto a scendere in campo contro il fratellastro, dichiara che è pronto a
difendere con le armi i propri diritti se il principe vorrà aggredirlo. Comunque un dialogo tra sordi. Si
veda la nota 5 di J. Froissart, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 225.
67 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 227 e AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1367, cap. 11.
69 Anche Begue de Villaine, Begue de Villiers, messer Jean de Berguete, messer Gauvain de Bailleul,
l'Allemand de Saint-Venant, neo cavaliere. Secondo AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1367, cap. 4,
l’ordine di battaglia è il seguente: per ordine di Enrico, e secondo le costumanze francesi ed inglesi, i
Bretoni ed i Francesi agli ordini di du Guesclin combatteranno appiedati. La seconda colonna è
condotta, a piedi, da don Sancio, con le truppe Castigliane, tra questi vi è anche Pero Lopez de Ayala, il
nostro cronista, che ne è l’alfiere. Alla sinistra e alla destra di Sancio viene schierata la cavalleria, a
sinistra comanda don Tello, con 1.000 cavalieri armati pesantemente e molti uomini a cavallo, alla
leggera; a destra don Alfonso, marchese di Villena, figlio dell’infante Pedro d’Aragona e nipote di don
Giacomo, con lo stesso numero di cavalieri pesanti e leggeri di don Tello. La terza colonna è quella dello
stesso re Enrico, che ha con sé suo figlio Alfonso, suo nipote Pedro, figlio di Fadrique, assassinato da
Pietro il Crudele, Garcia Albornoz, l’ammiraglio Ambrogio Boccanegra, figlio di Gil, il trafugatore del
tesoro reale. Enrico ha con sé 4.500 uomini a cavallo ed uno sterminato numero di fanti, ma male armati
e peggio addestrati.
70 Sono i cavalieri che hanno già combattuto tre volte contro i Mori; questo ordine di cavalleria, fondato
da Alfonso XI nel 1330, è distinto da una sciarpa rossa che dalla spalla sinistra va al fianco destro;
MINOIS, Du Guesclin, p. 312, nota.
71 I gènètaires, detti così dai cavallini di montagna che li portano
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La cronaca del Trecento italiano
Pedro, 1367, cap. 5. Si veda anche Chandos Herald in BARBER, Life and Campaign of the Black Prince, p. 123-
125.
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Carlo Ciucciovino
aprile, 1367, e per troppi sarà l’ultima giornata della loro vita. Finalmente, le schiere iniziano a
muoversi, il principe di Galles giunge le mani sollevandole al cielo ed implorando l'aiuto di
Dio Padre, poi tende la mano destra a re Pietro dicendogli che oggi saprà se potrà riacquistare
il suo regno. Poi: «Avanti! Avanti bandiere! Nel nome di Dio e di San Giorgio!»
L'avanguardia col duca di Lancaster e John Chandos si muove dirigendosi verso la schiera di
Bertrand du Guesclin e del maresciallo d'Audrehem che hanno ai loro ordini 4.000 uomini
d'arme: questo sarà lo scontro che deciderà l'esito della battaglia.76 L'urto tra le due
avanguardie è potente e deciso. Le lance e i grandi stocchi esercitano pressione su ambo gli
schieramenti, ma nessuno prevale. Chi viene gettato in terra non ha più alcuna possibilità di
rialzarsi, lo sforzo delle due schiere è estremo. Mentre ha luogo la lotta tra le avanguardie,
cominciano ad impegnarsi anche le altre colonne, il principe di Galles, don Pietro di Castiglia,
il Captal de Buch e Martin de la Kare, per il re di Navarra, corrono contro le fila di don Tello.
Don Tello sta fermo, senza muoversi, attendendo che l’avversario esaurisca l’attacco, ma gli
arcieri inglesi fanno la differenza, lanciano una vera pioggia di frecce sui mal protetti cavalieri
leggeri, che, indifesi, girano le loro cavalcature, dandosi alla fuga. Il loro esempio trascina gli
altri e lo stesso don Tello invece di lanciare la sua cavalleria pesante al galoppo contro i fanti
avversari, gira la cavalcatura e fugge, seguito da tutti gli altri cavalieri della sua ala.
Armagnac e Albret ed il Captal de Buch possono quindi volgersi alla loro sinistra e attaccare
l’ala sinistra del bastardo di Castiglia, rimasta completamente scoperta. Don Sancio resiste
bravamente, ma la lotta è impari.77 L’ala destra, agli ordini del conte di Denia e del maestro di
Calatrava resiste bene all’attacco di Clisson, Percy e Hewett. La cavalleria di don Tello ha
dato le spalle al nemico, che si lancia all'inseguimento ed al massacro dei fuggitivi. Edoardo e
re Pietro si dirigono allora verso re Enrico di Castiglia, che ha a sua disposizione quasi 50.000
combattenti a cavallo o a piedi. Ora la battaglia diventa uno scontro solo tra appiedati, solo la
schiera di riserva del Principe Nero, comandata da Giacomo di Maiorca è montata e non è
ancora intervenuta in battaglia. I frombolieri delle Baleari gettano pietre che sfondano elmi e
corazze, provocando vuoti tra le fila avversarie, finalmente si arriva a distanza di lancia e
inizia la pressione per cercare di rompere l'avversario, qualcuno combatte con le spade, ma
gli arcieri inglesi lanciano una pioggia di dardi sopra le teste degli Spagnoli, seminando ferite
e morte e deprimendo l'animo dei combattenti che non hanno difesa contro la cieca atroce
pioggia. le grida di combattimento che risuonano sopra il clangore delle armi e le grida di
dolore e d'agonia sono: "Santiago!”, “Castiglia a re Enrico!" e "San Giorgio! Guyenne!" La
pressione contro Bertrand du Guesclin continua esasperante: i cavalieri, appiedati,
impugnano le lance a due mani ed in due persone alla volta, e le puntano contro il nemico,
premendo. Quando le lance si spezzano si impugnano le spade o le daghe. Accanto ai
cavalieri combattono i loro scudieri, uomini duri, arditi ed intraprendenti. Tutti si battono
coraggiosamente: Francesi, Spagnoli, Inglesi, Aragonesi. Secondo il solito, sir John Chandos
compie prodigi di valore, si spinge così avanti nella sua foga, che viene circondato e gettato a
terra, su lui si lancia un gigantesco Castigliano, Martin Ferrant, rinomato per coraggio e
ardimento, che vuole ucciderlo, il gigante lo preme col suo peso, e gli spinge una daga dentro
la visiera, ma sir John riesce a deviare il colpo con uno scarto laterale della testa ed estrae un
pugnale che porta al petto, ferendo Martin alla schiena, tra le costole, uccidendolo, poi si
toglie di dosso il cadavere, si leva prontamente e, finalmente, i suoi lo raggiungono,
salvandolo. Tra gli Spagnoli vi è anche il conte Sancio che combatte, ma di don Tello non v'è
più traccia.78
76 L’inizio della battaglia è segnato dalla diserzione di una schiera di cavalleria leggera che Enrico ha
mandato ad impegnare l’avanzata degli Inglesi, diserzione seguita quasi subito dopo la quella della leva
castigliana; gran brutto segnale che testimonia la scarsa lealtà e la sfiducia che i Castigliani nutrono
verso il loro nuovo re. FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 214.
77 AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1367, cap. 12.
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Si può seguire l'andamento della dura battaglia guardando la disposizione delle bandiere
e dei pennoni che sovrastano i guerrieri. Sopra John Chandos garrisce lo stendardo di San
Giorgio e la bandiera col suo stemma, ma vi sono anche 1.200 pennoncelli, che rappresentano
i diversi signori e signorotti combattenti, tra cui anche gli avventurieri e mercenari. L’entrata
in battaglia di Giacomo di Maiorca è decisiva. Egli si batte bene, leggermente a monte della
schiera del principe di Galles, e dal fianco opposto del principe conduce la sua battaglia il
rappresentante di Navarra: Martin de la Kare. Giacomo investe alla sua sinistra il conte di
Denia, il cui cavallo viene ucciso, egli viene catturato, altrettanto capita al ciambellano Gomez
del Carillo. Non vi è tempo per pensare ad altro che a battersi, e non mancano certo i nemici:
le teste armate spagnole sono un centinaio di migliaia, ben ammassate, quando le schiere
tendono ad aprirsi sotto la spinta avversaria, e gli uomini cominciano a sbandarsi, interviene
la cavalleria leggera castigliana, che sospinge gli esitanti nelle proprie posizioni. Don Pietro di
Castiglia, Pietro il Crudele, si apre duramente la strada in mezzo alla massa dei nemici e viene
udito gridare: «Dov'è quel figlio di puttana che si fa chiamare re di Castiglia?».79 Ma quel
"figlio di puttana", il coraggioso re Enrico Trastámara, sta battendosi valorosamente, e non
solo contro il nemico, ma anche cercando di tenere unito il suo esercito e sforzandosi di
contenere i segni di cedimento che scorge tra i suoi armati; egli va incessantemente dall'uno
all'altro dei suoi capitani e sergenti, esortandoli: «Buona gente, mi avete voluto ed incoronato
re: aiutatemi ora a difendere e conservare ciò che mi avete dato!». Il vero centro della
battaglia, quello da cui tutto dipende, è lo scontro tra le schiere di Bertrand du Guesclin e di
don Sancio, con quelle del duca di Lancaster, aiutato e consigliato, come, a Poitiers ha aiutato
e consigliato suo fratello il principe Edoardo, dal bravo John Chandos. John non pensa che a
combattere, non si ferma a prendere prigionieri, ma continua ad aprirsi un varco nella
muraglia di acciaio e volontà dei nemici. Quattrocento Bretoni sono caduti intorno allo
stendardo di Du Guesclin; Lancaster, Chandos, ed Edoardo di Galles premono dal fronte, il
captal de Buch da sinistra, Clisson e Hewett da destra e da dietro; Le Bègue de Villiers viene
ferito e catturato, Arnoul d’Audrehem e Sancio s’arrendono. Bertrand du Guesclin alfine
comincia cedere sotto la pressione avversaria: è la rotta, vengono catturati molti dei
comandanti francesi ed aragonesi e molti ne vengono uccisi. Bertrand consegna la sua spada a
sir Thomas Cheyney.80 Dopo il cedimento e la rotta dei Francesi, gli stendardi di Chandos, del
duca di Lancaster, dei due marescialli ed il pennone di San Giorgio convergono verso il luogo
dove stanno le schiere di re Enrico, l'unica formazione ancora salda dei Castigliani. È ormai
solo questione di tempo: tutto l'esercito degli Inglesi e Guasconi circonda gli Spagnoli: anche
il captal de Buch, con al fianco il signore di Cliçon preme contro i Castigliani. Fanno prodezze
individuali messer Eustache d'Aubrecicourt, Hugh Calveley, Jean d'Evreux. Enrico si batte e
conforta i suoi: i Castigliani resistono e i loro cadaveri, 1.500 caduti, si accumulano, come
barriere umane.81 Ma la pressione nemica è enorme, la speranza di risolvere positivamente la
battaglia ormai svanita, e una parte dei più pavidi tra i Castigliani, appena scorge un
possibile varco comincia fuggire: i rivoli di soldati in cerca di salvezza, diventano torrenti, i
Castigliani gettano le armi e fuggono disperatamente verso le mura di Najera ed il fiume che
la protegge. È una fuga disordinata e molti Guasconi ed Inglesi chiedono le loro cavalcature e
si lanciano all'inseguimento ed al massacro. Re Enrico, visto che tutto è perduto, monta il suo
destriero, lo lancia al galoppo tra i fuggitivi, ma evita di andare verso il fiume e la città per
non esservi intrappolato: egli sa che se verrà catturato sarà ucciso. I Castigliani e gli Spagnoli
si ammassano sul ponte davanti a Najera. Un nucleo di combattenti spagnoli, ancora ordinati,
comandati da due signori che indossano abiti religiosi: il gran maestro di Calatrava e il gran
Priore di Saint-Jaime contendono il ponte ai cavalieri inglesi e guasconi che sono loro
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1367, cap. 12. Sui prigionieri si veda anche VALDEÓN, Pedro el Cruel y Enrique de Trastámara, p. 179.
85 Non è il primo esempio di dissimulazione in famiglia: dopo l'assassinio della madre, don Tello viene
convocato da Pietro di Castiglia, che non si fida del fratellastro Il re, scrutandolo fisso gli dice: "Don
Tello, sapete come è morta vostra madre?" Tello, risponde:"Signore, io non ho altro padre nè madre che il vostro
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sue mani. Don Pietro sfoga la propria rabbia facendo decapitare di fronte al suo padiglione
Gomez Carrillo de Quintana, figlio di Ruy Diaz Carrillo, cameriere maggiore di Pietro,
condannato prima dell'impresa guerresca e pertanto escluso dall'impegno di misericordia
preso da don Pietro.86 Dopo l'esecuzione, tranquillamente, Pietro si reca ad ascoltare la messa,
poi, rifocillatosi, monta a cavallo e con Sancio e don Martin Lopez de Cordoue, comanda a
tutti i suoi, 500 uomini d'arme, di lasciare le schiere del principe di Galles e cavalcare verso
Burgos, dove arrivano il lunedì mattina, la città si sottomette senza combattere. Dopo essersi
riposato tutta la domenica, l'esercito inglese il lunedì mattina parte per Briviesca, dove si
trattiene fino a mercoledì, quando si ricongiunge con i Castigliani di don Pedro a Burgos.87
La fuga di Enrico. Che fine ha fatto Enrico Trastámara? Dopo aver combattuto
valorosamente, i suoi stessi uomini lo costringono a cercare scampo nella fuga. Egli si è
diretto verso sud-est in direzione di Catalayud e si è fermato ad Illueca. Al sicuro perché in
Aragona. Qui una piccola scorta lo attende. Il piano iniziale di Enrico è di ritirarsi a Siviglia e
di qui condurre la battaglia di riconquista, ma comprende che ora re Pietro IV d’Aragona non
è disponibile ad impegnarsi più di tanto, per non riaprire il sanguinoso confronto con Pietro
di Castiglia. Allora decide che il partito migliore è trovare rifugio sui Pirenei, Per il colle di
Canfranc e Somport si rifugia presso il conte di Foix, che lo scorta verso la Linguadoca. Qui il
duca d’Angiò gli offre asilo e gli dona il formidabile castello di Pierrepertouse. Di qui
l’intenzione del Trastámara è di minacciare le vie di ritorno del Principe Nero.88 Enrico ha un
carattere fortissimo, la sconfitta non lo ha piegato, anzi, ha rafforzato in lui la volontà di
spazzare via El Cruel, Enrico in tutta la sua vita dimostra una volontà incrollabile verso gli
obiettivi che si dà, una volontà che ignora sfumature e che lo conduce ad abbattere tutti gli
ostacoli che gli si frappongono. È proprio vero che per re Pietro di Castiglia la sventura
maggiore nella battaglia di Najera è che il bastardo gli sia sfuggito! Egli pagherà con la vita
questo insuccesso.
Re Pietro di Castiglia non salda i suoi debiti. A Burgos l'esercito soggiorna per circa tre
settimane, a Pasqua i signori delle terre di Spagna vengono a rendere omaggio a Pietro. Una
accoglienza particolare e festosa viene riservata al leale don Ferrand, il fedele Ferrand de
Castres. È il momento per Edoardo di chiedere le paghe per i suoi guerrieri, ma don Pietro si
dichiara momentaneamente sprovvisto, benché intenzionato a tener fede al proprio impegno.
Poi cavalca verso Siviglia per cercare di raggranellare denaro. Edoardo si reca ad alloggiare a
Val-d'Olif, e tutti i suoi grandi seguaci si spargono per i paesi vicini, con quale gioia degli
abitanti si può immaginare, specialmente perché nessuno è in grado di trattenere i mercenari
dal saccheggiare, né re Pietro è in grado di approvvigionare adeguatamente l’esercito che l’ha
aiutato a riconquistare il trono.89 Don Pietro fa sapere a Edoardo di Galles che è disposto a
giurare solennemente in Burgos nuovi patti: gli darà metà della somma promessa entro
quattro mesi e l’altra metà, entro un anno a Bayonne, ed Edoardo gli restituirà allora anche le
tre figlie, Beatrice, Costanza e Isabella, che sono, al sicuro, a Bayonne, alla corte di Edoardo.
La cifra che è stata stabilita come costo della campagna, cifra che è stata dibattuta per
settimane, è la fantastica cifra di 2.720.000 fiorini d’oro. L’incontro avviene nella cattedrale di
favore". La dissimulazione gli salva la vita. AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1351, cap. 4. Si veda
Chandos Herald in BARBER, Life and Campaign of the Black Prince, p. 130.
86 AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1367, cap. 12, ci informa che don Pietro ha fatto giustiziare anche
Sancho Sanchez de Moscoso, commendatore dell’ordine di Santiago, e Garçi Jufre Tenorio, figlio
dell’ammiraglio don Alfonso Jufre. FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 216-217 dà qualche notizia della
crudeltà di re Pietro.
87 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 237; Chandos Herald in BARBER, Life and Campaign of the
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Burgos, ma il clima è quello dell’incontro tra due nemici: Edoardo per entrare in città ha
preteso ed ottenuto una porta di Burgos, e la via che porta ad una piazza, e la piazza stessa.
Tutto viene presidiato da suoi uomini d’arme e da arcieri. Edoardo ed il duca di Lancaster
entrano a cavallo, disarmati, ma circondati da una muraglia vivente di 500 uomini d’arme, tra
cui tutti i comandanti principali, armati fino ai denti. Pietro ed Edoardo si incontrano a Santa
Maria Maggiore, dove il re di Castiglia giura i patti.90
Questa nuova, grande vittoria del trentasettenne Edoardo, principe di Galles, ottenuta
contro 100.000 avversari, dieci anni dopo l'indimenticabile giornata di Poitiers e quella non
meno gloriosa di Crécy, dove egli serviva sotto gli ordini del padre Edoardo III d'Inghilterra,
questa vittoria dunque esalta al massimo la fama del principe, di lui si dice che è «il fiore di
tutta la cavalleria del mondo». Mentre l'Inghilterra festeggia, la Francia sopporta la prigionia
di Bertrand du Guesclin e degli altri, ma sicuramente Edoardo, nel segreto del suo animo
inizia a pensare che ha combattuto e vinto per la parte sbagliata.91
90 AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1367, cap. 20 e 21; FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 217-218;
Chandos Herald in BARBER, Life and Campaign of the Black Prince, p. 132.
91 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 239. Per una narrazione moderna si legga G. Minois, Du
Guesclin, Fayard, 1993, pag. 301-320. Una eco scarna ed inesatta in Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 212.
92 Cronache senesi, p. 614.
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La cronaca del Trecento italiano
1362, la sua sorella prediletta, Bona, muore di parto. Da quel giorno per Caterina non vi sono
che digiuni e privazioni e preghiera. Ella è attirata dalle “sorelle della penitenza” dette anche
“Mantellate”, per via del mantello nero che indossano, che Caterina vede riunite in preghiera
nella cappella delle Volte in San Domenico. La figlia del tintore vorrebbe entrarne a far parte.
Ma c’è un problema, le Mantellate sono «laiche libere, ma votate alla povertà, obbedienza,
castità, che non vivevano in convento e si occupavano dei bisognosi e dei malati».94 Sono
quindi donne che hanno contatto con il mondo, in gran parte vedove o anziane zitelle, che si
dimostrano riluttanti ad accogliere tra loro una verginella adolescente e molto graziosa.
Caterina per tre anni conduce una vita severissima di servizi alla sua famiglia, di preghiera,
di privazioni e di autoinflitte punizioni. Alla fine strappa al padre il permesso di avere una
cameretta dove vivere in preghiera. I genitori, disperati per il declino fisico della figlia, fanno
domanda alle Mantellate perché la accolgano. Caterina minaccia di lasciarsi morire di fame se
le religiose non la accetteranno. Dopo ripetuti rifiuti, alla fine Caterina viene accolta e
pronunzia i voti. La neoconversa non gira per le case a somministrare cibo e cure ai malati,
rimane in preghiera, martoriandosi il corpo con le punizioni e digiunando. Le sue colleghe
raccontano che Caterina ha le visioni e subisce le aggressioni demoniache. Caterina prega con
tutte le sue forze e il suo comportamento durante l’elevazione e la comunione desta scandalo.
La fanciulla sospira rumorosamente, si copre di sudore quando assume l’ostia e, dopo la
comunione, il suo cuore batte rumorosamente.95
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Carlo Ciucciovino
96 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 100-101; DATTA, I Principi d’Acaia, I, p. 208-212; CIBRARIO,
Savoia, III, p. 205-209. Un esempio delle malefatte dei soldati di Filippo di Savoia Acaia è in TURLETTI,
Savigliano, I, p. 255.
97 DATTA, I Principi d’Acaia, I, p. 211-212.
100 BRUNETTIN, L’evoluzione impossibile, p. 216. Concetto riaffermato in BRUNETTIN, Una fedeltà insidiosa, p.
333.
101 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1367, vol. 4°, p. 6, nota 1.
102 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1367, vol. 4°, p. 6, nota 1.
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Firenze invia delegati alle nozze di Marco Visconti con Elisabetta di Baviera (i cavalieri
Giovanni di Conte dei Medici, Jacopo degli Alberti, Bengo de’ Buondelmonti e Lapo de’ Rossi
e Ghino degli Anselmi).103
103 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1367, vol. 4°, p. 6, nota 1.
104 MOLLATT, Les papes d’Avignon, p. 253-254; PALADILHE, Les papes d’Avignon, p. 227-229 ; la definisce
indigesta Mollat, il quale elenca gli altri illustri partecipanti alla missione, il conte d’Etampes, il
cancelliere del Delfinato, Guglielmo de Dormans, il gran maestro di palazzo del re, Pierre de Villiers, il
sire di Vinay.
105 Una galea è stata armata a spese del leale Trincia dei Trinci, signore di Foligno, 2 dai Cavalieri di
Rodi, 2 dai Pisani, 5 dai Veneziani, 6 dai Napoletani. PINZI, Viterbo, p. 334, da Monumenta Pisana,col.
1047; RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 209. NATALUCCI, Ancona, p. 382, citando la cronaca di Oddo de Biagio,
scrive: «la galea fu fatta in Ancona per comandamento del dicto papa de tale e tanta larghezza quale mai
fu veduta la simile, con celle e camere depente et ornate sotto coperta, come fossero stantie di palazzi. Et
fo armata de marinai e vogatori de Ancona».
106 GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p. 337.
107 In HATCH WILKINS, Petrarca, p. 253, troviamo che, non appena i cardinali sono salpati da Marsiglia,
alcuni di loro sono scoppiati in pianto, esclamando: «Malvagio papa, empio padre, dove mai trascini i
miseri figli?». PERUZZI, Ancona, II, p. 101 ci dice che sia il comandante che i marinai, i soldati e i piloti
della galea anconitana sono di Ancona.
108 È stato eletto cardinale il 18 settembre 1366, quindi ora i cardinali italiani sono tre. PINZI, Viterbo, III, p.
332 e nota 2 ivi. Registrato anche in DELLA TUCCIA, Cronaca di Viterbo, p. 34, che specifica che con Marco
vengono nominati cardinali Anglico il fratello del papa e il vescovo di Marsiglia, e da D’ANDREA,
Cronica, p. 95.
109 STELLA, Annales Genuenses, p. 161-162.
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Carlo Ciucciovino
ed appena la luce del giorno indora la terra, fa salpare le ancore per andare a Viterbo. Passa al
largo di Piombino e prende terra a Talamone, dove lo attendono con onore i Senesi ed i loro
doni. Di qui Urbano si reca a Corneto, dove approda all’alba del 4 giugno. Il porto di Corneto
è porto ampio e sicuro, scalo ed emporio del grano di Sicilia, una cittadina folta di torri
costruite col tufo ed il peperino della zona, severe e minacciose. Qui lo accoglie una folla
variopinta sul capo della quale sventolano i gonfaloni della Chiesa, di Orvieto, Spoleto, Pisa,
Firenze, Siena, Perugia, Viterbo, Bologna, delle diverse città della Romagna e della Marca, dei
signori fedeli al pontefice. Una passerella, coperta di drappi, è stata apprestata per far
procedere comodamente Urbano dalla galea alla spiaggia. Sono sessanta anni che il papa è
lontano dai confini dello stato della Chiesa, ed ora dalla massa imponente degli astanti,
avanza verso papa Urbano e gli si prosterna dinanzi colui cui va ascritto il merito di questo
ritorno: il cardinale Egidio Albornoz. Questo grande statista, dalla sterminata energia
intellettuale e dotato di pertinace coraggio, ha reso possibile con la sua opera il miracolo cui si
sta assistendo; con mezzi limitati, spesso attingendo dal suo patrimonio personale, il
cardinale ha passato gli ultimi 14 anni della sua esistenza nella penisola italiana, sempre
combattendo con le armi o con la diplomazia, sovente anche contro colui che lo ha inviato
verso la sua impossibile missione. In questa splendida giornata di mezza primavera, Egidio
gode il suo trionfo, ormai vecchio, inchinato di fronte al giovane pontefice,110 egli è circonfuso
di gloria. Dopo aver sostato un poco sotto un padiglione, Urbano monta a cavallo e si dirige
verso Corneto, distante tre miglia dall’approdo, vi giunge a mezzogiorno e prende possesso
del suo alloggio nel convento dei Frati Minori, dove conta di rimanere fino alla Pentecoste (6
giugno).111
Mentre il pontefice si gode un po’ di riposo a Corneto, gli ambasciatori di Roma gli
vengono a portare le chiavi di Castel Sant'Angelo, l'imprendibile fortezza della capitale.
Finalmente, il 9 giugno, Urbano entra a Viterbo attraverso la rustica porta di Pian Scarano,112 e
si installa nella forte rocca che Egidio Albornoz gli ha fatto preparare. Ai suoi cardinali
vengono assegnati i palazzi di San Francesco, San Sisto, San Pietro dell’Olmo e l’Episcopio.113
110 L’Albornoz è nato negli ultimi anni del secolo XIII, ha quindi circa 70 anni, mentre papa Urbano, è
nato Guillaume de Grimoard, nel 1318, ed ha quindi meno di 50 anni. Cronaca di Ser Guerrieri da Gubbio,
p. 16 dice che per l’età Albornoz «era diventato paralitico», notizia che non trova conferma in altre fonti.
111 Cronache senesi, p. 614; GREGOROVIUS, Roma nel Medioevo, lib. XII, cap. I, p. 212-213; PINZI, Viterbo, III, p.
333-336; FILIPPINI, Albornoz, p. 401-403; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 213-215; Rerum Bononiensis,
Cronaca B, p. 211-212; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 211; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 166-167;
Diario del Graziani, p. 203-204; SERCAMBI, Croniche, p. 135; Cronaca di Ser Guerrieri da Gubbio, p. 15. Scarno
GIULINI, Milano, lib. LXX, anno 1367 e Raphaini Carasini Chronicon, col. 431. Giovanni dell’Agnello non
era sicuramente animato da cattive intenzioni quando si è recato ad accogliere il papa, ma ha sbagliato a
farsi accompagnare dall’Acuto, come poteva Urbano V che tuonava contro le compagnie di ventura,
farsi proteggere da uno dei suoi capi? si veda CATUREGLI, Giovanni Agnello, p. 107-108. CALISSE, I Prefetti
di Vico, p. 139 fa notare che al comodo porto di Civitavecchia, più prossimo a Roma, Urbano preferisce
l’attracco a Corneto e questo perché Civitavecchia è nelle mani del prefetto di Vico, Francesco,
succeduto a suo padre Giovanni III, venuto a mancare nel 1365 o 1366. Niente di originale in VERCI,
Storia della Marca Trevigiana, Lib. XV, p. 97-98; in CAMPANARI, Tuscania, p. 200-201; in DASTI, Tarquinia e
Corneto, p. 320-323 se non un privilegio concesso a Corneto. GIONTELLA, Tuscania attraverso i secoli , p.
130-132 ci informa che il papa dona 25 fiorini ai Francescani del Convento dell’Olivo, dove è stato ospitato
ed altri 10 fiorini alle Clarisse Urbaniste, per il loro servizio. Estremamente laconico TIRABOSCHI, Modena,
vol. 3°, p. 43, DELLA TUCCIA, Cronaca di Viterbo, p. 35, D’ANDREA, Cronica, p. 95-96. ANTONIO DI BUCCIO,
Delle cose dell’Aquila, col. 733 registra lietamente il ritorno del papa a Roma.
112 La scelta di una porta minore, e confinante con un quartiere abitato da povera gente, è forse
spiegabile con la voglia di rendere più lungo il corteo, di aumentare l’aspettativa per il momento
cruciale in cui il pontefice sbucherà nel ricco centro cittadino. PINZI, Viterbo, III, p. 337-338; SCRIATTOLI,
Viterbo nei suoi monumenti, p. 208 dice che le case della zona sono abitate prevalentemente da agricoltori
e boattieri.
113 PINZI, Viterbo, p. 338 e FILIPPINI, Albornoz, p. 401-403.
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La cronaca del Trecento italiano
Non è il caso di recarsi subito a Roma, la calura di luglio ed agosto nella Città Eterna è
insopportabile, e Urbano, saggiamente, decide di non scoraggiare i suoi cardinali e la sua
curia, con l'estremo disagio che il caldo provocherebbe: meglio far passare l'estate nella fresca
Viterbo. Dalla fine del 1364, il papa ha chiesto ad Egidio Albornoz il rendiconto delle spese
sostenute nei suoi anni di missione in Italia, ed ora ha il cattivo gusto, o l’innocenza di
rammentargli che ancora l’attende; Egidio, malato e stanco, ma ancora colmo di giusto
orgoglio, fa radunare in un grande carro tutte le chiavi delle città da lui riconquistate, sale in
cassetta insieme al vetturale, e si reca dal papa e dai cardinali, a cui dice «di non sapere
mustrare altre ragioni se non che lui havea acquistato le provincie sopra nominate, et quelle
erano le chiave de le terre».114
I Senesi arrivano il 13 giugno: sei cavalieri e sei grandi popolari, con ottanta cavalli, tutti
ben vestiti, «e menaro uno maniscalco e tre trombetti e dieci muli carichi». Risiedono nella
città per 15 giorni, poi tornano a Siena.115 Tra loro vi sono gli stessi ambasciatori che, andati ad
Avignone, sono tornati il 27 aprile. Ma messer Giovanni Pagliaresi si è evidentemente lasciato
sfuggire incaute dichiarazioni riguardo i Dodici che reggono il governo di Siena, Mino e ser
Nicolò di Tura lo denunciano ai signori, che inviano contro di lui una folla scatenata che
prende a forza la sua casa posta a lato della porta del ponte di fronte a San Maurizio. Tutta la
casa ed i suoi cofani vengono sigillati e messer Giovanni è condannato al pagamento di 2.200
fiorini d'oro. Ma questo è solo un episodio di un nervosismo generalizzato che turba i sonni
dei Dodici, per la ventilata discesa di Carlo IV: questi signori «entraro in grande paura
dell'aria», in ogni terzo di città mettono guardie armate, e bargelli, cui delegano grande
autorità di comminare punizione a «chiunque tossisse contro di loro», vietano che si parli
dell'imperatore, e fanno murare le porte della città.116
I Perugini, il 9 giugno, lo stesso giorno in cui il papa è entrato a Viterbo, mandano i loro
ambasciatori a riverirlo. Tra loro vi sono Baldo degli Ubaldi e messer Francesco di messer
Ugolino.117 Vestiti elegantemente di una medesima livrea scarlatta, e con adeguato seguito
fanno una bellissima figura, ciononostante debbono fare un’anticamera di un mese, e tornano
a mani vuote, senza che il papa si sia impegnato a recarsi in visita a Perugia, né che abbia
dato aperture circa la restituzione di Assisi, Gualdo e Nocera.118
Anche Bologna, naturalmente, manda una sua delegazione a rendere omaggio al papa.119
I cardinali che hanno preferito il viaggio via terra, arrivano in ordine sparso e ne abbiamo
notizia negli annali estensi che registrano l’accoglienza che il marchese Nicolò d’Este riserva
ai vari prelati che arrivano tra il primo giugno e il 17 giugno.120
Grazie all’intervento del papa, che invia il cardinale Marco da Viterbo ad occuparsi della
cosa, Genova e i Visconti il 3 luglio firmano la pace.121
Non bisogna immaginare che tutta la curia pontificia con i suoi archivi e le sue molteplici
funzioni abbia traslocato da Avignone a Roma. In realtà il papa, oltre a un buon numero di
117 Gli altri sono: messer Conte di messer Sacco Saccucci, messer Guglielmo di Cellolo, Agnolino di
Bettolo Pelacani, Agnolino di Ceccolo Sinibaldi, Arlotto dei Michelotti, Nicolò di Andrea di Puccio,
Fidanzino di Gnagne del Marescalco e Nicolò di Pone Ranieri.
118 PELLINI; Perugia; I; p. 1026-1027.
119 Gli ambasciatori che la compongono sono Francesco dei Calboli, podestà di Bologna, Tumulo
Bentivogli, Munso dei Sabatini, ed il notaio Minotto di Pietro Angelelli. GRIFFONI, Memoriale, col.181,
anche Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 214.
120 Chronicon Estense, col. 488, che annota l’arrivo del cardinale Orsini il 1° giugno, il 4 viene il cardinale
1367
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Carlo Ciucciovino
§ 25. Perugia
Tornano a Perugia i capitani dell’esercito, catturati nella sfortunata battaglia di Ponte San
Giovanni. Per il podestà, per Alberto da Pietramala e Nicolò Buscareto il riscatto è stato
pagato dal comune, mentre Enrico Paier ha dovuto, per una parte della taglia, far fronte con
fondi propri. Malgrado la sconfitta patita, sono accolti con molto affetto dai cittadini, ed al
podestà viene concesso di prolungare di quattro mesi il proprio incarico, per permettergli di
recuperare parte dei danni sofferti. In sua assenza, l’ufficio è stato tenuto da messer Michele
da San Miniato, suo vicario.123
Perugia, in giugno, permette anche che possano rientrare in città i protagonisti della
rivolta del 1361, tutti, meno quattro: messer Francesco di Bettolo, suo fratello Poccia, Nicolò di
Carluccio e Pellino di Cucco Baglioni. Successivamente, l’esilio sarà tolto a Francesco, ma
rimarrà per gli altri.124
125 Abbiamo già incluso questa notizia nel 1365, nel paragrafo 31, l’abbiamo comunque qui rammentata
seguendo altri autori che la pongono nel ’66 o nel ’67; si veda la nota seguente.
126 GIULINI, Milano, lib. LXX, anno 1367; DE MUSSI, Piacenza, col. 509; Annales Mediolanenses, col. 736 pone
questo matrimonio nel ‘66. Quest’ultima cronaca null’altro registra nell’anno se non l’imposizione di
diverse gabelle e la proibizione, sotto gravi pene, di pronunciare i termini di Guelfo o Ghibellino.
127 Annales Mediolanenses, col. 736.
1367
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La cronaca del Trecento italiano
134 «Il dominio del castello di Acquapuzza rientrava nel progetto di riorganizzazione territoriale e del
controllo della viabilità perseguito e via via attuato dalla Chiesa romana nel XII secolo»; e ancora: «Il
possesso di Acquapuzza permetteva uno sgravio notevole delle spese per il trasporto sia del pesce che
dei prodotti agricoli tratti dalle aree coltivate. La famiglia Caetani [con l’acquisizione di Acquapuzza,
Zenneto e Campo Lazzaro] realizzava nel contempo il controllo della viabilità pontina: la via
pedemontana, la via Marittima e la via dei pescatori, questa da un lato si ricongiungeva con l’Appia e
dall’altro giungeva al porto di Badino o a Terracina; si configurava quindi come la più importante via di
1367
713
Carlo Ciucciovino
suoi funzionari, restaurano gli ordinamenti di Popolo e giurano fedeltà alla Chiesa,
accettandone il dominio. Il 26 agosto vengono riammessi in città Giovanni di Trevi e gli eredi
di Giordano di Norma.135
Alatri, Veroli e Ferentino. Verso il 1360 Ferentino è stato occupato da Giovanni e Bello
Caetani. Poco dopo, i cittadini assediano la rocca dove è asserragliato Bello e lo costringono
alla resa. Il legato manda sue truppe a presidiare la città e il podestà viene scelto dai suoi
funzionari ecclesiastici. Nel 1361, Roma ha cercato di imporre ad Alatri e Veroli di eleggersi
podestà tra i Romani. Roma combatte i voraci baroni della provincia136 e i cittadini
preferiscono le mani di Roma agli arbitri dei baroni.137
Le Costituzioni Egidiane sono rimaste lettera morta in queste regioni finché, nel 1363,
non vengono pubblicate ad Ancona, Fermo e Viterbo le Constitutiones adjectae. Le costituzioni
annullano i privilegi che non sono d’origine pontificia, cancellano gli atti dei comuni emessi
da funzionari che non sono stati eletti dalla Chiesa, e l’autonomia comunale è soggetta
all’approvazione degli statuti da parte del Rettore. I comuni possono stabilire leghe tra loro
solo previa autorizzazione del Rettore. La giurisdizione d’appello è riservata al Rettore e
questo gli offre il mezzo per bloccare gli eventuali tentativi dei comuni di sottrarsi al suo
potere. Come conseguenza, viene imposto ad Alatri di consegnare Trevigliano, Torre e
Collepardo ed a Veroli di consegnare il castello di Ripi. Veroli ed Alatri tentano di opporsi,
appellandosi alla curia del Rettore e la vertenza si trascina e, nel 1365, i castelli non sono
ancora tornati nelle mani della Chiesa. A Ferentino un moto popolare porta al ferimento del
notaio Angelo Bavoso di Piperno e, il popolo scatenato, al grido di «Moriatur ser Bellattus!»,
aggredisce l’ex podestà Bellatto di Montemurlo e lo uccide. Gli assassini verranno assolti in
ottobre, con il pagamento di soli 140 fiorini. L’insurrezione scoppia nell’estate del 1366, essa
viene giustificata con il governo oppressivo del Rettore Giovanni Guidotti di Pistoia, ma il
motivo reale è il tentativo di difesa degli antichi diritti contro le pretese della Chiesa. Si
stringono in lega Ferentino, Alatri, Veroli, Frosinone, Monte San Giovanni, Bauco, Torrice,
Ripi, Guarcino, Vico, Collepardo, Trevigliano. Viene distrutta la rocca pontificia di Ferentino
e il suo archivio dato alle fiamme. Vengono aggrediti i castelli fedeli alla Chiesa, Fumone,
Anticoli, Porziano, Castro, Ceprano, Pofi; Pofi viene conquistato e costretto ad entrare nella
lega. Un tentativo di pacificazione viene portato avanti in autunno dal canonico di Veroli,
Giovanni Boccaccio, che illustra a Urbano V le ragioni dei ribelli e le sopraffazioni del Rettore.
Urbano gira la questione all’Albornoz, avvertendolo che se il Rettore fosse colpevole, sarebbe
comunque raccomandabile non rimuoverlo, ma sostituirlo con il suo vicario. Solo nel giugno
del ’67, con il pontefice in Italia e con Albornoz con un piede nella fossa, il Rettore viene
sostituito di fatto con Pietro Gambacorta, che prende il titolo di Riformatore della provincia.
Pochi mesi dopo, in agosto, la rivolta appare completamente domata.138 Il comune ed il
popolo di Ferentino vengono assolti il 22 febbraio 1368 dal nuovo rettore Ugo Bonvillar,
perché perdonati da Urbano V il 5 febbraio di questo anno.139
Segni non ha partecipato alla rivolta generalizzata, in quanto già privata delle sua
autonomia da quando, nel 1361, se ne è appropriato Pietro di Giovanni Conti. Quando però
l’autorità pontificia viene ristabilita in Campagna, grazie specialmente all’opera di Pietro
comunicazione tra le peschiere e la via che portava a Roma». CACIORGNA, Assetti del territorio e confini in
Marittima, p. 62 e 63-64.
135 FALCO, Campagna e Marittima, p. 638-639. Su Sezze, anche se solo fino a metà del Trecento, si veda
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Gambacorta e di Ugo di Bonvillar dal 1367 al 1370, in qualche modo, del quale ignoriamo i
particolari, la città viene strappata ai Conti.140
Mentre la Chiesa cerca di riprendere il controllo del suo dominio, altre contese
serpeggiano nel territorio, una per tutte: la rivalità tra Onorato Caetani, primogenito di
Nicola, signore di Sermoneta e conte di Fondi, con il suo parente Giovanni Caetani, signore di
Ninfa. La contesa generata da questioni di confine e forse aggravata da incomprensioni
familiari, si trascina a lungo ed a nulla valgono i reiterati tentativi del papa di portare la pace
tra il 1366 e il 1368.141
144 Anche PELLINI; Perugia; I; p. 1027-1028, ci racconta del passaggio di Rinaldo Orsini a Perugia. Egli è
colui che designa l’arcidiacono del duomo di Perugia, e si atteggia a protettore della città alla corte
pontificia. Viene accolto fin fuori le mura dai dignitari della città e da molta parte della popolazione, ed
onorevolmente scortato al Palazzo del Governatore ed al Vescovado.
145 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1367, vol. 4°, p. 6, nota 1.
146 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1367, vol. 4°, p. 6, nota 1 che nomina Andrea de’ Bardi,
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all'accordo con Siena sul porto di Talamone.147 La missione fiorentina non fa che ribadire le
relative, e distanti, posizioni negoziali di Urbano e di Firenze, gli ambasciatori tornano nella
loro città, dove intanto ha assunto il gonfalonierato Luigi Aldobrandini per la quarta volta, ed
è entrato nell'ufficio di capitano del popolo il Fermano messer Giovanni Giustiniani, che già
ricoprì questa carica 15 anni or sono. Il risultato dell'ambasceria viene discusso in consiglio,
ma questo si divide tra la parte dei Ricci che non vogliono la lega, e quella degli Albizzi che
ne sostengono la necessità; l'esito è una impasse che impedisce qualsiasi iniziativa politica in
proposito.148
147 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1367, vol. 4°, p. 6, nota 1. VELLUTI, Cronica, p. 244, STEFANI,
Cronache, rubrica 701 afferma di essere stato a Roma quando vi erano gli ambasciatori Niccolò degli
Alberti, Uguccione di Ricciardo Ricci, Matteo di Federico Soldi, proveniente dal regno di Napoli con la
regina Giovanna ed incaricato di portare alla Signoria messaggi scritti e verbali degli ambasciatori.
148 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1367, vol. 4°, p. 6-13 e nota 1 a pag. 10.
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Costantinopoli il 4 settembre. Il conte si installò nel Corno d'Oro a Pera. Dopo aver parlato
con l'imperatrice Elena Cantacuzeno, inviò una galea con alcuni suoi cavalieri a parlamentare
col re bulgaro. Quando le cattive condizioni del mare costrinsero la galea a rientrare, Amedeo
in persona si decise a ripartire il 4 ottobre per il Mar Nero. Durante il suo viaggio, si garantì il
ritorno prendendo d'assalto, e stabilendo un presidio in molte località: Sozopoli, Anchialo,
Mesembria. Il 25 era davanti a Varna, ma non sbarcò. Inviò invece un'ambasceria al sovrano
bulgaro. Ne facevano parte Paolo, il patriarca latino di Costantinopoli, Giovanni di
Fromentes, Alebret de Boemia, Ginot Ferlay. Le trattative si prolungavano ed Amedeo si
dispose a svernare a Mesembria. A metà dicembre finalmente arrivò qualche promessa da
parte di re Shishman sulla liberazione di Giovanni. Freddo, noia, malattie furono il contorno
di questo lungo soggiorno in una terra ostile. Ogni giorno che passava si riducevano le
possibilità di portare a compimento l'impresa gloriosa, si assottigliavano le risorse
economiche, si debilitavano nella forza e nel morale i guerrieri che avevano accompagnato il
giovane avventuroso conte. Il Natale a Mesembria fu triste e nostalgico. Finalmente, il 23
gennaio, Giovanni Paleologo venne liberato. Grandi accoglienze, Giovanni tornò nella sua
città mentre Amedeo attese fino a marzo, per ottenere la liberazione di Antonio Visconti, un
bastardo di Bernabò, imprigionato ad Aidos. Dopo aver minacciato l'uso delle armi, in marzo
Antonio venne liberato e tutta la piccola armata fece ritorno a Costantinopoli, dove arrivò l'8
aprile. Ma ormai il sogno della crociata era svanito. Qualche piccola spedizione militare nei
dintorni, ma già pensando al ritorno: i quattrini erano finiti, la gloria non era mancata, le
imprese guerresche sono tutte state coronate dal successo, la nostalgia era però grande;
tratteneva il conte solo la conclusione delle trattative intraprese con Giovanni per l'unione
delle Chiese. Il giovane conte sabaudo si conquistò la fama di grand’uomo giusto con un
divertente episodio: uno dei suoi cavalieri, un giovane per il quale Amedeo nutriva grande
affetto, venne sorpreso a letto con la figlia del suo ospite. I Greci reclamavano a gran voce
giustizia. L’imperatore al quale Amedeo inviò l’intemperante cavaliere perché amministrasse
giustizia, non se la sente di condannare un commilitone di colui che l’ha liberato dalla
prigionia, e lo rinviò al Conte Verde. Con grande apprensione, Amedeo si informò su quale
punizione prevedesse l’uso locale per l’adultero. Ma, con gran sollievo apprese che la pena
era il disonore, testimoniato dalla pubblica rasatura. Con gioia, il conte fece apprestare un
palco nella piazza prospiciente Santa Sofia, qui fece accomodare su una sedia il focoso
giovane e gli fece tagliare la barba da un barbiere, invece che la testa da un boia.
Finalmente, Amedeo ottiene dal riconoscente Giovanni la promessa che egli,
personalmente, si sarebbe recato dal papa ad abiurare la sua fede ortodossa, ed allora il 10
giugno si poterono salpare le ancore e intraprendere il gioioso viaggio di ritorno.
Il 14 la flotta fu di fronte a Gallipoli, dove si raccolsero i Sabaudi e si cedette la guardia
della città alle truppe di Giovanni Paleologo. Questi non la conservò a lungo: quando Murad I
gli intimò di restituirla, il basileus, pavidamente, eseguì. Quando, il 22 giugno, la flotta arrivò
a Negroponte, molti cavalieri lasciarono la spedizione per aggregarsi a quella del re di Cipro,
Pietro di Lusignano, in Caramania. Tra questi Antonio di Savoia, bastardo di Amedeo, e
Florimondo di Lasparre. A Corfù Amedeo apprese del ritorno del papa in Italia, ed egli inviò
un messaggero a Viterbo. Dopo aver risalito tutto l'Adriatico, finalmente il 29 luglio approdò
a Venezia.152
Così Bruno Galland commenta l’avventura del conte: «Amedeo VI non è riuscito soltanto
a riconquistare qualche fortezza. Egli ha dimostrato al Paleologo l’interesse di una
COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 140-151 e D’ORVILLE JEAN, Chronique de Savoie, p. 204-218. Un
152
buon sommario dell’origine e sviluppo della crociata in questi anni in GALLAND, Les papes d’Avignon et la
maison de Savoie, p. 201-207. Un sintesi in COGNASSO, Savoia, p. 161-162. Si possono anche consultare
CIBRARIO, Savoia, III, p. 192-204; BERTOLOTTI, Savoia, p. 75; PARADIN, Chronique de Savoye, p. 240-247.
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La cronaca del Trecento italiano
collaborazione militare tra Greci e Latini, e nel tempo stesso è riuscito a preparare la sua
sottomissione al papa».153
Osserva Catherine Asdracha: «le attività di Amedeo, fervente partigiano della crociata
contro i Turchi, non erano prive di secondi fini miranti alla conclusione dell’Unione [tra
Chiesa Cattolica ed Ortodossa], visto che si portava appresso, in qualità di emissario del
pontefice, l’ex arcivescovo latino di Smirne, Paolo, di recente promosso patriarca latino di
Costantinopoli».154
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Carlo Ciucciovino
«dopo essersi egli [papa Urbano] vie più accertato dell’innocenza e pietà di tal servo di Dio, e
dopo aver solennemente pontificato in quella chiesa cattedrale,» ammise «esso e che i detti
suoi seguaci alla solenne professione, avendo preventivamente fatte fare sessanta159 tonache e
sessanta cappucci a spese della Sede Apostolica, delle quali furono da esso colle proprie mani
vestiti tutti quei che erano presenti. […] Tale fu l’approvazione fatta in Viterbo dell’Ordine
del B. Giovanni Colombino».160
Giovanni Colombino, o meglio, chiamandolo con il suo cognome originale, Giovanni
Strozzavacche, è nato a Siena nel 1304, da una famiglia nobile. La famiglia ha assunto l’attuale
nome Colombino all’inizio del Duecento. Molto giovane, Giovanni si iscrive all’arte della lana
e si dedica al mestiere di famiglia, il commercio dei panni di lana, con notevole successo. Egli
converte il denaro ricavato dalla sua operosità in terre e fabbricati, la sua reputazione si
consolida ed egli, in più occasioni, ricopre incarichi di governo ed è membro del consiglio del
popolo e Priore. Nel 1343 sposa Biagia Cerretani, ben dotata con 500 fiorini; la donna gli
genera due figli. Giovanni è uno spirito religioso, ma sembra voler vivere questo suo
sentimento nell’ambito della vita laica comune, ed anzi, la sua fede non gli vieta di esercitare
l’usura e la sopraffazione. Poi, nel 1353, una pia lettura, la Vita di Santa Maria Egiziaca, segna
una svolta nella sua esistenza: egli riflette sull’origine del suo benessere, ne constata il fascino
sulfureo e decide di restituire ciò che considera illecito guadagno. Egli si dedica, insieme a sua
moglie, con la quale ha fatto ora voto di castità, alla visita ed all’assistenza dei poveri e malati.
La Provvidenza gli fa incontrare il certosino Pietro de’ Petroni che lo persuade a trarre alle
estreme conseguenze la sua nuova scelta di vita: dona tutti i suoi beni, garantendo alla moglie
Biagia una rendita annua, e, accompagnato dall’amico Francesco Vincenzi, lascia la casa e si
dedica ad una vita di povertà, preghiera e penitenza con atti di carità attiva. La teatralità dei
suoi atti richiama intorno a lui molti seguaci, che vengono accolti con una cerimonia che
ricorda l’ordinazione a cavaliere, ma il cui carattere è l’umiliazione di fronte a tutti. Nel 1361,
sua cugina Caterina si converte alla stessa scelta e riunisce intorno a lei un gruppo di donne.
Si può ben immaginare come il ceto sociale a cui Giovanni è appartenuto giudichi la sua
opera che costituisce un monito costante al loro stile di vita ed alla fonte dei loro profitti. La
logica conclusione è che le autorità comunali deliberano nel 1363 la condanna di Giovanni e
dei suoi seguaci all’esilio. Egli lascia Siena con 25 compagni e si rifiuta di tornarvi anche
quando la città, colpita da un’epidemia, lo vorrebbe nuovamente accogliere. Il gruppo di
Giovanni, i cui membri vengono sempre più spesso definiti “Gesuati” dal nome del Salvatore
che nominano spessissimo, fanno una predicazione itinerante nelle città dell’Umbria e della
Toscana ed ottengono l’appoggio del vescovo d’Arezzo, Buoso Ubertini, e del Vescovo Buccio
Bonori di Città di Castello. È nella natura umana che il successo dei Gesuati provochi l’ostilità
dei Francescani e dei Domenicani; Giovanni avverte con dolore le critiche ed, approfittando
dell’arrivo del papa in Italia, decide di incontrarlo per ottenere la sua approvazione. Malato,
Giovanni non riesce ad incontrare Urbano, ma invece ci riesce Francesco Vincenzi, che ottiene
il primo riconoscimento formale del papa. Una successiva inquisizione pontificia, affidata al
domenicano Guglielmo Sudre, ne attenua il carattere di estrema povertà e la pone sotto la
protezione del cardinale Anglico Grimoard.
Ottenuto il consenso papale e stabilite le nuove direttive per il movimento, Giovanni
lascia Viterbo verso Siena, dove la situazione richiede la sua presenza perché l’attenuazione
dei principi originali raccomandata dall’inquisizione, sta provocando defezioni tra i suoi
seguaci. Giunto ad Acquapendente, la sua salute precipita. Qui, il 26 luglio 1367, detta il suo
testamento spirituale che sottolinea l’ortodossia del suo insegnamento e la fedeltà alla Chiesa,
e il 31 luglio chiude gli occhi al mondo. Il suo corpo fu portato a Siena e sepolto nel
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La cronaca del Trecento italiano
161 A. M. PIAZZONI; Colombini, Giovanni, beato; in DBI, vol. 27°. Anche sua cugina Caterina è stata
beatificata. GIONTELLA, Tuscania attraverso i secoli , p. 132 dice – erroneamente – che a Tuscania papa
Urbano riceve Giovanni Colombino. Sulle ultime ore del beato, si veda FOLIGNO, Abbadia S. Salvatore, p.
68-69.
162 COMPAGNONE, Reggia picena, p. 252.
163 Cronache senesi, p. 615. Nessuna fonte della rivolta di Viterbo menziona la presenza di questi armati.
O v’erano e non sono stati citati, ma in questo caso appare altamente improbabile che lasciassero il
proprio servizio il giorno 6 settembre, nel momento più delicato della crisi, oppure erano in viaggio per
rientrare nella loro città dove sono presumibilmente entrati appunto il 6. Se è così, Siena si rivelò
incomprensibilmente lenta nell’inviare nuove truppe, giunte l’11, a sedizione domata.
164 SERCAMBI, Croniche, p. 132.
166 Monumenta Pisana,col. 1047 e MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 739. Qualche discordanza sui casati
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Carlo Ciucciovino
hanno ricoperto cariche importanti nel comune, mercanti della lana, una media borghesia
ricca di commerci e terre, giuristi e giudici. Il problema è che, almeno all’inizio, Giovanni è
stato eletto al dogato impegnandosi a ricoprire la carica per un tempo limitato e scegliendo il
suo successore tra le famiglie ora ricordate. Ma le cose sono mutate, ora vuole essere doge a
vita, non solo: vuole tramandare il potere ai suoi figli ed eredi. È a tutti gli effetti l’inizio di
una signoria. Che senso ha allora questo ordine nobiliare appena istituito, esso fa
l’impressione di un club di sodali, il circolo dei compagni della prima ora, ai quali saranno
concessi benefici ed onori piuttosto che ad altri. Ma non basterà, come vedremo.168 Ora che la
discesa in Italia di Carlo imperatore è divenuta certa, Giovanni dell’Agnello fa quanto può
per ingraziarselo: in agosto invia una ambasceria di Lucca e di Pisa a «chiedergli perdono di
aver osato nominarsi un doge», sollecitando inoltre la concessione della carica di vicario
imperiale al dell’Agnello. Carlo reagisce, per il momento, lanciando l’anatema imperiale su
Lucca e Pisa, ma mostrando il suo gradimento per la delegazione inviatagli da Giovanni,
concedendogli il titolo di vicario imperiale per sé e per i suoi figli.169
Il doge Giovanni dell’Agnello, ottenuto il potere, ritiene di poter governare senza dover
attribuire un ruolo dominante ai Raspanti, grazie ai quali ha preso la signoria. È pur vero che
ha già visto i primi segni di slealtà nei suoi confronti, in occasione della votazione per
ricercare l’alleanza con i Visconti, gli appare quindi necessario ricercare un’altra base di
potere. A tal proposito scrive Tangheroni: «Sercambi, che lo aveva qualificato con un "solea
esser mercatante", deride i Pisani che avevano creduto alle sue promesse; ed aggiunge che, se
è vero che come antico mercante il nuovo doge avrebbe dovuto mantenere gli impegni
assunti, secondo l'etica propria di questo ceto, è pur vero che "in nelle signorie non c'è
nessuno che voglia non che maggiore ma compagno in nella signoria", cogliendo bene
l'ispirazione, e anche il limite, della politica del Dell'Agnello». Anche la nomina della “casata
dei Conti”, nella quale hanno gran parte i Raspanti, è colma di significato simbolico, ma priva
di conseguenze pratiche. In qualche modo, Giovanni si deve convincere che si può fidare solo
della lealtà di stirpe e cerca l’ereditarietà del dogato e si appoggia su suo nipote Gherardo. Il
doge cerca di consolidare la sua figura istituzionale dotandosi dei segni esteriori del potere:
belle vesti, cerimonie, un bel palazzo. Il punto di non ritorno è segnato dall’ordine agli
Anziani di abbandonare il loro palazzo e dal suo insediamento al loro posto.
Giovanni cerca di avvicinarsi ai Bergolini, concedendo a molti di loro, ma non al
Gambacorta, di poter rientrare in Pisa; non riesce però a risultare totalmente convincente ed
inoltre, con tale atto, si inimica i Raspanti. Come se non bastasse, il doge deve aumentare le
tasse e ciò gli procura una diffusa impopolarità. 170
171 Bonriposo o Buon Riposo è una villetta fatta edificare fuori Viterbo dal tesoriere del papa Angelo
Tavernini. È mezzo chilometro a nord delle mura presso il convento di S. Maria del Paradiso. La villetta
viene demolita dalla furia popolare contro il Tavernini nel 1371. PINZI, Viterbo, III, p. 342 e nota 2 ivi.
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del suo viaggio, probabilmente il grande Spagnolo non ha mai messo piede nella sognata
Roma, e forse, per il suo bene, è stato meglio così, più dolce è idealizzare la sacra sede del
Cristianesimo e dell'Impero, che respirarne l'aria violenta e verificarne le condizioni di
decaduta grandezza.172 Il dolore del pontefice per la perdita del gran cardinale è forte: per due
giorni rifiuta visite ed evita di farsi vedere. La salma del gran cardinale viene trasportata ad
Assisi e tumulata nella basilica di San Francesco, nella cappella che Egidio stesso ha fatto
edificare nel 1362 da Matteo Gattaponi, ed affrescare dal Bolognese Andrea de’ Bartoli,
dedicandola a Santa Caterina.173 Il cardinale ha lasciato scritto nel suo testamento che, quando
le condizioni lo permettano, i suoi resti mortali siano trasportati a Toledo, «sempre che ciò
possa farsi in vita e senza scomodo di Lupo, arcivescovo di Saragozza, mio zio, e dei miei
fratelli Alvaro Garcia e di Fernando Gomez, conte di Montalbano, o di Gomez, figlio di Alvar;
altrimenti le mie ossa non si rimuovano dal convento di San Francesco in Assisi».174 Nel 1372
il nipote Fernando Gomez scorterà i resti di Egidio attraverso l'Umbria, la Toscana, la Liguria
e la Provenza, senza entrare nelle città, in lenta processione, tra l'accorrere di gente di ogni
ceto che disputa il privilegio di portare a spalla per un tratto la bara, guadagnandosi così
l'indulgenza plenaria che Gregorio XI ha concesso con bolla del 21 settembre 1371, a chi
compia la pia opera.175 Lo stesso re Enrico trasporta a spalla la bara del grande Spagnolo.
Egidio riposa nella cappella di Sant'Ildenfonso, nella cattedrale di Toledo.176
Il cronista orvietano dice d’Albornoz: «Il quale signore fu il più aventurato signore et il
più temuto et che più honore havesse di tutte le imprese che esso fece, che nullo che fosse
mai in questo paese per la Chiesa di Roma. Il quale col suo ardire acquistò per la Chiesa ciò
che era perduto dal mare di Ancona fino al mare di Corgneto, cioè la Romagna et la Marcha,
il Ducato et il Patrimonio: che tutti questi paesi erano occupati da tiranni, gentili homini delle
cittade di questi paesi».177 Ma ancor più lusinghiero è il giudizio del cronista di Bologna: «E fu
quegli che ci cavò dalle mani di quello da Milano con gran sudore e con gran fatica. E per
certo non si potrebbe scrivere appieno quello che meriterebbe l'onor suo».178
Il 25 agosto il consiglio generale di Orvieto decide di eleggere per suo signore il pontefice
in persona. Gli ambasciatori che vanno a comunicare la deliberazione ad Urbano V sono
quattro Monaldeschi, il conte Ugolino della Corbara ed otto popolari.179
Visto che la città riferisce ormai solo al pontefice, verso la fine dell’anno, l’8 dicembre, il
papa sottrae Orvieto dal Patrimonio di San Pietro.180
172 FILIPPINI, Albornoz, p.. 404-405 e nota 3 a p. 405; Diario del Graziani, p. 204. L’epigrafe dell’Albornoz è
in COMPAGNONE, Reggia picena, p. 226. Anche Cronaca di Ser Guerrieri da Gubbio, p. 17 registra
laconicamente il decesso. Naturalmente AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1367, cap. 39 ne parla e dice: «e
fue muy noble omne, e de muy grand valor».
173 Il pittore ha ricevuto un compenso di 450 fiorini per l'opera. FILIPPINI, Albornoz, p. 416 nota 2. Filippini
nota anche che questo è il ritratto più autentico del grande cardinale, «già vecchio e canuto, ma con forte
testa e gli occhi espressivi sotto i ben pronunziati e folti archi sopraccigliari». Filippini aggiunge che «è
l’unica immagine contemporanea che si abbia dell’Albornoz, eseguita per mano di un pittore che lo
conobbe in vita». Ibidem, p. 416-417.
174 FILIPPINI, Albornoz, p. 416.
179 Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 91-92; MONALDESCHI MONALDO, Orvieto, p. 113
recto e verso. Il documento è in FUMI, Codice diplomatico della città d’Orvieto, p. 546-549, Doc. 683.
180 FUMI, Codice diplomatico della città d’Orvieto, p. 549-550, Doc. 684.
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(Frimbruifurdie) un convegno generale dei suoi nobili, per preparare il viaggio ed annunciare
loro che la discesa nella penisola è prevista per maggio del ’67. Poi, essa è progressivamente
slittata all’anno successivo ed ora è prevista per il settembre del ’68. Messi si spargono
dunque in tutte le corti italiane e non solo, per preparare la discesa di Carlo IV, chiarendo che
essa è tesa ad affermare, con la propria presenza, il sostegno al rientro in Italia di Urbano VI. I
Fiorentini, come sempre atterriti dalla venuta imperiale, premono sul pontefice assicurandolo
che basteranno loro a garantire la sicurezza del pontefice. Non si capisce come farebbero
senza assoldare quelle male compagnie, che sono la primaria fonte di preoccupazione del papa.
Allora Urbano accetta, ma volpescamente chiedendo che Firenze dimostri la sincerità delle
sue affermazioni, aderendo alla lega da poco perfezionata. Firenze «trovò so’ scuse assai
frivole». Il giorno di Domenica delle Palme del 1368, il 2 aprile, ascoltata messa, Carlo IV si
muove da Praga al comando di un temibile esercito di Alemanni, «la nomenanza di quali
allora era grande in facto d'arme». Carlo esce solennemente, con l'elmo in capo, cinto di verde
alloro, e con la spada sguainata.181
184 GRIFFONI, Memoriale, col. 181; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 216; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p.
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189 PINZI, Viterbo, III, p. 344-351, Pinzi registra la gratitudine del papa per Siena; SCRIATTOLI, Viterbo nei
suoi monumenti, p. 212-213; BUSSI, Viterbo, p. 204-206; PELLINI; Perugia; I; p. 1031-1033, Diario del Graziani,
p. 205-207; DELLA TUCCIA, Cronaca di Viterbo, p. 35; D’ANDREA, Cronica, p.96-98.
190 AMIANI, Fano, p. 291.
191 FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 243, nota 13. Sulla partenza dell’esercito inglese si veda il
dice che la regina paga 60.000 fiorini per il riscatto del marito, comunque i Diurnali, fino al 1370 sono
scarsamente credibili.
194 CARRARA, Scaligeri, p. 205-206.
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196 CORIO, Milano, I, p. 817, Annales Mediolanenses, col. 736-737; FILIPPINI, Albornoz, p. 396; CAMERA,
Elucubrazioni, p. 263-264 e 405; FARAGLIA, Diurnali, p. 7 pone la battaglia nel 1370, forse confondendo la
battaglia con la liberazione del Visconti; PELLINI; Perugia; I; p. 1018. Giovanni Malatacca è di Reggio
nell’Emilia e non di Reggio Calabria, come sembrano credere alcuni antichi autori (uno per tutti:
BOLANI, Reggio Calabria, p. 197). Egli è uno dei valenti condottieri italiani del tempo, è nato verso il 1315-
25 ed ha militato in molte regioni, ma la sua carriera è principalmente nel regno di Napoli, si veda la sua
biografia in STORTI, Malatacca Giovanni, DBI, vol. 68°. BONAFEDE, L’Aquila, p. 111 erra nel dire che la
compagnia è comandata dall’Acuto. Chiarisce che ai morti viene data sepoltura alla chiesa di S. Antonio.
197 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 529.
198 CORIO, Milano, I, p. 817-818; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, Lib. XV, p. 99.
199 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1366, vol. 3°, p. 319, nota.
200 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XII, anno 1366, vol. 4°, p. 319-320, nota.
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201 Il suo destriero era sfinito, ed ha preso in prestito il cavallo di montagna del suo scudiero Ruy
Fernandez de Gaona. Tra I suoi compagni di fuga v’è Ambrogio, il figlio dell’ammiraglio genovese Gil
Boccanegra. AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1367, cap. 13. Don Tello è fuggito prima a Burgos, per poi
andare in Aragona. AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1367, cap. 15.
202 La narrazione si discosta da quella di Froissart ed è desunta da ZURITA, libro 9, cap. 68 e segg. e da
AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1367, cap. 16, citati ambedue in nota a FROISSART, Chroniques, Lib. I,
parte II, cap. 240. La famiglia di Enrico è composta da donna Giovanna, sua moglie, dal figlio Giovanni
e da Leonora, figlia del re d’Aragona, promessa sposa a Giovanni.
203 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 240 e AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1367, cap. 33, 34 e
35.
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salvare almeno i suoi uomini. Per accumulare un po’ di denaro, vengono rilasciati su riscatto
molti Francesi prigionieri, tra cui Arnoul d'Audrehem, la Bègue de Vilaines, altri vengono
scambiati con gli Inglesi prigionieri, come Thomas de Felton, Richard Tanton e Hugues de
Hastings. Ma Bertrand du Guesclin non viene liberato, troppo è il timore che incute, e ora che
Enrico sta nuovamente guerreggiando, rilasciare Bertrand vorrebbe dire accrescere
pericolosamente le capacità offensive del nemico.204 Il soggiorno dura da troppo tempo, ormai
quattro mesi, e la dissenteria, favorita dalle precarie condizioni igieniche e dal caldo
dell'estate spagnola, ha seminato perdite tra le truppe che, pur reclamando il proprio denaro,
vogliono andarsene da quel luogo malsano. Si è ammalato anche Edoardo, e si è ripreso a
fatica, soffrirà per il resto della sua breve esistenza205 delle conseguenze di tale malanno.
Giacomo di Maiorca si è ammalato gravemente, ed è costretto a letto, senza potersi muovere.
Edoardo ricevuta la sgradita risposta di don Pietro, ordina di partire, confermando a tutti che
saranno pagati e che se Pietro non onorerà i suoi debiti, ci penserà Edoardo stesso. Giacomo
di Maiorca non può cavalcare, e non può neanche esser trasportato in lettiga, chiede di esser
lasciato lì e rifiuta una forte scorta armata, rimettendosi alla volontà di Dio.
A settembre l'esercito si mette in marcia e dopo qualche giorno giunge nella ben più
salubre aria di Soria, tra Navarra ed Aragona, qui sosta, cercando di assicurarsi il transito
sicuro attraverso i pericolosi passi dei Pirenei. Edoardo trascina con sé il prigioniero Bertrand
du Guesclin. Le umilianti trattative col re d'Aragona206 durano un mese, finalmente viene
stipulato un trattato, firmato a Tarazone, sulla frontiera della vecchia Castiglia, secondo il
quale non solo viene concesso il passo, ma il re d'Aragona accetta l'alleanza con gli Inglesi e
Pietro di Castiglia. L’esercito inglese percorre le stesse vie che ha calcato arrivando in
Castiglia, scortato onorevolmente da Carlo di Navarra. L'esercito passa ordinatamente e
sicuramente, pagando tutti i viveri di cui si approvvigiona durante il viaggio. Arrivato a
Bayonne, Edoardo scioglie il suo esercito e, dopo cinque giorni di permanenza va a Bordeaux,
dove viene solennemente ricevuto. Finalmente, Edoardo può riabbracciare la sua sposa e il
suo figlioletto di tre anni. Tutti i signori e tutte le compagnie si sbandano, trovando ognuno la
propria destinazione, con la promessa di pagamento in tasca.
Edoardo di Galles avrà senz’altro fatto un bilancio di questi recenti sei mesi della sua
vita: ancora una volta la vittoria gli ha arriso sul campo di battaglia, la gloria ha nuovamente
circonfuso il suo capo, ma questa è l’unica voce che può scrivere all’attivo, al passivo c’è il
fatto che ha combattuto per un uomo che si è rivelato sleale e non cavalleresco, ha investito
un capitale enorme nell’impresa e difficilmente potrà vedere ripianati i suoi crediti, in sua
assenza i suoi nemici gli hanno strappato alcuni territori, infine egli si è ammalato e non
riesce a recuperare la salute e le forze.207
Anche il re di Francia è preoccupato dalla temporanea fine del conflitto in Spagna ed egli
incarica Jean d’Armagnac di assoldare alcune delle compagnie di ventura liberate dalla fine
della guerra. Il principale negoziatore per le compagnie è Berard d’Albret. Molti dei
mercenari rientrati dalla Spagna, via il Massiccio Centrale, tornano a tormentare la Francia.
Castiglia, che, al momento della sua potenza, non gli ha consegnate, adducendo l’irritazione dei
Castigliani per questo trasferimento, e che, ora, non può certo più dargli. Il re don Pedro d’Aragona
decide di rompere la promessa di nozze tra sua figlia Leonora e il figlio di Enrico, Giovanni, e di
accostarsi a don Pietro di Castiglia e al principe di Galles. AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1367, cap. 16.
207 FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 221-222; MINOIS, Du Guesclin, p. 320-321. VALDEÓN, Pedro el Cruel y
Enrique de Trastámara, p. 185 scrive che il motivo principale che ha costretto Edoardo a lasciare la terra di
Spagna è stata l’incapacità di re Pietro I ad onorare gli impegni di Libourne. Chandos Herald in BARBER,
Life and Campaign of the Black Prince, p. 132-134.
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Nell’autunno iniziano le loro scorribande nel Limosino. Molti altri mercenari rimangono in
Aquitania e di qui tormentano la Borgogna.208
Enrico Trastámara, ora che Edoardo è tornato in Aquitania, non può più trattenersi a
Bagnares, senza esservi intrappolato, inoltre ora l’odiato Pedro El Cruel non può più contare
sulla forza inglese. L'isolamento del principe di Galles, e la freddezza tra questi e don Pietro
di Castiglia non può che rinfocolare la speranza nel seno di Enrico Trastámara. Questi sa
anche che molti dei baroni di Edoardo sono ora a Parigi, cercando di negoziare il loro
passaggio al campo avverso. È il momento giusto per riprendere l'iniziativa: con 3.000 cavalli
e 6.000 fanti, tra cui un buon numero di fanti genovesi, cavalca verso la Spagna. Enrico, con
l’aiuto del duca d’Angiò, ha assoldato 400 lance e conduce con sé un fratello illegittimo di
Gaston Phebus, conte di Foix, e, attraversata la contea di Foix e la Val d’Aran,209 passa
arditamente i Pirenei. Il re d'Aragona gli sbarra il passo mandandogli contro un forte
contingente d'armati, ma costoro, che servono malvolentieri contro il popolarissimo Enrico, lo
lasciano tranquillamente uscire da Huesca, ed arrivare sulle rive dell'Ebro, incolume ed
incontrastato.210 Trastámara arriva nelle terre dello zio di re Pietro d’Aragona. Con lui vi è il
cronista Ayala che ci informa con accuratezza delle mosse del re bastardo. Il 28 settembre il
piccolo esercito passa in Castiglia. A Calahorra viene raggiunto da cavalieri castigliani; le sue
forze aumentano di giorno in giorno. Arrivato a Burgos, la città gli apre le porte, rimangono
serrate solo quelle del quartiere ebraico ed Enrico ne approfitta per spremere ben bene gli
sventurati abitanti del ghetto. Ancora una volta, Enrico non ha rivali nel settentrione della
Spagna, mentre il meridione e Siviglia sono nelle mani del suo avversario e fratellastro re
Pietro.211
Julio Valdeón nota che vi sono zone favorevoli ad Enrico, non solo nella “meseta norte”,
nell’altopiano settentrionale, ma anche la città di Alburquerque nell’Estremadura e Cordoba
in Andalusia. Anche nella regione della Vizcaya il movimento pro-Enrico è forte.212
La città di Burgos gli apre le porte e analogamente fa la Val-d'Olif, dove è ancora a letto,
prostrato dalla malattia il povero Giacomo di Maiorca. È Enrico in persona che entra nella
camera dell'ammalato e lo esorta ad arrendersi, l'alternativa è la morte. Giacomo si dà
volentieri ad Enrico, a patto di non esser consegnato nelle mani del suo nemico mortale, il re
d'Aragona, che sicuramente lo ucciderebbe. Enrico si impegna a tenerlo sotto la propria
custodia e lo fa trasferire al castello di Cariol. Trastámara cavalca poi verso Leon, che gli si dà
prontamente, senza combattere.213
Ma, malgrado tutto, i re di Francia ed Inghilterra mantengono, almeno formalmente,
buoni rapporti tra loro, e, per Natale, Carlo V invia a Edoardo III diverse casse di formaggio
francese.214
208 FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 224-227. Chi sia interessato alle loro imprese le può leggere ivi alle
p. 227-239.
209 VALDEÓN, Pedro el Cruel y Enrique de Trastámara, p. 192 traccia il percorso di Enrico: valle d’Aran, zona di
Ribagorza, Estadilla, città di Barbastro e, finalmente, Huesca. Il 28 settembre mette nuovamente piede in
Castiglia.
210 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 242; MINOIS, Du Guesclin, p. 320-321
212 VALDEÓN, Pedro el Cruel y Enrique de Trastámara, p. 191. La riconquista di Enrico è tracciata ivi alle p. 191-
201.
213 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 246 e nota. MINOIS, Du Guesclin, p. 3
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La cronaca del Trecento italiano
tradimento dei Salimbeni che sono signori di quei luoghi, invia il suo esercito e riesce a
riprendersi Abbadia San Salvatore, ma non Piancastagnaio che rimane nelle mani del conte di
Pitigliano. Nel ’69 ne avrà la formale signoria, grazie alla pace conclusa con Siena.
Poco tempo prima, l’anno passato, il conte si è gravemente ammalato, tanto da
convincersi che fosse meglio testare. A suo figlio Roberto assegna la contea di Nola, a
Ramandello i castelli di Spinazzola, Tripalda e Lauro nel Napoletano, la contea di Pitigliano la
lascia a suo nipote Bertoldo, ignorando gli altri due nipoti Aldobrandino e Niccolò.215
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Carlo Ciucciovino
natalizie. A Nola si unisce al gruppo il conte Nicola Orsini, che ella ha conosciuto a Roma. A
Napoli, attraverso le sue conoscenze, il conte apre a Brigida le porte della corte della regina
Giovanna. La Santa rimane a Napoli circa due anni, da luglio 1365 a ottobre 1367. Brigida
conosce Lapa, sorella del gran siniscalco Nicola Acciaiuoli e, con un atto miracoloso, salva la
vita al figlio di Lapa, il decenne Esaù, malato di tubercolosi. Dal suo primo albergo, Brigida
ed il suo seguito si trasferiscono nel palazzo di Lapa, spesata di tutto. La santa è molto colpita
dal disordine morale che regna a Napoli, e dal frequente ricorso alle pratiche magiche.216
Come istruita dalle sue rivelazioni, Brigida esorta la regina a condurre una vita più
morigerata ed al rispetto dei comandamenti. Nel novembre del 1366, la santa va in
pellegrinaggio ad Amalfi a venerare le reliquie dell’apostolo Andrea, quindi torna a Napoli
dove soggiorna fino all’estate del 1367. Ad ottobre è già a Roma, dove si propone di
incontrare il papa.217
216 FROIO, Giovanna I, p. 112 riferisce un passo di una lettera di Brigida che, riferendosi al regno di
Napoli, scrive: «questo campo pieno di loglio bisogna estirparlo, poi purificarlo e quindi appianare con
l’aratro».
217 Basato sulla biografia di GIOVETTI, Brigida di Svezia, p. 70-88 e su quella di madre Tekla Famiglietti in
http://www.preghiereagesuemaria.it/santiebeati/santa%20brigida%20di%20svezia.htm. Per le
conoscenze della santa a Napoli, si veda VULTAGGIO, I sodalizi napoletani di Santa Brigida di Svezia, in
Santa Brigida, Napoli, l’Italia. UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaioli, p. 321-323 equivoca sui tempi,
mischia il miracolo di Esaù con la visita a Napoli prima di partire per la Terrasanta nel 1371-72.
218 Chronicon Estense, col. 488. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, Lib. XV, p. 100-101 scrive che Amedeo
207. Il comune di Fano stanzia 85 lire per un bacile di argento da regalare all’imperatore di Bisanzio
quando verrà in Italia, AMIANI, Fano, p. 291-292.
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La cronaca del Trecento italiano
d’Este stanno schierati in Piazza San Pietro, mentre Niccolò d’Este pone il cingolo di cavaliere a
sei gentiluomini italiani e sei tedeschi, o meglio cinque tedeschi ed un ungherese.220
Al corteo pontificio partecipano anche Nicolò Spinelli che è subentrato al defunto Nicolò
d’Alife nella carica di guardasigilli del regno, e Nicola Orsini, conte di Nola. Quest’ultimo rimane
poi a disposizione del papa come rettore del Patrimonio, mentre Spinelli torna a Napoli.221
220 PINZI, Viterbo, III, p. 351-352 e Chronicon Estense, col. 488-489. Quest’ultima riporta i nomi dei cavalieri:
Filippo dei Roberti di Reggio, Guido dei Manfredi di Reggio, Salvatico di Iriberia, Azzolino Malaspini,
Giovanni Cancellieri di Pistoia, Bartolomeo Fontana. I Tedeschi sono: Ermanno di Durinc, Federico Fent,
Arnoldo Axelbac, Enrico Habelbac, Zanes de Raier, Giorgio de Targa, Ungaro. FRIZZI, Storia di Ferrara,
vol. III, p. 342-343. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, Lib. XV, p. 101-102.
221 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 529.
222 Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 93. Il re di Cipro è passato per Lucca il 19 giugno;
224 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 218; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 213; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog.,
p. 213.
225 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 153-154.
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Bologna contro le mire aggressive di Bernabò, e le istanze dei Montefeltro cadono nel
vuoto.226
III d’Arborea,p. 100-103. Si veda anche ANATRA, Sardegna, p. 82. Con dettagli ZURITA, Annales de Aragon,
Lib. IX, cap. LXV, che dice che don Pedro si è riscattato dalla sua prigionia in Castiglia.
229 STEFANI, Cronache, rubrica 707.
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233 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1368, vol. 4°, p. 11, nota di Amm. il Giovane.
234 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1368, vol. 4°, p. 11, nota di Amm. il Giovane.
235 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1368, vol. 4°, p. 11-12, nota di Amm. il Giovane.
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Carlo Ciucciovino
per il riscatto e già il 26 gennaio del ’66 Firenze si lamenta perché soldati pisani sono avanzati
fino alla torre di San Romano, e, dopo una breve sosta, hanno ripiegato su Marti.236 Nel corso
dell’anno avvengono altre operazioni delle quali non conosciamo i dettagli, ma, il 29 maggio i
Priori di Firenze si rivolgono al comune di San Miniato ed al doge Giovanni dell’Agnello
perché venga restituito ciò che ognuno ha conquistato ai danni dell’altro e concludano la
pace. Tuttavia, lo stato di belligeranza non cessa e il 26 settembre Firenze si lamenta
nuovamente con Pisa perché sue truppe sono penetrate in San Miniato.
Contemporaneamente, denunciano ai Samminiatesi un trattato che è venuto a loro
conoscenza che potrebbe compromettere la loro libertà e li esorta ad accettare ufficiali e
truppe di Firenze. Il 2 ottobre 1366 rinnovano l’appello a non fidarsi del doge di Pisa. Segno
sicuro che Giovanni dell’Agnello è riuscito in qualche modo ad affascinare anche una parte
dei popolari. Le cose precipitano un anno dopo: il 22 settembre 1367 Lodovico de’ Mangiatori
e i figli di Rodolfo Ciccioni corrono la città, Firenze invia immediatamente le sue truppe, ma
l’intervento non è conclusivo anche perché la Signoria è costretta alle mezze misure, per non
inimicarsi San Miniato e, al tempo stesso, per non spingere Pisa a impugnare le armi contro
Firenze. I cittadini di San Miniato sanno bene che liberi non potranno essere, debbono solo
scegliersi il padrone. La maggioranza propende per Firenze. Il 27 ottobre i patti di San
Miniato con Firenze vengono firmati, ma il doge dell’Agnello scatena la sua forza, invia
truppe in città, che viene corsa e fatta segno di violenze. La proteste di Firenze a Pisa non
portano a nulla perché il doge fa mostra di credere che tutto ciò che sta avvenendo a San
Miniato sia colpa di fazioni interne. Realismo vuole che Firenze abbia le mani legate: o i
popolari di San Miniato reagiscono da soli, magari con l’appoggio di qualche forza fornita da
Firenze, o non c’è niente da fare se non si vuole guerra aperta. Un podestà inviato
volenterosamente da Firenze il 26 settembre, è costretto a tornarsene a casa il 9 gennaio
1368.237
236 San Romano è a sole 5 miglia ad occidente di San Miniato e Marti a meridione del primo.
237 CATUREGLI, Giovanni Agnello, p. 108-112 e SERCAMBI, Croniche, p. 133-134. Si ved anche RONDONI, San
Miniato, p. 148-150.
238 NESSI, I Trinci, p. 68; LAZZARONI, I Trinci, p. 50-54 descrive l’investitura. SENSI, I Trinci, p. 182-183.
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La cronaca del Trecento italiano
240 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 101-102; DATTA, I Principi d’Acaia, I, p. 216-218.
241 BENIGNI; San Ginesio, pag. 61; in COLUCCI; Antichità Picene, vol. XIX e MARIOTTI; San Ginesio; pag. CXCIII;
in COLUCCI; Antichità Picene, vol. XIX
242 GRIFFONI, Memoriale, col. 181.
243 Sull’arrivo dei vari cardinali a Bologna, si veda Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 215.
245 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 243, vedi anche la nota che riprende AYALA, Coronica del rey
don Pedro, 1367, cap. 18. MINOIS, Du Guesclin, p. 326, scrive: «L’atteggiamento di Du Guesclin è peraltro
conforme al suo ambiente: la nobiltà guerriera ha il gusto della furfanteria e dell’azione che colpisce, che
giunge alla provocazione. E’ in questo spirito che Robert Knollys ha fatto scrivere sulla sua corazza:
1367
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Carlo Ciucciovino
§ 64. Le arti
Barnaba da Modena dipinge un Madonna con Bambino ora all’Istituto Staedler di
Francoforte. L’opera è firmata e datata.251
All’incirca quest’anno, Lorenzo Veneziano dipinge l’Annunciazione che è oggi alla
Galleria dell’Accademia. Nicoletto Semitecolo dipinge le Storie di San Sebastiano a Padova. Il
“Qui Robert Canolle prendra, cent mille moutons gagnera” (Chi prenderà Robert Knollys, guadagnerà
100.000 lire d’oro)». Il racconto di come venga fissato il riscatto del Bretone e del suo pagamento è in
MINOIS, p. 322-330 ed ha il sapore di un racconto cavalleresco.
246 La Seniles, VI, 2.
248 La Seniles, X, 2.
249 HATCH WILKINS, Petrarca, p. 246-253; DOTTI, Petrarca, p. 390; BRANCA, Boccaccio, profilo biografico, p. 154-
157.
250 FRANCESCHINI, Malatesta, p. 138-139.
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La cronaca del Trecento italiano
Veneziano Nicoletto Semitecolo firma e data alla fine del 1367 alcune tavole nella Sacrestia dei
Canonici del Duomo di Padova, dove appare aver recepito e meditato la lezione del
Guariento del Paradiso.252 Nicoletto è un “minore”, ma Longhi giudica Semitecolo «il più vivo
tra gli artisti locali della seconda metà del Trecento».253 Vittorio Sgarbi osserva che «C’era un
vasto clero locale, le esigenze estetiche del quale non contemplavano le raffinatezze forbite
degli ambienti cortesi […] ma si limitavano a una sana e “popolare” richiesta di decorum,
senza troppe speculazioni intellettuali, senza ulteriori distrazioni alla contemplazione
religiosa. È questo il terreno su cui Semitecolo si muove a proprio agio, tanto più
credibilmente se venisse confermato il suo status clericale».254
Nel 1367, Bartolo di Fredi firma e data le Storie del Vecchio Testamento che fanno fronte,
nella Collegiata di San Gimignano, a quelle del Nuovo Testamento eseguite da “Barna da
Siena”, ovvero da Lippo e Tederigo Memmi. Egli si riallaccia all’insegnamento dei Lorenzetti,
ma «restando molto al di sotto dei risultati di una logica chiarezza compositiva e spaziale cui
erano improntate le opere di Lippo Vanni. […] Bartolo dà vita a figurazioni improntate ad un
grottesco favoloso e stravolto, dense di accentuazioni naturalistiche, di notazioni espressive e
caratterizzanti che preannunciano il gotico internazionale».255 L’opera è molto più modesta di
quella di “Barna”, ma possiede il proprio carattere, scrive Frederik Antal: «Le figure di
Bartolo di Fredi […] sono disegnate incisivamente, frontali, ornamentali e piatte, ma allo
stesso tempo come ritagliate fuori dal legno o dal metallo, goticheggianti».256 Molto severo,
forse troppo, è Pietro Toesca che afferma: «Negli affreschi dell’Antico Testamento nella pieve
di S. Gimignano si provò a continuare il Barna senza averne il senso drammatico, e vi lasciò
composizioni spesso puerilmente slegate o farcite di particolari indifferenti».257
Andrea Orcagna e suo fratello Jacopo di Cione dipingono la pala di San Matteo agli
Uffizi. Andrea Orcagna in Orsanmichele diventa archimagister dell’opera, con molti aiuti, tra i
quali Matteo di Cione, suo fratello, che, nel 1359, lavora con lui ad Orvieto. Nel 1359 il
tabernacolo di Orsanmichele è presumibilmente già completato. La balaustra a trafori di
bronzo è del 1366.258 Il Transito e l’Assunzione della Madonna del 1359 è uno dei punti più alti
della scultura dell’Orcagna, ammirato dal Ghiberti. Nelle figure, a destra, vi è il presumibile
autoritratto dello scultore.259 Orcagna influenza anche gli artisti che, nel 1360-1363, cesellano
l’altare in argento di San Jacopo di Pistoia e il fronte dell’altare del Battistero di Firenze
(quest’ultima opera viene iniziata nel 1366). Tra loro vi è Francesco di Nicolò di Firenze ed un
suo aiuto è Leonardo di Ser Giovanni, il quale, nel 1367-1371, modella il lato destro dell’altare
nel Battistero con la Leggenda di S. Jacopo. Il fronte dell’altare del Battistero di Firenze viene
iniziato nel 1366 da Betto di Geri e Leonardo di Giovanni e proseguito poi nel 1377 dal solo
Leonardo di Giovanni, con aiuti.260
252 LUCCO, Pittura a Venezia, p. 186. Le tavole sono Storie del martirio di San Sebastiano e altre immagini sacre,
in tutto 8 tavole, oggi al Museo Diocesano di Padova. VITTORIO SGARBI, Un veneziano nella Padova
“postgiottesca”: Nicoletto Semitecolo; in Giotto e il suo tempo, p. 187-188, sulla scorta delle ricerche di Serena
Skerkl Del Conte, qui traccia la “carriera” del Semitecolo, apprezzato da Guariento, che gli affida del
lavoro.
253 Citato da VITTORIO SGARBI, Un veneziano nella Padova “postgiottesca”: Nicoletto Semitecolo; in Giotto e il
p. 186-187.
255 DE BENEDICTIS, Pittura a Siena, p. 354-358.
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Carlo Ciucciovino
Sull’esterno del duomo di Firenze vi sono opere di Francesco Talenti del 1355-58 e di
Francesco Neri Sellaio 1354-1383.261
Molto severo nei confronti dell’Orcagna è Carlo Volpe, che lo valuta in raffronto con il
grande Giottino. «C’è qualcosa di aspramente costruito nell’Orcagna, che tuttavia non riflette
alcun significato anagogico dei materiali che intervengono nella genesi e nella logica dello
stile. […] La deviazione che nel gusto fiorentino si va affermando intorno al 1360 significò un
vero degrado di cultura, mascherato sotto gli affumicati teoremi rivolti al recupero formale
della tradizione Giotto-Taddeo Gaddi, se non anche modelli più antichi; cosicché a molti
critici è potuto apparire un’apprezzabile variante di gusto e di cultura figurativa ciò che era
soltanto un clamoroso scadimento di qualità dei contenuti e dell’arte».262
Tra il 1366 e il 1368 un gruppo di maestri, Benci di Cione, Neri di Fioravanti, Taddeo
Gaddi e Andrea di Buonaiuto, presenta il modello per Santa Maria del Fiore. La commissione
giudicatrice decide di distruggere ogni precedente modello ed attenersi solo a questo che, con
tutta probabilità è effigiato nel Cappellone degli Spagnoli che lo stesso Andrea, uno dei
firmatari di questo progetto, sta affrescando.263 Quello che verrà costruito sarà differente dal
modello. «La cupola enorme fu pensata dall’inizio, e fin dall’inizio si sapeva come costruirla,
se già dal 1371 Giovanni di Lapo Ghini, e ne fu ben retribuito, aveva studiato un’armatura per
tirarla su. Fu certamente per la grande quantità di legname e la spesa gravosa che avrebbe
richiesto, se il Brunelleschi elaborò poi la sua grande trovata del ponte mobile e sospeso».264
§ 66. Musica
Dal 1358 è in Italia, al seguito del cardinale Egidio Albornoz, un Vallone, Johannes
Ciconia, nato a Liegi verso il 1335. Johannes sarà il massimo artefice della transizione alla
maniera musicale del Quattrocento in terra fiamminga. Sempre che si tratti della stessa
persona: infatti questa è una delle figure musicali più controverse della musica medievale, in
quanto le opere che ci sono pervenute sono tutte relative alla permanenza di Johannes alla
265 W. ANGELELLI, Giovannetti Matteo, in DBI vol. 55; CASTELNUOVO, Un pittore italiano alla corte di
Avignone, p.150-151.
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La cronaca del Trecento italiano
corte dei da Carrara e vi è chi sostiene che non si tratti della stessa persona. Comunque,
questo Johannes Ciconia nel 1350 è ad Avignone al servizio di Alienor de Commiges-
Turenne, nipote di papa Clemente VI. Qui viene educato. Lo troviamo poi appunto al servizio
di Gil Albornoz. Nel 1362 viene ordinato sacerdote e gli viene assegnata una prebenda a
Liegi, nel collegio dove ha ricevuto la prima educazione. Nel 1400 va al servizio dei da
Carrara, a Padova, sempre che sia la stessa persona e non suo figlio.266
266 FABRIZIO DELLA SETA; Ciconia Johannes; in Dizionario Universale della Musica e dei Musicisti; vol. 2°.
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CRONACA DELL’ANNO 1368
4 Gustoso come il nome di Anglico Grimoaldo de Grissac sia italianizzato in COMPAGNONE, Reggia picena,
Cr. Vill., p. 219-220; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 219-223; Chronicon Estense, col. 489; VERCI, Storia della
Marca Trevigiana, Lib. XV, p. 103. L’elenco degli accompagnatori è anche in AMIANI, Fano, p. 292.
6 ZAMA, I Manfredi, p. 113.
Carlo Ciucciovino
Il 2 gennaio,7 proveniente da Roma, arriva a Bologna messer Gomez Albornoz, già rettore
di Bologna. Il 5 gennaio, Anglico convoca un consiglio nella sala del Vescovado, detta Sala dei
Quattrocento, e qui dà lettura delle lettere pontificie che gli danno diritto di imporre e togliere
tasse e provvedere allo stato della città a suo giudizio; egli rappresenta la persona del papa, in
breve: Androino di Cluny è stato silurato. Per sottolineare la sua nuova autorità Anglico
prende alloggio nel Vescovado. Il cardinale toglie alcune tasse e ne riduce altre, assicurandosi
la benevolenza dei Bolognesi.8
Francesco da Carrara, alla testa di 400 cavalieri ben vestiti ed armati, con molto altro
seguito, si dirige, via Ferrara, alla volta di Bologna, per onorare il cardinale Androino e per
discutere del suo conflitto con Venezia. Il 23 di gennaio è alle porte di Bologna, dove viene
fatto oggetto di accoglienze festose e di gran prestigio. Lo accolgono i nobili della città, con
accompagnamento di dolci strumenti musicali, la corte del cardinale di Cluny e una folla
vociante ed allegra. Quando, a sera, discende di fronte alla casa di sua proprietà in Bologna, è
soddisfatto e gratificato. Le case vicine vengono sgombrate per accogliere gli accompagnatori
del Padovano; liberamente, dice la cronaca, ma questa appare sincera piaggeria. Domenica è
invitato a pranzo dal cardinal vicario, col quale ha un lungo abboccamento, «como fu
pensado, sulla reformacion de Italia». Opportunamente poi, Francesco si reca a render
omaggio ad Anglico, ma questi, forse per metterlo in difficoltà, a sua volta ha cavalcato alla
casa del Padovano, è disceso dalla sua cavalcatura, entrato nella casa, tra la confusione dei
domestici è salito nella camera da letto di Francesco e si è seduto su una sedia ad attenderlo. I
famigli, imbarazzati, sono corsi dal Carrara ad avvertirlo e questi, con volto lieto, torna a casa,
ed incontra Anglico ringraziandolo di tanto onore.9 Concessosi un giorno per i propri piaceri
ed i propri amici, martedì successivo Francesco da Carrara prende congedo dai cardinali e,
sempre per la via di Ferrara, va a Padova.10 Gomez Albornoz, insieme ai Malatesta,
accompagna il cardinale Androino a Venezia, in missione di pace per ottenere la tregua tra
Francesco da Carrara e la Serenissima. Il 18 febbraio arriva notizia a Bologna che la missione
del cardinale è stata coronata dal successo, vi è tregua per un anno tra Padova e Venezia.11 Il
legato è passato per Ferrara il 6 febbraio, sontuosamente alloggiato a spese del marchese;
quando parte per Venezia, via Padova, il marchese Nicolò fa «spianare una via nuova diritta
a filo attraverso de’ campi dalla città a Francolino».12
7 Per la data si veda Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 224, nota 1 e Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 221.
8 GRIFFONI, Memoriale, col. 181; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 222-223. Gustosamente, Benjamin Kohl
definisce Androino “letargico”, KOHL, Padua under the Carrara, p. 117.
9 Domus Carrarensis, cap. 274, 275-276.
10 Chronicon Estense; col. 489; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 221-222; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 220-
221.
11 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 224 e nota 5 ivi.
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La cronaca del Trecento italiano
e respinge ogni attacco.13 A marzo scade il contratto di condotta di Bosons e Filippo assume il
Monaco d’Herckz che, con un numero d’armati simile a quello di Bosons, deve prendere
servizio dopo Pasqua.14
13 Datta elenca i villaggi, le città e i castelli che soffrono devastazioni e ruberie, si veda DATTA, I Principi
d’Acaia, I, p. 220-221.
14 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 102; DATTA, I Principi d’Acaia, I, p. 220-222.
16 Le sue imprese provenzali possono essere lette in MINOIS, Du Guesclin, p. 331-337 e in FOWLER,
Storia di Venezia, III, p. 234; CESSI, Storia della repubblica di Venezia, I, p. 326; RENDINA, I Dogi, p. 158. Un
breve cenno in DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 242.
18 ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 233-237; CESSI, Storia della repubblica di Venezia, I, p. 325.
19 Si tratta di Lanzinasco, Caravonica, Larzeno, Pietralata, Cenoa, Carpasio, Triora, Maro, Parnasio,
Conio ed altri, cfr. GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p. 339.
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Carlo Ciucciovino
Perciò, il 5 febbraio, Raimondo d’Agoult, capitano del contado di Ventiglia e della valle di
Lantasco ordina a Luchetto dei Girardini di farli tornare all’obbedienza con l’uso delle armi.
Luchetto entra in azione e in breve tempo obbliga i conti a sottomettersi a Giovanna. Giurano
sottomissione a Giovanna anche Guglielmo Pietro, Pietro Balbo e Ludovico di Lascaris, conti
di Ventimiglia e di Tenda. L’omaggio viene prestato il 5 luglio nelle mani di Onorato di Berra,
«cavaliere giureconsulto e grande Maestro razionale, luogotenente di Raimondo d’Agoult»
per Ventimiglia e valle Lantasca.20
La riottosità dei Ventimiglia non è l’unico motivo di preoccupazione in Provenza e
Piemonte: Galeazzo Visconti vorrebbe dare in dote a Violante, che deve sposarsi con duca
Lionello di Clarence, molte terre piemontesi, tra cui Alba, Mondovì, Cuneo, Cherasco e Bra.
Inoltre, Ludovico duca d’Anjou, ha un potente esercito in Linguadoca, col quale minaccia i
possedimenti di Giovanna; per tale motivo molti centri della regione, tra cui Nizza e Sospello,
si fortificano e muniscono.21
20 GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p. 339-344.
21 GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p. 338.
22 Con qualche informazione in più in CALISSE, I Prefetti di Vico, p. 140.
24 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1368, vol. 4°, p. 13.
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La cronaca del Trecento italiano
trentadue, tra i quali molti dei capi. La battaglia termina solo quando le ombre della sera
scendono sulla città, impedendo di distinguere amici da nemici. Tutta Parma è in agitazione e la
cittadinanza si arma, pensando che sia in atto un colpo di mano di una delle fazioni cittadine
contro l’altra. È solo grazie all’intervento di un comandante che ha gran carisma sia nei confronti
dei Tedeschi che degli Italiani, Francesco Ordelaffi,26 che gli ufficiali Viscontei riescono a quietare
il tumulto per tre mesi. Ma Bernabò è preoccupato per l’avvenimento, infatti l’odio ha lasciato
ferite profonde.27
29 Quando Urbano era ancora abate di Marsiglia, fu inviato a Milano, per cercare di negoziare la pace tra
i Visconti e la Chiesa. Egli venne ben ricevuto, ma qualcosa della sua inflessibilità dovette riuscire
odioso a Bernabò, che, il giorno seguente lo mandò a prendere e, fattolo portare di fronte a lui, sembrava
deciso a farlo castrare. Fortunatamente per il futuro pontefice, un gran nobile giunto in quei dì in quella
corte, intercesse per l’abate e Bernabò rinunciò al sanguinoso terribile affronto. Ma il tiranno decise
comunque di punire il religioso: fattolo montare a cavallo, diegli per lo culo molte scorzate, e poi il fè dormire
con sei peccatrici, e la mattina il fè accompagnare da queste peccatrici, vituperatamente fuori del suo territorio;
Chronicon Ariminense, col. 911.
30 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 226; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 225-226.
33 CAMERA, Elucubrazioni, p. 264-265; FROIO, Giovanna I, p. 112-113. La visita di Giovanna ed il suo ricco
seguito è narrata anche in ANTONIO DI BUCCIO, Delle cose dell’Aquila, col. 734-735, quartine 182-191.
34 KIESEWETTER, Giovanna I d’Angiò, DBI, vol. 55°. ANTONIO DI BUCCIO, Delle cose dell’Aquila, col. 734
orgogliosamente scrive «Che più bella intrata in Roma per donna mai non fò» e racconta come la regina
abbia ordinato ai suoi baroni di accompagnarla; egli si diffonde nel descrivere le ricchezze delle vesti
regali e le splendide armature dei nobili. Dice inoltre che «et anche lu Rene de Cipri io vidi stare».
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Ricapitoliamo brevemente gli avvenimenti degli ultimi anni in Provenza. Nel febbraio
del 1360, Bertran du Guesclin incontra in duca Luigi d'Angiò, fratello del re di Francia, nella
bassa Linguadoca. Il disegno del duca è di impadronirsi della Provenza. Questa regione, che
aveva sempre mal tollerato il governo di Luigi di Taranto, dopo la morte di costui era stata
ben governata dalla regina Giovanna, che ha provveduto con atti di perdono a riportare la
serenità nel suo possedimento (amnistia per Raimondo des Baux ed i suoi uomini, amnistia
per i delitti commessi a La Seyne durante l'invasione dell'Arciprete), ha sostituito il valoroso
Folco d'Agoult al napoletano Ruggero Sanseverino nella funzione di Siniscalco, ha legiferato
con giustizia ed ha punito le sopraffazioni nei confronti dei più deboli. Il papa inoltre, invece
di cercare di approfittare della debolezza del governo della Provenza, per espandere i propri
domini temporali nella zona, si è sempre comportato con grande lealtà nei confronti degli
Angiò di Napoli. Addirittura, Urbano V è stato il promotore di una lega tra Chiesa, Provenza,
Delfinato e Savoia per la difesa della riva sinistra del Rodano. Ciò ha garantito qualche anno
di pace alla regione. Nel 1365 due ufficiali regi, il logoteta Napoleone Orsini e Landolfo
Crispano, sono venuti in Provenza a chiedere il suo contributo per il censo arretrato che
Giovanna deve pagare alla Chiesa. Debbono raccogliere la bella somma di 31.400 libbre. Nel
settembre del '65, Raimondo succede al padre Folco d'Agoult nella funzione di Siniscalco, e
Giovanna ne approfitta per riformare la carica, limitandone i poteri. L'amnistiato Raimondo
del Balzo, ripaga la generosità di Giovanna, portando ancora violenza nel dominio: nel 1365
prende il castello della signora di Courthezon, imprigionandola. Occorre una campagna
militare nel '66 per riprendere la fortezza e restituirla alla legittima proprietaria. Ora, nel '68,
Bertran du Guesclin, dopo le sue avventure in Castiglia, compare nuovamente nella zona, da
cui era stato allontanato nel '65 con in tasca 30.000 fiorini sborsati dal papa, per riprendere il
progetto di Arnaldo di Cervole. Il 4 marzo du Guesclin e Luigi d'Angiò attaccano Tarascona
dal fiume e da terra. Ma la città resiste e gli aggressori si rivolgono allora contro Arles. Il sire
di Tallard, Luigi de Trian, appresta efficaci difese, salvando Aix, ma Tarascona è costretta a
capitolare il 20 maggio. Luigi d'Angiò ottiene un importante successo, facendo passare dalla
sua parte il signore di Monaco: Ranieri Grimaldi, ed affidandogli il comando delle operazioni.
Il piano è quello di congiungere le due parti dell'esercito, quella che, vinta Tarascona e
passato il Rodano, sta dirigendosi a sud, e quella monegasca, che, sbarcata sulla costa, punta
verso il nord. Nel mentre, il 5 luglio, Bertran è sotto Aix, che assedia. Le truppe del Siniscalco
di Provenza vengono messe in rotta il primo agosto a Ce'reste. Ma questo rappresenta il
culmine dei successi: i potenti amici della Provenza stanno ormai reagendo: Giovanna ha
inviato galee al comando dell'ex-Siniscalco Ruggero Sanseverino, conte di Mileto. Urbano V
lancia la scomunica su du Guesclin il primo settembre, Carlo IV fa sapere che si sta
mobilitando per accorrere in aiuto della Provenza, che dipende dall'impero. Bertran du
Guesclin ritiene allora di accettare l'ingaggio per una nuova impresa in Castiglia, e, ai primi
di novembre, Luigi d'Angiò conclude un armistizio con Ruggero Sanseverino, con il quale
restituisce le sue conquiste in Provenza, inclusa Tarascona. Ci vorranno altri due anni prima
che venga firmata la pace, ma sin d'ora, la Provenza è salva.35
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solo Carlo imperatore. Il giorno di Domenica delle Palme, ascoltata messa, Carlo IV si muove
da Praga al comando di un temibile esercito di Alemanni, «la nomenanza di quali allora era
grande in facto d'arme». Carlo esce solennemente dalla porta della città, con l'elmo in capo,
cinto di verde alloro, e con la spada sguainata.36
Il 27 aprile Carlo IV entra in Udine; egli è accompagnato dalla moglie e dalla figlia. Il
patriarca lo accoglie lo alloggia nel castello. Fanno parte del suo seguito i vescovi di Spira,
d’Augusta e di Metz e quello di Padova che è accompagnato da Francesco Petrarca, il duca di
Sassonia, Francesco da Carrara, il gran conestabile d’Inghilterra, Gutemberg di Boemia, e
molti altri, tra cui il conte di Gorizia, Pietro Gambacorta e Raimondo Lupo. La città di Udine
dona a Carlo un manto scarlatto foderato di raso cremisi, inquartato con le armi imperiali
ricamate d’oro e di perle. La corte imperiale soggiorna ad Udine per una settimana, durante
la quale vengono fatte feste pubbliche e organizzati divertimenti. Dopo una giostra alla quale
partecipano molti cavalieri, Carlo parte.37 Gli Annali del Friuli registrano che «Carlo IV
imperatore visita il corpo del patriarca Bertrando e vi pone in petto un gioiello con iscrizione
indicante che appartenne a S. Elisabetta regina d’Ungheria».38 Il 4 di maggio «passando per la
via ongaresca», Carlo si reca a Conegliano, dove viene a riverirlo il marchese Nicolò d’Este.
Passato il Piave va a Padova.39
36 Domus Carrarensis, cap. 276; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 229; Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 220-
39 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, Lib. XV, p. 107-108, la via ungaresca è la strada che i buoi di Stiria e
Ungheria percorrono quando vengono condotti ad essere macellati a Venezia; inizia al Campardo, passa
poco sotto Conegliano. Ibidem nota 4, p. 107.
40 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, Lib. XV, p. 106-107.
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territorio di Treviso, inoltre crea nei sestieri cittadini una riserva di 360 armati da impiegare
urgentemente ove necessario.42
Chronicon Estense, col. 489; ALIPRANDI, Cronaca di Mantova,p. 143; AFFÒ, Guastalla,p. 276. Tra i Viscontei
milita Francesco Ordelaffi, ora podestà di Cremona; è lui uno di quelli che tentano di mettere pace tra i
mercenari italiani e quelli tedeschi. SPADA, Gli Ordelaffi, p. 152. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, Lib.
XV, p. 104-106.
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Urbano provveda a fare il suo dovere e invii prontamente rinforzi. Il papa manda quel po’ di
militi di cui si può privare ed ottiene cavalieri da Perugia.45
50 COGNASSO, Conte Verde*Conte Rosso, p. 158-159. L'accoglienza a Lionello a Milano e' in FROISSART,
Prison amoureuse.
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Cipro. Il papa emette un nuovo permesso di commercio per l’Egitto a Venezia e fa pressioni
su re Pietro perché deleghi a Genova e Venezia la trattativa con il sultano. Pietro non ha
scelta, deve accettare la proposta e chiede solo che venga discussa sulla base di quello che era
stato concordato a marzo dello scorso anno. La legazione delle repubbliche marinare è senza
successo ed il progetto comunque sfuma con la scomparsa di Pietro di Lusignano, che verrà
assassinato nel gennaio del prossimo anno.51
sua spedizione italiana. Tra gli altri il duca di Sassonia, il marchese di Moravia, il duca di Baviera, quello
d’Austria, l’arcivescovo di Sterniberg e, ovviamente, il patriarca d’Aquileia, sodale di Carlo. Si veda
anche DE MUSSI, Piacenza, col. 509.
54 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 24.
56 VELLUTI, Cronica, p. 260-261. SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1083 mette l’ambasciata dopo la pace.
57 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 232-233; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 226. Dettagli sul viaggio
398 specifica che la bolla è del 1369, quindi la data citata deve riferirsi all’intenzione manifestata da
Urbano. D’ANDREA, Cronica, p. 98 dettaglia quali brandelli di terra sono strappati alle altre diocesi per
formare questa nuova. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 237. La nota 4 ivi riporta l’erezione del
vescovado al 7 agosto.
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Nei ricordi di Casa Sacchi, viene registrata un’epidemia in Viterbo, che dura anche nel
1369. Ne muoiono tre cardinali ed una gran parte della corte pontificia.59
MUSSI, Piacenza, col. 509, da buon partigiano, vede nella discordia l’istigazione del demonio: diabolo
istigante orta est discordia implacabilis inter Teutonicos ex una parte et pedites Italiacos ex alia. De Mussi
aggiunge che tanta caede aer putridus est effectus. Stesse frasi in Annales Mediolanenses, col. 737. Un cenno
in AFFÒ, Guastalla,p. 277. La data del primo maggio è in ROSSINI, La signoria scaligera dopo Cangrande, p.
705.
62 BONAFEDE, L’Aquila, p. 111-112; CIRILLO, Annali dell’Aquila, p. 43 verso. ANTONIO DI BUCCIO, Delle cose
dell’Aquila, col. 723-726 pone la vicenda nel 1368 e questo è confermato dal documento pubblicato nella
nota 17 ivi.
63 BONAFEDE, L’Aquila, p. 112-113; CIRILLO, Annali dell’Aquila, p. 44 recto chiarisce che gli uomini di
Forcona sono contadini e che gli Aquilani che reagiscono sono cittadini rinforzati da stipendiari.
ANTONIO DI BUCCIO, Delle cose dell’Aquila, col. 721 e poi 727-730, quartine 87-88 e poi 132-153 narra con
molti particolari l’avvenuto.
64 DE MUSSI, Piacenza, col. 509-510 la definisce giovane e bella come pure Annales Mediolanenses, col. 737.
La cronaca di Milano ci dice che nel corteo vi sono grandi cavalieri su selle da giostra: Manfredi di
Saluzzo, Protasio Caimi, consigliere visconteo, Francesco Zaricadeo, Domenico Ambigato, Giacomo de
Prevedi, Giacomo Vazaforte, tutti vicari di Galeazzo, Pietro Biassono, Giovannolo Herminulfo,
Francesco del Bene, Giovannolo di Monza e Enrigolo del Conte. Tutti indossano il medesimo abito.
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scudieri, entra a Parigi, dove viene caldamente accolto da re Giovanni, e dai duchi di
Borgogna e Borbone e dal sire di Coucy. Lionello traversa la Francia, fino ad arrivare ai
confini della Savoia, dove l’attende il glorioso Conte Verde, Amedeo VI, che diverrà suo
parente, in quanto sposato con Bona di Borbone, sorella di Bianca. Amedeo ospita Lionello a
Chambéry, e qui organizza tornei e feste in suo onore. Dopo un paio di giorni di sosta, la
comitiva riprende il viaggio verso Milano, dove arriva il 27 maggio. Uno splendido corteo
accoglie il giovane principe: Galeazzo Visconti e sua moglie Bianca, Isabella, moglie di Gian
Galeazzo, conte di Virtù, Rizzarda, moglie di Andrea Pepoli, con 80 damigelle, «tutte ad una
fogia vestite, cioè cotardi[t]a [scarlatta] con maniche di panno biancho, rechamato a trifolio et
una corregia sopra galloni in valore di fiorini octanta». Dopo le avvenenti fanciulle cavalcano
trenta gagliardi giovani, capitanati dal conte di Virtù, «sopra possenti destrieri e selle da
giostra», tutti col medesimo abito. Con Lionello vi sono circa duemila Inglesi, molti dei quali
armati con l’arco, la temibile arma nella quale gli Inglesi sono imbattibili. Pochi giorni dopo, il
lunedì dopo Trinità, cioè il 5 giugno, il principe inglese impalma la giovane Violante nel
tempio di Santa Maria Maggiore. Le feste sono fastosissime, degne del più grande signore
d’Italia e di un principe d’Inghilterra. Il ricevimento nuziale è allestito nella piazza
dell’Arengo, e qui viene imbandito un pranzo impressionante65 di 18 portate, ad ognuna delle
quali sono associati regali principeschi per gli sposi ed il loro seguito. Un esempio per tutti: la
diciottesima portata consiste in cesti di ciliegie e due corsieri, uno, chiamato Leone, per il
conte, e un altro per l’abate, e 86 cavalli ai baroni e gentiluomini del seguito di Lionello di
Clarence. Alla tavola del principe inglese seggono Amedeo VI di Savoia, siro de la dispensa,
Matteo e Ludovico Visconti, il vescovo di Novara, che ha officiato le nozze e Francesco
Petrarca, oltre ad alcuni cittadini pisani.66 Gli sposi trasferiranno la propria residenza ad Alba,
ma, purtroppo, consumato da una vita sregolata, Lionello godrà per poco la sua giovane
sposa.67
Mentre Francesco Petrarca sta festeggiando questa importante alleanza matrimoniale, un
lutto lo colpisce: la morte gli rapisce un nipotino di poco più di due anni, che egli ha avuto da
sua figlia Francesca, moglie di Francescolo da Borsano. Petrarca compone un addolorato
epitaffio per il fanciullino.68
§ 23.Terremoto a Messina
Il 27 maggio un forte terremoto colpisce Messina, il più forte dei tanti che in questo
decennio hanno martoriato la città. Anche se Messina vive un momento di quiete per la
presenza della corte di Federico IV e la proibizione a Enrico Rosso, conte di Aidone, di
entrarvi, ha comunque grossi problemi di approvvigionamento di grano. Le guerre e le
devastazioni hanno ristretto le colture e la pastorizia e l’allevamento ha ridotto anche la poca
superficie ancora coltivabile. Il gran giustiziere Artale d’Alagona si prodiga per far affluire
grano ed altre derrate alimentari in città.69
65 Chi sia interessato alla sua descrizione può leggerla in CORIO, Milano, I, p. 819-821 e in Annales
Mediolanenses, col. 738-739. Molto gustosa la redazione in versi in ALIPRANDI, Cronaca di Mantova,p. 138-
141 che pone il matrimonio nel 1366.
66 CORIO, Milano, I, p. 819-821; GIULINI, Milano, lib. LXX, anno 1368.
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La flotta aragonese prende il mare in maggio. Alle truppe radunate a Barcellona da don
Pedro de Luna, signore di Almonacir e Pola, si sono aggiunti altri soldati condotti dal
cavaliere castigliano Juan Ruiz de Villegas, e vi sono anche due Sardi, i fratelli Lorenzo e
Giovanni Sanna di Figulinas, nella baronia di Osilo. L’esercito sbarca nei pressi di Cagliari e si
unisce alle forze di Berengario Carroz, il quale, con molti altri capitani catalani, è assediato nel
Castello di Castro. Il giudice Mariano d’Arborea non sa dove le truppe nemiche vorranno
attaccarlo, ed ha perciò disposto i suoi soldati un po’ dovunque: nei castelli, a Villa di Chiesa,
a Cagliari, ad Alghero. Don Pedro de Luna già mentre era in navigazione ha concepito allora
un piano ardito, portare il suo attacco direttamente nel centro del dominio del giudice, ad
Oristano. Perché il piano riesca è essenziale la velocità, l’esercito dovrà trasferirsi a marce
forzate attraverso l’Arborea, assediare e far cadere Oristano, prima che la sua presenza venga
riferita al bellicoso Mariano, che, sicuramente, farà confluire i suoi armati dalla periferia al
centro. La notte del giorno seguente al suo sbarco, Pedro si muove con tutti i suoi armati da
Cagliari. All’indomani, dopo una massacrante marcia di 50 miglia, le sue avanguardie sono a
poche miglia da Oristano. Mariano è stato colto di sorpresa nella sua città: ha fatto
immediatamente apprestare le difese, ma ha con sé pochi difensori. Don Pedro gioisce, questa
volta il giudice non gli sfuggirà. Mariano è in città e reagisce prontamente alla sorpresa, serra
tutte le porte, e, prima che il cerchio dell’assedio venga saldato, invia una serie di messaggeri
a chiedere rinforzi ovunque vi siano suoi soldati. Oristano è ben fortificata ed è molto munita:
i viveri e l’acqua possono bastare per un assedio di molti mesi. Il comandante aragonese fa
predisporre tutte le sue truppe in modo da cingere Oristano in un assedio strettissimo, con la
cavalleria posta di fronte a Porta Ponte e Porta Mare, nell’eventualità che i Sardi tentino una
sortita. Don Pedro de Luna completa l’accerchiamento, stringe le maglie attraverso le quali
nessuno più può passare e questo è tutto, se Mariano non si farà trascinare in una sortita e
quindi un combattimento campale, l’impresa aragonese è destinata all’insuccesso. All’inerzia
aragonese, corrisponde una solerte azione sarda: Ugone, il figlio di Mariano, ha ricevuto
ordini precisi di suo padre per mezzo dei messaggeri che Mariano gli ha inviato. Egli
concentra tutte le forze dell’isola e, in sole due settimane, lancia la spedizione di soccorso
verso Oristano. Don Pedro commette la leggerezza di non inviare la cavalleria a scorgere da
lontano le eventuali azioni del nemico ed è quindi colto di sorpresa quando le vedette,
disposte troppo vicino alla città assediata, comunicano a don Pedro che l’esercito di Ugone,
provenendo da sud, ha già oltrepassato la pianura di Sant’Anna e sta puntando su Santa
Giusta. Don Pedro decide di affrontarlo prima che Mariano possa venire a sapere che un
esercito sta venendo in suo soccorso, schiera i suoi soldati in ordine di battaglia e ordina
l’attacco, ma Mariano sa che il figlio è vicino: apre le porte di Oristano e attacca alle spalle gli
Aragonesi. La battaglia non ha storia: dopo una breve resistenza, i militi aragonesi cedono e
cercano la salvezza nella fuga, ma non v’è scampo: due terzi degli uomini dell’esercito
aragonese vengono uccisi o feriti, lo stesso don Pedro de Luna muore con la spada in pugno e
con lui anche suo fratello Filippo e molti comandanti. Solo Berengario Carroz, conte di
Quirra, riesce a fuggire con qualche centinaio di combattenti, rifugiandosi a Cagliari.70
Può risultare di qualche interesse osservare che Pietro il Cerimonioso ha tentato di
reclutare Bertrand du Guesclin per inviarlo in Sardegna alla testa di un corpo di spedizione.
Le discussioni sono iniziate dopo la liberazione del condottiero bretone e si sono concluse in
ottobre del ’68 con la firma di un capitolato d’ingaggio secondo il quale Bertrand condurrebbe
in Sardegna 1.200 lance e 400 arcieri. La ripresa della guerra dei Cent’anni chiaramente
obbliga Bertrand a rivedere le sue Priorità ed egli, una volta sistemata la questione di
Castiglia, dovrà urgentemente andare a servire il re di Francia.71
70 CARTA RASPI, Mariano IV d’Arborea, p. 134-138; CARTA RASPI, Ugone III d’Arborea,p. 102-106; ANATRA,
Sardegna, p. 83; ZURITA, Annales de Aragon, Lib. X, cap. I.
71 FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 259-266.
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72 Chronicon Ariminense,col. 909. AMIANI, Fano, p. 292 dice che Galeotto viene avvertito dell’imminente
parto mentre è a caccia, a maggio, con Ridolfo Varani; secondo questa fonte il bimbo viene battezzato il
12 luglio. Su Braccio si veda il successivo paragrafo 28.
73 DEGLI AZZI VITELLESCHI, La repubblica di Firenze e l’Umbria, p. 140-141.
75 Gli altri ambasciatori sono: messer Orlando Malavolti, messer Giacomo di ser Guido, ser Sozo Fonda
(un Salimbeni), Benedetto di ser Mino, tutti appartenenti al partito dei Grasselli.
76 CORIO, Milano, I, p. 823 e Cronache senesi, p. 616.
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79 Ostiglia è difesa da Paganino da Panico e messer Guido Savina, Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 233.
80 La cronaca di Bologna ci dà il conto delle forze congiunte che papa ed imperatore sono riusciti a
mettere in campo: Carlo IV con 1.000 barbute, al comando di messer Bernas, 500 barbute della regina
Giovanna di Napoli, messer Ridolfo da Camerino con 60 lance, messer Guido da Polenta con 100
barbute, il signore di Foligno, Trinci, con 50 barbute, i Perugini con 200 barbute.
81 CORIO; Milano; I; p. 823.
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dei Gonzaga, dirige il suo esercito contro Borgoforte.82 L'esercito imperiale è vasto come un
mare, si parla di 20, 30, anche 40.000 armati, ora si è fatto fin sotto il Serraglio, e investe con
tutta la sua forza la bastia di Borgoforte, pare impossibile che la fortezza possa resistere a tanta
quantità d'uomini, anche perché si apprende che la guarnigione inglese non è poi così
numerosa. Ma gli Inglesi, comandati da John Hawkwood, non solo si battono molto bene, ma
anche sfidano gli svogliati attaccanti a ingaggiare una mischia aperta. Al ché, un valoroso
Tirolese, un soldato degli Este, di nome Ropel, molto reputato per la sua gagliardia e per il
coraggio, si fa ricevere da Carlo IV e gli chiede d'affidargli 1.000 d'uomini d'arme, ché con
quelli si impegnerebbe a sconfiggere i Viscontei, offrendo come garanzia la propria testa.
Figuriamoci come un uomo totalmente antieroico come questo imperatore possa reagire a
questa meravigliosa vanteria: «Ma l'mperador desprisiò (disprezzo) el bon anemo s(u)o».
Carlo dunque impedisce ogni azione armata, troppo rischioso ai suoi occhi affidare la sorte al
capriccio di uno scontro d'armi, perché esercitare la forza, il cui esito non è mai sicuro,
quando si possono più utilmente utilizzare le armi della minaccia che una tale armata può
incutere all'avversario e interlocutore? Carlo apprende con piacere che al suo accampamento
sta giungendo il duca Federico di Baviera, parente di Bernabò per averne sposata la figlia, ed
amico dell'imperatore. Egli viene al campo imperiale per intessere le fila di una trattativa di
pace tra il signore di Milano, Carlo ed Urbano.83 Stanno sopraggiungendo anche gli
ambasciatori di Lionello di Clarence, il nuovo genero di Bernabò, e, ultimo, il cardinale di
Bologna, Anglico Grimoard, fratello del papa. Quindi l'imperatore, «audida novella del so
advento, molto et allegramente el fo contento che tale et tanto homo fosse vignudo in Italia
per tractar pase, et questo perché el dicto imperador la havea cà (già) facta (in cuor suo)». Ma,
anche se sia Bernabò, preoccupato dalla potenza avversaria, che Carlo, sempre nemico delle
armi, vogliono la pace, il percorso per arrivarci, senza provocare lo sdegno di Urbano V, è
lungo e complesso, e quindi non si possono trascurare le azioni guerresche. Inoltre l'esercito
imperiale patisce la fame perché le navi viscontee, dopo la rovina del Ponte di Borgoforte,
bloccano il passaggio per il Po alle navi cariche di viveri. Ma vi è un lato del Serraglio che non
è ben sorvegliato, perché vi è una infida palude difficilissima da passare, specialmente per
uomini armati. Le genti di Francesco da Carrara e del marchese Nicolò d'Este, procuratisi la
guida di un contadino del luogo, vi si recano. Un cittadino padovano, ed uomo d'arme, che
nell'esercito del Carrara spesso ricopre il ruolo di capitano, Bonzanello da Vigoncia, con
grande fatica e pericolo riesce a trovare la via. Ricopre il terreno paludoso con graticci sopra il
fango e prepara la strada a molti armigeri. Domenica 18 giugno la via per l'esercito imperiale
è pronta. Il fosso viene riempito e l'accesso alle mura fatto. Gli ardimentosi si impadroniscono
facilmente della torre di Gerba (hanno catturato un uomo che ne conosce la parola d'ordine) e
sciamano dentro il Serraglio, dandosi al saccheggio. Ma i difensori inglesi e scaligeri non
rimangono inerti e contrastano gli aggressori, con diversi scontri. I movimenti sul campo sono
molto difficili: il tempo oltremodo piovoso ha fatto ingrossare i fiumi,84 Giovanni Acuto
attende fiducioso l’attacco degli imperiali, con i suoi soldati schierati a difendere il ponte
fortificato di Borgoforte, ma qualcuno, nell’esercito di Carlo ha un’idea: visto lo stato dei
fiumi, perché non inviare zappatori a demolire l’argine a monte dell’esercito visconteo, per
farne allagare il campo? Carlo ordina che venga tagliato l’argine sinistro del Po, per far
allagare le terre a nord del fiume. Ma gli scavatori non riescono a controllare adeguatamente
le acque e l’azione non sortisce effetto. Ora però John Hawkwood, il bravo condottiere
inglese, ritorce sul nemico il suo piano. Quando le tenebre sono profonde, l’Acuto e gli
Scaligeri di Cansignorio inviano scavatori esperti a rompere l’argine dell’Adige nel punto
giusto, e le acque del fiume dilagano fino alle tende imperiali, inondando tutto il piano verso
Mantova, che è a sole otto miglia di distanza, provocando l’annegamento di un centinaio di
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soldati imperiali. Carlo stesso deve affrettarsi per sfuggire all’insidia dell’acqua, che invade il
campo imperiale, obbligandolo a togliere le tende. Egli si ritira verso Mantova dove però non
vi sono viveri a sufficienza per sfamare un'armata di 20.000 combattenti; Carlo si muove
allora e porta la guerra contro Verona, direttamente. Il 19 giugno, con notevole decisione, i
collegati sono arrivati a Povegliano, a un passo da Verona, mentre Carlo è alle porte di
Villafranca. Verona è a portata di mano. Gli imperiali gettano un ponte sull’Adige, a sud di
Legnano, ma gli Scaligeri rompono un argine, costringendo gli imperiali a ritirarsi. Questi, il 6
luglio, si concentrano a Valeggio, pronti a sferrare l’attacco contro Verona; una parte degli
armati si attesta a Tomba, subito a sud di Verona. Ma ora gli Scaligeri tagliano l’argine sud
dell’Adige, inondando irrimediabilmente il campo imperiale: la campagna militare è
compromessa. Il cibo è scarso ovunque, e Carlo IV, dopo l’impeto iniziale che ha
contraddistinto la sua azione contro i Visconti, si è intiepidito, ha verificato infatti che
l’impresa è molto più dura del previsto, e molto più costosa. La stanchezza apre la strada alle
risorse finanziarie di Bernabò Visconti, il quale è disponibile a versare molto danaro nelle
casse imperiali, pur di convertire l’inimicizia imperiale in amicizia.85 I tempi della pace sono
maturi: la consigliano le malattie che affliggono il campo imperiale, i sospetti di defezione e
tradimento, che iniziano a serpeggiare, ed il fatto che «misier Bernabò ie promecteva gran
cose». Stabilita la tregua in luglio, l'imperatore con Elisabetta, il 5 agosto, parte per Modena,
dove Bernabò, non chiedendo niente di meglio, gli ha inviato il duca di Baviera a trattare la
pace.86 Ma non solo dai nemici occorre guardarsi, mille armati del duca Alberto d'Austria, che
hanno ritardato ad unirsi all'esercito imperiale, sono ora giunti nel Padovano, e, non
riuscendo a passare per la rottura degli argini dell'Adige, per la quale l'acqua era così
cresciuta che ogni cosa parea un mare, stanno sul territorio, depredandolo come se fossero un
esercito nemico. Francesco da Carrara ottiene dall'imperatore il permesso di tenere altrove
impegnate quelle risorse, e, di notte, al comando di messer Arachoan Buzzacarini, suo
cognato, li conduce ad una cavalcata contro Vicenza. Prima dell'alba, condotti da guide
esperte dei luoghi, sono sotto le mura e corrono il territorio circostante, sfidando i cittadini. I
Vicentini, per nulla intimoriti, escono a battaglia. Lo scontro non ha effetti significativi, e gli
Austriaci, al comando del magnifico signor Giovanni da Cille, allegando, senza specificarne le
ragioni, che non sono sicuri in quel luogo, si ritirano su una fortezza da poco munita dal
Carrara: San Martino sopra il monte. Il pavido comportamento di questi Austriaci «sì
istomagò el dicto magnifico signor (Francesco da Carrara)», che egli si adopera perché Carlo
imperatore le congedi, e le accompagna per il ritorno, facendo in modo che solo una notte
debbano dormire nel Padovano.87 Mentre l’imperatore soggiorna a Modena, viene
progressivamente lasciato da quasi tutti, sia i suoi, che i collegati. Mentre Carlo valuta il da
farsi, lo raggiungono qui gli ambasciatori di Pisa, capeggiati da Gherardo dell’Agnello, in
nome del doge Giovanni dell'Agnello. Non è la prima volta che emissari del nuovo e
malfermo doge raggiungono l'imperatore, la prima volta costoro vennero in Boemia,
chiedendo perdono per la nomina di un doge e sollecitando l'investitura imperiale per il loro
signore, ma Carlo li aveva rimandati via, promettendo il vicariato, ma senza dare il
85 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1368, vol. 4°, p. 13; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 235-236;
Annales Mediolanenses, col. 737. SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1082-1083 registra erroneamente
questi fatti sotto l’anno 1366. Palpabile il sollievo mantovano in ALIPRANDI, Cronaca di Mantova,p. 143-
145 per l’arrivo dell’imperatore Carlo IV e degli alleati. Una sintesi moderna in ROSSINI, La signoria
scaligera dopo Cangrande, p. 706-708. L’esercito imperiale si ritira a Mantova, dove fa più danni che se
fosse nemico, cfr. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, Lib. XV, p. 111; Verci chiosa così l’impresa di
Carlo: «e questa fu l’opera più grande che abbia fatto quel formidabile esercito in una così strepitosa
spedizione». Carlo IV è a Modena in agosto e ne parte forse il 24 per Lucca, si veda TIRABOSCHI, Modena,
vol. 3°, p. 44.
86 Domus Carrarensis, cap. 281 e TREASE, The Condottieri, pag. 77-78, il numero degli annegati è preso da
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Carlo Ciucciovino
documento. Ora, nuovamente, vengono a voler far patti su Lucca e Pisa. Carlo annusa l'odore
del denaro e «quasi promectè quello che domandava el dicto mesier Zuanne dall'Agnella». In
realtà, nell’agosto del 1368, egli concede a Giovanni dell’Agnello ed ai suoi figli il titolo di
vicario imperiale. Giovanni ha ottenuto ciò che voleva, ma a costo di umiliarsi, ora la sua
autorità non gli viene più dai suoi sodali di lotta politica, ma dall’imperatore, il prezzo che
deve pagare è un indebolimento della sua autorità di fronte ai suoi vecchi compagni di
partito. Ora non deve più temere i soli Bergolini, ma anche il malcontento dei suoi Raspanti.
Cosa accadrà si vedrà quando Carlo sarà fisicamente presente a Pisa e Lucca. Per ora, il 25
agosto, entra in Lucca Marquardo di Randeck, accompagnato da suo nipote Gualtieri e da 800
armati. Infatti, Carlo ha deciso d'inviare il suo amato e fidato Marquardo di Svevia, patriarca
d'Aquileia, per predisporre le cose alla venuta imperiale. Appena giunto in città, Marquardo
pretende che la fortezza dell’Augusta venga sgombrata e la occupa con le sue truppe.
Giovanni dell’Agnello, vincendo l’opposizione di suo nipote Gherardo, decide di accettare,
senza opporsi, ma certamente i segnali non sono positivi. Ma i bocconi amari non sono finiti:
Marquardo pretende ed ottiene che tutte le milizie di Pisa e Lucca giurino nelle sue mani la
fedeltà all’imperatore. Si rifiutano i soli Inglesi, che sono legati a un analogo giuramento nei
confronti del loro sovrano Edoardo III, che però promettono obbedienza.88
Appena Marquardo è partito dalla corte imperiale, giungono nuovi ambasciatori pisani,
che sconfessano i primi, porgendo scuse all'imperatore e affermando «che da sì medesimi elli
era andadi a lui, el so segnor non sapiando alguna cosa». Carlo è seccato e pensa che non
valga la pena di trattenersi ulteriormente, né, tanto meno, prendersi il disturbo di recarsi in
Toscana, quando arriva un terzo contingente di ambasciatori, questi sono quelli del bravo
Marquardo, che ha sistemato le cose, «andado nançi a Pisa, preso e seducto mesier Zuanne
dall'Agnella, a chiamar l'imperador». Dopo pochi giorni, Carlo prende la via di Toscana.89
Mentre Carlo IV è impegnato all’assedio di Borgoforte, trova il tempo per le sue pratiche
di devozione. Egli ottiene le “reliquie di San Longino”, il milite romano che con la sua lancia
ha aperto il costato di Cristo e, nella seconda metà di luglio, compie una visita notturna nel
monastero di Sant’Andrea di Mantova, dove vede ed ottiene una reliquia del sacro Sangue di
Gesù.90
88 CATUREGLI, Giovanni Agnello, p. 178-180 e 184-186; SERCAMBI, Croniche, p. 141-144; RANIERI SARDO,
Cronaca di Pisa, p. 167-169 nomina gli ambasciatori Piero di messer Piero di messer Albizo e ser Cholo
del Mosca, che tornano poi accompagnati da Gherardo dell’Agnello, Ubezino (Opezzino dei marchesi
Malaspini) e Simone di Neri da San Casciano de’ Conti.
89 Domus Carrarensis, cap. 283 e ROSSINI, Verona Scaligera, p. 706-709. Niente di originale in GIULINI,
Milano, lib. LXX, anno 1368. L’inconcludenza dell’azione di Carlo è ben tratteggiata in VELLUTI, Cronica,
p. 261-263. Carlo invia il patriarca Marquardo a Pisa a settembre e il patriarca qui lo attende fino al 3
ottobre quando vi arriva l’imperatore, PASCHINI, Friuli, I, p. 342-343. ROSSINI, La signoria scaligera dopo
Cangrande, p. 709 sottolinea che Carlo si deve essere reso conto di essere diventato solo uno strumento
nelle mani del papa e, pur fiducioso di essere almeno pari ai Visconti ed agli Scaligeri sul piano militare,
si deve essere arrestato nella sua azione offensiva quando ha meditato sul diminuito prestigio
dell’Impero dopo le vicende del Bavaro.
90 SCHIZZEROTTO, Mantova, p. 110-118 che pubblica il privilegio emesso dall’imperatore al monastero.
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La cronaca del Trecento italiano
grande merito di aver fondato l'ateneo, chiamato volgarmente la Sapienza vecchia. Qui gli
studenti sono ospitati per i sette anni necessari a compiere gli studi, gratuitamente.93
tre anni. De Mussi registra anche l’arrivo di locuste. Stesse notizie in Annales Mediolanenses, col. 740.
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Carlo Ciucciovino
biada e grano, e metuto quando era un’ora sole, innanzi che si potesse fare il covone, o la bica,
era molle per pioggia, e innanzi che si potesse battere; stette nelle biche tanto che vi mettea
dentro, ove molto se ne guastò quello anno, tale che il secondo vegnente ne fu grande
carestia».96 A causa del terribile maltempo, il raccolto va male, il grano quindi rincara
ovunque: a Siena vale 24 soldi lo staio, ed a Firenze 40. In molte città scoppiano tumulti, a
Firenze alcuni vengono impiccati e 400 persone bandite. Anche il campo imperiale è costretto
a stringere la cinghia.97
d’Incerto, p. 259.
99 CATUREGLI, Giovanni Agnello, p. 113-115.
101 Il mese di luglio è desunto da GRIFFONI, Memoriale, col. 181, data della visita del re di Cipro a Bologna.
Comunque Ammirato il giovane pone la notizia prima della stanchezza di Carlo IV per la guerra contro
il Visconti. Rerum Bononiensis, Cronaca B, p. 221 dice che il sovrano arriva a Bologna il 7 luglio.
Cronichetta d’Incerto, p. 259 pone il re a Firenze il 21 giugno e per una residenza di 15 giorni.
102 STEFANI, Cronache, rubrica 705 e Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 236; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p.
229.
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La cronaca del Trecento italiano
Domenico, il 10 luglio parte alla volta dell’imperatore. Subito dopo transita in Bologna la
figlia di Carlo IV, che viene ospitata nello stesso convento di San Domenico.103
§ 33. Volterra
Il 23 luglio, il popolo di Volterra rumoreggia ed i Priori decidono di radunare il
parlamento generale per proporre una modifica agli statuti. L’assemblea approva la proposta
di eleggere sei saggi scelti tra i popolari a cui delegare la formulazione della riforma. «Ciò
stabilito, fu gridato ad alta voce che Jacopo degli Ottaviani di Firenze, capitano, meritava di
essere confermato per essersi reso benemerito del Popolo», anche per acclamazione popolare
viene confermato il podestà, il Pistoiese Sinibaldo di Vanni dei Cancellieri. I Priori scelgono i
riformatori dello stato e, tra essi, Paolo di Giovanni, Giovanni di maestro Ugo, Giusto
d’Alduccio, Alessandro di Filiuccio e Tommaso di Ciaccio. I Riformatori svolgono
rapidamente il loro compito e quando, il primo agosto, le proposte vengono approvate, viene
soppresso il Consiglio generale e la magistratura dei Quindici buoni uomini sopra le spese;
entrambe le decisioni sono state prese per favorire il potere dei popolari.104
§ 34. Terracina
Dopo il 1367 a Terracina non si incontrano più podestà genovesi «e ciò induce a credere
che, in seguito all’azione dell’Albornoz, circa quell’epoca i Genovesi dovettero rinunziare a
Terracina. Il dominio genovese è così durato venti anni (1347-1367), cioè il tempo stabilito
dalla repubblica per il pagamento del debito verso gli armatori della flotta di Simon
Vignoso». Terracina rientra così pienamente nella amministrazione pontificia della
Campagna, anche se le vengono confermati alcuni privilegi, essenzialmente tendenti a evitare
l’ingerenza del comune di Roma.105 La Chiesa ora però rivendica da Terracina «il plateatico e
la dogana del sale, che rende ogni anno circa 1.000 fiorini». Il provvedimento provocherà un
forte malumore.106 Non so come conciliare queste notizie di indipendenza da Genova, con
quanto scritto da Giorgio Falco che dice: «nel 1366 il legato, intento a recuperare alla Chiesa le
terre del Patrimonio, si propose anche di togliere Terracina ai Genovesi; ma ne fu distolto
dallo stesso pontefice che non volle aggravare con questa perdita la condizione della
Repubblica [di Genova] mentre era in guerra con Galeazzo Visconti».107
Anche su Terracina, come in altri centri della Campagna Marittima vi è un continuo
tentativo di ingerenza da parte dei conti di Ceccano.108
103 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 236. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, Lib. XV, p. 115 registra il
transito del sovrano per Padova, nel viaggio verso Venezia.
104 CECINA, Volterra, p. 173-175 e nota 1 a p. 174 che riporta alcune delle più importanti modifiche agli
statuti.
105 Provvedimento opportuno perché in BELVEDERE, Segni, p. 225 apprendiamo che Roma ha ripreso la
sua politica espansionistica in Marittima e Campagna e pretende dai comuni i proventi del sale e del
focatico.
106 BIANCHINI, Terracina, p. 172-173.
109 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 237-238; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 230.
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Carlo Ciucciovino
Per ripopolare Bologna, il cardinale emette una grida che garantisce a chi voglia stabilirsi
in città un’esenzione dalle tasse per cinque anni.110 Chiamati da messer Antonio Galluzzi,
alcuni frati vengono a fondare un monastero in Piazza Maggiore «rimpetto alli Galuzzi, in su
la porta della cittadella». Sono frati Celestini e la loro chiesa viene dedicata a San Giovanni
Battista.111
115 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1368, vol. 4°, p. 14-15 e STEFANI, Cronache, rubrica 708;
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esercito in Toscana e poi dal papa, per ottenere la sua conferma della pace.116 Una cronaca
pisana narra che Carlo sarebbe entrato poi in Milano con poca gente, dove lo avrebbe ricevuto
l’esercito del Biscione, «più di 6.000 cavalieri, con l’arme lucenti, che pareano specchi, e per
ogni tocco della città ne stava una grande schiera». L’imperatore sotto il baldacchino, e
messer Bernabò e messer Galeazzo, a cavallo alle sue spalle, e, anco dietro, i soldati, che,
invece di gridare «Viva l’imperatore!», dicono: «Viva lo superiore!».117 Quindi, Carlo,
passando nel Bolognese, si reca in Toscana fino a Lucca, dove entra il 5 settembre.118
La pace tra Gonzaga e Visconti in qualche modo mette una pietra sull’assassinio di Ugolino
Gonzaga. Il vecchio Guido, padre dell’ucciso e degli assassini, morrà il 22 settembre del prossimo
anno; vedremo chi ne prenderà la successione.119 Comunque, era già chiaro da tempo che gli
assassini non sarebbero stati perseguiti: l’imperatore li ha perdonati con un diploma emanato da
Buda il 21 dicembre 1365 e il papa nel 1366, per essere certo che i Gonzaga avrebbero aderito alla
lega, ha ordinato al vescovo di Mantova Ruffino Landi di assolverli.120
Come meglio dell’anonimo compilatore di una cronachetta di Firenze si può condensare la
futilità della discesa di Carlo in Italia? il cronista chiosa così: «del mese di maggio lo’mperadore
messer Carlo della Magna venne in Lombardia addosso a messer Bernabò, signore di Melano, ed
era la Chiesa, e lo’mperadore, e’ tiranni di Lombardia, e la reina Giovanna di Napoli, e altra
gente a lega insieme per disfare il signore di Melano. Lo’mperatore volle andare in su quello di
Melano: il signore era provveduto e afforzato. Lo’mperadore, anziché compiessero tre mesi,
s’accordò col signore, tolse danari, tornò verso Pisa».121
116 PELLINI; Perugia; I; p.; Perugia; I; pag. 1034-1035; Annales Mediolanenses, col. 741; CORIO; Milano; I; p.
825; VELLUTI, Cronica, p. 262.
117 Monumenta Pisana,col. 1049; RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 213. Sembra lo stesso racconto di quando
120 MALACARNE, I Gonzaga di Mantova, p. 75. Ibidem p. 76 si registra la morte del terzo figlio di Guido, che,
insieme al fratello, ha assassinato Ugolino; anche per questo decesso si parla di omicidio. WALDSTEIN-
WARTENBERG, I conti d’Arco, p. 291 nota che Antonio conte d’Arco, con grande delicatezza, esprime le
sue condoglianze «comportandosi come se Francesco fosse morto di morte naturale col compianto del
fratello».
121 Cronichetta d’Incerto, p. 259.
123 FARULLI, Annali di Sansepolcro, p. 27-28. Per la critica a tale notizia si veda l’esauriente COLESCHI,
Sansepolcro, p. 53-57.
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COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 104-107; con molti dettagli DATTA, I Principi d’Acaia, I, p. 224-
125
237. Si veda anche D’ORVILLE JEAN, Chronique de Savoie, p. 219-221 e CIBRARIO, Savoia, III, p. 214-220.
Molto interessante è leggere in TURLETTI, Savigliano, I, p. 255-279 come vengano vissute con allarme e
mobilitazione le imprese del principe Filippo e dei suoi mercenari.
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provvede per non deludere le aspettative imperiali ed ottenere il suo scopo. Il 23 d’agosto,
Giovanni dell’Agnello in persona, «vestito di velluto raffigurato ad oro», viene a Lucca e
consegna la città all’imperatore. Il 27 Marcovaldo, lasciato suo nipote Gualtieri alla custodia
della città, viene a Pisa con il doge, trecento cavalieri e quattro bandiere spiegate: l’aquila nera
in campo dorato dell’Impero, quella del comune di Pisa, quella del popolo di Pisa e quella
personale di Marcovaldo. Gli armati del doge se ne stanno, cautamente, a Pontedera e San
Mignano.126 Il 5 settembre, quando Carlo IV si sta avvicinando a Lucca, il doge, Marcovaldo e
tutta la comitiva sopradetta si incontrano con lui a Ghiara, tra Lucca e Moriano.
Carlo è stato tempestivamente informato che Giovanni ed il suo oro si stavano
avvicinando e si è disposto ad accogliere con molta benevolenza il mercante ora ex-doge e
suo vicario, ed i suoi fiorini. Sul posto, l’imperatore allaccia il cingolo di cavaliere a Giovanni
dell’Agnello ed ai suoi figli. Giovanni, a sua volta, investe della dignità i suoi nipoti e diciotto
cittadini, tra grandi feste. Finalmente, la comitiva imperiale si dirige verso Lucca, dove entra
con gran pompa. L’imperatore procede sotto un baldacchino di seta e passa per la porta della
città, ma i Lucchesi lo ricevono con un’imbarazzante freddezza. Ovunque v’è gente, ma in
silenzio. Giovanni fa gli occhiacci e ordina a mezza voce di gridare: «Viva l’imperatore!».
Come Dio vuole, finalmente si arriva al castello dell’Augusta, dove Carlo IV ed i suoi
prendono alloggio. Ma il destino sta per presentare il suo conto a Giovanni, il mercante, ora
vicario. Giovanni dell’Agnello ha preso dimora al palazzo annesso alla chiesa di San Michele.
La popolazione si accalca sotto le sue finestre per festeggiarlo. Il doge esce su un ballatoio di
legno, eretto sopra il chiostro, per mostrarsi; si addensano intorno a lui un gran numero di
persone, molte di più di quante possa sopportarne la fragile struttura di legno; mentre un
buffone si avvicina a Giovanni per chiedergli il consueto dono, con uno schianto, il ballatoio
crolla trascinando rovinosamente nella caduta venti persone, tra cui il doge. Questi è ferito
seriamente: «si fiaccò una coscia in tronco». Viene immediatamente trasportato nella sua
camera, sul letto. Malgrado la sofferenza, Giovanni non perde la lucidità: chiama a sé suo
nipote Gherardo dell’Agnello, ed i suoi fidati Piero di messer Albizzo e Bindaccio di
Peracca,127 e dice loro: «Andate a Pisa, e abbiate buona guardia della città, che lo stato nostro
non si mutasse». La preoccupazione non è destituita di fondamento. Non appena la notizia
del disastro è volata a Pisa, qui si formano molti assembramenti, gente che commenta
l’accaduto e valuta le prospettive cui può dar luogo. Il Conservatore di Pisa manda banditori
a vietare «radunamenti e capannelli», a notte fonda arriva trafelato messer Gherardo
dell’Agnello e gli altri, tra cui messer Gualtieri, il nipote di Marcovaldo, in rappresentanza
dell’imperatore. I cavalieri discendono al Palazzo degli Anziani, Gherardo vorrebbe che
Gualtieri prendesse alloggio nella canonica del Duomo, gli altri nel Palazzo, la differenza di
opinioni sfocia in diverbio, vi è evidentemente in gioco la posta del potere, finalmente Piero
di Albizzo e Binuccio di Peracca estraggono le loro spade, gridando: «Viva lo’mperadore, e
muoja lo Dogio!», trascinando quindi una turba vociante sulle scale del palazzo. Il povero
Gherardo riesce a salvarsi solo riparando sotto il mantello di messer Gualtieri. I rivoltosi si
precipitano poi dal Conservatore della città, che senza attenderli, è fuggito con tutti i suoi. Il
suo palazzo viene svaligiato. Dappertutto in città si sente lo stesso grido: «Viva lo
‘mperadore, e muoja lo Dogio, che s’ha rotto la coscia in tronco». In questo modo, il 5
settembre, nel giorno che dovrebbe essere stato quello del suo trionfo, Giovanni «perdette la
signoria in tutto; e a dì sette la rifiutò […] e signoreggiò Pisa anni 4 e dì 24, e si rimase in
Lucca a farsi medicare». L’8 di settembre l’assemblea degli Anziani decreta che i fuorusciti
possono rientrare in Pisa. Solo messer Pietro Gambacorti deve rimanere in esilio. Questi si
pone in Calcinania, a 10 miglia da Pisa. Il 3 ottobre Carlo IV arriva a Pisa con l'imperatrice.
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Notevole è rilevare che il suo seguito è composto quasi esclusivamente di militi assegnatigli dai
suoi ex-nemici: ha infatti quattrocento barbute fornite da Cansignorio e mille barbute
viscontee.128 Carlo spedisce Malatesta Ungaro con ottocento cavalli in aiuto ai Salimbeni di Siena
per sedare il popolo. Dopo aver ottenuta la promessa che il comune gli darà 7.000 fiorini al
mese, il giorno 8 riparte verso Roma, dove vuole esser incoronato dal pontefice, lasciando per
suo vicario a Pisa Marcovaldo con cinquecento cavalieri, ed a Lucca messer Gualtieri, con una
guarnigione di trecento cavalieri venuti di Lombardia.129 Il 12 è a Siena. Poi, dopo pochi giorni
a Viterbo. Qui incontra il Papa e con lui si reca a Roma. Il primo novembre il Papa incorona
l'imperatrice nella Basilica Vaticana.
Carlo ritorna poi a Siena, in gran subbuglio per fermenti popolari. La situazione in Pisa è
tutto meno che tranquilla: i partigiani di Pietro Gambacorti costituiscono almeno la metà del
consiglio degli Anziani. Il partito dei Bergolini e quello dei Raspanti si fronteggiano, nella
tensione generale. Inoltre, l’alto costo del grano, che è arrivato a 5 lire lo staio, predispone ai
malumori la popolazione. In questo clima, messer Gualtieri accoglie favorevolmente la
proposta di molti «cittadini, mercanti, uomini di mezzo», i quali vogliono solo tranquillità,
per far prosperare i propri commerci: si costituisca una compagnia, detta di San Michele, sul
modello senese, il cui scopo sia mantenere un ordine severo; se qualcuno osi sollevare il capo
e provocare tumulti, la compagnia provveda a disfare lui ed i suoi fino al terzogenito. La
compagnia può contare su ben 4.000 uomini, e non ne possono far parte né Raspanti, né
Bergolini. Ne sono capi un giudice e dottore, messer Surdo, e un ritagliatore di panni di lana,
Gherardo Casassi. Essi possono contare su un consiglio di dodici persone, tutti di mediocre
condizione, che issano un gonfalone imperiale: aquila nera su fondo oro. Il quartier generale
della compagnia è il refettorio dei Frati di San Michele. Gli Anziani non possono più prendere
iniziativa alcuna, e le guardie in città sono organizzate e dirette dalla compagnia. «E ognuno
faceva li fatti suoi e la città stava in pace». Il grano scende a cinquanta soldi lo staio.130
Il consiglio degli Anziani decide che vengano riammessi a Pisa tutti i fuorusciti e, tra loro
anche il capo dei Bergolini, Pietro Gambacorta. Carlo IV informato da una delegazione degli
Anziani, si turba molto vedendo nella deliberazione il capovolgimento della politica finora
seguita da Pisa, ma, realisticamente, accetterà il ritorno del Gambacorta il 14 febbraio del
prossimo anno.131
Giovanni dell’Agnello, informato di come tutto l’edificio del suo potere gli stia crollando
intorno, dicono che abbia pronunciato un proverbio: «sopra sale non à [vi è] sapore, sopra
scerlacto [scarlatto] non à colore, et sopra Pisano non à traitore».132
141-146 con molti interessanti particolari; VELLUTI, Cronica, p. 264-265; SOZOMENO, Specimen Historiae, col.
1083-1084; RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 215-217; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 172-174 elenca gli
Anziani; CATUREGLI, Giovanni Agnello, p. 186-191, Caturegli esamina la caduta del ballatoio e si chiede se
sia stata voluta, ma conclude per la casualità.
131 RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 175; CATUREGLI, Giovanni Agnello, p. 193-196.
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Brilla per la sua assenza in tutte queste drammatiche vicende, Giovanni Acuto, il
capitano di fiducia del doge deposto. Geoffrey Trease133 è convinto che John Hawkwwod,
dopo aver sconfitto l’esercito di Carlo IV sotto Borgoforte con l’allagamento, sia stato invitato
al pranzo di nozze tra Lionello di Clarence e Violante Visconti. Il condottiero inglese viene
quindi assoldato da Bernabò il 4 agosto, insieme a Guglielmo di Boson e 4.000 soldati, ed
inviato a combattere nel Perugino.
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spogliato di tutto. Vi sono dieci combattimenti contemporanei in corso entro le mura; tutto
può ancora accadere, ma Malatesta Ungaro arriva al Palazzo Pubblico, penetra nell’edificio,
sale ai piani superiori, seguito dai soldati e dal popolo in rivolta, cattura i consoli e li lascia in
farsetto. Nel palazzo rimangono solo i tre rappresentanti dei Nove, tutti gli altri sono costretti
alla fuga. Per la seconda volta in tre settimane, vengono riformate le istituzioni: a Nove, a
Dodici e a Popolo, cioè tre consoli dei Nove, quattro dei Dodici, e cinque del popolo minuto.
Malatesta si arrocca nel Palazzo Pubblico, sopra la cancellata che sbarra le scale; al di sotto
montano la guardia al nuovo governo gli ufficiali del comune. In pochi giorni tutte le fortezze
ed i castelli vengono in possesso del nuovo governo, i cui esponenti principali sono i
Salimbeni.136 Le torri ed i ponti dei Malavolti, alleati dei Salimbeni, sono fortificate; 100 fanti
di Montalcino e Massa montano la guardia ai consoli. Tutte le case delle principali famiglie
sono presidiate da fanti: dai sei che sorvegliano casa Bernarducci, ai 150 che presidiano casa
Piccolomini; 120 sono in ognuna delle case dei Tolomei, Salimbeni, Malavolti, Saracini, Il 4
ottobre Malatesta Ungaro lascia il Palazzo Pubblico e si rafforza nel castellare dei Malavolti.
Nulla che abbia validità in Siena si può fare senza il suo suggello. Malatesta designa come
podestà messer Simone di messer Tommaso di Spoleto.137 Il primo ottobre, i Riformatori di
Siena, in riconoscimento del pericolo corso dai Salimbeni per favorire l’entrata di Malatesta
Ungaro e ristabilire il governo del popolo, li ricompensano con il dono di sei importanti
fortezze: Castiglione d’Orcia, Piancastagnaio, Montegiovi, Boccheggiano, Rocca Tederighi e
Montorsaio, dove possono esercitare il “mero e misto impero”. Sono in gran parte castelli di
confine, affidati a leali patrioti del comune. Tutti i maschi adulti della casata fanno parte di
diritto del Consiglio Generale, «sono considerati una specie di alto consiglio politico cui i
Riformatori si rivolgono in circostanze importanti». I Salimbeni completano il loro prestigio
proponendo ed ottenendo di aggiungere al Consiglio Generale cinquanta nobili di diverse
famiglie. Osserva Alessandra Carniani: «Adesso, a poco più di un secolo di distanza da
Montaperti, non siamo più di fronte semplicemente ad una ricca consorteria di mercanti dalle
grandi disponibilità economiche, ma a un potente casato in grado di disporre di propri armati
e di avvalersi dell’appoggio di diverse fazioni cittadine, in questo caso della parte popolare,
nel tentativo di realizzare i propri sempre più chiari obiettivi politici».138 Quanto i tempi siano
mutati lo testimonia una lettera del 31 ottobre di Urbano V a Malatesta nel quale lo esorta a
fare quanto necessario per mantenere Siena fedele all’imperatore.139 Ora il vicario imperiale
Malatesta Ungaro può contare sull’appoggio di tutto il lignaggio dei Salimbeni e dei nobili
loro alleati; questa aumentata autorità e visibilità dei Salimbeni non è però esente da rischi e
lo vedremo il 18 gennaio del prossimo anno.
139 JONES, The Malatesta of Rimini and the papal State, p. 89, nota 4 e TONINI, Rimini, I, p. 405.
140 DE SANTIS, Ascoli nel Trecento, II, p. 118-119 e MASSIMI, Amatrice, p. 28.
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Trieste, spaventato dalle possibili conseguenze dell’atto dei loro concittadini, invia una
delegazione a Venezia a chiedere la pace ed accettando un trattato che viene stipulato il 3
settembre 1368. Una delle clausole prevede che Trieste debba accettare di far garrire il
gonfalone della Serenissima sopra il palazzo comunale nei giorni di festeggiamento di
solennità. Quando però il vessillo con il leone di San Marco arriva a Trieste, gli abitanti si
rifiutano con decisione di alzarlo sul pennone. Venezia invia un esercito di terra e di mare ad
assediare la città. Ma l’assedio si prolunga nel tempo ed è necessario inviare dei provveditori
che vedano il progresso dei lavori di fortificazione dell’assedio e sorveglino l’attività
dell’ammiraglio Domenico Michiel.
Dopo l’inverno del 1368-69, la Serenissima sostituisce i comandanti militari, inviando
Paolo Loredan e Taddeo Giustinian. La situazione si complica perché i Triestini invocano
l’aiuto del duca d’Austria Leopoldo d’Asburgo ed in primavera le truppe austriache si
dirigono verso Trieste assediata. Venezia provvede alla difesa del Trevigiano e del Cenedese,
chiede la mediazione dell’imperatore Carlo IV e devasta accuratamente il territorio triestino.
L’ammiraglio Giustinian fa sbarcare i propri equipaggi e li dispone su una linea di difesa. In
uno scontro i Veneziani hanno la meglio e le truppe del duca d’Austria sono costrette a
ritirarsi. Trieste, isolata, si piega a un trattato di pace il 28 novembre 1369.141
141 Raphaini Carasini Chronicon, col. 432-433; ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 238-239; CESSI, Storia della
stipendio di 4 fiorini al giorno, con 2 bandiere di armati e 4 lance spezzate, come sua guardia del corpo,
con provvisione di 18 fiorini mensili, ciascuno.
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Carlo Ciucciovino
presenza, i Baglioni si sono incontrati con i congiurati. Al "pentito" viene concesso di esser
riammesso in città e gli viene donato un podere appartenente a un Bastardo delle Meche, un
congiurato. Vistisi perduti, i Baglioni, col favore delle tenebre, si squagliano. Vengono
lanciate all'inseguimento alcune compagnie di Ungari, ma non si trova traccia dei fuggiaschi.
Gli unici Baglioni che rimangono in città sono Galeotto, con due suoi figli e Simone di
Filippuccio, tutti ritenuti innocenti di ogni addebito. Viene anche catturato, ma subito
rilasciato, un nipote di Percivalle Baglioni. Il 17 settembre vengono però decapitati quei
congiurati che sono stati catturati: Agabituccio di Ceccolo di Gocciolo, Neri di Petruccio dei
Montesperelli, Andrucciolo di Lucholo, nipote dell'abate di Pietrafitta, e Monte, fratello di
Gnagne Lungo. Sono scappati, oltre a sedici dei Baglioni,143 l’abate di San Pietro ed alcuni dei
suoi monaci, i suoi fratelli Baglioncello e Pietro Vibii, Francesco di Nicolò di Vinciolo, Nicolò
di Ceccolo di Gocciolo, Gnagne Lungo, Balduccio dello Squatrano, Magiolo ed il priore
fratello di Francesco di Bettolo, Servadio di Consolo, Vico di Cola del Galiffo ed altri cittadini
e nobili.144 Sono inoltre banditi messer Francesco di Bettolo ed il fratello del vescovo di Pesaro,
non perché accusati di aver partecipato alla congiura, ma per non aver obbedito all'editto di
Perugia, che, quando il papa ha minacciato la guerra, ha proibito ai cittadini perugini di
risiedere nelle terre della Chiesa, pena la vita e la roba. I rapporti tra Perugia ed il pontefice
sono ormai tesissimi: Urbano V scrive ai Priori un lettera piena di rigore, accusandoli di aver
ucciso amici della Santa Chiesa: "Fecistis scedem de devotis Ecclesiae Sanctae Dei". Un
ambasciatore perugino, Nicolò di Cola, viene prontamente inviato alla corte papale, per
placarne lo sdegno, ma, senza ottener nulla, rischia addirittura di esser trattenuto prigioniero;
impaurito il povero Nicolò parte di nascosto, per cui il papa, maggiormente adirato, ordina di
imprigionare tutti i Perugini che siano nelle sue terre.145
143 Il capo di questi è Oddo di messer Baglione, due suoi nipoti, due figli, Carlo Vitello, i figli di messer
Pellino, Ludovico di Guidarello, ser Eusepio di Contolo, Vico di Cola di Galiffo, populare. GRAZIANI,
Cronaca, p. 208-209, Supplemento Terzo, riportante una cronaca di Anonimo.
144 PELLINI; Perugia; I; p. 1041-1042.
146 MELCHIORRE DELFICO, Memorie storiche della repubblica di S. Marino, p. 98-102; FRANCESCHINI,
Montefeltro, p. 286-288.
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La cronaca del Trecento italiano
deve essersi accordato con il cardinale Androino, infatti suo figlio viene a stabilirsi a Bologna,
come se fosse un ostaggio di buona fede.147
147 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 239-240; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 234; ZAMA, I Manfredi, p. 113
dice l’evento è del 13 settembre.
148 DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 679.
149 PELLINI; Perugia; I; p. 1043 e DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 676-677. CAMERA, Elucubrazioni, p. 265-266
fornisce qualche dettaglio in più. Il ritrovamento è descritto anche in ANTONIO DI BUCCIO, Delle cose
dell’Aquila, col. 733, quartine 178-179.
150 Conservato all’Art Museum dell’università di Princeton; vedi fig. I del catalogo della mostra:
Sumptuosa Tabula Picta, edizioni Sillabe, Livorno, 1998. ANTONIO DI BUCCIO, Delle cose dell’Aquila, col. 733
scrive in proposito: «…sene dipintu colla sua figura, L’uno e lu autru tene in pettu colla loro figura:
Benedetta la sua alima, che abe tale ventura».
151 STELLA, Annales Genuenses, p. 162 e nota 4 ivi.
153 I principali tra costoro sono: Robert Briquet, Jean Cresuelle, Robert Ceni, Gaillart Vigier, bourg de
Breteuil, bourg Camus, bourg de l'Esparre, Naudon de Bagerant, Bernard de la Salle, Hortingo e Lamit.
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Carlo Ciucciovino
queste storie di violenza, Armand Almaric d'Albret, il sire di Labreth, prende in sposa Isabella
di Borbone, sorella di Luigi di Borbone e della regina di Francia e di Bona di Savoia. È un
matrimonio d'amore, ma il principe di Galles è molto irritato da questa alleanza tutta francese
di un suo barone, cui non perdona la storia delle duecento invece delle mille lance
promesse.154
L'errore politico che Edoardo di Galles ha fatto, alleandosi con lo sleale ed indegno re di
Castiglia, don Pedro, e che lo ha dissanguato economicamente, reclama le sue conseguenze.
Edoardo riunisce il consiglio, cui presenta la proposta caldeggiata dal vescovo di Bath e suo
cancelliere: quella di imporre un focatico, una tassa per fuoco, per famiglia dunque. Ciò è
contrario agli accordi che il principe di Galles ha stipulato con i suoi baroni, ma il suo bisogno
di denaro è grande. Viene organizzato un convegno a Niort, cui convengono tutti i signori di
Guascogna, Poitou e Xaintonge e Aquitania. Una parte dei nobili si rifiuta di pagare questa
nuova imposta, ricordando che il principe ha giurato loro che le loro terre sarebbero state
libere da imposte. I dissidenti sono il conte d'Armagnac, il sire di Labreth, il conte di
Pierregord, il visconte di Carmain, il sire di Barde, quello di Terride, di Picornet ed altri di
minor nome e potenza. Non si arriva alla rottura, i dissensi sono contenuti dalla cortesia e i
nobili promettono che avrebbero partecipato ad un altro convegno, dopo aver ascoltato i loro
sottoposti. Ma in realtà, in giugno, cavalcano dal re di Francia a narrare il sopruso di Edoardo
e dichiarandosi disposti a ritornare sotto la sovranità del re di Francia. Carlo, abilmente, si
schermisce, ma prende nota e lascia qualche porta aperta. I nobili si accontentano e, invece di
tornare nei loro domini, soggiornano a Parigi, per continuare il negoziato. Un secondo
appello alla corona francese è del 25 ottobre. Ma Edoardo ora deve subire anche la perdita di
John Chandos, che, affermando di esser lontano ormai da tre anni dai suoi possedimenti,
chiede licenza e si reca nelle sue terre in Normandia, soggiorna per un anno nella città di
Saint-Saveur. Edoardo procede con l'esazione del focatico.155
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La cronaca del Trecento italiano
157 Tra i quali il Siniscalco Edoardo di Contenain, Robert Aston e Tomaso di Grandson.
158 Heckz e' assoldato dal marchese Federico di Saluzzo, ma questi in realtà agisce per conto dei Visconti.
Quando questa segreta alleanza diverrà palese, il Conte Verde, furibondo per essere stato tradito dai
Visconti, che sobillano un suo nemico, passerà in campo avverso.
159 COGNASSO, Conte Verde*Conte Rosso; p. 198-199; SANGIORGIO, Monferrato, p. 198-199.
160 Annales Mediolanenses, col. 740: Dominus Galez Vicecomes prae nimio dolore effectus est velut demens. Un
ritratto del duca di Clarence si può vedere, per esempio, in TREASE, The Condottieri, p. 78
161 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1368, vol. 4°, p. 16, per Boulogne, invece di Bologna, vedi
Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 234, nota 5. Si consulti anche
Cronichetta d’Incerto, p. 260-261.
162 Ephemerides Urbevetanae, Degli accidenti di Orvieto, p. 93.
163 GREGOROVIUS, Roma nel Medioevo, libro XII, cap. II; GIULINI, Milano, lib. LXX, anno 1368 rileva che
Carlo è stato già incoronato a Roma. Appena un cenno in VELLUTI, Cronica, p. 266. Rerum Bononiensis,
Cronaca A, p. 240 registra che papa e Carlo IV stanno insieme a Roma. Poche parole in SOZOMENO,
Specimen Historiae, col. 1084. PINZI, Viterbo, III, p. 356-357 reputa il comportamento pacifico e sottomesso
dell’imperatore come insulso.
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Carlo Ciucciovino
bracieri alloggiati in cassoni pieni di terra, che provocano molto fumo che invade la stanza
prima di uscirsene dalle finestre.164
164 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, Lib. XV, p. 116-117. MURATORI, Antiquitates, tomo II, Dissertatio
167 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 234 e Ephemerides Urbevetanae,
Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 464-465. La nota a pag 234 riporta la notizia che sei dei
colpevoli, tradotti a Spoleto, vengono attanagliati con ferri roventi e, morti, gettati nel Tesino. Per la
lapide si veda CRISTOFANI; Assisi; p. 204. GORI, Istoria della città di Chiusi, col. 959 riporta erroneamente la
notizia enunciando la morte di Gomez e citandola nel 1367. Si veda anche SANSI, Spoleto, p. 243-245 e
Cronaca di Ser Guerrieri da Gubbio, p. 17, che dice che «erano sì tristi li soi portamenti [di Blasco] che più
de doicento cetadini solo da Ugubio andaro a Viterbo a dolerse con lo papa che lo removesse da
Ugubio ; et ebero industria mandarcie una bona donna con una soa figliola a dolerse che haveva
sforzata la figliola, la quale per adventura per picholo pregio haveva provata più huomini. Et bene che
el papa fosse compare del dicto mes. Brascha, pur lo remosse da Ugubio, dove mandò governatore uno
nominato Colimbeltrando da Mompuliere».
168 ASCANI, Apecchio, p. 59. MUZI, Città di Castello, vol. II, p. 222 parla della rettitudine e giustizia del
vescovo Buccio «meritatamente considerato per un santo vescovo». MUZI, Città di Castello, vol. I, p. 167-
179 pubblica i documenti originali.
169 MUZI, Città di Castello, vol. I, p. 179; ASCANI, Due cronache quattrocentesche, p. 61.
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aiutino contro chiunque al mondo». AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1369, cap. 1. Sul trattato di Toledo,
VALDEÓN, Pedro el Cruel y Enrique de Trastámara, p. 207-208. Si veda anche ESTOW, Pedro el Cruel, p. 257 che
scrive: «le galee castigliane vengono considerate così essenziali per neutralizzare il potere navale inglese
che, alla fine, Carlo V si sentì costretto ad investire ancora pagando le truppe francesi per assistere
Enrico nella conquista della Castiglia. La volontà di Carlo di pagare i servizi di du Guesclin e
d’Audrehem ha reso possibile il loro arrivo in Castiglia a gennaio 1369. Questa volta il loro aiuto sarà
decisivo»..
173 I figli sono, oltre le ragazze, Costanza, Beatrice e Isabella, due bastardi, Sancio e Diego, avuti da una
donna di palazzo. AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1369, cap. 2 e 7. Per questo paragrafo, MINOIS, Du
Guesclin, p. 336-337 e, per l’accordo, p. 338-339 ; FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 269-270.
174 Cronache senesi, p. 622; Cronichetta d’Incerto, p. 261-262.
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Carlo Ciucciovino
L'11 dicembre, una parte di Siena si leva a rumore, il tumulto pare sia organizzato da
Malatesta, dai Salimbeni e dai Dodici, contro i Nove. Tutta la città si arma, il popolo minuto
che, giustamente, vede nel tumulto un attentato al proprio potere, scende in piazza e nelle
vie, appicca le fiamme al portone del Palazzo Pubblico, e, penetratovi, ne scaccia i tre dei
Nove e i quattro dei Dodici, lasciandovi solo i cinque rappresentanti del popolo. Ai cinque si
uniscono altri dieci rappresentanti del popolo minuto, ed i Quindici governano fino a
gennaio. Convocato un consiglio di 858 consiglieri, vi si delibera una riforma, secondo la
quale Siena deve esser retta con maggioranza di rappresentanti del popolo minuto: otto su un
totale di quindici, gli altri saranno tre tratti dalle famiglie dei Nove e quattro da quelle dei
Dodici. Il capitano del popolo ed il Gonfaloniere di giustizia debbono esser scelti tra gli otto
popolari. Tutti prendono il nome di Difensori.176 I capi del popolo, ser Sozzo Tegliacci, ser
Francesco Bartali e Jacomo Boccacci, ottengono fortezze e guardia del corpo, a spese del
comune (Sozo, Rocca Albenga, Bartali Casole e Jacomo, Montemassi), «a benefizio di lor
tradimenti».177 Alessandra Carniani osserva «che il Malatesta, ma soprattutto i Salimbeni
siano stati d’accordo con questi rivoltosi lo dimostra il fatto che quattro di essi fanno parte
della commissione legislativa eletta subito dopo la sommossa».178
Ma la situazione non è, e non può essere, tranquilla: i Dodici convincono i più focosi ed
inesperti tra i giovanotti dei Nove che è in atto un piano del popolo minuto per sollevare la
piazza e correre alle loro case, per saccheggiarle ed ucciderli. Il venerdì i Dodici levano la città
a rumore e corrono nella Piazza del Campo, gridando: «Viva i Nove ed i Dodici!», ma quelli
di Camollia, che hanno compreso l'inganno, non si muovono, facendo fallire il piano. I Dodici
cercano di versare disperatamente tutta la colpa della sollevazione sui Nove, si rivolgono al
popolo minuto dicendo: «Fratelli, costoro ci hanno ingannati a questo errore, volgiamoci tutti
a loro e tutti li uccidiamo». Ma non sono credibili, vanno allora ad assalire la casa di messer
Malatesta, armati di lance e balestre. Malatesta fugge a casa Malavolti, e la sua casa viene
saccheggiata. Il giorno stesso, il governo del popolo reagisce, a difesa di Malatesta, il podestà
prende in ostaggio quattro giovani di ogni terzo di Siena, a garanzia dell'incolumità di
Malatesta. Questi in persona, riparato sotto la protezione del podestà, libera gli ostaggi.179 Il
17 dicembre il comune emette un documento nel quale vengono abolite le vecchie
denominazioni di Noveschi, Dodicini e Minuti, «d’ora in poi non si parlerà più di Nove, ma
di “popolo del minor numero”, di Dodici, ma di “Popolo del numero medio”, di Minuti, ma
di “popolo del maggior numero”. I ceti popolari, economicamente e socialmente meno
elevati, […] sono arrivati alla guida dello stato».180
Solo una settimana più tardi, il 22 dicembre, con la città ancora turbata, entra in Siena
Carlo IV con sua moglie. Egli è armato completamente, solo il capo è scoperto, e
completamente armati sono i suoi soldati. L'imperatore scavalca in casa Salimbeni. Non
appena smonta, un linaiolo, tal Antonio, subornato dal Fonda, gli porge un documento dove
sono elencate le malefatte dei Nove, gli astanti, contemporaneamente, gridano: «Giustizia,
Giustizia!». I capi delle famiglie dei Nove si precipitano a casa Salimbeni, chiedendo di esser
ricevuti, per discolparsi dalle calunnie, ma i Salimbeni negano loro l'ingresso. L'imperatore,
«per la gran confusione», chiede che venga convocato un consiglio. Questo viene indetto dai
difensori per il 26 dicembre, vi assistono il marchese di Monferrato, messer Malatesta, il
signore di Cortona, messer Giovanni Minucci, rappresentante di Carlo IV, ed i suoi nobili, i
difensori e 852 consiglieri del popolo. Giovanni ed il marchese di Monferrato hanno l'infelice
idea di chiedere che ciascuno sia libero di proporre le proprie idee, ed ottengono «più
consiglieri e consigli», ma nessuno onesto e serio, poiché l'assemblea è stata opportunamente
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La cronaca del Trecento italiano
manipolata dai Salimbeni e dai Dodici. Si mette in votazione che il nuovo regime dei
Difensori duri in perpetuo, e l'esito della votazione segreta dà il netto risultato di 709 lupini
bianchi, che approvano, contro soli 149 lupini neri. I presidenti del consiglio ora si
convincono che la convocazione del consiglio è stato solo tempo perso, e trame e congiure
continueranno a turbare il buon reggimento della città.181
Per cercare di alleviare un po’ le condizioni della città, praticamente assediata dalle
incursioni dei gentiluomini esiliati, «lo’mperadore, vedendosi assediato e morendosi di fame,
e per paura del popolo», ordina che i fuorusciti trattino un accordo con i difensori. Il luogo
dell'incontro è San Francesco dei Frati Minori, giudicano il marchese di Monferrato ed il
vescovo di Spira. Gli esiliati vengono, discutono, concordano ogni questione con il governo.
Ma la tregua conclusa è effimera, i Salimbeni ed i Dodici continuano a ricercare ogni
occasione per turbare la pace, venendone rimproverati dal marchese di Monferrato, che li
chiama traditori all'augusta presenza di Carlo IV.182
L'ultimo giorno dell'anno, viene a Siena il cardinale di Bologna, con folto seguito di
armigeri. I Senesi gli portano il solito baldacchino, ma il cardinale si rifiuta di entrarvi per
deferenza verso l'imperatore che gli è andato incontro per accoglierlo. Si mormora che il
cardinale sia qui perché Carlo lo vorrebbe come suo vicario in Toscana, e gli vorrebbe dare
come primo grattacapo la gestione di Siena. I Dodici prendono coraggio per l'arrivo del
cardinale e cominciano «a dire palesemente che, a volere ben vivare a Siena, era necessità di
un signore naturale, e che la Chiesa era santa».183
§ 63. Il clima
Il maltempo continua inclemente. «Del mese di giugno fina a l’uscita del mese de luglio a
octo dì, ogni dì piovve de grandissime acque che mai fallò che poco o assai non piovesse; et fu
gran fresco, como fusse stato de settembre o de octobre».185 Il freddo è grande a dicembre e
gennaio.186
all'imperatore, e quelli che elargisce al cardinale di Bologna: cera lavorata per 660 lire a Carlo e per 260
al cardinale: mandriani lire 60 e 20 rispettivamente, 140 lire di confetti all'imperatore e 40 al cardinale,
800 panelle d'oro con lire 60 di spognosi, 25 di spognosi ad Anglico, per Carlo 50 paia di capponi, 10
vitelle, 20 mogia di biada e 228 staia di vino in cabioni, al cardinale 50 staia di vino e 5 mogia di biada. Il
tutto per una spesa di 1.450 lire per Carlo e 420 lire per il cardinale.
184 CORIO; Milano; I; p. 827 e COGNASSO, Visconti, p. 246.
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Carlo Ciucciovino
dei suoi cardinali francesi, possano far riconsiderare ad Urbano V la sua decisione di
trasferirsi definitivamente a Roma, gli scrive una seconda lettera, nella quale decanta l’Italia e
il genio del suo popolo, comparandolo con i minori meriti dei transalpini. La procedura di
consegna di questa seconda missiva è conforme a quella della prima: a Bruni decidere se e
come riceverla. Quando verrà consegnata, lo sdegno dei prelati francesi è grande, come
meravigliarsene se proprio contro di loro e la loro mancanza di sapienza essa è diretta? Il
papa, invece, la riceverà con interesse.
All’inizio della primavera, il poeta va nuovamente a Padova e qui Giovanni Malpaghini
inizia a preparare una bella copia delle traduzioni di Leonzio Pilato dell’Iliade e dell’Odissea.
Francesco intanto continua la redazione del Canzoniere, riprendendolo dal punto in cui
Malpaghini glielo ha consegnato e, prima della fine di maggio, ha già incluso altre 14
composizioni. Continuerà a lavorarci per tutto il resto della sua esistenza. Con Francesco da
Carrara, Petrarca si trasferisce a Udine ad accogliere l’imperatore Carlo IV. In città il
cancelliere imperiale ed amico del Petrarca, Jan ze Středa arriva il 24 aprile, tre giorni prima
dell’arrivo della comitiva imperiale. Francesco vede nuovamente Carlo IV e poi lo precede a
Padova, dove ha un nuovo incontro con lui. A Padova lo raggiunge la richiesta di Galeazzo
Visconti che deve iniziare delle trattative di pace con i collegati e vuole il contributo di
Petrarca. Dopo qualche comprensibile esitazione ed ottenuto il permesso di Carlo IV, il poeta
accetta. Deve però impegnarsi con Francesco da Carrara a rientrare a Padova. A fine maggio
Petrarca è a Pavia, dove lo colpisce la sventura: il suo adorato nipotino Francesco, la luce
degli occhi suoi, è morto. Non sappiamo poi quanto si possa dedicare ai negoziati di pace
perché durante la sua permanenza qui egli è costretto a letto da una gamba ulcerata.
Partecipa comunque al matrimonio del duca di Clarence con Violante Visconti. Francesco
Petrarca, quando lascia Pavia, a metà luglio, discende il Po su una barca e vede ovunque navi
armate e truppe schierate sulle rive, ma non deve temere nulla, anzi, è grandemente onorato
dai soldati e la sua barca è colmata di regali e viveri. Giovanni Malpaghini, che ha completato
l’Iliade e l’Odissea, lascia definitivamente Petrarca, diventerà l’assistente di Francesco Bruni.
Petrarca arriva a Padova mentre infuria un grosso temporale. Francesco da Carrara lo
visita immediatamente e si trattiene a cena da lui. A Padova riceve la lettera di risposta del
papa alla sua prima epistola ed un’altra di Francesco Bruni che allega il saluto di un giovane
di belle speranze, ammiratore del poeta: Coluccio Salutati, che è assistente del Bruni.
Francesco da Carrara colma di lusinghe ed attenzioni il poeta, lo prega di completare il
De viris illustribus e gli chiede di indicare quali uomini effigiare nella Sala virorum del suo
palazzo, oggi nota con il nome di Sala dei giganti. A Padova riceve la visita di Giovanni
Boccaccio che gli racconta ciò che ha visto e sentito durante la sua ambasceria per conto di
Firenze al papa. La permanenza di Giovanni presso Petrarca si articola in dotte discussioni,
incontri con i tanti letterati ed uomini di cultura che guardano a questi due scrittori come fari
nel panorama culturale dell’epoca, e alla trascrizione di opere. Verso ottobre-novembre
Boccaccio parte. Poco dopo la partenza di Boccaccio, la salute del poeta inizia a peggiorare.
Da Francesco da Carrara riceve in dono un appezzamento di terreno ad Arquà, un località sui
colli Euganei, a circa 10 miglia da Padova; il poeta cede alle insistenze del signore carrarese e
accetta di trasferirsi a Padova. Francesco apprende che Philippe de Cabassoles è diventato
cardinale ed è in Italia.187
187 HATCH WILKINS, Petrarca, p. 254-261; DOTTI, Petrarca, p. 401-403; ARIANI, Petrarca, p. 58; BRANCA,
Boccaccio, profilo biografico, p. 157-158 e 162; Cabassoles è divenuto cardinale il 22 settembre. Anche
VERCI, Storia della Marca Trevigiana, Lib. XV, p. 114-115 e CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova,
p. 284-285.
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La cronaca del Trecento italiano
§ 66. Musica
A Venezia il re di Cipro, Pietro di Lusignano, incorona d’alloro, come i poeti, Francesco
Landini, magister Franciscus cecus horghanista de Florentia. Francesco è un trentenne, nato a
Fiesole da un pittore di nome Jacopo (forse, e molto probabilmente, Giacomo del Casentino) e
divenuto cieco in tenera età per le conseguenze del vaiolo. La cecità gli impedisce di seguire
la professione paterna, ma l’istinto artistico trova sbocco prima nel canto e poi nella
composizione. Non è insolito nell’epoca che i fanciulli ciechi vengano avviati all’esercizio
della musica.191 Anche i suoi fratelli sono artisti: Matteo è un pittore e Nuccio un musicista.
Francesco risiede con la famiglia a Firenze, nel quartiere di S. Spirito, e ne fugge nel 1348 per
scampare alla peste, riparando a Pratovecchio. Il giovane non vedente diventa abilissimo nel
suonare ogni genere di strumenti ed addirittura ne progetta uno, un tipo di salterio
trapezoidale. Tornato a Firenze, nel 1365 è tra i canonici del Capitolo di San Lorenzo, dove
opera un altro illustre musicista, Lorenzo di Masino del quale presumibilmente prende il
posto come principale musicista del Capitolo dopo la morte di questi nel 1372. In questo
luogo Francesco opera per tutta la sua vita, anche se con scarsa soddisfazione. Francesco fa
l’accordatore, produce musica su commissione, suona e costruisce organi. Morirà nel 1397.192
191 Un esempio minore:«Guercio di Ponte San Giovanni, buon suonatore di ciaramella e di tamburello e
di molti altri strumenti, sia assunto dal comune ecc.» in CENCI; Documentazione assisana; vol. I; p. 85.
192 A. FIORI; Landini Francesco; in DBI vol. 63°.
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781
CRONACA DELL’ANNO 1369
Die XI Februarii firmata & publicata fuit pax inter Ecclesiam & suos
Colligatos ex una parte, & dominum Bernabovem de Mediolano & dominos
de Verona ex altera.1
cui partecipano oltre 800 cittadini, per discutere se dar corso alla richiesta imperiale. Il
risultato del dibattimento è completamente contrario alla richiesta di Carlo. Il clima cittadino
è tesissimo, il 17 gennaio i cittadini giurano di osservare i capitoli del contratto di pace che
verrà pronunciato dal marchese di Monferrato. Ma, nella mattinata del 18 gennaio, il popolo,
organizzato e fomentato dai Dodici, si solleva: Nicolò di Nicolò Salimbeni, Nuccio da Bigozzo
e Giacomo Boccacci conducono una gran massa d'armati per tutta la città, decisi a vincere
ogni resistenza che si opponga loro. Nicolò Salimbeni, arrivato alla casa di messer Marsilio, vi
trova Iscotto di Minuccio, un popolare a capo degli armati della casata, questi si leva in piedi
e saluta Nicolò, che gli dice: «Siede!» e passa oltre, poi, improvvisamente, torna indietro, lo
prende per il petto e gli trafigge la gola con un pugnale, uccidendolo. Lordi di sangue, i
rivoltosi corrono alle case di Rinaldo del Peccia, dei Ruffaldi, degli altri del partito dei Nove,
uccidendo quanti incontrano e saccheggiando gli edifici. Messer Bartalo Fonda e ser
Francesco Bartali capeggiano un gruppo d'armati che percorrono Camollia, e per il chiasso
del Gallo, entrano sulla via ed assalgono furiosamente le case dei Marzi, ma costoro sono già
all'erta, e, bene armati, rispondono colpo su colpo, costringendo gli assalitori a fermare il loro
impeto. Questi però lentamente prevalgono ed i difensori vengono forzati a ripiegare dentro
l'edificio, cui viene appiccato il fuoco. Le abitazioni deserte sono svaligiate, rubando tutto «di
ciò che v'era dentro, fino le cuffie delle donne». I rivoltosi si precipitano quindi contro le
abitazioni di Placido di Meo, Fazio di ser Vanni, Ambrogio Binducci. Tutto il terzo di San
Martino viene corso e ogni resistenza vinta. Messer Piero e Cione Salimbeni, a cavallo, ed
armati fino ai denti, giungono al Palazzo dei Difensori e vi entrano con molta gente, senza
incontrare opposizione. La sedizione porta l'inconfondibile insegna dei Dodici. Le truppe
imperiali ancora non si sono mosse, e la loro inattività è la prima prova di connivenza con i
rivoltosi; ora, finalmente, messer Malatesta con i suoi armati e tutta la gente dell'imperatore si
schiera a Piazza del Campo. Gli imperiali inviano il podestà Simone da Spoleto, da poco
rientrato dalla sua spedizione in Valdichiana, a chiedere che i Difensori facciano uscire dal
palazzo i Nove. I Difensori, dignitosamente, si rifiutano, ma sono i Nove stessi Minuccio
Acarigi, Cino Cinughi e Neri Mannucci, che, fermamente, prendono commiato dai colleghi
sgomenti, ed escono per recarsi alla loro case. Nel palazzo rimangono quattro dei Dodici e
cinque del Popolo. Carlo IV, avvisato degli sviluppi della rivolta, ritiene di poter dare ora
corso al suo disegno di installare al governo di Siena il fratello del papa, e di forzare Siena a
tornare sotto il dominio della Chiesa. Si mette la barbuta in capo, monta a cavallo e con i suoi
3.000 cavalieri va a palazzo, per sfruttare a suo vantaggio il colpo di mano. I Dodici ed il
popolo comprendono il tradimento imperiale e si rivoltano contro le truppe di Carlo,
combattendole. Piazza del Campo diviene un terreno di scontro. Il capitano del popolo,
Matteino di ser Ventura da Menzano, «con poca brigata, col gonfalone, e le campane sonate a
stormo», esce contro i soldati imperiali, e li combatte aspramente, costringendoli ad
abbandonare la piazza, e ripiegare fino alla Croce del Travaglio (il trivio dove convergono le
vie di Banchi di Sopra, Banchi di Sotto e di Città). Ormai è una battaglia senza schema, né
ordine, si combatte in ogni via; l'alfiere imperiale viene ucciso e la bandiera con l'aquila nera
presa. L'imperatore ordina il ripiegamento verso piazza Tolomei, dove tutti smontano e si
asserragliano nei forti palazzi prospicienti la piazza. La battaglia che vi si scatena al contorno
dura sette ore. Molti sono i caduti ed i feriti tra le genti dell'imperatore. Un Salimbeni, che, su
incarico di Carlo IV, con un ramo d'ulivo in mano, si è recato dal capitano del popolo a
cercare tregua, viene cacciato. Dopo un'estenuante battaglia, i soldati imperiali sono costretti
a ripiegare nel quartiere dei Salimbeni. Il tumulto si cheta: si contano i cadaveri che sono
sparsi nelle strade e nei palazzi: «fuvi morti più di 400 omini, caporali di nome, e
gentiluomini da bene tra’ quali vi fu morto uno nipote de lo’mperadore, e un altro ferito, e
molti conti e cavalieri e persone nobili feriti tanti, che tutti li spedali ne erano pieni sanza
numaro. E così per li malvagi consigli rimase lo’mperadore al tutto vituperato e disfatto». I
Salimbeni sono costretti a fuggire da Siena. Il nipote di Carlo che è stato ferito va a Lucca per
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La cronaca del Trecento italiano
curarsi, ma vi lascia la vita. «Misser Malatesta tanto mercedò e lusingò co’ le scuse che il
popolo gli uperse la Porta a San Prospero unde entrò, e con 200 cavalli tutti armati,
piangendo, e con lui misser Joanni e 'l podestà vitoperati si fugiro». Mentre ancora la battaglia
infuriava, i Difensori popolari hanno mandato a richiamare i tre coraggiosi Nove che sono
stati costretti a lasciare il governo, invitandoli a rientrare nella loro carica, al suono di trombe,
con ghirlande in capo e ramoscelli d'olivo in mano. I governanti reinsediati sono fatti oggetto
di ogni cortesia. Ben diversa è la sorte degli sconfitti ribelli: Piero e Cione Salimbeni, assediati
dal popolo, vengono lasciati uscire solo quando rendono il castello di Massa; ser Francesco
Bartali viene catturato e trascinato dal capitano del popolo, cui viene affidato. L'imperatore
intanto vive giorni gran paura: ad ognuno che lo visita proclama la sua buona fede tradita:
«Io so’ stato tradito da misser Malatesta e da misser Joanni e da’ Salimbeni e da’ Dodici». Nel
suo timore concede tutto ciò che i Difensori vogliono, anche di più, «e così tremando che
parea esmemorato, e moriva di fame e volevasene andare, ma non potea perocché non avea
cavallo, né denari, né compagnia». È ancora una volta il valoroso capitano del popolo che
sblocca la situazione, fornendo Carlo di quanto gli bisogna per partire. Anche se in preda al
terrore, Carlo non dimentica il suo interesse, ed il suo procuratore messer Francesco Casali,
signore di Cortona, concorda col comune una serie di pagamenti: subito 5.000 fiorini, poi altri
15.000 in tre rate: il 4 agosto del '69, la prima, le altre a distanza di un anno ognuna. Carlo
firma e suggella tutto quello che gli viene sottomesso. Martedì 25 gennaio l'esercito imperiale,
ridotto a soli 2.000 cavalieri, esce da Siena, senza alcun vessillo,4 Carlo ha accanto a sé
l'imperatrice, ed è contornato dai suoi armati e da molti cittadini che lo scortano a garanzia
della sua incolumità. Uscito dalla porta cittadina, e tirato un sospiro di sollievo, mostra di
dirigersi a Massa, per poi ripiegare su San Quirico, dove non viene fatto entrare. Alloggia nel
castello di Vignoni. Poi, per San Galgano e Paganico, a grandi giornate, va a Pisa. Anche qui
si trova le porte sbarrate dai Pisani, perché è fama che Carlo abbia tramato col fuoruscito
Pietro Gambacorti, per riammetterlo in città. Malinconicamente, l'esercito si dirige a Lucca.
Alcuni dei caporioni della rivolta, nascostisi nei giorni seguiti alla sommossa, hanno cercato
di svignarsela confondendosi con i soldati imperiali, con questi infatti si sono mescolati «certi
sconosciuti co’ le barbute in testa, chiuse le visiere, e co’ li caparoni sopra l'arme», ma, tra
costoro, Giacomo Boccacci, Cecco padellaro e Giacomo di Cione vengono fermati e smascherati
e consegnati al valoroso capitano del popolo Matteino di ser Ventura. Il Fonda ed altri
fuggono, senza che il loro inseguimento dia esito. Rimangono a Siena la figlia di Carlo, con il
suo seguito, il marchese di Monferrato ed il cardinale Anglico Grimoard.5
In Siena segue un periodo di gran confusione, i Dodici sono stati vinti militarmente, ma
possono ancora contare su una gran numero di alleati in città: invece di far vendetta o
giustizia, il governo rilascia i prigionieri, viene proclamata la pace tra popolo e nobili, con i
patti che il marchese di Monferrato vorrà stabilire, i fuorusciti riammessi. «Se ne fè in Siena
festa e allegrezza e falò». Ma il marchese di Monferrato, indignato, o, più verosimilmente,
impotente, il 29 gennaio lascia Siena con la figlia di Carlo, «e de la pace non chiarì nulla».
Promettendo però di pronunciare il suo lodo quando arrivi a Firenze. Lo seguono i
gentiluomini di Siena, ed i Nove, e messer Vanni Malavolti, e, per il popolo, messer Giacomo
di ser Guido e Guernieri, spadaio. Quando il marchese è a Firenze, dice che la sua decisione
sarà pronunciata a Lucca, di fronte all'imperatore, e di nuovo la ridicola brigata lo segue
verso la sua nuova destinazione. Siena intanto non dorme sonni tranquilli: i Senesi «per
cagione de li romori passati teneano nel palazzo de’ signori Difensori molti balestrieri
confidati, e mangiavano e bevevano in palazzo a le spese del comune di Siena. E nel palazzo
del podestà stava molti balestrieri. E a tutte le fortezze di Siena vi stava cittadini a la difesa de
la città; e a tutte le fortezze de le porti si guardavano, e in su la torre del Campo stava di
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Carlo Ciucciovino
continuo di dì e di notte più guardie, e davano cenni di fuoco e di fumi, quando bisognava, e
sonavano le campane a stormo e a martello. Quelle genti e balestrieri che stavano in palazo
costò al comune per loro vita di mangiare e bere più di due mila lire».6
Massa, avvilita, chiede al comune di Siena di poter ridurre il tributo annuo che deve
pagare a Siena e che è di 1.200 fiorini d’oro; giustifica la sua richiesta con la forte diminuzione
del numero di abitanti che oggi vede una popolazione di sole 1.200 anime. Siena riduce il
tributo a 800 fiorini.7
Mentre Carlo imperatore è in Siena, viene a lui un’ambasceria pontificia, capeggiata da
due uomini autorevoli: Napoleone Orsini, conte di Manoppello, e Nicolò Spinelli da
Giovinazzo, «valentissimo uomo in legge e decretali». La missione di questi personaggi è di
mediare la pace tra Firenze e l’imperatore.8
§ 2. L’interdetto su Perugia
Perugia si organizza per la guerra contro il papa e crea una nuova magistratura: i Tre
sopra l'arbitrio della guerra, a loro vengono affidati grandi poteri per fare tutto il necessario alla
felice condotta di guerra. I magistrati durano in carica un certo numero di mesi, e tre mesi
prima della scadenza vengono loro affiancati i loro successori, così che vi sia continuità
d'azione e nessun vuoto di potere. Con i primi tre9 viene anche nominato il capitano generale
dell'esercito, Nicolò Buscareto, signore di Jesi.10
Il papa usa le proprie armi: scaglia l'interdetto sulla città. Il Domenicano che è incaricato
della sgradevole notificazione al comune di Perugia, viene dagli arroganti Perugini costretto a
dir messa, per alcuni giorni, anche alcuni ecclesiastici si prestano a forzare il divieto papale,
poi i magistrati della repubblica si rendono conto che tali gesti d'orgoglio non possono
giovare, e vescovo, vicario e frati vari sono lasciati partire dal territorio. Per venti lunghi mesi
Perugia rimarrà in tale penosa condizione.11
Francesco dei prefetti di Vico, sancisce la propria inimicizia con il papa schierandosi con
Perugia nel conflitto contro la Chiesa. Carlo Calisse sostiene che uno dei motivi che spingono
il prefetto a opporsi al papa è quello di convincerlo che l’Italia sarebbe sempre stata ribelle e
che quindi era meglio per la Santa Sede rientrare nella più quieta Avignone.12
9 I primi Tre sono messer Guglielmo di Cellolo, dottore in legge, Luca d'Agnolino e Grazzino di messer
Grazia. I loro successori sono: messer Sante di messer Sacco Saccucci, dottore in legge, Arlotto
Michelotti e Giovanni di Andrucciolo, costoro durano in carica 4 mesi, iniziando da novembre.
10 PELLINI, Perugia, I, p. 1044. Su Nicolò da Buscareto in questo periodo si veda VILLANI VIRGINIO, I conti
di Buscareto, p. 165.
11 PELLINI, Perugia, I, p. 1044-1045.
13 EDBURY, The Kingdom of Cyprus, p. 171-172 e 197, sulle motivazioni del gesto e sulle sue conseguenze si
veda ivi alle p. 175-179; FILETI, I Lusignan di Cipro, p. 106-109; Chronicon Estense; col. 491.
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Ugone Lusignano re di Cipri, e gli successe re Pietro, suo figliuolo maggiore, quale fu poi
ucciso da Pietro suo fratello minore».14
§ 6. Montepulciano e Siena
Li gentiluomini di Siena, cioè i nobili fuorusciti del partito dei Dodici, aiutano il popolo di
Montepulciano a sollevarsi contro la tirannia, che i cittadini definiscono intollerabile, di
14 GORI, Istoria della città di Chiusi, col. 959, riferito all’anno 1370.
15 Si veda DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 253 e 254. Le richieste sono del 9 e del 15 gennaio 1369.
16 Sono stati richiesti il 10 luglio, DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 254.
17 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 122-124; PASCHINI, Friuli, I, p. 348-349; DI MANZANO,
Annali del Friuli, V, p. 255 scrive che l’ordine del doge è del 10 luglio. ROMANIN, Storia di Venezia, IV, p.
238.
18 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 162; DATTA, I Principi d’Acaia, I, p. 242. RICALDONE, Annali del
Monferrato, I, p. 343 ci informa che uno dei marchesi del Carretto, Tommaso della Torre, milita nelle
schiere del Monaco. TURLETTI, Savigliano, I, p. 283 ci dice che questo Tommaso il 14 agosto del ’69 ha
passato la Stura e minaccia di avanzare sul Saviglianese.
19 TURLETTI, Savigliano, I, p. 280.
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messer Giacomo Cavalieri e dei suoi figli. Il 4 febbraio i rivoltosi corrono la città vincendo
ogni opposizione, vengono uccisi Bartolomeo, uno dei figli di Giacomo e dieci delle sue
guardie. Il fratello ed il padre sono gettati in prigione. Ma la folla inferocita assale il carcere «e
per forza (lo) rupero, e lui tutto el taglioro in pezi con grande scempio che mai bestia si
facesse, mangiaro le sue carni». I Senesi reagiscono alla bestiale furia del popolo, ma vengono
ricacciati ed addirittura costretti a lasciare la città. Poi il furore abbandona gli esaltati, e si
pensa a costruire il futuro, ed alle conseguenze di ciò che è stato fatto. I gentiluomini di Siena,
usano l’onda del loro successo di Montepulciano per negoziare la loro riammissione in Siena.
La trattativa va a buon fine: i nobili sono riammessi, i beni vengono loro restituiti, e, per
contropartita, il governo di Montepulciano, riformato a reggimento popolare, liberamente, si
sottomette a Siena. In questa città intanto si vive in un clima di continuo sospetto e di
allarmata tensione. Sorgono voci di insurrezione che durano lo spazio di un giorno e neanche
si riesce ad appurare da dove siano sorte. Il 16 febbraio i Salimbeni ed i Dodici tentano
un'insurrezione, ma la reazione del governo è pronta e i rivoltosi sono costretti a fuggire da
Siena. Immediatamente viene costituita una nuova magistratura, viene nominato un
Asseguitore, con grandi poteri, per poter assicurare alla giustizia i turbatori dell'ordine
pubblico. Il primo di tali ufficiali è Cecco di messer Francesco d'Ascoli; egli pubblica un
bando nel quale si invitano tutti i popolari a rientrare entro il termine di cinque dì, chi si
conformi pagherà una multa di 500 lire, ma chi rimarrà contumace sarà oggetto della
persecuzione del comune. Questa legislazione eccezionale non è sufficiente a riportare ordine
e legalità nella perturbata città. Le cronache riportano piccoli episodi rivelatori: una zuffa tra
due popolari, nella quale uno di questi viene ferito, la cattura del feritore coagula la reazione
dei suoi partigiani, che impediscono il giusto corso della giustizia; il magistrato allora ordina
che venga tagliata la mano al prigioniero sul davanzale della finestra del palazzo. «E così al
tutto era morta ogni ragione e ogni giustizia nella città di Siena, per operazione de’ Salimbeni
e de’ Dodici». Ma non solo in città avvengono soprusi: a Monteriggioni certi mascalzoni
derubano ed uccidono qualcuno nella corte del castello; gli abitanti li catturano e, senza
processo, li impiccano immediatamente. La situazione preoccupa i Fiorentini che inviano loro
ambasciatori, ben scortati da gente d'arme, a cercare di metter pace tra il popolo ed i
gentiluomini di Siena.20
Il 26 febbraio, i gentiluomini di Siena cavalcano e strappano Batignano al Fonda e
catturano Fonda e Giacomo Boccacci, per poi rilasciarli.21
491, che include nel trattato anche il signore di Cortona; GIULINI, Milano, lib. LXX, anno 1369. GRIFFONI,
Memoriale, col. 181; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 118-119; COGNASSO, Visconti, p. 246.
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Il 6 marzo il cardinale Anglico Grimoard, legato di Bologna, parte per Roma, tra la
costernazione generale. Egli è molto popolare per aver ben governato, di lui e del suo operato
scrive commosso il cronista: «Mai non si ricordarono (i Bolognesi) che in questa città fosse un
sì buon signore. Costui era un santo per noi, che ci avea così ben retti e sì ben guidati, che
scrivere non si potrebbe appieno». Mentre il suo corteo si dipana per le vie di Bologna, tutti
accorrono per vederlo e salutarlo, e «così gran male ne faceva alla gente che quasi ogni uomo
lagrimava». A gran voce richiedono che torni, e il buon Grimoard promette di tornare, ma
forse non così presto, deve andare a Roma, dal fratello papa, per cercare di comporre la pace
con la ribelle Perugia. Lo accompagnano nel suo viaggio alcuni preminenti cittadini di
Bologna: messer Antonio Galluzzi, messer Taddeo Azzoguidi, messer Francesco Ramponi,
messer Roberto da Saliceto, Antoniolo Bentivogli. Il bravo cardinale lascia in sua vece un
cattivo amministratore, il vescovo di Montalbano, Pietro di Chalois, che forse, anche per il
contrasto con Anglico, si fa la fama di un mal'uomo.23 Il vescovo di Montalbano dovrebbe esser
il legato per Lucca. Il 17 marzo l’imperatore Carlo IV, da Lucca, invia a Bernabò Visconti un
diploma imperiale, con il quale restituisce a lui ed ai suoi eredi il vicariato imperiale di
Milano e degli altri suoi stati di Lombardia.24
Con lodevole ottimismo, AFFÒ, Guastalla,p. 278 scrive: «e ritornarono in calma le cose di Lombardia».
CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova, p. 286-287.
23 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 246-247; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 245 lo chiama mal omo, con
aggiunta successiva alla cronaca, quindi, con tutta probabilità, dopo averlo sperimentato.
24 GIULINI, Milano, lib. LXX, anno 1369.
25 Castagnito è un borgo a 350 metri sul livello del mare, che guarda il fiume Tanaro.
26 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 162. Sulle trattative tra Amedeo e il Monaco d’Heckz, si veda
29 La potentissima compagnia dei giurati di San Michele a Borgo, sulla cui bandiera è effigiata l'aquila
imperiale, è composta di mercanti ad artefici che hanno il potere effettivo in città, e le loro guardie e
brigate percorrono notte e giorno le vie della città, per tenere tutto sotto controllo. Cronache senesi, p.
632-633.
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per obbligarlo a restituire loro la sovranità su Pisa. La - falsa - informazione rende sospettoso
l’imperatore, che decide di recarsi a Lucca per la via di Vicopisano; egli conduce con sé
messer Pietro Gambacorti e tre dei suoi figli, lasciando tutti a Calcinaia, con l’ordine di non
muoversi di lì fino a nuovo avviso. La Compagnia di San Michele, che aveva previsto grandi
onori per il ritorno dell’imperatore, sospende ogni festeggiamento. Quando Carlo giunge a
Lucca, a Pisa si scatena il dibattito riguardo al rientro dei Gambacorti. I Raspanti hanno
grande timore che il rientro di un uomo così popolare possa rinforzare il partito dei Bergolini.
E ne hanno ben ragione, i Raspanti hanno inasprito le gabelle, sono coloro che hanno preso la
rovinosa decisione di imporre dazi ai mercanti fiorentini, facendo piombare l’economia
pisana in una cupa depressione, in definitiva hanno indebolito la forza politica e finanziaria
del comune. Mentre i Raspanti si adoperano presso l’imperatore perché impedisca il ritorno
di Pietro Gambacorti, i partigiani di questo operano abilmente in Pisa, convincendo la
Compagnia di San Michele a favorirne il rientro come privato cittadino. Convinta la
Compagnia, il gioco è fatto! Il 24 febbraio messer Pietro Gambacorti, suo fratello Gherardo e i
loro figlioli entrano nella loro amata città, accolti festevolmente da fanciulli con l’olivo in
mano e da molti uomini a cavallo ed a piedi, che sono andati loro incontro fino a Bagno di
Monte Pisano, «e pareva che tutta Pisa andasse fuore a la porta per andarli incontro a vedere,
e molti andoro più là che Monte Pisano». In città la Compagnia di San Michele si è incaricata
di evitare che il ritorno possa provocare tumulti. I Gambacorti, entrati in città, ed accolti dalle
campane sonate a festa, si recano a San Michele, dove scavalcano e abbracciano i membri
della Compagnia, Guido Sardo e i Consiglieri. Davanti all’altar maggiore della chiesa, Pietro
per sé e per il suo lignaggio ratifica il loro giuramento di «essere amatori e conservare il
governo popolare della città di Pisa, ed aiutare mantenere l’Uffizio degli Anziani, sì ancora
della Compagnia di San Michele, tutto a devozione dell’imperatore, e vivere in pace nella
città, come buon cittadino privato, e se facessi altrimenti e’ dava licenza al popolo, che, a sua
posta, avessi la facoltà non solo di ammazzare lui, ma tutta la sua progenie, e justamente».
Finita la cerimonia i Gambacorti si recano alle loro case, dove ricevono doni ed omaggi dai
loro partigiani. «Non solo cose da mangiare, ma ancora molti fornimenti di casa, come sono
panni lini, letti, e altre cose». Non mancano doni in denaro, essendosi i Gambacorti
impoveriti, ed aver versato 12.000 fiorini al venale imperatore, per comprarne il consenso al
rientro.30 A coloro che hanno contribuito alla cacciata di Giovanni dell’Agnello viene
promesso honorevole stipendio. Costoro si apprestano a giurare amicitia et unione con il
Gambacorti.31
30 RONCIONI, Cronica di Pisa,p. 218-222; MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 748-750; Monumenta Pisana,col.
1052-1053; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 179-183. Ranieri narra le cose in modo un poco diverso da
Roncioni, egli scrive che Carlo muove da Suvereto il giovedì mattina e la sera è a Vada, qui lo raggiunge
un’ambasceria di Pisani che mettono sull’avviso di non entrare a Pisa, essendo in pericolo la sua vita.
Carlo manda in città il conte Gualando di Castagneto, arriva una seconda delegazione pisana che tende
a rassicurarlo e gli dice che può tranquillamente entrare in città. Carlo la notte sul venerdì arriva a Ponte
a Era e vi pernotta. Sorto il giorno, decide di non tentare la sorte e punta verso Lucca. Pietro Gambacorta
rimane alla Calcinaia. SERCAMBI, Croniche, p. 160-162 dà conto delle perplessità di Piero Gambacorti, che
teme di cedere in una trappola: per ben tre volte, prima di salire in sella, Piero chiede a Simone da San
Casciano se si possa fidare e Simone per tre volte lo rassicura, Pietro affidandosi alla Provvidenza,
estrae parzialmente la spada dal fodero, ne bacia l’incrocio della guardia con elsa e lama, dove forma
una croce, e infila in piede nella staffa e sale in sella. Si veda anche VELLUTI, Cronica, p. 271-274.
31 CORIO, Milano, I, p. 828.
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La cronaca del Trecento italiano
Giovanni Malatacca da Reggio, che conduce con sé truppe pugliesi della regina Giovanna,
soldati utilissimi, in caso di militarizzazione del confronto. Comunque, le forze che vogliono
la pace prevalgono su quelle della guerra ed ai primi giorni di marzo32 in Lucca si conclude la
pace tra Carlo IV e Firenze, infatti dopo lunghe trattative, gli ambasciatori della regina
Giovanna, Napoleone Orsini e Niccolò Spinelli, sono riusciti a mettere d’accordo l’imperatore
Carlo e la Signoria di Firenze: questa verserà 40.000 fiorini a Carlo IV, che si riterrà
soddisfatto. Un dono di 1.000 fiorini toccherebbe a Napoleone e Niccolò. 10.000 fiorini sono
da pagare 12 giorni dopo l'accordo, 15.000 in aprile, il resto ad agosto. In Marchionne si allude
al fatto che Napoleone e Niccolò abbiano invece ottenuto 50.000 fiorini da Firenze, per
pagarne solo 40.000 all’imperatore.33 Per Firenze i procuratori sono stati Simone Peruzzi e
Luigi Gianfigliazzi. Mentre sono in corso i festeggiamenti, arriva a Firenze il marchese di
Monferrato, pregando la signoria che conceda alle dame e signore del seguito imperiale di
passare per Firenze, nel loro viaggio verso Lucca. Grazie alla pace, «pareva che la città si fosse
tostamente e felicemente liberata da una gran tempesta», non mancano però i motivi di
preoccupazione: voci ben fondate informano che Carlo IV, nel partire, voglia nominare
Bernabò Visconti vicario imperiale per Pisa e Lucca. Il tiranno lombardo è amico della
Signoria, ma la sua vicinanza è troppo ingombrante e minacciosa. Fortunatamente per
Firenze, ad Urbano non garba che la sua Bologna, così faticosamente riacquistata alla Chiesa,
sia circondata da terre soggette ai Visconti, e il disegno imperiale fallisce, viene nominato
vicario di Lucca, Grimoard, fratello di Urbano V, mentre a Pisa non vi sarà nessun vicario. In
San Miniato comunque Carlo pone un uomo di sua fiducia, il leale Marcovaldo, patriarca
d'Aquileia. Questa notizia mette di cattivo umore la Signoria che ritiene comunque di
rimandare la soluzione del problema ad imperatore partito.34
Intanto, una buona notizia per i Tarlati: si concludono finalmente con successo le già
molte volte reiterate insistenze dell'imperatore per la liberazione degli sventurati Pietramala,
che da sei anni languono in carcere, nelle Stinche, dopo la loro cattura all'assedio di Bibbiena.
Sono liberati Leale, figlio d'Agnolo, e Marco, Ludovico e Pieronzolo, figli di messer Pietro da
Pietramala.35 Il 29 marzo i Pietramala fanno professione di obbedienza e fedeltà a Firenze.36
Il comune di Firenze fornisce una scorta armata a Carlo imperatore, perché l'accompagni
nel suo viaggio di ritorno verso Bologna ed il nord. I comandanti del contingente sono Jacopo
Alberti e Rosso dei Ricci.37
Grazie al rientro del fidato Pietro Gambacorti a Pisa, la Signoria finalmente si risolve a
permettere che i suoi mercanti tornino a trafficare a Porto Pisano, «il che veramente era anche
più comodo ai Fiorentini, perciocché per la molta sollecitudine che vi fosse usata, non fu mai
la strada di Talamone a Siena, interamente sicura».38 Il 16 giugno, nel palazzo del popolo i
sindaci della signoria, messer Niccolò degli Alberti, Giorgio dei Ricci, Carlo Strozzi e Niccolò
di Piero di Guccio firmano gli accordi che regolano la ripresa del commercio. I Fiorentini non
pagheranno gabelle per la loro mercanzia che transiti nel porto di Pisa, analogamente, i Pisani
sono esentati da imposte per le merci che passino nel territorio di Firenze. Chi voglia
1085; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 246; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 244; VELLUTI, Cronica, p. 268-
271. Anche RONDONI, San Miniato, p. 151, come altri, sbaglia dicendo che Marcovaldo è fratello di Carlo
IV. Si veda anche Cronichetta d’Incerto, p. 262-263 che scrive «e dissesi che i Fiorentini rimaneano con
maggiore onore ch’avessono mai; avendo avuto addosso quasi tutta Italia, e i maggiori signori del
mondo, e dissesi che Italia ebbe molte avversità e molti mutamenti di stato con caccia menti di sette;
Firenze mai si mutò».
35 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1369, vol. 3°, p. 16, nota.
37 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1369, vol. 3°, p. 19.
38 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1369, vol. 3°, p. 19.
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Carlo Ciucciovino
spacciarsi per mercante di una delle due città verrà smascherato. Se una delle città garantirà
la copertura ad uno di questi impostori pagherà 100.000 fiorini di multa, 200.000 Pisa. Le
mercanzie che Pisa trae di Venezia saranno esenti da dazio fino ad un valore di 30.000 fiorini
all'anno, oltre pagheranno gabella. Le rappresaglie sono sospese per cinque anni, non si
possono processare cittadini di una delle parti nell'altra città, senza opportune garanzie.39
39 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1369, vol. 3°, p. 19, nota.
40 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 119-121 e il documento 1621 (indicato erroneamente
come 1371 nei Documenti), a p. 34-40 dei Documenti nello stesso tomo.
41 COGNASSO, Visconti, p. 246.
43 Lo scopo del tormento è ottenere che Carlo di Navarra paghi il riscatto concordato per la liberazione
dal suo pseudo-sequestro da parte di Olivier de Mauny. La presenza armata di Bertrand e dei suoi
Bretoni ottiene lo scopo, Carlo paga il riscatto di 26.000 fiorini e regala ad ognuno dei capi bretoni un
castello in Normandia; MINOIS, Du Guesclin, p. 339.
44 FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 270-271.
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tremila lance.45 Enrico con il suo esercito e con Bertrand du Guesclin si impadronisce di tutte
le località circostanti. La battaglia viene cercata da re Enrico, che, mercoledì 14 marzo, all’alba,
piomba sopra le schiere di Pietro, trovandole in disordine, mentre cavalcano sparse, ed ignare
della presenza del nemico, per le campagne. Le schiere di Enrico, di Bertrand du Guesclin e
dei suoi compagni46 sono invece ben ordinate e serrate, pronte e desiderose di combattere. Re
Pietro non si perde d’animo, fa issare il suo pennone perché sia il punto di raccolta di tutti i
suoi, ed intanto si difende menando botte terribili con la grande ascia di cui è armato. Ma i
Saraceni voltano le spalle e sono inseguiti da una parte dei nemici; si scorge lo stendardo di
Enrico Trastámara procedere determinato verso quello di re Pietro, e l’impareggiabile
Ferrando de Castro consiglia al suo sovrano di mettersi in salvo. Mentre don Pietro cerca
rifugio nel castello, la battaglia prosegue, ma è ormai un massacro dei soldati saraceni e
cristiani di don Pietro. Quel giorno si contano 24.000 caduti, la maggior parte dei quali
dell’esercito di Pietro di Castiglia.47 Il castello di Montiel è molto forte, ma, quando v’entra
don Pietro, vi sono viveri per soli quattro giorni. La situazione è disperata, non è il caso di
cercare di forzare l’assedio con un atto di forza, e Pietro decide di tentare la sorte, sgusciando
tra le fila nemiche nella notte, approfittando del buio.48 A metà della notte sul 23 marzo,
Pietro e don Ferrando de Castro escono dal castello, è una notte di buio spesso, ma messer
Bègue de Villaines è di guardia con trecento armati, e sente dei rumori sommessi. Pensando
che sia qualcuno che, furtivamente, voglia rifornire gli assediati, avanza con la spada in
pugno, seguito da alcuni dei suoi. Si imbatte in uno degli uomini di don Pietro e gli intima
l’altolà. Questi è un Inglese che gli si scaglia addosso, Bègue lo lascia passare e si concentra
sul prossimo, che è Pietro, lo scruta in volto e, nel buio gli sembra re Enrico, i due fratellastri
infatti si somigliano, gli domanda: « Chi siete, Il vostro nome, e arrendetevi, o siete morto!»
impugna il freno del cavallo, impedendogli la fuga. Pietro vede che non può fuggire,
riconosce Bègue e gli chiede di aiutarlo a fuggire, promettendogli qualunque cosa desideri,
pur di fargli «evitare le mani del bastardo Enrico, mio fratello!». Bègue esita, poi, fingendo di
accettare, conduce il sovrano negli alloggi di messer Yons de Lakonnet. Ma non è passata
un’ora che vi capitano re Enrico e il visconte di Roquebertin, con alcuni loro armati. Enrico
evidentemente è stato informato della cattura, perché, entrando nella stanza dov’è Pietro,
pronuncia queste parole: «Dov’è questo Ebreo figlio di puttana che si chiama re di Castiglia?»
«Ma sei tu un figlio di puttana, ché io sono figlio del buon re Alfonso», risponde Pietro. E con
queste parole gli si lancia addosso, gettandolo a terra e lottando. Pietro estrae un pugnale e
sta per trafiggere il fratellastro, quando il visconte lo prende per un piede rovesciandolo.
Enrico ora è sopra, estrae un pugnale da una sciarpa a tracolla e uccide Pietro. Vengono uccisi
anche due scudieri, ma a don Ferrando de Castro nessuno torce un capello.49 Scrive Ayala:
45 AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1369, cap. 4 e 5; VALDEÓN, Pedro el Cruel y Enrique de Trastámara, p. 209-
210.
46 I capi principali sono: Geoffroy Ricon, Arnoul Limosin, Yons de Lakonnet, Jean de Berguettes,
questa battaglia è più sanguinosa di quella di Najera e che il successo si deve alle buone disposizioni
tattiche date da du Guesclin.
48 Si inserisce qui il racconto di AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1369, cap. 8, molto negativo per
probabilmente quella più prossima al vero è quella narrata da Ayala, secondo il quale, re Pietro,
convinto che non riuscirebbe ad evadere impunemente, negozia con i Bretoni e du Guesclin sopra tutti
per poter essere lasciato passare. Pietro garantisce 200.000 doppie a Bertrand se questi lo conducesse ai
suoi alloggi. Fatto l’accordo, il re e la sua scorta vengono condotti agli alloggi di Bertrand. Enrico viene
avvertito della presenza del suo mortale nemico e fratellastro nel suo accampamento e, completamente
armato, lo assale nella tenda, piomba a terra avvinghiato a lui e lo uccide. Su tale vicenda si veda
FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 271-275, naturalmente AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1369, cap. 8;
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«Re Pietro fu assai grande di corpo, e bianco e biondo, leggermente balbuziente, buon
cacciatore di uccelli, sapeva ben sopportare la fatica, molto temprato e sobrio nel mangiare e
bere; dormiva poco, e amò molte donne».50 Pietro ha poco meno di 36 anni, essendo nato
nell’agosto del 1333, pochi mesi dopo il suo fratellastro ed assassino Enrico, che ha visto la
luce a gennaio. Dopo la morte del Crudele, Toledo capitola e tutta la Castiglia viene
pacificamente in potere di Enrico Trastámara, che per ricompensare Bertrand du Guesclin, gli
dona la città che Pietro aveva promesso a John Chandos: Soria. La testa mozzata del Crudele
convince Siviglia ad aprire le porte senza combattere. Alvaro Garcia Albornoz, fratello di
Egidio, il 13 giugno 1369, ottiene il titolo di maggiordomo maggiore, e consigliere di Enrico,
re di Castiglia e di Leon.51
Continuando nella finzione di buoni rapporti col re Edoardo, il 26 aprile re Giovanni gli
invia 50 botti di vino francese, questa volta Edoardo III gli rimanda il dono. Il 21 maggio la
guerra diventa aperta e dichiarata. Il 3 giugno re Edoardo, in una solenne assemblea a
Westminster annuncia che riprende il titolo e lo stemma di re di Francia, riprende la guerra
dei cent’anni.52
si veda anche VALDEÓN, Pedro el Cruel y Enrique de Trastámara, p. 210-213 che crede al negoziato con du
Guesclin. HILLGARTH & HILLGARTH, Pere III of Catalonia Chronicle, vol. II, p. 580-581 crede alla versione
nella quale Bertrand du Guesclin ha dato la sua parola a re Pietro, per poi tradirlo. MINOIS, Du Guesclin,
p. 346-349 discute anche le possibili raccomandazioni date da Carlo V di Francia al valoroso Bretone,
consigli e forse anche ordini il cui scopo ultimo è di eliminare Pietro, per avere Enrico al suo fianco nella
ripresa della guerra con l’Inghilterra.
50 AYALA, Coronica del rey don Pedro, 1369, cap. 8.
52 FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 271-276; MINOIS, Du Guesclin, p. 337-351; ESTOW, Pedro el Cruel, p.
54 Cronache senesi, p. 628-629; con la pace firmata quest’anno, Siena riconosce al conte la signoria di
mediazione per giungere alla pace e la Signoria ha inviato «quattro ambasciatori di quattro case di
Firenze».
56 Cronache senesi, p. 628.
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57 Cronache senesi, p. 628 e LUCARELLI, I Visconti di Milano e Lucca, p. 9. Colorito resoconto in SERCAMBI,
59 Sotto, si vedrà che ai Milanesi con un soldo di estimo viene dato lo stesso gravame; ora un denaro di
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possono contro la rocca, che è saldamente nelle mani degli Aretini. I Perugini sfogano allora
la propria frustrazione correndo il territorio fino alle porte d'Arezzo, rubando bestie e
rapendo persone. Tornano quindi a Perugia, «parendo loro che non fosse da lasciar la città in
quei pericolosi tempi così sfornita d'huomini e di presidio». Mentre tornano, giunti nei pressi
di Castiglione Aretino, vengono assaliti da 400 cavalieri e 2.000 fanti aretini. La sorpresa
scompiglia le fila dei Perugini, ma Giovanni d'Andrucciolo manda prontamente a chiamare
un'avanguardia di 200 cavalieri che ha mandati a precederlo a Castiglione. Mentre la
pressione aretina sta trasformando la resistenza perugina in una rotta disastrosa, piombano
sui combattenti i 200 cavalieri richiamati, che costringono gli Aretini alla ritirata.62
Una volta catturati a Lucignano, vengono portati a Perugia e processati sia il podestà di
Monte San Savino, il Becca, che il castellano della rocca: il Gonella. Questi cerca di dimostrare
che si è difeso finché gli Aretini, con picconi e scalpelli hanno cominciato a minare le
fondamenta della rocca, la giustificazione convince solo parzialmente i giudici, che lo
condannano ad una multa, che il Gonella non può pagare; il poveretto viene gettato in galera
a scontare la condanna. Verrà liberato solo a pace fatta. Le cronache non riportano ulteriori
notizie sulla sorte toccata al podestà.63 Sono inoltre banditi messer Francesco di Bettolo ed un
fratello del vescovo di Pesaro, non perché congiurati, ma per essersi fermati alla corte papale
nonostante l'editto dei Priori che nessuno osi dimorare nello stato della Chiesa, «pena la vita e
la roba». Dinolo di Bindolo Monaldi, l'ambasciatore perugino presso i Visconti, ottiene da
questi in prestito un'importante somma di denaro, con la quale assolda Giovanni Acuto ed un
grosso contingente di Inglesi, circa 1.200 cavalieri, «de' piu' famosi e meglio conditionati che
fossero allhora in Italia». I Priori sollecitano continuamente Dinolo a far muovere l'esercito
verso la Toscana, ma, contemporaneamente, usano il conte Manoppello, Orsini, come
negoziatore di pace col papa. Inutilmente: Urbano chiede che Perugia interrompa i rapporti
con i Visconti, che è l'unico forte alleato che può impedire alla città umbra di soggiacere al
potere temporale della Chiesa. I Perugini rifiutano «ostinatamente la pace come cosa contraria
alla loro libertà». Il conte Orsini si prodiga generosamente nel tentativo di pace, ed interpreta
con tale lealtà gli interessi di Perugia da essere accusato di partigianeria dal papa. Dopo tre
mesi di incessanti negoziati, Manoppello si ammala e muore, Pellini afferma che la causa del
decesso è da ricercarsi nella tristitia d'animo, per la sua incapacità di concludere con successo
la propria missione.64
Bernabò Visconti, intanto, ha inviato due suoi ambasciatori a Perugia, messer Alderigo e
messer Alberto. Non hanno un incarico specifico, ma sicuramente il loro compito è di seguire
attentamente l'evoluzione degli avvenimenti per permettere al signore milanese eventuali
tempestive azioni, nel caso di defezione di Perugia. Quando i Milanesi salgono le scale del
palazzo dei Priori, il portinaio, irritato mormora: «Ecco coloro che sono venuti per togliere la
libertà e lo stato», venendo immediatamente imprigionato. Egli scampa alla decapitazione
solo per la benigna intercessione degli ambasciatori viscontei, che non vedono la necessità di
porre il sigillo di tale cattivo inizio alla propria missione. Al poveretto però quello stesso
giorno, una domenica, viene tagliata la lingua. La convinzione generale è che il malcapitato
non abbia espresso la sua opinione personale, ma riferito quello che si dice nella casata
Pelacani, che egli frequenta. Gli ambasciatori chiedono al comune che voglia finalmente
mettere in libertà i comandanti catturati nella battaglia di San Mariano, avvenuta quattro anni
fa': infatti sia messer Ugo Inglese, che Giovanni Breccia ed il conte degli Ungheri sono ancora
privati della libertà. Gli illustri prigionieri liberati vanno immediatamente a Milano, a
ringraziare il Visconti, mentre il conte degli Ungari rimane in città a servire Perugia, con una
compagnia di Ungheresi.65
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75 Monumenta Pisana; col. 1051 dice, in verità, martedì notte dopo la Pasqua di Sorresso. Sarebbe quindi la
notte sul 3 aprile. Ma la stessa fonte, alla colonna seguente, attribuisce la rinuncia di Guido Sardo e
Gherardo Frasassi alla mattina del 4, la mattina seguente agli avvenimenti. Per gli eventi si vedano
RONCIONI, Cronica di Pisa,p. 219-222; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 183-184 e alla nota 56 ivi.
76 Messer Guido Aiutamicristo ha dato una delle sue figlie in sposa a un figlio di Pietro Gambacorti.
Guido è accreditato di un patrimonio di 100.000 fiorini. (20.000 secondo Monumenta Pisana; col. 1051).
77 I loro nomi, tutti preceduti dall’appellativo ser, quindi dottori in legge, sono Jacopo di ser Betto Papa,
Colo da Scorno, Gherardo di ser Baldo da San Casciano, Matteo Bartolotti, Piero Malpiglia, Bartolomeo
Graffolini, Guido Sardo, Andrea di Giovanni Buonincontri, e compagni. Il cancelliere è ser Francesco di
Bartolo da Buti e il notaio ser Giovanni di Jacopo Peccioli.
78 Inde a due dì, dice Monumenta Pisana; col. 1052.
79 I loro nomi sono: Piero di messer Albizzo, Jacopo del Fornaio, Piero dell’Ante, Guido da Caprona,
Francesco Griffo, detto Bambacino, e Manfredi Buzzacarini, Piero del Fornaio, Cione Aiutamicristo,
mercante, Tommeo Graffolini, mercante, Nieri da Santo Pietro, il conte Gualando da Castagneto e ser
Francesco di Geremia. Monumenta Pisana; col. 1052.
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comanda al suo Gran Cancelliere e vicario a Lucca, Luffo-Mastro, ovvero Gualtieri (o Bosch) di
Hoschschliz,80 di cavalcare a Pisa con una gran parte dell’esercito, con i fuorusciti pisani dei
Raspanti, e con i Lucchesi. Il giovedì mattina l’esercito imperiale si presenta davanti alla Porta
del Leone, una «porta forte come un castello, aveva due grandissime torre, e potevasi
difendere di drento e di fuora; e’ merli erano doppi di dentro e di fuori, con molti altri edificii,
e’ quali aveva fatti fare messer Giovanni dell’Agnello, in nel qual edifizio vi si era speso di
quel comune più di 20.000 fiorini». La porta è affidata ai Raspanti, e specificamente ai
partigiani di Giovanni dell’Agnello, che consentono subito l’accesso agli imperiali. Salgono
sulle mura i messeri Gherardo, Antonio e Piero di Vanni dell’Agnello, messer Ludovico della
Rocca, messer Giannetto (Visconti) da Milano, che è venuto «alla guardia dell’imperatore»
con 3.00081 cavalli, messer Lanzi, Tedesco, gran capitano, il Maniscalco Bosch e molti capitani.
Gli altri comandanti ed il resto dell’esercito aspettano, abbasso, fuori delle mura, pronti ad
entrare in città. Ma se la porta è in mano agli imperiali, per entrare in città occorre combattere.
Si è sparsa la voce, vera o falsa che sia, che l’imperatore abbia ordinato ai suoi di mettere a
sacco Pisa, uccidere tutti, compresi donne e bambini, saccheggiarla, bruciarla e spianarla al
suolo, seminando il sale. Gli Anziani fanno allora suonare le campane a martello e «tutti
corsono, infino le donne, alla defensione della detta porta, appiedi e a cavallo armatisi con più
prestezza che loro potevono». La porta viene sbarrata con travi ed altro legname, vengono
anche usati i banchi delle chiese, ed inizia un’aspra battaglia. Alcuni balestrieri pisani
vengono uccisi. Gli altri salgono sul tetto della chiesa di San Giovanni e di qui bersagliano gli
imperiali che sono sulle mura. Per l’imprevista pervicacia della resistenza, e grazie alla
provvida rottura del meccanismo della saracinesca gli imperiali debbono desistere dal
proposito di entrare con la forza in città. Si domanda allora di parlamentare, e il Gran
Cancelliere, messer Giannetto e Lanzi Tedesco [Johann von Rieten], per una porticciola che è
verso il Campo Santo, vengono fatti entrare. Nel convegno armato con Piero Gambacorti ed
alcuni degli Anziani, insieme ai ragionamenti corrono molti denari82 - dicono le malelingue -
perché, finito l’incontro gli imperiali, dopo aver lasciato quaranta balestrieri di guardia alla
porta, se ne tornano a Lucca, per la via di Valdiserchio, facendo piangere i malcapitati
contadini che vivono lungo il percorso. I Pisani intanto, il 6 aprile, fatti due gatti di legno,
attaccano la porta, impadronendosene. I difensori vengono rilasciati senza offesa alcuna, la
parte posteriore delle fortificazioni della porta, quelle che la proteggono verso l’interno della
città, demolita. L’imperatore Carlo non accetta l’insuccesso del maliscalco e gli ordina di
cavalcare nuovamente verso Pisa, devastandone il territorio. Il 7 aprile l’esercito imperiale è
di nuovo in Valdiserchio, dove preda, violenta, uccide, sequestra cose e persone. L’8 cavalca
in Val di Calci ed a Caprona, ma l’esercito pisano, insieme agli Inglesi assoldati esce in
campagna ed affronta gli imperiali a Calci, ricacciandoli. Domenica notte, gli imperiali
corrono Lucca per la Chiesa e per il pontefice, predisponendo così l’eventuale concessione del
vicariato imperiale a persona grata al papa. I Fiorentini, preoccupati, inviano ambasciatori a
Carlo per cercare di mediare una pace. Il 10 aprile i messi di Firenze, dopo esser stati ricevuti
a corte, sono a Pisa per ascoltare le richieste dei Bergolini. Poi, montati a cavallo, nuovamente
a Lucca a comunicare ciò che i Pisani vorrebbero. Ma mentre gli ambasciatori credono di
operare per la pace, al contrario irritano profondamente Carlo, che, imbizzarrito, monta a
cavallo e conduce la sua gente verso Valdiserchio, procurando notevoli danni a Cafaggiareggio.
Le devastazioni proseguono il 13 ed il 14 aprile; in questo giorno i Fiorentini, tornati a Pisa,
convincono i Pisani a nominare plenipotenziari per negoziare coll’imperatore. Tre
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ambasciatori pisani vanno a Firenze a stendere i capitoli di una pace. Nel frattempo, gli
imperiali non cessano di imperversare nel territorio, ma gli Inglesi di Pisa, intercettandoli, ne
catturano una quarantina.83
L’avvenimento è così lapidariamente sintetizzato nella cronaca di Siena: Carlo IV
tratterebbe con l'ex-doge Giovanni dell'Agnello, per rendergli il potere in Pisa, segno evidente
che Giovanni è decaduto, forse storpio, ma ancora molto ricco, ed ai fiorini sonanti Carlo di
Boemia non ha mai saputo resistere. La notizia arriva però alle orecchie del segretario
dell'imperatore, messer Giovanni Mini da Siena, che, in aprile, svela la potenziale minaccia a
Pietro Gambacorti; questi, prontamente mobilita i suoi, e fa rastrellare i partigiani
dell'Agnello, ne uccide alcuni nei tumulti, scaccia da Pisa il resto, saccheggia e brucia le loro
dimore. Carlo incassa impassibilmente lo smacco.84
Anche Giovanni dell’Agnello cerca di pescare nel torbido di questa confusa situazione e,
la notte del 25 aprile, cerca di penetrare in Pisa, grazie all’aiuto di alcuni suoi partigiani, ma
fallisce e corre di nuovo a rifugiarsi a Lucca. Fino al giorno in cui viene firmata la pace, il 29 di
aprile, gli imperiali non smettono di condurre dolorose incursioni nel territorio pisano.
Finalmente il 29, nel convento dei Frati Predicatori vicino alla fortezza dell’Agusta, si firmano
i capitoli della pace. I Pisani si scusano per aver offeso l’imperatore, si impegnano a far
reggere la loro città a governo popolare, ma negli uffici debbono essere eletti uomini fedeli
all’Impero, promettono di non darsi mai un tiranno, «né in nome, né in fatti», l’imperatore,
quando venga in Pisa ne sia il vero padrone, ma rispettando il governo popolare, vengono
rilasciati tutti i prigionieri e restituiti e restaurati i loro beni, infine il comune di Pisa paga
50.000 fiorini di conio fiorentino all’imperatore, defalcando però i 12.000 che Piero
Gambacorti gli ha già dati. Il 2 di maggio, annunciata la pace, Pisa festeggia. Il 14 tornano in
città coloro che erano prigionieri dell’imperatore: malgrado che arrivino di buon’ora, per
sciogliere un voto fatto durante la loro dura prigionia, attendono l’Avemaria, e «scalzi, senza
niente in capo, tutti con il capestro al collo, e una falcola85 in mano», entrano per la Porta del
Perlascio e vanno alla chiesa di Santa Maria del Ponte Nuovo, dove offrono candele.86
Non so come collocare quanto narrato da Giovanni Sercambi 87 che narra la ribellione di
Annese e Flak e la morte del Maliscalco per un colpo di verrettone in bocca a metà aprile.
83 Per tutto il brano si vedano RONCIONI, Cronica di Pisa,p. 222-229; MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 748-
750; Monumenta Pisana,col. 1052-1053; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 184-186; Ranieri ci dice che con
Giannotto Visconti vi è anche Luchino Novello. Giovanni Sercambi partecipa alla presa della fortezza di
Pontetetto, perciò tutti gli ampi dettagli che egli narra nella sua cronaca, SERCAMBI, Croniche, p. 165-169,
sono da considerarsi come di prima mano. Cronichetta d’Incerto, p. 263-264 esalta l’attività mediatrice dei
Fiorentini: «per questa venuta dello ‘mperatore messer Carlo, tutta Toscana ebbe mutamenti e grandi
avversità e guerre l’una terra coll’altra. E per questo i Fiorentini sempre aveano ambascerie per tutte le
terre di Toscana, mettendo pace fra l’una terra e l’altra».
84 Cronache senesi, p. 628.
85 Questa fiaccola è in realtà una candela da una libbra. Monumenta Pisana; col. 1055.
86 RONCIONI, Cronica di Pisa,p. 231-232; MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 750-756; Monumenta Pisana,col.
1052-1055; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 186-188, egli ci fornisce i nomi degli ambasciatori fiorentini
che hanno negoziato la pace: messer Gaddo Gallo, Bartolo Murcio, Benegrande del Rosso e il loro notaio
ser Piero da Lucciana. RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 232 scrive che i prigionieri «stettero a grande rischio
della persona però che llo ‘mperatore era forte corrucciato colli Pisani perché erano stati cacciati li
Raspanti e ssiè ch’era sposta la Conpagnia di Santo Michele».
87 SERCAMBI, Croniche, p. 170-171.
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95 I loro veri nomi sono: Flaxen von Riesach e Johann von Rieten. Quest’ultimo, grazie al valore
personale messo in mostra nella battaglia, viene fatto cavaliere sul campo. G. TREASE, The Condottieri, p.
83. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 249; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 246-247 mette in evidenza che
Flaxen ed Annese sono confluiti separatamente sul campo di battaglia: «l’uno non sapeva de l’altro, sì
che fu chosa ordinata da Dio». VELLUTI, Cronica, p. 284 li chiama Fracco e d’Anisi.
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96 PELLINI, Perugia, I, p. 1048-1049; MANCINI, Cortona, p. 216; Diario del Graziani, p. 209.
97 PELLINI, Perugia, I, p. 1049-1050. SER GORELLO, I Fatti d’Arezzo,col. 843.
98 PINZI, Viterbo, III, p. 353-358.
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§ 26. Napoli
Il 28 giugno muore fra’ Filippo de Aguirre, frate francescano dei Minori. Egli, dopo
essersi ritirato in eremitaggio, è stato richiamato a Napoli da re Roberto e dalla regina Sancia
che gli hanno chiesto di diventare il confessore delle monache di Santa Chiara. La regina
stessa poi lo ha fatto diventare il suo confessore.101
Il comune di Teramo prende le armi contro Campli, un abitato che sorge a circa cinque
miglia a settentrione. La causa del conflitto è il feudo di Melatino che è nella montagna di
Battaglia di Santa Vittoria. L’esercito teramano sta per tre giorni sul territorio, per occupare la
montagna e, nel frattempo, razziando quello che può. Campli ricorre allora alla regina
Giovanna, la quale, dopo qualche tempo, grazie all’intermediazione del Giustiziere Giovanni
Minutolo, emette sentenza favorevole a Campli. La relativa pace verrà poi firmata il 10
dicembre 1371 tra il sindaco di Teramo, Antonello di ser Trasmondo, e il sindaco di Campli,
Buzio di ser Francesco. La montagna torna a Campli e Teramo, come compensazione, ottiene
alcuni beni.102
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mentre, se in potere del podestà, graziati e, a volte liberati. Cione della Foscola rompe con i
popolari, ma Pellini non sa perché.105
Il comune di Siena mantiene tre eserciti in campo contemporaneamente: uno a Cotone, al
comando di Ranieri del Bussa da Vitozzo, coadiuvato da Guicciardo, un secondo al comando
del Sanatore Francesco conte di Campello, che dopo la conquista di Foiano e Campriano sta
dedicandosi al riacquisto di un totale di otto fortezze, il terzo è a Berardenga, in Val
d'Ombrone, al comando di Francesco da Perugia, podestà di Siena. Il giorno 11 giugno
capitola il Cotono, il 17, dopo una battaglia di nove ore, viene conquistato Castiglione lungo
Ombrone. Nella conquista vengono uccisi il piovano Francesco Malavolti, l'abate d'Ardenga
messer Sozzo di Francesco Tolomei, un figlio di Giacomo di Feio del Budellaio, chiamato
Trezole, Filippo di Sinibaldo da Montalcino ed un famiglio del piovano Francesco da Colle.
Tutti gli altri difensori di Castiglione vengono catturati e deportati a Siena; tra questi quattro
figlioli di Giacomo d'Orecchia Montanini, uno dei quali è frate a Camporegi, Bartolo di Feo di
Dota e fra’ Paolo dei Montanini. L'esercito vittorioso rientra a Siena il 23 giugno. Il Sanatore
Francesco di Spalla dei conti di Campello viene fatto cavaliere dai consoli del comune, gli
vengono donati «cavalli ed armatura e drappi e vaj e bottoni, e fulli fatto uno disinare in
palazo co'signori». Il comune spende per tale cavallaria 3.600 lire. Ranieri del Bussa e
Guicciardo hanno 330 fiorini di premio. Sono tornati in possesso di Siena, Cerreto Ciampoli,
la Rocca Rinuccini a Gonfietta, Monte Antico, Castiglioncello del Torto, Porrona,
Casanuovola, Treguarda e Lucignano d'Asso. Il comune deve mendare ben trecento cavalli.106
I caporali tedeschi messer Francesco e messer Aniasi (evidentemente Flak e Annese),
portano in giugno nel Senese militi dell'imperatore, facendo assai danni. Il comune paga 1.500
fiorini per non essere ulteriormente danneggiato. Tre bandiere di soldati a cavallo inviate da
Firenze arrivano a patto concluso e sono rinviati al mittente.107
Mentre i Fiorentini sono impegnati ad emettere il lodo di pace tra il comune di Siena ed i
suoi nobili, Ranieri del Bussa con Bartolomeo di Vanni Cini, detto Pillotto, Antonio di Pietro,
con molti loro soldati vengono catturati in Maremma dai gentiluomini ribelli. Verranno
liberati in gennaio, contro un riscatto di 1.500 fiorini.108 Firenze, in luglio, emette il suo lodo
arbitrale, solennemente, nel Palazzo dei Signori. Il lodo viene ratificato in consiglio generale
in Siena il 24 luglio.109 Mentre si fa pace con i nobili, Siena se la deve vedere con i conti di
Santa Fiora, che, in luglio, si ribellano e prendono i castelli di Arcidosso e Marsiliana,
approfittando del fatto che il comune è impegnato su un altro fronte. Conclusa la pace, i
Senesi radunano un grande esercito a cavallo, con fanti e trecento balestrieri, e deliberano di
sgar(r)are i conti di Santa Fiore. La notte di sabato 18 agosto l'esercito esce dalle porte di Siena,
al comando di messer Federico di messer Boschetto da Vallelongo di Brescia e marcia fino ad
Arcidosso, dove pone il campo.110 A settembre viene completata la costruzione del battifolle e
di molte macchine d'assedio. I nobili rientrati in Siena, dopo sei mesi verranno reintegrati nel
Consiglio Generale, «nulla cambia nelle istituzioni politiche in vigore da dicembre; l’influenza
perturbatrice dei Salimbeni è per il momento considerevolmente ridotta».111
§ 28. Volterra
Il 18 giugno arriva a Volterra Alamanno di Francesco Salviati, ambasciatore di Firenze.
Chiede di essere ascoltato dalla cittadinanza e gli viene consentito di parlare di fronte ad una
assemblea di 198 persone. Egli espone con eleganza il contenuto della sua missione: Firenze
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chiede che Volterra riammetta alle cariche cittadine anche i fuorusciti, che scelga il capitano di
Volterra tra i cittadini fiorentini del popolo, e si propone come parte di intermediazione per
una pace definitiva tra fuorusciti e intrinseci. In effetti, il 16 luglio, quattro Volterrani hanno la
delega per stabilire la pace con i «fuorusciti e ribelli», ma con l’impegno di non consentire il
ritorno dei Belforti che sono stati costretti all’esilio. Alcuni dei membri di questa famiglia
dimostrano la loro lealtà al comune popolare rimettendo, insieme con i quattro delegati
volterrani, «all’arbitrio delle Arti e dei Gonfalonieri di Giustizia del popolo di Firenze la
decisione di quelle liti che erano state causa di gravi inimicizie».112 Dopo ponderato consiglio,
i Fiorentini emettono il 24 agosto il loro lodo arbitrale, articolato in molti punti, ma che
sostanzialmente prevede l’assoluzione di tutti i Belforti, di qualunque crimine si siano
macchiati, e la cancellazione anche del ricordo del loro crimine, inoltre possono rientrare in
possesso di tutti i loro beni, meno quelli andati distrutti. Comunque, i Belforti, donne escluse,
debbono rimanere in esilio e non si possono avvicinare a più di venti miglia dalla città, né
entrare entro un raggio di otto miglia a Firenze.113
§ 30. Sardegna
Mariano IV, giudice d’Arborea, assedia il castello di Acquafredda, ad occidente di
Cagliari, difeso da Berenguer de Entenza. Il re di Aragona, intanto, per provvedere ai bisogni
della guerra di Sardegna, spende la maggior parte del suo inverno del ’69 in Catalogna e
passa il Natale a Barcellona. Qui destina come capitano generale dell’impresa di Sardegna
don Berenguer Carroz, conte di Quirra, il capitano che è scampato alla sconfitta di Oristano.
In Sardegna comanda la flotta aragonese Francés de Aversò, che tenta di parare come può le
continue aggressioni di Mariano ai castelli reali. Brancaleone Doria coglie il momento
favorevole e si schiera con il re d’Aragona, abbandonando l’alleanza con giudice d’Arborea. Il
re gli dona in cambio la remissione di tutte le sue colpe e gli conferma in feudo i luoghi che il
Genovese possiede nell’isola. Il sovrano aragonese annuncia nuovamente che egli in persona
si recherà nell’isola, non oltre la prossima Pasqua. È questo un annuncio fallace, fatto più per
112 CECINA, Volterra, p. 177, i Belforti, che in nome anche degli altri membri del lignaggio, trattano sono
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rincuorare i difensori dei suoi possedimenti in Sardegna che per attuarlo. Mariano trascura gli
annunci e fa i fatti. Foglia dopo foglia, continua la sua conquista dell’isola, e finalmente,
all’inizio di febbraio, aggredisce Sassari, difeso da Berenguer Carroz. Malgrado la forte
resistenza dei difensori, egli la costringe alla capitolazione. Mariano rimane padrone della
città per due anni. Il giudice d’Arborea studia gli statuti cittadini e a loro si ispira per
compilare la Carta de logu, che, più tardi, pubblicherà Eleonora, sua figlia e grande giudice.
Impossibilitato a passare in Sardegna per la sua guerra contro il re di Castiglia, Pietro il
Cerimonioso annuncia per l’estate del prossimo anno la sua spedizione nell’isola.116 Presa
Sassari, Mariano vi lascia a comandare la piazza suo figlio Ugone che ha l’incarico di dirigere
le operazioni nel Logudoro. Mariano punta su Alghero e si guarda le spalle dal possibile
attacco di Brancaleone Doria.117
Re Pietro d’Aragona, oberato dalle spese per la guerra di Castiglia non riesce a pagare il
censo dovuto alla Chiesa e in concistoro i cardinali ed il papa discutono se si debba infeudare
dell’isola il giudice d’Arborea che sembra essere il reale padrone della Sardegna: solo il deciso
intervento dell’ambasciatore aragonese e le sue promesse riescono a far sospendere la
decisione.118
116 COSTA, Sassari, I, p. 87; ZURITA, Annales de Aragon, Lib. X, cap. IV; CARTA RASPI, Mariano IV d’Arborea,
p. 139-142, Carta raspi afferma che Brancaleone Doria ha tentato un assalto alle spalle di Mariano, ma è
stato sconfitto e volto in fuga.
117 CARTA RASPI, Ugone III d’Arborea,p. 107-108.
118 CARTA RASPI, Storia della Sardegna, p. 582. La discussione in concistoro è causata dalla richiesta in
merito che Mariano fa pervenire nell’ottobre 1370, si veda ANATRA, Sardegna, p. 83-84.
119 PELLINI; Perugia; I; p. 1051-53.
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Carlo Ciucciovino
per assicurarsi che gli aiuti lombardi, quando necessari, arrivino. Gli ambasciatori sono
messer Pietro di Vinciolo Vincioli, Giovanni d'Andrucciolo ed il notaio Cola della Macinara.120
Il 12 giugno le genti del papa vengono a Ponte San Giovanni, ardendo le porte del detto
ponte con molte ostarie, et abrugiarono Colle della Strada. I Perugini affrontano valorosamente il
nemico al ponte, e ne segue una grossa scaramuccia.121
Il 7 luglio, il papa scomunica i Perugini.122 I Viscontei poco dopo si impadroniscono di
San Miniato.123 Ludovico d'Arlotto Michelotti, con un contingente di cavalieri viene inviato a
prendere possesso del castello di Cannaia che si è dato a Perugia.124 I Perugini non hanno
esitato ad invadere il territorio di Orvieto, di Gubbio, di Città di Castello ed anche il castello
di Bettona. Tra l’altro, hanno preso il fortilizio di Rocchetta, nel Chiugino, catturandovi
Gabriello di Giovanni di Cantuccio dei Gabrielli, signore del castello di Frontone di
Sant’Angelo, che è nella diocesi di Cagli, obbligandolo a ribellarsi alla Chiesa.125
Ma in Perugia non mancano certo i pericoli per la libertà: viene scoperto un trattato
tessuto da ecclesiastici, un certo fra’ Crispolto da Bettona, dell'ordine dei Frati Predicatori,
ospite in San Domenico, si è unito a sostenitori del papa meditando di consegnare la città al
pontefice. La congiura viene scoperta troppo presto, e non si può risalire al piano che il frate
voleva mettere in atto, sicuramente egli ha con sé dei nobili e molti dei principali cittadini. I
magistrati, reputando saggio non provocare troppe tensioni interne havendo i nimici su le porte,
lasciano correre e non approfondiscono le indagini. Fra’ Crispolto viene incarcerato, confessa,
ma non si procede contro di lui in altra maniera: il comune si vuole lasciare la strada sgombra
per trattare col papa, e non desidera che la via sia sbarrata dal sangue. Nel trattato di pace si
parlerà anche di lui e della sua liberazione. Ma, nell'attesa, il frate medita in prigione.126 I
Perugini si guardano intorno e cercano alleati: cosa c'è di meglio di qualche principe romano
che vede con preoccupazione il ritorno del pontefice a Roma? Un «huomo in que’ tempi e di
genti e di stato molto potente» appare Simeotto Orsini, che, avvicinato, accetta di prendere le
armi contro la Chiesa, e conferma la sua determinazione, inviando suo figlio in ostaggio a
Perugia.127 Le genti del papa sono accampate a Ponte Nuovo, presso Deruta; militano con loro
i caporali tedeschi, messer Flak ed Anneso, che più volte hanno avuto denaro da Perugia, ed
hanno anzi promesso che, alla prima occasione, si staccherebbero dal servizio al papa, per
passare a Perugia. All'inizio di agosto, i tempi sembrano maturi per dare ai Perugini prova
della loro disponibilità, i due comandanti tedeschi ordiscono quindi un piano con Giovanni
Acuto, capitano di fatto dell'esercito di Perugia, da quando Buscareto si è messo in disparte,
dopo il rifiuto del comandante inglese di servire in sottordine sotto di lui. Ma la trama viene
in qualche modo segretamente scoperta ed i generali dell'esercito pontificio vanno alla bastia
di Assisi e comandano che, «senza mostrar segno di sospetto», vi vengano convocati, con
qualche pretesto, Flak ed Anneso, per imprigionarli e giustiziarli. Questi vengono avvertiti
della macchinazione, radunano intorno a sé i loro cavalieri tedeschi e, prese le armi, si
dirigono a bandiere spiegate, verso il territorio di Perugia, congiungendosi con le truppe di
Giovanni Acuto. Ora l'esercito di Perugia è in superiorità di forze e si dirige verso Assisi.
Acuto prende dimora a Petrignano, in un palazzo dei Baglioni, eseguendo veloci scorrerie fin
l’imperatore Carlo IV ha privato Perugia del suo titolo di vicario imperiale per Chiusi, Castiglione
Aretino, Monticelli, Risponi, Mannui (?), Lucignano, Foiano, Monte San Savino ed altre terre, cfr. BALAN,
La ribellione, p. 7. La scomunica è ivi a p. 8.
123 PELLINI; Perugia; I; p. 1053.
125 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 235, nota 6 che cita una lettera
del papa.
126 PELLINI; Perugia; I; p. 1055.
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sotto le porte della cittadina di San Francesco, ma senza riuscire a far venire incontro il
nemico. L'esercito pontificio lascia Assisi, che non può difendere, e si reca nell'Aretino.
Qualche tempo prima, Contucciolo di Facciardo e Nicolò Buscareto sono stati inviati a
Castiglione Aretino, a soccorrere il podestà perugino messer Simone degli Oddi, che ha
scoperto un trattato per strappare la città dall'influenza perugina. Contucciolo e Nicolò hanno
la mano troppo pesante: incarcerando molti cittadini importanti e facendone decapitare
cinque. Ora che l'esercito pontificio, comandato dal conte Ugolino di Montemarte128 è presso
di loro, l'occasione appare ottima ai cittadini di Castiglione per vendicarsi. I Pontifici vengono
messi nella città ed un contingente di ardimentosi si impadronisce di sorpresa della torre
principale della rocca, ma il resto della fortezza è ben guardato da trecento terrazzani amici
dei Perugini e dai Tedeschi del presidio. In questi giorni viene a scadere la ferma dei
mercenari tedeschi, ed i soldati si rifiutano di combattere se prima non sono stati rifermati,
anche per poco. I Perugini insistono perché gli Oltremontani ritornino al combattimento, ma,
nel frattempo, ambasciatori fiorentini sono presso di loro per assoldarli nella loro guerra
contro i Visconti per il recupero di San Miniato. I Tre dell'arbitrio di Perugia inviano
urgentemente messer Alberto, ambasciatore dei Visconti, Agnolino di Ceccolo di Sinibaldo e
Luca d'Agnolino a negoziare con i mercenari; ma i patti tra questi e i Fiorentini sono quasi
conclusi e si debbono accontentare di reclutare messer Flak, mentre i Fiorentini si
aggiudicano messer Annese con cento lance della compagnia di Flak. Alla fine di ottobre, i
mercenari dei Perugini tentano il recupero di Castiglione Aretino. È un esercito imponente di
oltre quattromila cavalli, che costa la bellezza di 1.200 fiorini al giorno,129 ma le mura sono ben
munite e guarnite da molti soldati, quindi un assalto frontale è da escludere; si potrebbe
tentare qualche galleria da mina o altre macchine d'assedio, però la condotta di guerra è
molto svogliata, l'assedio viene tolto, e l'esercito perugino si ritira a Cortona per svernare. Il
presidio della rocca, sentendosi tradito, si arrende per patti. Solo sei difensori sono trattenuti
prigionieri, tra questi messer Simone degli Oddi, il podestà, e Contucciolo di Facciolo.
Costoro vengono scambiati con alcuni Castiglionesi detenuti a Perugia. Accorre alla rocca, in
mano pontificia, il vescovo di Sessa, con forte presidio. Gli Aretini, che contavano di tenere
per sé la posizione, sono frustrati ed irritati.130 Alberto, l'ambasciatore visconteo, ha avuto così
ampio mandato di reclutare soldati, perché ha confidato ai Tre dell'arbitrio che i ricchi
Visconti concorrerebbero alle spese di guerra per due terzi. Giacomo di Picciolo viene inviato
dal governo perugino ad incassare 100.000 fiorini dai Visconti, ma questi, giunto a Milano,
«non ritrovò in Bernabò quella disposizione che havea detto il suo ambasciatore». Bernabò
rifiuta ogni pagamento, negando di aver preso un tale impegno; vano sperare di capire se ha
mentito Alberto o il signore di Milano, rimane il fatto che i Perugini sono gravemente esposti,
e che, senza fiorini, la guerra non può esser condotta.131 Intanto, Simeotto Orsini manda a
chiedere cinquecento cavalli a Perugia. I Tre decidono di inviargli tutti i quattromila cavalieri
ai loro comandi, non avendo nemici nel territorio, e li conducono personalmente due dei tre
magistrati: Giovanni d'Andrucciolo e Grazino di messer Grazia. Quando i cavalieri sono al
confine delle terre dell'Orsini, vengono raggiunti da un suo messaggero che li informa di aver
concluso un accordo col pontefice. Il figlio di Simeotto, ostaggio a Perugia, viene
immediatamente catturato, prevenendo un suo tentativo di fuga, ed incarcerato. («Perché da
Simeotto non si fece poi alcuna istanza di liberarlo, si credette publicamente da ognuno
ch'egli non gli fosse figliolo, ma servo»). I mercenari di Perugia per sfogare la loro rabbia
conducono un'incursione contro il Viterbese. Si portano quindi sotto le mura di Viterbo dove
si propongono di far correre un palio alle puttane e «di fare un altr'atto tanto ignominioso e
grave» contro la religione, tanto che il pudico Pellini ne omette la descrizione. La minaccia
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Carlo Ciucciovino
132 PELLINI; Perugia; I; p. 1058-60. CORIO, Milano, I, p. 829 parla di una scorreria a Montefiascone e non
Viterbo; di Montefiascone parla anche Montemarte, e specifica che nell'impresa contro Simiotto i
Perugini mettono il campo nel Pian della Sala, nella tenuta di Corbara, bruciando molte case del borgo, e
facendo molta preda. Diario del Graziani, p. 209, nota 3. Ma PINZI, Viterbo, III, p. 359 dice che Urbano
dall’8 agosto si è trasferito a Viterbo e che qui è avvenuto l’affronto di Acuto. Il giardino papale era nel
sito dove è oggi (l’oggi di Pinzi è alla fine dell’Ottocento) è il pubblico passeggio. Poiché nel secolo XV fu
separato dalla rocca mediante la strada suburbana, quel terreno prese e conservò fino ai giorni nostri il nome di
Campo o Prato Giardino. PINZI, Viterbo, III, p. 359, nota 2. La nota 3 conferma che il fatto è avvenuto a
Viterbo. Vedi anche Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 235, vedi
anche note 4 e 5. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 251 ci informa che entro le mura di Perugia vi sono
1.500 uomini a cavallo.
133 PELLINI; Perugia; I; p. 1060.
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Malatesta occupa Urbino e il cardinale Anglico Grimoard se ne gloria nella sua relazione. Il
conte Paolo, benché si stia comportando con grande lealtà nei confronti del legato, viene
costretto a rinunciare alle sue case di Urbino perché la Chiesa vi possa erigere la fortezza. Con
cieca stoltezza, il vescovo di Urbino non cessa di umiliare i leali conti e Paolo scongiura
Ludovico Gonzaga di frapporre i suoi buoni uffici con il legato per scansare ulteriori
umiliazioni. In questo quadro tristissimo per l’antica famiglia, scompaiono quietamente dalla
scena i vecchi Enrico, Feltrano e Niccolò, lasciando i propri nipoti schierati su fronti opposti.
Antonio partecipa alla scorreria che i Perugini lanciano fin sotto le mura di Viterbo.135
Ad agosto, i soldati della Chiesa danno alle fiamme molte ville e casamenti nel Perugino,
specialmente a Ponte Felcino.136
Solaneri, Solameri, eccetera, si veda Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 241 e nota 1 e 9 ivi; Rerum
Bononiensis, Cronaca B, p. 241; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 241; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 241.
Guido di Monforte ha anticipato a Carlo le rate del denaro che Lucca ancora gli deve e l’imperatore
affida la città alle cure del cardinale, che, naturalmente, provvederà che i Lucchesi non manchino di
pagare le rate successive, CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova, p. 288-289. VELLUTI, Cronica, p.
268 lo chiama “sopra la Miere”.
139 LUCARELLI, I Visconti di Milano e Lucca, p. 27.
140 RONCIONI, Cronica di Pisa,p. 232-233; MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 756-757; Monumenta Pisana,col.
1052-1055. Il massacro avviene l’8 di luglio secondo Monumenta Pisana; col. 1055. SERCAMBI, Croniche, p.
173-175, Sercambi ci informa che il vicario imperiale di Pietrasanta è messer Giovanni Bolcioni, Tedesco.
Il presidio del Castello di Scarlino rifiuta di accogliere la comitiva imperiale e Carlo IV è costretto ad
andare a Suvereto, BARBERINI, Scarlino, p. 171-172 che ne discute i motivi. L’imperatrice è partita prima
di Carlo, scortata da genti d’arme di Firenze, VELLUTI, Cronica, p. 278.
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fortezza. Di questi ne vengono catturati diciotto, otto dei quali vengono impiccati, gli altri
sono liberati.141
Il 4 luglio, prima di partire da Lucca, Carlo IV conferma con un privilegio ai fratelli
Pepoli, Mastino, Gerra e Giacomo il possesso delle terre e dei castelli che appartennero ai
conti di Mangona e poi passate a Giacomo e Giovanni Pepoli.142 Su richiesta dell’imperatore,
Firenze ha inviato alla comitiva imperiale una scorta di duecento uomini a cavallo, al
comando di Rosso de’ Ricci e di Jacopo degli Alberti.143
144 Venne per Chasi e oltre per valdireno. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 249-250; Rerum Bononiensis,
Cr.Bolog., p. 242-244; Chronicon Estense; col. 491-492; GRIFFONI, Memoriale, col. 181-182; FRIZZI, Storia di
Ferrara, vol. III, p. 346.
146 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 251.
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grazie agli auspici di Carlo, possano incontrarsi con Leopoldo d’Austria per negoziare la
pace.150
§ 37. Bernabò Visconti crede di poter cogliere l’opportunità che la libertà di Lucca gli offre
Il 17 luglio Bernabò scrive ad Urbano V una lettera che tenta un avvicinamento di Milano
alla Chiesa. La missiva non può non essere vaga, e promette di voler conservare la pace. Il
papa, il 9 agosto, risponde un po’ seccamente, invitando il tiranno milanese a voler
dimostrare le sue intenzioni con i fatti, smettendo di appoggiare Perugia contro la Chiesa. Ma
il dialogo tra Urbano e Bernabò è avviato e promette di essere pericolosissimo per Firenze.
Sembra infatti che tra i due illustri corrispondenti sia in corso un accordo per Lucca. Bernabò
verrebbe nominato vicario di Lucca e San Miniato, ed il signore milanese penserebbe a
ricompensare il cardinale Guido e Carlo IV (Urbano sa che l’imperatore non nega mai nulla,
se convinto da una congrua somma), fornirebbe inoltre mille cavalieri all’esercito pontificio
per riacquistare l’obbedienza di Perugia. Senz’altro esiste della corrispondenza tra Guido di
Monfort e Bernabò; Urbano V invierà una lettera al cardinale il 23 ottobre, nella quale gli vieta
severamente di dare qualsiasi castello al Visconti. Bernabò infatti nel frattempo ha colto la
richiesta di aiuto del cardinale e gli ha inviato Giannotto Visconti con 1.500 cavalieri, per
aiutare il cardinale e riprendere il controllo di San Miniato. A Lucca sono anche arrivati
Alderigo ed Orlando Antelminelli. Alderigo, che ha preso possesso della Lunigiana per
Bernabò, ha ricevuto il titolo di visconte della Lunigiana.151 Orlando è figlio di Arrigo
Castracani, ed ha circa trentanove anni; Alderigo e Giovanni sono figli di Franceschino
d’Alderigo, quel ricco mercante che ha dato rifugio a Castruccio giovane quando è andato in
Inghilterra.152 Alderigo e Giovanni hanno molte terre in Lunigiana e Garfagnana e
costituiscono un polo di attrazione per le altre terre, afflitte dalle lotte tra guelfi e ghibellini
locali.153
150 DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 255-257; gli ambasciatori di Udine sono Solone di Savorgnano e il
notaio Ettore,
151 LUCARELLI, I Visconti di Milano e Lucca, p. 29 e 30; SERCAMBI, Croniche, p. 175-176.
153 PACCHI, Garfagnana, p. 150 che desume le informazioni da MANUCCI, Le azioni di Castruccio Castracani.
154 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 126-127 e documento 1624, ivi.
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pontefice ad offrire una lega contro il Visconti. Forse un’intesa col comune ribelle sarebbe
possibile, ma la vieta la setta degli Albizi, nimicissimi dei Ricci, che vogliono condurre
Firenze in campo avverso ai Visconti, ed all’alleanza con Urbano papa. L'alleanza verrà
conclusa il 20 novembre, con gran soddisfazione della fazione degli Albizi, da cui è stata
procurata. Alla lega partecipano anche Este, Carrara, Gonzaga, i Fogliano e le città di Pisa,
Lucca e Bologna. Gli aderenti al partito degli Albizi vengono chiamati Paperini. Questi
portano berrette di quelle cucite ad ago. La moda della berretta è venuta dalla corte papale di
Roma, e i sostenitori di Roma si fregiano di questa moda nuova, come di un simbolo. Il
cronista commenta che «era molto utile e calda la berretta sopra il cappuccio, e molto atta a
tenere e trarre di capo, più che i cappelli lunghi del Bavero, che si usavano per caldezza di
capo».155
155 STEFANI, Cronache, rubrica 711; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1085; RONDONI, San Miniato, p. 152-
158 PELLINI; Perugia; I; p. 1051; CORIO, Milano, I, p. 829; GIULINI, Milano, lib. LXX, anno 1369; Annales
Mediolanenses, col. 741-742, più credibilmente, narra il fatto all’11 di giugno, giorno di San Barnaba.
159 AMIANI, Fano, p. 293 dice che queste costano 150 ducati d’oro al mese. COMPAGNONE, Reggia picena, p.
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e compra dai disperati Inglesi Alba, Mondovì e il resto delle terre che ancora occupano.
Rendendosi conto che l’acquisto non verrebbe digerito con grazia da Galeazzo Visconti e gli
avrebbe procurato guerra, maschera l’acquisto come pegno contro un prestito di 16.000 fiorini
d’oro. Con il patto del 27 ottobre, anche gli avventurieri inglesi passano sotto le sue
insegne.161 Ora un nuovo conflitto con i Visconti è inevitabile. Il motivo per il quale il
marchese si è arrischiato a compiere questo acquisto è che Alba consente la difesa
dell’Astigiano e Mondovì è la base dalla quale si può partire per conquistare le Langhe ed il
Cuneese.162 Il deflagrare di una nuova guerra in Piemonte causa grattacapi al conte Amedeo
di Savoia, il quale è parente dei Visconti ed alleato del Monferrato. Per ora, tenta di rimanere
neutrale, ma non riuscirà. Comunque, Amedeo spedisce Gaspardo di Montemaggiore a
Bernabò «con preghiera di fargli conoscere il perché spedisse armati nel Piemonte, ed il
perché proteggesse il marchese di Saluzzo». La risposta di Bernabò è franca e testimonia la
volontà di impadronirsi del Piemonte tutto.163
I rapporti di Amedeo di Savoia con i Visconti, e con Bernabò in particolare, sono buoni.
Bernabò nel 1368 gli ha regalato un leone e «per molti anni non v’era quasi armeggeria a
Milano alla quale il Conte Verde non partecipasse. Nelle grandi feste di Pasqua e Natale
sempre o gratissima o desiderata vi era la presenza del conte».164 Le cronache sabaude ci
narrano poi un episodio che mette in luce la natura guerriera di Amedeo, la sua competenza
militare e la stima per i suoi cavalieri. Il conte passeggiava sotto le mura del castello di Pavia
con Galeazzo Visconti affrontando il discorso della capacità delle milizie di ventura. Il conte
di Savoia esprime la sua scarsa considerazione per le loro capacità, ad eccezione di alcuni
pochi,165 ed aggiunge che con mille lance dei suoi, con un buon capitano che li facesse
combattere a terra, sconfiggerebbe tutti i soldati di Anichino Baumgarten ed anche quelli
assoldati dai Visconti.166 Il relativo valore dei mercenari e la loro più che dubbia fedeltà non
sfugge d’altronde a Bernabò, infatti, egli crea, in varie località del suo dominio, uffici di
arruolamento di stipendiari, sottraendo ai capitani di ventura la loro materia prima. In tutte le
sue città il signore milanese organizza dei corpi armati che gli siano fedeli e li chiama
“provvisionati”. «A Bergamo, a Brescia, a Lodi, ecc. ordinò nel 1369 di iscrivere tutti i giovani
alti, di bell’aspetto, nobili o borghesi. Per otto fiorini al mese dovevano essere pronti a servire
in tempo di pace con due cavalli, con tre in tempo di guerra. Per facilitare l’arruolamento
dispose un sistema di anticipi. Era però una milizia scelta, d’onore e di difesa del Signore».167
165 Egli apprezza Arrigo Croniguer, Guglielmo Novienios, Evrardo, Stoultz e Guarniero. CIBRARIO,
168 Questa informazione data con la massima sicurezza da Giuseppe Coniglio, è gestita con qualche
cautela da MALACARNE, I Gonzaga di Mantova, p. 76-77, il quale, comunque, riporta la tradizione che
vuole che l’inimicizia tra Ludovico e Francesco sia dovuta a Cansignorio che ha insinuato a Ludovico
che suo fratello stesse tramando contro di lui.
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testimoniano la sua rabbiosa impotenza di fronte alla grande capacità del fratello Ugolino.
Aveva sposato Alda d’Este, figlia del marchese di Ferrara nel 1356; da questa nel 1366 ebbe
un figlio: Francesco».169
169 CONIGLIO, I Gonzaga,p. 28. CARRARA, Scaligeri, p. 205-206 scrive che Ludovico ha ben compreso che il
disegno di Cansignorio era teso a creare discordia dentro la famiglia Gonzaga per la quale «Cansignorio
covava odio particolare». Si veda anche MAFFEI Annali di Mantova, p. 708-710.
170 DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 258.
174 Oltre ad Androino, morto il 28 ottobre, il Viterbese fra’ Marco di Pietro (3 settembre), cardinale di
Santa Prassede, Stefano Albert (28 settembre), cardinale di Carcassonne, Guglielmo d’Agrifoglio
(Aigrefeuille, 4 ottobre), cardinale di Saragozza e Arnaldo di Bernardo ( 6 ottobre), cardinale di Monte
Maggiore. DELLA TUCCIA, Cronaca di Viterbo, p. 36; PINZI, Viterbo, III, p. 360-361 e BUSSI, Viterbo, p. 207-
208; D’ANDREA, Cronica, p. 98-99.
175 PINZI, Viterbo, III, p. 361-362 e DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 680.
176 SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1085 dice che la nomina è del 5 settembre.
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promesso ed ha definito che il luogo dove tenerlo sarebbe stato Costantinopoli. I Bizantini che
accompagnano l’imperatore Paleologo capiscono ben presto che papa Urbano non ha
intenzione alcuna di tenere effettivamente il concilio. In tal modo la conversione
dell’imperatore Giovanni alla fede cattolica rimane un atto puramente individuale che in
nulla impegna la Chiesa Ortodossa. 178
In agosto passato, Giovanni Paleologo è transitato per Napoli e la regina Giovanna l’ha
accolto con molti onori, lo ha ospitato con tutto il suo seguito a Castelnuovo e lei si è recata ad
abitare a Castel Capuano.179
Leonard scrive di Giovanna in questo periodo: «all'artista che volesse oggi dipingerla,
raccomanderemmo di raffigurarla fra la sua cerbiatta bianca, il pappagallo e i servi tartari,
mentre dona un breviario a qualche fraticello o ne riceve gli Agnus Dei che, una volta,
trovandosi nella residenza estiva aveva mandato a chiedergli. O, forse, anche, stemperantesi
in lacrime, col volto arrossato, ai piedi della sua amica Santa Brigida, in una delle soste che la
principessa svedese fece a Napoli nel 1372, durante il suo viaggio in Terrasanta».180
183 Chronicon Estense; col. 492; Raphaini Carasini Chronicon, col. 433 registra la sconfitta dell’esercito
austriaco al 10 novembre. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 253; DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 258.
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cavaliere sulle trincee. Leopoldo d’Austria decide di abbandonare Trieste al suo destino e
rientra in Germania. Domenico Michiel viene nominato capitano della città.184 Il 19 novembre
la tregua del Patriarcato con il duca d’Austria viene prorogata di tre anni.185 Un anno più
tardi, il 15 novembre 1370, il duca Leopoldo d’Asburgo, contro un compenso di 75.000 fiorini
d’oro, rinuncia ai suoi diritti su Trieste e cede il castello di Moccò.186
184 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 129-132; PASCHINI, Friuli, I, p. 348. DE SZOMBATHELY,
Storia di Trieste, p. 31 nota che la Serenissima costruisce un castello di guardia presso la Tor Cucherna ed
un altro sulla riva, oltre a fortificare quelli esistenti di Moccò e Moncolano. ROMANIN, Storia di Venezia,
IV, p. 239; laconico CESSI, Storia della repubblica di Venezia, I, p. 326; ZORZI, La repubblica del Leone, p. 196-
197.
185 DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 258.
186 STELLA, Il comune di Trieste, p. 629; ROMANIN, Storia di Venezia, IV, p. 239-240 con qualche dettaglio.
188 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 141 e nota 1 ivi dice che Muratori nelle Antichità
Estensi, p. 145 assicura di avere sotto gli occhi il documento che prova che la lega viene conclusa il 2
aprile 1370 e conferma di averla vista anch’egli, anche se non ha potuto averne copia; probabilmente è il
rinnovamento dell’adesione di Firenze alla lega, fatta nel marzo 1370, si veda COGNASSO, Visconti, p. 248.
COGNASSO, Visconti, p. 247 dice che la lega è del 23 ottobre. VELLUTI, Cronica, p. 282-283 dice «uscita di
ottobre».
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mese e mezzo debbono provvedere duecentocinquanta barbute al cardinal Guido, che così
potrà congedare quelle che gli ha fornito Bernabò Visconti. Se mancasse di congedarle, e
queste molestassero Firenze, allora la lega sarebbe anche contro di loro.189 Firmata la lega,
Filippo di messer Alamanno Cavicciuli viene urgentemente inviato presso il Losco, per
indurlo ad attaccar battaglia.190
Finalmente, gli Albizi sono riusciti ad avere partita vinta ed i Ricci sono stati costretti a
cedere ed accettare l’alleanza. Tra gli ambasciatori fiorentini che sono andati dal papa, vi è il
capo della setta dei Ricci: Uguccione di Ricciardo dei Ricci.191
189 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1369, vol. 3°, p. 22, nota 1; SOZOMENO, Specimen Historiae,
col. 1086 mette la lega al 31 di ottobre. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 252. Guido Gonzaga muore
questo anno: cfr. ALIPRANDI, Cronaca di Mantova,p. 145. Cronichetta d’Incerto, p. 267.
190 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1369, vol. 3°, p. 24, continuazione della nota 1 iniziata a
pagina 22.
191 STEFANI, Cronache, rubrica 715.
194 Nelle cronache di Pisa è detto anche messer Anzi, ricordiamo che il suo nome è Johann von Rieten.
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Di qui, inviano un loro capitano a Pisa, ad acquistare vitto ed a chiedere alcune barche per
passare l’Arno, molto grosso per la piogge. Il primo dicembre le truppe fiorentine sono
accampate a San Mignano, pronti a sfruttare il momento propizio per mettere in San Miniato
la gran quantità di provviste di cui sono forniti. La saggezza vorrebbe che Losco non
intraprenda azione alcuna, dovendo la città assediata cadere perché allo stremo, ma questa
condotta di guerra non piace al nuovo Gonfaloniere di Firenze, Giovanni dei Mozzi, che
insiste per un'azione energica da parte del comandante del suo esercito. Bartolino Losco fa
presente «che il combattere dove altri non è costretto da alcuna necessità, non era mai stato
lodato», ma il Gonfaloniere lo comincia apertamente ad accusare di viltà. Inoltre uno dei
Priori, Schiatta del Ricco Pezzaio gli scrive offendendolo: «Che se ( Losco) non avesse tanto cuore
(da attaccar battaglia), eglino gliene manderebbono uno di bue».195 Giovanni, punto sul vivo,
esclama: «Su, al fatto d’arme, andiamo dove l’ignorantia de’ pocho savi ci conduce, andiamo ad
esser ropti».196 Losco dunque, che vigliacco non è, decide di piegarsi alle pressioni della
Signoria, recategli da Filippo Cavicciuli, e il primo di dicembre schiera le sue truppe e va a
cercare gli armati di Giovanni Acuto. Quando, l’8 dicembre, Losco viene informato che gli
Inglesi sono prossimi, e che la loro consistenza è di circa milleduecento cavalieri e
cinquecento fanti, cioè meno della metà delle proprie forze, egli schiera i suoi armati sul
terreno presso il fosso Arnonico197 ed assale il nemico. Il momento è ben scelto perché un
terzo dei cavalieri inglesi ha già passato l’Arno e non è quindi immediatamente impegnabile.
Giovanni Acuto non si perde d’animo ed accetta valentemente la battaglia che dura incerta,
per l'indubbia perizia di ambedue i comandanti, poi Acuto finge di ritirarsi, attraendo il
nemico ad inseguirlo, l'esaltato Filippo Cavicciuli grida: «Bisogna combattere a chi vuol
vincere, e da chi è avvezzo a fuggire non si dee mai temer che abbia a seguitar altri», e Losco,
malvolentieri si dispone all'inseguimento. La durata dello scontro ha permesso ai 400
cavalieri che avevano passato il fiume di rientrare e di appostarsi in agguato, protetti dal
fosso. Quando i Fiorentini, lanciati all’inseguimento, passano loro davanti, gli Inglesi
piombano improvvisamente alle loro spalle, mentre i falsi fuggitivi si fermano si voltano e
combattono. Gli armati di Firenze sono ora circondati, battuti, catturati. Tra i prigionieri è un
livido Losco e il fanatico Filippo Cavicciuli. Ma se la battaglia è persa, l'assedio può
continuare, perché l'esperto Losco ha ben disposto la guarnigione e Firenze vi invia
sollecitamente il conte Roberto Battifolle sul luogo dell’assedio.198 Per quattro giorni gli Inglesi
si trattengono nel Valdarno, molti di loro, a contingenti di quattrocento persone, si recano a
Pisa a comprare cibo e vestiti, lasciando in città molto denaro; malgrado le insistenze dei
fuorusciti Raspanti, gli Inglesi non muovono un dito per negoziare il loro rientro. Dopo la
vittoria, Bernabò invia altri guerrieri, più di duemila cavalli e molta fanteria. Il 30 dicembre
l’esercito lombardo corre fino alle porte di Firenze, facendo grandi danni nel territorio.
L’ultimo giorno dell’anno i Viscontei corrono a Prato, dove distruggono, bruciano, rapiscono
uomini e donne.199 Perugia festeggia la vittoria lombarda.200 Firenze reagisce
militano anche dei fuorusciti pisani, del partito dei Raspanti, cacciati da Pisa, malgrado i patti, dopo che
Carlo imperatore in luglio ha lasciato Lucca. MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 756-757.
198 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1369, vol. 3°, p. 22-25. SOZOMENO, Specimen Historiae, col.
1087 curiosamente attribuisce il comando dell’esercito a Giovanni Malatesta (ma intendendo Malatacca)
e non a Bartolino Losco. Egli aggiunge che si dice che Giovanni Malatesta fosse ubriaco, sicché d’allora
in poi fece voto di non più toccare vino. Stesso errore fa Cronichetta d’Incerto, p. 268. Rerum Bononiensis,
Cronaca A, p. 253, molto scarno. Debole anche RONDONI, San Miniato, p. 153-155. Si veda VELLUTI,
Cronica, p. 285-286.
199 RONCIONI, Cronica di Pisa,p. 233-234; MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 757; Monumenta Pisana,col.
1055-1056; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 192-196; Chronicon Estense; col. 492; VELLUTI, Cronica, p. 287-
288.
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immediatamente, offrendo il comando del suo esercito ad un alleato di provata fede: Roberto
dei conti Guidi. Egli si reca immediatamente al campo dell’assedio, rafforzandone il blocco
della città.201 La vittoria dell’Acuto è la risposta di Bernabò alla lega.202
Firenze manda ad offrire allo sperimentato Rodolfo Varani di Camerino il comando del
suo esercito, Rodolfo accetta ed arriva a Firenze alla fine dell’anno.203
204 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 234, nota 2. Dettagli in
207 MAIRE VIGUEUR, La felice società dei balestrieri e dei pavesati, in Scritti per Isa, p. 583.
208 GIULINI, Milano, lib. LXX, anno 1369; Annales Mediolanenses, col. 741-742.
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messer Anzi, ovvero di Johann von Rieten, fino a tutto gennaio. Questi condottieri lasciano
Sarzana il 30 dicembre e si dirigono verso San Miniato, recando con sé 500 staia di biada. Poi
fanno fare un buon Natale a Firenze devastando il suo contado. Il nostro cronista Ranieri
Sardo testimonia: «et a me ctirorono lo porticho, a Oratoio, a tterra, arsono lo legniame et
taglioronmi le pertiche et arsono di fructi assai, travi, panchacci et madie, soppidani, panche e
chassoni et ogni chosa: valea più di lire 200. Iddio li distrugha tucti!».209
§ 58. Le arti
Giottino, allievo di Giotto e forse suo nipote, completa la mirabile Pietà, coniugando lo
stile giottesco con il cromatismo di Maso di Banco. Le figure realistiche sullo sfondo oro
trasfigurano la scena simbolicamente.
Il Senese Giovanni di Stefano restaura la basilica di San Giovanni in Laterano.
Nel ventennio 1349-69, viene completato il corridoio su un lato breve del Camposanto di
Pisa, forse quello occidentale, e si dà inizio alla cortina settentrionale, questa verrà completata
entro il secolo. Man mano che si completa la costruzione di una porzione, questa viene
decorata con sculture e pitture.212
209 RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 196-197. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 254 narra della dipartita
della compagnia mercenaria dalla Toscana per andare a Pontremoli e a Parma, dove finalmente possono
riempirsi le pance vuote.
210 HATCH WILKINS, Petrarca, p. 262-263; ARIANI, Petrarca, p. 58; DOTTI, Petrarca, p. 402-403 e 405-406.
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Nel 1369 viene messo in opera un Crocifisso in marmo nel Camposanto di Pisa. La
scultura che oggi è a Pisa in San Michele in Borgo, appare un prodotto della scuola di Nino
Pisano e poiché questo scultore è morto tra il 1366 e il ’68 è presumibilmente opera degli
scultori che abbiamo visto sopra, nel 1360 scolpire il sepolcro Ammannati.213 Uno di questi:
Puccio di Landuccio, è divenuto capomaestro nel 1369.214
Altichiero affresca la cappella Cavalli in Sant’Anastasia a Verona. Gli uomini della casata
sono raffigurati armati di tutto punto e inginocchiati di fronte alla Vergine. Il loro stemma
gentilizio è ovunque, sulle sovracotte, sugli scudi, sull’architettura sullo sfondo.
Il Museo Correr di Venezia conserva oggi un’opera, non tra le più felici, di Lorenzo
Veneziano, realizzata nel ’69: la Consegna delle chiavi a S. Pietro.
Giovanni da Milano nel 1369 lavora in Vaticano, per Urbano V, accanto ad altri pittori tra
cui Giottino. Nelle sue opere, la formazione lombarda si innesta sulla esperienza toscana
fondendo il minuzioso e intimo realismo nordico con i modi della scuola giottesca.
Tra il 1369 ed il 1372 Jacopo Avanzi affresca la rocca di Montefiore Conca, su
commissione di Galeotto Malatesta, detto l’Ungaro. Le scene di battaglia sono grande bellezza
e lo stile è simile a quello di Altichiero. Dopo la battaglia di San Ruffillo nel 1361, Bologna
gode finalmente di un periodo di relativa pace. Lo Studio conosce un rilancio e questa
rinascita comporta un miglioramento dell’economia e una rilancio della cultura, si assiste alla
ripresa dello studio dei classici e l’inizio di una moderna scienza sperimentale. In campo
artistico, questa temperie conduce ad un «rifiuto dell’irrealismo gotico di Vitale [da
Bologna]». È come se si volesse tornare all’ispirazione naturalistica della solida realtà di
Giotto. Questa è la strada che percorrono parallelamente Tommaso da Modena nelle opere di
Treviso o Jacopo Avanzi a Bologna e, nel campo della miniatura, Nicolò di Giacomo.215
In tale quadro si inserisce l’opera di Andrea de’ Bartoli che, nel 1369-70, affresca il
Collegio di Spagna e che, con lo sterminato panorama della Trasfigurazione offre vedute di
stampo moderno.216 Vista la notevole maturità dell’opera, questa dovrebbe essere l’ultima di
Andrea.
Il cardinale francescano Marco da Viterbo muore nel 1369 e la sua tomba, di notevole
qualità, viene scolpita e posta nella sua città natale, nella chiesa di San Francesco. Purtroppo, i
bombardamenti della seconda guerra mondiale hanno danneggiato il monumento, ma
disponiamo di fotografie che ci permettono di osservarlo nella sua interezza. La statua del
cardinale, dal volto ben modellato, giace su un sarcofago molto ornato con stemmi e racemi.
Due diaconi reggono una cortina che mostra l’effige del francescano, abbigliato con abiti
pontificali. La statua è chiaramente ispirata al modello della tomba del cardinale Matteo
d’Acquasparta, i diaconi sono copiati da quelli di Arnolfo di Cambio.217
A poca distanza da Mocchirolo, dove la famiglia Porro farà erigere una chiesetta e
decorare di ottimi affreschi, sorge Lentate sul Seveso. Qui, accanto ad un castello o un palazzo
dei Porro, Stefano Porro, conte palatino, nel 1369, fa edificare una cappella218 dedicata a Santo
Stefano; il conte si fa effigiare con tutta la sua famiglia219 sulle pareti del tempio. La
composizione della scena è simile a quella che una decina di anni dopo sarà affrescata a
Mocchirolo da Pecino da Nova. Il pittore che affresca la Crocifissione le vele e l’Imago pietatis
nell’oratorio è Anovelo da Imbonate, pittore e miniatore. Gli altri affreschi nella chiesa,
216 BENATI, Pittura in Emilia Romagna, p. 222; purtroppo i suoi affreschi nel Collegio sono quasi illeggibili.
218 La data si desume da una lunga iscrizione che comunica chi è il committente e chi è la sua sposa,
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relativi alla vita di Santo Stefano, sono di un gruppo di pittori che si rifanno al gotico
internazionale e sono molto inferiori a quelli di Anovelo.
Anovelo da Imbonate, artista della corte viscontea, minia il Messale dell’Incoronazione di
Gian Galeazzo Visconti, che è nella biblioteca di Sant’Ambrogio, e il Messale di Santa Tecla.
Difficile ricostruire il percorso artistico di questo pittore, comunque, si ritiene che egli sia il
maestro della seconda campata della chiesa di Viboldone. Viene attribuita ad Anovelo una
Crocifissione in un polittico della chiesa di San Giorgio a Palazzo. Recentemente, nella chiesa
milanese di San Marco, è stata scoperta una drammatica Crocifissione che gli è attribuita.
Potrebbe essere suo anche l’affresco della Gloria di San Tommaso nella cappella viscontea di
Sant’Eustorgio. Per la descrizione degli affreschi di Lentate, si veda Pietro Toesca, che ancora
ignora il nome del frescante principale e che, comunque, distingue le diverse mani che hanno
decorato l’oratorio.220 Toesca conosce Anovelo come miniatore e lo giudica «artista poco più
che mediocre al paragone di Giovannino e di Salomone de’ Grassi».221
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veramente degne di Giotto, dai colori cantanti, dall'armoniosa e insieme fastosa decorazione
foliacea». La prima opera di tale artista è del 1315 nella Badia a Settimo. I capolavori della sua
tarda produzione sono tre Corali oggi nella Biblioteca Sessoriana.
Un artista contemporaneo del Maestro daddesco è il Maestro delle Effigi domenicane,
«mediocre pittore ma splendido miniatore». Questi lavora anche con il Maestro del Biadaiolo.
Al Maestro delle Effigi domenicane si deve la minitura della Divina Commedia, nel 1337. Il suo
capolavoro è un messale (Firenze, Seminario di Cestello) per le monache di S. Piero Maggiore.
Le opere di questo artista terminano entro la prima metà del secolo.
La miniatura fiorentina mostra l’influenza dei miniatori senesi, che lavorano nei
monasteri di Vallombrosa e di Camaldoli, esportando la loro maniera verso i colleghi
fiorentini o, comunque, toscani. È comunque molto intensa l’influenza reciproca tra Siena e
Firenze per tutto il secolo. I monaci di Camaldoli, dopo la Morte Nera, inaugurano la “Scuola
degli Angeli” e uno di loro, Silvestro dei Gherarducci, nel 1371, minia un Corale per Santa
Maria degli Angeli, che è considerato uno dei codici più raffinati del Trecento fiorentino. Alla
stessa scuola appartiene il frate camaldolese Simone, che orna i Corali della chiesa di Santa
Croce e della Biblioteca Laurenziana nel 1381. In questo miniatore si scorgono influssi di
Tegliacci e di Vanni.
Il grande Simone Martini ha miniato almeno l'incipit di un Virgilio con il commento di
Servio e il De miraculo gloriosae Dei genitricis, e forse ha anche eseguito un ritratto della Laura
di Petrarca su un foglio volante o sul frontespizio del volume del poeta. A Pietro Lorenzetti
sono state attribuite un paio di miniature per l’Inferno di Dante. Il Primo Maestro di
Sant’Eugenio, che opera nella prima metà del secolo, è il più lorenzettiano di tutti i suoi
contemporanei miniatori. Questo maestro viene considerato uno dei massimi tra i senesi,
insieme a Niccolò di ser Sozzo ed al Secondo Maestro di Sant’Eugenio. Ambedue questi artisti
lavorano nella Collegiata di San Gimignano per un ciclo corale.
Il pittore Lippo Vanni è anche miniatore e tra i suoi lavori vi è un Graduale per lo Spedale
di S. Maria della Scala a Siena, che, pur incompiuto. è un capolavoro. Il Senese Lorenzo
Monaco rinnova la miniatura a Firenze nel 1391, coniugando la tradizione senese con gotico
internazionale.
Tra le grandi illustrazioni miniate a Siena vanno necessariamente ricordate le Tavole di
Biccherna, che sono le copertine dei registri di gabella o biccherna. Alcuni grandi maestri
della pittura hanno messo mano a queste gustose rappresentazioni. Nel 1334-36 Niccolò di ser
Sozzo Tegliacci produce un capolavoro: il Caleffo dell’Assunta, un libro fiscale del comune
dove viene rappresentata con grande ricchezza la Madonna Assunta in un coro di angeli. Niccolò
è il maestro di altri miniatori e dello stesso Lippo Vanni, il quale poi si ispirerà più a Simone
Martini, pittore che ha improntato della sua arte molti miniatori senesi. Primo fra tutti il
Maestro del codice di San Giorgio, che opera ad Avignone e Firenze che, nella splendida
immagine da cui deriva il nome, forse riecheggia un perduto affresco di Simone Martini ad
Avignone.225 La sua produzione influenza molti maestri oltremontani.
Pisa è influenzata dalla miniatura senese e, in particolare dall’insegnamento di Duccio,
anche per il tramite di Memmo di Filippuccio. Nel terzo decennio, i miniatori pisani iniziano
a risentire l’influsso dei pittori giotteschi, in particolare quello che è l’iniziatore della
rinnovata pittura miniata del Trecento a Pisa: il Maestro del breviario del 1326. Nel seguito
del secolo, nella miniatura pisana, compare il grande pittore Francesco Traini, al quale sono
attribuite alcune illustrazioni della Divina Commedia conservata a Chantilly.
Perugia vanta molte botteghe di miniatura, ben organizzate, capaci di produzioni di
grande qualità per tutto il secolo, fino al 1380. Scrive Maria Grazia Ciardi Dupré Dal
Poggetto: «Dal punto di vista artistico essa fu sempre caratterizzata dalla presenza e
dall'armonioso sviluppo, accanto a un'eccellente componente figurativa e narrativa, di
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cromatismo. Si vedano ad esempio i codici del 1309-14: Descriptio Terrae Sanctae di Burcardo
di Monte Sion e Conditiones Terrae Sanctae di Marin Sanudo. Gli splendidi Evangelari e Messale
di San Marco, eseguiti quando Andrea Dandolo era doge (1343-44), sono un esempio di questa
confluenza di stili, che rendono l’opera tipicamente veneziana. Verso la metà del secolo si
assiste ad una rinascita del gusto bizantino e, ai rapporti con Padova, vengono sostituiti quelli
con la Lombardia, attraverso Verona. Il miniatore Niccolò di Giacomo opera la
trasformazione della tradizione miniatoria tradizionale in quella del gotico internazionale. È
questo un artista longevo che opera dal 1353 al 1395.
Padova unisce alla scuola bolognese il potente influsso di Giotto agli Scrovegni prima e
nel palazzo pubblico poi. Il prodotto che ne scaturisce sono i sei Antifonari per la cattedrale,
eseguiti nel 1306 dallo scrittore e miniatore Gherarduccio o Duccio. Questo artista minia
anche il Roman de Troie ed altri testi tra cui una Divina Commedia. La presenza a Padova di un
raffinato bibliofilo come Petrarca, nella seconda parte del secolo, e la sua influenza sui
Carraresi dona impulso alla miniatura.
Nella seconda parte del secolo, l’amore dei Carrara per i libri, la presenza dell’Università
e la contiguità con le signorie lombarde favorisce lo sviluppo della miniatura in senso del
gotico internazionale. Il De principibus Carrariensibus et gestis eorum liber di Pietro Paolo
Vergerio è strettamente legato alla pittura contemporanea e, in particolare, i ritratti dei signori
di Carrara sono probabilmente copie di affreschi monocromi nella reggia carrarese. Il Giusto
de’ Menabuoi del Battistero di Padova influenza poi un miniatore che illustra i Vangeli nel
1398 e l’artista che minia la Chronica de Carrariensibus.
L’importanza di Verona nella miniatura è testimoniata dai diciassettte Corali per il
duomo, forse intrapresi nel 1368. Almeno tre maestri vi mettono mano e essi si esprimono con
stili diversi, uno si richiama alla miniatura toscana, un altro a quella emiliana, infine il terzo
risente dei modi di Altichiero.
Nel Patriarcato, verso la metà del secolo, un miniatore di formazione padovana esegue
gli Antifonari per il duomo di Udine. Un altro grande maestro, che rivela collegamenti con la
pittura dell’Italia centrale, specie quella dell’Umbria, minia i Graduali per la stessa chiesa.
Maria Grazia Ciardi Dupré del Poggetto commenta che « Per la raffinatezza pittorica e per la
caustica bizzarria, di gusto nordico, che manifesta, questo miniatore prelude al Gotico
internazionale».
La miniatura in Lombardia è qualitativamente originale e sembra recepire molto presto
le novità giottesche, come dimostrano un Evangelario del 1301 e il Sermone di Pietro da Basegapè.
Poco più tardi vede la luce il Roman de Tristan, « nel quale l'adesione alla nuova sintassi
spaziale e al nuovo naturalismo italiano è totale, pur interpretata secondo la raffinatezza
tipica della corte viscontea». Le dimostrazioni di un’arte miniatoria matura e innovatrice non
si fermano qui e costellano tutto l’arco del secolo. I capolavori della prima metà del secolo
sono il Messale di Roberto Visconti (1327), il Liber Pantheon di Goffredo da Viterbo (1331), una
Vita di Cristo, straordinariamente decorata a penna. Nella seconda metà del Trecento le punte
qualitative dei codici miniati a noi giunti sono la Chronica Mediolani e un codice miscellaneo
(Parigi, BN, lat. 7242) - che inizia con gli Stratagemata di Frontino - con le armi di Galeazzo
Visconti e quindi databile entro il 1378. Tra il 1360 e il 1380 operano Giovanni di Benedetto da
Como che minia il Libro d’ore di Bianca di Savoia nel 1383 e il Maestro del Messale Nardini.228
Uno dei soggetti preferiti dai miniatori e quindi dai loro committenti sono i romanzi
cavallereschi e i Tacuina sanitatis. I migliori in assoluto tra quelli della prima categoria sono
Guiron le Courtois e il Lancelot du Lac, «molto innovativo nella straordinaria mescolanza di
attenzione al reale e di eleganza formale, aristocratica e cortese». Tra i tacuina vi è il Theatrum
sanitatis, attribuito a Giovannino de Grassi. Con questo artista siamo già nel gotico
228Per qualche informazione sulle ricche biblioteche dei Visconti e particolarmente di Bianca di Savoia,
di Amedeo VI di Savoia, con qualche informazioni sulla corte francese, si veda: NATHALIE ROMAN,
Savoie, France, Milan: les choix artistiques de Blanche de Savoie, in Arte di corte in Italia del Nord, p. 321-336.
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internazionale. Le sue opere certe sono il taccuino di disegni firmato, un libro di modelli, nel
quale sono presenti tutti gli aspetti che più caratterizzarono il Gotico internazionale, il
Breviarium Ambrosianum detto Beroldo, l’Offiziolo di Gian Galeazzo Visconti. Quest’ultimo rimane
incompiuto per la morte di Giovannino nel 1398. Questo è, come dice Maria Grazia Ciardi
Duprè del Poggetto: «il più complesso ed enciclopedico libro di preghiere del suo tempo, per
questi aspetti addirittura superiore ai libri d'ore eseguiti per il duca di Berry. Da questo
gruppo di codici emerge una cultura laica e sacra di grande apertura mentale, spregiudicata e
insieme profonda».
Pietro Toesca osserva che «nella seconda metà del Trecento, le miniature valgono […] a
rendere assai più perfetta la conoscenza» dello stile nella pittura di Lombardia. Sin dalla
«metà del Trecento, in alcuni manoscritti lombardi si trovano nitidi i riflessi dei principî
giotteschi che informavano ormai profondamente la pittura».229 Tuttavia, come giustamente
nota Laura Alidori Battaglia, gli studi sulla miniatura lombarda si sono concentrati sulla
committenza dei Visconti, mentre hanno trascurato i libri appartenenti e commissionati dalle
fondazioni religiose, certamente perché dispersi e difficilmente reperibili, ma per
comprendere quanto tale approccio sia minorante, basti pensare che «Milano al tempo di
Bonvesin de la Riva contava duecento chiese e sessanta monasteri».230 E che il convento di
Sant’Eustorgio possedeva una biblioteca di 722 codici!231
La corte angioina di Napoli, con i suoi contatti con la corona francese, la Provenza ed
Avignone mostra una vasta apertura ai miniatori francesi e provenzali. I romanzi
cavallereschi sono, anche qui, uno degli argomenti preferiti dei volumi dei reali, ma anche lo
splendido volume con i Faits des Romains. La corte di re Roberto, che riunisce molti uomini di
cultura, privilegia il libro e deve rappresentare una clientela di lusso per gli artisti. Per Carlo
di Calabria alcuni miniatori francesi istoriano a Napoli una Histoire ancienne jusqu'à César.
Cristoforo Orimina è, a Napoli, il più importante miniatore dei decenni centrali del Trecento e
firma la Bibbia detta di Malines per Nicolò d’Alife. Cristoforo firma a lettere d’oro questa
Bibbia. Francesca Manzari scrive: «Le due miniature a piena pagina che introducono il testo
mostrano una monumentalità del tutto giottesca, in particolare nelle figure principali».232
Ferdinando Bologna, che non crede all’influenza senese sulla miniatura napoletana,
scrive che l’aspetto principale di essa «dipende in modo esclusivo dai movimenti giottesco-
masiani rappresentati dai pittori finora ricostruiti ed è un altro prodotto esemplare del clima
instaurato dall’equipe giottesca».233
La miniatura a Napoli rimane influenzata dagli affreschi del Cavallini, di Giotto e dei
suoi collaboratori, tra cui Maso di Banco. Mentre è ancora in vita re Roberto, viene miniata la
Bibbia di Lovanio. Gli Statuti dell’ordine del Nodo, sono invece databili al 1353-54, mentre la
Bibbia di Matteo Planisio è del 1362.234
Un miniatore, detto il Maestro del Seneca dei Girolamini illustra le tragedie di Seneca
verso il 1371. Questo maestro lavora con Orimina nella Bibbia di Napoli e si è chiaramente
formato sui giotteschi. Viene anche influenzato dall’arrivo a Napoli di Niccolò di Tommaso,
che, unitamente alla comprensione spaziale della lezione della pittura fiorentina, aggiunge
alla corte angioina, p. 276-277, e sulla mano di Cristoforo Orimina su questa Bibbia, p. 278. Su Orimina, si
veda LEONE DE CASTRIS, Napoli angioina, p. 411-413.
233 BOLOGNA, I Pittori alla corte angioina, p. 276.
234 FRANCESCA MANZARI, La miniatura nel secolo di Giotto, in Giotto e il Trecento, p.283. Sugli Statuti
dell’Ordine del nodo, si veda BOLOGNA, I Pittori alla corte angioina, p. 306-310.
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eleganza e colorito sfumato. Non mancano comunque influssi derivanti dall’arte senese e
specialmente Simone Martini. Influssi senesi sono in un Boezio con le sue eleganti miniature.
Durante il regno della regina Giovanna I, viene prodotto lo stupendo Meliadus e
l'Offiziolo di Giovanna. Il laboratorio di miniatura di eccellenza nel regno è a Cava dei Tirreni,
l’abbazia, che ha alle sue spalle una gloriosa tradizione. Nel corso della prima metà del
Trecento, i miniatori dell’abbazia recepiscono gli influssi del Cavallini e, più tardi, quelli di
maestri romani e umbri, con apporti francesi.
La miniatura in Sicilia sembra ancorata al proprio passato e produce opere che
riecheggiano i modi bizantini.235
Tutto il lungo paragrafo è basato sugli scritti di MARIA GRAZIA CIARDI DUPRÉ DAL POGGETTO, su
235
1369
830
CRONACA DELL’ANNO 1370
Urbanus Papa V, sedit annis VIII […] fecit crucem predicari contra Turchos
& passagium ordinavit, intoxicatus obiit.3
4 Chronicon Ariminense; col. 909. Un secondo bambino, Andrea, allieterà la coppia il 30 novembre 1373.
6 SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1087 ci fornisce tutto l’itinerario di Johannes Aguth.
Carlo Ciucciovino
a secco nelle mura. Di notte, con alcuni amici, questi riesce ad aprire un varco tra le pietre,
sufficiente a far passare un uomo. Il mattino seguente Guido ordina un forte attacco dalla
parte opposta a quella della breccia; naturalmente una gran parte dei difensori accorre dove
più imminente appare il pericolo. Nel frattempo, Lupatello entra con alcuni armati per il
varco e li guida verso la piazza, impadronendosene. Ma ormai l'irruzione è stata segnalata e i
Viscontei accorrono, la battaglia si accende intensa, l'afflusso continuo di armati attraverso la
porta sbrecciata favorisce i Fiorentini, che escono vincitori dallo scontro, catturando, con
grande loro gioia, Ludovico e Biagio Ciccioni, Filippo Lazzarini e molti dei loro.7 Il 13 gennaio
i prigionieri arrivano a Firenze, e, quando sono in Vacchereccia, vengono quasi linciati dalla
folla, che li lapida. I militi riescono a scamparli dalla furia popolare, per tradurli il mattino
seguente sul muro del capitano e decapitarli.8 Del cadavere del più ricco, e odiato, Filippo
Lazzarini, viene fatto scempio: «Essendo stato tagliata la testa a messer Filippo Lazzarini, e
quasi ogni persona itosi a casa, e lo corpo suo era nella bara nello cortile del capitano, fu tolto
in su la terra e portato via con quelle solennità che gli altri. Di che essendo in Porta Rossa,
parve giudicio divino che i fanciulli che uscivano dalle scuole cominciarono a domandare chi
erano li portati: a uno a uno passarono, che nulla fu detto; quando furono a messer Filippo
Lazzarini, con boci e sassi cacciarono coloro che lo portavano, e ultimamente lo trassero della
bara, e per tutta Porta Rossa lo trascinarono infino all’uscita di Porta Rossa da casa i Bombeni.
La novella andò in palagio, la famiglia de’ Signori v’accorse, e fecelo rimettere nella bara e
ritorre, ed i fanciulli cacciati. Di subito innanzi giunse a casa gli Spini, da capo fu tolto e
gittato fuori della bara, e fatto riporre, e tolto loro più volte. Ultimamente, né i rettori, né altri
non ebbono potere che i fanciulli non lo gittassero in Arno. Dicesi che fosse giudizio divino,
perocché operazione di persona non fu che ciò si facesse, se non de’ fanciulli. Dicesi bene
ch’egli fu uomo di mala ragione, e che avea grano, e che mai non si poté a Sanmignato fare lo
desse, che s’aspettava gran carestia, e vedea quelli di sua setta e gli altri comprare pane di
saggina di 6 denari 12».9 Lupatello viene ricompensato con la cittadinanza fiorentina, insieme
a suo figlio Barna; le tre figlie di Lupatello vengono dotate con 100 fiorini ciascuna. Coloro
che hanno sostenuto i Fiorentini vengono ricompensati: tra questi alcuni dei Malpigli e dei
Mangiadori; la cittadinanza fiorentina viene conferita a Francesco di Ricovero degli Orlandini
e al marchese Bonifazio Lupo. A Giovanni Malatacca da Reggio, che, pur avendo deposto il
comando supremo, ha continuato a militare nell’esercito di Firenze, vengono donati 1.500
fiorini. Rodolfo da Varano è capitano dell’esercito fiorentino in Toscana.10 Giovanni Acuto
non si reca a soccorrere San Miniato, «e lo non andare furono dette più cagioni: chi disse
perché lo foraggio non vi era; chi disse non fu chi darli denari; chi disse per lo tempo
tempestoso dell’acqua ed i mali cammini e terreni di Sanmignato».11 I Fiorentini mettono a
7 GRIFFONI, Memoriale, col. 182, dice che nella rocca, inespugnabile, si barrica Paganino conte di Panico.
RONDONI, San Miniato, p. 155 scrive che «si dié fuoco alle case di ser Giovanni Naldino e di Amerigo
Pallaleoni, dove stavano i figliuoli di messer Ridolfo Ciccioni, i quali per fuggire si gittarono per lo balco
dirieto li palagi».
8 STEFANI, Cronache, rubrica 717 così racconta l’episodio: «Lo popolo si attendò per tutta la via donde
veniano, cioè dalla Porta San Friano infino al palagio de’ Priori, e sì per la guerra che fatto aveano, e sì
per la carestia che dalla guerra era uscito, e poi per la gente che cavalcato avea a Firenze, fu grandissima
fatica con tutta la gente e famiglia de’ rettori e de’ Priori a poterli salvare che dal popolo non fussero
allapidati, e fu di pietre la famiglia dei Priori e dei rettori male guidata, e tanti ne furono feriti di pietre,
che abbandonarono i pregioni, e se fossero stati sciolti, si dice, se n’andavano. Pure all’ultimo, con
grande fatica, furono messi in mano delli rettori». L’episodio è narrato con qualche reticenza da
SERCAMBI, Croniche, p. 183-184. Buon resoconto in SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1087-1088. Buono
anche Cronichetta d’Incerto, p. 268-270.
9 STEFANI, Cronache, rubrica 717.
10 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1370, vol. 3°, p. 26 e 27, e nota 2 a p. 27.
11 STEFANI, Cronache, rubrica 715; Chronicon Estense, col. 492 mette la presa di San Miniato al 10 febbraio.
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La cronaca del Trecento italiano
segno un altro buon successo traendo dalla loro parte Guido da Fogliano, che lascia l’esercito
visconteo con 40 lance.12 Firenze invia tre commissari a riformare la terra, uno di questi è
Migliore de’ Guadagni che la governa con il titolo di vicario.13
Il 16 gennaio Firenze assolda il conte Luzio,14 Tedesco, con 500 lance e 50 arcieri.15
§ 5. Profezie
Giovanni de Rupescissa, dell’ordine dei Minori, prima del 1370 diffonde una predizione
riguardante l’esistenza futura di due Anticristo, la desolazione delle terre e la generale
conculcazione del clero. Predice che tutto il mondo approderà infine alla fede in Gesù. Egli
diffonde anche altre predizioni, che dice rivelate dal Signore Gesù, sed non evenerunt.18
§ 6. Campagna e Marittima
Liberatasi dai Genovesi, Terracina deve subire la pretesa della Chiesa di riscuotere il
plateatico e la dogana del sale; balzelli che succhiano dalle tasche del comune ben mille fiorini
annui. Queste tasse e un nuovo sistema di elezione degli ufficiali pubblici determinano un
forte malumore tra i Terracinesi. Il rettore Ugo di Bonvillar (1367-1370) ha concordato con il
comune che, con i proventi dell’imposta sul sale, si pagherebbero gli stipendi degli ufficiali
della Chiesa che sono posti ad amministrazione e guardia di Terracina. Arturo Bianchini
osserva che «sostanzialmente erano gli stessi patti offerti dai cittadini al pontefice Clemente
VI nel 1346, in un momento critico per l’esistenza del comune. Ma, mutate le condizioni, i
cittadini non potevano tollerare di essere stati privati d’uno dei principali cespiti finanziari e
delle fortezze, specie del Pisco Montano e della Torre dei Mulini, simbolo e presidio della
libertà comunale». Questo malumore, fomentato e diretto da persone con interessi particolari
a noi non noti, sfocerà in una insurrezione nel 1376.19
15 CANESTRINI, Milizia italiana, p. 70-71 riporta il contratto di condotta; si noti che per Firenze conduce le
trattative Spinello di Luca Alberti, un uomo di specchiata onestà che, quando morirà «non gli si trovò
tanto lenzuolo che vi si fasciasse il corpo»; ibidem p. 70, nota 2 riportando quanto detto da Giovanni
Cavalcanti.
16 Perché gli Albizi erano calunniati essere d’Arezzo e ghibellini. STEFANI, Cronache, rubrica 665. Ma lo stesso
autore, nella rubrica 720, afferma che chi aveva sempre sostenuto la lega col papa era Piero di Filippo
degli Albizi, tanto è vero che, essendo suo nipote messer Piero, figlio di messer Filippo Corsini, vescovo
di Firenze, Urbano V ricompensa questa fedeltà di famiglia con il cappello cardinalizio. Se questa è la
versione corretta, sono i Ricci che cedono il campo agli Albizi. VELLUTI, Cronica, p. 288-290; con questa
notizia si conclude la cronaca del Velluti che occupa le pagine successive a descrivere la sua numerosa
famiglia. La cronaca viene continuata da Paolo di messer Luigi di Piero d’Andrea di Michele Velluti, ma
non riguarda più il Trecento.
17 STEFANI, Cronache, rubrica 715; CERRETANI, St. Fiorentina, p. 143.
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Carlo Ciucciovino
Al rettore della provincia, Ugo di Bonvillar, vescovo lettoriense, dalla metà del 1370
succede Daniele dei marchesi del Carretto che conserva la carica fino a marzo del ’71, gli si
avvicenda Marsilio da Carrara che tiene la rettoria dal marzo 1371 al settembre 1373, poi gli
subentra nuovamente Daniele del Carretto. Ugo di Bonvillar ritiene che la sua autorità sia
soggetta solo a quella del pontefice, mentre i suoi successori debbono riferire ad alti
funzionari ecclesiastici, che vantano il titolo di vicari nelle cose temporali.20
Il polso fermo di Ugo di Bonvillar e la sua fame di denaro non si esercitano solo su
Terracina, ma anche sui comuni che si sono ribellati alla Chiesa nel 1365 e che sono stati
ricondotti all’obbedienza tre anni più tardi: Ferentino, Alatri, Veroli, Frosinone ed altri.
Questi comuni sono obbligati a pagare una multa di oltre 2.000 ducati d’oro.21
Il comune di Segni non ha partecipato alla ribellione, anche perché è già soggetto a
qualcuno: i conti di Segni; comunque, la Chiesa nomina in Segni il podestà, che per il suo
stipendio riceve 270 fiorini al semestre. Gli oneri del comune non sono soli questi: deve anche
fornire soldati all’esercito pontificio. La giurisdizione delle cause civili e penali è esercitata in
città da un balivo, il quale amministra anche i beni demaniali. Una qualche duplicazione di
funzioni ed introduzione di confusione vi deve però essere, perché nel comune esercita anche
un giudice della Chiesa, il quale ha competenza sui beni apostolici.22 La permanenza del papa
a Roma e l’energia di Ugo di Bonvillar garantiscono a tutte le popolazioni della Campagna e
Marittima un periodo di quiete e di liberazione dalle ingerenze delle famiglie baronali, a
prezzo di parte della loro autonomia e grazie all’applicazione delle Costituzioni Egidiane.
Solo Anagni, Sezze, Priverno e Terracina sono esenti dalla giurisdizione di Roma; tutti gli altri
comuni debbono ricevere un podestà di nomina ecclesiastica. Inoltre, i comuni sono soggetti a
una taglia per il mantenimento dell’esercito del rettore.23
Un nobile di trattamento particolare da parte del Bonvillar è il turbolento Onorato
Caetani, conte di Fondi, sia per la sua potenza personale e il suo presidio ad una zona di
confine, che per l’autorità di cui gode presso la corte napoletana. Sono invece in esilio i figli di
Giovanni Caetani, zio di Onorato, per l’attacco portato a Ferentino nel 1360. Tutti i nobili si
rivolgono al Bonvillar per ricercarne la pace e il giudizio. Unico ribelle pertinace è Francesco
da Ceccano, contro il quale Ugo di Bonvillar mobilita tutti i nobili ed i comuni; la lotta contro
il riottoso si conclude con la morte di Francesco e con l’incamerazione di tutti i suoi beni in
favore della Chiesa.24
Velletri vive sempre con molta difficoltà la sua soggezione a Roma e non vi è bisogno
che di un pretesto per ravvivare le antiche inimicizie di ambo le parti. Un evento minimo
scatena la rappresaglia di Roma: un ufficiale romano, nel tentativo di sedare una rissa,
maldestramente si ferisce con la sua stessa spada. Pacificati i contendenti, l’ufficiale promette
che non si rivolgerebbe alla curia capitolina, ma, tornato a Roma, racconta il fatto,
probabilmente colorendolo, e la curia ordina ai Velletrani di inviare sedici cittadini, che
l’Urbe imprigiona e libera solo quando Velletri si impegna a versare un tributo annuo di mille
lire di provisini. La questione si trascinerà per trent’anni e sfocerà una guerra negli anni
Ottanta.25 I malumori vengono acuiti da un altro evento: in un momento che non conosciamo,
ma prima del 1370, Velletri ha ottenuto il diritto di nominare autonomamente il proprio
podestà, con l’unico obbligo di ottenerne l’approvazione da parte della curia. Partito il papa,
il governo dei Banderesi alza la posta e inizia una serie di pressioni per raccomandare
qualche candidato. I cittadini di Velletri si dividono e parteggiano per candidati opposti. I
capi del partito avverso alle ingerenze di Roma sono Nardo di Gorio ed i suoi figli, con
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834
La cronaca del Trecento italiano
Giovanni di Stefano Palomba, Mattia di Puccio Lelli, Lello di Mirone, sono esponenti delle
maggiori famiglie nobiliari della città. Questi si confrontano con i popolari, più accomodanti e
disponibili nei confronti di Roma. Le ostilità serpeggiano in tutta la città e sfruttano tutte le
occasioni; gli odii e le contese non vengono contenute nel perimetro delle mura cittadine, ma
dilagano nelle campagne; commenta Giorgio Falco: «quella che si combatteva era assai di
rado lotta di istituzioni, del comune di Roma contro il comune di Velletri, più spesso era lotta di
uomini, e di uomini pronti alla violenza e tenaci nell’odio».26
Giovanna, e di Carlo di Durazzo che è fratello di Luigi, padre di Carlo. Margherita è quindi cugina di
primo grado di Carlo. Le trattative che hanno preceduto il matrimonio sono riportate in GAGLIONE,
Profili di sovrani angioini, p. 455-456.
29 Agnese ha rinunciato a tali diritti all’atto del suo matrimonio con Cansignorio della Scala, Giovanna
ne è stata privata dal papa perché egli non ha voluto approvare il suo matrimonio con Luigi di Navarra;
rimane Margherita, ma anche questa sta dimostrando un carattere indipendente, rifiutandosi di sposare
Federico IV, re di Sicilia. Ora col matrimonio, tutti i tasselli tornano al posto giusto.
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835
Carlo Ciucciovino
minare la sua autorità e la sua stessa vita, tuttavia, ha ottenuto l’assicurazione di Ludovico
che, lui vivo, nessun fastidio le deriverebbe da questa unione e quindi si è piegata di buon
grado, anche per l’amore che porta alla nipote. L’assenso di Urbano V è stato dato il 15
giugno 1369, ma soltanto nel resto dell’anno le esitazioni di Giovanna sono state vinte ed ora
le nozze coronano il disegno.30 Poco dopo Carlo riparte per l'Ungheria, e Margherita lo
seguirà nel settembre di questo anno. Una loro figlioletta, Maria, morirà nel 1371.31
Il principe reale Filippo di Taranto, nell’estate del ’69, era in Ungheria e presente alla
firma del patto di alleanza di Re Ludovico con i Wittelsbach, ai danni di Carlo IV imperatore.
All’inizio del 1370, re Ludovico gli concede la mano di sua nipote Elisabetta, la figlia di
Stefano, con il pieno consenso papale. Anche questa unione fa corrugare l'alta fronte di
Giovanna e Filippo non tarda a darle motivo di preoccupazione: infatti tornando in Italia ai
primi del 1371, Filippo, sostenuto dagli Ungheresi rivendica per sé Bari, Salerno, L'Aquila ed
il suo territorio, un porto ed un castello di Napoli. Il primo maggio interviene papa Gregorio
ad ammonirlo severamente ed il vescovo di Marsiglia che è latore della disapprovazione
pontificia, ha in tasca la scomunica contro Filippo, nel caso che questi non si pieghi.32
Ma Filippo rimane aggressivo ed insofferente e nel 1372 assedia, insieme a Francesco de
Baux, suo cognato, il castello di Canosa di Puglia. In qualche modo poi, Filippo si riavvicina a
Giovanna e combatte per lei negli ultimi anni della sua vita. Conflitti con il valoroso Giovanni
Malatacca, con il conte d'Avellino Raimondo des Baux. Il 25 novembre del 1373 Filippo
muore.33
§ 9. Este e Venezia
Il 27 gennaio, i marchesi d’Este, Nicolò e Ugo, lasciano Ferrara, diretti a Venezia, dove
partecipano alla festa della Beata Vergine Maria, che viene celebrata il 2 febbraio. I marchesi
vengono accolti con grandi onori dal patriziato veneto e dal doge Corner.34
Il 17 febbraio i Fogliano cedono al marchese Nicolò d’Este il castello di Budrione, presso
Carpi e l’8 marzo il castello di San Paolo. Questo è l’atto conclusivo di un processo iniziato
l’anno passato, quando il marchese di Ferrara ha cercato di convincere le famiglie dominanti
di Reggio ad affidare alla sua custodia i loro castelli. Le fortezze che Nicolò vuole sono
Rubiera, Borzano, Mozzadella, Montericco, Gesso de’ Malapresi e le ville di Torricella, Monte
Castagneto e Salvaterra.35
30 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 539. CAMERA, Elucubrazioni, p. 267 sottolinea l’affetto di Giovanna per
Margherita e pubblica un breve apostolico del papa agli sposi. La notizia delle nozze è anche in Cronaca
di Partenope, p. 163. MIGNOT, Histoire de Jeanne Premiere, p. 233 senza novità, analogamente DE BLASIS, Le
case dei Principi angioini, p. 388.
31 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 539.
32 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 539-540. Anche per Filippo il papa è costretto a dare il suo consenso,
visto il quarto grado di consanguineità tra gli sposi, CAMERA, Elucubrazioni, p. 267. Cronaca di Partenope,
p. 164-165 narra il matrimonio di Filippo con Maria, la morte di questa ed il nuovo matrimonio con
Elisabetta. Il matrimonio di Filippo e la sua ribellione è anche in ANTONIO DI BUCCIO, Delle cose
dell’Aquila, col. 743-744 quartine 248-250 e 251.
33 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 560.
34 Chronicon Estense, col. 492; FRIZZI, Storia di Ferrara, vol. III, p. 346.
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La cronaca del Trecento italiano
Il 13 giugno il papa scrive una bolla ai vescovi di Narni, Orvieto e Città di Castello
perché riscattino i beni dei canonici di Todi, dei quali si sono indebitamente appropriati
alcuni laici. Urbano V quindi invia il nuovo Priore del capitolo: Giovanni Malavolti da Siena.37
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capitano tedesco che egli ha avuto in custodia al tempo delle novità in Città di Castello, e,
vistosi perduto, si consegna a lui, sperando che il soldato gli voglia restituire il buon
trattamento che egli gli ha riservato. Henrico non tradisce la fiducia riposta in lui: accoglie
Francesco a braccia aperte e, ricordevole del beneficio ricevuto, subito dopo la conclusione dello
scontro lo libera. Se ai Perugini va male sui campi di battaglia, le congiure che cercano di
intessere con cittadini e castelli vicini non recano loro maggior giovamento. Falliscono trattati
ad Assisi, Borgo Sansepolcro, Bevagna, Civitella, Palazzo Baglioni, Petrignano. Alcuni di
questi tentativi di tradimento si rivolgono a lor danno, come nella rocca di Casalino e Bettona,
dove, quando i Perugini, comandati da Concio degli Ubaldini e Ceccarello Bencivieni, sono
entrati dentro le mura, i traditori volgono le armi contro di loro e li fanno tutti prigionieri; si
riescono a salvare solo quei fegatacci che hanno il coraggio di saltare dalle mura, senza
esitazione, tra questi è Carsuccio di Franceschino. L’Ubaldini è tra i catturati. Un progetto di
alleanza con il prefetto di Vico vede questi cambiare bandiera ed allearsi col papa.39 Firenze
non nasconde le sue preoccupazioni per il conflitto in Toscana e, saggiamente, cerca di evitare
che possa dilagare e sfuggire di mano a tutti. Verso la fine di febbraio quindi invia suoi
delegati a Perugia,40 che, uniti ai due da Pisa ed i quattro da Siena,41 dopo aver raccolto le
opinioni dei Priori di Perugia, si rechino a Roma per cercare di comporre le richieste del
pontefice con le istanze perugine. Dopo molte riunioni, ad aprile, gli ambasciatori toscani
tornano a Perugia e, fatti convocare «più consigli di diversa qualità», ed in particolare uno
generale; in questa assemblea Aloigi Gianfigliazzi espone le richieste pontificie. Allontanati
gli ambasciatori per permettere un libero dibattito, ferve una breve ed intensa discussione in
consiglio, la decisione che ne scaturisce è di totale chiusura. I Perugini esortano gli
ambasciatori a tornare a Roma e cercare di smuovere il pontefice dalle sue condizioni. Ma gli
ambasciatori affermano «che tornarvi era vano perché avevano chiaramente compreso la sua
intenzione essere in tutto ferma». Solo Carlo Strozzi accetta di dirigersi verso la Città Eterna
per dar conto ad Urbano VI del deludente risultato del consiglio generale.42
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concessa più tardi ai suoi figli. Sicuramente il personaggio aveva acquisito molto ascendente
sulle popolazioni delle sue terre e la sua signoria come forma di autogoverno locale era ormai
una realtà consolidata, di tirannico aveva solo l’aspetto formale, come usurpazione di poteri
spettanti alla Chiesa. Nicolò era riuscito a conquistarsi il favore popolare con il suo prestigio e
la sua moderazione».45 Questa notizia non è coerente con il fatto che troviamo il conte di
Buscareto al comando delle truppe veneziane, come vice di Ranieri dei Baschi nel 1372. È
proprio nel ’72 che Nicolò Buscareto viene catturato, ma la cronaca del Gatari non ci narra gli
sviluppi della sua prigionia.46
48 MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 758-759; Monumenta Pisana; col. 1056-1057; RONCIONI, Cronica di
Pisa,p. 235-236.
49 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1370, vol. 3°, p. 28 basandosi sul racconto di SOZOMENO,
Specimen Historiae, col. 1089. La condotta del conte Lucio o Luffo o Luzo è in CANESTRINI, Milizia italiana,
p. 70-71.
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l’accorrere delle truppe della lega costringe il nemico a togliere l’assedio.50 Bernabò in
febbraio fa riedificare Soliera.51
§ 20. Carestia
Per le gran piogge dell’anno scorso, e per le devastazioni della guerra, il raccolto è stato
scarso ed il comune di Firenze manda a comprare il grano fuori. Per i tre mesi più duri della
carestia, febbraio, marzo ed aprile, uno staio di grano costa un fiorino. Analogamente, anche
della regina Giovanna. Può essere interessante notare, quale sapore dei tempi, una serie di
provvedimenti che, nel 1369, sono stati presi dal Consiglio di Traù per l’arrivo di re Ludovico d’Angiò.
Ogni villano deve provvedere due galline e 10 uova. Si faccia il censimento di tutti i buoi e vitelli e si
marchino quelli da dare alla corte reale. Idem per i castrati. In tutte le cantine dei “sapienti” gustino i
vini e si scelgano i migliori “più forti” nel quantitativo di 400 galate. Preparare 25 moggia di grano della
Puglia per fare il pane. I mercanti non possano vendere il loro orzo, così che non manchi ai cavali del re
e del seguito. Si apprestino 12 torce di cera del peso di 4 libbre ciascuna e 20 libbre di buone candele; si
comprino due libbre di pepe e cannella. I fondi per affrontare le spese vengono tratti dai mulini di Traù.
Ibidem p. 245-246.
53 LAGO, memorie sulla Dalmazia, 1°, p. 247-248.
54 NORWICH, Bisanzio, p. 385-386; OSTROGORSKY, Impero bizantino, p. 485; LUCIO, Historia di Dalmatia, p.
295.
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il vino scarseggia, un barile di vino costa un fiorino, e d’estate un fiorino e mezzo. «Ancora fu
carestia di carne, perocché quell’anno era stata in Lombardia la guerra e in Toscana, e in
molte luogora, per la qual cagione non era venuto a Firenze bestiame di Puglia, donde ne
solea venire assai». Oltre a ciò vi è un’insolita mortalità di bestiame.55
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fiorentini presso il cardinale Anglico festeggiano la “libertà” di Lucca, ammettendola alla lega
antiviscontea; Alderigo che è stato imprigionato, si riscatta per qualche migliaio di Fiorini,
Giannotto Visconti, che sicuramente non ha servito gli interessi di Bernabò, viene costretto a
tornare in Lombardia.59
59 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1370, vol. 3°, p. 28-29 e nota 1 a p. 29. Anche Monumenta
Pisana; col. 1057; RONCIONI, Cronica di Pisa,p. 236-237. Ma questa narrazione è essenzialmente basata su
SERCAMBI, Croniche, p. 176-183 e su LUCARELLI, I Visconti di Milano e Lucca, p. 29-34, questi però non
menziona il ruolo di Firenze. Giovanni Sercambi, testimone oculare di questi avvenimenti, ai quali ha
preso parte, è ricco di molti altri particolari: la difesa di sessanta leali cittadini data al cancelliere
Massiolo Lombardo, più come sorveglianti che per la sua incolumità. La conseguente partenza di
Massiolo che si unisce alle truppe viscontee, il ritiro dei Sessanta nel palazzo del podestà. Una
suggestiva marcia notturna condotta da Ugolino Galluzzi, alla testa della sua “famiglia” armata e dei
cittadini, per tutta Lucca alla luce dei «fanali accesi», per intimidire eventuali traditori e per espellerli
dalle posizioni critiche. Quindi, tutte le articolate vicende di quei giorni convulsi, segnati dall’incertezza.
SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1087. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 254-255 scrive: «del mese
d’aprile fu manifesto a zascuno delli Pisani et Luchixi che haveano facto ligha cum la Chiesa».
CATUREGLI, Giovanni Agnello, p. 266-267.
60 SERCAMBI, Croniche, p. 185.
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secondo paradizo, chi dicea: omai non curo morte, poi che libertà ò veduta».64 L’intrapresa di
iniziativa popolare viene fatta propria dagli Anziani che pongono metodo nella distruzione e
mandano a chiamare maestri di Firenze.65 L’opera di sistematica distruzione dura a lungo ed i
maestri fiorentini vengono compensati con molti fiorini ed un pallio d’oro. 66
Lucca si ripopola per il rientro di molti cittadini. Uno scrittore compone un “romanzo”,
«il quale conta e ricorda quello che de’ esser bene e util del comune di Luccha & de’ suoi
ciptadini, li quali vogliono ben vivere». Lo scrittore è verosimilmente il nostro cronista
Sercambi che, per più pagine, ricorda come Lucca sia stata signoreggiata da molti signori,
Uguccione della Faggiola, il conte Gaddo Gherardeschi, Castruccio Castracani e poi i suoi
figli, Marco Visconti, Gherardino Spinola, Giovanni di Boemia, l’imperatore Carlo IV,
Mastino della Scala e Firenze, rammenta il dominio degli odiati Pisani, la signoria di
Giovanni dell’Agnello e, infine, nuovamente dall’imperatore Carlo e dal suo vicario il
cardinale Guido.67
64 SERCAMBI, Croniche, p. 188-189. Si può paragonare al giubilo popolare dei nostri tempi per la
Settignano.
66 SERCAMBI, Croniche, p. 189.
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Guglielmo di Beaufort, visconte di Turenna, ottiene da Carlo IV, che il 13 giugno 1369 ha
privato Perugia del vicariato imperiale, i castelli di Monteleone e Montegabbione e la città di
Chiusi, frustrando le ambizioni di Orvieto, che avrebbe sperato di recuperare queste terre
strappategli da Perugia. Per evitare che anche il castello di Sarteano passi ad altri, Orvieto vi
manda Monaldo di Giovanni da San Casciano, che viene costretto ad emettere una garanzia
di 2.000 fiorini d’oro.68
68 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 235, nota 6, che si prolunga alle
pagine 236-237.
69 PELLINI, Perugia, I, p. 1064.
70 Sembra che i 650 fiorini siano stipendi arretrati che Pepo dovrebbe aver percepito per aver militato
sotto Egidio Albornoz. Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 236, nota.
71 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 236, nota 6 in continuazione da p.
235. Anche CALISSE, I Prefetti di Vico, p. 141, questa fonte nota che ai ribelli si è anche unito Simonetto,
detto Simiotto, di casa Orsini.
72 BUSSI, Viterbo, p. 208-209 narra un aneddoto su Giovanni di Vico, padre di Francesco.
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La cronaca del Trecento italiano
73 DELLA TUCCIA, Cronaca di Viterbo, p. 36; PINZI, Viterbo, III, p. 362-363; BUSSI, Viterbo, p. 208; D’ANDREA,
Cronica, p. 99; CALISSE, I Prefetti di Vico, p. 141; DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 680-683; MONALDESCHI
MONALDO, Orvieto, p. 113 verso e 114 recto; GREGOROVIUS, Roma nel Medioevo, Lib. XII, cap. 2.1. MOLLATT,
Les papes d’Avignon, p. 235-237 ben delinea le continue pressioni dei cardinali sul papa perché questi
voglia abbandonare la problematica e turbolenta Italia, dove anche i tradizionali alleati della Chiesa,
come Firenze e Perugia, sono freddi od ostili contro il papato.
74 SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1090.
76 CASTELLINI, Storia di Vicenza, lib. 13°, p. 85-86. Sulle mura scaligere e, più in generale sulle mura di
Vicenza, si veda Franco BARBIERI, L’immagine urbana, in Storia di Vicenza, p. 247-293 e per le scaligere, p.
264-279.
77 CARRARA, Scaligeri, p. 207.
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Carlo Ciucciovino
questi messer Giovanni dell’Agnello. Gli Anziani di Pisa78 ordinano che venga rafforzato il
borgo San Marco con fossi e steccati: ogni cittadino e contadino è tenuto a presentarsi
portando un palo «lungo più di una pertica». Vengono rafforzati anche le porte della città ed i
ponti sull’Arno, cioè Ponte della Spina e Ponte a Mare. L’8 di maggio viene emesso «lo bando
dello sgombrare infra quattro giorni senza pagar gabella, a pena del fuoco». Ma poco si può
fare, perché il 15 Giovanni dell’Agnello e gli armati viscontei sono a Sarzana; Giovanni ha con
sé Giovanni Acuto e la sua compagnia.79 Il giorno stesso, l’esercito prende la via della
Valdiserchio e punta su Pisa. La città serra le porte, vengono chiuse botteghe e fondachi,
armata la parte dei Bergolini e le mura e le porte sorvegliate notte e giorno. Il Gonfaloniere di
Firenze, Salvestro dei Medici, invia a Pisa 400 cavalieri e 200 dei suoi balestrieri per aiutare
Pietro Gambacorta a difendere la città.80 Giovanni dell’Agnello arriva a meno di un quarto di
miglio da Pisa, a Porta delle Piagge, e mette il suo accampamento a San Michele degli Scalzi e
San Jacopo a Orticaia. Senza indugio, l’esercito visconteo passa il prato che separa il campo
dalle mura, mostrando di volerle assalire, e subito «certi buoni cittadini di Pisa con alquanto
buoni fanti a piè» escono dal riparo delle mura, passando con scialuppe sotto il ponte della
Spina. Sono con loro anche molti buoni balestrieri, i Pisani iniziano piccole scaramucce col
nemico, dando prova di valore. Dalle mura, gli Inglesi ed i fuorusciti sono sotto il tiro di
balestre e bombarde, «e la gente di messer Giovanni, come sentiano le bombarde, si
scostavano e usciano fuore del prato per paura». Ma il problema non è un eventuale assalto
dei Viscontei: è estremamente improbabile l’espugnazione di una forte città come Pisa
all’arma bianca; il problema che terrorizza Pietro Gambacorta è il possibile tradimento di
partigiani interni dell’Agnello. Fra l’altro, alcuni dei combattenti che sono usciti a badaluccare
sul prato sembravano far «vista del combattere mentre si favellavano insieme alla segreta». Il
primo provvedimento che Pietro prende è di vietare tassativamente le scaramucce fuori le
mura, e per renderle obiettivamente impossibili, il 18 maggio, fa «mettere sotto lo Ponte della
Spina presso all’acqua una grossa antenna di legno per lo traverso di verso lo prato, e di molti
aguti con le punte di sopra», per impedire ai Pisani di uscire ed ingaggiare il combattimento.81
La notte su domenica 20 maggio, prima dell’alba, Giovanni, sicuro di connivenze interne,
sferra l’attacco. Con la sua gente si accosta silenziosamente alle mura «presso la Porta della
Pace, ritto la chiesa di Santo Zeno. Con scale a bracciuoli e di funi molto artifiziate». Ottanta
dei suoi migliori uomini, «volenterosi e gagliardi a combattere», ascendono le mura, mentre,
sotto, altri rompono il muro ad una porticciola murata.82 La ronda che percorre le mura, per
spiare le mosse del nemico, giunge a San Zeno e viene catturata dai soldati che sono saliti
sugli spalti. Un coscienzioso ufficiale che fa il giro delle mura, «passando ritto alla chiesa di
San Zeno», sente i rumori che giungono dalla porta murata ed avverte le guardie che sono di
vedetta sul campanile della chiesa. Altre sentinelle, allarmate dalle grida dell’ufficiale, si
affacciano tra i merli e vedono il nemico ammassarsi sotto le mura e immediatamente
78 Sono Andrea di messer Ciano Scorcialupi, Francesco di Lapo Griffi, Jacopo dell’Abate, Buonaccorso di
Giovanni del Colle. Cancelliere è ser Jacopo di ser Vanni d’Appiano, notaio ser Jacopo di Guidone. Il
podestà è l’egregio dottore messer Mino di Carlo de’ Montanini da Siena. RONCIONI, Cronica di Pisa,p. 238-
239; MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 759; Monumenta Pisana,col. 1052-1055; RANIERI SARDO, Cronaca di
Pisa, p. 199-201.
79 Dice di Giovanni dell’Agnello Monumenta Pisana; col. 1057: «E certo poco savio di senno è colui, il
quale è cacciato dalla sua città, per reggimento o signoria,che egli abbia avuta, si voglia mettere a
tornare per forza di spada. Radi ne sono, ma in Pisa nessuno poté mai intrare con la spada in mano: e
questo s’è veduto per più mutamenti. E questo sapea bene lo detto messer Giovanni, ma elli non ne
volse pigliar quello esempio, e vi rimase al tutto disfatto e vituperato, ch’elli consumò ogni suo avere, e
invecchiò povero, e povero morì».
80 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1370, vol. 3°, p. 30 e CORIO, Milano, I, p. 831.
82 Questi lavori sono diretti dal compare di Giovanni, mastro Andrea, genero di Simone Broccaio.
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La cronaca del Trecento italiano
gridano: «Nimici, nimici!». Quelli che sono di guardia a Porta della Pace vanno a picchiare
agli usci delle case dei cittadini della Cappella di San Lorenzo alla Rivolta, perché vicini.
L’ufficiale corre dagli Anziani e la campana del popolo suona a martello. Subito il popolo di
Pisa esce fuori delle case con le armi in mano, sale sulle mura, combatte con il nemico. La
sorpresa è fallita, i Viscontei sono costretti a calarsi dalle mura, e chi non può è costretto a
saltare. Solo cinque dei nemici muoiono, viene catturato un giovane Pisano, Marco da
Travalda, della Cappella di San Lorenzo, insieme ad un Napoletano. I prigionieri sono subito
condotti dal capitano della guardia e costretti a confessare la loro intenzione di «entrare con
messer Giovanni nella città, e mettere a ruba la città, e uccidere uomini e femmine, e grandi e
piccoli, e fare ogni male». Il giorno stesso, trovandoli traditori della patria, il capitano ordina
che vengano messi su una carretta e li fa attanagliare con ferri roventi, poi impiccare fuori di
Porta delle Piagge, di fronte al nemico. I cinque caduti sono trascinati, nudi, dalla carretta che
trasporta i disgraziati prigionieri, poi, impiccati per i piedi. Il giorno seguente, il 21 maggio,
festa di Santa Restituta, l’esercito visconteo leva le tende e va in Maremma. I Pisani
festeggiano lo scampato pericolo con una processione generale per la città e con una messa
solenne nel duomo. Ma il 22 Giovanni dell’Agnello è di fronte a Livorno di cui si
impadronisce con facilità essendo la città sprovvista di mura. Gli invasori effettuano una
grande razzia di bestiame in Maremma di Pisa, e, dal 27, in quella di Siena. Il 28 maggio i
Bergolini impongono un prestito forzoso ai Raspanti di Pisa. Il 30 maggio messer Ludovico
della Rocca, fuoruscito pisano, spalleggiato da Giovanni Acuto ed i suoi, dal suo esilio di
Collina cavalca su Santa Lucia (poco a sud di Pontedera), vi sta tre giorni razziando tutto il
bestiame che può. È evidente che i Viscontei si stanno preparando ad una lunga campagna,
accumulando quante più provviste possono, e tagliando le linee di rifornimento a Pisa. Il 2
giugno i nemici si rifanno vivi ed arrivano fino a due miglia dalla città di Pisa, a Sansovino. Il
3 partono e vanno a Camugliano sull’Era e poi entrano nel Senese, accampandosi tra
Radicondoli e Volterra, presumibilmente per intercettare eventuali aiuti fiorentini che
giungessero dalla via meno facile. Il 5 giugno, finalmente una buona notizia per Pisa, giunge
il condottiero tedesco, il conte Lucio di Landau, con 500 lance. Si attende l’arrivo dell’esercito
della lega, forte di seimila uomini a cavallo e duemila balestrieri, indubbiamente i Pisani
saranno rimasti un po’ delusi quando, il giorno 6, vedono arrivare solo 75 balestrieri
genovesi. Ma non c’è da preoccuparsi, i soldati della lega arriveranno. Il 7 giugno Giovanni
dell’Agnello conduce un’incursione nella Maremma di Pisa. Il 9 giugno l’esercito della lega
finalmente giunge nel territorio di Pisa; l’esercito visconteo si è spostato a Rosignano. Proprio
quando Pisa dovrebbe ritrovare un po’ di sicurezza per l’arrivo degli alleati, maggiore è il
timore di colpi di mano: si rafforza la sorveglianza armata sulle mura ed alle porte e si
osserva con sospetto il partito dei Raspanti. Il 10 giugno, per accattivarsi la simpatia della
popolazione, vengono distribuite diecimila staia di grano vecchio. Il 12 giugno l’esercito
visconteo si accampa a Sansavino e San Michele degli Scalzi. All’alba del mattino successivo
si mettono in marcia, accostandosi a Borgo San Marco, dove si sono rifugiati alcuni loro
prigionieri, catturati nel contado di Valdarno, ed evasi. Le guardie di San Marco suonano le
campane ed il popolo accorre, ma il nemico non si accosta alle mura ed il giorno successivo
leva le tende e va in Valdiserchio di Pisa, avendo saputo dell’arrivo dell’esercito della lega,
che il 14 giugno è a dodici miglia da Pisa, tra fosso Arnonico, Pontedera e Calcinaia. Il 16, in
mattinata, l’armata guada l’Arno e sfila sotto le mura di Pisa. Gli spalti sono affollati di
cittadini che vedono passare più di seimila cavalieri e una gran folla di fanti e balestrieri. Pisa
invia loro molte vettovaglie e denari; quindi, com’è nei patti della lega, fa uscire dalla città
duecento balestrieri e centocinquanta cavalieri per unirsi all’esercito alleato. Giovanni
dell’Agnello ed i suoi arretrano e si accampano tra Lucca e Camaiore, «nelle contrade di
Massa del Marchese, più suso dove si chiama il Frigido». Gli armati della lega li tallonano
dappresso, a sole due miglia di distanza. Mentre a Pisa si fa una processione generale, per
impetrare «la vittoria contra li nemici del comune di Pisa», lentamente, i Viscontei si ritirano
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Carlo Ciucciovino
verso il nord, rifiutando il combattimento. Il 22 entrano nel territorio dei Visconti: a Sarzana.
La lega sbarra la via verso Pisa disponendosi tra Sarzana e Pietrasanta: l’avventura militare di
Giovanni dell’Agnello è durata meno di 40 giorni. Il 27 giugno la gente della lega torna verso
Pisa. Quando l’esercito vi giunge, viene consentito l’accesso a duecento soldati alla volta:
entrano per commerciare, svagarsi, e debbono uscire per Porta San Marco, ed alcuni per la
porta verso Lucca o Firenze. Il 29, gli ultimi soldati alleati partono, «e Pisa rimase libera e
vittoriosa delli suoi nemici».83 Per festeggiare lo scampato pericolo e per ingraziarsi la
cittadinanza, gli Anziani di Pisa, vista l’abbondanza del raccolto di questo anno e le grandi
giacenze di quello dell’anno scorso, il 10 giugno mettono a disposizione della cittadinanza
diecimila staia di grano.84
83 RONCIONI, Cronica di Pisa,p. 237-244; MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 759-762; RANIERI SARDO,
Cronaca di Pisa, p. 200-202; Monumenta Pisana; col. 1058-1061. Molto scarne le informazioni di SOZOMENO,
Specimen Historiae, col. 1089-1090; laconico ANGELI, Parma,p. 196. Interessante CATUREGLI, Giovanni
Agnello, p. 202-206.
84 RONCIONI, Cronica di Pisa,p. 245.
85 Luca di Agnolino, Simeone di Ceccolo, forse un Guidalotti e ser Cola della Macina, notaro.
87 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 237, nota in continuazione da p.
235.
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La cronaca del Trecento italiano
diventano ancora più confuse ed oscure, in quanto i cronisti locali presentano varie
inesattezze e la documentazione di parte genovese si va rarefacendo».88 Probabilmente
Genova continua a mandare governatori nell’isola. Dopo Scalia, «i primi successori furono
forse Nicolò di Levanto, podestà di Calvi tra il giugno 1369 ed il giugno ’70, e l’ex-podestà di
Bonifacio, Araone di Struppa, i quali esercitarono per un anno le funzioni di governatori,
incontrando però serie difficoltà da parte degli stessi abitanti di Calvi». A loro – forse –
succedono Triadano della Torre e Filippo Scalia. L’azione di Triadano, che si appoggia sul
popolo, coagula qualche forte inimicizia da parte dei nobili. Egli riesce a sottomettere tutti i
signori, meno Arrigo della Rocca che trova ricetto presso il re di Aragona. Il cronista corso
dice che egli ha governato cum multa pacie e con justitia, ma è difficile crederlo, visto che, nel
’72, il doge deve inviare Melchiorre de Petrarubea a sindacare il suo operato.89
91 SERCAMBI, Croniche, p. 203-204; PACCHI, Garfagnana, p. 150-151; LUCARELLI, I Visconti di Milano e Lucca,
p. 37.
92 Comandati da Filippo Guazzalotti da Prato. SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1090 dice che oltre ai
94 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1370, vol. 3°, p. 31 e SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1090.
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98 FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 282. Fowler ci informa anche nel 1380 Walter Benedict va a militare
per Venezia.
99 PEZZANA, Parma, I, p. 91.
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La cronaca del Trecento italiano
forze preponderanti della Chiesa. Il 19 giugno, in una lettera inviata ai Romani, il papa «si
mostra pacificato col prefetto e lo chiama figliuolo diletto». Il documento è stato scritto per
vietare il duello, già organizzato, che doveva vedere opposti il prefetto e Francesco Orsini, la
cui tregua di due anni fa, evidentemente, non ha retto. In agosto, la tregua viene rinnovata e
prorogata di 100 anni! L’esagerata durata fa scrivere a Carlo Calisse: «Vana precauzione: 100
anni dopo la famiglia di Vico era spenta, e il tempo che le era tuttora concesso a vivere,
doveva tutto esser corso fra le inimicizie e le guerre».100
§ 39. Fabriano
In questo periodo di relativa quiete, arrivano solo echi sbiaditi dalle Marche. In Fabriano
i Chiavelli continuano con le loro imprese aggressive, infatti, il 27 giugno 1370, Urbano V
ordina al suo vicario in città di salvaguardare i cittadini contro le usurpazioni di Alberghetto
di Tommaso e di Francesco, abate di San Vittore e figlio di Alberghetto. Questo ordine verrà
rinnovato a dicembre del prossimo anno.101 Nel corso del prossimo anno, Fabriano, per aver
eretto a proprie spese due bastie ai confini verso Perugia, per partecipare al conflitto tra la
Chiesa e Perugia, verrà esentata dal pagamento di 760 ducati d’oro e dalla tassa annuale di
3.000 ducati d’oro.102 Ivo Quagliarini scrive che Alberghetto Chiavelli ha «conquistato in seno
al comune una vera e propria egemonia svincolata da ogni controllo della Chiesa». L’azione
di Alberghetto e le lotte intestine dei Chiavelli ostacolano l’azione in corso di recupero
dell’autorità del comune.103
105 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 237, continuazione della nota da
p. 235.
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109 I cittadini che fanno parte della commissione di studio sono: per Porta Sant’Angelo, Giovanni di
Baldiolo, Paolo di Cellolo, Narducciolo di mastro Ghiada, Giovanni d’Andrucciolo; per Porta Sole,
Nicolò di Pone, Nicolò di Ciuccio di Biancelo, Vannolo di Monuccio e Maffuccio della Mirigiana; per
Porta San Pietro, Arlotto Michelotti, Fidanzino di Gnarne del Marescalco, Pietro di mastro Paolo,
Agnoluccio di mastro Bernarduolo; per Porta Borgne Michilotto di Teo dei Michelotti, Nutarello di
Pellolo del Truono, Pietro del Milla, Grazino di messer Grazia; per Porta San Sanne, Agnolino di Bettolo
del Pelacane, Ceccolo di Bindolo, Berardello del Priore e Cristofano di messer Francesco. PELLINI,
Perugia, I, p. 1066-1067.
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La cronaca del Trecento italiano
è una grandissima inclinatione alla pace», qualche utile pretesto per sottrarsi agli accordi, e i
Perugini inviano nuovamente gli ambasciatori ch’erano andati con l’Aragonese, dal papa. Ma
questi, che ha già determinato di tornarsi in Francia, li ascolta impaziente ed inflessibile nel
riconfermare la richiesta di incondizionata accettazione delle sue condizioni. Gli ambasciatori,
disperati, chiedono allora di consultarsi col loro governo, ed Urbano concede loro pochissimi
giorni. Tornano quindi a Perugia e si affannano in interminabili discussioni, sia in convegni
pubblici che privati; quando, finalmente, sono inviati con nuove istruzioni al pontefice,
trovano che questi è già partito per Corneto, lasciandoli smarriti e delusi.110
Un giorno di luglio, Ranuccio di Baldino ed un suo collega si recano in gran segreto in
una località del Perugino per incontrarvi Giacomo di messer Guido Montemelini, fuoruscito e
ribello di Perugia, uno dei capi della congiura del ’61, che mirava ad insignorire della città
messer Alessandro Vincioli. Cosa si debba trattare in questo convegno riservatissimo, è
oggetto di una storia romanzesca in cui il doppio gioco regna sovrano. Uno dei principali
esponenti dei Raspanti, Nicolò di Bettolo del Pelacane, provvisto di enorme prestigio tra i
popolari, sta trattando celatamente con emissari del pontefice per riportare Perugia
all’obbedienza della Chiesa. Il confidente di Nicolò nella difficile circostanza è il conte di
Sarteano,111 a lui si è rivolto per avere consiglio su come prender contatto con il papa;
stupendolo profondamente, il conte gli ha semplicemente consigliato la via diretta: che vada a
Montefiascone, a conferire con Guido, vescovo di Lucca. Il suggerimento piace a Nicolò, che,
mosso da sincero amore per la patria disastrata, o da ambizione personale, o da ambedue,
nascostamente si reca a Montefiascone. Ma qui, una notte, s’imbatte nell’esiliato Giacomo
Montemelini. Questi è molto sorpreso nell’incontrare un suo avversario politico nella città che
il centro dello schieramento avverso a Perugia, e gli domanda il motivo della sua presenza
nella città. Nicolò, fiducioso che il fuoruscito si senta affratellato a lui dal tentativo in corso e
sicuro di conquistarne il complice favore, gli confida tutto. La logica vorrebbe che Giacomo
gioisse del lodevole tentativo e lo favorisse, invece prevale in lui la malizia ed il fuoruscito
prende pergamena e penna e scrive ai Tre sopra la guerra «quanto da Nicolò Pelacane si
trattava, e che perciò stessero avvertiti alla salute della patria o della comune libertà».
Presumibilmente, Giacomo avrà compiuto questa slealtà perché non persuaso della
possibilità di riuscita della trattativa, e contando in questo modo di guadagnarsi la
gratitudine ed il perdono dei magistrati di Perugia. In realtà la storia prenderà tutt’altra
piega. La lettera scuote i Tre sopra la guerra, ma si può prestar credito ad un ribelle? Anche
perché il Pelacani è uomo di sicura lealtà alla causa popolare e la storia appare francamente
inverosimile. Ancor più perplessi rende l’affermazione di Giacomo che egli sta operando per
strappare Gaiche, Monteleone d’Orvieto e Montegabbione alla Chiesa, e la sua richiesta di
inviargli due Perugini per aiutarlo nei negoziati. I Tre deliberano di non fidarsi, e rifiutano
seccamente l’aiuto. Ma ora, un altro evento romanzesco rimette in moto il meccanismo.
Nicolò Pelacani ha scritto una lettera al conte di Sarteano, che si trova a Gaiche, per confidargli
quanto avvenuto. Ma la sfortuna vuole che il conte sia momentaneamente assente, e la lettera
viene consegnata ad un suo domestico, che la ripone male nella tasca, da cui gli cade. La
missiva viene trovata da un massaro che, lettala, capisce di avere tra le mani un argomento
scottante; convoca allora altri suoi colleghi, legge il documento e, nella discussione che ne
segue, si decide di consegnarlo ai Tre sopra la guerra. Nicolò intanto, ripartito da Perugia, è
passato per Gaiche, ha appreso che la sua lettera è andata perduta, ma, scioccamente, non se
ne preoccupa, e continua per Montefiascone, a concludere il suo accordo col vescovo di
Lucca. Qui incontra nuovamente Giacomo Montemelini cui confida il successo del suo
negoziato, e che informa che tutto è pronto perché Chiusi, Piegaio, Gaiche e la stessa Perugia si
sollevino, e vengano corse dai partigiani del papa. Il tutto - aggiunge l’incauto Nicolò -
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Carlo Ciucciovino
organizzato con tale segretezza che il successo è assicurato.112 Giacomo promette di fargli
sapere chi è il suo interlocutore per la Chiesa quando scatterà il momento della rivolta. Il
vescovo di Lucca, Guido di Montfort, convoca Giacomo Montemelini e gli narra il trattato che
sta intessendo, chiedendogli poi di scrivere ai suoi parenti ed amici in Perugia perché
prendano le armi e aiutino la rivolta. Giacomo finge sorpresa, e simula incredulità,
costringendo il vescovo a mostrargli un documento di impegno sottoscritto e sigillato da
Bettolo, Agnolino e Nicolò Pelacani. Giacomo si mette a disposizione, ma, immediatamente,
scrive nuovamente ai Tre, raccontando tutto, con tale dovizia di particolari da scuoterne
l’incredulità. I Tre decidono allora di invitare ad un abboccamento segreto Ranuccio di
Baldino. Questo si convince che la storia del ribelle ha validi fondamenti e riferisce ai Tre che
non hanno altra scelta che convocare un consiglio nel quale esporre i fatti. Il consiglio delibera
di passare immediatamente all’azione ed arrestare tutti i possibili rivoltosi. Nicolò però, nella
sua funzione di camerlengo, insieme a Giovanni d’Oddo, è sovente fuori Perugia, e si
trattiene a Gaiche. Non si può aspettare che rientri: viene compiuta una retata e sono arrestati
Bettolo ed Agnolino Pelacani, Agnolo di Lello di Gelomia dei Boccoli, fratello dell’abate di
Pietrafitta e genero di Nicolò, Giovanni del Brunetto, Bartolomeo di Matteo di Sante, intimi
amici di Nicolò. Tutti sono stati avvertiti, ma nessuno è scappato, o perché innocenti, o perché
sicuri che la propria forza nel partito assicuri la loro immunità. Bettolo di Pelacani si è difeso
con grande dignità e decisione e le sue parole sono state: «Chi viene ad assassinarmi? Che
cosa non ho fatto io per l’essaltatione di questa città, e per lo stato suo? Voi volete essaminare
Santo Herculano e Santo Gostanzo», alludendo a sé ed a suo figlio Agnolino. In breve, Bettolo
è così convincente, ed i suoi alleati così potenti, che egli e tutti gli altri entro due settimane
sono scarcerati, «senza aver havuto un minimo tormento», malgrado che le prove a loro
sfavore siano schiaccianti. Non solo: quando esce nella strada, «ai pie’ delle scale del Palazzo
del Podestà, la maggior parte dei cittadini di Perugia», o almeno dei più influenti, gli viene
incontro, facendogli un’accoglienza calda e festosa. Bettolo ringrazia, sapendo che, solo grazie
a loro ed alle loro pressioni, egli è stato scarcerato. È evidente a tutti coloro che sono provvisti
di senno ed equilibrio che «i Pelacani havessero talmente affascinati gli occhi e affatucchiate le
menti di tutti gli huomini, che quello che s’era creduto generalmente per vero, per forza
ultimamente da riputarlo per falso». Ed anche coloro che avevano visto le lettere autografe
negarono il tradimento dei Pelacani. Chi ne esce - forse giustamente - scornato è Giacomo
Montemelini, che perde anche l’appoggio della Chiesa, e che, quando verrà finalmente
pattuita la pace tra Chiesa e Perugia, e tutti i fuorusciti potranno rientrare, sarà ancora escluso
del perdono. Solo più tardi i magistrati lo riammetteranno.113
La debolezza di Perugia è tale che si ribellano e passano alla Chiesa molti dei suoi alleati:
Lucignano, Foiano e Sarteano.114 In luglio, sfugge a Perugia anche Civitella, ma stavolta i
motivi non sono politici: Ghino, marchese di Civitella, ha diseredato suo figlio Guiccione,
dopo aver preso coscienza che è un mascalzone. Ghino, rimasto vedovo, si è risposato con
una figliola di Messer Nicolò D’Atignollo, facendo perdere al figlio ogni residua speranza di
ereditare. Quasi a riconfermare il giudizio del padre, Guiccione, «con una buona compagnia
di soldatini», entra in Civitella e la corre, inneggiando alla Chiesa. Prende prigioniero il padre
e vuole esporlo in una gabbia per lasciarvelo morire, ma Ghino lo delude fuggendo nella
notte.115
112 Le parole autentiche riportate da Pellini sono: «Io farò correre per me la città di Chiugi, il Piegaio, e
Gaiche, e la città di Perugia si correrà per la Chiesa, il ché sarà fatto con tanta segretezza che riuscirà di
sicuro, e voi fuorusciti, senza alcuna fatica vostra sarete riammessi nella patria».
113 PELLINI, Perugia, I, p. 1068-1072.
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119 O’CALLAGHAN, A History of medieval Spain, p. 524-525; FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 279 per la
campagna militare. MINOIS, Du Guesclin, p. 366-367 dove il precedente conestabile, Moreau de Fiennes,
nominato nel 1356, viene sostituito perché sessantaquattrenne.
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dall’impresa, viene sorpreso da un contingente di routiers francesi e sir John viene ucciso da
Jacques de Saint-Martin.120
Re Giacomo di Maiorca, intanto, sta ad Avignone e qui recluta molti uomini d’arme che
sono in Provenza e nel Delfinato, per inviarli ad invadere il territorio di Rossiglione.121
Enrico Trastámara incassa un successo quando Muhammad V decide saggiamente di
ritirarsi dal conflitto, prima di subire una sconfitta e, nel maggio 1370, conclude con la
Castiglia una tregua di 18 anni. Ora che la situazione si è parzialmente calmata, egli può dare
il permesso a du Guesclin di tornare in Francia. La flotta castigliana abilmente comandata da
Ambrogio Boccanegra, forza il blocco portoghese di Siviglia, mettendo una seria ipoteca di
pace sul futuro del regno.122 Nel 1370 il re di Francia richiama Bertrand du Guesclin dalla
Spagna e, il 2 ottobre, lo nomina conestabile di Francia;123 Louis de Sancerre e Mouton de
Blainville sono marescialli di Francia. Il comandante della flotta francese è Jean di Berry.
L’esercito di Francia è organizzato in compagnie o routes. Il piano di Carlo V è quello di
evitare scontri diretti, come Poitiers e Crécy, condurre invece una guerra difensiva, logorando
l’esercito inglese. La conseguenza diretta di tale strategia è quella di accettare inevitabili
devastazioni nel territorio e grandi sofferenze per la popolazione. Gli Inglesi non riusciranno
a comprendere la logica di una guerra difensiva e continueranno ad effettuare grandi
“cavalcate”, senza che però i Francesi si oppongano loro e quindi senza poter ingaggiare una
battaglia campale, in qualche modo risolutiva.124 Per le operazioni militari di questa ripresa
del conflitto tra Francia ed Inghilterra, si può vedere lo studio di Kenneth Fowler. Nelle fila
francesi ritroviamo molti dei condottieri che hanno militato con Bertrand du Guesclin, come
Petit Meschin, Bouzomet de Pau, Perrin de Savoie e molti altri. All’inizio del 1369 la gran
parte dei soldati che costituivano le compagnie mercenarie in Francia sono ormai state
assoldate dagli Inglesi o dai Francesi.125
Giovanni, duca di Berri riesce a entrare a Limoges, vi resta un solo giorno e, prima di
partire vi lascia un distaccamento di cento lance agli ordini di un ufficiale inesperto. Il
Principe Nero è molto irritato dalla notizia che Limoges si è tranquillamente consegnata nelle
mani dei Francesi e decide una spedizione punitiva contro la città infedele. L’ira di Edoardo
ha solide basi: Limoges si è data ai Francesi per opera del vescovo Jehan de Cros, il quale,
essendo il padrino di battesimo del figlio del Principe Nero, veniva ritenuto un uomo leale
alla corona inglese. Edoardo giura che farà pagare la slealtà alla città. Il principe stesso,
accompagnato da Captal de Buch e da suo fratello Giovanni di Gant, comanda l’attacco. Il 19
settembre, Edoardo di Galles apre una breccia nelle mura presso Porta Panet, riprende la città
e la sottopone ad un feroce sacco, nel quale muoiono tremila persone.126 Robert Knowles (o
Knollys), in luglio, conduce una spedizione, forte di 2.500 armati, metà cavalieri e metà
arcieri, che aggirando Noyon, Reims, Troyes e Parigi, punta sulla Bretagna, ma viene fermato
dalla decisa azione di Bertrand du Guesclin, che, malgrado un tempo orribile con la pioggia
che cade a catinelle, lo affronta e costringe alla ritirata il 4 dicembre a Pontvallain. Con la
disfatta di Pontvallain le Grandi Compagnie cessano di esistere come tali, anche perché molti
120 CASTELOT E DECAUX, La France au jour le jour, II, p. 522 ; FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 295.
121 ZURITA, Annales de Aragon, Lib. X, cap. XIII e XVI.
122 O’CALLAGHAN, A History of medieval Spain, p. 525; FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 280-281.
123 Bertrand è rientrato in Francia il 20 luglio, MINOIS, Du Guesclin, p. 363 ; FROISSART, Chroniques, Lib. I,
125 FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 283-288, sulle considerazioni delle due tattiche militari, si veda
della slealtà del vescovo e racconta che solo tre capi della guarnigione sopravvivono e perché si sono
trovati a combattere contro Giovanni di Gant, suo fratello Cambridge e il conte di Pembroke, che hanno
cavallerescamente accolto la loro resa. Gant salva anche la vita del vescovo. Si veda anche FROISSART,
Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 312-313 e 316-317.
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La cronaca del Trecento italiano
dei loro capitani sono morti e gran parte degli armati sono stati assorbiti dentro gli eserciti di
Francia e Inghilterra.127 Con la vittoria di Pontvallain. tutto sommato uno scontro minore, non
all’altezza delle battaglie combattute negli anni precedenti, Bertrand du Guesclin diventa un
eroe popolare francese egli si è dimostrato, come dice William Urban, «una macchina da
guerra».128
127 CONTAMINE, La Guerra dei cent’anni, p. 55; FOWLER, Medieval Mercenaries, I, p. 289-298; per le ultime
imprese dei capitani delle ex-Grandi Compagnie, si veda ivi p. 297-301. Sulla “cavalcata” di Robert
Knowles e sulle imprese di du Guesclin, si veda anche MINOIS, Du Guesclin, p. 373-381. Pontvallain è a
sud di Le Man, tra i fiumi Loira e Sarthe. Sulla pioggia : CASTELOT E DECAUX, La France au jour le jour, II,
p. 525, che mette in evidenza come decisivi per le sorti della battaglia siano stati gli interventi del
maresciallo d’Audrehem e di Olivier Clisson.
128 URBAN, Medieval Mercenaries, p.113.
131 FRIZZI, Storia di Ferrara, vol. III, p. 346-347; è nelle Senili, 13.1.
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Carlo Ciucciovino
Scrive Ferdinand Gregorovius: «Tra le rovine di Roma viveva già da molti anni una
veggente che proveniva dal Nord; immersa nelle sue estasi religiose, ella non sentiva neppure
il fragore delle armi di quel popolo selvaggio che ogni giorno arrossava di sangue le strade; il
suo nome era Brigida. Vedova del nobile signore Ulf Gudmarson, cui aveva partorito otto
figli, ella era svedese e di nobile stirpe. In un convento della sua patria aveva creduto di
vedere Cristo e di sentirne la voce, che le diceva: “Va’ a Roma, dove le strade sono coperte di
oro e del sangue dei martiri; lì rimarrai finché avrai visto l’imperatore e il pontefice; a loro
riporterai le mie parole”. Venuta a Roma una prima volta nel 1346, l’anno precedente alla
rivoluzione di Cola di Rienzo, e una seconda durante il giubileo del 1350, vi rimase poi fino
alla morte. L’accompagnarono alcuni amici e due dei suoi figli; con particolare amore la seguì
la sua pia figliola Caterina. Imparò la lingua latina e visse in una casa situata nell’odierna
Piazza Farnese dove, nella chiesa eretta poi in suo onore, si mostra ancora la stanza che la
ospitò. Con la stessa modestia di quei re anglosassoni che erano venuti a Roma nel secolo
VIII, ella aveva abiurato lo splendore della sua giovinezza e vestito l’abito della umiltà.
Andava di chiesa in chiesa, di ospedale in ospedale. La si vedeva sedere con indosso il
mantello del pellegrino accanto al convento di San Lorenzo in Panisperna, chiedendo
l’elemosina per i poveri e baciare riconoscente i doni che i passanti deponevano nelle sue
mani. E certo, se non fosse stata una pallida donna del Nord e per giunta una santa, seduta
così tra i ruderi antichi sarebbe potuta sembrare al Petrarca il genio mesto della vedovata
Roma. Brigida era ebbra dello spirito della rivelazione. Il Salvatore e la Vergine, o meglio le
loro immagini nelle chiese, parlavano con lei, e i suoi amici, pieni di reverente stupore,
trascrivevano in un libro le sue fantasie come se si fosse trattato di responsi sibillini. Una voce
le rivelò che Urbano sarebbe morto se fosse tornato ad Avignone. Ella raccontò la visione al
cardinale Ruggero Beaufort e poiché questi si rifiutò di riferirne al pontefice, si recò ella stessa
a Montefiascone e gli proibì di lasciare l’Italia, pena la morte. Ma il papa rimase sordo alle
minacce di questa profetessa del Nord».136
136 Riportato parola per parola da GREGOROVIUS, Roma nel Medioevo, lib. XII, cap. II, p. 221-222.
137 AMIDEI, Istorie Volterrane, p. 100; CECINA, Volterra, p. 182-184 pubblica il documento.
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La cronaca del Trecento italiano
Pisano e nel Lucchese. I comandanti dell’esercito visconteo sono Giovanni Acuto e Giovanni
dell’Agnello, già doge di Pisa.138
Il primo agosto, duemila barbute inglesi di Giovanni Acuto entrano nel Bolognese, e
pongono il campo a Crespellano. Di qui, compiono scorrerie fino alle porte di Bologna,
devastando e bruciando. Il 3 agosto i collegati pernottano a Reggio, per poter assalire all’alba
la bastia viscontea di San Lazzaro, che sorge un paio di miglia ad oriente di Reggio. I collegati
che partecipano alla battaglia sono i Reggiani, con i da Fogliano ed i Canossa, i Fiorentini e le
truppe di Padova e Ferrara; non vi è nessun soldato della Chiesa, perché non sono stati
avvertiti per tempo. La bastia, che è in corso di edificazione e che è stata sorvegliata da ben
ottocento barbute viscontee, viene sorpresa e, dopo uno scontro molto combattuto, i Viscontei
ripiegano e i collegati rimangono padroni della costruzione. «Pocha gente gli morì de l’una
parte e dell’altra». L’esercito visconteo il 5 agosto si muove da Zola e va verso Parma, con
grande paura.139
138 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 256-257; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 141.
139 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 256; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 142; ANGELI,
Parma,p. 196-197.
140 In realtà anche Domenico di dice guelfo, ma appartiene alla categoria dei grandi mercanti. Vedi nota
142 Monumenta Pisana; col. 1061; RONCIONI, Cronica di Pisa,p. 248; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 203;
Ranieri aggiunge: «lo dicto missere Ghabriello Adorno ànno li Gienovesi in prigione e domandagli f. 60
mila».
143 PELLINI, Perugia, I, p. 1072-1073 e GRAZIANI, Cronaca; p. 210.
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subito le tende. Flak avidamente esegue e i difensori riforniscono d’acqua e gente la fortezza,
beffando il condottiero e Perugia. L’unico episodio nel quale i Perugini hanno un poco di
fortuna è il fallito tentativo dei partigiani della Chiesa di impadronirsi del castello di
Ascagnano [Ancaiano].144 I soldati ecclesiastici trattano con cinque membri della famiglia
Ascagnani145 e una notte, attraverso una angusta apertura, vengono ammessi nel castello per
trovarsi sotto il tiro di una quantità di soldati che li stanno aspettando. Vengono catturati
settantadue militi, tra cui due nobili di Castiglion Golino, e tra questi quel Bartolomeno di
Ludovico che si è appena ribellato. Si salva solo il conte Giliberto della Serra saltando dalle
mura.146 Gli Ancaiani vengono premiati con l’esenzione dalle imposte, case e terreni.147
Quando Cinolo di Nicolò di Cinolo de’ Monte Sperelli penetra di nascosto nella rocca dei
Cavalieri di San Giovanni, oggi detta della Magione, non lontano dal piano di Carpana, e ne
scaccia la guarnigione, introducendovi le truppe ecclesiastiche, i magistrati perugini decidono
di utilizzare le maniere forti contro i suoi familiari; prendono i genitori e due sorelle di Cinolo
e traducono la famiglia sotto la rocca, minacciando di impiccare il padre se Cinolo non si
affretta a renderne il possesso a Perugia. Questi non si mostra impressionato dalla minaccia,
né dalle implorazioni delle donne della famiglia; i magistrati, che non vogliono divenire
ancora più odiosi agli occhi dei Perugini, non hanno altra scelta che riportare in città e
sbattere in galera Nicolò, padre di Cinolo, la madre e le due figlie. I Tre della guerra hanno
inviato Contucciolo di Facciardo nel piano di Carpena per provvedere a rinforzare alcuni
edifici da utilizzare come base per le operazioni militari contro la rocca ribelle. Cinolo, che è
molto preoccupato per le eventuali vendette che i magistrati perugini potrebbero prendere
contro i suoi cari, decide di impadronirsi di un ostaggio illustre ed invita Contucciolo a
trattare. Questi, sapendo che la rocca è una guarnigione composta di pochissimi uomini,
ritiene di non aver nulla da temere e si reca all’appuntamento provvisto di una scorta di 20
fanti. La notte precedente però, Cinolo ha fatto nascostamente entrare nella fortezza 40 fanti
ed appena Contucciolo si presenta alla porta, Cinolo si precipita fuori con i suoi e, malgrado
una decisa difesa dei Perugini, riesce a catturarne la gran parte e segnatamente Contucciolo.148
Agnoluccio di Messer Giacomo degli Oddi fa ribellare il castello di Lisciano, nella valle del
Pierla, ed una rocca vicina detta la Rocca del Miccia.149
Perugia è in una situazione critica: l’esercito della Chiesa, con l’appoggio dei fuorusciti, le
sta strappando, brano a brano, tutto il territorio, i denari sono pochi e le spese per i mercenari
insostenibili, i fiorini dei Visconti non arrivano più. La delicatezza del momento consiglia di
nominare i magistrati per settembre-ottobre, non per estrazione dalle borse, ma per “eletione a
saputa”, cioè scegliendoli sulla base della loro esperienza, principalmente nell’esercizio
militare. I Priori vengono scelti il 17 agosto.150 Contemporaneamente, i Tre sopra la guerra
vengono portati a cinque, uno per porta; i loro nomi sono messer Golino di Pellolo, Agnolo di
Leggieri d’Andreotto, Niccolò di Ceccolino Michelotti, Andrucciolo di Pietro della Milla e
Luca d’Agnolino. I Cinque immediatamente si collegano con i conti di Santa Fiora,
ottenendone l’impegno di fare scorrerie sul territorio della Chiesa. Poi, inviano la maggior
parte dei giovani atti alle armi al castello di Corciano, dov’è l’esercito mercenario comandato
144 Credo sia il castello Ancaiano, nei pressi di San Pietro in Valle.
145 Cinello, Benedetto, Chiorre, Armanuccio e Oddo.
146 PELLINI, Perugia, I, p. 1073.
150 Sono Tino di Grillo e Sante di Mocho per Porta Sant’Angelo, Longaruccio di Sant’Angelo e Francesco
di Antonio di Mastro Bernardino per Porta Sole, Arlotto dei Michelotti e Simone di Ceccolo dei
Guidalotti per Porta San Pietro, Andrucciolo di Simone e Giovanni della Bartoluccia per Porta Borgne,
Berardello del Priore e Vico del Nero per Porta San Sane. Il notaio è Nello di Andrugia di Porta San
Pietro.
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La cronaca del Trecento italiano
da messer Flak, pronto ad intercettare quello ecclesiastico che in Matignana, in appoggio alle
rocche ribelli. I capitani dell’esercito del papa non accettano il combattimento offerto da Flak,
consci che il tempo gioca a loro favore. In una puntata offensiva dell’armata ecclesiastica
viene ucciso con un colpo di lancia Nello di messer Oddo Baglioni.151
155 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1370, vol. 3°, p. 31 e 32; CORIO, Milano, I, p. 831. Chronicon
Estense, col. 492; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1090; ANGELI, Parma,p. 196-197; TIRABOSCHI, Modena,
vol. 3°, p. 46. HATCH WILKINS, Petrarca, p. 269 scrive che in realtà Manno è stato colpito da una sincope,
simile a quella di Petrarca e che si riprese dal malanno. Cronichetta d’Incerto, p. 271 sul malanno di
1370
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Carlo Ciucciovino
22 agosto il marchese d’Este, Nicolò, comanda che venga ricostruito il castello di Solara, nel
Modenese.156 A fine agosto viene scoperto un trattato per dare il castello di Vignola a Bernabò
Visconti. La congiura ha lasciato trapelare qualche informazione, dando la possibilità agli
Estensi di muoversi tempestivamente, prendere, imprigionare e processare i traditori.
Vengono condannati alla decapitazione sulla piazza di Modena Bernardino ed Ubertino dei
Grassoni di Vignola, Giacomo di Vinciguerra, Giovanni de Paxetis, Zoppo di Ferrara; mentre
sono impiccati Branchino di Parma e Giacomo Correggio.157
Non sappiamo se in questa sconfitta sia incappato anche Francesco Ordelaffi. L’antico
signore di Forlì milita infatti nell’esercito visconteo, fino a quando, nel 1372, verrà designato
come capitano generale dalla Serenissima repubblica di Venezia.158
Il nuovo capitano di guerra dei Fiorentini è Francesco Orsini di Roma.159
Manno dice solo: «per pigliare rinfrescamento tornò a Modana e compì l’ufficio suo». Poi però, alla
stessa pagina: «messer Manno Donati s’andò al paradiso per l’affanno ch’avea auto nella battaglia,
sendo capitano de’ Fiorentini. Il signore di Padova il fece mettere nella sua sepoltura». KOHL, Padua
under the Carrara, p. 187 afferma che, come riporta Galeazzo Gatari e il registro delle tasse di Firenze,
risulta quasi certo che Manno morì nel 1374.
156 Chronicon Estense, col. 492-493.
157 Chronicon Estense, col. 493; TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 46; FRIZZI, Storia di Ferrara, vol. III, p. 347.
160 CIRILLO, Annali dell’Aquila, p. 44verso e 45 recto; BONAFEDE, L’Aquila, p. 113-114; ANTONIO DI BUCCIO,
Delle cose dell’Aquila, col. 737-738, la nota 34 ivi riporta il beneplacito reale in argomento, datato 24 agosto
1370.
161 RONCIONI, Cronica di Pisa,p. 249; Pinzi dice che è stato nominato cardinale ora.
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dodici da Napoli. Dopo due giorni di festeggiamenti offerti da Pisa, il pontefice riparte.163 Il 12
settembre Urbano è a Genova.164 Il 24 settembre Urbano V è già di ritorno ad Avignone, non
risiede nel palazzo papale, che non ha visto nuovi lavori dopo la sua partenza, ma solo
manutenzione, bensì nel palazzo di suo fratello Anglico. Quando avrà scorto il profilo degli
edifici della città, avrà sicuramente pensato alla profezia di Brigida di Svezia, che gli aveva
raccontato che una voce le aveva detto che Urbano sarebbe morto se fosse tornato ad
Avignone.165 Pochi giorni dopo, il pontefice cade ammalato; nel suo letto col pensiero
ricapitola la profezia della principessa svedese e fa voto di tornare in Italia, se fosse guarito,
ma è troppo tardi.166
Commenta Emile Leonard: «Di tutti gli stati italiani che avevano invocato a gran voce il
suo ritorno (a Roma), soltanto uno lo aveva lealmente ed efficacemente sostenuto durante il
soggiorno nella penisola: il regno di Napoli». Quasi a sottolineare tale appoggio, il papa il
primo agosto nomina Nicola Spinelli siniscalco di Provenza. Lo Spinelli mantiene anche le sue
mansioni di cancelliere pontificio.167
Scandalizzato per la partenza del papa, il cronista dell’Aquila scrive: «Illu se ne gio, e
pochi se ne abederu!».168
163 Monumenta Pisana; col. 1061; RONCIONI, Cronica di Pisa,p. 249; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 203-
204; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1090; GRIFFONI, Memoriale, col. 182; PINZI, Viterbo, III, p. 367-368.
164 STELLA, Annales Genuenses, p. 163.
165 Brigida aveva narrato la sua visione al cardinale Ruggero de Beaufort, ma questi aveva rifiutato di
riferirla al papa. Brigida allora si è fatta ricevere direttamente da Urbano, e gli ha riferito quanto le voci
celesti le avevano suggerito. Per il voto sul letto di morte, vedi DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 682. Le parole
di Santa Brigida erano: «Te tarde vivere, quo vadis ignoras, festinas ad mortem», cioè “sei stufo di vivere;
ignori dove vai, corri incontro alla morte”; DASTI, Tarquinia e Corneto, p. 323. VINGTAIN, Il palazzo dei papi,
p. 411 sull’interruzione dei nuovi lavori nel palazzo avignonese.
166 RENDINA; I Papi; p. 442.
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giorni la città di Pisa pareva un paradiso. Dato il fine a questa solennità fu quietato ogni
cattivo cittadino, e in particolare e’ Marruffini».170
170 MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 762-763; Monumenta Pisana; col. 1062; RONCIONI, Cronica di Pisa,p.
249-252; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 204-206; Cronichetta d’Incerto, p. 272.
171 CORIO, Milano, I, p. 831-832; ANGELI, Parma,p. 197.
177 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 258; ANGELI, Parma,p. 197; TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 46.
178 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1370, vol. 3°, p. 32 e CORIO, Milano, I, p. 832. Che il nome di
Rosso dei Ricci sia Silvestro trova conferma nel documento di pace del 23 novembre, dove Silvestro è tra
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La cronaca del Trecento italiano
Ludovico Gonzaga ritiene prudente stringere un patto con Bernabò, in base al quale
questi gli riconosce il possesso di Mantova e Ludovico gli cede in contropartita il ponte a
Borgoforte.179 Il signore di Mantova ritiene prudente murare il borgo di San Giorgio e, l’anno
prossimo, farà lo stesso con il borgo di Porto.180
i testimoni. Vedi oltre. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 258 dice che i collegati sono 4.000 barbute «de
belissima gente».
179 CORIO, Milano, I, p. 831; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1090.
183 BRUNETTIN, Una fedeltà insidiosa, p. 335-336. Per i patti tra i Duino e i duchi d’Austria, si veda TAMARO,
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loro confronti. Questo nuovo atteggiamento si espresse nel 1370 in un trattato con Mainardo
VII e in un patto quadriennale di assistenza reciproca».187
190 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 258; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 207; SOZOMENO, Specimen
Historiae, col. 1091. Con i Visconti sono Carpi, Mirandola e i castellani del Reggiano e del Modenese, i da
Fogliano sono con i collegati. Cronichetta d’Incerto, p. 272-273. Si veda anche LUCARELLI, I Visconti di
Milano e Lucca, p. 39.
191 SANGIORGIO, Monferrato, p. 203-207, Benvenuto Sangiorgio pubblica il patto con il quale Casale si
sottomette; COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 163; RICALDONE, Annali del Monferrato, I, p. 345-346
riassume i patti con Casale.
192 CORIO, Milano, I, p. 832-833. Solo un cenno in DE MUSSI, Piacenza, col. 511. GIULINI, Milano, lib. LXX,
Borsano non può essere diventato arcivescovo prima della metà del dicembre 1371; Annales
Mediolanenses, col. 742 scrive per l’anno 1370: Mediolani sedente Simone de Borsano Archiepiscopo.
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§ 67. Sardegna
In Sardegna, rimangono nelle mani degli Aragonesi Cagliari e Alghero, oltre ai castelli di
Gioisaguardia, Acquafredda e Quirra. Re Pietro incarica Brancaleone Doria di stipulare una
tregua con il giudice d’Arborea fino ad aprile, intanto, invia Berenguer de Ripol, al comando
di sei galee perché rifornisca Cagliari e Alghero. L’ammiraglio, con il permesso del doge di
Genova, dirotta su Cagliari alcune navi da carico genovesi che trasportano grano.
Il conte di Quirra, Berenguer Carroz, l’uomo scampato al disastro di Oristano, si reca ad
Avignone e qui assolda un condottiero inglese, Benedetto Gualtiero, per inviarlo in Sardegna.
Quello aragonese è un esercito consistente, forte di mille lance da tre cavalieri ognuna,
cinquecento arcieri montati e mille fanti o briganti, che dovranno recarsi a Livorno e di qui
passare in Sardegna.197
Re Pietro il Cerimonioso mostra molta pertinacia nel mantenere la sua decisione di
rimanere in Sardegna, quando tutti i suoi consiglieri e cortigiani gli oppongono che l’isola è
terra pestilenziale e desolata, con gente vana e vilissima (di bassa condizione). A che serve
mantenere il possesso dei suoi boschi e montagne popolate di bestie feroci, per cui tanti
eccellenti cavalieri aragonesi hanno sacrificato le loro vite? La desolata Sardegna non è
neanche da paragonare alla ricca Sicilia ed ai campi fertili dal raccolto abbondante di
Agrigento e Lentini. A fine novembre, Gualtiero Benedetto arriva a Caspe, dove il re tiene le
Cortes e riceve l’investitura di conte di Arborea. Altri mercenari vengono assoldati in
Provenza.198 I mercenari assoldati dagli Aragonesi si imbarcano nel porto di Rosas in
Provenza, e vengono posti al comando di Berenguer Carroz e di Olfo di Proxita. Ne perdiamo
però le tracce: non ci viene tramandato da nessuno che fine abbiano fatto, segno probabile di
una sconfitta o di una totale inconcludenza delle loro operazioni.199
197 ZURITA, Annales de Aragon, Lib. X, cap. XIII; Zurita chiarisce l’armamento dei mercenari.
198 ZURITA, Annales de Aragon, Lib. X, cap. XIII; CARTA RASPI, Storia della Sardegna, p. 581-58.
199 CARTA RASPI, Ugone III d’Arborea,p. 109; CARTA RASPI, Mariano IV d’Arborea, p. 143-145; CARTA RASPI,
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Gli Aragonesi sono preoccupatissimi circa la lealtà dei Sardi, che sembrano preferire il
governo del giudice d’Arborea alla dominazione aragonese: nel 1372 i Sardi presenti ad
Alghero verranno invitati dal governo aragonese a lasciare la città per non più farvi ritorno
ed, analogamente, i Sardi vengono cacciati dai sobborghi di Cagliari. Ma per qualcuno che
viene mandato via, vi è sempre qualche isolano che cerca riparo in città per fuggire dinanzi
agli armati del giudice.200
non avrei scritto nessuna cosa falsa, inventata o esagerata, ma solo ciò che avessi inteso udire dalla
“vergine” o da altri. Quanto ai fatti, racconto cose delle quali sono pienamente al corrente, tramite
testimoni, documenti, e me stesso». Citato da FERRI, Io Caterina, p. 62.
203 FERRI, Io Caterina, p. 63-64.
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per “quella ragazzetta ignorante che seduce gli ingenui con le sue false interpretazioni della
Scrittura, trascinando nell’errore tante anime”». Ma gli increduli teologi si debbono ricredere,
una volta incontrata Caterina, e Giovanni Terzo, spogliatosi di tutto, le dice: «Ti seguirò
dovunque tu andrai!».205 Anche il dotto Lazzarino di Pisa, che la visita il 25 novembre 1370,
dopo aver trascorso una giornata con lei, esclama: «Una piccola mantellata ignorante parla
più profondamente e più cristianamente di noi».206
Robert Fawtier207 ipotizza che Caterina abbia iniziato ad occuparsi di politica verso il
1370 e che possa quindi avere avuto rapporti anche con Urbano V, ma non esiste nessuna
notizia positiva in proposito. L’unica cosa che possiamo arguire è che Caterina già ha
cominciato a parlare di crociata, infatti Giovanni delle Celle in una sua lettera con la quale
risponde a una tal suora Domitilla, che chiede se sia il caso di recarsi alla crociata, seguendo
l’esortazione di Caterina, la sconsiglia vivamente. La lettera porta la data del 1° luglio 1372 e
perciò la Santa Senese ha già da qualche tempo iniziato a propagandare questa sua idea.208
Dal 1365, Caterina ha cominciato a scrivere le sue Lettere, o meglio a dettarle ai suoi
segretari e discepoli. Le Lettere hanno un valore fondamentale per la sua opera apostolica e
“politica”. Come sono giunte a noi, copiate più volte, le Lettere hanno perduto quasi
totalmente l’indicazione temporale della loro composizione, che possiamo arguire talvolta dal
contenuto. Manca anche qualsiasi riferimento personale alla vita della Santa nel testo. Solo
negli ultimi anni della sua vita, terminata nel 1380, Caterina scrive di suo pugno, ma
sicuramente ella sapeva ben leggere, data la sua vasta cultura dimostrata dalle citazioni nei
testi. Non tutte le sue Lettere ci sono pervenute e sicuramente non sono arrivate le lettere di
natura personale.209
209 E. DUPRÉ THESEIDER, Caterina da Siena, DBI, vol. 22°, questo autore ha curato l’edizione dell’Epistolario
della Santa.
210 Cronache senesi, p. 635.
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arrivo, gli ingiunge di non presentarsi se non munito di ampio mandato: la trattativa
comunque progredisce, per fermarsi di fronte all’unica clausola non negoziabile di Perugia; i
magistrati vogliono le rocche che si sono ribellate e i ribelli; il pontefice non ne vuole neanche
parlare, desiderando che questi leali figli di Santa Chiesa vengano invece premiati. La
trattativa è fallita ancora una volta. Gli ambasciatori prendono mogiamente la via del ritorno
e da Pisa scrivono ai magistrati di Perugia per informarli e per chiedere una scorta armata che
li accompagni a casa. I Priori rispondono dando loro istruzione di recarsi a Firenze per
chiederne l’aiuto. I Fiorentini delegano Messer Giovanni dei Ricci, dottore in legge, Filippi
Giammori e Pietro degli Albizi ad accompagnare gli ambasciatori perugini a Bologna dal
cardinale Anglico Grimoard, fratello del Papa e legato generale in Italia. Egli ha l’autorità per
concludere la pace e forse è più ragionevole del suo santo fratello. Con la mediazione dei
Fiorentini, si arriva rapidamente ad un accordo accettabile per le parti. Gli ambasciatori
perugini, prima di firmare il documento, ad ogni buon conto, desiderano farlo approvare dai
loro Priori e si avviano verso la loro città. Nel frattempo, sotto Reggio, l’esercito visconteo ha
subito una rotta: la notizia arriva a Perugia, dove i Raspanti riescono a distorcere la verità
quasi arrivando a dire che la Chiesa era sconfitta e Bernabò Visconti il vincitore. «Intesosi a
Perugia che gli ambasciatori tornavano, fu deliberato che non venissero più innanzi,
perciocché era tanto il desiderio di ciascuno di quietarsi, che se gli ambasciatori fossero venuti
in Perugia, si sarebbono più tosto peggiorate che migliorate le condizioni della pace». Viene
inviato ad incontrarli Pietro di maestro Paolo che li intercetta vicino a Cortona e li fa tornare a
Firenze, comunicando loro le condizioni irrinunciabili del governo perugino: le rocche
debbono essere restituite a Perugia, la città mantenga le sue istituzioni e il suo governo e i
Priori ne siano vicari per la Chiesa. Mentre ancora si discutono questi termini, giunge la
notizia che la pace tra Chiesa e Visconti è stata conclusa. I Perugini sono combattuti tra il
sollievo e il timore, poiché la loro pace ancora è sospesa nell’aria. L’impazienza per gli indugi
è grande e il timore che i Raspanti al potere rimandino indebitamente la pace per questioni di
poteri di parte, spinge i cittadini di Porta Sant’Angelo a radunarsi nella loro chiesa principale,
Sant’Agostino, per dibattere cosa fare per costringere i Priori ad accettare la pace. I magistrati
convocano una delegazione dei turbolenti cittadini e Messer Golino la capeggia, informando i
Priori che ormai gli abitanti di Porta Sant’Angelo sono disposti a tollerare solo altri pochi
giorni di ritardo per la penuria di tutto, altrimenti nulla avrebbe potuto trattenerli
dall’impugnare le armi. La discussione si accende e solo l’intervento «delle dolci e grate
parole di Lippo di Nino de’ Guidalotti, uno dei signori per Porta San Pietro», riesce ad
ottenere che il popolo di Porta Sant’Angelo pazienti ancora pochissimi giorni perché la pace è
ormai conclusa e se ne attende solo l’annunzio. Due giorni dopo, nel dì di Santa Caterina, il 25
novembre, un mercante fiorentino, Angolo degli Uberti, che ha fondaco in Perugia,
anticipando di un giorno l’arrivo del messo degli ambasciatori annuncia che la pace è
conclusa. In verità la pace è stata firmata il 23 novembre, il giorno stesso del duro confronto
tra i magistrati e i cittadini di Porta Sant’Angelo. Perugia riconosce in perpetuo il Papa come
suo signore e questi riconosce i Priori come suoi vicari. Vi è qualche dubbio formale:
l’impegno di riconoscere automaticamente i Priori come vicari sembra essere valido solo
durando in vita questo Papa, mentre Perugia si dà in perpetuo. La città pagherà annualmente
3.000 fiorini al Papa con una penale di 1.000 marchi d’argento per ogni mese di ritardo.
Perugia deve rendere Cannaia, Monteverde e Foiano alla Chiesa. Perugia e i massari di
Montone, Fosseto, Casa Castaldo, Poggio Sant’Ercolano, debbono giurare fedeltà alla Chiesa
ed approvare esplicitamente i capitoli della pace. I ribelli e i fuoriusciti debbono essere
riammessi in Perugia ed i loro beni restituiti a loro o ai loro eredi. Le porte si apriranno per
questi dal 22 febbraio del ’71, data poi rimandata al 6 marzo, e in quattro tranches, ogni tre
mesi, di concluderà il rientro degli esiliati. Gli alleati della Chiesa sono inclusi nella pace, essi
sono la regina Giovanna di Napoli, il marchese di Ferrara, tutte le terre e le città della Chiesa,
Siena, Arezzo, Guiccione di Ghino, marchese di Civitella, Ranuccio di Simone dell’abate,
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870
La cronaca del Trecento italiano
Giliberto Serra, signore di Castiglion Golino, il figlio di Messer Giacomo degli Oddi, Cinolo
de’ Montesperelli e, nominati uno a uno, tutti i protagonisti della ribellione del 1361. L’unico
escluso è il povero Giacomo di Montemelini. Si tengono le rocche occupate Ranuccio di
Simone dell’Abate, Giliberto Serra, il figlio di Giacomo degli Oddi per Lisciano e la rocca del
Miscia e Cinolo de’ Montesperelli per la Magione.212 A novembre i Perugini consegnano
Chiusi a messer Flac. Per difendersi in qualche modo dall’aggressività di Arezzo, Lucignano
in Valdichiana il primo novembre si dà a Siena, che vi manda per podestà un orafo: Viva di
Guccio; gli succede poi Cristofano di Ferrabue, detto Pecoraio, albergatore. Il 29 novembre i
Difensori vi mandano il centurione del terzo di San Martino, maestro Jacomo, «che fa le
finestre del vetro», con un corpo di balestrieri per proteggere Lucignano contro Arezzo.
Stabilita una tregua con questa, i Lucignanesi eleggono per loro podestà un barbiere senese,
Bartolomeo di messer Jacomo. Siena terrà Lucignano fino al 1386.213 Verso la metà di
dicembre, Perugia ed Orvieto sospendono tutte le rappresaglie per due mesi.214
Il notaio aretino ser Gorello così commenta la sottomissione di Perugia alla Chiesa:
«Poscia che fo de sua virtute stanco,/ per li suoi vizj arroganti e superbi,/ in servitù devenne el
Grifon bianco./ Perdendo assai de le sue carni e nerbi, fo coronato con suo grave danno,/ per
suoi peccati crudeli & acerbi./ E stette ben cinque anni a tale affanno,/ che sua grandezza al
tutto disceso/ sedendo sotto altrui nel basso scanno».215 La cronaca bolognese nota che «forte
era consumata questa Perusa per questa guerra».216
Il 22 dicembre il cardinale Pietro d’Estaing invia il vescovo di Città di Castello, Buccio di
Giovanni da Pietralunga, legato vescovo di Albano, a recuperare Citerna da Magio da
Pietramala.217
A dicembre, il conte Lucio Lando torna a Firenze e, ottenuti i suoi stipendi ed alcun
denaro in dono dalla Signoria, per sua richiesta viene licenziato.218
212 PELLINI, Perugia, I, p. 1076-1077. La notizia della pace è anche in Cronichetta d’Incerto, p. 273. Un
sommario malfatto del trattato di pace è in Diario del Graziani, p. 210-215.
212 PELLINI, Perugia, I, p. 1077-1083. I testimoni all’atto sono messer Pileo, arcivescovo di Ravenna,
Giovanni Padovano de Fernando, vescovo Ulisbonense, Giovanni, abate del monastero di Santa Maria
di Firenze, Alfonso di Fernando, arcidiacono Toletano, Gerardo Testa, preposto Ebrudunense,
Uguccione di Thienis, canonico veronese, Paolo di messer Rinaldo di Staffolo, Riccardo dei Cancellieri
di Pistoia, Branca Brancaleone di Castel Durante, Silvestro, detto Rosso, dei Ricci, Giovanni Minio da
Siena e Donato dei Barbadori di Firenze. Graziani; Cronaca pag. 210-215.
213 Cronache senesi, pag. 635.
214 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 237, nota in continuazione da p.
235.
215 SER GORELLO, I Fatti d’Arezzo,col. 844.
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nel 1870. RENDINA; I Papi; p. 442. Monumenta Pisana, col. 1062 pone la morte al giorno 18. SOZOMENO,
Specimen Historiae, col. 1091; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 149. Cronichetta d’Incerto, p.
273.
223 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 259-261; Rerum Bononiensis, Cr.Bolog., p. 259-261; RONCIONI, Cronica di
Pisa,p. 252; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 206-207; DE MUSSI, Piacenza, col. 510; GRIFFONI, Memoriale,
col. 182; PALADILHE, Les papes d’Avignon, p. 236 e per le esequie e il trasporto della salma da Avignone a
Marsiglia, p. 237-238 ; OKEY, The Story of Avignon, p. 170-171 traccia un bilancio dell’opera del papa e
descrive le sue esequie. STELLA, Annales Genuenses, p. 163 riferisce che subito si attribuiscono al defunto
papa miracoli, quindi fa una commossa commemorazione di Urbano, riferendo i ricordi di Facino Stella,
suo padre, che lo conobbe prima che divenisse pontefice. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°,
p. 150 riferisce ciò che dice la cronaca di Bologna. Anche D’ANDREA, Cronica, p. 100 e DELLA TUCCIA,
Cronaca di Viterbo, p. 36 riferiscono di miracoli. Sui miracoli e, più generalmente sulla biografia di
Urbano, si veda HAYEZ, Urbano V, p. 542-550 in Enciclopedia dei papi. FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II,
cap. 320. ANTONIO DI BUCCIO, Delle cose dell’Aquila, col. 734 ricorda la morte ed i miracoli.
224 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 557.
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declivio che guarda a sud, in ottima esposizione e gode di un bel panorama. Qui lo viene a
trovare Francesco da Carrara quando i suoi affari di stato glielo consentono.226
Dopo essersi sistemato nella nuova casa, e sentendosi ora in forze, il poeta decide che è il
momento di accettare l’invito del papa e di andare a Roma, prima di partire però,
prudentemente, fa testamento. Il documento porta la data del 4 aprile. Francesco dà
disposizioni per la sua sepoltura, lascia la Madonna di Giotto a Francesco da Carrara e a
Boccaccio cinquanta fiorini d’oro «per l’acquisto di una veste invernale da indossare nelle ore
di studio e di meditazione notturna»; una ben ricca veste per quella somma! A suo fratello
Gherardo destina 100 fiorini, da essergli dati in unica soluzione o a rate annuali, come egli
preferisca. Il suo liuto lo destina a Tommaso Bombasi. Partito ed arrivato a Ferrara, Francesco
viene colpito da una sincope. Quando è nuovamente in grado di scrivere, narra l’evento al
papa in una lettera,227 e dice che per lo spazio di trenta ore è come se egli fosse morto.
Francesco viene ospitato nella reggia estense ed il giovane Ugo d’Este lo visita anche più volte
al giorno e lo colma di cortesie. Parzialmente ristabilito, Petrarca deve abbandonare il suo
progetto di viaggio a Roma e torna a Padova in barca. A metà giugno si trasferisce ad Arquà.
Ad agosto riceve la notizia della morte del giovane Ugo d’Este e il poeta scrive una lettera
commossa al marchese Nicolò. Nello stesso mese, Manno Donati combatte sotto Reggio
contro i Viscontei e li batte. Il condottiero è fortemente prostrato fisicamente dagli sforzi fatti
e torna a Padova, dove si diffonde la notizia della sua morte; in verità sembra che egli si sia
poi ripreso. Partito il papa per Avignone, il poeta si dedica all’abbellimento del suo giardino
ed invita sua figlia Francesca a stabilirsi ad Arquà, nella sua casa, con tutta la sua famiglia.
L’impresa letteraria del novembre di questo anno è la redazione di quasi duecento epiteti
sulla natura della vita mortale scritti in una lettera a Lombardo della Seta; uno per tutti:
«circulatorium ludus (spettacolo di Saltimbanchi)». In questo periodo della sua esistenza, il
poeta, anche su preghiera di Francesco da Carrara ha ripreso la composizione del De viris
illustribus e, in particolare, di un Compendio dell’opera, con 14 “vite” da Romolo a Fabrizio.228
Non abbiamo notizia diretta delle ansie create in Boccaccio dalla quasi mortale malattia
del Petrarca. Alla quale si è aggiunto anche il ritorno del papa ad Avignone. In tali confuse
circostanze, Giovanni decide un viaggio nel regno di Napoli, non ne sappiamo le ragioni, ma
è certo che Napoli non cessa di esercitare su di lui un fascino irresistibile, memoria della sua
giovinezza. Tra l’autunno del ’70 e la primavera del ’71 Giovanni è sicuramente nel
Napoletano. Nel regno, oltre agli amici di vecchia data, come Niccolò da Montefalcone, se ne
fa altri, come Matteo d’Ambrasio, notaio e poi cancelliere di Carlo di Durazzo, Giovanni
Moccia, segretario dei sovrani e poi della curia pontificia. Tra loro, anche Niccolò Orsini,
conte di Nola, «uomo di cultura e scrittore ciceroniano, legato a Barbato». Dopo la «stanca
solitudine» degli ultimi anni a Certaldo, questa cerchia di amici colti avrà sicuramente
consolato il cinquantaseenne scrittore. Avendo recato con sé la genealogia nel viaggio,
Giovanni concede agli amici di copiarsela, con l’impegno di non diffonderla perché Boccaccio
sta ancora lavorandoci. Quando finalmente lo scrittore decide di tornare in Toscana, ha la
soddisfazione di vedere la stessa regina Giovanna insistere perché rimanga. Tuttavia, il
richiamo della sua vita solitaria, della sua tranquillità e dei suoi libri nella sua biblioteca è
troppo forte e Giovanni parte.229
226 Chi voglia saperne di più sulla casa del Petrarca ad Arquà può consultare Mariella MAGLIANI ( a cura
228 HATCH WILKINS, Petrarca, p. 264-271; ARIANI, Petrarca, p. 59; DOTTI, Petrarca, p. 406-412. Questo
periodo di malferma salute dà al suo amico Giovanni Dondi l’occasione per raccomandargli una diverso
tipo di alimentazione, ne nasce un gustoso scambio lettere tra il poeta e il medico, nel quale appare che
Petrarca sia più saggio del dottore.
229 BRANCA, Boccaccio, profilo biografico, p. 167-170. Niccolò Orsini, ora governatore del Patrimonio, si offre
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Carlo Ciucciovino
§ 74. Letteratura
Il 24 ottobre muore Simone della Tosa, egli ha ricoperto diverse cariche pubbliche in
Firenze, nel 1370 si è fatto popolare. Simone ha scritto degli annali che partono dal 1115 ed
arrivano al 1346. Nelle notizie degli anni più recenti, alle notizie storiche intreccia quelle della
sua famiglia e della sua città.230
Il primo di luglio muore Donato Velluti. Donato, nato a Firenze il 6 luglio 1313, si è
accinto a narrare la storia della sua famiglia dalla metà del secolo precedente, inserendola nel
quadro della storia fiorentina quando questa fa parte della sua esperienza. Egli ha ricoperto
diversi incarichi di governo: «fu dei dodici Buonuomini, gonfaloniere di compagnia, Priore,
Gonfaloniere di giustizia e ambasciatore del comune molte volte; tanto che ebbe a lamentarsi
[…] che i molti uffici “gli feciono assai danno alla borsa e sviamento di sua arte”».231 Egli
interessa perché narra la vita quotidiana, «noi penetriamo, leggendo [la sua opera] dentro le
mura della casa; e quegli antichi Fiorentini che abbimo conosciuto cittadini, soldati, artisti, li
impariamo a conoscere figli, mariti, padri e fratelli e troviamo che sentivano fortemente gli
affetti di famiglia».232
§ 75. Musica
Il 1370, anno della sua dimora ad Avignone, dove compone un omaggio all’antipapa
Clemente VII (ballata Par le bons Gedéons), è l’unica data certa della biografia di Filippo da
Caserta, un musicista che ha composto due trattati molto importanti per intendere la storia
della notazione musicale: Tractatus de diversis figuris e Regule contrapuncti. Di lui ci rimangono
cinque ballate (una di queste, En attendant de soufrir è dedicata a Bernabò Visconti), un Credo
a tre voci.233
§ 76. Le arti
Nel 1370 Nicoletto Semitecolo è a Venezia, impegnato a realizzare una Historia del Volto
Santo per la Cappella dei Lucchesi a Cannaregio.234 Dopo il 1370 non abbiamo più sue notizie.
Bonino da Campione realizza il monumento funebre di Cansignorio della Scala a Verona.
Nel 1370 il Gattaponi completa la costruzione della Rocca di Spoleto, la cui costruzione ha
intrapreso otto anni prima. Bartolo di Fredi (?) a Lucignano affresca un Trionfo della Morte nel
quale l’immagine di Gesù pronuncia una frase alludendo alla figura della Morte: O tu che
leggi pon chura ai colpi di/ costei, ch’ocise me/ che so signor di lei.235
Nel 1370, Ugolino di Prete Ilario, che ha già dipinto la cappella del Corporale, inizia ad
affrescare nell’abside del Duomo di Orvieto scene con la vita della Vergine, un vastissimo ciclo tra
i maggiori della pittura del secolo, che il team di artisti impiega dieci anni a completare. L’artista
ha avuto suggerimenti sul soggetto dal vescovo del tempo, il colto Pietro Bohier, ma si è anche
ispirato, oltre ai Vangeli, anche agli Apocrifi del Nuovo Testamento, come quello dello pseudo-
Melitone, dello pseudo-Matteo ed il proto-Vangelo di Giacomo.236
Ugolino, «caposcuola della pittura orvietana del tempo e precursore della maniera
tardogotica […], realizza un racconto vivace e ricco di dettagli dai colori chiari e luminosi
ottenuto rivisitando con un naturalismo espressivo e a volte patetico la tradizione figurativa
senese (Ambrogio e Pietro Lorenzetti, da cui riprende il senso dello spazio e scenografia degli
233 FABRIZIO DELLA SETA; Filippo da Caserta; in Dizionario Universale della Musica e dei Musicisti; vol. 2°.
234 VITTORIO SGARBI, Un veneziano nella Padova “postgiottesca”: Nicoletto Semitecolo; in Giotto e il suo tempo,
p. 188.
235 FRUGONI, Pietro e Ambrogio Lorenzetti, p. 180 si veda la didascalia della figura.
236 http://www.opsm.it/duomo/016.html.
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La cronaca del Trecento italiano
edifici urbani, Lippo Vanni, da cui deriva il gusto del particolare ambientale, Luca di Tommè,
il cui stile è richiamato nel modellato morbido e nelle "cadenze grafiche)». Corrado Fratini
commenta: «Sebbene gli elementi espressivi e il linguaggio utilizzati nella titanica impresa
traggano origine da un sostrato sostanzialmente affine rispetto a quello osservato nel
precedente impegno al Corporale, le soluzioni finali risultano sorprendenti e assolutamente
imprevedibili. Nei lunghi anni dedicati alle storie mariane della tribuna, […] si viene
maturando, in Orvieto, un linguaggio di modernità inaudita in cui convergono le più
avanzate esperienze del tempo».237 Gli artisti che collaborano con Ugolino, oltre a Giovanni di
Buccio che è presente solo all’inizio e per lavori molto circoscritti, sono Angelo Lippi, Meco
Costi, Nicola di Zenobio, ai quali sia ggiungono poi, dal 1372, Cola Petruccioli e Francesco
d’Antonio; quindi, dal ’76, Giovanni d’Andreuccio e Nallo Ciucci e, nel 1378, Andrea di
Giovanni.238 Corrado Frattini vede negli affreschi di Ugolino di Prete Ilario influenze della
pittura provenzale che sta conoscendo una grande fioritura ad Avignone, con Matteo
Giovannetti. Egli ipotizza che la conoscenza di questa innovazione possa essere giunta in
Orvieto per il tramite di Gil Albornoz, che qui erige una delle sue potenti fortezze.239
Nel 1370, un pittore che è stato aiuto di Altichiero nella cappella di San Giorgio: Jacopo
da Verona, affresca la cappella di San Michele nella chiesa di San Michele Arcangelo. Nelle
pareti il pittore raffigura scene della vita della Madonna. «Le scene sono vivaci, non prive di
una certa verve narrativa, dove si coglie una sorta di traduzione in un’atmosfera più dimessa e
quasi domestica della fantasiosa e aristocratica pittura altichieresca».240 Tra i personaggi
dell’Adorazione dei Magi, Jacopo raffigura gli ultimi signori da Carrara: Francesco il Vecchio e
Francesco Novello.
Nel 1370-71 Francesco di Neri da Volterra lavora nel Camposanto di Pisa, a capo di un
gruppo di pittori241 che restaurano le Storie di Giobbe di Taddeo Gaddi. Tale team affresca la
scena con Giobbe ricco elemosiniere su sinopia autografa di Francesco. Questo pittore affresca
anche «una Santa su una faccia di un pilastro all’angolo a sud-ovest del Camposanto».242
Francesco Neri è l’autore del polittico con San Paolo e Santi (1363-64) per la chiesa di Santa
Caterina a Pisa (oggi nella collezione Cini a Venezia). Francesco Neri è un pittore «che dopo
oscillazioni verso la cultura pittorica fiorentina, come appunto Taddeo Gaddi (e anche
Andrea Orcagna), consolida poi un suo rotondo linguaggio trasformando in cifra cordiale le
preziosità di Simone Martini e Lippo Memmi».243
Un pittore significativo della scuola pisana è Turino Vanni da Rigoli, nato verso l’anno
della Morte Nera e documentato a Pisa dal 1390 al 1438. Egli lascia molte opere ed una di
queste, dipinta all’inizio della sua attività verso l’anno 1370, è una paletta firmata.244
Un pittore, che opera a Pistoia dal 1370 almeno fino al 1396, è Giovanni di Bartolomeo
Cristiani. Egli si dimostra influenzato dalla pittura della vicina Firenze e specialmente da
237 CORRADO FRATINI, Pittura e miniatura ad Orvieto dal XII al XIV secolo, in Storia di Orvieto; II, Il medioevo, p.
482-483.
238 CORRADO FRATINI, Pittura e miniatura ad Orvieto dal XII al XIV secolo, in Storia di Orvieto; II, Il medioevo, p.
483.
239 CORRADO FRATINI, Pittura e miniatura ad Orvieto dal XII al XIV secolo, in Storia di Orvieto; II, Il medioevo, p.
484-487. Egli aggiunge che di questa «forte scossa all’ambiente umbro» data dal «programma
figurativo» dell’Albornoz, «ne potrebbero dare misura a Spoleto le opere più mature del gruppo
Maestro di Fossa, in particolare il polittico già a San Francesco a Montefalco, e a Orvieto i murali della
Cappella del Corporale».
240 D’ARCAIS, Pittura a Padova, p. 170.
241 Sono Neruccio di Federigo, Cecco di Pietro, Jacopo di Francesco e Berto d’Argomento.
242 CALECA, Pittura a Pisa e Lucca, p. 254-255; CALECA, Costruzione e decorazione del Camposanto, p. 27,
ibidem alle p. 27-28 vi è la descrizione degli affreschi di Taddeo Gaddi rimasti e delle sinopie e la
datazione al 1341-42.
243 CALECA, Costruzione e decorazione del Camposanto, p. 28-29.
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Nardo da Cione e Niccolò di Tommaso. Nel 1370 Giovanni esegue un polittico per la chiesa di
San Giovanni Fuoricivitas. Nel 1396 affresca l’oratorio dei Rossi.245
Un affresco, mutilo, che è sulla parete sinistra della collegiata di Santa Cristina a Bolsena
rappresenta probabilmente una scena cortese e, forse un San Giorgio e il drago. Mostra stretti
rapporti tra Bolsena e la pittura senese ed è databile intorno al 1370.246
Dopo la morte di papa Urbano V, gli viene eretta una tomba a Marsiglia che è andata
quasi interamente distrutta, mentre parte della sua tomba costruita ad Avignone, è conservata
nel Museo del Petit-Palais. Il volto del papa, comunque, è molto danneggiato e la statua è
troncata al di sotto delle ginocchia. Il naso del papa è stato rotto ed è stata intaccata una parte
del labbro inferiore. Il viso sembra tratto da una maschera funebre. La sua tiara è simile a
quella della statua di Innocenzo VI a Villeneuve.247
Nel gennaio 1370, Lorenzo Veneziano firma e data un polittico con la Consegna delle chiavi
a San Pietro, oggi al Civico Museo Correr di Venezia. Pare che Lorenzo qui esprima in un
linguaggio coerente con un’assimilata cultura emiliana. Il dipinto mostra una grande
scioltezza narrativa e una forte influenza della concezione “cortese”, con grande attenzione
agli abiti alla moda ed ai dettagli, ma anche con l’osservazione delle novità che derivano da
Giusto de’ Menabuoi.248 Il polittico di Lorenzo con l'Annunciazione al centro e i Santi Nicolò,
Giovanni Battista, Giacomo e Stefano ai lati, segna «un ulteriore distacco dall'austerità bizantina,
accentuando la resa plastica delle volumetrie e la ricchezza dei colori, accesi e modulati al
variare della luce. Di grande interesse sono il notevole valore spaziale assunto dal trono posto
di tre quarti e l'introduzione del prato fiorito su cui poggiano le figure, elemento
comunemente associato alla cultura d'Oltralpe e che trova qui una delle prime apparizioni in
territorio italiano». Nel novembre 1371, Lorenzo firma e data un trittico proveniente
dall'antico ufficio della Seta. In questa opera il pittore si esprime con monumentalità. La sua
ultima opera firmata è del 1372, una Madonna con Bambino, oggi al Louvre. Molte sono le
opere attribuite a Lorenzo per ragioni stilistiche.249
Come abbiamo anticipato nel paragrafo 66 del 1354, nel 1369 Giovanni da Milano è a
Roma, insieme a Giottino, a Giovanni e Agnolo Gaddi, figli di Taddeo, ed altri pittori, uno
dei quali è probabilmente Bartolomeo Bulgarini e forse Matteo Giovannetti. Egli deve
dipingere per papa Urbano V, momentaneamente rientrato a Roma da Avignone, due
cappelle in Vaticano; nulla ci è rimasto della sua attività a Roma.
249 Chi sia interessato le può leggere in G. TAGLIAFERRO, Lorenzo Veneziano, in DBI vol. 66° al quale tutto il
paragrafo si ispira.
250 Sono entrambi nella Biblioteca Nazionale di Parigi, ms. N.A.F. 5243 e ms. fr. 343, depredati da re
Carlo VIII quando conquistò Milano. Su questi romanzi cavallereschi, non solo in Lombardia, si veda
TOESCA, Pittura e miniatura in Lombardia, p. 159-166.
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La cronaca del Trecento italiano
l’Offiziolo che, a partire dal 1370,251 Giovannino de’ Grassi minia per il conte di Virtù e il
Tacuinum Sanitatis. Giovannino lavora in prima persona e l’opera si può considerare quasi
totalmente autografa.252 Di questo pittore rimane anche un taccuino con disegni
«prevalentemente di animali, motivi decorativi e araldici, figure e immagini del repertorio
cortese e con un alfabeto in minuscole gotiche corsive composte con figure d'uomini, animali
ed esseri fantastici nel gusto della drôlerie». «Nei disegni del taccuino di Bergamo e nelle
miniature dell'Offiziolo oggi a Firenze si manifesta un artista già maturo, che ha attinto alla
pittura lombarda della seconda metà del Trecento le qualità più caratteristiche di realistica
osservazione della realtà naturale, di fluidità narrativa, sfrondandole di ogni impostazione
monumentale in favore della scala ridotta, cromaticamente e linearisticamente preziosa,
propria della miniatura, e potenziandole con il ricorso in un'estensione sino allora inedita allo
studio di natura, soprattutto nella raffigurazione degli animali».253
Abbiamo notizie cronologiche di questo pittore e miniatore solo per la data appuntata su
un foglio dell’Offiziolo, il 1370, e dai documenti che lo vedono operare nella fabbrica del
Duomo di Milano dal 5 maggio 1389 fino alla sua morte avvenuta il 5 luglio 1398.
Recentemente, nel 1990 circa, è stato rinvenuto un suo affresco «con figure di animali entro
brani di paesaggio e con la scena della Vergine intenta a cucire assistita dal Bambino», nella
sala di una piccola rocca della famiglia Mantegazza, a Campomorto presso Siziano. Le pitture
di questa opera ricordano strettamente alcune figure del taccuino di Bergamo. Giovannino
appare far parte dei pittori lombardi, ma senza aderire alla lezione spaziale dei Giotteschi,
egli, nella miniatura, appare più influenzato sia dalla miniatura boema che dai miniatori
francesi. Negli ultimi anni del secolo, Giovannino ha partecipato all'illustrazione della Historia
plantarum, detta anche Tacuinum sanitatis, che è nella biblioteca Casanatense. I disegni
acquerellati dell’opera ricordano quelli del taccuino di Bergamo. La Historia è stata donata da
Gian Galeazzo Visconti all’imperatore Venceslao. Ignoriamo del tutto dove Giovannino abbia
appreso le competenze architettoniche che, invece, appaiono importanti nella sua
collaborazione al Duomo di Milano, dove è architetto capo dal 6 dicembre 1391, unitamente
alle sue capacità come scultore, orafo e maestro vetraio. Il pittore, nel biennio 1389-91, esegue
alcune perdute pitture su tavola o su tela su intelaiatura di legno. Su uno stendardo
processionale dipinge l’effige di Bonifacio IX. Gli viene commissionato un Mappamondo nella
sagrestia, di cui nulla rimane. Nel 1391 scolpisce Gesù al pozzo con la Samaritana, sempre per la
sagrestia del Duomo. Nel 1396 egli, insieme a suo fratello Paolino, lo rifinisce con blu
oltremare e foglie d’oro. L’artista disegna finestre o parti di queste per il Duomo, i capitelli
delle colonne. Giovannino disegna in scala la sezione trasversale del Duomo insieme al
Giacomo da Campione. Anche se la concezione della grande opera architettonica milanese
non può essere attribuita a Giovannino, egli ne diventa però il depositario e il custode. Dopo
la morte di Giovannino, le sue competenze vengono liquidate a suo figlio Salomone il 13
agosto 1398. Con tutta probabilità è Salomone il “dirigente” della bottega del padre.
Salomone esegue anche la seconda parte dell’Offiziolo visconteo, che gli viene commissionata
da Filippo Maria Visconti, e nel quale viene affiancato da notevoli miniatori, tra i quali
Belbello da Pavia.254
attribuzioni che la critica, specialmente Longhi, ha assegnato all’artista. Si legga anche il sempre
interessante TOESCA, Pittura e miniatura in Lombardia, p. 135-147, Toesca dà molto spazio a Salomone de’
Grassi. TOESCA, Il Trecento, p. 395-397 per i capitelli a baldacchino del Duomo di Milano.
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255 D’ARCAIS, Pittura a Padova, p. 164; DAVIDE BANZATO, L’impronta di Giotto e lo sviluppo della pittura del
127-134.
257 D’ARCAIS, Pittura a Padova, p. 169; DAVIDE BANZATO, L’impronta di Giotto e lo sviluppo della pittura del
anche DAVIDE BANZATO, L’impronta di Giotto e lo sviluppo della pittura del Trecento a Padova, in Giotto e il
Trecento, p.149-151.
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La cronaca del Trecento italiano
notizie biografiche su questo pittore sono poche. Pierluigi Leone de Castris ben esprime
l’incertezza che coglie lo storico dell’arte di fronte a questo (e non solo questo) pittore: «Su
questo fragile telaio di una cedola e di un dipinto spaiati, fra mille sbandamenti di opinione,
gli storici dell’arte del nostro secolo hanno laboriosamente ricucito la trama di una persona
artistica che oggi risulta, se non di prima grandezza, di certo il primo punto di riferimento per
la vicenda della pittura napoletana nell’età di Roberto e di Giovanna».259 La “cedola” è un
documento nel quale Carlo di Durazzo ammette (o conferma) Roberto d’Oderisio tra i suoi
familiari. Il dipinto è la Crocifissione della chiesa di San Francesco ad Eboli, che Roberto ha
firmato, ma non datato: hoc opus pinsit robertus de odorisio de neapoli.
Paola Vitolo ha recentemente ricostruito il percorso critico del pittore, attribuendo i
meriti a Ferdinando Bologna ed a Pierluigi Leone de Castris per il loro lungo lavoro sul
catalogo di questo artista, ma traendo le conseguenze dall’approfondimento della “cedola”
ritrovata e da lei pubblicata. Ne risulta che Roberto ha dipinto gli affreschi della chiesa
dell’Incoronata agli «inizi dell’ottavo decennio del Trecento» e, scrive che questo «rappresentò
il momento del massimo prestigio del pittore, ma certamente non una committenza ricevuta
in età tarda: il documento del 1382, del quale abbiamo ritrovato e pubblicato la versione
integrale, si è rivelato essere, al confronto con documenti coevi dello stesso ambito, non la
riconferma di un privilegio, e quindi il coronamento di una carriera ormai al tramonto, ma
una prima nomina fatta ad un pittore la cui fama era già riconosciuta ma che, con il
considerevole compenso di trenta once d’oro l’anno, veniva messo nelle condizioni per
continuare a prestare la sua opera a corte. Ciò è in sintonia con quanto suggerito da Serena
Romano sulla probabile attività del pittore nella chiesa di Sant’Angelo ad Itri (Latina) nel
1368».260 In poche parole, i critici hanno ricondotto a Roberto un gruppo di opere in un arco
cronologico molto ampio, e quindi si è «finito con il ricondurre a lui quanto sarebbe più
plausibile inscrivere in un generale contesto di “scuola”». Roberto d’Oderisio è dunque
diventato un “nome contenitore”.261 La conclusione di tutto ciò è che l’attività artistica di
Roberto va collocata nella seconda metà del secolo XIV. Le sue opere «potrebbero essere
riunite in due nuclei, il primo (anni Cinquanta-Settanta) attorno alla Crocifissione di Eboli, in
cui, accanto alla cultura giottesca del maestro, si rilevano tangenze con gli ambienti fiorentini
e senesi di metà secolo (la Crocifissione di Capodimonte, il polittico Coppola, la Presentazione al
tempio di Bordeaux, la Pietà Fogg, gli affreschi dell’Incoronata e quelli sul fondo del
monumento a Roberto d’Angiò); il secondo (anni Settanta-Ottanta) attorno alla Mater Omnium
(le due Pietà)».262 Il ciclo dei Sacramenti dell’Incoronata rappresenta il punto più alto dell’opera
di Roberto, il quale comunque è «una personalità artistica non eccelsa ma che, pur
convivendo con pittori di più elevata statura, riuscì a ritagliarsi un ruolo non marginale nel
panorama delle imprese artistiche napoletane e non solo».263 È comunque significativo che
quello di Roberto sia il solo nome di pittore napoletano operante nella seconda metà del
Trecento che ci sia pervenuto.
Vale la pena di notare che le vesti dei dignitari di corte che sono raffigurati nel ciclo dei
Sacramenti, appaiono essere non totalmente alla moda nel tempo nel quale si presume siano
stati dipinti: gli anni Settanta. Questo argomento potrebbe portare acqua al mulino di chi
sostiene che gli affreschi siano antecedenti, come Bologna e Leone de Castris, Paola Vitolo si
rende conto del problema e scrive: «non si può escludere una precisa scelta di sobrietà legata
263 VITOLO, La chiesa della regina, 94-95. Per la questione di Roberto d’Oderisio si legga: VITOLO, La chiesa
della regina, p. 81-95; LEONE DE CASTRIS, Napoli angioina, p. 374-381; BOLOGNA, I Pittori alla corte angioina, p.
262-303. Alla luce di quanto sopra è pertanto superato il quadro cronologico proposto da LEONE DE
CASTRIS, Pittura a Napoli e nel Meridione, p. 488-490.
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CRONACA DELL’ANNO 1371
Eo mense [ottobre], nescio quo die, incoeptum est bellum inter Venetos &
Patavinos, incipientibus Venetis.[…]. Hoc bellum crudele & longum fuit.1
1 GAZATA, Regiense, col. 77. Anche CORTUSIO, Additamenta II ad Historiam, col. 983, scrive: «dì IV di
ottobre, i Veneziani comenzò la guerra contra el segnore messer Francesco da Carrara».
2 DE MUSSI, Piacenza, col. 511.
5 STEFANI, Cronache, rubrica 725, per una colorita descrizione dell’argomento. Anche Cronichetta d’Incerto,
p. 274 e CERRETANI, St. Fiorentina, p. 143-144 che argutamente tratteggia la figura di Bartolo di Giovanni
Siminetti, «huomo arrogante e superbo», partigiano degli Albizi, chiamato «il Moschone»..
Carlo Ciucciovino
essendo stato incluso nella borsa da cui si estraggono a sorte i Priori, quest’anno sarebbe
probabilmente divenuto uno di questi. Allora, in gennaio, ci si inventa una legge su misura
per lui, con la quale lo si esclude per venti anni dall’elezione.6
§ 4. Gregorio XI
Nel conclave seguito alla morte di Urbano V, dopo una lunga discordia tra i cardinali,
viene eletto Pietro Roger, figlio del conte Guglielmo di Beaufort, di nazione Lunonicense,11
diacono di Santa Maria Nova, «homo placabile et amatore di homini virtuosi».12 Egli prende il
nome di Gregorio XI. Viene incoronato il 6 gennaio.13 Il nuovo pontefice è stato nominato
cardinale a soli 17 anni, da suo zio Innocenzo VI. Egli si è recato a studiare legge a Bologna,
ed è stato allievo del grande Baldo degli Ubaldi che vi insegnava. Egli è «di gentilissimi e
6 Chi fosse stato Grande e fatto popolano, da quello dì del beneficio ricevuto, e avesse consorti Grandi, non potesse
essere, infino a 20 anni del dì del beneficio de’ Priori. STEFANI, Cronache, rubrica 725.
7 PANCIROLI, Reggio, libro IV, p. 369-370 ricorda che «Lucio era uno de’ quattro ch’erano stati segretari di
fra’ Moriale, e finalmente generale delle sue genti. […] Lucio, seguendo l’ordine del capitano trasse seco
gran partita di soldati, finché raccolse più di quattro mila soldati d’armatura grave e moltissimi pedoni».
8 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1371, vol. 3°, p. 32-33. Chi sia interessato al contratto di
condotta del conte Lucio di Landau, lo può trovare in CANESTRINI, Milizia italiana, p. 70-71. Per
riassumerlo brevemente, Lucio ha servito per 3 mesi e 4 giorni, dal 24 ottobre al 25 gennaio del 71, con
500 lance e 50 arcieri. Spettano al conte 1.500 fiorini al mese, calcolando 22 fiorini al mese per lancia e 14
fiorini per arciere. Il suo maliscalco Corrado Botisen deve avere 25 fiorini al mese. Come soprasoldo, per
la felice conclusione della campagna, il conte deve percepire 1.100 fiorini al mese. Gli spettano inoltre 2
mesi di benservito, e 2.100 fiorini in dono; a fine gennaio altri 1.000 e fra 2 anni altri 1.000. SOZOMENO,
Specimen Historiae, col. 1091 dice che Lando viene congedato dopo essere rientrato a Firenze a dicembre.
9 Calcolando circa 22 fiorini al mese per lancia, si avrebbe una compagnia di circa 500 lance. Chronicon
Estense, col. 493 afferma che la compagnia di Lucio Lando viene costituita in aprile, su richiesta dei
collegati, cioè Chiesa, Napoli, Este, Firenze, Padova, Malatesta, Lucca, Gonzaga, Ravenna.
10 SANGIORGIO; Monferrato; p. 207. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 262 ci informa che vorrebbe
ingaggiare Landau, oltre il Monferrato, il marchese d’Este per vendicarsi di Manfredino, inoltre Lucio di
Landau riceve denaro da «quasi tucta Thoschana».
11 Egli è nato a Chateau Malmont nel Limosino.
13 GRIFFONI, Memoriale, col. 182. Il cronista elenca i nomi degli ambasciatori bolognesi: Riccardo di
Saliceto, Gaspare Caldarini, Ugolino Galluzzi, Toniolo Bentivogli, padre di Giovanni che sarà signore di
Bologna nel 1401. Riccardo e Gaspare sono dottori in legge. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 261-262
conferma i nomi e aggiunge che Gaspare è figlio del fu Giovanni Calderini, e Toniolo Bentivogli lo
definisce donzello. AMIANI, Fano, p. 294 ci informa che l’arcivescovo di Ravenna si è incamminato per
partecipare al conclave, ma arriva tardi e trova il nuovo papa già eletto.
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La cronaca del Trecento italiano
14 PELLINI, Perugia, I, p. 1087; GORI, Istoria della città di Chiusi, col. 959; MONALDESCHI MONALDO, Orvieto,
p. 114 recto. MOLLATT, Les papes d’Avignon, p. 258 scrive che alle qualità intellettuali, Gregorio unisce
virtù poco comuni: prudenza, circospezione, pieta, bontà, affabilità, dirittura di carattere, la capacità di
far seguire i fatti alle parole. Anche PALADILHE, Les papes d’Avignon, p. 241-243 si unisce agli elogi di tutti
e riporta la predizione di Brigida di Svezia, che delinea il futuro in caso di ritorno del papato a Roma e
in caso contrario, predizione scritta in Rivelazioni, libro IV, 139, che impressiona fortemente il nuovo
papa. Per una più approfondita biografia di Gregorio fino alla sua assunzione al soglio, si veda HAYEZ,
Gregorio XI, in Enciclopedia dei papi. FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 320.
15 PINZI, Viterbo, III, p. 369-370.
18 RENOUARD, The Avignon Papacy, p. 62-63, Gregorio X è il papa del Duecento la cui politica era tesa
all’organizzazione di una crociata. D’altronde anche la scelta del nome del suo predecessore, si ispira a
Urbano II. Sull’impegno di Pierre Roger da cardinale per l’idea di crociata, si veda VIGLIONE, Rizzate el
gonfalone, p. 35-37.
19 LILI, Camerino, parte 2^, lib. III, p. 99.
20 PINZI, Viterbo, III, p. 371. In nota 1 ivi Pinzi annota che la bolla di nomina di Cabassoles è del 4 luglio
1371.
21 MOLLATT, Les papes d’Avignon, p. 258-259.
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§ 7. Volterra
Il 4 febbraio, ancora una volta, Firenze arbitra il contenzioso tra il comune di Volterra e
alcuni fuorusciti,25 il lodo pronuncia la pace tra le parti, ma guai a chi la rifiuti o non la
ratifichi! In tal caso non potrà più beneficiare della stessa. I fuorusciti, assolti, possono
rientrare e riavere i propri beni, ma essi debbono restituire al comune di Volterra tutti i
castelli dei quali si sono impadroniti, meno il palazzo di Monte Rufoli. Su questo vi sarà un
lodo successivo. Inoltre, i Priori debbono essere nove, dei quali cinque intrinseci e quattro ex-
fuorusciti, decisione rivista pochi giorni dopo, aumentando di una unità gli intrinseci e
portando il numero totale dei Priori a dieci. Stessa composizione dovranno avere i magistrati
e i consigli. La decisione non è completamente soddisfacente e, il 28 di febbraio, Volterra
chiede a Firenze di inviare due Fiorentini che debbano decidere sulle modifiche agli statuti e
la sorte dell’assegnazione dei castelli.26
25 Gaddo di Libbiano, Guasparrino del quondam Guido dei Nobili di Querceto ed altri non nominati;
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ponente, vicino alla chiesa di San Manno. A nulla valgono le grida di implorazione dei
condannati: sono respinti i tentativi di coloro che, per liberarli, tirano pietre ai ministri della
giustizia; infatti scortano i condannati alcuni uomini decisi, comandati da Henrico Paier, il
Tedesco capitano delle guardie della città; i malcapitati assassini sono trascinati al loro luogo
fatale ed impiccati.28
Uno dei primi provvedimenti che i Perugini prendono in vista del rientro dei loro
fuorusciti, è quello di cancellare le pitture ingiuriose «fatte nel palazzo del Sindico, a piè della
piazza», raffiguranti i sette principali nobili esiliati, colpevoli del tentativo di colpo di stato
del 1361.29 Vengono poi nominati nuovi ambasciatori30 che si rechino ad Avignone per
concludere col nuovo pontefice la questione ancora aperta del “dominio”. Il primo
contingente di fuorusciti dovrebbe rientrare il 22 febbraio, ma si giudica che sia una data
troppo vicina alla commemorazione del corpo di Sant’Ercolano, avvenuta il primo marzo, e
festa sentitissima dai Perugini; «in que’ tempi si facevano molte feste e giuochi pubblici nelle
piazze, e, dubitando i magistrati per la loro venuta non nascesse qualche rumore nella città, fu
deliberato per consiglio principalmente di messer Donato dei Ricci,31 che si prorogasse il
termine infino al 6 marzo». Ma finalmente il gran giorno arriva, e dodici dei principali nobili
entrano orgogliosamente in città, e dietro di loro molti altri.32 I gentiluomini procedono «con
tanta alterezza e superbia che si dubitò di qualche tumulto»; in effetti, è solo la prudenza delle
autorità, timorose che un tumulto possa dar luogo a qualcosa di molto più grave, che riesce
ad evitare guai, ottenendo che fuorusciti entrino a piccoli gruppi. «Quelli che havevano
ricevuto danno di morte di alcuno nella casa loro, e che gli era stata tagliata la testa, che molti
furono, tornarono tutti vestiti a bruno, e corrocciosi», malgrado che siano ormai trascorsi
molti anni, «per dare a (di)vedere ai Popolani ch’essi non s’erano dimenticati delle ricevute
ingiurie». Il loro atteggiamento non fa certo presagire nulla di buono per il futuro.
da Satriano, dottori, Arlotto dei Michelotti e Luca d’Agnolino, popolari. Con loro va il notaio ser
Massarello di Porta Sole. PELLINI, Perugia, I, p. 1088.
31 Donato Ricci è uno degli ambasciatori fiorentini incaricato di sorvegliare il sereno rientro degli esiliati.
32 «Quelli che rientrarono di presente (non però tutti in un dì) furono l’Abate di Marsciano, il Poccia,
fratelli amendue di messer Francesco di Bettolo, Francesco di Ludovico di messer Vinciolo, Leo di
Lamberto della Corgna, Balduccio dello Squatrano, Paolo di Nicolò di messer Gilio, detto “Sobalzo”,
credo degli Acerbi, Monaldo de’ Montesperelli, Vico di Cola del Galiffo, Gnagne lungo, il figliolo
d’Agnolino di messer Giacomo degli Oddi, Petrino de’ nobili da Col di Mezzo, e Francesco del Cossa da
Fighino. Il dì seguente tornò Barbetta da Castiglion di Golino, Guiccion di Neri Montemelini e Servadio
di Contolo; quattro giorni dopo tornarono il Priore, figliolo dimesser Piercivalle, Pellino di Cuccho,
Pietro di Carluccio, Becello e Carlo de’ Ghelfiere, tutti de’ Baglioni, e uno de’ figlioli di Ceccarello de’
Boccoli, che fu decapitato in Perugia l’anno MCCCLXVI. E poco dopo tornò anco il figliolo di Cecchole
di Gocciolo; e tutti subito che furono smontati da cavallo, andarono a far riverenza all’abate di Fiorenza
e a messer Biagio d’Arezzo, ch’erano commissari del Legato, e dopo andarono a i signori Priori».
PELLINI, Perugia, I, p. 1089.
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degli Atti», che realisticamente si rende conto di non poter affrontare un conflitto contro il
legato pontificio, anche perché Todi soffre della mancanza di viveri. Todi si è rimessa
all’arbitrato del cardinale Anglico Grimoard, ma il bravo cardinale non si è mai pronunciato
sull’argomento, ed ora il cardinal Bituricense, legato pontificio, è nel Todino con molta gente
d’arme, e, vista la sua natura aggressiva, c’è da aspettarsi che nutra propositi bellicosi nei
confronti di Todi. Cataluccio degli Atti, pragmaticamente, invita il cardinal legato a prendere
possesso della città, ottenendo come vantaggio personale un paio di buoni castelli nel
territorio.33 Il conte di Montemarte, Ugolino della Corbara, accompagnato dal giovane fratello
Francesco si reca ad Avignone a riverire il nuovo pontefice. Il 10 febbraio, il conte Ugolino
ottiene Piansano, quale risarcimento dei danni patiti durante la guerra con Perugia. Mentre
Francesco ed Ugolino sono sulla via del ritorno, vengono raggiunti dalla notizia della
dedizione di Todi.34
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attendere l’autorizzazione giuridica, entrano nel castello di Agello, una rocca in collina che
domina la via verso Città della Pieve, a sud-est del lago Trasimeno. Essi giustificano il proprio
atto negandone il valore di opposizione ai magistrati, ma dichiarandolo come la miglior via
per tagliar corto alle lungaggini frapposte dai funzionari. Perugia chiede l’intervento del
cardinale che invia suo nipote Aronne. Subito, i nobili promettono la restituzione della
fortezza, ma si guarderanno bene dal mantenere la propria parola. Evento che giustifica il
sospetto che il colpo di mano sia stato ispirato dallo stesso legato. Questi ha fama di non aver
gradito la pace tra Perugia e la Chiesa, perché convinto che Perugia, ormai allo stremo,
sarebbe stata costretta a capitolare con condizioni ben più pesanti di quelle spuntate. Qualche
prova indiretta della sua animosità nei confronti dei Raspanti può essere allegata, oltre a
quest’episodio del castello d’Agello, anche la sua tolleranza per una situazione simile sorta
quando i figli di Ciuccio dei Boccoli sono, di loro iniziativa, rientrati nel loro palazzo
fortificato nella villa di Pretola, un borghetto ad un paio di miglia ad est di Perugia. Inoltre, il
cardinale impedisce con i fatti ai Perugini di trasportare in città del grano da loro comprato
nelle terre della Chiesa, e di cui vi è un gran bisogno perché la carestia sta colpendo le classi
più disagiate della popolazione, provocandone un incontenibile scontento.38
38 PELLINI, Perugia, I, p. 1090-1092. GORI, Istoria della città di Chiusi, col. 959 chiama erroneamente il
41 CALANDRINI E FUSCONI, Forlì e i suoi vescovi, p. 903, citando COBELLI, Cronache forlivesi, p. 141.
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Senesi,42 e dal conte di Landau e da messer Annese. Per una settimana il territorio è infestato
dai venturieri. Il 14 il podestà ed il Sanatore di Siena escono con l’esercito cittadino, 4.000
armati bene in punto, ma un intenso temporale rende impercorribili le strade e li obbliga a
rientrare in città. Il 15, i Fiorentini, che si sentono responsabili di quanto sta accadendo,
inviano loro ambasciatori a mediare un accordo tra Siena ed i mercenari. Il 22 marzo, non
senza che nel frattempo siano avvenute ulteriori devastazioni, si raggiunge un accordo: Siena
paga 8.000 fiorini e dona venti moggi di pane agli avventurieri. I mercenari, nei vari scontri,
hanno perso più di 200 uomini, catturati alla spicciolata da incursori senesi. I prigionieri
vengono interrogati, presumibilmente con mezzi energici, e confessano di esser venuti al
soldo dei Fiorentini e di essere retribuiti in ragione di un grosso per ogni casa bruciata. Nel
Senese sono state arse più di 2.000 case. L’odio contro i mercenari è intenso e si sfoga con atti
incivili: infatti, sul prato di Porta Nuova, gli ambasciatori della compagnia che si sono recati a
negoziare a Siena sono aggrediti e vengono assassinati due trombetti e quattro uomini
d’arme. Il 29 marzo un calzolaio responsabile di tale crimine viene decapitato. Il 31 marzo la
compagnia va a Volterra, e poi, passando per il Pisano, e sfiorando Pisa ad un miglio di
distanza, si reca in Lombardia, al servizio del Monferrato. In Pisa si monta la guardia giorno e
notte, fortunatamente senza problemi. Pisa, il 5 aprile, deve sborsare però 7.000 fiorini d’oro
che finiscono nella capace scarsella dei mercenari.43 I Senesi assumono per la protezione del
loro comune Manfredi di Bavoso, Borgognone, Buasso e Giovanni Cestella, Tedeschi,
Giovanni della Staffa, Giovanni Canestrelli e Rugieri, Inglese. In tutto duecento lance.44
42 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1371, vol. 3°, p. 35.
43 Cronache senesi, p. 636-637; RONCIONI, Cronica di Pisa,p. 253-254.
44 Cronache senesi, p. 637.
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§ 19. Filippo di Taranto resiste alle richieste della regina e del papa
Filippo di Taranto, da qualche tempo alla corte d'Ungheria, ottiene in sposa Elisabetta,
figlia di Stefano, con il pieno consenso papale. Anche questa unione fa corrugare l'alta fronte
di Giovanna e Filippo non tarda a darle motivo di preoccupazione: infatti, tornando in Italia
ai primi del 1371, Filippo, «quasi fosse l’erede al trono»,48 sostenuto dagli Ungheresi rivendica
per sé il principato di Bari, quello di Salerno, l'Aquila ed il suo territorio, un porto ed un
castello di Napoli. Il primo maggio interviene papa Gregorio ad ammonirlo severamente ed il
vescovo di Marsiglia che è latore della disapprovazione pontificia, ha in tasca la scomunica
contro Filippo, nel caso che questi non si pieghi.49
L’11 aprile, il conte d’Avellino, Raimondo III del Balzo, è presente ad Avignone al
trattato di pace firmato dal Siniscalco di Provenza Nicola Spinelli e dal giudice Luigi
Marquesan, in qualità di procuratori della regina Giovanna, con il vescovo di Mende, Pietro
Flandrin, cancelliere del duca d’Angiò e segretario del papa. Un paio di mesi più tardi, il papa
chiede a Filippo III, principe di Taranto, di restituire al conte di Avellino le città di Conza e
d’Avellino. Evidentemente con scarsi risultati, infatti, qualche settimana più tardi, chiede a
Jacopo del Balzo, despota di Romania, di insistere con Filippo di Taranto per la restituzione.
Filippo pratica la resistenza passiva e, nell’aprile del 1372, Gregorio XI chiede agli arcivescovi
di Napoli e Benevento di ottenere che Filippo compaia di fronte a Jean de Blauzac, cardinale
di San Marco. Niente di fatto, ed allora il papa mette in pista il prestigioso Raimondo del
Balzo, conte di Soleto, perché faccia pressioni su Filippo, ma Raimondo III del Balzo, anche se
fortemente sostenuto dalla regina Giovanna, è costretto a citare Filippo davanti al giudice.50
Raimondo III, neanche quarantenne, aggredito da una forte febbre, muore il 15 settembre
1372. Il papa assegna la protezione delle terre del defunto a Raimondo, conte di Soleto;
Filippo ancora non ha restituito né Conza, né Avellino. Raimondo lascia una figlia tredicenne,
Alice, e la moglie Giovanna, figlia del conte di Beaufort, incinta di un bimbo che, nascendo
all’inizio del ’73, verrà chiamato Giovanni e diventerà il 14° signore di les Baux, nonché 6°
conte di Avellino. Solo nell’agosto del ’73 si riuscirà ad ottenere che Filippo consegni Conza
ed Avellino, ma come dono al papa, che le gira all’infante Giovanni del Balzo. Il piccolo
Giovanni muore alla fine del ’75, tutti i suoi feudi passano nelle mani dello zio Francesco del
Balzo, e, dopo la sua morte, perverranno finalmente in possesso di Alice.51
In qualche modo, Filippo di Taranto torna in buoni rapporti con la regina e, in suo nome,
prende le armi contro Francesco del Balzo. Filippo muore il 25 novembre del 1373 e tutti i suoi
possedimenti, essendosi estinta con lui la linea maschile dei Taranto, ritornano nel demanio
regio. Sono quindi nella disponibilità della regina Giovanna anche Corfù ed Acaja.52
47 LUCARELLI, I Visconti di Milano e Lucca, p. 37-40; PACCHI, Garfagnana, p. 151 chiarisce che Alderigo si
risolve alla pace quando suo fratello Giovanni è stato fatto prigioniero dai Lucchesi. Ibidem alle p. 151-
152 vi sono molti dettagli sul trattato di pace.
48 La frase è di GAGLIONE, Profili di sovrani angioini, p. 456.
52 GAGLIONE, Profili di sovrani angioini, p. 456-457; LEONARD, Angioini di Napoli, p. 560; ASCOLI, Storia di
Brindisi, p. 142-143.
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56 FARAGLIA, Diurnali, p. 9. Si veda anche CAMERA, Elucubrazioni, p. 273 che riporta due lettere della
regina.
57 DEL BALZO DI PRESENZANO, A l’asar bautezar!, vol. II, p. 419.
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59 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 558; GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p.
348.
60 GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p. 349.
65 CONTAMINE, La Guerra dei cent’anni, p. 56; ALLMAND, La Guerra dei cent’anni, p. 38.
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66 ALLMAND, La Guerra dei cent’anni, p. 38; FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 322; CASTELOT E
DECAUX, La France au jour le jour, II, p. 525. SEWARD , The Hundred Years War, p. 112-113 che narra che il
principe in patria recupera per un poco la sua salute, ma, salpato per una spedizione, si ammala
nuovamente e torna a letto. Nell’ottobre del 1372 egli abdica dal suo principato d’Aquitania e si ritira
nel suo castello di Berkhamsted. Qui trascorrerà gli ultimi anni della sua vita.
67 In realtà il conflitto si trascina ancora per un poco, perché il re del Portogallo non onora il suo
impegno di sposare la principessa Eleonora di Castiglia, cfr. O’CALLAGHAN, A History of medieval Spain,
p. 525-526.
68 CASTELOT E DECAUX, La France au jour le jour, II, p. 525.
70 O’CALLAGHAN, A History of medieval Spain, p. 526; FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 334; KEEN,
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incaricati di mettere insieme la somma. Il 18 giugno vengono inviate ai cittadini le polizze della
prestanza, varianti da 16 a 150 fiorini, con l’obbligo di pagare entro tre giorni.74
Il 28 maggio, il governo di Pisa impone un prestito forzoso di 13.000 fiorini, per la
maggior parte ai Raspanti «e a quelli che sono men possenti; e alli Berghulini poghi ne
pagonno, e anco v’ebbe di quello che non ne pagonno niente».75
78 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 237 la continuazione della nota 6
a p. 235.
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fuori da Reggio; li seguono anche gli Estensi al comando di Guido Manfredi, che, impotente
ad impedire l’ingresso in città delle truppe viscontee, accetta una condotta nell’esercito di
Bernabò.82 Ambrogiolo Visconti, in nome del padre prende possesso della città. Bernabò
Visconti maschera la violenta acquisizione di Reggio, come suo diritto, perché Feltrino
Gonzaga gliel’ha ceduta. «In Parma fu celebrata una tanto solenne festa quanto da cento anni
passati fusse facta». In pochi giorni, Bernabò fa in modo che il nobile parmigiano Giovanni
Balduccio versi i 50.000 fiorini concordati a Guglielmo Gonzaga. In giugno, il conte Lucio,
passando per Tortona ed Alessandria, entra in Monferrato per prendere servizio - un po’ in
ritardo - presso il marchese.83 Al pontefice giungono contemporaneamente le notizie della
perdita di Reggio e dell’acquisto di Perugia.84 Bernabò Visconti invia Manfredino da Sassuolo
ad assediare Modena. L’assedio è vano, ma Manfredino arreca grandi devastazioni al
territorio, spingendosi fino sotto le mura di Ferrara.85 La conquista di Reggio riapre la
minaccia viscontea verso Bologna e Modena. Ora lo stendardo del biscione sventola ad
oriente ed a occidente, minacciando Bologna soggetta alla Chiesa e la Toscana tutta. Il 16
giugno il podestà di Reggio aduna il Consiglio Generale che decide la sottomissione completa
al signore di Milano.86
Mentre Bernabò combatte per Reggio, suo fratello Galeazzo, nel mese di maggio, viene
pacificamente a Piacenza, con tutta la sua famiglia87 e prende alloggio nella Cittadella. Qui
attende a radunare quanti combattenti può, per aiutare l’impresa di Bernabò. Mette insieme
cavalieri, fanti ed arcieri di diverse nazionalità: Tedeschi, Italiani, Guasconi, Spagnoli, Inglesi
ed Ungheresi. Gli armati debbono contrastare la potenza crescente di Lucio Lando, che sta
transitando nel Piacentino, diretto a combattere per il marchese di Monferrato, che lo ha
assoldato per 50.000 fiorini per quattro mesi di servizio. La compagnia mercenaria, forte – si
dice – di 5.000 uomini a cavallo ed altrettanti fanti, è nel distretto di Piacenza all’inizio di
giugno.88 Per tutta l’estate i Visconti portano la guerra nel Modenese e nel Ferrarese.89
82 400 fiorini per una bandiera di cavalieri. Neanche ben pagato: 22 fiorini a lancia per 25 lance sarebbero
Un cenno in DE MUSSI, Piacenza, col. 511. Anche GIULINI, Milano, lib. LXX, anno 1371; Annales
Mediolanenses, col. 743-744. GRIFFONI, Memoriale, col. 182-183 pone erroneamente gli avvenimento a
maggio. Si veda anche la narrazione di Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 263-265. ANGELI, Parma,p. 197 ci
informa che Bernabò ha inviato a Parma, come governatore, suo figlio Ambrogio, ben provvisto di
truppe. Anche BALLETTI, Reggio, p. 186-191 e PANCIROLI, Reggio, libro IV, p. 369-372 e Libro V, p. 3-4;
estesa narrazione in TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 47-50. Niente di originale in FRIZZI, Storia di Ferrara,
vol. III, p. 348-349, né in PEZZANA, Parma, I, p. 94-96.
84 PELLINI, Perugia, I, p. 1107 e Cronache senesi, pag. 639. Annales Mediolanenses; col. 745, attribuisce
l’evento al 1372, ci dà il nome di un servo di messer Feltrino Gonzaga, Gabriele Cravasacco, che,
attaccando discorso con i sorveglianti delle porte, fa segno agli uomini in agguato di uscire allo
scoperto.
85 PELLINI, Perugia, I, p. 1115.
87 Con lui vi è sua moglie Bianca di Savoia, sua figlia Violante, vedova di Lionello di Clarence, suo figlio
Gian Galeazzo e sua nuora Isabella di Francia. POGGIALI, Piacenza, VI, p. 359-360.
88 SANGIORGIO, Monferrato, p. 207; DE MUSSI, Piacenza, col. 511; POGGIALI, Piacenza, VI, p. 360.
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del suo seguito vi lasciano l’esistenza. Poi va a Treviso, ma, inviso ai Veneziani, è costretto a
girovagare, recandosi a Padova, Verona, Gossolengo, quindi a Milano, poi a Genova, a Pavia
da Galeazzo Visconti, infine a Padova. Qui, il 28 dicembre 1374, «finì la sua vita in tanta
miseria che aveva dovuto impegnare persino le scarpe». Lo hanno abbandonato anche i figli.90
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San Fortunato, con fermo proposito, se la corte vi andava, di tagliarla tutta a pezzi». Se
veramente scoppiasse un tumulto di tale gravità a Porta Sant’Angelo, la rivolta si
diffonderebbe sicuramente in tutta Perugia, poiché il popolo è affamato ed esasperato e vede
nella rivolta e nel saccheggio l’occasione per riempirsi il ventre. In effetti, i popolari hanno
motivi di lamentarsi, i Raspanti hanno sicuramente ritardato oltre il ragionevole la stipula
della pace, non volendo accettare la riammissione in città dei fuorusciti. Ciò ha comportato la
continuazione della guerra, l’impossibilità di seminare e raccogliere: la carestia, la fame. Le
guardie sono già arrivate a San Tomaso in Porta Sole, quando «alcuni buoni cittadini di quella
porta» si fanno loro incontro e convincono il cavaliere che li guida a tornare indietro.93 Ma la
gente di borgo di Porta Sant’Angelo, una volta armatasi, è determinata a far valere le proprie
ragioni, e non può essere tacitata facilmente. I Priori inviano allora due abili negoziatori,
messer Baldo degli Ubaldi e messer Golino di Pellolo, i quali, convocati i capi del borgo,
chiedono loro quali siano gli obiettivi dell’agitazione. Rispondono «ch’essi volevano che gli
abbondanzieri della città facessero opera che quel grano che era stato dai luoghi circostanti e
fuori del territorio perugino condotto per supplire a’ bisogni della povertà, si vendesse alle
persone povere e bisognose e non a’ Raspanti, e ad altri cittadini che poco ne avevano bisogno
e erano più degli altri di denari abbondanti, i quali, volendo, potevano comprarne di quello
che (si vende) nella piazza a nove libre la mina, e lasciare quello che per li poveri bisognosi a
minore prezzo si vendeva». E aggiungono che alcuni dei Raspanti, Agnolo di Leggieri,
Giovanni d’Andrucciolo ed altri, «che havea buona borsa da poter comprar di quello della
piazza», si sono accaparrati grossi quantitativi di grano, sottraendolo ai poveri artigiani ed al
minuto popolo. Chiedono quindi che il grano “forestiero”, anche se poco, per gli impedimenti
posti dal cardinal legato, venga distribuito ai soli poveri, che anche ottenendone una sola
mina a testa, per qualche giorno dimenticherebbero la miseria. Dopo aver pensato alle
impellenti necessità del ventre, i capi del borgo pensano ora alla sicurezza ed aggiungono che
è «universale volere di tutto il popolo che ogni cittadino, o nobile che fosse, che havesse in
casa soldati forestieri, gli dovesse incontamente mandar via perché essi non intendevano di
correre pericolo che le case loro fossero rubate e predate da’ forestieri». Richieste più che
ragionevoli e difficilissime da rifiutare. Baldo e Golino accompagnati da una delegazione dei
più autorevoli cittadini della parte le presentano ai Priori. Il problema è come rendere
esecutiva la richiesta di far sgombrare la soldataglia senza che questo possa apparire
un’oppressione di parte e, perciò, scatenare la violenza. La brillante soluzione è quella di
porre l’operazione sotto la supervisione degli ambasciatori fiorentini che sono ancora a
Perugia: messer Biagio d’Arezzo e Lapo Ricasoli. Gli ambasciatori si muovono prontamente e,
per evitare che si scateni la guerra civile, si fanno dare in ostaggio quattro Nobili e quattro
Raspanti.94 Grazie alla cautela, la temuta notte trascorre senza tumulti, ed il giorno seguente,
il dì dell’Ascensione, gli ambasciatori iniziano l’ispezione per tutte le case «in cui s’era detto
esser soldati forestieri». Malgrado la diligenza della ricerca, non se ne trova traccia, o perché
non ve ne sono, o perché, approfittando della notte, si sono dileguati.95
Intanto, gli ambasciatori di Perugia sono ad Avignone, presso papa Gregorio XI, e
trovano «l’animo suo non molto ben disposto verso le cose d’Italia», e, convinti di poter
negoziare il problema del “dominio”, cioè della signoria pontificia su Perugia non legandola
al pontefice quale che sia, ma solo al defunto Urbano, debbono invece constatare che, non
solo Gregorio non è minimamente disposto a transigere sull’argomento, ma, anzi, desidera
rinegoziare alcune altre parti del trattato, peggiorandone le condizioni per Perugia. Egli
conferma che la signoria papale su Perugia non si è estinta col decesso di Urbano, ma
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continua nella persona del successore, e vuole nominare il suo vicario in città. Papa Gregorio
trattiene gli ambasciatori perugini in snervanti trattative, ed intanto invia un breve a Todi al
cardinal Bituricense per esortarlo a recarsi a Perugia, per farvi valere i diritti della Chiesa. Il
cardinale invia subito suo nipote Aronne a Perugia, dove lo ha preceduto un altro breve di
Gregorio XI, che esorta i Perugini ad obbedire al suo legato. Aronne chiede l’urgente
convocazione di un consiglio generale, cui i Raspanti frappongono ogni sorta di difficoltà,
presagendo che l’ormai incontenibile insofferenza della popolazione avrebbe reso l’assemblea
incontrollabile. I Raspanti si battono per un consiglio ridotto, che definiscono «d’alcuni
privati e più prudenti cittadini», senz’altro molto più condizionabile da parte loro. Ma il 16
maggio gli «huomini della contrada di Porta Sant’Angelo», sotto la guida di messer Francesco
di messer Golino degli Arcipreti, radunandosi nella chiesa di Sant’Agostino, deliberano di
tenere consiglio generale ad ogni costo, e fanno convergere sulla loro decisione tutto il
popolo. Arrivano a Sant’Agostino anche i commissari del cardinal Bituricense, apprendono
favorevolmente la decisione di tenere un consiglio generale forzoso, e pregano il popolo di
«non farvi alcun romore o tumulto», per non offrire ai Raspanti l’occasione di intervenire e
sciogliere la riunione. Radunato il consiglio, messer Aronne si fa avanti e prega ser
Franceschino di ser Gilio di Porta San Pietro e cancelliere del comune, di dar lettura dei due
brevi papali. Il popolo ben predisposto, e sicuramente ben condotto dall’interno, urla che
vuole che da subito Aronne assuma la carica di legato della provincia e riformatore della città
di Perugia. Cerca di alzarsi a parlare Nicolò di Ceccolino Michelotti, uno dei Priori e dei capi
dei Raspanti, per salvare il salvabile, ma il popolo lo zittisce, urlando che sia il consiglio
generale ed il popolo, e non i Priori a dar la città alla Chiesa. Cogliendo il momento
favorevole, uno dei commissari papali, messer Biagio, si alza a parlare, prende atto della felice
disposizione d’animo del consiglio, ed annuncia «che’l suo cardinale, per far cosa grata a
tutto il popolo havea deliberato di far venire in Perugia non picciola quantità di grano per
sovenire alla povertà», promette inoltre altri provvedimenti per alleviare il disagio della
popolazione. Tutto è ormai perduto per i Raspanti, messa ai voti la mozione di dar la città ad
Aronne, essa viene approvata all’unanimità. Ser Biagio quindi propone il rientro immediato
di tutti i fuorusciti e la restituzione delle multe loro comminate nel 1361, ed anche questa
terribile sconfitta dei Raspanti è approvata. Francesco di Lodovico di messer Vinciolo esce
dalla sala del consiglio per evitare che gli venga offerta la carica di capitano del popolo,
giudizioso e accorto, non vuole accentrare su di sé l’odio degli sconfitti Raspanti. Non è
comunque da escludere che almeno una parte dei Raspanti abbia favorito questa soluzione
del conflitto, infatti Pellini riporta la notizia che un buono accorto e popolare, Paoluccio di Nino,
è stato inviato dai Raspanti a Firenze, a chiedere 500 cavalieri per mantenere l’ordine a
Perugia, ed uno dei Priori, Giovanni del Boldro de’ Bazzi, ne ha avvisato segretamente il
cardinal Bituricense, che ha provveduto a mandare immediatamente Aronne in città.96 Anche
se il consiglio generale ha sancito una pacifica riforma dello stato, è ingenuo aspettarsi che la
caduta dei Raspanti non scateni una serie di conseguenze e violenze. Appena terminato il
consiglio, nei pressi della chiesa di San Fiorenzo si accende una lite tra i figli di Marco
Pettinari, un partigiano dei Raspanti, e Marco di Ceccone, che tiene per la Chiesa. Marco, «che
con disavantaggio si trovava, restò oltraggiato e ferito dagli avversari». Il piccolo episodio
desta gran sensazione e spinge i partiti ad armarsi e correre verso la piazza. Qui Giovanni del
Brunetto, dei Nobili da Montenero, di Porta Sant’Angelo esalta il popolo contro i Raspanti e
mena tre colpi spada a Tancio dei Mastinelli, un Raspante, che non riporta ferite «perché
molto ben d’arme da difesa provveduto».97 Per un poco, la folla armata rimane in piazza a
rumoreggiare, ma, sostanzialmente, senza esercitare violenze; ma a qualcuno viene in mente
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di dire che si sono visti soldati armati nella casa di messer Guglielmo di Cellolo, Raspante.98
La folla trova finalmente un obiettivo al proprio desiderio di violenza e si scaglia
impetuosamente contro l’abitazione. A poco valgono le pietre che quelli di dentro gettano in
testa agli aggressori: la porta viene abbattuta e la casa messa a sacco. Vista la mal parata,
messer Guglielmo e suo fratello si sono precipitosamente messi in salvo da una porta
secondaria. Il cadavere del fratello verrà trovato, sfracellato, ai piedi delle mura della città e lo
stesso Guglielmo, che è riuscito ad uscire da Perugia, viene affrontato e derubato da alcuni
villani che lo risparmiano solo perché non lo riconoscono. Quando non vi è più nulla da
rubare nella casa saccheggiata, la folla eccitata decide di assalire altre case dei Raspanti, si
reca a Porta Sole ed attacca le case di Agnolo di Leggieri d’Andreotto, di Danolo di Monuccio,
di Baldo della Nina, di Longaruccio di Sant’Agnolo. Svaligiate le case, vi appiccano il fuoco,
quindi vanno a Porta Sant’Angelo e riservano lo stesso trattamento alle abitazioni di
Andrucciolo e di Nicolò di Pello, di ser Paolo di Berarduccio ed a Guiduccio. Infine, a Porta
San Pietro, saccheggiano e bruciano quelle di Bartolo di Ceccarello e di Bindo di Pepo. Anche
alle case dei Michelotti, è stato appiccato il fuoco, ma, grazie al pronto intervento dei vicini,
l’incendio viene domato. Vengono anche assaltate in Porta Borgne la casa di Grazino di
messer Grazia, di Pietro della Milla e di Giacomo di Picciolo, in Porta San Sanne quelle di
Berardello del Priore e di suo fratello Donato e di Luca d’Agnolino. Le case di Berardello,
protette da una torre gagliarda, sono in grado di difendersi fino al far del giorno, poi, visto
che gli attaccanti non accennano a demordere, i difensori, colto un attimo favorevole, se la
squagliano. Quando la luce del giorno rischiara la notte di violenza, si contano i morti che
sono stati inaspettatamente pochi: messer Agnolo degli Statuti, collaboratore dei Raspanti, ma
non Raspante, ucciso da Boncio da San Gianni, per interessi privati, un fratello di Guido di
Pellolo, in camicia da notte, è stato assassinato dagli assalitori della sua casa, perché ha avuto
il coraggio o l’incoscienza, di insultarli, ed un calzolaio che per motivi di inimicizia personale
Nicolò di Bettolo del Pelacane ha ucciso. Tutto sommato, le violenze sono state contenute:
nessuno dei Raspanti è stato assassinato, solo il 20% delle loro case sono state saccheggiate.99
Nella notte, le prigioni sono state aperte ed i prigionieri liberati. Al mattino, si constata che tre
dei Priori del partito dei Raspanti sono fuggiti,100 e li si rimpiazza. Si cancellano le proibizioni
per i nobili di accedere alle cariche pubbliche. Il capitano del popolo e i soldati di guardia alla
città giurano nelle mani dei commissari del legato, Biagio d’Arezzo e Lapo Ricasoli. Il giorno
seguente, alle prime luci dell’alba, entra in città, proveniente dalle sue rocche, Ranuccio di
Simone dell’Abate a capo di duecento fanti. Egli si reca subito alla chiesa di San Lorenzo,
duomo della città, ed al palazzo del podestà. Lo seguono tutti gli altri fuorusciti. I soldati di
Ranuccio, entrati nel duomo, distruggono la tomba di Leggieri di Nicoluccio d’Andreotto, il
leader-simbolo dei Raspanti, ne traggono le spoglie che da fanciulli e da persone di bassa e vil
conditione fanno trascinare per la piazza. Questi sono comunque gli ultimi disordini tollerati
dai commissari del cardinal Burgense e da Aronne, che minacciano pene di morte contro
chiunque d’ora in poi saccheggi od incendi case, inoltre inviano messi al cardinale per
invitarlo ad entrare quanto prima possibile a Perugia, per por fine alle turbolenze con
l’autorità della sua presenza. Comunque, a Perugia già sono presenti Aronne ed i suoi armati,
ed il cardinale si trasferisce a Foligno, «non volendo per avventura, così all’improvviso,
entrare nella città, tutta piena di rapine e di incendi», e dove deve invece esser degnamente
ricevuto come legato apostolico. Il consiglio generale riunito a Perugia delibera di nominare
tre uomini per porta, quindici in tutto, cui affidare la decisione di quale dei Raspanti bandire
o condannare, ed a quali pene. Ai Quindici vengono anche affidate le gabelle e questi
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annullano immediatamente l’odiatissima imposta sul macinato. Viene anche istituita una
guardia armata, che, in servizio giorno e notte, eviti che i mercenari saccheggino le case poste
in luoghi isolati. Intanto il cardinal Burgense, dopo un’altra tappa a San Crispolto di Bettona,
arriva a Perugia, dove viene accolto festosamente. Egli ha con sé 1.000 cavalieri e 4.000 fanti
ed innumerevoli some di grano. L’arrivo del frumento sul mercato ne fa abbassare il prezzo
da 9 lire a 5-6 lire la mina. La severa fama del cardinale, ritenuto discendente del nobile
traditore Gano di Maganza, e la sua intransigenza verso Perugia, (egli è stato infatti un
avversario della pace stipulata da papa Urbano, desiderando piuttosto prendere la città con le
armi e sottometterla con la forza), sono ora completamente dimenticate, e la sua popolarità è
figlia dell’abbondanza di cibo che ha portato in città: nessuno vuol ricordare che uno degli
strumenti di pressione che egli ha spietatamente utilizzato contro il governo dei Raspanti è
appunto l’impedire l’afflusso di grano in città. Il cardinale fa immediatamente fortificare e
munire le torri più alte della città, e vi pone soldati a presidio, ordina che tutte le botteghe
siano riaperte, vieta che i cittadini rechino armi e nomina suo vicario il conte Ugolino di
Montemarte, un alleato fidatissimo della Chiesa dai tempi dell’Albornoz. Ugolino assume
l’incarico il 23 di maggio e si dispone a sorvegliare con severità che la pace e la giustizia siano
ristabilite in città.101 Quando, a maggio, Francesco ed Ugolino da Montemarte arrivano a Todi,
vi trovano il cardinale Pietro Bituricense. Tre giorni dopo i Raspanti vengono cacciati da
Perugia. Il cardinale, appena entrato a Perugia, nomina suo vicario e luogotenente generale
nella città il conte Ugolino, con honorevole famiglia di lancie spezzate et salario. Per sei mesi
percepisce 4.000 fiorini d’oro. Ugolino, al solito, ha maniera di dimostrare la sua lealtà e la sua
grande capacità.102
101 PELLINI, Perugia, I, p. 1102-1105. ASCANI, Due cronache quattrocentesche, p. 62 scrive seccamente: «addì
104 DE BLASIS, Le case dei Principi angioini, p. 389; GALASSO, Il regno di Napoli, p. 209.
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per mancanza di prove. Rilasciato, Astolfo si mette al servizio di Venezia. Poiché non gli
manca né il coraggio né l’abilità, diventa conestabile e con tale grado viene spedito a Candia e
qui è nel 1365. Nel 1368 Astolfo è conestabile di cavalleria a Treviso, sempre al servizio della
Serenissima; egli ha con sé suo fratello ed un altro Triestino esiliato dalla città natale. Quando
i suoi concittadini vengono banditi dal territorio veneziano, pur essendo stato risparmiato dal
provvedimento, lascia la bandiera di San Marco e si mette a disposizione di Trieste che,
evidentemente, accetta di riammetterlo in città. Se la sua intenzione sia onesta o frutto di un
calcolo per rimeritare agli occhi di Venezia non si sa. Trieste gli affida il castello di Moccò,
chiave del territorio triestino, posto a guardia della via principale che «usciva dalla Vena e
saliva sui Carsi e di quella che congiungeva i Carsi con l’Istria». Astolfo difende bene la
piazzaforte e di qui si lancia in scorrerie a danno dei Veneziani e mantiene aperte le vie che
consentono l’arrivo di rifornimenti in città da Gorizia. Quando giudica che la posizione della
sua città sia compromessa, invia un suo emissario, Zanin de Vedano, dai Veneziani ad offrire
loro il castello, a patto di esserne investito in feudo. Il senato accetta la proposta, ma Astolfo
riconsidera la sua offerta perché ha saputo che è in arrivo un forte esercito da Gorizia, in
soccorso di Trieste. Il soldato giudica che l’affluire di forze fresche, sotto le bandiere di
Leopoldo d’Asburgo e del Duino, avrebbe fatto pendere l’ago della bilancia a favore di
Trieste ed egli vuole essere nelle schiere di chi vince. Quando l’esercito del duca d’Austria si
profila sul Carso, Astolfo Peloso compie il voltafaccia e nuovamente issa la bandiera di
Trieste. Ha sbagliato: la Serenissima esce vincitrice e l’avventuriero è costretto a difendere il
suo castello dalle truppe veneziane. Un anno dopo la resa di Trieste, nell’autunno del 1370, il
castello ancora resiste agli avversari. Un anno più tardi, abbiamo notizia della congiura di
Pola, poi perdiamo le tracce del Peloso per alcuni anni. Lo ritroviamo nel 1378, quando
appare ancora al servizio di Leopoldo d’Asburgo, ma ricco e ancora sulla cresta dell’onda. È
questa l’ultima sua notizia che ci è stata tramandata, però, anche se il suo nome non compare
più, egli sarà forse tra coloro che fanno parte della congiura per dare Trieste all’Asburgo.107
107 TAMARO, Documenti di storia triestina, p. 14-18. GATARI, Cronaca Carrarese, p. 59 ci informa che l’eco
dell’impresa di Astolfo arriva a Padova l’11 giugno 1373; anche DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 271.
108 VASINA, Dai Traversari ai Polenta, p. 591. Per la descrizione di Ravenna nella Descriptio si può anche
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stato di fatto nominandolo vicario apostolico anche per Bevagna e, il 30 dicembre, lo crea
generale di Santa Chiesa e Gonfaloniere generale del Ducato di Spoleto. Constata Giovanni
Lazzaroni: «Il dominio dei Trinci giungeva così al massimo della potenza».109 Trincia si è
comportato con estrema prudenza nel corso della guerra tra Chiesa e Perugia, egli ha ospitato
nella sua città e nel suo palazzo i legati pontifici, ma si è astenuto dal combattere la forte
Perugia.110 La lealtà dei Trinci alla causa guelfa verrà testimoniata l’anno prossimo, il 21
giugno, quando Firenze concede la sua cittadinanza a Trincia e Corrado. Può anche darsi che,
nel frattempo, i Trinci abbiano acquisito anche il diritto legale al possesso di Bevagna.111
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penetrare attraverso l’indovino il proprio futuro e gli chiede quanto vivrà. Fra’ Tomassuccio
risponde: «Tu viverai appunto tanto quanto durerà illesa la campana della comunità di
Foligno». La tragica profezia si avvererà il 28 settembre del 1377, quando Corradino e
Napoleone Brancaleone, insieme a molti nobili folignati fuorusciti, approfittando del
passaggio d’alcune genti fiorentine nel territorio, e precisamente del conte Lucio di Landau,
decidono di attentare alla vita del signore di Foligno. Il momento per l’azione viene stabilito
essere quando la campana del comune suonerà alcuni rintocchi, allora i congiurati si
precipiteranno dal tiranno e lo getteranno dalla finestra. Mentre Trincia viene defenestrato
dal suo palazzo, suonano i rintocchi della campana, che si fessura. Ma il bello è che il frate
non le azzecca tutte: una volta, in segno di penitenza si rade la barba e si denuda quasi
completamente, annunciando per tutta Perugia che fra quattro giorni cadrà il fuoco dal cielo,
e brucerà e distruggerà tutta la città. Il malaugurio che egli annuncia provoca l’irritazione di
alcuni conducenti d’asini, che lo imbrattano con lo sterco dei loro animali e lo insultano.
Fortunatamente, la profezia è completamente errata. Fra’ Tomassuccio è un terziario
francescano «di grande astinentia, dispregiatore singularissimo delle cose del mondo». Morto,
viene sepolto nella chiesa di Sant’Agostino e le sue spoglie operano miracoli, ottenendogli la
beatificazione.116
116 PELLINI, Perugia, I, p. 1105-1106. Per la morte di Trincia, vedi LAZZARONI; I Trinci di Foligno; p. 60.
117 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 266. Leggiamolo nella gustosa lingua del cronista: nel «mese de
zugno, alla chiesia de miser Santo Domenicho si fu una figura della Nostra Donna che mostrò grandi
miracoli; et in questo tempo un’altra fighura era a Sam Piero che mostrò grandi miracoli: et a queste doe
figure trasse de gran gente de amalati, et quilli che a llei piaque liberonno».
118 Cronache senesi, p. 639 lo chiama erroneamente Francesco.
119 Il principale colpevole, Niccolò Amidei riesce a fuggire, insieme a Bonavere Sellari, Ranieri d’Isacco,
fornito soccorso al Casati: i centurioni della città con 300 balestrieri. I congiurati uccisi sarebbero otto
secondo la cronaca di Siena, mentre Mancini, sulla base di documenti, ne elenca quattro: ser Francesco
di Talamuccio, ser Francesco di Marco detto Berzighella, Niccolò di Cignano e Domenico della Fratta.
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loro la porta in faccia, i militari devastano il territorio.121 «Al Burgense (Bituricense) – scrive
Girolamo Mancini – successe nella legazione un frate francese d’animo turpemente cinico,
maestro di scelleratezze, capace di qualunque infamia, Gherardo di Maurmoutier,
denominato in Italia l’abate di Mommaggiore. Anche il nuovo legato volle occupare Cortona,
bensì egli insidiò col veleno alla vita del Casali».122
Il 22 giugno il papa Gregorio XI scrive a Gomez Albornoz ad Ascoli e a Guido da Siena
perché si adoprino per far pacificare Arezzo con Castiglione Aretino.123
questo anno: la convenzione tra Arezzo ed i Bostoli del 3 luglio, dove appaiono i seguenti Bostoli:
Guido, Matteo, Alberto, Cecco e Meo, doc. 834, p. 164-167; e il capitoli tra Arezzo e Foiano, sempre del 3
luglio, doc. 835, p. 167-171.
124 PECORI, San Gimignano, p. 191 chiarisce che l’alloggio è a carico del comune, mentre i vitto è a carico
dei convenuti. L’anno precedente San Gimignano, insieme con Colle, Poggibonsi e Castel Fiorentino,
hanno dovuto fornire il vettovagliamento ai soldati della lega, stentando molto a far fronte; ibidem p.
190.
125 FARAGLIA; Diurnali; p.7-9.
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Mazzocchi, sostenitori della parte Malcorina, si oppongono a tale nomina che testimonierebbe
una eccessiva prevalenza dei Monaldeschi della Cervara ad Orvieto, con pregiudizio del
dominio della Chiesa. Di qui un rinfocolamento dell’inimicizia tra Muffati e Malcorini.127
Giuseppe Bruscalupi osserva che in questi anni vediamo sempre figurare il conte di Pitigliano
Nicola Orsini in aiuto dei Monaldeschi della Cervara.128
130 Questa informazione è in Michel HAYEZ, Urbano V, p. 546 in Enciclopedia dei papi.
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137 Vale la pena di riportare per esteso la lista degli esiliati, perché se ne trae l’elenco completo delle
famiglie e dei principali dei Raspanti: per Porta Sant’Angelo, Vagne di Gennaro, ser Paolo di
Berarduccio, Giovanni, Cola e Costanzuolo, figli di Andrucciolo di Pellolo, Tancio dei Mastinelli, Paolo
di Cellolo e Narduccio di mastro Ghiadaz; per Porta San Sanne messer Pietro di Vinciolo, Corbenuccio,
Berardello del Priore e Sinibaldo suo figliolo, Contucciolo di Facciardo degli Sciri, Luca di Agnolino,
Lello della Becchina, Dinolo di Bindolo con un suo figliolo, Ceccolo di Bindolo col Priore de’ Fonti e con
Agnolo suoi figlioli, Talento di Luca di Bindolo, ser Lorenzo, Cugliolo, ser Pietro di Senso e Iacomino;
per Porta Borgne, messer Guglielmo di Cellolo, dottore, Pietro della Milla e Andrucciolo suo figliolo,
Paolo di Comanduccio, Giacomo di Picciuolo, Grazino di messer Grazia, Francesco di Nolfo dei
Michelotti, Federico di Teo dei Michelotti e Roberto suo fratello, il Pazzo di San Savino, Ranuccio da San
Mariano detto il Moncia e Pietro suo fratello; per Porta San Pietro Arlotto dei Michelotti, Simone e
Melchiore suoi figlioli, Ludovico d’Arlotto fratello di Arlotto, messer Odoardo di Ceccolino Michelotti,
canonico del duomo, Nicolo e Michelotto Michelotti, suoi fratelli, e, con loro tutti i componenti della
famiglia Michelotti, eccettuati Veragino di Michelotto di Teo, il Mirale ed un altro di cui non è
tramandato il nome, ser Martino Pucciarino e suo figlio Giovanni, parenti dei Michelotti, Giovanni di
Martino del Savio, Bartolo di Ceccarello - costui fu quello di cui si disse essere stato cagione della cattura di
messer Crispolto sotto Bettona, e fu in questa proscritione di essilio molto aiutato ad esservi annoverato dai
figliuoli di detto messer Crispolto - Bindo di Pepo, Giovanni di Manno, col Battezzato, suo nipote, Ciura di
Pellolo e Ghedolfo del Marescalco; per Porta Sole Agnolo di Leggieri, con i suoi figli Andreotto e
Leggierotto, Vannolo di Monuccio, Baldo della Nina, Longaruccio di Sant’Agnolo, Martino Cozzo,
Masuccio della Mirigiana, messer Tivieri di messer Francesco Montemelini, cavaliere, Nicolò
d’Andrucciolo d’Arlottuccio, Francesco d’Antonio di mastro Orlandino e ser Simone di ser Petlante.
PELLINI, Perugia, I, p. 1109.
138 PELLINI, Perugia, I, p. 1109-1110.
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La cronaca del Trecento italiano
vessillo le chiavi di San Pietro. La vittoria su Perugia, invece di connotarsi come un positivo
risultato di pace, inaugura un periodo di lotte che costelleranno l’ultimo quarto del secolo.140
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Carlo Ciucciovino
149 “’l re et i baroni com patente lettere sigillade del s(u)o rial sigillo et de i altri baroni promisero de
servare el predicto meser Francesco e’l s(u)o stado sempre contra çascuna persona”.
150 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, cap. 1.
152 CHINAZZO, Guerra di Chioza, col. 699-702. CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova, p. 297-299
rimarca che Francesco da Carrara, vedendo Venezia molto impegnata per la riconquista di Trieste, ha
approfittato per aggiustare unilateralmente in confini nei detti castelli già nel 1369. Su questi argomenti,
ibidem p, 150-151.
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La cronaca del Trecento italiano
Cronaca Carrarese, p. 43-45, naturalmente visti dal punto di vista padovano; questa fonte elenca anche i
nomi degli ambasciatori padovani a Venezia: messer Zanin da Peraga, Frugerin Capodevacca e due
esperti di diritto, ser Arsendino Arsendi e Bartolomeo Taddeo, probabilmente figlio di Francesco
Corteleri; per quest’ultimo si veda la nota 3 ivi. Anche CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova, p.
297-301. Una trattazione delle incomprensioni tra Francesco da Carrara e Venezia è in KOHL, Padua
under the Carrara, p. 108-114 e 118-119.
158 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, cap. 6.
159 CORIO, Milano, I, p. 835. Si veda sopra il paragrafo dedicato a questo argomento.
160 CHINAZZO, Guerra di Chioza, col. 699-702 e La Ystoria de mesier Francesco Zovene; cap. 5, 6, 7 ed 8.
Estremamente laconico Raphaini Carasini Chronicon, col. 433. Buono il resoconto di VERCI, Storia della
Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 151-156, si veda anche ROMANIN, Storia di Venezia, IV, p. 240-241.
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Carlo Ciucciovino
sleale di Marsilio,161 gli inviano ambasciatori, incitandolo a far sollevare Padova per
insignorirsene, uccidendo Francesco il Vecchio. Se poi corresse la città, ma, scacciatone,
riuscisse ad uscire dalle mura, gli donerebbero una pensione vitalizia annua di ben 12.000
ducati. Marsilio, nel suo dominio in Campagna legge con i suoi occhi il patto scellerato, scritto
nella pergamena della signoria di Venezia e sigillato col suo sigillo. Ha un mese di tempo per
compiere la malvagia impresa, poi i patti decadranno. I Veneziani sono infatti
preoccupatissimi per quanto Francesco da Carrara sta costruendo alle loro porte. Marsilio
accetta, senza suscitare meraviglia alcuna nel biografo di Francesco il Giovane, che afferma
che «la mente del homo may dalle cathiverie non se p(u)ò mundare», se macchiata in
gioventù, e poi, aggiunge che «sì dolce cossa» è signoreggiare che Marsilio quasi è da
scusare.162
161 Benché sia stato beneficato dal fratello Francesco, Marsilio ha congiurato per tradirlo quando era nel
fiore della giovinezza, perché subornato dai cattivi consigli di Tolberto, conte di Prata. La congiura fu
scoperta e Francesco magnanimamente perdonò il fratello, mentre il conte Tolberto venne recluso a vita.
La Ystoria de mesier Francesco Zovene; cap. 3.
162 La Ystoria de mesier Francesco Zovene; cap. 4.
164 JONES, The Malatesta of Rimini and the papal State, p. 90; FARULLI, Annali di Sansepolcro, p. 28; COLESCHI,
Sansepolcro, p. 58-60.
165 COLESCHI, Sansepolcro, p. 60.
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La cronaca del Trecento italiano
167Sono Magio di Giacomo, calzolaio Gonfaloniere per il Terzo di Città; Pasquino, pignattaio del Terzo
di San Martino e Migliorino, cerbolattaio di Camollia.
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Carlo Ciucciovino
Campo, e tutte le vie d’uscita da Siena. L’obiettivo è semplice e terribile: massacrare quelli del
Bruco, i Tolomei, i Nove ed il vescovo, e riformare il governo cittadino, consegnando il potere
ai Dodici. Il comportamento dei capi dei congiurati, i loro visi lieti ed ardenti, alcune frasi,
insospettiscono i Signori, che fermano alcuni Nobili e Dodici e popolari. Temendo che il
complotto sia scoperto, i congiurati decidono di accelerare i tempi e deliberano di passare
all’azione un paio di giorni prima. La notte dal 29 al 30 di luglio il capitano del popolo deve
introdurre gli armati nella sua camera. Egli, solo, con le chiavi in mano è alla porta, per
consentire l’ingresso ai congiurati; ma, nella notte, uno dei Signori, nervoso, si alza e, udendo
lo strepito e busso d’arme nella camera del capitano, sveglia gli altri signori e tutti, scortati dalla
guardia del corpo, vanno nella camera del capitano che sorprendono, solo, con le chiavi in
mano vicino all’uscio. Gli domandano cosa faccia, «lui aviluppò di parole e non seppe che
dire». Francino, colto dal panico farfuglia qualcosa, ma il suo atteggiamento è una confessione
vivente: i Signori gli fanno togliere le chiavi, respingono gli armati che, alla spicciolata, stanno
convergendo verso il palazzo e montano una febbrile guardia armata nella notte. Il mattino
seguente, il 30 di luglio, i Gonfalonieri, secondo il piano, fanno armare i cittadini dei Terzi, i
Dodici ordinano i loro partigiani, e tutti convergono verso Piazza del Campo, sono circa
duemila persone. Magio, il Gonfaloniere del Terzo di Città, prende Porta Salaia, Pasquino, il
Gonfaloniere di San Martino, il Porione e Migliorino, il Gonfaloniere di Camollia controlla la
Croce del Travaglio. Quindi, si dà inizio all’assalto al palazzo. I Signori si difendono con
dardi e sassi; uno di questi colpisce il bacinetto di Pasquino che cade, gettando nello sconforto
i suoi che lo ritengono morto, mentre è solo svenuto. Alcuni dei congiurati si sono recati ad
assalire la Compagnia del Bruco ed hanno ingaggiato battaglia con i loro armati ad Ovile;
data la sorpresa e la superiorità numerica, in breve li mettono in fuga, incalzandoli con lance,
balestre e spade, «e chi fugia di qua, e chi di là, e chi s’aguattava, e chi si gettava per le mura.
Le donne loro stridendo scapegliate co’ le culle in capo, co’ fanciulli in braccio e per mano»
fuggono impaurite. I capi dei Dodici, Giovanni, Francesco, Ambrogio Binducci e Francia
appiccano personalmente le fiamme ad otto case. Il Bruco viene provvidenzialmente soccorso
dai Nobili e dai Nove, che, prontamente armatisi, si attestano contro i rivoltosi. Ugurgieri ed i
suoi, i Tolomei ed i Malavolti si scontrano con i Dodici all’Arco dei Rossi, mettendoli in fuga.
Altri combattono contro Magio a Porta Salaia, e con Migliorino alla Croce del Travaglio. I
soldati di presidio al Palazzo dei Signori, affrontano i seguaci del caduto Pasquino, li
disperdono e mettono in fuga, senza che questi oppongano più resistenza: e spariro come
nebbia. Domenico e Gianni Fei e Francesco di Lenzo sono catturati armati in Camporegi. Piano
piano i combattimenti in città in questo caldissimo 30 luglio si spengono, la rivolta è stata
stroncata. Il primo agosto il governo ordina la decapitazione di quattro di quegli esponenti
dei Nove e dei Dodici che da qualche giorno sono stati fermati e detenuti a palazzo. Vengono
infatti attribuite a loro le responsabilità del tentativo di rivoluzione, essi sono: Antonio di
Bindotto Placidi, Nicolò d’Ambrogio di Nese, tintore, Gualtieri di Riccardo Betucci e Petroccio
di Pietro, coiaio. Viene anche decapitato l’unico armato scovato nella camera del capitano,
Palmerino di Palmerino, ligrattiere. Mentre ha luogo l’esecuzione pubblica, il popolo grida:
«Piglia il capitano!», Francino viene vestito di scarlatto, il colore del sangue, e gli viene
tagliato il capo. I Salimbeni hanno radunato 1.500 fanti e 40 cavalieri, ma non sono intervenuti
nella battaglia, probabilmente perché non avvertiti dell’anticipo della data della rivolta. Il
Gonfaloniere Magio di Giacomo, che si è nascosto, viene denunciato e fatto catturare da
Giovanni di Meo, calzettaio, che viene premiato con 100 sonanti fiorini. L’11 agosto, Magio
viene decapitato a Porta Salaia, la porta che egli ha cercato di conquistare. Gli altri
Gonfalonieri, Pasquino e Migliorino, riescono a dileguarsi. I signori Riformatori ordinano che
tutti depongano le armi e ordinano il rientro in città di tutti coloro che hanno cercato scampo
nella fuga, sono esclusi dal beneficio solo coloro che sono elencati in una lista di proscritti. In
pochi giorni cinquecento Senesi rientrano. I Dodici ed i loro discendenti vengono esclusi dai
pubblici uffici per cinque anni. Il compito di amministrare la giustizia sulla rivolta viene
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La cronaca del Trecento italiano
affidato a Leonardo di ser Sozzo, Pietro di Lando e Benedetto di Corazaio. Questi ordinano
che le case dei Gonfalonieri traditori vengano distrutte, condannano centotrentuno dei Dodici
ed ottantacinque del popolo, nonché dodici dei Nove rinnegati, tra i quali ser Branca Accarigi.
Multe salate vengono imposte agli altri, per un totale di 20.000 fiorini. Il 12 agosto i Fiorentini
inviano cento cavalieri al comune amico, quale presidio per i Riformatori. Guido del conte
Ricciardo da Modigliana, che dovrebbe essere in carica fino al 14 settembre, evidentemente
consapevole di aver fatto qualcosa di male, il 20 agosto si dilegua. La ritrovata pace e serenità
viene festeggiata con una solenne laude e reverentia de la Vergine Maria. Aldobrandino di
Tebertelli da Pistoia viene nominato nuovo bargello, ma in seguito si scoprirà che questi è «un
tristo ribaldello da niente».168 Donato e suo figlio Neri, i cronisti di Siena, ci tramandano il
panegirico dei Riformatori: «E sapiate ch’e’ Riformatori sono e’ migliori artefici d’ogni
maniera del mondo, e non attendendevano a robare, e di 100, 99 morivano mendichi, e de’
fatti del comuno erano lealissimi, ed erano nimici de’ ladri e de’ Grandi, e non voleano
nissuna mangioria in Siena, ed erano temuti molto da’ gentiluomini e da’ Dodici, e ognuno
avea paura di loro; ed era magiore a dire “Io so’ de’ Riformatori”, che a dire: “Io so’ de’
Signori”».169
168 Cronache senesi, p. 640-643. Una breve sintesi in CARNIANI, I Salimbeni, p. 248-249.
169 E’ interessante notare che i Riformatori percepiscono un gettone di presenza di 2 soldi a consiglio, ma
solo se sono perfettamente puntuali; se arrivano mentre la campana ne sta sollecitando la
partecipazione, il compenso si riduce ad un soldo, per annullarsi se ritardano. Cronache senesi, p. 643-
644.
170 La descrizione continua: «né vi mancavano dell’altre case per commodità e servigio di soldati e
d’altre genti, che co’ governatori e ministri del papa dovevano habitarvi; vi era poi un corridore, che,
partendo dalla faccia della fortezza verso la piazza, andava infino al Duomo, e per le case di quello e del
palazzo dei governatori, allhora detto del papa, si conduceva infino all’altro del podestà, et indi al
palazzo dei signori Priori, i quali allhora non erano come hoggi sono congiunti, e ciò fu fatto così per
commodità de’ superiori, affinché potessero più sicuramente e senza essere veduti andare dalla fortezza
al palazzo loro e de’ signori Priori, dove si teneva per l’ordinario un buon corpo di guardia, come
perché nessun cittadino potesse fare cosa alcuna in piazza, che dalla fortezza non vi si potesse dar
rimedio; e era questo corridore alto più di 50 piedi, e grosso più di 6, tutto ornato di merli e con alcuni
sporti in fuora aperti di sotto, atti molto alla difesa, e fatti acciocché le genti non si potessero accostare
alle mura per tagliarle, le quali essi chiamavano mura incannestrate, e piombatoi; e vi erano due tele di
muro da due lati del corridore, tanto alte, che ritenevano che quelli che v’andavano non erano da quei di
fuori veduti, le quali tele di muro erano anch’esse dagli antichi chiamate mura incannestrate; vi era poi
un altro corridore, che dall’istessa fortezza partendo, si conduceva alla porta del borgo di Santo
Antonio, dove era un’altra minor fortezza, detta dagli huomini di que’ tempi Cassaro, con 6 torri forti, e
con mura altissime e gagliarde, e con due ponti levatoi, per poter mettere e cavar genti a voglia del
castellano, e di coloro che governavano la città per la Chiesa: il corridore era largo 10 piedie havea i
merli come l’altro della piazza, ma non tanto alto ugualmente per tutto, havea ben dalli due lati le due
tele di muro, come l’altro per la medesima cagione del non esser vedute le genti dagli huomini della
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Carlo Ciucciovino
terra, ma ben da quelli della fortezza; ultimamente dalla banda verso la piazza vi erano 3 torri forti e
gagliarde, con 3 ponti levatoi bene incatenati e inchiodati, per li quali era l’intrata principale della
fortezza, e erano appunto dove hoggi è il fine della piazza della paglia, e dove si comincia a salire per
andare al monte; e vi erano fosse attorno honestamente larghe, con li rovellini, chiamati dagli antichi di
quei tempi barbacani, e dentro v’erano i trabocchi e manganelli, strumenti bellici, che stavano allora per
offendere da lontano i nimici co’ sassi, balestre, frecce e altre saettume di più forti in gran quantità, con
bombarde e spingarde, così dette da loro, che anco allora in simili fabbriche solevano, ma in poco
numero, starsi, tutte levate dalle munitioni, e luoghi dove stavano le massarie e gli arnesi della città».
171 PELLINI, Perugia, I, p. 1111-1113.
172 SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1091-1092. Il cardinale d’Alba, che era a Bologna, rientra ad
Avignone.
173 COGNASSO, Visconti, p. 250; si veda anche ANDENNA-BORDONE-SOMAINI-VALLERANI, Lombardia, p. 545-
546.
174 CORIO, Milano, I, p. 835; Chronicon Estense; col. 493-497; COGNASSO, Visconti, p. 250.
175 Pro ut nunc moris erat pugnatoribus, dice Annales Mediolanenses, col. 745-746.
177 Chronicon Estense; col. 497. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 267 che scrive: «et questo fu perché le
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La cronaca del Trecento italiano
183 Sono Niccolò di Zucchero, tavoliere, ser Ghiberto di ser Alessandro, Lodovico di ser Gherardo della
Fioraia, Giovanni di Mone, biadaiuolo, Giovanni di Cenni, vinattiere. STEFANI, Cronache, rubrica 724.
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Carlo Ciucciovino
vedete parca e ristretta”. Uguccione, essendo stato tacito ad ascoltar lo Strozzi, perseverando
a star mutolo per buona pezza, quasi non risoluto di quello che avesse a rispondere, poi, rotto
il silenzio con un gran sospiro, disse: “Piaccia a Iddio, Carlo, che noi.con tirar tanto queste
redine non le spezziamo. Voi se volete farmi amico Piero, fatelo, che non mi sarà discaro”».
Dopo l’accordo, a Guglielmo, figlio di Uguccione, «giovane di maggior pompa che senno», il
legato di Bologna concede un grosso stipendio.184 La situazione economica della famiglia di
Uguccione migliora vistosamente, ma la sua reputazione viene irrimediabilmente
compromessa, ed apertamente si dice di lui che «per gli interessi privati non mirava più al
ben pubblico».185
Una delle cose peggiori dell’ammonire è che se un membro di una famiglia viene
ammonito, tutti i suoi stretti congiunti gli vengono associati nell’ammonimento. Tre famiglie
importanti incorrono in questa disavventura: il 22 aprile viene ammonito Priore d’Arrigo dei
Sigoli, del quartiere di Santo Spirito, popolo di San Nicolò; nello stesso giorno, la stessa
sventura capita a Uberto de’ Benvenuti, stesso quartiere, ma popolo di Felice in piazza. Agli
inizi di gennaio del ’72 viene ammonito Zanobi di Neri de’ Macigni, quartiere di San
Giovanni. La decisione su quest’ultimo è stata soffertissima: Rosso de’ Ricci è stato colui che
ha promosso la condanna, ma per ben tre volte i colleghi rifiutano il provvedimento, Rosso,
furibondo dice che ripresenterà la sua richiesta per 100 volte. Il consiglio si trascina dalle due
di sera fino all’alba del giorno seguente,186 quando la brigata stracca, vedendo i trecento
cittadini presenti a chiedere, estenuati, che concedano al Ricci l’ammonizione, il consiglio dei
Ventiquattro cede.187
§ 59. Macerata vuole che le venga restituita la sede della Curia Generale
Nella Marca vi è un dibattito se la residenza della Curia Generale debba rimanere a
Fermo o tornare a Macerata. Di Fermo vengono decantate la salubrità del luogo, la possente
fortezza del Girifalco, la presenza di uno Studio generale, cioè di un’Università degli studi, e
la vicinanza al mare. Macerata ha dalla sua il numero della popolazione, la tradizione di
accoglienza verso i forestieri e la grandezza dello Studio generale, inaugurato da Nicolò IV,
con molti dottori e insegnanti. Una lega di comuni marchigiani invia al pontefice una
supplica perché scelga Macerata.188
184 50 ducati larghi dice CERRETANI; St. Fiorentina; p. 143. La stessa fonte dice che ad un altro figlio di
Uguccione vengono concessi ricchi beni ecclesiastici a San Miniato al Tedesco. STEFANI, Cronache, rubrica
726 scrive che Guglielmo riceve dal legato una provvigione di 40 fiorini mensili e conferma un terreno a
San Miniato per l’altro figlio.
185 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1371, vol. 3°, p. 36-38.
186 Quando sonata era la seconda volta per andare per li Gonfaloni.
188 COMPAGNONE, Reggia picena, p. 231-232 che riporta l’elenco vasto dei comuni che hanno firmato la
supplica.
189 PELLINI, Perugia, I, p. 1115.
190 Sono rientrati anche almeno due dei cinque ambasciatori inviati in Francia all’inizio dell’anno: messer
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La cronaca del Trecento italiano
haver pure in quella novità a(z)zoppato un minimo seguace della contraria fattione ed
affermano che se vi fossero stati essi non sarebbe il fatto andato in quella guisa». I due
facinorosi si propongono dunque di usare la violenza contro quei pochi aderenti dei Raspanti
rimasti in città. Ma l’energico cardinal Bituricense veglia ed impedisce che quegli huomini
pronti di mano e d’ingegno possano passare dal mugugno al tumulto. Esistono comunque altre
maniere per praticare la vendetta nei confronti dei Raspanti esiliati, e prendere vie per far loro
noiosa la vita: Francesco ed Oddo usano la loro influenza per far perseguitare alcuni dei
fuorusciti. Si presta alla cosa un ser Filippotto, ufficiale a Norcia ed Orte, egli fa catturare a
Norcia Berardello del Priore Berardelli e suo figlio Sinibaldo. I due sventurati vengono
torturati per far loro confessare un’inesistente congiura, ma la loro forza d’animo e la loro
prudenza li induce a negare ostinatamente ogni tradimento, malgrado i tratti di corda che
slogano le loro giunture. Senza prove, ser Filippotto è costretto a liberarli. Un analogo
trattamento, con analogo risultato Filippotto esercita ad Orte contro messer Pietro di
Vinciolo.191 Vengono inviati ad Avignone sei nuovi ambasciatori.192 Non solo contro gli
esiliati, ma anche contro i Raspanti rimasti in città, si accaniscono i Nobili ora che sono al
potere. Il sindaco della città, responsabile di inquisire i pubblici ufficiali, avendo constatato
che «per l’adietro tutti quelli che havevano le cose pubbliche maneggiato, erano non poco e di
facultà e di ricchezza augumentati», processa e condanna molti ex-funzionari, tra i quali
Angelo di Buoncambio Buoncambi, Seppolino di Giovanni di Luca e Vagne di Ceccolo,
«conservatori della moneta al tempo della guerra».193
195 Monumenta Pisana; col. 1064; RONCIONI, Cronica di Pisa,p. 256 e nota 373 ivi.
196 BONAFEDE, L’Aquila, p. 114; ANTONIO DI BUCCIO, Delle cose dell’Aquila, col. 738-739.
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d’oro.
200 PELLINI, Perugia, I, p. 1114.
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l’esercito cristiano si scontra con quello ottomano a Černomen sulla Maritza, i due fratelli e
despoti serbi trovano la morte in battaglia. Tutti i signori macedoni sono costretti a
sottomettersi ai Turchi. Anche Bisanzio non può fare a meno di riconoscersi come tributaria
del regno ottomano. Quale migliore prova di quanto fosse fondata l’appassionata richiesta
dell’imperatore perché l’Occidente si mobilitasse per una crociata?203
203 NORWICH, Bisanzio, p. 386; OSTROGORSKY, Impero bizantino, p. 485-486. Il nome greco del fiume Maritza
è Euros, oggi Cernomen si chiama Ormenio; la sproporzione di forze in campo è notevole: per l’esercito
serbo si parla di 70-80.000 combattenti e quello turco 800 uomini. L’esercito turco è ottimamente
comandato da Lala Sahin Pascià e Gazi Evrenos, probabilmente questi hanno condotto un attacco
notturno a sorpresa contro gli attendamenti serbi. La corazza pesante dei serbi diventa un grosso
svantaggio nel combattimento sulle rive del fiume.
204 CONFORTO DA COSTOZA, Cronaca vicentina, p. 3.
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nascondano sotto la sentina del legno, vengono scovati, e, senza neanche portarli a Pisa,
impiccati ad un olmo nella piazza di Sant’Antonio a Livorno.208
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donne e dai fanciulli; gli abitanti sono pochi e poverissimi. Bernabò promette di ricostruire e
restaurare prontamente la sfortunata città. Il giorno seguente, il vescovo, accompagnato dal
treantaseienne cronista di Reggio, l’abate Pietro di messer Franceschino di Gazata, si reca a
far visita a Bernabò e Regina. L’incontro è imbarazzato: Bernabò è in guerra con il papa e
sente il bisogno di giustificarsi, è lecito difendersi, ed egli ha offerto una tregua alla Chiesa,
ma sono le armate della Chiesa che non intendono osservarla, ora il suo carattere focoso gli
prende la mano, ed il signore di Milano passa alle minacce, dicendo che se il papa vuole la
guerra, ebbene egli ne farà una tale che se ne serberà memoria in eterno.212
«Allorché i Visconti presero possesso di Reggio, ne trovarono il territorio comunale
ridotto a ben poco. Lo serravano come in una morsa a mezzodì i Fogliani e i Canossa, che,
salvo un breve tratto occupato dai Manfredi e dai Roteglia, tenevano tutta la linea dei colli;
dietro di loro stavano i Dalli, i nobili da Bismantova, da Vallisnera e dalla palude; i Boiardi, i
Pico, i Pio si assiepavano ad oriente; mentre scaduti di forze i Sessi e Gazzata, Correggeschi e
Gonzaga si affollavano al piano e ad oriente».213 Bernabò inizia immediatamente ad attuare la
sua politica: lasciare ricchezze nelle mani dei feudatari, che debbono rendergli omaggio, e,
contemporaneamente togliere loro ogni potere politico; essi debbono accogliere nei loro
castelli guarnigioni viscontee ed obbligarsi ad eseguire gli ordini del biscione.214 I primi
feudatari che si sottomettono ai Visconti sono i Manfredi, seguiti dai Correggio, costretti alla
dedizione dalle armi di Ambrogio Visconti nel novembre del ’71.215
215 Guido da Correggio è colui che si è sottomesso, suo fratello Azzo è a Ferrara e il marchese d’Este,
credendo che sia d’accordo con Guido, lo sbatte in prigione, per poi ripensarci e liberarlo. BALLETTI,
Reggio, p. 194-195.
216 500 fiorini sono stati già pagati dagli ambasciatori, 500 li deve dare il contado, ne mancano quindi
1.500; si spera di raccoglierli tassando 500 cittadini di 2 fiorini e 500 per un fiorino.
217 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 237, nota.
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rivolgono al conte Ugolino della Corbara, in splendidi rapporti col papa e la sua corte, perché
ottenga una riduzione del sussidio. La Vigilia di Natale gli Orvietani inviano 700 fiorini alle
casse papali, ma il parlamento di Montefiascone stabilisce che Orvieto ne debba pagare altri
1.000,218 Il cardinale di Santa Maria in Trastevere ordina che il primo di ogni mese il comune
di Orvieto invii a Todi, all’ufficiale della camera, il denaro necessario a pagare gli stipendi di
due bandiere di cavalli.219
218 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 237, nota.
219 Un migliaio di fiorini al mese. Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p.
238, nota 2.
220 DEGLI ALBERTI, Trento, p. 255.
222 CORIO, Milano, I, p. 835; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 268; Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del
225 PELLINI, Perugia, I, p. 1118. RONCIONI, Cronica di Pisa,p. 257 scrive che la lega, annunciata a Pisa il 28
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La cronaca del Trecento italiano
§ 75. Muzio Attendolo, futuro Sforza, sceglie i modelli della sua esistenza
Gregorio XI dona a John Hawkwood, capitano e gonfaloniere di Santa Chiesa, Cotignola
e Bagnolo. Il condottiero inglese fa edificare una fortezza sulle terre di Giovanni Attendolo,
padre del bambino Giacomo, il futuro grande condottiero Sforza. Con l’Acuto milita il conte
Alberico da Barbiano (o da Zagonara), entrambi capitani della Compagnia di San Giorgio; la
loro presenza infiamma sicuramente la fantasia di Muzio.228 Alberico da Barbiano, conte di
Cunio, «huomo di grande valore nell’armi», introduce l’uso di un’armatura completamente
d’acciaio, che sostituisce il cuoio cotto da cui sono finora prevalentemente protetti i militi.
Alberico gode di tale reputazione militare che, catturato dai Bretoni, venne riscattato da
Bernabò Visconti a peso d’oro. Alberico verrà riconosciuto come il ristoratore della militia
italiana, e dalla sua scuola di guerra discenderanno le due grandi scuole militari del secolo
seguente, quelle di Sforza e di Braccio da Montone. Il grande merito del conte di Cunio è
quello di aver progressivamente allontanato le feroci compagnie oltremontane per
sostituirvisi con compagnie composte prevalentemente di Italiani, forse non meno violenti
degli stranieri, ma, in qualche maniera, più attenti alla cultura locale e, in definitiva, più
graditi alle popolazioni, che, almeno, ne comprendono la lingua.229
227 CORIO, Milano, I, p. 835; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 269; Annales Mediolanenses, col. 746.
228 CORIO, Milano, I, p. 835.
229 PELLINI, Perugia, I, p. 1114.
231 Cito dalla traduzione di Rolando Dondarini: «Non allo scopo di dover istruire il mio signore su
qualcosa, poiché non saprei né potrei, che anzi sarebbe per me come aiutare il sole con le fiaccole, ma
per informarlo delle cose che di fatto persistono e di come si presentano perché riceva avvertimenti su
fatti la cui ignoranza rende rischioso il governo delle terre della Chiesa che al momento sono soggette
alla mia autorità, ho raccolto le seguenti note». DONDARINI, Un volto riemerso di Bologna medievale, p. 122.
Per la Descriptio Romandiole si veda MASCANZONI, La Descriptio Romandiole, mentre per Descriptio civitatis
Bononiensis eiusque comitatus, e Praecepta, consultare DONDARINI, Un volto riemerso di Bologna medievale.
Rolando Dondarini è lo studioso che è riuscito a ritrovare il documento originale del cardinale Anglico
dando nuovamente credibilità a questa relazione che ne aveva persa per l’errata trascrizione
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Carlo Ciucciovino
raccomandazione che Anglico fa al suo successore: «inoltre stia attento il mio signore che
questa città (Bologna) non può mancare di grano e chi ha visto e toccato con mano questo
tasto può testimoniarlo, poiché non vi è, a mio avviso, cosa al mondo che possa suscitare in
questa città tanto rumore, turbamento e pericolo quanto questa».232 In questo documento è
molto interessante la procedura per l’ascolto delle richieste e delle suppliche delle persone, di
qualsiasi condizione e censo siano. Un dottore di sicura fiducia le raccoglie, le valuta e le
sottopone, predigerite, al cardinale, che poi prende le necessarie decisioni.233
Nella descrizione della Romandiola il cardinale include tutto il territorio della Chiesa che,
Bologna esclusa perché oggetto di una trattazione particolare, va da occidente ad oriente, fino
alla Massa Trabaria. In quest’ultima sono incluse anche l’alta Valmarecchia e la Valle del
Savio, che quindi non sono oggetto della Descriptio. Anche il territorio degli Ubaldini, che
insistono sull’alta valle del Santerno, non fa parte della relazione.
I centri abitati sono definiti, in ordine decrescente di importanza, come città, castello,
villa, massa (un insieme di fondi), plebis (pieve), cappella, borgo. La descrizione di Bologna
fornisce l’estensione della cinta muraria della città e il suo grado di completamento. Ora,
traiamone qualche informazione, utile a meglio comprendere questa zona così importante e
strategica nella storia d’Italia. Anzitutto Bologna; la città ha una cinta muraria che si estende
per tre miglia e mezza, di questa fortificazione «la quantità di mura finite e completate con un
buon corridoio e coi merli è di 368 pertiche; […] l’ammontare delle mura non completate è di
1382 pertiche».234 Quindi solo il 21% della cinta può dirsi completata; purtroppo la relazione
non ci fornisce indicazioni sul grado di completamento del resto della fortificazione. Dopo
l’elenco delle porte cittadine, Anglico ci fornisce la descrizione delle possenti rocche che
custodiscono gli ingressi alla città. La fortezza di San Felice è ben costruita e “fortissima”. Le
altre porte sono vegliate da una buona torre con ponte levatoio e, meno la Porta delle Lame,
anche da un cassero in muratura. Nel Trivio di Porta Ravennate, in mezzo all’abitato, vi sono
due torri fortificate e collegate tra loro tramite un alto ponte aereo in legno.235
Interessantissima, per chi come noi studia le vicende del territorio e gli scontri armati che lo
devastano, è la descrizione delle fortezze e dei castelli che sono tutt’intorno alla città, con le
loro caratteristiche e la consistenza delle relative guarnigioni.236 Il documento relativo a
Bologna elenca i professori che insegnano nello Studio. Vi sono dottori che ricevono uno
stipendio decisamente sontuoso, come Giovanni da Legnano che incassa 400 fiorini all’anno
ed alcuni che non guadagnano il necessario per mantenere una famiglia, senza fare altri
lavori, come il signor Bartolomeo Mezzavacca che ha un salario annuo di 50 lire.237 Le
nazionalità degli assoldati sono le più varie, vi sono “Teutonici”, Inglesi, Burgundi, Ungari,
ottocentesca da parte di Augustin Theiner nel Codex Diplomaticus, redatta da una copia grossolanamente
scorretta della relazione. Vi raccomando la lettura del capitolo «Sulle tracce della “Memoria” smarrita»,
nello stesso studio del Dondarini, una vera avventura intellettuale.
232 DONDARINI, Un volto riemerso di Bologna medievale, p. 125.
234 DONDARINI, Un volto riemerso di Bologna medievale, p. 73. Le due torri in mezzo a Bologna sono quelle
236 DONDARINI, Un volto riemerso di Bologna medievale, p. 79-88; elenco qui solo i nomi di dette fortezze,
lasciando all’interesse di chi legge ricercarne i dettagli; nella pianura verso Modena: Castelfranco,
Manzolino, Piumazzo, San Giovanni in Persiceto, Crevalcore, Sant’Agata e Torre del Rastellino;
Nonantola e Bazzano, pur essendo nel Bolognese sono in possesso dei marchesi d’Este. Nelle montagna
verso Modena: Monteveglio, Crespellano, Oliveto, Serravalle, Samoggia, Savigno. Nelle zone montane
verso Pistoia: la torre di Pietracolora, Belvedere, Rocca Corneta, Monteacuto delle Alpi. Verso Firenze:
Caprenno, Baragazza, Granaglione, Casio, Bergi, Stagno, Battidizzo, Bonazzara. In pianura verso la
Romagna: Castel San Pietro e Budrio. In pianura verso il Po e le paludi: Torre dei Cavalli, Torre di
Molinella, Castello dell’Uccellino e Torre di Verga.
237 DONDARINI, Un volto riemerso di Bologna medievale, p. 77-79.
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La cronaca del Trecento italiano
Francesi, Spagnoli e molti Italiani, alcuni dei quali esponenti di illustri famiglie, i Colleoni di
Bergamo, i da Fogliano, i Canossa di Gesso, i da Correggio, i Brancaleoni di Castel Durante, i
Torelli di Mantova, i Ricasoli, i Lupi, Ungaro da Sassoferrato.238
I “fuochi” di Bologna e del suo territorio sono 10.893. Il numero dei fuochi, quindi delle
famiglie può, con qualche cautela, dare un’idea del numero degli abitanti del Bolognese.239 La
Descriptio provinciæ Romandiolæ, tratta di tutte le città che sono in tale provincia, tra le quali
Imola, Faenza, Forlì, Cesena, Bertinoro, San Leo, Sarsina, Ravenna, Cervia, Comacchio, Adria,
Rimini, poi le terre dell’episcopato imolese, quelle dei conti di Cunio, degli Alidosi, degli
Ubaldini, i castelli di Lugo, Massa Trabaria, Bagnacavallo, alcune ville e castra, in totale un
elenco di 298 centri abitati del territorio. Per ogni luogo, viene elencato il numero dei fuochi e
quindi anche da questi dati fiscali possiamo trarre un’idea del numero degli abitanti della
Romagna.240 Nel suo studio, Leardo Mascanzoni chiarisce che Bologna non è parte della
Romandiola, ma le è aggiunta, e che «la Romagna papale è così articolata: la Romandiola vera e
propria, il comitato di Bertinoro, Bologna e il suo distretto. Bologna non era dunque ai tempi
della Descriptio Romandiole una città romagnola, pur essendo politicamente ed
amministrativamente unita alla Romagna».241
molto interessante il capitolo che riguarda le vie di comunicazione. Leardo Mascanzoni sostiene con
validi argomenti che i Praecepta sono stati compilati prima della Descriptio.
241 MASCANZONI, La Descriptio Romandiole, p. 20-21.
243 Ne fanno parte Poccia, fratello di messer Francesco di Bettolo Arcipreti, Francesco di Lodovico di
messer Vinciolo, messer Oddo Oddi, Oddo di messer Baglione, messer Filippo de’ Montebiani, abate di
San Pietro, Golino di Malafarina e Tebaldo di messer Baldino.
244 PELLINI, Perugia, I, p. 1118-1119.
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tornino alle loro case. Si tende a ritenere che gli autori del tumulto siano stati i Nobili; anzi il
tentativo di rivolta era fissato per il 29 dicembre, prima dell’arrivo del cardinale, ma qualche
voce trapelata ha indotto i magistrati a sbarrare le vie che portano alla piazza, ed a
sorvegliarne strettamente l’accesso. I Boccoli avrebbero tentato di forzare il blocco nella notte,
ma sono stati respinti dalle guardie messe dall’Albornoz e dai sassi lanciati sulle loro teste
dalle torri. Qualcuno dei ribelli è stato catturato e gettato in prigione, ma il giorno seguente,
in occasione del nuovo anno, vengono liberati.246
momento è testimoniata dal fatto che in due mesi tre ambascerie di Saviglianesi si reca presso Amedeo.
249 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 164-165.
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La cronaca del Trecento italiano
§ 81. Patriarcato
Il 16 novembre, il patriarca di Aquileia raduna il parlamento e propone l’abrogazione
dell’antica costituzione secondo la quale le figlie venivano private dell’eredità paterna nel
caso in cui il genitore muoia senza figli maschi. La lodevole iniziativa di Marquardo riceve il
consenso generale, ad eccezione di Pagano Savorgnano e Ettore Miuliti, rappresentanti di
Udine, che vorrebbero diluire la minestra.252
§ 83. Siena
Genova stabilisce una rappresaglia contro Siena ed il comune della lupa invia
ripetutamente suoi ambasciatori a convincere la Superba a toglierla.254
Il primo novembre viene eletto il nuovo capitano del popolo di Siena, Nanni di Pagno,
nipote di Luca di Pagno. Il 4 dicembre entra in carica il nuovo Sanatore, il Genovese messer
Luigi del Fiesco: si comporterà male.255
I Dodici vengono completamente disarmati e quattro dei loro esponenti principali sono
imprigionati, per qualche sospetto di tradimento; essi sono l’orefice Francesco Tegliacci,
Giovanni del Panza, ser Meio Filippo e Jacomo di Feio. Il capitano del popolo li vorrebbe far
decapitare, e a fatiga camporno.256
§ 84. Genova
Il deposto doge Gabriello Adorno viene trasferito nel castello di Voltaggio, nell’Oltregiogo.
Il nuovo doge invia le sue truppe a conquistare il ribelle castello di Roccatagliata, sulla riviera di
Levante, nei domini dei Fieschi. Il capitano Tommaso Morchio con 10 galee genovesi assale e
conquista i covi dei pirati che infestano il Mediterraneo: Malta e Mazara. Il bottino che riesce a
razziare ha immenso valore. Il 10 dicembre sulla piazza del Palazzo Pubblico vengono decapitati
due guelfi genovesi accusati di ordire un colpo di stato.
Sfruttando la debolezza di Genova, alle prese con le conseguenze del colpo di stato che
ha deposto Gabriello Adorno, verso la fine di questo anno i Visconti «riaffermano la loro
giurisdizione su Savona e vi inviano un presidio militare per le fortezze».257
Approfittando di questo periodo di incertezze in Liguria e Piemonte, il vescovo
Giovanni Fieschi tenta di ritagliare per la sua schiatta un dominio nella zona. Il vescovo, nel
1370, cede a suo fratello Niccolò e ai suoi discendenti i diritti della Chiesa di Vercelli su alcuni
feudi, Masserano, Crevacuore, Moncrivello ed altri. È un sopruso, perché manca la superiore
approvazione ecclesiastica, ed è velleitario perché trascura le ambizioni viscontee nella zona.
252 DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 265-266. Questo Ettore è forse il notaio che ha accompagnato
Solone Sarvorgnano per il negoziato di pace con l’Asburgo.
253 Egli ha rinunciato al titolo per entrare nell’ordine degli eremiti di S. Girolamo, cfr. GIOVETTI, Brigida di
Svezia, p. 92 e 98-99. Alfonso, dopo la morte di Brigida, sarà il promotore della causa per la sua
canonizzazione.
254 Cronache senesi, p. 644.
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È quindi un tentativo effimero. Il doge Domenico Fregoso, nel 1371, invia l’esercito di Genova
ad occupare il castello fisclano di Roccatagliata. Il vescovo di Vercelli, Giovanni Fieschi, futuro
cardinale,258 arma ottocento cavalieri e li invia a soccorrere la fortezza. Quando i soldati
arrivano a Bargagli, alle porte di Genova, verso la val Trebbia; sperano che la città si sollevi e
quindi dia loro il modo di tagliare le linee di rifornimento ai Genovesi assedianti, ma il doge si
è ben provveduto ed ha schierato nella località una forte guarnigione al comando di Tommaso
de Illioni, che riesce a respingere l’aggressione.259 Mancando l’auspicata insurrezione ed
incontrando una forte resistenza, i cavalieri del Fieschi prendono la via del ritorno. In qualche
modo comunque, modo che non ci è stato tramandato dai cronisti, il castello rimane nelle
mani dei Fieschi, anche grazie alla grande mobilitazione dei territori a loro sottoposti che i
Fieschi sono riusciti a indurre.260
Francesco Vivaldi,261 per estinguere i gravosi debiti dei Genovesi nei confronti dei
sottoscrittori della compera della pace istituisce un moltiplico di 90 loca pacis (9.000 lire genovesi), i
cui interessi, componendosi al capitale iniziale, debbono portare alla progressiva estinzione del
debito, acquistando sempre nuove terre.262
261 Figlio di Leonello Vivaldi e marito di Margherita Spinola di Luccoli, servirà abilmente e fedelmente
Genova fino al 1395, anno della sua morte. STELLA, Annales Genuenses, p. 165, nota 3.
262 STELLA, Annales Genuenses, p. 164-165 e note 1 e 2 a pag. 165.
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La cronaca del Trecento italiano
dall’arrivo della figlia Francesca, che conduce con sé la piccola Eletta, di nove o dieci anni, e
suo marito; la famiglia viene per restare. Nel corso dell’anno il poeta, Manno Donati e il
medico Tommaso del Garbo sono i padrini di battesimo di un bambino, Francesco Alberti.266
§ 87. Le arti
La tomba di Emerico II di Quart, vescovo di Aosta dal 1361 al 1375, è stata eseguita nel
1371 ed è un ritratto veritiero del prelato. Questa figura è emblematica del desiderio che sorge
in questa epoca, e dalla fine del secolo precedente, di conservare per la posterità i tratti
fisionomici di alcune persone, importanti per il loro ruolo sociale. Nella statuaria il ritratto
naturalistico precede la pittura e la ragione dipende probabilmente dall’impiego di maschere
funebri.267
«Al paragone di tanti centri che fiorirono nella seconda metà del Trecento e del grande
concerto del gotico internazionale, Firenze decadde allora a un rango di periferia artistica,
mentre le vicende della società e dell’economia si andavano facendo sempre più difficili. […]
Eppure poche voci, - in parte di artisti immigrati o di passaggio – riuscirono a parlare lingue
diverse da quella orcagnesca anche dopo il 1370 circa, quando si perdono le tracce di
Giovanni da Milano e di Giottino».268
Un pittore di formazione bolognese, che opera a Bolzano, contribuisce a diffondere per
tutta la regione forme derivate dall’ambiente emiliano. La prima opera nella quale crediamo
di ravvisare la sua mano è del 1368 ed è una Annunciazione in San Valentino a Termeno. Un
poco più tardi, ma dopo il 1370, che è la data di morte di papa Urbano V, dipinge nel Duomo
di Bolzano il ciclo con le Storie di S. Urbano V, papa. Di qui l’artista va a decorare la chiesa di
Campitello di Fassa, di nuovo a Bolzano, nella chiesa dei Domenicani, a sovrapporre la sua
Leggenda di S. Sebastiano al ciclo giottesco della Battaglia di S. Maurizio; poi affresca una
Crocefissione nella chiesa di Sella e fa gli affreschi esterni nella chiesa di Caprile di Tesimo.
Queste e «molte altre opere offrirono ai pittori locali esempi di vivacità espressiva, di
corposità e insieme di delicatezza delle figure, che trovò immediato seguito».269
Nel 1371 Lorenzo Veneziano data e firma il Polittico dell’Annunciazione. Lorenzo si è
spinto ancora più avanti sulla via di una pittura sempre più “cortese”, «con recuperi di una
spazialità monumentale, ormai totalmente al di fuori della tradizione veneziana».
«Caratterizzano questo dipinto i bellissimi tappeti erbosi ricchi di fiori su cui posano i
personaggi».270 Tale percorso era già visibile nelle Storiette dei Santi Pietro e Paolo, agli
Staatliche Museen di Berlino, che «accennano a una narratività facile e gaia: sono episodi
trasformati e tradotti in eleganti racconti di favole cavalleresche».271 Nello stesso anno, il 1371,
l’artista esegue un trittico per l’Ufficio dell’arte della seta a Rialto, in cui la tavola centrale con
la Resurrezione «è opera straordinaria per la vampata di luce che fa balenare colori di smalto: il
rosso lacca, il celeste e il verde brunito contro le rocce verdi e ocra che tornano a chiudersi,
come un prezioso scenario dietro alla figura di Cristo».272
266 HATCH WILKINS, Petrarca, p. 272-275; DOTTI, Petrarca, p. 412-417. La figlia e la sua famiglia arrivano nel
272 D’ARCAIS, Pittura a Venezia, p. 59; il trittico è smembrato e la tavola centrale si trova nel Museo del
Castello di Milano.
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Carlo Ciucciovino
nelle ali, i Santi Francesco e Pietro, Giovanni Evangelista e Ludovico di Tolosa. Questa è la sua
unica opera firmata e datata. Questo artista, del quale non conosciamo né la data di nascita né
quella di morte, è documentato dal 1346, quando è immatricolato nell’Arte dei medici e
speziali di Firenze. Le sue ultime notizie datano al 1375. Niccolò viene ritenuto essere un
collaboratore di Nardo di Cione, infatti è teste alle sue ultime volontà nel 1365. Nel 1366 e
1367 opera nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore. A questo artista vengono attribuiti gli
affreschi del castello di Casaluce, appartenente a Raimondo del Balzo. Nel 1372 riceve un
pagamento per gli affreschi delle Storie bibliche per il convento del Tau a Pistoia, ritenuto il
suo capolavoro. Scrive Vinni Lucherini: «Secondo Skaug, Niccolò di Tommaso avrebbe
potuto assistere, nel febbraio 1373, all’arrivo a Napoli di Brigida di Svezia, la cui visione della
Natività proprio lui mise in scena nelle più antiche rappresentazioni figurative oggi
conservatesi».273 Negli affreschi del castello di Casaluce, Niccolò ha dipinto i ritratti del
vecchio Raimondo del Balzo, prossimo alla morte, e di sua moglie Isabella Apia.274
273 VINNI LUCHERINI, Niccolò di Tommaso, in DBI vol. 78°. A questo autore ci si riferisca per l’ampio
catalogo delle attribuzioni. Si veda anche la scheda biografica a cura di STEFANIA RICCI, in La pittura in
Italia Duecento e Trecento.
274 Su questi affreschi, BOLOGNA, I Pittori alla corte angioina, p. 326-327. Isabella d’Apia è Isabella d’Eppes.
Il castello di Casaluce che Raimondo del Balzo convertirà nella chiesa di Santa Maria ad Nives, piccolo
tempio sorto per custodire l’icona mariana della Vergine di Casaluce, è ritenuto il luogo dove l’infelice
Andrea d’Ungheria fu strangolato. Si veda FRANCESCO ACETO RICCARDO PRENCIPE, Il castello di Casaluce e
la committenza artistica di Raimondo del Balzo e Isabella d'Apia, Tesi di Dottorato di ricerca in Scienze
Archeologiche e Storico-Artistiche, anno 2008-2009, Università degli Studi di Napoli, Federico II. Questo
autore sottolinea che questo non è l’unico affresco che raffigura Raimondo e sua moglie, infatti un caso
precedente, risalente al 1355, è in Santa Maria al Casale, presso Brindisi. Francesco Prencipe osserva che
«abbiamo tre committenti legati ad un unico pittore: [Niccolò di Tommaso] la regina Giovanna (in
merito al polittico di Sant’Antonio Abate a Foria), Raimondo del Balzo gran camerlengo (per gli
affreschi di Casaluce), il successore alla carica di Raimondo: Giacomo Arcucci (per la lunetta di Capri)».
Il polittico di Capodimonte è l’unica opera firmata e datata da Niccolò, la data è il 1371.
275 MIKLÒS BOSKOVITS, Bonsi Giovanni, in DBI vol. 12°
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La cronaca del Trecento italiano
276 NOTT CAVIEZEL, Chiese gotiche nelle Alpi, in Il gotico nelle Alpi, p. 125.
277 NOTT CAVIEZEL, Chiese gotiche nelle Alpi, in Il gotico nelle Alpi, p. 131.
278 Per tutto il brano, NOTT CAVIEZEL, Chiese gotiche nelle Alpi, in Il gotico nelle Alpi, p. 123-137.
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CRONACA DELL’ANNO 1372
1 CHINAZZO, Guerra di Chioza, col. 703. Additamentum Secundum ad Chronicon Cortusiorum, col. 983
specifica 4 ottobre.
2 CORIO, Milano, I, p. 836.
5 Il marchese porta con sé Petrino e Bartolomeo di San Giorgio, conti di Biandrà, Enrico di Cereseto,
Giovanni Braida, Marcone di Bremide, Bertolotto di Trino e molti altri cortigiani. SANGIORGIO;
Monferrato; p. 208.
6 Secondotto, Giovanni, Teodoro e Guglielmo. SANGIORGIO; Monferrato; p. 208. Vedi anche a p. 215. Si
sono: «io sono vecchio e malato; metto me nelle vostre mani, con i miei figli, il mio paese, i
miei gentiluomini, il mio popolo e vi chiedo di far togliere l’assedio ad Asti, impegnandomi a
rifondervi tutte le spese che ciò potrà comportare». «Mio caro zio, - risponde Amedeo - mi
mettete in imbarazzo; certo, voi siete il fratello di madama Jolanda, mia madre, e i vostri figli
sono miei cugini germani, ma voi non ignorate certamente che messer Galeazzo Visconti ha
sposato mia sorella Bianca, ed io non so quindi chi debba aiutare. Cercherò di metter pace tra
voi, e, se non ci riesco prenderò parte contro colui che non avrà voluto intendere ragioni». Il
13 gennaio Giovanni muore, ha affidato le sue volontà all’onorata custodia del valoroso
Ottone di Brunswick e di Amedeo VI di Savoia.8
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La cronaca del Trecento italiano
folla. Le compagnie di città sono tutte vestite con abiti nuovi, e i festeggiamenti ed i bagordi
durano per tre giorni. Tra i Bolognesi vi sono tutti gli importanti signori della Romagna, i
Malatesta, i Varano, signori di Camerino, i Polenta di Ravenna, i signori di Imola. La
popolazione nutre grandi aspettative per questo cardinale che ha saputo sottomettere la
potente Perugia alla Chiesa. «Era riputato grandissimo e probo uomo, e dicevasi ch’egli avea
gran legazione e gran mandati dal […] papa, più che a uomo che fosse mai per la Chiesa».
Dopo pochi giorni, necessari al passaggio delle consegne, il cardinale Anglico Grimoard,
fratello del defunto pontefice, il 23 gennaio lascia Bologna, volgendo i suoi passi verso la
Toscana, il passaggio per il nord è infatti impedito dalla potenza del Visconti. Grimoard passa
per Firenze, poi si imbarca e veleggia verso Avignone. Grimoard lascia un giudizio incerto
nei Bolognesi, egli ha ottimamente governato, durando in vita suo fratello papa Urbano, tanto
che il cronista afferma: «Costui si poteva dire che fosse un santo per noi!». Ma, dopo la morte
del pontefice, sembra essere stato dedito solo ad accumulare «moneta infinita, dando male
risposte a i cittadini, non tenendo giustizia, essendo rubato dì e notte, e morti gli uomini in
villa e in città, e traendo gli uomini di bando». In poco tempo, Anglico ha disperso un
patrimonio di reputazione. Il Fiorentino messer Pietro Squarcialupi viene nominato vice
podestà di Bologna, essendo podestà un altro Fiorentino, messer Uguccione Buodelmonti.12
12 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 271-272, che scrive per il cardinale Anglico: «la soa signoria si fu a nui
assai bona, ma non troppo», distinguendo il periodo ottimo prima della morte di suo fratello papa e
quello pessimo successivo. Scarno GRIFFONI, Memoriale, col. 183. Monumenta Pisana; col. 1064 ci informa
che il 21 gennaio Anglico si imbarca per Avignone. RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 257.
13 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 529.
15 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 538 e J. Foissart, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 333.
1372
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Carlo Ciucciovino
dell’abate, la sua proposta riceve solo tre approvazioni e ben settecento no. Non c’è nulla da
fare: non si può forzare un responso di tale chiarezza; una legazione di dieci influenti cittadini
si reca dall’abate e dal rettore Gomez Albornoz, chiedendo che Spoleto venga rimessa in
possesso della sua libertà, come precedente alla venuta dell’abate. Le viene concesso, purché
ella accetti di pagare 5.000 fiorini d’oro in quattro rate ed accetti di sobbarcarsi l’onere degli
stipendi ai guardiani della rocca. Il consiglio comunale accetta la proposta il 18 febbraio. Le
cose però, come sempre, sono molto più complesse. Perché i castelli del territorio rifiutano di
considerarsi semplicemente tributari di Spoleto e dibattono su numerose questioni, che
Gomez è costretto a dirimere.16
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La cronaca del Trecento italiano
contradaioli, un certo Cucco trascende: strappa la spada di mano ad una delle guardie del
bargello, e le mena qualche colpo con questa. Preso, in marzo gli viene mozzata la mano
destra, e si può dire fortunato perché alcuni vorrebbero la sua testa.17
Italia suo figlio Lucio Lando, presumibilmente questo Corrado sarà un suo parente.
20 DE MUSSI, Piacenza, col. 517.
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Carlo Ciucciovino
altri fiumi, per guardarsi da’ Padovani».24 Prolungandosi eccessivamente il confronto tra
Venezia e Padova, ed osservando l’irritazione crescente di Venezia, il cardinale Bituricense
Pietro d’Estaing decide nuovamente di intervenire ed invia quali suoi mediatori di pace,
messer Pileo, conte di Prata ed arcivescovo di Ravenna e il vescovo e principe di Fermo
Nicolò Manciani. In effetti, gli illustri prelati, abili o fortunati, riportano qualche successo:
Venezia sembra accontentarsi della demolizione delle opere e Francesco da Carrara accetta di
procedere alla distruzione, salvo un giudizio da tenersi in seguito. Quando il signore
padovano fa disfare «le cave, le fosse et (gl)i argeri (argini)», Venezia alza il prezzo e vuole
che Francesco da Carrara proceda alla distruzione di tre case e di un certo numero di alberi.25
Francesco è indignato ed i due ambasciatori del cardinale tornano nella bella città della
laguna recando il rifiuto del signore di Padova ad aderire alle ulteriori «deshoneste
domande» della Signoria».26 I prelati, alla pressante ricerca di strumenti d’accordo
propongono l’arbitrato, ma lo strumento non viene accettato quando essi pongono
l’inevitabile domanda: che succede se l’arbitro dà ragione al Carrara? Infatti Venezia risponde
tagliente: «In novo facto, novo consigl(i)o».27 Però troppo importante è la pace sul fronte
orientale, quando i Visconti tormentano quello occidentale e allora si moltiplicano i tentativi
di mediazione. Il cardinal legato invia il vescovo di Siena, il Guascone fra’ Guglielmo, già
stato vescovo di Comacchio, e Nicolò d’Este manda Ugolino di Savignano. I nuovi
ambasciatori debbono udire Venezia addirittura rilanciare: ora occorre che Francesco da
Carrara demolisca anche un fortezza che ha fatto restaurare: la torre di San Boldo, «del
territorio di Belluno, al confin del Trivisano».28 Il vescovo di Siena, Guglielmo il Guascone,
informa minacciosamente che, un eventuale arbitrato che dia ragione al Carrara, se non
accettato da Venezia, vedrebbe la Chiesa schierarsi apertamente con il Padovano. La Signoria,
che non difetta di immodestia, risponde «che elli se credeva ben poder defender, et cerca
queste haver el saver e’l podere».29
Francesco intanto, si è rivolto al suo protettore, il re d’Ungheria, Ludovico d’Angiò,
informandolo direttamente e tramite ambasciatori dei fatti e chiedendogli aiuto materiale: che
blocchi i passi, impedendo eventuali rifornimenti e rinforzi a Venezia, che mandi almeno un
migliaio di uomini d’arme e possa dar aiuto con le sue dieci galee armate che sono alla fonda
nel porto di Zara.30 Il re Ludovico invia sollecitamente in Italia il suo plenipotenziario, il
vescovo delle Cinque Chiese, accompagnato da Stefano e da una scorta di Ungari.31 Francesco
ha tratto facilmente dalla sua il patriarca d’Aquileia, sempre avverso a Venezia. Re Ludovico
invia a sua volta ambasciatori a Venezia, pregando la signoria di voler desistere dalle
insistenti pressioni sul signore di Padova, evitando così che «per una cosa di piçol volere a
pigliare un sì gran fuogo et onde seguire possa tanto male».32 Inutilmente, Venezia continua a
24 CHINAZZO, Guerra di Chioza, col. 702. Può darsi che sia la stessa congiura di Gratario narrata oltre e in
ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 241-242.
25 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 12; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p.
157-158. GATARI, Cronaca Carrarese, p. 45-46 e specifica che gli ambasciatori sono di ritorno a Padova il 22
febbraio.
26 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 13.
28 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 16-20 e CHINAZZO, Guerra di Chioza, col. 702.
29 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 21-23; CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova,
p. 302-304. Frate Guglielmo, francescano della Guascogna, già stato vescovo di Comacchio è stato eletto
vescovo di Siena da Gregorio XI l’8 novembre del 1371; Cronache senesi, p. 645, nota 1.
30 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 28, 30, 31.
31 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 159; LUCIO, Historia di Dalmatia, p. 297; GATARI,
Cronaca Carrarese, p. 47-48. Ibidem, p. 49 ci informa che il vescovo delle Cinque Chiese era affetto «da
infermità, la quale era levrosa», stabilitosi a Padova viene guarito dal dottore Guglielmo d’Arquà, che
gli ha somministrato una cura consistente nel «manziare vipere, serpenti e altri animali tuti velenoxi».
32 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 33; GATARI, Cronaca Carrarese, p. 49.
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38 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 158. Il 9 marzo Pantaleon Barbo arriva a Verona,
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intero trascorre in tali inutili trattative, fino a tutto l’8 aprile.40 L’ambasciatore di Francesco,
Giacomo Turchetto, si reca a Firenze ed a Pisa. Firenze risponde con una simpatia di forma,
ma invitando il Carrara a far la pace, mentre Pisa, nemica di Venezia, assicura aiuti sinceri.41
Anche Lucca assicura soccorso.42 Messer Guelfo Lanfranchi e un dottore in legge, ser Andrea,
sono gli ambasciatori pisani, le loro parole sono deliziose: «No esser da conferir et meter in lo
numero di savii, quando el visin move guerra all’altro vesin, et per liçera cason subito mecte
mano al ferro, et che sença pensar tropo suso sottomecte la soa prosperità, el so stado ai colpi
dela fortuna, et voiando in quello perseguir a che la soa mente i persuade, spesso prociede da
van pensiero, che per cason de questo, vignando fallido dela soa intencion oltra al damno, che
sen siegue, vien dicto che’l homo habia perdido el senno, et che un simplo et piçol error,
como tutto ‘l dì se vede, se trade drio molti errori et in tanto che se viene ala fine del so stado.
Et se ad prova dele sovradicte cose no occurrasse altro exempio, tollemo quello del patron
dela nave, el qual, menando la soa nave per lo mare, sempre desira el mare tranquillo et
bonaçoso, et quello trovando così, repatria alla propria casa con soa mercadantia a
salvamento. Et per contrario, se fortuna de tempo, como tutto ‘l dì advien, el trova in alto
mare, sia pur quanto el vuol forte et savio nell’arte, che nançi ch’el possa conçer (giungere) a
porto, mestir è che’l perda alcuna cosa. Unde advien che i liçieri pensamenti dei omini et i
començamenti simili ai dicti pensamenti spesse fiade hanno el fin simile, et molte fiade fanno
gran cadere». Belle parole, ma totalmente inutili per i Veneziani, che non si muovono un
pollice dalla loro posizione.43
L’8 di aprile il papa invia a Padova Uguccione di Thiene come suo legato per comporre
le differenze tra Venezia ed i Carraresi.44
40 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 38-43. Per le trattative si può vedere SAMBIN, La guerra
del 1372-1373, cap. 3.
41 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 45-47; GATARI, Cronaca Carrarese, p. 50.
43 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 48. Il punto di vista veneziano è in Raphaini Carasini
Chronicon, col. 433-435. Si veda anche la sintesi di KOHL, Padua under the Carrara, p. 120.
44 DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 268.
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La cronaca del Trecento italiano
cariche pubbliche e, con cauzione, dovevano sciogliere ogni alleanza e rinunciare per dieci
anni ad offendere i cittadini. Nardo di Gorio ed i suoi, inoltre, per un anno ricevono la
proibizione di recarsi al palazzo del comune, se non espressamente convocati. Sarà una pace
labile.46
riporta il fatto, ma ne equivoca la sequenza temporale. Anche LEONARD, Angioini di Napoli, p. 541. DE
BLASIS, Le case dei Principi angioini, p. 391-392.
49 BALLETTI, Reggio, p. 195-196.
50 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 273, che, sconsolatamente scrive: «Non so che ne verrà!».
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biscione. La bastia della Chiesa è in località Ziexi (o villa de Cesiis o de Zesiis), cioè quella che
oggi si chiama Bastiglia.51
55 In realtà è qualcosa di più della persuasione: Bartolo è alla disperazione, assediato dai creditori non sa
a che santo votarsi, e Carlo Strozzi e Michele di Vanni di ser Lotto lo sostengono finanziariamente,
“comprandoselo”.
56 Gennaio-febbraio 1372.
57 “Che niuna legge si potesse per l’innanzi deliberare in palagio, in danno, né beneficio della parte (…)
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La cronaca del Trecento italiano
essi siano i rei, domanda alla quale non si può rispondere che con una negazione, e
pretendendo allora la consegna della fava nera, a garanzia della loro sincerità. Ovviamente,
ora la legge viene approvata, ma suscitando la riprovazione di chi è ancora animato da senso
di giustizia.58 La corda è stata però troppo tesa, e, durante il gonfalonierato di Andrea
Mangioni,59 gli “amanti del bene pubblico” che seggono tra i Priori, Giovanni di Luigi dei
Mozzi, Lapo da Castiglionchio, Simone di Rinieri Peruzzi, Giovanni Magalotti, Luigi di Lippo
Aldobrandini, Ghino di Bonardo Anselmi, Barna di Valorino Curianni, Andrea di Veri
Rondinelli e Salvestro de’ Medici, iniziano a riunirsi fuori del palazzo pubblico. Ma è contro
la legge riunirsi in più di dodici persone in luogo segreto, ed essi mostrano di andare a far
visita a Simone Peruzzi, ammalato, ma col proposito reale di giurare un’alleanza; essi sono in
tutto una trentina. Qualcosa, inevitabilmente, trapela, ed i “congiurati”, per non essere
accusati di pratiche occulte si riuniscono apertamente, in quarantotto, a San Pietro Scheraggio
e di qui si recano dai Signori per rivendicare la loro antica lealtà al comune, e l’inesistenza del
supposto crimine di riunirsi per congiurare. Affermano che non ritengono sia vietato
incontrarsi «per rammaricarsi del misero stato in cui si trovavano, parendogli d’essere schiavi
de’ Ricci e degli Albizi, e non uomini liberi» invocando una qualche misura e rimedio per
correggere i mali. Tira una brutta aria quando si alza a parlare Jacopo Gavacciani, un
partigiano degli Albizi, ma l’intervento risolutivo è quello di Filippo Bastari, tre volte Priore e
due volte Gonfaloniere, che si schiera dalla parte dei galantuomini. L’evento fa perdere la
testa agli Albizi ed ai Ricci, che iniziano ad insultarsi a vicenda, i “congiurati” non perdono
l’occasione, fanno sciogliere la riunione, ed ottengono che venga creata una commissione,
composta di 56 uomini, i Priori, i Gonfalonieri di compagnia, i dodici buoni uomini, i capitani
di parte e dieci eletti, due per quartiere, più due Grandi. Il compito della commissione è
appurare quale sia «la cagion degli scandali e quale […] il rimedio a levargli». La discussione
dura per tutto il mese d’aprile, ed infine la commissione ordina che tre degli Albizi e tre dei
Ricci, i capi,60 siano esclusi per cinque anni da tutti gli uffici pubblici.61 Ma ancora non è tutto:
un cittadino di qualche reputazione, Migliore di Vieri Guadagni, che, per questione di un
podere, ha denunciato Francesco degli Albizi, provocando la sua iscrizione tra i Grandi, viene
imborsato tra i Gonfalonieri di giustizia, e la sua estrazione per gennaio è certa. Egli, nemico
giurato di tutti gli Albizi, meno due, Alessandro e Bartolomeo di Nicolò degli Albizi, avverte i
suoi amici di rinnegare il proprio casato, e, eletto, ordina una riforma secondo la quale
nessuno degli Albizi e dei Ricci possa ricoprire alcun ufficio in città.62
58 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1372, vol. 3°, e STEFANI, Cronache, rubrica 730.
59 Marzo-aprile.
60 Piero degli Albizi e Uguccione dei Ricci, Pepo e Francesco degli Albizi e Rosso e Giovanni dei Ricci.
61 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1372, vol. 3°, STEFANI, Cronache, rubrica 731-732; CERRETANI,
Fiorentina, p. 144-148.
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mandato ad offerir».63 La guerra non è comunque imminente, viene infatti tentata la strada
della mediazione, ognuna delle parti nomina i suoi arbitri sui confini; per Venezia sono
Giacomo Moro o Mauroceno, Lorenzo Dandolo, Giacomo di Priuli, Taddeo Giustinian,
Pantalon Barbo; per Padova, messer Luigi Forzatè, Argentin degli Agredi, dottore in legge,
Giovanni dei Dondi o dall’Orologio, “fisico e pittore”, Frucerin Capodevacca, Giacomino
Gaffarello, tesoriere del signore di Padova.64 Giovanni dei Dondi, che è «subtilissimo homo in
l’arte de depinger», disegna una mappa del territorio conteso, «con lo terren de Pa(do)va, con
i fiumi et con li discursi del(l)e acque et con i paludi et con le acque da mare et con i argeri sui
dicti paludi» molto ben fatta, e non totalmente a favore delle ragioni del Carrarrese.65 Il 3
maggio gli arbitri si incontrano nel territorio di Cavarzere, quello da cui si è deciso di partire
per determinare il confine tra Padova e Venezia. Bastano poche ore per comprendere che il
negoziato non condurrà a nulla: Venezia è determinata a volere una parte rilevante del
territorio padovano, senza infastidirsi ad esibire diritto, e, quando la Serenissima viene messa
con le spalle al muro, si barrica dietro un’affermazione arrogante: «Nui volemo così!». Frase
che brucia come una sferzata in pieno viso a Francesco di Carrara, che la riporta
ossessivamente nella sua corrispondenza a Ludovico, re d’Ungheria.66 Il punto non
negoziabile della posizione dei Padovani è il possesso dell’argine, se Venezia se ne
impadronisse, potrebbe distruggerlo, provocando la «destruction de plusier ville de
Pa(do)van». Mentre Francesco il Vecchio è in tali ambasce, arriva a Padova il Milanese
vescovo di Como, Enrico di Sessa; questi gli presenta le sue credenziali: una «lettera di
credenza de meser lo papa, bullada de soa bolla» e gli comunica «mes(s)er lo papa esser
desposto de volerlo aidar contra quilli de Venesia, et çascun altro, fin che ello haverà la
cappa». Sicuramente un messaggio di gran conforto per l’angustiato Carrarese, ma
l’ambasciatore, «secondo l’uso de’clerici, benché largo fosse de parole, al bisogno fo sença
algun fructo».67 Il 29 aprile arriva a Treviso Venceslao, duca di Sassonia e genero di Francesco
da Carrara. Di qui parte per Padova dove arriva il 3 maggio, accompagnato da settanta
cavalieri e «molta chomitiva di gente d’arme». Egli vuole assicurare al signore di Padova tutto
il suo sostegno. L’11 maggio riparte.68
Nel clima di sospetto e tensione che connota le trattative arbitrali, anche piccoli episodi
vengono ingigantiti e strumentalizzati per demonizzare l’avversario: un malfattore padovano
di nome Grataria,69 viene a Venezia, accompagnato da tre suoi degni compari. La Serenissima
però veglia con cent’occhi, e scruta ogni straniero sospetto, e Grataria è molto sospetto: ha
molto denaro, frequenta taverne e bordelli, straparla. Una prostituta lo denuncia alle autorità
veneziane. Grataria ed i suoi compagni vengono arrestati ed accusati di aver tramato per
assassinare gentiluomini veneziani avversi al signore di Padova. Gli sventurati vengono
ammazzati «como i porci s’am(m)aça in becharia», i loro resti straziati sono appiccati a forche
poste sulle vie che conducono da terraferma a Venezia, orribile monito a chi percorra quella
strada con strane idee in testa. Un frate veneziano dell’ordine degli Eremitani denuncia
63 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. cap. 50-57.
64 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 80; Raphaini Carasini Chronicon, col. 433-434 che
sostituisce il dottore in leggi Giacomo Turchetto a Frucerin Capodevacca; GATARI, Cronaca Carrarese, p.
52-53 conferma il Cavodevacha.
65 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 79; SAMBIN, La guerra del 1372-1373, cap. 4.
66 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 60-65; nel cap. 65 è la lettera.
67 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 66-67. Molto superficiale ROMANIN, Storia di Venezia,
III, p. 241. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 165 ci narra che le riunioni avvengono in un
clima molto teso ed in una occasione Alvise Forzatè, offeso da un Veneziano, arriva a sguainare la
spada; anche GATARI, Cronaca Carrarese, p. 53-54 che specifica che l’offensore è Zotto da cha’ Zane.
Ibidem, p. 55 testimonia l’arrivo del vescovo di Como il 12 di maggio. A nulla serve la sua missione a
Venezia, dove viene onorevolmente ricevuto, ma dove trova una chiusura totale al negoziato.
68 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 53.
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La cronaca del Trecento italiano
§ 20. Genova
In aprile si manifesta un epidemia nella città di Genova, con grande mortalità. Dura tutto
l’anno. I Fieschi tramano per riacquistare il castello di Roccatagliata, e riescono ad ottenerlo.76
70 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 70-71. Nessuno storico avanza dubbi sulla
colpevolezza di Francesco da Carrara. L’episodio viene riportato in CITTADELLA, La dominazione carrarese
in Padova, p. 310-312, CAPPELLETTI, Padova, I, p. 302-305; ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 241-242. La
fonte è la cronaca manoscritta di Caroldo nella biblioteca Marciana di Venezia. MONTOBBIO, Splendore ed
utopia nella Padova dei Carraresi, p. 88-92 parla di questa e di altre congiure. GATARI, Cronaca Carrarese, p.
57 e 60.
71 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 81; GATARI, Cronaca Carrarese, p. 54.
72 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 83; SAMBIN, La guerra del 1372-1373, cap. 5.
73 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 167; GATARI, Cronaca Carrarese, p. 56, ogni galea costa
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Carlo Ciucciovino
dove egli ha posto la sua residenza.77 Nel ’69 ha conquistato Alba e Mondovì, ma Galeazzo
Visconti gli ha strappato Valenza e Casale. Succede al defunto genitore Secondotto (Secondo-
Otto, ovvero Otto II), minorenne. La sua tutela è stata affidata al Conte Verde ed al valoroso
Ottone di Brunswick-Grubenhagen, il giovanetto è stato anche raccomandato alla protezione
papale.78 Galeazzo Visconti vuole Asti, che gli è stata strappata 15 anni prima, e Amedeo VI di
Savoia non dimentica i diritti sulla città che l’imperatore Arrigo VII ha concesso ad Amedeo
V. I Visconti approfittano immediatamente della scomparsa di Giovanni, scagliandosi su Asti,
che però Ottone di Brunswick difende con successo per tutta l’estate, mentre il pontefice si
incarica di rimettere insieme un’alleanza antiviscontea. Gregorio XI ha «il tempo di preparare
l’attacco più forte che mai la Lombardia avesse sostenuto». In autunno, una serie di armate è
pronta a marciare contro i Visconti: Filippo de Cabassoles, il legato pontificio di Bologna e
amico di Francesco Petrarca, comanda le truppe della Chiesa e dell’Este, di Toscana, della
regina Giovanna e la compagnia di Giovanni Acuto; dal Monferrato Ottone di Brunswick,
reclutati mercenari in Provenza, è pronto ad invadere la Lombardia; Amedeo VI di Savoia ha
approntato una sua armata; Nicola Spinelli sta lavorando a mettere insieme un quarto
esercito. Ma il Conte Verde non è tranquillo, uno degli articoli della lega antiviscontea
stabilisce che debbano essere restituiti alla regina Giovanna i vecchi possedimenti piemontesi,
e, mentre Alessandria, Cuneo, Cherasco, Brà e Centallo sono in mano ai Visconti, il marchese
di Monferrato ha in suo possesso Alba, Asti e Mondovì, e Amedeo VI Savigliano e Fossano. Il
conte di Savoia teme quindi di perdere vincendo. Ma Gregorio XI rassicura il conte: l’articolo
non riguarda gli alleati, ma solo gli avversari, e quindi egli dovrà restituire a Giovanna solo le
terre piemontesi che riuscirà a strappare ai Visconti.79
Dopo il chiarimento del pontefice, il Conte Verde finalmente prende la sua tormentata
decisione, non si tratta solo più di Cuneo, ora è la stessa Asti, e tutto il marchesato da
contendere ai Visconti. Ottone di Brunswick che, giustamente, non si fida di Amedeo, lo
accompagna a Pavia a negoziare con Galeazzo Visconti. Ma Galeazzo vuole, fortemente, Asti,
e non è disposto a cedere, impedendo ogni pacifica composizione.80 Una eco, probabilmente
romanzata, di questa trattativa si può trovare nelle Cronache della Savoia che raccontano che
il Conte Verde invia i suoi ambasciatori da Galeazzo Visconti, a pregarlo di togliere l’assedio
da Asti; l’atteggiamento del signore milanese è arrogante: «Andate a dire a mio cognato che la
mia armata non lascerà Asti prima di averla espugnata; ditegli anche che non ho voglia
alcuna di far pace con i figli del Monferrato e che egli farà meglio ad occuparsi di Chambéry e
Montmélian , invece di immischiarsi negli affari miei». Amedeo ingiunge ai suoi di avvertire
Galeazzo del fatto che scenderà in campo contro di lui, ma questi non cambia la propria
posizione.81 Ci rimane una lettera di Galeazzo ad Amedeo, datata 3 luglio 1372, che risponde
al conte che ha narrato come il morente Paleologo gli abbia raccomandato i suoi figli. È
riportata in Cognasso82 e dice: «Sì, sappiamo che il marchese venne a trovarvi che era già in
fin di vita, ma ci avevate detto che non vi sareste incaricato della tutela. Ora che noi non
abbiamo voluto saperne di pace col Monferrato, se non a condizione di avere Asti che è
nostra, mostrate di avere diletto in tutele, più di noi. Quando Bernabò vi offrì la sua
77 Anche il nome del suo primogenito, Secondo-Otto, Secondotto, ha nel nome il santo patrono di Asti,
San Secondo.
78 Il piccolo marchesato dovrebbe essere governato da due cardinali scelti dal papa, cfr. COGNASSO,
Visconti, p. 251.
79 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 167.
80 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 165. La pretesa di Galeazzo è una chiara sconfessione del
trattato di Lombriasco, nel quale i Milanesi si sono impegnati a non intromettersi mai nelle questioni di
Asti, Ivrea, Canavese, Chieri, Cherasco, Mondovì e del marchesato del Carretto; cfr. COGNASSO, Visconti,
p. 251.
81 D’ORVILLE JEAN, Chronique de Savoie, p. 222 ; COGNASSO, Visconti, p. 251-252.
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La cronaca del Trecento italiano
mediazione per Saluzzo, avete rifiutato dicendo di non voler decadere dai vostri diritti. Così
ora faremo noi. Noi vogliamo Asti che è nostra. Volete difendere il marchese? Noi con Dio
cercheremo di recuperare le cose nostre». Poi il tono si addolcisce ricordando i lunghi anni di
fraterna concordia. Ma Amedeo comprende che se i Visconti sapranno impadronirsi del
Monferrato poi toccherà alla Savoia. Il Conte Verde si mette allora a disposizione del
pontefice, ed il 17 giugno, a Rivoli, viene concluso un accordo tra Savoia e Monferrato:
Amedeo aiuterà Ottone a riconquistare Casale e le terre usurpate dai Visconti, e le conquiste
verranno divise equamente. La pace verrà stabilita solo di comune accordo. Il Monferrato si
impegna a versare 200.000 fiorini al Savoia per contribuire alle spese di guerra, e dà in pegno
Poirino, Riva, Chivasso e tutte le terre a sinistra del Po. Un mese dopo, il 17 luglio, gli
ambasciatori di Amedeo VI ad Avignone aderiscono alla Lega Italica contro i Visconti,
ottenendo il comando supremo dell’esercito della lega. Amedeo avrebbe tenuto a sue spese
1.000 lance e 600 si impegna a mandarle al papa, con 10.000 fiorini al mese per stipendiarne
altre 500. Il pontefice, a sua volta, deve inviare 300 lance in Piemonte, per sventare tentativi di
attacco viscontei contro lo stato sabaudo. Amedeo VI si impegna a far la guerra sia contro
Galeazzo che Bernabò, e promette che porterà l’attacco con le sue 2.000 lance nel cuore dello
stato nemico, tra Ticino ed Adda, entro il 15 ottobre.83 Commenta Cognasso: «L’attività
sabauda era prudentemente circoscritta e rivolta agli scopi cui mirava il papa. Alleata era la
regina di Napoli, che avrebbe messo a disposizione della lega 300 lance, alleato il marchese di
Monferrato, alleato il vescovo di Vercelli e da difendere, mentre Amedeo VI avrebbe
volentieri trattato tutti da nemici».84 Dal 1371 Amedeo VI ha preso al suo servizio suo nipote85
Enguerrand de Coucy, con 100 lance, e lo ha nominato suo luogotenente generale per il
Piemonte. Enguerrand ha dovuto lasciare la Francia per il riaprirsi del conflitto tra Francia ed
Inghilterra; Enguerrand è infatti vassallo di ambedue i sovrani, e l’unica maniera che ha per
sfuggire al disonore di un giuramento mancato è andarsene dal suo paese. Starà lontano per
cinque o sei anni.86 In dicembre, Amedeo ha assunto la compagnia di Anichino di
Baumgarten con 1.200 lancieri, 600 briganti e 300 arcieri ungheresi, però per soli quattro mesi.
Nel frattempo, il conte raccoglie tutti i suoi combattenti. I comandanti della forza militare del
papa sono suo fratello Nicola Roger de Beaufort, signore di Limeuil, e suo nipote Raimondo
di Turenne.87
Commenta Bruno Galland: «è la prima volta che il conte di Savoia impegna le sue truppe
al servizio diretto della politica pontificale, e ciò per una spedizione che è particolarmente a
cuore al papa».88 Comunque, anche se il Conte Verde si comporterà lealmente rispettando i
suoi impegni con papa Gregorio, i suoi obiettivi sono profondamente divergenti da quelli
della Santa Sede: il papa vuole abbattere definitivamente la potenza dei Visconti e ricostituire
un dominio angioino che protegga il suo ritorno a Roma; le mire di Amedeo VI sono invece
molto più circoscritte e realistiche: egli vuole semplicemente far pressione su Galeazzo e
Bernabò, in modo da far loro comprendere che è sensato smettere di avere mire
espansionistiche sul Piemonte occidentale.89 Gregorio XI, che è cosciente dei limitati obiettivi
del conte, non ha intenzione alcuna di rimettersi totalmente nelle sue mani e istituisce un vero
83 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 163-165. Il testo della lega è integralmente riportato in
SANGIORGIO, Monferrato, p. 226- 228. Al termine del periodo di arruolamento delle lance di 5 mesi, esso
può essere prolungato di altri 7, ma non più di questo, quindi un anno intero; GALLAND, Les papes
d’Avignon et la maison de Savoie, p. 284-285; CIBRARIO, Savoia, III, p. 225. Alla lega contro i Visconti
aderiscono la città d’Asti, Tommaso Malaspina, Manfredo di Busca, i marchesi di Ceva e di Incisa;
RICALDONE, Annali del Monferrato, I, p. 348-349.
84 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 166-167.
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Carlo Ciucciovino
consiglio di guerra nel quale figurano Nicola Roger de Beaufort, Raimondo de Turenne,
Hugues de la Roche e Giovanni di Siena, ed altri prelati ben al corrente degli affari italiani,
come l’abate Berenger di Lézat il vescovo di Vercelli, Giovanni Fieschi.90
93 PELLINI, Perugia, I, p. 1124-1125; GIULINI, Milano, lib. LXXI. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 274-275
scrive: «in lo nostro campo era più del 1.200 lanze, ché a quisti dì s’erano tucti soldati a lanze, zoè tre
cavagli per zascuna»; commenta quindi che Francesco da Fogliano, pur essendo un uomo valoroso non
è tuttavia adatto a tenere sotto controllo una così gran quantità di cavalieri, ma il comando gli è stato
affidato perché nemico di Bernabò e «perché lì apresso havea le soe fortezze». Chronicon Estense, col. 497;
RICALDONE, Annali del Monferrato, I, p. 348-349.
94 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 273-274; DE MUSSI, Piacenza, col. 511-512.
95 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 275. Con Francesco da Fogliano è stato catturato suo nipote
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La cronaca del Trecento italiano
di Macerii da Parma, versificatore e maestro di grammatica solennissimo, che gli insegna a leggere
e scrivere. Un altro cortigiano, un Padovano, chiamato el Volpe, è il suo servitore personale
(nutritore e baylo) e gli insegna a comportarsi con ogni tipo di persona, a bere e mangiare
acustumadamente et honestamente. Il Volpe gli insegna ad essere affabile, liberale e grazioso verso
ciascuno. L’equitazione è parte importante dell’educazione e Francesco l’apprende così bene da
suscitare meraviglia in città che un bimbo così piccolo sia capace di chavalcare sì
chavalareschamente e sì arditamente. Il suo maestro di scherma è Michele Rosso da Treviso,
espertissimo in quest’arte. Michele gli insegna prima a schermire con la spada e’l bochaliro,98 e con
la spada a due mani, col bastone, con la chiaverina99 ed il tavolaccio, cioè lo scudo di legno; con la
daga, con l’azza100 e con il roncon bolognese,101 ed a maneggiare con la lancia a piedi ed a cavallo.
Gli insegna anche a roveghar su per una sogha, a saltare con la corda e senza, ad a lottare (abrazare),
e, nel caso che venga atterrato dal nemico, in che modo sfruttarne la forza e lo slancio per
rovesciare la situazione. Lo addestra a bagordare ed a giostrare, a portare la lancia ed ad
arrestarla, e, brevemente, gli insegna ogni esercizio e scaltrimento nell’arte della scherma. Risulta
chiaro che maestro Michele non ha più nulla da insegnargli quando il giovane Francesco gayardo,
forte ed industrioso, batte il suo maestro, dopo averlo combattuto con varie armi, serrandolo tra le
braccia, obbligandolo a terra, e spingendo la sua testa sotto un letto. Ma i pericoli non vengono
solo dalle battaglie; per un signore che ha il Po alle porte di casa, nuotare è essenziale, e
Francesco impara sia in favore che contro corrente, impara a schivare i gorghi, come solennissimo
no(t)atore. Un nobile ed industrioso Tedesco, Pandolfo, gli insegna la sua lingua così bene che egli
la parla come se fosse la sua lingua madre.102 Il magnifico e virtuoso messer Francesco Vecchio,
considerando prudentemente che la bona compagnia fa lo homo esser accustuma’ e vertuoso, lo contorna
di egregi cavalieri, messer Mulardo Tedesco, messer Simone dei Lupi di Soragna, Bernardo degli
Scolari di Toscana e Nicolò Beccari da Ferrara, uomini di buoni costumi, che sono sempre col
giovinetto, e gli impediscono di fare cosa disonorevole.103 L’educazione principale del ragazzo è
tutta centrata sull’esercizio delle armi, non ha ancora passato la puerizia che viene messo alla
prova combattendo con spade senza taglio né punta e con lance senza ferro con i suoi compagni.
Per suo divertimento, il giovane va a caccia e per schivar l’occio (ozio), inimigo d’ogni bon costume,
talvolta sella e ferra i suoi cavalli. Non solo, ma anche li striglia, perchè i segnori se conven intendere
d’ogni cossa per saver comandar ai su sudditi. Francesco il vecchio fa alcune volte simulare una
battaglia, dividendo i suoi cavalieri in due schiere, con capitano, marescalchi e retroguardia e
pennoni e bandiere, e, armati con armi di legno, li fa combattere. Uno dei due capitani è
Francesco il giovane, che compie così il suo addestramento. Francesco completa il suo esercizio
combattendo nei tornei; la sua educazione cavalleresca darà buoni frutti ed il cronista ci informa
che nè pi(ù) ardi(t)o in l’arte del(l)a cavalaria non fo may trovà.104
§ 25. Vicenza
Il 24 giugno viene dedicata la chiesa di San Giacomo Apostolo nel borgo di Porta Nuova di
Vicenza. Il vescovo Giovanni de Surdis l’ha iniziata l’anno scorso, a sue spese. In questo stesso
anno vengono costruite le mura di Marostica.105
101 Si veda l’illustrazione del roncone a pag. 61 del libro di J. GELLI suddetto. E’ un’arma ad asta lunga
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d’Este, il visconte Payen, gran tesoriere, messer Ugolino di Saluzzo, messer Jacopo dal Verme, Ruggero
Cane. Notizia scarna dell’assedio in DE MUSSI, Piacenza, col. 512 e in POGGIALI, Piacenza, VI, p. 362 e 364.
109 Questo è il numero di D’Orville, Cognasso, realisticamente, dice 2.000, anche RICALDONE, Annali del
Monferrato, I, p. 349.
110 D’ORVILLE JEAN, Chronique de Savoie, p. 222. RICALDONE, Annali del Monferrato, I, p. 350 nota che, come
osserva Ferdinando Gabotto, il racconto dell’assedio di Asti, molto dettagliato nella “Cronaca di Savoia”
presenta tracce di provenienza da una chanson de geste, sul tipo del poema di Gamenario.
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affrontano a lancia spianata, Guglielmo viene sbalzato di sella, ma il suo scudiero Jacques le
Fort riesce ad abbattere il cavallo dell’avversario con un colpo di maglio, accorre messer
Pancerot de Serraval che combatte Jacopo e lo cattura. I soldati di Jacopo fuggono. Ottone e
Guglielmo, vittoriosi e carichi di bottino rientrano.114
Galeazzo Visconti decide di inviare dei rinforzi al suo esercito. Li comanda il conte di
Virtù in persona, che riceve il suo noviziato d’armi. «Si dice che la madre, Bianca di Savoia,
incaricasse Cavallino de’ Pazzi e Stefano Porri di sorvegliare Gian Galeazzo, per impedirgli di
correre con la sua impetuosità il rischio di una battaglia», ci informa Cognasso.115 Con Gian
Galeazzo sono Ambrogio Visconti e Giovanni Acuto. Hanno con sé tremila cavalieri che
Galeazzo ha chiesto a Bernabò e 3.000 uomini d’arme reclutati dall’Acuto in Toscana. Siamo
in agosto, i tre nuovi arrivati lanciano il guanto di sfida ad Amedeo, al re di Maiorca ed al
principe di Galilea, questo viene accettato, secondo le migliori tradizioni cavalleresche, ma,
secondo le migliori regole della vita pratica, non se ne fa niente. Proseguono sortite,
schermaglie, atti di valore isolati ed episodici, ma non si arriva a battaglia, finché un mattino,
l’esercito milanese è sparito. Si è reputato opportuno non rischiare tutto in una battaglia, e
l’esperienza di Ambrogio e dell’Acuto ha convinto tutti che Asti, per l’intervento dell’esercito
sabaudo, non si potrà più prendere.116 Può darsi che non sia marginale nella ritirata
dell’esercito visconteo il grande dolore che Bianca di Savoia ha nel vedere schierato suo figlio
contro suo fratello. In settembre, viene meno ai Visconti l’appoggio della Francia, in seguito
alla morte per parto di Isabella di Valois. Il pontefice interviene ad impedire che il re di Sicilia
sposi Antonia, figlia di Bernabò. Si fa ogni sforzo per cercare di impedire che la vedova di
Lionello di Clarence, Violante Visconti sposi il duca Alberto d’Austria. Finalmente, anche
l’imperatore Carlo IV, convintosi che, battuti i Visconti, il pontefice potrà ritornare in Italia,
decide di togliere loro il vicariato imperiale, a favore di Amedeo VI di Savoia, che riceve il
titolo di “capitano generale, luogotenente e vicario imperiale in Italia”.117
114 D’ORVILLE JEAN, Chronique de Savoie, p. 224-230 ; nessun particolare in GIULINI, Milano, lib. LXXI.
115 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 169; Più preciso è COGNASSO, Visconti, p. 252 che ci dice che il
comando generale è affidato al giovane conte di Virtù, che viene coadiuvato dai consiglieri Stefano
Porro e Cavallino Cavalli, i comandanti militari sono Ruggero Visconti, Jacopo dal Verme, Giovanni
Acuto, Francesco d’Este.
116 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 169-170 e D’ORVILLE; Chronique de Savoie; p. 230-231.
117 Documenti del 3 agosto e del 23 novembre del 1372. COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 171-172.
massacro.
119 PELLINI, Perugia, I, p. 1125; Annales Mediolanenses, col. 746-747; CORIO, Milano, I, p. 837; TIRABOSCHI,
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et era guascone, lo quale era reputado gran prode homo», questi è in realtà messer Ranieri dei
Baschi. Il capitano si dimostra pari al compito finché non «chadde zenzania» tra i soldati. I
fanti sono gente che proviene da molte parti, da tutta la Romagna, alcuni sbadati romagnoli,
soldati delle taglie del contado bolognese e del marchese, complessivamente 1.500 guastatori.
Il motivo della zuffa è ignoto.120
120 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 276-277; questa fonte ci fornisce la data del 10 agosto.
121 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 239 e nota 2.
122 PELLINI, Perugia, I, p. 1125-1126.
125 Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 466 e Ephemerides Urbevetanae,
Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 239; GORI, Istoria della città di Chiusi, col. 960. Quest’ultima
fonte assegna l’acquisto al 1374. BOLLETTI, Città della Pieve, p. 60.
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126 Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 466, nota 1.
127 SACCHETTI; Trecento Novelle, novella X.
128 FRANCESCHINI, Malatesta, p. 145-146.
132 La lettera prosegue: “Mi proposi pertanto di non manifestare ad alcuno la notizia, se non al
reverendo padre, il cardinale Albanense - Anglico Grimoard - al quale come a me non par possibile che
tale cattura possa essere avvenuta: e se veramente lo fosse, Sua Santità la farebbe in qualsiasi modo
revocare, anche perché il signor Malatesta è familiare del re di Francia, il quale senza dubbio alcuno
farebbe sì che fosse restituito alla pristina libertà un suo fedele. Ciò che rende assai più incredibile la
cosa, è che mio nipote non abbia comunicato nulla a voi o a me, chiarendo il come e il quando della
patita iattura e dell'estorsione del riscatto, cose tutte che ignoro.” FRANCESCHINI, Malatesta, p. 155.
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Ormanno nobile tedesco, che comandava 50 lance" proprio per il tradito Ugo d'Este. FRANCESCHINI,
Malatesta, p. 157, nota 9.
136 In realtà il comandante supremo dovrebbe essere il Conte Verde, sarà per questo che Amedeo VI
prende lo strano titolo di “Capitano generale della guerra nell’Alto Milanese”?. Vedi COGNASSO,
Visconti; p. 254.
137 La Ystoria de mesier Francesco Zovene; cap. 21 e ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 84;
VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 167-168; GATARI, Cronaca Carrarese, p. 56 e p. 58 e p. 59-
60 dove si racconta lo straziante addio di Caterina a sua madre Fina Buzzacarini.
138 KOHL, Padua under the Carrara, p. 122; SAMBIN, La guerra del 1372-1373, cap. 7.
139 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 85-86; GATARI, Cronaca Carrarese, p. 58 e p. 61.
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140 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 87-88. Bonifacio Lupo è accompagnato da Francesco
da Lione nella sua ambasceria, CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova, p. 312.
141 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 89-90. Per dettagli sulla loro missione, si veda
144 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 100; SAMBIN, La guerra del 1372-1373, cap. 8.
145 KOHL, Padua under the Carrara, p. 122. Benjamin G. Kohl dedica un capitolo alla descrizione dei
consiglieri di Francesco da Carrara ed alle loro veloci biografie, si veda ibidem cap. 6, Creating the Carrara
Affinity, p. 167-204, con carte genealogiche. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 176-177;
GATARI, Cronaca Carrarese, p. 63-64.
146 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 65.
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§ 33. Forlì
La cronaca di Forlì registra in questo anno l’edificazione di fortezze in Bologna, Imola,
Faenza e Forlì. Narra quindi che viene scoperta una congiura in città, i responsabili, Paolo
Aspini, Gello di Asti, Renzo Balducci e Matteo Rangoni, vengono catturati ed incarcerati.152
149 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 239 e nota 1.
150 PELLINI, Perugia, I, p. 1126. Gerard de Puy, o Gherardo de Podio, chiamato l’Abate di Montemaggiore,
in realtà abate di Cluny di Maurmotier (Maius Monasterium), detto Monastero Maggiore. Diario del
Graziani, p. 217, nota 5.
151 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 239, nota 2.
153 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 543; MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, p. 192-193.
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censo dovuto da Napoli a Roma; che questo non fa pensare tanto ad un miglioramento delle
condizioni economiche del regno quanto alle nuove relazioni di amicizia tra le due corti».155
Tali migliorati rapporti sono impersonati nello Spinelli, uomo di fiducia sia del papa che della
regina Giovanna. Giovanna, da diversi anni, governa personalmente e abbastanza bene,
conquistando l’affezione dei suoi sudditi. La sua popolarità esce inattaccata anche dalla
ribellione di Francesco del Balzo e, dopo la morte della sorella Maria e di Filippo di Taranto,
ella è l’ultimo superstite della linea dinastica del “saggio” re Roberto. Gli unici maschi
angioini ora viventi sono re Ludovico d’Ungheria e il giovane Carlo di Durazzo.156
Cosciente della sua estrema debolezza, re Federico IV consente ad Enrico Rosso, conte di
Aidone, di rientrare a Messina insieme a Bernardo Spatafora. L’unica condizione che pone è
che sia disarmato e prometta di non suscitare disordini.157
159 DE MUSSI, Piacenza, col. 512-514. CORIO, Milano, I, p. 838 ci dà invece la data dell’11; GIULINI, Milano,
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la tregua, mentre egli sta accertando chi sia il colpevole della ripresa del conflitto. La tregua in
realtà non ha nessuna possibilità di essere osservata, perché Gregorio XI non ha fiducia
alcuna nella buona fede del Visconti.160
Il marchese Nicolò d’Este ottiene per sé e per suo fratello Aldobrandino la conferma
pontificia del loro vicariato per Ferrara, con lo stesso censo di prima. L’investitura è a vita.161
163 STELLA, Annales Genuenses, p. 165-166 e note 5 a p. 165 e 1 e 2 a p. 166; ACCINELLI, Genova, p. 86; LOPEZ,
Storia delle colonie genovesi nel Mediterraneo, p. 285 commenta: «è difficile dividere le responsabilità di un
conflittodi un conflitto che è narrato in modo diametralmente opposto dagli storici delle tre parti
contendenti».
164 SCOVAZZI e NOBERASCO, Savona, p. 132-133; TORTEROLI, Savona, p. 214-215 fornisce i nomi dei capitani
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165 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 103.
166 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 103. La deflagrazione della guerra è registrata anche
da Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 277-278.
167 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 104. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p.
Pataro e di Francesca Gonzaga. Sua sorella maggiore Fina, nel 1345 ha sposato Francesco il Vecchio da
Carrara, Arcoano è dunque cognato del signore di Padova. Da DBI, vol. 15°, senza indicazione
dell’autore.
169 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 116; GATARI, Cronaca Carrarese, p. 66-67.
170 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 107; Raphaini Carasini Chronicon, col. 435;
CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova, p. 315; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p.
184-185; SAMBIN, La guerra del 1372-1373, cap. 10. Verci, a p. 177, ci informa che il comandante della
bastia che controlla la torre di Solagna è Francesco di Tealdo con cinquanta cavalli. GATARI, Cronaca
Carrarese, p. 67-69 narra alcune imprese minori. Ibidem p. 71 fornisce il 4 di novembre come data di
arrivo di Ranieri a Treviso.
171 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 111. Il maresciallo del patriarca è Federico di
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e di offesa, ai capitani dei vari centri che da Bassano per Cittadella e Camposampiero e
Serravalle si stendevano fino a Stigliano e Mirano affrontando, grosso modo, il confine verso
Venezia.173
177 EDBURY, The Kingdom of Cyprus, p. 199; FILETI, I Lusignan di Cipro, p. 111-112.
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di ser Vanni, Sano di Lenzo, un figlio di Sozino di ser Mino, Buriglia, Bernardino di Francesco, Galgano
d’Arriguccio, ed altri.
181 Quando si parlano parole d’odio, vi è sempre Firenze nella mente dei Senesi.
183 Ranieri dei Baschi; Montemurano è Montemerano; anche se la dinastia dei Baschi è Umbra,
Montemerano è in Toscana e questo, oltre al fatto che Ranieri ha militato per Siena, può aver originato la
convinzione che Ranieri sia toscano. GATARI, Cronaca Carrarese, p. 71 lo chiama “Rainiero di
Marem(m)a”.
184 Cronache senesi, p. 647.
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parole, torturato. «Di che il detto Fardello eb(b)e paura, ché era di poco animo, e gittos(s)i da
le finestre del Campo e morì: e questo fu a dì 11 di novembre».185
190 CONTAMINE, La Guerra dei cent’anni, p. 56; ALLMAND, La Guerra dei cent’anni, p. 39; O’CALLAGHAN, A
History of medieval Spain, p. 526-527; CASTELOT E DECAUX, La France au jour le jour, II, p. 526-527.
191 CASTELOT E DECAUX, La France au jour le jour, II, p. 527 e 533. FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap.
348-351 e per la sua morte nella torre del tempio cap. 388. Giovanni III di Grailly è Captal de Buch dal
1343. Buch è una località composta dai comuni di Arcachon, Teste-de-Buch e Gujan-Mestras, subito ad
occidente di Bordeaux, sull’oceano.
192 SEWARD , The Hundred Years War, p. 114. La sfortunata spedizione è costata la fantastica somma di
900.000 sterline.
193 O’CALLAGHAN, A History of medieval Spain, p. 527.
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194 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 114.
195 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 118; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p.
180-181, questa stessa fonte registra una seconda scorreria di Simone e Antonio Lupi nel Trevigiano il 18
ottobre; ibidem p. 183. GATARI, Cronaca Carrarese, p. 69.
196 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 123.
197 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 120-132.
198 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 133-135.
199 “I nomi dei quali no tocha la presente istoria, perchè elli no fo homini de gran peso” ALESSIO; Storia
della guerra per i confini; lib. I, cap. 136. KOHL, Padua under the Carrara, p. 123; GATARI, Cronaca Carrarese, p.
70-71.
200 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 137
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tutti i ponti per cui possano passare i Veneziani vengano distrutti.201 Il 7 novembre i
Veneziani vanno a Murelle, a sole cinque miglia da Padova, ed il giorno seguente puntano
verso nord e devastano il territorio di Bassano. Francesco da Carrara chiede affannosamente
rinforzi a tutti i suoi alleati.202 Il signore padovano teme che il nemico voglia passare alle
Brentelle, dove l’esercito nemico si sta ammassando. Francesco vi invia immediatamente
Bonzanello da Vigonza a far buona guardia ed a “tastare” da Altopasso fino a Vigodarzere
per verificare se esistano altri guadi del Brenta.203 Poi, il 17 novembre, convoca tutti i suoi
comandanti a consiglio: intervengono Bonifacio Lupo, Arcoano Buzzacarini, Luise Forzatè. Il
passaggio alle Brentelle significherebbe la «destruction del(l)a meior contrada del Pa(do)van».
In consiglio, il signore di Padova constata di non esser in grado di contrastare un’eventuale
passaggio nemico in forze e delibera che, se i Veneziani fossero decisi a passare, non cercare
di contrastarli, ma ritirarsi alla difesa di Padova, senza arrischiare una battaglia campale.
Comunque, tutti stiano armati e all’erta. La preoccupazione è però vana, dopo alcuni giorni
l’esercito veneziano leva il campo dalle Brentelle e si ritira.204 La ritirata di Ranieri dei Baschi
mette in luce il dissidio tra lui e i provveditori che gli sono stati affiancati. Alcuni storici
ipotizzano che i Veneziani siano stati corrotti dal denaro del Carrara.205 L’intenzione di
Ranieri è di passare nel «Pievado de Sacho»,206 un luogo «molto fertile e copioso de ogni ben»,
ma per fare ciò occorre varcare la “montagna di Pa(do)va”,207 «la qual abundava de ogni cosa
necessaria all’uso humano». I Veneziani, quindicimila tra cavalieri e fanti, comandati da
Raniero dei Baschi, e dal suo capitano di cavalleria Nicolò da Buscareto, varcano un ponte
fatto riparare da Cansignorio e sciamano nella montagna. Gli abitanti sono tutti fuggiti di
fronte agli invasori, ma, nella fretta, hanno lasciato le loro case fornite di ogni ben di Dio, in
particolare di vino, in quanto si è appena vendemmiato. Dalla montagna, i Veneziani
compiono incursioni, bruciando Abano e Rivaltella e Mandria.208 Nel mentre, tra la ritirata
dalle Brentelle e l’ascesa della montagna, il valoroso Schiavone messer Giovanni di Polisna,
detto anche Giovanni Zotto, ha condotto un’incursione, nella quale ha sorpreso il Modenese
Zaccaria da Fre’, e dopo una violenta zuffa è riuscito a catturarlo e tradurlo a Padova.209 Il 29
novembre Giovanni da Polisna viene inviato ad Este, insieme a tutti gli Ungheresi.210 Este è
collocato in modo da controllare la discesa verso sud dalla montagna di Padova, in posizione
tale da controllare l’eventuale tentativo di accerchiamento veneziano verso Borgoforte,
sull’Adige, per ricongiungersi a quelli di Cavarzere, ed inoltre raddoppia il controllo del
territorio già fornito da Monselice, dal quale dista solo cinque miglia. Ma, intanto, gli
Ungheresi si sono finalmente mossi, e le molte orecchie della Serenissima l’hanno saputo, per
cui inviano messer Taddeo Giustinian con trecento lance e molti balestrieri a contrastare il
passo agli Oltramontani. Taddeo, arrivato alla riva del Piave, fortifica gli argini naturalmente
scoscesi del fiume, mettendo una siepe di vimini di salgari.211 Intanto, Bonzanello da Vigonza,
per ordine di Francesco da Carrara, brucia tutte le terre che potrebbero fornire strame per il
201 Mangiacavallo, Curtarolo. ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 138
202 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 139.
203 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 141.
204 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 142-144; GATARI, Cronaca Carrarese, p. 72-73. L’azione
è ben narrata da GATARI, Cronaca Carrarese, p. 72-73, con i Padovani vi è anche il tredicenne Francesco
Novello.
205 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 186-187. GATARI, Cronaca Carrarese, p. 72 elenca il
nome dei provveditori: Domenico Michiel, capitano di Trieste, messer Andrea Zen, capitano di Treviso,
messer Paolo Loredan, podestà di Treviso.
206 Piove di Sacco.
208 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 148; SAMBIN, La guerra del 1372-1373, cap. 11.
209 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 149.
210 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 154.
211 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 150.
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cavalli dei Veneziani: Baone, Cinto, Lozzo, Cornoleda, Val de l’Abbà. Rimangono a
sorvegliare i luoghi arsi, alcuni Friulani.212 Francesco provvede a tutto: invia il capitano di
Monselice con balestrieri a rinforzare la guarnigione di Borgoforte, dove si teme che i
Veneziani vengano da Cavarzere con barche e da Agna a cercare di assaltarla, sorveglia il
passaggio sul Brenta a Nord e mette soldati ad Arsego, fa guastare il ponte della “valle de
Rovolon”.213
L’esercito di re Ludovico d’Ungheria s’è intanto radunato e messo in marcia. Sono 1.400
cavalieri tra uomini d’arme ed arcieri, comandati da Benedetto, una volta ban,214 di Bulgaria e
conte “themsinese” e dal voivoda Stefano, nipote del conte palatino. Per la via della Schiavonia
e «de la marcha de Servia» affrontano montagne «tutte canude per la neve», vogliono infatti
evitare le strade in pianura dove è troppo facile per i duchi d’Austria intercettarli. «Et cusì
con grandi freddi et continue çornate (giornate, marce), ven(n)e fina al castello de
Spilimbergo, stanchi oltra modo». Guglielmo da Cortaruolo, l’ambasciatore padovano che ha
seguito l’esercito, informa urgentemente Francesco da Carrara dell’arrivo dell’esercito alleato,
scongiurandolo di informarlo sulle vie più sicure da tenere per congiungersi con l’armata
padovana. La notizia raggiunge Francesco all’ora del vespro, rallegrandogli la serata, ma
costringendolo a prendere una decisione difficile. La via più logica e diritta è quella verso
Treviso, ma proprio perché la più ovvia è quella dove il nemico avrebbe probabilmente
preparato delle sorprese; d’altro canto, la via più sicura è quella per le “aspre montagne del
Friuli”, strada molto impegnativa e che poco si confà «al(l)a stancheça de(g)li homini et dei
cavalli». Alla fine decide di non decidere, convoca Giovanni da Polisna «homo savio et
gaiardo» e gli chiede che strada voglia seguire: egli immediatamente si offre di andare
direttamente per il Trevisano a raggiungere gli Ungheresi a Spilimbergo. Detto, fatto, il
coraggioso Giovanni, accompagnato da soli settanta Ungari, raggiunge lo stanchissimo
esercito e lo esorta a muoversi senza frapporre indugio. Il suo discorso è convincente, anche
perché espresso “in parlar hongarescho”, e gli Ungheresi si apprestano sollecitamente a
muoversi.215 Le spie, senza indugio, informano i Veneziani, e Taddeo Giustinian, capo della
guarnigione di Conegliano, comanda ai suoi di scendere verso il guado del Piave, a sole
quattro miglia dalla città, e di appostarsi per impedire il passaggio al nemico. I ranghi
dell’esercito veneziano hanno uomini d’arme, tra cui molti Tedeschi, e balestrieri e fanti.
Quando questi vedono le avanguardie ungheresi arrivare nei pressi del fiume, montano a
cavallo, si pongono la barbuta in testa, impugnano le armi e, fieramente, attendono il nemico,
al riparo delle siepi di vimini. Gli Ungheresi, sollecitati dai loro coraggiosi comandanti, non
hanno esitato ad affrontare il fiume di Livenza, alcuni anche a nuoto, incuranti del freddo e
della corrente, e, passati, si sono diretti verso Conegliano dove contano di incontrare il
nemico schierato in campo. Invece, i Veneziani sono sull’altra sponda del Piave. Quando vi
arrivano, gli Ungheresi «stanchi dal(l)a longe e desconça via, et atenuadi de pocho magnar»,
vorrebbero piuttosto riposare che combattere, ma il ban Benedetto non tollera esitazioni e
ordina loro di muoversi. Gli Ungheresi, armati di tutto punto e con gli archi in mano
speronano vigorosamente i loro cavalli e scendono decisamente nelle acque del Piave, mentre
i Veneziani ed i Tedeschi li attendono armati sull’alto dell’altra riva. Davanti a tutto è
l’audace Giovanni da Polisna, che arrivato alla riva e smontato da cavallo, raduna molti dei
suoi, abbatte una porzione della siepe, e si getta ferocemente all’attacco. I verrettoni dei
Veneziani aprono vuoti impressionanti nei ranghi ungheresi, ma gli archi degli Ungari non
sono da meno e bersagliano continuamente le scarse forze veneziane. Una parte degli
212 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 151.
213 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 155-157.
214 Un ban è un nobile, nominato dal re, che governa un territorio, detto bannato. Può essere assimilato
al nostro duca.
215 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 160; CONFORTO DA COSTOZA, Cronaca vicentina, p. 5-6
ne descrive l’itinerario.
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216 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 161-164. Lo scontro è ben narrato in GATARI, Cronaca
Carrarese, p. 75-78.
217 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. I, cap. 165; CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova,
p. 319-320; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 188-191; SAMBIN, La guerra del 1372-1373, cap.
12. Molto superficiale la narrazione di ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 243.
218 CHINAZZO, Guerra di Chioza, col. 705; Raphaini Carasini Chronicon, col. 436.
219 CAPPELLETTI, Padova, I, p. 309-310. La seconda volta è il 2 dicembre, in GATARI, Cronaca Carrarese, p. 75.
221 Si legga in PEZZANA, Parma, I, p. 98, nota 123 come l’autore metta in evidenza la carriera e le capacità
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dicembre, il giorno successivo alla sconfitta sul Piave, sette navi, al comando di Micheletto
Delfino (o di Michele Dandolo secondo altri), dopo aver attraversato la laguna, risalgono il
canale della torre e si presentano alla vista dei difensori della torre. Sono navi con castelli di
legno eretti sui ponti, adatti a combattere alla stessa altezza la torre di terra. Vi sono anche
molte «piatte, e burchi con manganelli, e ponti disnodati ed infinite gondole con molti
balestrieri sopra». La torre del Curan è una fortificazione di grande importanza per il
controllo dei confini tra Padova e Venezia, ed è stata fortificata con «tre grosse palate sotto
l’acqua». Antonio Lupo viene immediatamente inviato da Francesco da Carrara a soccorrere i
difensori. Lo seguono un conestabile con 20 balestrieri e messer Aloise Forzatè e Bonzanello
da Vigonza, con un ingegnere, Nicolò de Gazzo, che ha il compito di rafforzare le difese della
fortezza. Le navi della Serenissima non possono dunque accostarsi alla torre, perché impedite
da palizzate che sbarrano il passo. Ma i Veneziani non sono degli sprovveduti: nella prua di
una delle navi vi è «un ingegno con una ruoda de legno, che se volgea con un arganello, et
havea in cavo de corde ferri grandi, facti a guisa de tena(gl)ie, con i quali elli pi(gl)ava sotto
acqua i roveri dela dicta pal(izz)ada, et, volgendo la ruota per forza, subito cavava i roveri
predicti». I difensori nulla possono per impedire l’azione, perché balestrieri veneziani stanno
sulle gabbie incastellate, pronti a bersagliare chi spunti dai ripari. Sradicate le palizzate, le
navi si avvicinano ad un ponte di legno che collega la torre alla terra ferma, dove è una casa
con una taverna. Sul ponte fortificato vegliano balestrieri e fanti muniti di lance. La battaglia
si accende, verrettoni e giavellotti vengono scagliati da ambo le parti, ma la differenza la
fanno tre manganelle su chiatte che i Veneziani portano con sé e che colpiscono sempre il
bersaglio. Una parte dei Veneziani riesce ad approdare presso la taverna, si impadronisce di
una barca e con quella bersaglia alle spalle i difensori del ponte. Disperando di poter resistere,
Antonio Lupo e Lois Paradiso, podestà di Pieve, si ritirano, raccomandando al comandante
della torre di non arrendersi. La difesa è vana, preso il ponte, i Veneziani arrivano accosto
alla torre e possono agevolmente assalirla dai castelli di legno di pari altezza. La torre
capitola. Antonio Lupo si precipita a Padova ad annunciare la perdita della fortezza. I
Veneziani in dieci ore erigono una nuova fortezza.222 Come dice anche il re d’Ungheria, «la
perdita de la torre dal Curame è ria e grande et no piçol danno». Re Ludovico si impegna ad
inviare altri armati.223 Francesco da Carrara fa subito erigere una bastia lignea a fianco della
chiesa di Lova, sulla terra ferma, e la fa munire di armi e soldati. Micheletto Delfino, il
comandante veneziano conduce l’esercito a Lova,224 dove erige una forte bastia, munendola di
«buoni fossi, ove il terreno era quasi tutto paludivo, e ivi i Padovani havevano fatto un fosso
lunghissimo con un terraglio alto, e una siepe sopra».225 Il comandante Ranieri dei Baschi, con
i provveditori del campo, si leva da Castelfranco e va a dimorare nel borgo di Treviso,
aspettando ordini dalla Serenissima.226 I Veneziani di Ranieri, tra il 21 e il 28 dicembre,
tentano di ripetere il successo, assalendo anche la bastia carrarese di Lova, ma vengono
respinti.227
222 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 1 e 2; Raphaini Carasini Chronicon, col. 437;
CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova, p. 320-321; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°,
p. 191-192; SAMBIN, La guerra del 1372-1373, cap. 13. I Padovani usano nella difesa della torre schioppi e
bombarde e di due schioppi si parla anche nella richiesta di armi e viveri da parte di Vampo di Guecello
Tempesta a Venezia; bombarde sono state usate contro Borgoforte, cfr. VERCI, Storia della Marca
Trevigiana, tomo 14°, p. 163, 183 e 191-192.
223 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 9.
225 CHINAZZO, Guerra di Chioza, col. 705; GATARI, Cronaca Carrarese, p. 79-80, per questi il comandante è
Michele Dandolo.
226 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 80.
227 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 3 e 11; Raphaini Carasini Chronicon, col. 437; GATARI,
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228 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 81. Si confronti questa notizia con quella analoga del 1370.
229 GAZATA, Regiense, col. 79 e Annales Mediolanenses; col. 750-751. Giberto da Fogliano ha avuto 6 figli
maschi; di questi 4 sono morti di spada, Francesco è stato impiccato, solo Guido sopravvive. Ha avuto
anche 3 figlie femmine, una si è suicidata, un’altra è stata assassinata da suo marito don Azzo di Sesto,
perché infedele, la terza, monaca, è stata uccisa dai fratelli. Ma il superstite Guido Savina non andrà
incontro a miglior fine: egli verrà assalito dai suoi fidi nel letto, assassinato e sepolto nottetempo, tale la
tragica fine di questa cupa dinastia. Vedi anche Annales Mediolanenses; col. 750-751; GIULINI, Milano, lib.
LXXI; BALLETTI, Reggio, p. 196; PANCIROLI, Reggio, Libro V, p. 5 definisce Francesco «uomo fuor di modo
facinoroso, furfante, più ribaldissimo di tutti»; ALEOTTI, Reggio, p. 141-142. Notizia dell’impiccagione
anche in Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 281. TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 53 scrive che il cadavere
del povero Francesco rimane appeso per nove giorni prima di essere rimosso.
230 PANCIROLI, Reggio, Libro V, p. 5-7.
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In questo stesso anno, in gennaio, Francesco di Vico ha sposato Perna Orsini, figlia di
Giordano e sorella di Francesco. Il matrimonio viene celebrato nel castello di Galeria, sulla via
Cassia. Perna reca una dote di 3.500 fiorini, oltre al castello di Bieda.233
Maria di Orso, conte dell’Anguillara ha sposato Pietro dei prefetti di Vico. Quando
questi è morto, il 6 marzo 1372 ha ottenuto dal magistrato capitolino i castelli di Trevignano,
Casamala, Caprarola e metà di quello di Vico.234
Baldera, Becello Baglioni, Nicolò di Grazino, Seppolino di Luca di Agnolino e suo fratello Giovanni,
forse appartenenti alla famiglia Buontempi, Sciro di Facciardo e Marco di Buocagno Buontempi. PELLINI,
Perugia, I, p. 1126-1127.
236 CORIO, Milano, I, p. 838 e DE MUSSI, Piacenza, col. 514. Troppo veloce è la decisione del condottiero
inglese per attribuirla solo a stipendi non pagati o incomprensioni con funzionari; è probabile che
Giovanni abbia ultimamente mal sofferto il pugno di ferro di Bernabò, ed abbia colto l’occasione per
passare nel campo avverso. Sul cambio di campo dell’Acuto: Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 278-279.
237 Lo accompagna nell’impresa Ugolino di Savignano, capitano del marchese d’Este, con 200 lance.
Chronicon Estense; col. 497. Con l’Acuto vi sono anche 500 arcieri.
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238 È il capitano citato anche da Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 276 , e da Chronicon Placentinum col. 515.
Il suo nome è Amanieu de Pommiers, un membro della famiglia guascone dei Pommiers; è uno dei tanti
figli maschi di Guillaume Sanche II, i suoi fratelli sono: l’omonimo del padre che prende l’ordinale III,
Elie, un vero genio militare, Jean, Bertrand, Arnaud. Amanieu ha servito fedelmente il Principe Nero,
poi, verso il 1363 è andato agli ordini del re di Francia ed è entrato nelle fila di Bertrand du Guesclin. È
un uomo anziano, probabilmente ha combattuto sotto il Principe di Galles nella battaglia di Poitiers. Si
possono trovare sue notizie in Froissart e in FOWLER, Medieval Mercenaries, I e in ERIC RUAULT, La famille
Pommiers au Moyen Âge,TER 1987, Bordeaux.
239 Credo che il suo vero nome sia Guido de la Tour; GIULINI, Milano, lib. LXXI lo chiama Guidone di
Pluine.
240 CORIO, Milano, I, p. 838; ANGELI, Parma,p. 198; DE MUSSI, Piacenza, col. 515-516. Un cenno di seconda
Trotynger Urico Totinger o Trotinger. L’elenco dei castelli conquistati è in POGGIALI, Piacenza, VI, p. 366.
242 GIULINI, Milano, lib. LXXI elenca i misfatti di Bernabò ai danni degli ecclesiastici, contenuti in un
“monitorio” del pontefice e che, se veri, gettano una fosca luce di spietata crudeltà sul signore milanese.
243 Quia non credebant Vicecomites habere tantum exercitum. GAZATA, Regiense, col. 78. GRIFFONI, Memoriale,
col. 183.
244 CORIO, Milano, I, p. 838.
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§ 57. Peste
Probabilmente, anche in seguito alle carestie sperimentate negli anni passati, vi è una
recrudescenza di peste, che colpisce specialmente i giovani, che non hanno potuto sviluppare
difese naturali. Conforto da Costoza ci narra che nella piccola sua città di Costoza, la peste
uccide mille abitanti; il morbo assale prima i piccini per poi passare agli adulti di qualsiasi età
e sesso. Vi sono tanti decessi che i sacerdoti non sono abbastanza per gli uffici funebri, i morti
vengono sepolti in fosse comuni. La peste porta la cittadina alla distruzione ed alla rovina.250
246 Lettera datata 21 novembre 1372. GAZATA, Regiense, col. 78-79; GIULINI, Milano, lib. LXXI.
247 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 174.
248 Cronache senesi, p. 648.
251 MOSTI, Storia e monumenti di Tivoli, p. 43; SILVESTRELLI, Regione romana, p. 364.
252 ZAPPI, Annali di Tivoli, p. 10-11. Zappi aggiunge che Tivoli distrugge anche altri castelli: Monteverde a
cinque miglia e Castell’Arcione anch’esso a cinque miglia. VIOLA, Tivoli, II, p. 233-234 pubblica la lapide
sepolcrale di Meolo Ricciardi che dice che è morto il 20 dicembre 1372.
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§ 60. Tuscania
Il castello di un nobile locale di nome Albonetto, per qualche motivo che non ci è stato
tramandato, ha provocato la reazione di Tuscania, che vuole distruggerlo. Non sentendosi
abbastanza forte a resistere, il castello ricorre a Pietro di Vico dal quale ottiene che assalti
Tuscania mentre l’esercito del comune assedia Albonetto. Naturalmente, l’aggressione del
temibile prefetto persuade immediatamente i Tuscanesi a togliere l’assedio e correre alla
difesa della loro città. Pietro di Vico ripiega.257
§ 61. Le Arti
Il 29 novembre 1360, il pievano di Poppi, Tommaso, che è anche vicario generale del
vescovo di Pistoia, autorizza la costruzione della chiesa di Sant’Antonio Abate in Pistoia.
L’edificazione dell’edificio religioso viene condotta alacremente e già nel maggio del 1362 si
può dire sostanzialmente completata. Enzo Carli scrive che la chiesa «pur nella estrema
semplicità del suo impianto e delle sue strutture è un autentico capolavoro di architettura, di
un gotico pacato e arioso, quasi preludio alla misura rinascimentale».258 All’interno di questo
edificio un pittore di Firenze, Niccolò di Tommaso, dal 1372 affresca completamente le pareti
e la volta.259 Il muro terminale dietro l’altare è occupato interamente dal Paradiso, 26 scene del
Vecchio Testamento si svolgono sulle 12 vele del soffitto, 15 scene raffigurano il Nuovo
Testamento e, curiosamente, manca nell’opera la Crocifissione e tutte le storie della Passione di
Gesù, infatti, le immagini arrivano alla Trasfigurazione; queste sono rappresentate sul registro
superiore delle pareti, mentre sul registro inferiore vi sono le Storie di Sant’Antonio Abate.
257 CAMPANARI, Tuscania, p. 201-202 e nota c, ibidem. Questa notizia non è necessariamente attribuibile al
259 Per la lunga vicenda che è arrivata ad attribuire con certezza l’opera a Tommaso, si veda CARLI, Gli
affreschi del Tau, p. 4-8. Per inciso una curiosità: Ferdinando Bologna ha avanzato, con estrema cautela,
l’ipotesi che Niccolò sia nientedimeno che figlio di Maso di Banco; si veda ibidem p. 10.
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Niccolò affresca la chiesa immediatamente dopo il suo soggiorno a Napoli per dipingere
il Castello di Casaluce. Niccolò, «come Nardo di Cione, si riallaccia direttamente alla grande
lezione di Maso […]. Certo, altri artisti dovettero in seguito interessarlo, oltre a Nardo di
Cione, e di essi più di tutti Giovanni da Milano». Niccolò di Tommaso è amico di Franco
Sacchetti che lo ricorda nella novella 103, e di lui dice che non era facile ad apprendere idiomi
diversi dal natio fiorentino. Enzo Carli definisce il pittore: «limpido, calibrato, obbediente ad
una sottile, equilibratissima ritmica, pur nella immediatezza ed efficacia del raccontare».260
In un polittico del 1371, Lorenzo Veneziano prefigura Lorenzo Monaco ed in una sua
Madonna del 1372 «richiama la fluente maniera della pittura boema».261 Nel 1372, Lorenzo
Veneziano dipinge una Madonna in trono, parte di un polittico non ancora ricostruito, nel
quale appare influenzato dai modi osservati nel Paradiso di Guariento, «tradotto tuttavia
ancora in un linguaggio particolarmente sensibile al colore».262 L’ultima opera a noi pervenuta
di questo artista, un polittico del 1372 per il monastero veneziano di Santa Maria della
Celestia, mostra «il momento di massimo raggiungimento di un linguaggio gotico». In sintesi,
«la pittura di Lorenzo tende a sviluppare […] un mondo figurativo in cui la componente
religiosa viene sempre più tradotta e trasformata in elegantissime forme profane, in chiave
anzi aristocratica e mondana: un modernissimo linguaggio “cortese”».263 L’evoluzione
dell’arte di Lorenzo non viene però colta dai suoi colleghi veneziani. Il pittore ha completato
il suo percorso: le figure sembrano ispirate più a modelli toscani che veneziani, il tutto ha una
monumentalità tattile sconosciuta a Paolo Veneziano, nel fiorito tappeto erboso vi è
un’apertura al gotico internazionale, i colori sono però ancora veneziani, lacche e smalti con
forti chiaroscuri. Dopo il 1372 non abbiamo più sue notizie.264 Tra i suoi principali seguaci vi
sono Giovanni da Bologna, che lavora a Venezia e Treviso tra il 1377 e il 1389, e Stefano
“piovan di Santa Agnese”, il cui capolavoro è la pala per la chiesa di S. Zaccaria.265
Artisti veneziani minori sono Donato e Catarino che dipingono negli anni Settanta.
«Delicata ed elegante» è l’Incoronazione della Galleria Querini Stampalia, eseguita da questi
artisti nel 1372. Donato appare un artista di più alta personalità mentre Catarino «non è che
uno dei tanti divulgatori, in un volgare dialettale, dell’aristocratica parlata di Paolo
[Veneziano] e di Lorenzo [Veneziano]».266
Lippo Vanni dipinge, data e firma un'Annunciazione nel chiostro di San Domenico a
Siena, oggi scomparsa e di cui si conserva, dopo uno strappo effettuato nel 1971, solo il
frammento della testa della Vergine. Lippo risulta ancora vivo nel 1375, quando gli viene
retribuita la decorazione degli sportelli del Crocifisso del duomo di Siena e la decorazione di
12 angioletti scolpiti, ma nulla di ciò ci è pervenuto. Non conosciamo la data di morte del
pittore. 267
Il capocantiere del Duomo di Orvieto dal 1359, Andrea Orcagna, opera nella definizione
della grande cornice marmorea che racchiude il rosone centrale della facciata del Duomo.
Dopo anni di interruzione, il lavori riprendono nel 1369-70 e nel 1372-73, quando vengono
iniziate le teste dei 52 Profeti che sono sulla parte esterna della cornice. Queste «costituiscono
il punto di arrivo della produzione scultorea sulla Rupe, nel corso del Trecento e i lavori
vennero affidati ai maestri senesi Paolo d’Antonio, Giovanni di Stefano, Luca di Giovanni,
267 G. CHELAZZI DINI, Lippo Vanni, in Enciclopedia dell’Arte medievale; C. RANUCCI, Lippo di Vanni, in DBI,
vol. 65°.
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che si alternarono alla guida del cantiere di Santa Maria prima dell’ottavo decennio del
secolo».268
§ 63. Musica
Nel 1372, o al più tardi nell’anno seguente, muore Lorenzo Masini. Lorenzo è nato forse
a Firenze, infatti è noto come Lorenzo da Firenze, diventa sacerdote e cantore a San Lorenzo
di Firenze. Suo allievo è il cieco Francesco Landini, che nella stessa chiesa è organista.
Lorenzo ha uno stile conservatore, di tono antico; di lui ci rimangono dieci madrigali (uno dei
quali a tre voci), cinque ballate monodiche e una caccia. Sua caratteristica è un’attenzione
particolare all’aspetto ritmico. Egli dedica molta attenzione ai testi poetici, infatti compone su
scritti di Giovanni Boccaccio, Nicolò Soldanieri, Franco Sacchetti.271
268 CORRADO FRATINI, Orvieto scultrice, in Storia di Orvieto; II, Il medioevo, p. 519.
269 BENATI, Pittura in Emilia Romagna, p. 225.
270 DANIELE BENATI, Avanzi Jacopo, scheda biografica in La pittura in Italia Duecento e Trecento e GIAN
LORENZO MELLINI, Jacopo Avanzi a Padova, in Giotto e il suo tempo, p. 216-219; DAVIDE BANZATO, L’impronta
di Giotto e lo sviluppo della pittura del Trecento a Padova, in Giotto e il Trecento, p.151. Sugli affreschi di
d’Avanzo nella cappella di San Giorgio: SPIAZZI, Pittura a Padova, p. 143.
271 Fabrizio della Seta; Lorenzo da Firenze; in Dizionario Universale della Musica e dei Musicisti; vol. 4°.
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Carlo Ciucciovino
Tevere, dove oggi sorge il lago di Alviano, un’abbazia, detta il Monastero di Sant’Andrea, che
si erge sulle pendici del monte Croce di Serra, sulla via che congiunge Montecchio a
Cocciano. Domina su tutti l’antichissimo castello di Guardege (oggi Guardea)272 e quello di
Poggio.273 La durezza delle fortezze è addolcita dai ricordi francescani, e primo fra tutti,
l’Eremo di Santa Illuminata, dove sgorgava un’acqua miracolosa che aveva proprietà curative
per gli occhi e che, verosimilmente, il santo di Assisi ha usato per curare i propri occhi. Santo
Francesco ha anche predicato agli uccelli in Carnano e i Baschi hanno utilizzato anche Santa
Illuminata per le proprie sepolture. Naturalmente, i conti Baschi dominano anche sull’abitato
da cui prendono il nome: Baschi.
A poche miglia a sud di Guardea, vi è Alviano con il suo forte castello, dominato dai
signori che ne prendono il nome, e poi l’alta e forte Lugnano 274 con la sua bella Collegiata.
Lugnano è conosciuta come “quasi portus grani Civitatis Urvis Veteris”.275 Proprio questa sua
importanza ha spinto Orvieto a imporre la sua influenza su tale luogo sin dal 1204. Tutti
questi borghi sono sulla via che porta ad Amelia. I signori di Alviano, che dominano un
castello posto molto più basso degli altri abitati debbono necessariamente assicurarsi le spalle
e per tale motivo vogliono il possesso di Guardea e di Poggio, e questa è una delle pochissime
vicende che creano motivi di tensione in queste località, per altri versi tranquille, come
testimonia il soave nome di una valle che è alle pendici dei monti: Valserena.
I Baschi, che abbiamo incontrato varie volte nella cronaca di questo secolo, sono
ghibellini purosangue e di idee imperiali è anche la vicina Todi, mentre Orvieto, dopo la
cacciata dei Filippeschi, è integralmente guelfa. Sia Todi che Orvieto tentano varie volte di
appropriarsi di questa zona di confine, in modo blando, perché il territorio appartiene alla
Chiesa. Nel 1232 Raynaldo di Uffreduccio di Bonconte di Alviano compie atto di
sottomissione a Todi per tutto il territorio che va da Monte Picasci (Melezzole), monte Croce,
Lugnano e Poggio di Guardea.276 I Baschi non debbono essere stati contenti di questa novità, e
Todi si deve essere comportata con i signori di Baschi in modo tale da tranquillizzarli che i
luoghi a loro cari non sarebbero stati toccati.277 Tuttavia, Todi presidia immediatamente i
luoghi e si comporta da dominatore, tanto che papa Gregorio IX nel 1237 lancia una
“Ammonizione” ai Tudertini, i quali non appaiono turbati dalla reprimenda pontificia ed
arrivano a mettere a sacco Amelia nel 1257. La vicinanza di Todi con i Baschi appare evidente
in una spedizione congiunta che i due potentati hanno condotto nel 1289 contro Margherita
Aldobrandeschi, contessa di Soana e Pitigliano.
Comunque, la presa di Todi su questi luoghi che ricadono sotto l’influenza dei Baschi si
allenta ben presto, senza che ne conosciamo i dettagli, e la città umbra si limita a vantare
diritti sulle Communantiae, cioè sui patrimoni posseduti in comune dalla comunità,
essenzialmente pascoli e boschi. Il problema è che anche Orvieto vanta gli stessi diritti e, sia
Todi che Orvieto, sostengono il proprio punto senza però ledere la signoria dei Baschi: in
pratica la situazione è inestricabile: i territori appartengono alla Chiesa, i Baschi ne sono
dominatori e Orvieto e Todi vorrebbero almeno poter pascolare e trarre legna dai boschi.
Naturalmente, quando nel 1367-68, Todi accetta la soggezione alla Chiesa, il problema
272 Nel 1158 papa Adriano IV acquista la metà di alcuni castelli dalla figlia di Raynaldo di Guardea, del
quale si ignora la stirpe, ma che forse è un Baschi. FIORONI, La famiglia Baschi di Carnano, p. 11.
273 Poggio è degli Uffreduzzi che, quasi sicuramente appartengono al lignaggio dei Baschi. FIORONI, La
276 FIORONI, La famiglia Baschi di Carnano, p. 19-20, tratto dalla Cronaca di G.F. DEGLI ATTI, p. 112. Ancora
oggi sulla porta di ingresso alla piccolissima cinta di mura di Tenaglie vi è lo stemma in pietra di Todi;
tale segno potrebbe però risalire al possesso che nel 1503 i Lamberti di Todi vantano su questo piccolo
centro, ibidem p. 73..
277 Da alcuni documenti risulterebbe che il castello di Guardea è di proprietà dei Baschi, si veda FIORONI,
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La cronaca del Trecento italiano
svanisce e inizia invece una lotta secolare degli abitanti per vedersi riconosciuto il diritto di
Communantiae per loro.278
All’inizio di questo paragrafo, scrivevo che la vita trascorre comunque serena su queste
pendici di monti e su queste valli ed abitati, perché le cronache non registrano azioni di
guerra che le abbiano coinvolte, e i loro nomi appaiono più frequentemente su atti di
proprietà che su resoconti di scontri. Ancora oggi queste cittadine, Lugnano, Alviano,
Guardea, Montecchio, che sorgono tutte su una terrazza a circa 400 metri d’altitudine sul
corso del Tevere, sono un’oasi di pace e bellezza.279
1372
977
CRONACA DELL’ANNO 1373
Ma, como dise la mia fornara, tristo è chi ha el caço in man, se’l no se
sa menestrare».3
§ 2. Genova e la Corsica
Mentre la Superba è così fortemente impegnata in Oriente, l’isola di Corsica non si può
dire che la lasci senza preoccupazioni. Il governatore che ha così ben fatto, Triadano della
Torre, è rientrato a Genova, dove vive tra difficoltà finanziarie, tanto da essere in prigione per
debiti.7 L’allontanamento dall’isola dell’energico Triadano ha indotto i nobili a rialzare il capo
4 STELLA, Annales Genuenses, p. 166 e nota 3; ACCINELLI, Genova, p. 86; LOPEZ, Storia delle colonie genovesi
7 Più tardi, dopo la sua morte, suo figlio Ranuccio ne rifiuta l’eredità perché gravata da troppi debiti;
e rinnovare aperta o velata ribellione. I feudatari si schierano con due famiglie principali in
competizione tra loro, i Gagionacci e i Ristagnacci. Con questi si allineano i de Casta e con i
primi gli Altiani. Genova decide di inviare nuovamente nell’isola Triadano, solo, che non
essendo questi solvibile, gli affianca formalmente Filippo Scalia, il quale, con qualche accordo
da noi non conosciuto, fornisce le garanzie finanziarie, ma non va personalmente in Corsica.
La nuova nomina di Triadano è la prova che egli ha dato buona prova di sé, infatti, scrive
Assereto: «nell’isola rimase la tradizione del suo governo come quello di un funzionario
energico e giusto».8 La sua venuta nella turbolenta isola sembra far rientrare la ribellione
contro Genova, ma non riesce a far placare gli odi che dividono i feudatari. Triadano, sapendo
di vari tumulti che oppongono i Gagionacci e i Ristagnacci con i loro aderenti, prova a
convocare un parlamento con gli uomini del Capocorso, Nebbia e Bagnacanina, ma senza
risultati. La Corsica si spacca sempre più profondamente in due partiti e la loro rivalità
durerà per più di un secolo.9 I capiparte rivali operano una complessa triangolazione anche
con il governo della repubblica di Genova, tempestando di querele il doge. Questi, il 19
novembre del 1372, incarica Melchio da Terrarossa di andare nell’isola ad appurare
personalmente la fondatezza delle lamentele. Per qualche ragione, Triadano della Torre crede
di avere la possibilità di far concludere un accordo tra i rivali e convoca una riunione a
Casinca. Sfortunatamente e incautamente, si fa scortare da Deodato de Casta, collegato con
uno dei partiti rivali, i Ristagnacci.10 Dopo un pernottamento a Venzolasca, mentre al mattino
seguente Triadano si sta recando al luogo dell’incontro, viene aggredito da alcuni uomini dei
Gagionacci, gettato da cavallo e colpito a colpi di lancia. Le sue gravi ferite lo riducono in fin
di vita, e, trasportato a Venzolasca, vi muore. Il fattaccio avviene sullo scorcio del 1372 o
all’inizio del 1373.
Sparito l’energico Triadano, i venti di ribellione si rinforzano, ma i capi del popolo, e tra
questi gli stimati Sambucuccio d’Alando e Franceschino d’Eviza, si mettono a capo dei loro
militi e sottomettono l’Oltremonti, da sempre cittadella dei feudatari. Come tutte le notizie di
questo periodo che riguardano la Corsica, nulla è certo ed i confini degli avvenimenti sono
sempre discutibili. Sappiamo però che Sambucuccio è a Genova verso la fine di agosto di
questo anno, presumibilmente per sollecitare altri aiuti dal comune.11 Genova ha però ben
altri pensieri per la mente che la Corsica: vi è la ribellione dei Fieschi, la peste e, ultimo
evento, la guerra per l’affronto di Cipro.
Salvatore, ricco di beni materiali ed ecclesiastici, che abitava nell’Agriata in un luogo detto Casta. I suoi
discendenti vanno a risiedere al Poggio di Santo Pietro di Nebbio e mantengono il nome di de Casta.
11 ASSERETO, Genova e la Corsica, p. 99-109. Poche notizie in PETTI BALBI, Genova e Corsica nel Trecento, p. 50
e MONTERISI, Corsica, p. 33-34; FILIPPINI, Storia di Corsica, lib. III, p. 199 narra l’origine dell’inimicizia tra le
parti contendenti e scrive che sono entrambe della pieve di Rogna. Ibidem p. 199-201 per questi fatti.
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980
La cronaca del Trecento italiano
poter meglio fare il proprio comodo, egli ha fatto in modo che il marito della donna fosse
stato esiliato. Messer Nicola convoca il cittadino, chiede al bandito se egli sia l’uomo che gli
ha tolto la sposa, ed egli conferma; allora rivolge il suo cipiglio al prepotente e gli domanda a
bruciapelo se sia vero, l’uomo non sa negare. Il podestà, in tutta la sua autorità, «senza più
parole o tempo», assolve il povero bandito dalla sua pena, che dovrebbe essere la forca, e
condanna invece all’impiccagione il prepotente cittadino. Il marito della donna precede la
lugubre processione, recando in mano un ramo d’ulivo. I parenti del condannato si affollano
intorno al podestà, premendo perché la sentenza sia sospesa, ma messer Nicola taglia corto,
dicendo: «E questo si diè fare a lui e così lo voglio fare impic(c)are, e non voglio dargli più
tempo, che non voglio che campi; e fogli ragione, e ho l’arbitrio di fare». La cittadinanza
gioisce della bella ed edificante storia. Ma messer Nicola rischia sempre, perché, alla fine del
suo mandato vi è il periodo in cui è soggetto a sindacato, e la sua decisione nel ricercare la
vera giustizia potrebbe causargli grossi dispiaceri; fortunatamente, «al fine del sindacato del
detto podestà, non vi fu alcuno che li dicesse nulla e partissi co’ le grazie di tutta Firenze».12 A
Siena, tuttavia, non sono tutte rose e fiori per il retto Nicola Rosso, egli entra infatti in
conflitto uno dei Riformatori, Giovanni di Meo, calzettaio, «il quale Giovanni fu il più
mag(g)iore e enorme peccatore che avesse mai Siena. Costui arse e robò Siena per nuovi
modi, di notte, molte case e buttighe (botteghe), e uccise donne più per nuovi modi
inistimabili; usò con commari e con figliole sue con disonestissime lussurie. Costui ferì se
medesimo, e apose che l’avea ferito uno dei Dodici, per calun(n)iare e’ Dodici e per avere
denaro del comuno, ed eb(b)ene assai. Costui era degno di mille morti più che alcuno che mai
fusse ricordato al mondo. El detto podestà li fe’ tagliare la testa co’ le forche in capo, non
potendo seguire suo volere: di che il popolo e’ Riformatori l’eb(b)ero per male del detto
podestà, e non fu rifermo». Comunque, Nicola Rosso può contare sull’alleanza di un altro
galantuomo, Ludovico da Mogliano, il Conservatore di Siena che entra in carica l’11 di
febbraio, «omo di buono tempo, riposato e savio e assai di speranza buona a tutti e’
cittadini».13 Il Conservatore ha immediatamente i suoi grattacapi, alcuni delinquenti,
appartenenti al popolo maggiore, cioè al popolo minuto, di notte penetrano con scale nel
monastero di San Momigliano. Il Conservatore li riesce a catturare e vuole condannarli alla
giusta pena, ma alcuni del popolo minuto gli si ribellano, levano a rumore una parte della
cittadinanza, bersagliano i suoi soldati e gli tirano verrettoni di balestra quando si mostra alle
finestre del palazzo. La città si arma, corre voce che sia in atto un colpo di mano dei Noveschi
e dei Nobili. Ma Ludovico, duro e coraggioso, fa decapitare i tre ladri, prende alcuni di quelli
che si sono levati a rumore e fa loro tagliare il capo.14 Tra i vari condannati vi è il nostro
indignatissimo cronista senese, che afferma: «E io Neri di Donato di Neri, ligrittiere, fui
conden(n)ato per la detta cagione in fiorini 50, e pagaili, e non v’ero, ché quando fu e’ romore
ero a Santa Maria in Bellem: e per questa cagione me n’andai a Firenze per due mesi».15
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Carlo Ciucciovino
l’esercito cittadino e lo mette in marcia uscendo per la Porta del Pratello.16 Con una massa
imponente di fanti: si parla di diecimila uomini della città e duemila del contado, si dirige
verso Bazzano, mentre i cavalieri bolognesi, «per le riviere e passi», si stanno incamminando
verso San Giovanni. Si avverte nell’aria la grande tensione: tutta la terra è deserta, vi sono
solo i due eserciti nemici. I Viscontei, temendo di essere assaliti, il sabato 15, nel primo
pomeriggio, tolgono frettolosamente il campo e si ritirano verso San Giovanni, ignari della
presenza della cavalleria nemica. La direzione della loro marcia è il fosso Galego,17 dal quale,
attraversando il fiume Panaro, si può raggiungere la bastia dei Cesi che è presidiata da gente
di Bernabò Visconti. A San Giovanni, quattrocento lance del capitano di guerra bolognese,
fra’ Daniele dei Frati di Santa Croce, si sono riunite con le duecento lance dell’Acuto, che è
prontamente accorso dal Piacentino. Una parte dei lancieri bolognesi, forse duecento, con non
più di duecento fanti, intercetta i Viscontei che sono impegnati a guadare il fiume e, senza
indugio, issate le insegne di Giovanni Acuto, del comune e di Galeotto Malatesta, li assale,
mentre manda a chiamare il resto della cavalleria. Giannotto Visconti crede che tutto l’esercito
bolognese, inclusa anche la sterminata fanteria, sia schierato contro di lui e decide di fuggire,
lasciando nei guai il resto dei suoi. La gran parte dei Viscontei si arrende: trecento capilancia
alzano le braccia, il resto dei cavalieri di Milano cerca disordinatamente di passare il Panaro, e
la gran parte di questi, appesantita dalle corazze, annega, avendo il fiume sponde molto alte
in quel punto. La rotta è totale, si valuta che su un totale di tremila cavalli, il nemico ne abbia
persi duemila. I Bolognesi, eccitati dall’inatteso e facile successo, discutono di come si sia
riusciti in questa mirabile impresa; una parte della motivazione nella pronta resa dei Tedeschi
viscontei è da ricercarsi nella paura che i soldati hanno di vendette per il loro atroce
comportamento verso la popolazione civile quando erano a campo nel Reggiano, e
nell’esercito bolognese vi sono molte «taglie di Romagna», cioè soldati di quella regione.
Giannotto, il comandante visconteo, è stato tra i primi a fuggire «laido e tristo e con gran
paura scampò vituperosamente».18 In seguito alla sconfitta, i Fontana, che tengono il castello
di San Giovanni in Croce, cedono la fortezza all’esercito ecclesiastico. «La perdita di questo
castello misse in gravissimo periculo il stato di Galeazo, imperò che da lui subito si
ribellarono quasi tutte le castelle dil Piacentino, quali erano in podestate de la factione
guelpha e tanta guerra cominciarono contra da quella citade, che quasi veruno non ne poteva
uscire per le continue scorrerie che faceva Francesco Scotto con molti altri rebelli, e Piacentia
solamente da gibellini era difesa». Al contempo, l’ottenimento del castello esalta il cardinal
legato, che, radunato l’esercito,19 insieme a Giovanni Acuto si reca nel Reggiano e nel
Parmigiano, devastandolo per tre giorni, prima di arrivare al castello, dove pone una forte
16 Annales Mediolanense; col. 752-753, ci dice che uno stipendiario visconteo, Pietro Teutonico, ha tradito
il suo datore di lavoro, inviando un suo messaggero al cardinale, per “insegnargli” tutte le mosse dei
Viscontei. È Pietro che accompagna l’esercito bolognese contro Giannotto. GRIFFONI, Memoriale, col. 183
specifica che le lance sono di tre cavalieri ciascuna.
17 O Gallico, la nota 6 in Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 282 precisa che è l’antico Fluvius Gallicus.
18 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 281-284; Annales Mediolanenses, col. 756 e CORIO, Milano, I, p. 839.
19 L’esercito è abbastanza ragguardevole: ne fanno parte 1.000 lance, comandate da John Hawkwood,
Guido de Pluina, “cognato” del papa, che ha con sé molti Guasconi, Ugolino da Savignano, al comando
di 300 lance del marchese d’Este, il “forte milite” messer Urceus Totinger, capo delle milizie tedesche,
Giorgio Pizino (Piccinino), al comando dei Burgundi. Il capitano generale è l’esperto guascone Amanieu
de Pommiers. Annales Mediolanenses; col. 753. La stessa fonte ci narra la vicenda del castello di Borgo
Nuovo, i cui abitanti “rustici” non hanno armi e non si curano di difendersi, aprono pertanto le porte ai
soldati dell’esercito bolognese, “quia credebant ire ad nuptias”, come se andassero a nozze, per realizzare
invece che i presunti alleati si comportano come invasori: violando fanciulle, rubando a man bassa e
sequestrando persone. DE MUSSI, Piacenza, col. 516 dice l’Acuto ha con sé 800 lance, Annales
Mediolanenses, col. 756 conferma il numero. CIBRARIO, Savoia, III, p. 225 informa che a gennaio il Savoia
passa in rassegna il suo esercito. Si veda anche POGGIALI, Piacenza, VI, p. 369-370.
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982
La cronaca del Trecento italiano
guarnigione e da cui, per mesi, opprime il Pavese e il Piacentino. Mentre le cose vanno così
male per i Visconti sul fronte orientale, non vanno certo meglio su quello occidentale.
Il 10 gennaio il Conte Verde è a Rivoli e qui ottiene dai suoi feudatari un grosso
contributo per la sua campagna: 10.500 fiorini, nonché il permesso di transitare con il suo
esercito nelle valli di Vermenaglia e Gezzo.20 Il primo obiettivo del conte di Savoia è Cuneo,
che assedia il giorno 14 febbraio per riceverne l’immediata capitolazione il giorno seguente.
Amedeo lascia la città alla custodia di Pietro Brevodi, Savoiardo, su suggerimento di
Francesco Bollero.21
Il conte Amedeo di Savoia ha iniziato a governare le terre conquistate come un suo
feudo, ma Giovanna di Napoli, l’8 gennaio del ’73, rivolge un appello agli Stati di Provenza,
ed incarica Nicola Spinelli di ricevere dal Conte Verde le località riconquistate. Interviene il
papa, e, il 14 febbraio, Amedeo si vede costretto a riconsegnare Cuneo al rappresentante di
Giovanna.22
Finalmente, a fine febbraio,23 il conte Amedeo di Savoia, si mette in marcia per portare
l’offensiva nel cuore dei territori viscontei. Sono con lui le truppe del Monferrato. Passati la
Sesia ed il Ticino, l’esercito non punta direttamente su Milano, ma gira a nord, e si accampa a
Vimercate, da cui conduce incursioni sul Milanese, arrecando gran danno. Al campo, lo
raggiungono alcuni dei della Torre, i superstiti della famiglia devastata dai Visconti, e
Luchinetto, il figlio esule del defunto Luchino Visconti, cui viene affidato il comando delle
truppe del Monferrato. Il conte di Savoia non ama i mercenari, che ritiene gente volgare e
rozza, e che chiama Truans, egli preferisce affidarsi alle salde milizie feudali, ed è convinto
che le sue mille lance valgano quanto i fiorini ed i mercenari dei Visconti. L’esercito sabaudo
è stato affidato a due marescialli francesi: il Montmajeur e La Baume.24 Pochi giorni dopo,
Amedeo fa gettare un ponte sull’Adda, al castello di Brivio, e penetra nel Bergamasco. Tutti i
guelfi della regione alzano la testa e si ribellano a Bernabò.25 Il 14 marzo l’abile Nicola Spinelli
viene nominato capitano generale dalla regina Giovanna. Successivamente, il 20 giugno
Gregorio XI lo nomina commissario per la prosecuzione della guerra. Nicola si mette subito a capo
delle truppe ed il 2 agosto riprende Centallo, fallisce contro Brà e Cherasco, ma nella notte sul
17 ottobre riesce ad impadronirsi di Vercelli.26
Commenta Francesco Cognasso: «Non pare che Amedeo VI abbia dato alla sua
spedizione un carattere di grave ostilità contro i Visconti», evidentemente vuole solo
dissuadere i signori di Milano a non allungare le mani sul Piemonte occidentale, ma non
desidera neanche vengano completamente battuti.27
A marzo, mentre l’esercito sabaudo è accampato a Vimercate, si tratta la pace tra lui e
Galeazzo Visconti. I negoziati proseguono scorrevolmente e i Visconti arrivano ad inviare
20 GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p. 353-354; questa fonte ci elenca i
feudatari presenti a Rivoli: Guglielmo Grandson, signore di S. Croce e Albano, Girardo d’Estres, Ibleto
di Challant, Bartolomeo di Chignin, Carlo dei marchesi di Ceva. Gioffredo registra anche, a p. 353, il
passaggio per Nizza di Giovanni Lascaris, cavaliere gerosolimitano, che sta andando ad Avignone dal
papa.
21 GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi, vol. 3°, p. 354.
24 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 282-284 e COGNASSO, Visconti; p. 253; GRIFFONI, Memoriale, col. 183.
Sono Stefano de la Baume e Gaspare di Montmajeur, COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 174. I loro
nomi sono deformati in CIBRARIO, Savoia, III, p. 227.
25 CORIO, Milano, I, p. 839-840; DE MUSSI, Piacenza, col. 517-518; COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p.
175-176.
26 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 546-547; GIULINI, Milano, lib. LXXI anno 1373; per il ponte presso il
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Carlo Ciucciovino
33 Di questa Nicoletto così scrive: «Et così al dicto vado de Onaro, lago palustre, ma pur alquanto fermo
et sodo, desmontono in terra et lì prese una cinta de terrena presso al dicto canale, nel qual elli per soa
segurtà tegniva i soi navilii et la nocte se redusea ad albergar in quilli, el qual luogo de dì in dì con ovre
che elli fe’ vegnir da Chiogia e da altre soe contrade elli infortì prima de gran fosse, poi de stechado con
molti barchoni apti ala difesa del dicto luogo e quello in no troppo tempo elli acresse in sì gran cinta, che
quasi ello parea una cità et per simele l’infortì de fosse et de palanchadi et con torre de ligname molto
spesse. Ala qual forteca poi elli redusse la gente d’arme, che elli havea et in processo de tempo, segondo
che elli andò fasando cente d’arme, così le redusse al dicto luogo». Citato da SAMBIN, La guerra del 1372-
1373, cap. 13.
34 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 12.
35 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 13.
36 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 14. Vedi anche GATARI, Cronaca Carrarese, p. 82.
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La cronaca del Trecento italiano
gente.38 Il 16 di gennaio sono arrivate lettere con offerte di pace da parte di Alberto e
Leopoldo duchi d’Austria. Nel campo del Padovano i duchi porterebbero anche i loro
sottomessi: Xicho (Sicco) e Martin da Castelnovo, Blasio da Thesodio, Francesco da Castello,
Stuchon de Andratio. Il re d’Ungheria ha promesso Feltre e Belluno ai duchi per ottenerne
l’alleanza.39 Il patriarca d’Aquileia Marquardo invece, anche consentendo il libero transito ai
soldati del re d’Ungheria, non ha nessuna intenzione di impegnarsi personalmente contro
Venezia.40
Messer Peio, arcivescovo di Ravenna e conte di Prata, nonché cugino di Francesco da
Carrara, gli invia quattro bandiere di fanti per servirlo per tre mesi.41 Michele da Rabbata,
l’ambasciatore di Francesco alla corte di re Ludovico, si incarica di assicurarsi che non vi
siano malintesi e che tutte le necessarie informazioni siano correttamente note ai due sovrani
alleati. Francesco da Carrara ha digerito con difficoltà l’alienazione di Feltre e Belluno a
favore dei duchi d’Austria, ma gli Ungheresi hanno pur bisogno di passi sgombri dove far
transitare le loro truppe, e quindi l’alleanza con i duchi d’Austria è essenziale. Pantalon
Barbo, l’ambasciatore veneziano alla corte di Visigrado, viene bruscamente congedato, e
Ungheria ed Austria iniziano a rendere la vita difficilissima ai commercianti veneziani.42
Re Ludovico annuncia al Carrara che ha intenzione di inviargli in rinforzo uomini
d’arme agli ordini del giovane Carlo di Durazzo, Piero ban, il conte palatino, l’arcivescovo di
Strigon ed il duca di Sclavonia.43 Intanto, il duca d’Austria, che ancora non ha concluso
l’alleanza con Carrara ed Ungheria, è tuttora al servizio di Venezia ed il 23 gennaio arriva nel
Trevigiano, al comando di milleduecento cavalli; alloggia a Montello e di qui si lancia in
rovinose incursioni.44 Il 26 gennaio i Veneziani cavalcano a Piove di Sacco e il 31 riescono a
strappare ai Padovani la forte bastia di Lova, inspiegabilmente mal guardata.45 Il primo
febbraio Giberto da Correggio viene nominato capitano generale dai Veneziani. Il 6 febbraio
Simone Lupo corrompe un Tedesco di guarnigione a Lova, perché appicchi le fiamme alla
fortezza. Il soldato accetta, di notte dà fuoco e gran parte della bastia arde, insieme a
munizioni e 300 cavalli. Evidentemente i danni non sono irrecuperabili, se pochi giorni dopo
troviamo un’altra azione aggressiva dei Padovani contro la fortezza.46 L’8 febbraio arrivano a
Padova le durissime condizioni di pace proposte dalla Serenissima, Francesco da Carrara ed i
suoi consiglieri, ben certi di avere delle buone carte da giocare, le rifiutano sdegnosamente.47
L’11 febbraio, Federico ed i fratelli Leopoldo e Alberto, duchi d’Austria, inviano i loro
procuratori a prender possesso di Civitale e Feltre dalle mani dei vicari del Carrara, Giovanni
Salgardi da Feltre e Francesco Turchetto. Ottenute le città, inviano a Padova degli ostaggi in
garanzia della loro buona fede.48 Il 9 marzo il re d’Ungheria, i duchi d’Austria e Francesco da
38 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 26.
39 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 16 e 18. Il documento di pugno di Francesco da
Carrara che promette le due città agli Asburgo e le condizioni della cessione sono in CAPPELLETTI,
Padova, I, p. 312-313, riprese da CITTADELLA p. 322-323.
40 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 21.
41 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 27., Il comandante di queste bandiere è il Fiorentino
Zaffaro, che, tradendo, andrà incontro ad una gran brutta fine. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo
14°, p. 196.
42 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 30-32.
43 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 35.
46 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 83-84. Per le trattative e l’intervento degli Asburgo: VERCI, Storia della
Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 192-194; SAMBIN, La guerra del 1372-1373, cap. 14 c.
47 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 196-198, per dettagli si veda SAMBIN, La guerra del
1372-1373, cap. 14 a.
48 Gli ostaggi sono messer Arrigo figlio dell’Hofmeister e messer Giovanni di Avogaro di Vienna. GATARI,
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§ 7. Terremoti
Un giorno di gennaio imprecisato la terra trema due volte nel Vicentino. Un’altra scossa
tellurica viene avvertita in una notte di aprile.56
49 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 56 e 57.
50 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 198-199.
51 FRANCESCHINI, Malatesta, p. 140-141; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 284. AMIANI, Fano, p. 295 scrive
53 FRANCESCHINI, Malatesta, p. 157, nota 10; Chronicon Ariminense,col. 913 specifica che è morto in Pesaro.
56 CONFORTO DA COSTOZA, Cronaca vicentina, p. 6, echeggiato da CASTELLINI, Storia di Vicenza, lib. 13°, p.
88.
57 Probabilmente il Veneziano che tenta di corrompere Zaffaro è Leonardo Dandolo, di stanza a
La dominazione carrarese in Padova, p. 327; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 201-203. La
Ystoria de mesier Francesco Zovene; cap. 79, racconta un po’ diversamente l’orrenda morte dei traditori: Il
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podestà di Bassano, Frusterin Capodevacca, condanna i malfattori; Zaffaro “vivo fo rostio su la piaza de
Bassan, e po’ in quattro parte squartà, e i quarti fo messi a le mure del castello. Ma el fradelo del dito
Zaffaro, zoveneto, perchè la sera denanzi aveva sapù del tratà, vezando el fradelo, fu apichà. Quattro
compagni de Zaffaro consencienti del tradimento, fo messi in sachi e anegà in la Brenta; uno fo manganà
fura del castello (Bartolazo de Romagna, specifica il Gatari), dui fu sepelì vivi, uno fu messo in man di
puti, i quali el strassinà ligà cum soghe per tuto el castello e finalmente fo messo dai puti in un mughio
de fave dela municion ardente e finì miseramente la soa vita. Quatro a Citaela e quattro a Pava fo a
cercha le piaçe ataneyà e po’ apichà. La maor parte de quighi, i quali in tuto fo 29, fo apichà ay arpori
fura de Bassan”. I nomi di alcuni degli sventurati protagonisti di questa vicenda sono in GATARI, Cronaca
Carrarese, p. 91 e 92: Zaffaro da Fiorenza e Zuane da Siena, conestabili, “arostidi in Baxan e le suo’ carne
fu da’ ai chani”; “Bertolazo di Romagna fu mangana’ nela chazuola dil mangano, il quale gitato in aere
nel disendere percose sovra una chaxa di Baxan e sfonderò i cop(p)i, perfino sul solaro disese; puo’ così,
nè morto nè vivo fu tolto e squartà e apichà in quatro parte di Baxan”; Maxino da Forlì e Bergognolo di
Romagna, “conestabili, fu tanagliadi suso uno charo per spazio de sie (6) ore”.
59 MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, II, p. 201-203; LEONARD, Angioini di Napoli, p. 542-543.
60 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 543-544; CAMERA, Elucubrazioni, p. 270 che riporta anche la bolla con la
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L’unica clausola che Federico IV ritiene offensiva è il giuramento di fedeltà alla regina
Giovanna, giuramento che il re di Sicilia non farà mai e il sovrano mobiliterà tutte le sue leve
diplomatiche per far annullare questa clausola, tanto da rinunciare ad una incoronazione
formale pur di non sottoporsi a questa pratica.63
L’eliminazione dell’interdetto all’isola viene subordinata al pagamento di una tassa
odiosa e pesante, un tarì per ogni membro della famiglia che sia maggiore di dieci anni. Gli
esattori pontifici, Giovanni vescovo di Sarlat e Bertrand du Mazel, incontrano molte
resistenze e difficoltà nella loro opera; i Siciliani preferiscono mantenere l’interdetto piuttosto
che pagare il tributo e accolgono gli ecclesiastici collettori con insulti e male parole. Il papa,
visto il fosco panorama, si rivolge direttamente a re Federico perché intervenga. Il sovrano
promette il suo interessamento. L’imposta viene rimodulata: il tributo va pagato per famiglia:
una famiglia ricca paga tre tarì, due tarì una famiglia di media condizione, un tarì per le
famiglie modeste. I poveri, realisticamente, non pagano nulla. Sono esentati, perché infedeli,
gli Ebrei e i Tartari e nulla debbono gli ecclesiastici. Risolto il problema, re Federico chiede al
papa che un terzo dei denari raccolti gli vengano versati. Comunque, l’attività di riscossione
dura a lungo, procedendo lenta e tra molte difficoltà: si concluderà solo nel 1376. Man mano
che i versamenti venivano perfezionati, l’interdetto veniva tolto in quei luoghi.64
La pace di Aversa non può non risultare gradita anche a Pietro il Cerimonioso, che, con
il suo matrimonio con Eleonora di Sicilia nel 1349, ha posto la sua ipoteca sul regno dell’isola.
Ora la Sicilia è indipendente da Napoli e pertanto è più facile – o, almeno possibile - farla
cadere nelle mani aragonesi. Ora poi che la Sardegna è in aperta ribellione, e ormai quasi
interamente nelle mani del giudice d’Arborea, appare sempre più promettente poter attingere
alle ricchezze della Sicilia. Il problema è che por fine alla dinastia esistente nell’isola non è poi
così facile, anche perché l’usanza di trasmettere il trono anche per via femminile è consolidata
nella famiglia reale siciliana. Ma, col il tempo, si vedrà.65
§ 11. Siena
Il comune di Siena cerca di mettere pace nei territori a lei vicini, che ribollono di contese.
Montemerano e Baschi sono da tempo in guerra tra loro, e, in marzo, Siena invia dei pacieri.
Monterotondo e Volterra litigano per questioni di confine. Abbadia San Salvatore e Pian
Castagnaio sono in contesa. Il conte Aldobrandino di Santa Fiora è in guerra contro la vedova
di Giovanni d’Agnolino Salimbeni, madonna Biancina. Arezzo cavalca sul territorio di
Lucignano in Valdichiana; ovunque Siena invia degli ambasciatori a metter pace.67 Il 5 marzo
viene rinvenuto a palazzo il cadavere di uno dei Riformatori, messer Zaccheo. Egli è morto di
morte naturale, senza che nessuno se ne avvedesse. Il comune gli rende solenni – e costose –
onoranze funebri, recando «24 doppieri grandi e molti torchi e candele», ed ordinando che le
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botteghe vengano chiuse. Sono onori riservati neanche al capitano del popolo,68 e, quando
crollerà il regime dei Riformatori, Ibo, il figlio di Zaccheo, sarà obbligato a pagare le spese del
funerale. Il governo di Siena tiene consiglio generale ogni venerdì. Il gettone di presenza
frutta due soldi ad ogni partecipante, per ogni riunione. Il denaro viene corrisposto dal
camerlengo, che lo preleva dal fondo costituito col denaro delle multe. Il camerlengo
guadagna 40 soldi al mese.69
68 Il nostro cronista ricorda che quando morirono i capitani del popolo Sozino di ser Mino e Ambrogio
Gerini, i loro funerali ebbero 12 doppieri “e non altro”, mentre nulla toccò ai signori morti Guido Finetta
e ser Lorenzo di Dota. Cronache senesi, p. 650.
69 Cronache senesi, p. 650.
74 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 40.
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75 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 41 e 42. GATARI, Cronaca Carrarese, p. 88.
76 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 45 e GATARI, Cronaca Carrarese, p. 92.
77 SAMBIN, La guerra del 1372-1373, cap. 15. Sambin nello stesso capitolo dà conto delle vigorose azioni
intraprese dalla Serenissima, che testimoniano la sua granitica volontà di resistenza. POGGIALI, Piacenza,
VI, p. 370 ci informa che Corrado con 400 lance è stato precedentemente reclutato da Galeazzo Visconti
per far guardia a Piacenza e, sulla scorta del Musso, lo definisce fidatissimo e valoroso.
78 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 89; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 199-200.
79 Antonio da 5 giorni è stato nominato vice capitano, mentre Simon Lupo è stato “disfatto e privato di
82 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 93. Qui è anche la lista dei principali prigionieri, che, portati a Padova, vi
resteranno fino al 6 giugno, quando Veneziani e Padovani si accordano per uno scambio di prigionieri.
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frutti della rapina, poi cavalca a Conegliano dove prende millecinquecento capi di bestiame e
quattrocentosessantadue prigionieri.83
Il 6 aprile, i Padovani iniziano la costruzione di un’altra bastia alla villa di Campagna
Lupia, presso il Churan, il Curame: viene fatta una fossa di due miglia che collega il fiume
all’acqua salmastra, poi viene costruita l’opera in legno, e, per non essere disturbati dal
nemico, una gran forza padovana sorveglia i lavori. Vi sono 1.600 armati, e sono al comando
Francesco da Carrara, Luigi Forzatè, Federico da Manteloro, Zanin da Peraga, Federico da
Valonga, Simone e Bonifacio Lupo e gli Ungheresi di Benedetto e Stefano. La badia viene
chiamata Serraporci e completata nella settimana dell’olivo, in soli sette giorni di lavoro.
Un’altra bastia viene fatta alla villa di Boion, protetta da fossati e bitifridi (battifredi) e ponti
levatoi. I Veneziani rispondono rapidamente alla fioritura di bastie avversarie: in una sola
notte costruiscono una piccola bastia che impedisce la via tra Serraporci e Rosinvalle. Dal
nome del soldato veneziano che l’ha ideata, Giacomo da Medesina, viene chiamata la bastia
di Medesina. Sorge ad un miglio dalla bastia principale dei Veneziani, ed è a mezzo miglio
rispettivamente da Serraporci e Rosinvalle. L’ingegnere dei Veneziani è maestro Goro da
Forlì. Questi verrà catturato dai Padovani fra un paio di mesi, quando i Padovani
riprenderanno la bastia di Lova, abbandonata da loro e fortificata dai Veneziani.84
Dalle bastie, i contendenti manganano continuamente proiettili, e, spesso lanciano azioni
aggressive contro i nemici, ma non si può dire che, per la continua sorveglianza dei rivali ,
queste iniziative approdino ad alcunché.85 Per evitare che le navi veneziane possano
liberamente percorrere il canale Laronçello, Francesco da Carrara dà ordine che venga
costruita una bastia in località Churanello, dietro le Gambarare.86 I Veneziani allora cercano di
assicurarsi i rifornimenti costruendo una bastia sul canal di Lova, «per contrario de Santa
Maria da Lugo». Zanin da Peraga, con ottanta uomini, si muove di notte e va a vedere se può
impedire la costruzione della nuova piazzaforte veneziana. Quando arriva sul posto è l’alba e
vede il ponte della fortificazione calato. Due ardimentosi: il padovano Antonio da Cressenço,
“homo forte et ardito”, e il Bolognese Antonio da Loian, prendono con sé due compagni e con
loro entrano nella costruzione, uccidendo il capitano e due suoi compagni; ma gli altri
difensori salgono sulle bertesche ed alzano il ponte levatoio; i coraggiosi aggressori sono
costretti a ritirarsi.87
Il 16 aprile, sabato santo, Giberto da Correggio esce dalla bastia di Lova e conduce i suoi
ad assaltare la nuova fossa scavata dai Padovani. Si accende una violenta battaglia, e per ben
due volte i Padovani sono rotti, ma si ricompongono e tornano all’assalto. L’episodio
risolutivo che decide le sorti della giornata è costituito dall’entrata in azione del poderoso e
nobile Giovanni Ungaro Zotto, che con la sua grossissima lancia, atterra uno, due, tre
avversari, poi, quando l’arma si spezza, abbandona la briglia del cavallo, impugna la spada a
due mani, si lancia contro i nemici, aprendosi un varco sanguinoso tra le loro fila e mettendoli
in rotta. Sul campo si contano cinquantadue cadaveri di Veneziani e sette di Padovani. Sono
stati catturati 40 Veneziani ed 8 Ungari, che vengono condotti a Venezia. Il giorno seguente,
Pasqua, quattro di questi vengono annegati, legati in sacchi, e quattro scorticati “tra mezo le
colonne”.88 Il giorno seguente, il Voivoda Benedetto, deciso a vendicare la morte dei suoi
commilitoni, all’alba, cavalca verso la bastia di Rosara, e, giunto alla fossa, assale i Veneziani,
li sconfigge, distrugge la fossa ed erige una grossa bastia nella contrada Beveraria. I Veneziani
86 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 51.
87 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 52.
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92 Sappiamo dal fatto che questo è il giorno in cui Marsilio da Carrara arriva a Padova, che nella zona
imperversa un fortissimo temporale, con vento forte e pioggia battente. Probabilmente il fortunale ha
allentato la sorveglianza, favorendo al malintenzionato di appiccare l’incendio, ed il vento l’ha
alimentato, ma la pioggia, in qualche misura, deve averlo contrastato.
93 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 97 riporta i nomi dei comandanti danneggiati: Bonifacio Lupo, Zanin da
96 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 98; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 207-208.
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101 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 59 e 60. Per il numero degli Ungari si veda La
Ystoria de mesier Francesco Zovene; cap. 88. Quest’ultima fonte, al cap. 91, ci informa anche del fatto che
molto frequentemente, “ogni terzo dì”, Francesco Novello si reca a trovare gli Ungari. GATARI, Cronaca
Carrarese, p. 99. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 209.
102 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 100.
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103 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 99, vedi nota **, tratto da Andrea Gatari; VERCI, Storia della Marca
Trevigiana, tomo 14°, p. 210-211. Tra i comandanti della Serenissima vi è un cittadino di Sansepolcro,
Bartolomeo di Martino di Giovanni Dotti e, orgogliosamente, l’abate Pietro Farulli scrive che egli è stato
onorato dalla repubblica di Venezia che gli ha concesso di mettere il leone di San Marco nella sua
insegna, FARULLI, Annali di Sansepolcro, p. 28.
104 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 103. Andrea Gatari dice 10, Galeazzo e Bartolomeo Gatari, 8.
105 Detta poi Porta Portello, ora Porta Venezia, GATARI, Cronaca Carrarese, p. 101, nota 2.
110 I nomi dei comandanti delle 10 galee sono in GATARI, Cronaca Carrarese, p. 103.
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fossa. Francesco da Carrara ed il voivoda cavalcano verso i Veneziani per rendersi conto di
persona della consistenza dell’avversario. Tornati al campo ordinano ai loro di esser pronti
all’alba del giorno seguente.111
«Pasate le noturne tenebre, le quale el sole con suoi razi inlustrando la terra chazava», il
voivoda ordina il suo esercito: invia il fortissimo Giovanni Zotto con settecento Ungari contro
il fosso veneziano, incaricandolo di attaccare battaglia, poi Stefano divide gli altri Ungari in
due schiere, la prima di 1.500 uomini, assumendone il comando, e dando loro il suo vessillo:
un drago d’oro in campo azzurro. La seconda schiera di 2.000 Ungari è affidata a Tommaso
Ongaro, a cui affida lo stendardo del re d’Ungheria. I Padovani sono anch’essi disposti in due
schiere, la prima agli ordini del conte Rizzardo da Sambonifacio, con 2.600 cavalieri, la
bandiera di questi è uno stendardo azzurro con una stella d’oro, e sopra una banda a strisce
bianche e nere. La quarta schiera è agli ordini del signore di Padova, con i fratelli, ed il
giovinetto Francesco Novello; sopra di lui sventola la bandiera del re d’Ungheria e del
Carrara. Cinquecento Ungari vengono lasciati a guardia di Francesco da Carrara.112 La
fanteria, seimila uomini, è suddivisa in due corpi, il primo, comandato da messer Africano di
Bartolomeo Enselmini, raduna tutti gli arcieri e balestrieri e pavesari ed issa un’insegna dove
in basso è il carro rosso dei Carrara su fondo bianco, ed in alto il saracino su campo verde. Il
secondo corpo, al comando del valoroso Zanin da Peraga, segue un’insegna col solo simbolo
del Carrara, ed è formato dai «provisionadi e contadini da lanze longhe». Dietro, una massa
indistinta e disordinata di guastatori con zappe e vanghe.113 Giberto da Correggio, visto
l’esercito nemico in formazione di battaglia, fa calare il ponte levatoio della sua bastia ed esce
armato con i suoi tremila cavalieri e mille balestrieri veneziani. Lo scontro ha inizio con uno
scambio di verrettoni e frecce tra i due corpi nemici, poi il voivoda Stefano sprona il suo
cavallo e, trascinando i suoi, cozza contro le schiere veneziane, scavalcando nemici e, rotta la
lancia, ponendo mano alla spada. «La gente di meser lo re, sotto la conducta de Steffano
vaivoda trasilvan, la fereça del qual et soa çoventù ie fasea bulir el sangue et alegrava el so
anoimo gaiardo, et la gente del magnifico signor meser Francesco da Carrara, sotto soa
conducta et auspicii et dela soa generosa casa da Carrara, con le schiere facte et ordenade, con
le bandiere levade et con le vose (voci) levade al cielo, con un virile animo per lo traverso, con
i archi in mano, con le lançe et con le spade, et con i soi cavalli gaiardi et leçieri assaltonno i
nimisi apariadi et prompti per contrariar ai predicti. I predicti hongari et la gente del predicto
signor meser signor Francesco con i archi, con le lançe et con le spade valorosamente
caregando adosso a quilli da Venesia et ala soa gente, fasando de lor grande frachasso, et
quilli con soe balestre et altre arme contrariando ala dicta gente, et, quanto i’ era conceduto,
fasando contra loro resistentia e defesa». Ma i Veneziani non sono avversari da poco e,
bersagliandoli con le balestre, costringono gli Ungheresi a voltare le spalle, catturandone
molti. Irrompe ora nella battaglia Rizzardo da Sambonifacio, che, «ferendo e abatendo
fortemente» costringe i Veneziani ad indietreggiare. Giberto da Correggio riequilibra le sorti
della battaglia, uccide dodici Ungari e ne cattura quattro, tra cui un nipote del voivoda.
Ormai la lotta è totale: sono entrati in campo anche Tommaso Ungaro, e Zanin da Peraga e
Africano Enselmini, i quali «con sua fanteria facieva(no) gran mazello». I due eserciti sono
completamente mescolati, e i Veneziani, malgrado la loro inferiorità numerica, appaiono
prevalere. Stefano esce dalla mischia, raduna i suoi e ritorna ad immergersi nella battaglia
compiendo prodigi di valore. Anche i fratelli di Francesco da Carrara e il giovane Francesco
Novello si gettano nella mischia, facendo “strazio dil sangue veneziano”. Giberto da
Correggio si perde d’animo, sente di non poter resistere oltre e fa suonare a raccolta,
ritirandosi nella bastia. Dopo aver lasciato trecento dei loro sul campo, i Veneziani volgono le
spalle e si precipitano a cercare riparo nella bastia. La guarnigione di questa, terrorizzata
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dalla massa degli inseguitori, richiude le porte, mentre gli armati si ammassano sul ponte e
molti cadono nel fosso, annegandovi, appesantiti dalle proprie armi. La sconfitta veneziana
soffrirebbe una tragedia ancor maggiore, se, magnanimamente, Francesco da Carrara, non
decidesse di interrompere l’attacco, «parendo esser facto assai». I Veneziani lasciano molti
prigionieri nelle mani del nemico, trecentotrentasette per la precisione; ottocento Veneziani
sono morti, uccisi in battaglia o annegati, tra questi, sessanta nobili veneziani. «Era la
campagna tuta sanguinoxa per lo molto sangue ch’era di nostri christiani crudellemente
spanto e scalpestrato con grande vituperio da chavagli; molti morti e braze e teste era su la
canpagna». I caduti sono spogliati delle loro belle armature e molti feriti sono sepolti semivivi
nel fosso che hanno contribuito a scavare. La sproporzione delle forze in campo è
testimoniata dal fatto che i Padovani e Ungheresi debbono lamentare molti feriti, ma solo
cinque morti114 ed un prigioniero, uno solo, Franco, un Ungherese, figlio del ban Cogne,
«homo magnifico, çovene gaiardo, ma no troppo experto in la chaça (caccia)». Questi si è
lanciato tanto innanzi che, stretto dai Veneziani, non è più potuto tornare indietro.115 Il 22
maggio, per fuggire l’aria cattiva, Stefano Transilvano lascia il campo di battaglia e va di
stanza a Cittadella.116 Alla battaglia ha partecipato, comportandosi bene, il quattordicenne
Francesco Novello nel suo bell’abito di velluto candido dove spiccano i molti carri rossi, e sul
campo di battaglia intriso di sangue egli viene investito della dignità di cavaliere.117 Il 15
maggio le bandiere di San Marco entrano, trofeo prestigioso, in Padova.118 Il 18 maggio,
troppo tardi per partecipare alla vittoriosa battaglia, messer Pietro Ungaro passa il Piave,
portando altri cinquecento Ungari al signore di Padova.119 Nel transitare per il Trevigiano,
secondo il solito costume ungherese, produce molti danni.
114 Altre fonti parlano di un numero di caduti che a me appare più credibile: le perdite padovane
ammontano a 250 uomini.
115 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 106-107; ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 62-66. La lista
dei prigionieri è contenuta nei cap. 67 e 68 e nelle pagine 107-111 del Gatari. La vicenda di Franco
Ungaro nel cap. 81 dell’Alessio. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 211-214. SAMBIN, La
guerra del 1372-1373, cap. 15.
116 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 70.
117 La Ystoria de mesier Francesco Zovene; cap. 96. Gli altri neo-cavalieri sono suo zio Nicolò, Enrico e
Giacomo Scrovegni, Francesco Dotti, Negro Negri, Boscarino Buzzacarini. Anche KOHL, Padua under the
Carrara, p. 123-124.
118 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 112.
119 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 112; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 214-215.
120 PELLINI, Perugia, I, p. 1129-1130; i delegati che Città di Castello invia sono Sinibaldo di Muzio, Maffeo
di Bongianni, Ghino di Bettino Migliorati e Angelo di Cino, MUZI, Città di Castello, vol. I, p. 181,
l’imposizione a questa città per la lotta contro i Visconti è di 5.000 fiorini. I consigli cittadini autorizzano
un esborso di soli 1.000 fiorini, MUZI, Città di Castello, vol. II, p. 223.
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inarrestabile la forte reazione del popolo alla fine del 1375.121 Comunque, commenta Jean
Favier, il cardinale impone allo stato pontificio un carico difficilmente sopportabile dalla
popolazione.122
Manenti, p. 466-467.
124 GORI, Istoria della città di Chiusi, col. 960.
125 Queste e molte altre soperchierie sono narrate in Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di
Cipriano Manenti, p. 466, nota 1. Anche Ephemerides Urbevetanae, Cronica Urbevetana, p. 205 registra le
vessazioni e commenta che i comuni non sono in grado di sostenerle.
126 DE MUSSI, Piacenza, col. 519.
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In aprile, Bernabò Visconti, volendo contrastare le azioni militari del legato pontificio e
del marchese di Ferrara, che hanno intenzione di navigare sul Po e di approdare sulla sponda
milanese, fa edificare un ponte in legno sul fiume. Lo fa costruire quattro miglia sotto
Guastalla. Nello stesso mese, conduce azioni di distruzione su torri della Chiesa nel
Parmense; non solo questi obiettivi strettamente militari, ma anche mezzi di sostentamento
della popolazione, come mulini, forni, pozzi. Le vigne vengono avvelenate. Ma il ponte
visconteo non basta: gli estensi e gli ecclesiastici caricano legname sulle navi e, in maggio,
gettano un ponte che consenta i loro soldati di penetrare nel territorio bresciano.127 Bernabò
Visconti giornalmente tenta di distruggere il ponte che garantisce libero passo alle truppe
savoiarde e il Conte Verde chiede soccorso a Bologna. Da Bologna vengono Giovanni Acuto,
Enguerrard de Coucy e Amanieu de Pommiers, passando per il ponte della Stellata.
Alla difesa delle terre, Galeazzo mette Anichino di Baumgarten ed altri Tedeschi. Gian
Galeazzo è giovane, ed inesperto: egli conduce l’esercito nel Bresciano, al Ponte della Nave
per vietarne il passo all’Acuto; ma, forte del numero, procede con scarso ordine e, passato il
fiume Chiesa, a Gavardo, presso Montichiari, incappa in mezzo ai temibili nemici, partiti da
Bologna l’8 maggio, che lo assalgono «comettendose atrocissima pugna». Dopo un episodio
iniziale nel quale Enguerrand di Coucy, con la sua foga sconsiderata per poco non procura la
disfatta alla forze collegate, il capace Giovanni Acuto, con alquanti dei suoi, si dirige verso
un’altura, e intercetta l’incauto Gian Galeazzo, il quale, con pochi armati, si è allontanato dal
suo esercito per raccogliere bottino. Gian Galeazzo deve ricevere il duro assalto dell’Inglese,
che lo scavalca, catturando molti dei suoi compagni. A stento, Gian Galeazzo riesce a
scappare, lasciando lancia ed elmo sul campo di battaglia, mentre gran parte del suo esercito
cade nelle mani del nemico, settecento morti e cinquecento prigionieri sono il risultato
dell’inesperienza di Gian Galeazzo.128 Molti eminenti nobili lombardi cadono prigionieri, e
solo l’intervento dei Viscontei è riuscito a strappare il giovane Gian Galeazzo dalle grinfie
degli Inglesi, che lo hanno già stretto da vicino. Giovanni Acuto però sceglie di non sfruttare
il successo, ed il conte di Savoia decide di tentare la via dei monti, per il Bresciano e il
Bergamasco, non dandosi tregua finché non riesce ad arrivare a Bologna.129
Parma,p. 199; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 285-287 che precisa che tra i prigionieri italiani vi sono il
marchese Francesco d’Este e Andrea e Romeo Pepoli, la cattura di Andrea non risulta però al Chronicon
Estense, col. 497-498, che ci consegna l’elenco, con qualche lacuna, dei capitani catturati. GRIFFONI,
Memoriale, col. 183-184 ricorda tra i capitani dominus de Conciaco, sive de Chusì, ovvero Coucy, e Johannes
Agud, miles Anglicus; trascura de Pommiers. Gian Galeazzo è stato scavalcato e preso dai nemici, ma
accorrono i suo aiuto molti soldati valenti, lo liberano, lo mettono su un cavallo e lo portano in salvo, cfr.
DE MUSSI, Piacenza, col. 518. Si veda anche SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1094. La difficile ritirata
sabauda verso il Bolognese è narrata da COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 176-177. GALLAND, Les
papes d’Avignon et la maison de Savoie, p. 288; Amedeo rimane a Modena fino a dicembre, liberando una
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John Hawkwood ha preferito non proseguire l’attacco dopo il successo, temendo che i
Viscontei, che hanno già bruciato molti ponti, ricompostisi e supportati dalle genti del
contado, lo possano attendere al passaggio del fiume, per inchiodarvelo, inoltre il suo esercito
ha subito gravi perdite, pertanto Giovanni Acuto torna – forse troppo prudentemente – verso
Bologna.130 Gian Galeazzo è stato sconfitto sul campo, ma la presenza del suo esercito ha
evitato il ricongiungimento degli eserciti avversari.
Nello stesso mese, un vescovo, nipote del pontefice, con un seguito di cinquanta
persone, si reca a Milano, mostrando di ricercare la pace con i Visconti. Ne riceve un
salvacondotto per recarsi ad Avignone e lettere dei signori di Milano. Di ritorno dalla sua
missione, è ospite di Galeazzo a Pavia, lo informa interlocutoriamente dell’esito della
trattativa, e chiede di recarsi dal conte di Savoia per comunicargli la volontà del papa. Ma una
spia rivela a Galeazzo Visconti che il prelato porta con sé gli stipendi dei soldati del Conte
Verde per cinque mesi di servizio, centomila ducati per mille lance. Galeazzo sequestra il
denaro, ma lascia andare liberamente il vescovo, per tener fede alla propria parola.131
Il 20 giugno Gregorio XI nomina Nicolò Spinelli «commissario per la prosecuzione della
guerra». Nicola si mette subito a capo delle truppe ed il 2 agosto riprende Centallo, fallisce
contro Brà e Cherasco, ma nella notte sul 17 ottobre riesce ad impadronirsi di Vercelli.132
Già in questo anno si materializzano i primi elementi di un contenzioso tra Giovanni
Acuto e il papa, un problema che si prolungherà molto a lungo, «il fatto è – scrive Duccio
Balestracci – che il pontefice paga poco, paga tardi e non sempre paga tutto il pattuito».133
Avignone sollecita l’avventuriero a pazientare, guadagnandosi così il Paradiso, ma, continua
Balestracci, «colle indulgenze e le benedizioni non si convincono i soldati a combattere».134
La crisi dei Visconti è forte ed il pontefice mette in campo tutte le sue armi, includendo
la scomunica ai Visconti e la remissione dei peccati a chi li combatta. Il papa impone decime a
Ungheria, Polonia, Danimarca, Svezia, Norvegia e Inghilterra per continuare la guerra contro
Visconti. Ma Bernabò fa armare tutta la popolazione di Milano «per defensione della patria»,
e inzeppa di viveri e rifornimenti Milano e Lodi. Il 18 maggio Manfredino da Sassuolo lascia
la sua città per recarsi a Firenze. Appena ha varcato la porta di Sassuolo, che i suoi abitanti,
subornati dal marchese d’Este, gli si ribellano, e gli serrano i battenti alle spalle. Manfredino
vorrebbe rientrare, ma l’accesso gli viene negato, ed addirittura è fatto bersaglio a tiri di
pietra, per cui corre a rifugiarsi a Montegibbio, un castelletto poco a sud. Sassuolo viene
consegnata al marchese d’Este; analogamente si comportano quelli da Fogliano, per timore di
devastazioni.135 Manfredo fugge a Parma e di qui a Milano dal Visconti, ai suoi stipendi.136
parte delle truppe e tenendo presso di sé le altre, inattive. MULETTI, Saluzzo, Tomo IV, p. 115 sottolinea
che nella lista dei prigionieri vi sono i fratelli e marchesi di Saluzzo Ugolino e Galeazzo. Senza novità
POGGIALI, Piacenza, VI, p. 373-374. PEZZANA, Parma, I, p. 104 nota tra i prigionieri Bertrando Rossi.
130 CORIO, Milano, I, p. 840-841; Additamentum Secundum ad Chronicon Cortusiorum, col. 983; FRIZZI, Storia
di Ferrara, vol. III, p. 350; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 290-291 brevemente; LEONARD, Angioini di
Napoli, p. 546-547.
131 GAZATA, Regiense, col. 80; a queste trattative si riferisce ciò che afferma il cronista bolognese: quando
riporta la notizia che in maggio si stabilisce una tregua tra Visconti e Chiesa; i signori di Milano
promettono di versare 20.000 fiorini d’oro e i Visconti inviano a Bologna, quali ostaggi in garanzia, 16
“mercatanti ricchissimi di Milano”. Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 286- ; Rerum Bononiensis; col. 495;
GIULINI, Milano, lib. LXXI anno 1373; BALESTRACCI, Le armi i cavalli e l’oro, p. 121-122 commenta che il
papa è largo di elogi per l’Acuto, ma di soldi neanche l’ombra.
132 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 546-547.
135 GAZATA, Regiense, col. 80; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 288; Chronicon Estense, col. 498; TIRABOSCHI,
Modena, vol. 3°, p. 56. La povera Orvieto viene caricata di 3.600 fiorini ed arriverà a malapena a pagarne
600. Nel parlamento del 17 luglio a Perugia ogni focolare viene gravato dell’esosa ed irrealistica tassa di
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§ 22. La Lega perde il vantaggio del ricongiungimento degli eserciti perché non paga gli
stipendi
Il vescovo di Vercelli, della famiglia dei Fieschi, si allea con il conte di Savoia e fa
ribellare molti castelli viscontei del Vercellese. Il 20 giugno Amedeo di Savoia, constatando il
fallito ricongiungimento, ed essendo a corto di viveri e bisognoso di denari per il soldo del
suo esercito, dopo aver rubato tutto quello che c’è nel Bergamasco, decide di tentare a sua
volta di unirsi con l’altra parte dell’esercito della lega. Lascia il Milanese, e, timoroso di
scontrarsi con l’esercito nemico, sale sopra Bergamo ed attraversa l’Oglio a Sarnico, ma la via
per Brescia è sbarrata dai soldati di Bernabò; non vi è altra scelta che arretrare o combattere, e
il Conte Verde arringa i suoi dicendo loro che è meglio morire combattendo che di fame.
L’esercito sabaudo avanza risolutamente, ma, evitando Brescia, si dirige verso il Mantovano,
traversa il Po, e poi verso Piacenza, ma, prima di Castell’Arquato, trova il Nure strettamente
sorvegliato dalle milizie di Galeazzo Visconti. Questi lo beffa, mandandogli una lettera che lo
esorta a combattere, e ironizza sul grande giro che i Sabaudi hanno fatto, «per tali cammini
che le capre e le fiere sarebbero ben imbarazzate». Ma in qualche modo l’esercito del conte
Amedeo riesce a passare per la Stellata sul Ferrarese e arriva nel contado di Bologna,
arrecando gravi danni «come se fossero stati nemici, fuorché di ardere e pigliare». Il
comportamento deriva dalla mancanza di puntualità nel corrispondere le paghe ai soldati, e
dalla vera fame che attanaglia i militi. Nell’esercito del Conte Verde vi sono poi molti Bretoni
“pessima gente”, ed, in effetti, i Bretoni godono di una terribile reputazione. Non che gli
Inglesi siano molto inferiori in ferocia, tanto è vero che si dice “Inglese italianato è un diavolo
incarnato”, ma il loro comportamento è generalmente finalizzato ad ottenere denaro da
bottino o da riscatto, mentre i Bretoni si comportano selvaggiamente, dimostrando di godere
del male inferto ai deboli ed agli indifesi. I ghibellini della Martesana, aiutati dai Visconti si
sollevano contro i guelfi, avendone la meglio, e perseguitandoli con tale severità “che quasi in
tutto furono dissipati”.137
Dopo essersi rifugiato nel Bolognese, il 15 luglio Amedeo di Savoia, non avendo
ottenuto gli stipendi per i suoi militi, decide di tornare ad Asti. Nel viaggio di ritorno,
transitando nel Piacentino, arrivato in località Travazzano,138 vi sosterà per alcuni giorni, non
osando passare nel territorio di Piacenza, Pavia ed Alessandria. Alfine deciderà di tentare la
via del Genovese, e, finalmente riuscirà a rientrare nella sua terra.139
Il Conte Verde lascia dietro di sé molte bande che infestano il territorio; i soldati di
Galeazzo Visconti ne vanno a caccia nel Piacentino, prendono ed impiccano molti nemici
come ribelli e traditori, nonostante che Giovanni Acuto sia accorso dal Bolognese per portar
soccorso ai suoi commilitoni, ma il territorio non può fornire a lungo vettovaglie ad un
esercito numeroso, né è possibile riceverle dal Genovese, perché Bernabò infesta il territorio
con i suoi e taglia le vie di comunicazione. Al condottiero inglese è giocoforza rientrare nei
suoi confini.140
1,5 fiorini a favore della Santa Sede; Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p.
466, nota 1.
136 CORIO, Milano, I, p. 840.
137 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 289; TREASE, The Condottieri, p. 84; GAZATA, Regiense, col. 80-81 e
139 DE MUSSI, Piacenza, col. 518-519; CIBRARIO, Savoia, III, p. 229 racconta che Amedeo si imbarca a
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146 Lova è sulla Strada Romea, a tre miglia da Boion, a Nord-Est di Piove di Sacco.
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venga ripresa l’eterna fatica di questa guerra: scavare una nuova fossa dalla sua bastia di
Lova verso quella di Rosinvalle. Se riesce a terminare e munire questa fortificazione, Giberto
può tenere sotto controllo, e, in definitiva, neutralizzare, la bastia di Rosinvalle. Occorre quindi
evitare che il generale veneziano possa condurre a termine la sua bastia. Francesco da Carrara
non è rimasto inerte e per tutto il giorno 30 giugno si sono succedute scaramucce tra le parti,
ma i Veneziani sono egualmente riusciti a completare fossato ed argine in un paio di giorni,
Francesco da Carrara si dispone allora a lanciare un attacco in grande stile, contando di
replicare la vittoria di poc’anzi.148
L’alba di venerdì primo luglio149 vede le truppe ungheresi150 e padovane armate e
disposte a battaglia. L’esercito è ordinato su tre schiere, la prima a muoversi è la cavalleria
formata da Ungheresi e Padovani, vi sono Stefano Voivoda, Bonifacio ed Antonio Lupo,
Zanin da Peraga, il conte Rizzardo da Sambonifacio, Negro dei Nigri: sono gli uomini più
forti e valorosi, li segue la fanteria al comando di Bernardo e Ranieri degli Scolari, Bonzanello
da Vigonza, amico del Petrarca, Francesco da Rustega e Chechin Sangonazo; l’ultima schiera,
la cavalleria di rincalzo e riserva, è comandata dal signore di Padova in persona, ed è
composta integralmente da Padovani ed assoldati direttamente dal Carrara. Giberto da
Fogliano, bene informato, non si è lasciato cogliere alla sprovvista: ha ordinato i suoi secondo
una tattica difensiva, mettendo dinanzi a tutti mille balestrieri veneziani e quattromila arcieri
turchi; dietro a loro ha disposto tutta la cavalleria: sono solo trecento uomini d’arme, ma tutti
sceltissimi, e tra loro vi sono comandanti di splendida reputazione come il glorioso ed esperto
Francesco Ordelaffi, l’ex signore di Forlì, che da anni ormai serve la Serenissima, e ricopre la
funzione di vice di Giberto. Se si vuole assalire la fortezza di Lova, davanti alla quale il
nemico è schierato, la via è obbligata: il colmo di un argine sul quale riescono a procedere
affiancati non più di quattro cavalieri. Stefano Voivoda, smanioso di gloria e col sangue
bollente, confida nel furore guerriero dei suoi, ed incurante della strettoia, che impedisce di
esercitare la terrificante pressione di un vasto contingente di cavalleria pesante lanciato al
galoppo, sprona il suo cavallo, lanciandosi all’attacco, seguito da tutta la prima schiera. Gli
arcieri ungheresi bersagliano i Veneziani ed i Turchi con i loro archi. I balestrieri veneziani,
schierati anche nei canali – asciutti - prontamente rispondono e le loro armi hanno gettata ben
maggiore e colpiscono sui fianchi, e molti dei cavalli ungheresi non sono protetti: molti
destrieri sono colpiti e cadono, impedendo il passo ai commilitoni; il voivoda ha dovuto
cambiare più volte cavallo, ma è sempre tornato all’attacco devastando le fila dei balestrieri
ed arcieri, però la confusione alle sue spalle è indescrivibile. I fanti del Correggio aprono
varchi tra le loro file, per richiuderli, inghiottendovi gli incauti cavalieri che si sono spinti
troppo avanti. Con tale tattica è relativamente agevole isolare pochi cavalieri ungheresi o
padovani alla volta, che, circondati, sono costretti alla resa. I loro compagni assistono
impotenti alla cattura dei loro comandanti, ed hanno due possibili scelte: spronare il cavallo e
fare la stessa fine, o ripiegare. I principali comandanti della prima schiera Antonio e Bonifacio
Lupo, Stefano Voivoda, Nigro dei Nigri, Rizzardo conte di Sambonifacio, e quattordici nobili
ungheresi sono catturati e disarmati. È Francesco degli Ordelaffi in persona che riceve
l’insegna del comandante ungherese e la porta, trofeo ambito, dentro la bastia, insieme ai
prigionieri. In breve, i cavalieri Ungheresi e Padovani sono costretti a volgere le spalle,
ripercorrendo lo stretto argine alla ricerca della salvezza, ma così facendo travolgono una
parte della fanteria padovana che giunge al soccorso, gettando molti nei fossi. La giornata è
gravemente compromessa, ma non ancora perduta, Francesco da Carrara potrebbe far testa e
148 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 113-114 e nota *; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 215-216.
149 Raphaini Carasini Chronicon, col. 438 mette la battaglia il giorno sacro a San Marziale, che è il 10 luglio.
150 La consistenza delle truppe ungheresi è registrata da SAMBIN, La guerra del 1372-1373, cap. 16:
«L’infinita comitiva del voivoda Stefano era integrata una settimana dopo dai 2500 Ungheresi del
vescovo di Strigonia e tre settimane dopo dai 500 soldati di Piero Ongaro e dalla compagnia, non
sappiamo quanto numerosa di un cavaliere Lancelotto».
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radunare sia i cavalieri che fuggono, che la fanteria disorientata. Invece il signore di Padova si
perde d’animo e fugge, incalzato alle spalle dai Veneziani, per la strada “che era stretissima”.
Ma appunto questa limitatezza della via di scampo ora soccorre i Padovani: il fortissimo
Zanin da Peraga, con altri ardimentosi si attesta sulla via e «con la spada in mano faciea
maraviglia di sua persona», riuscendo a sostenersi tanto da permettere al Carrara di giungere
a salvezza. Premuto da tutto l’esercito, Zanino è costretto a rinculare, e solo il suo splendido
cavallo lo fa scampare ad una cattura certa. Spronando a sangue il suo destriero, con i
Veneziani che gli alitano sul collo, riesce a riparare nella bastia di Rosinvalle. Ma non è ancora
domo: scavalca, prende in mano una grossa lancia, si mette sul ponte levatoio e ne difende
valorosamente l’ingresso, permettendo ad altri suoi commilitoni di riparare nella fortezza. I
Veneziani desistono, e ritornano sul campo di battaglia, dandosi a raccogliere i nemici sparsi,
e vincendo le isolate sacche di resistenza, «ucidendo e ferendo» e «pigliando e batendo».
Vengono catturati anche i comandanti della fanteria, Bonzanello da Vigonza, i due fratelli
Scolari, Checchino Sangonazzo e Francesco da Rustega.151 Il bilancio della giornata è terribile,
in un sol momento tutta l’organizzazione di comando dei Padovani e degli Ungheresi è stata
spazzata via. Oggi Francesco deve constatare che la guerra è perduta; l’unica sua speranza è
che il re d’Ungheria non voglia darsi per vinto e decida di continuare il conflitto, inviandogli
nuove truppe, e nuovi comandanti. I prigionieri sono tradotti a Venezia, in festa per la
vittoria. I mercenari vengono liberati l’8 luglio, dopo aver giurato che per tre mesi non
prenderanno le armi contro la Serenissima. Ai Padovani viene imposto un riscatto
gravosissimo, che verrà pagato. Gli Ungheresi sono trattenuti in cattività.152
Il 2 luglio, i Veneziani vittoriosi si presentano davanti alla fortezza di Stigliano e la
assalgono per conquistarla. Sono favoriti dal fatto che l'acqua nei fossi è poca, e solo la decisa
difesa del capitano Piero di Luccardo evita la conquista. I Veneziani riescono comunque a
passare il ponte «del recepto del(l)a forteça», bruciano e tagliano le saracinesche della porta,
prima di ripiegare. Piero scrive a Francesco da Carrara avvisandolo che sa che il nemico sta
apprestando scale per assalire nuovamente la sua fortezza o quella di Mirano.153 L’indomito
Zanin da Peraga, il 4 luglio, conduce gli Ungari contro la bastia di Bonconforto, sorprendendo
i Turchi ed i Morlacchi che la difendono. Ne cattura trecento e li fa tutti uccidere, facendo «il
prato tuto di loro sangue rosso».. Le vesti dei nemici assassinati vengono ferocemente
sventolate dal vittorioso Zanino a Padova, come se fossero stendardi nemici.154
151 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 114-116, la lista dei prigionieri è a p. 116; ALESSIO, Storia della guerra per i
confini, lib. II, cap. 85 e 86; SAMBIN, La guerra del 1372-1373, cap. 16; VERCI, Storia della Marca Trevigiana,
tomo 14°, p. 215-217. Può essere utile leggere la versione di GAZATA, Regiense, col. 81 e CHINAZZO, Guerra
di Chioza, col. 705-706. Il signore di Padova dà ordine di attaccare il nemico; le truppe escono dai loro ripari,
si ordinano a battaglia ed il primo di luglio scatenano l’attacco. Ha luogo «un’asprissima battaglia, con tutte
le forze dell’una e l’altra parte appresso la detta bastia, fuori dal forte Boglione, e sopra l’arzere si combattè
con gran gente da piedi e da cavallo. E gli arcieri turchi e morlacchi, e i balestrieri veneziani che erano nei
canali appresso l’arzere – che erano in quel tempo asciutti – tiravano per fianco agl’inimici, e gli ferivano i
cavalli, i quali rinculandosi indietro disordinavano le squadre, e ne gettavano molti giù degli arzeri (dagli
argini). E incalzandogli, i Veneziani messero il campo nemico in rotta, di maniera che il signore istesso
hebbe fatica a salvarsi nella bastia di Rossavalle. In questa battaglia furono prese l’insegne del re
d’Ungheria, e quelle del Carrarese con 200 prigioni, tra i quali fu Stefano Voivoda con 14 baroni ungheresi e
molti Padovani». Raphaini Carasini Chronicon, col. 438 registra la vittoria veneziana e mette tra i
prigionieri, oltre al Voivoda e mille ungheresi, anche Antonio Lupi, conte di Sambonifacio e Nigro
Negri. Pietro Fontana ottiene il cingolo di cavaliere sul campo di battaglia. Senza particolari
CAPPELLETTI, Padova, I, p. 313. Eco della battaglia anche in Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 287-288.
152 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 117; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 216-217.
153 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 84.
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158 CHINAZZO, Guerra di Chioza, col. 706 e GATARI, Cronaca Carrarese, p. 117-118. La nota * di quest’ultima
fonte, a pag. 117, riporta un brano di Andrea Gatari che dà la ricostruzione del nome del conestabile
veneziano: le varie fonti, per la difficoltà del nome lo riportano storpiato, Essen dà luogo a Esaù, o Exen,
o Exu. Poiché è citato come marescalco del campo dei Veneziani dopo il decesso di Francesco Ordelaffi,
la notizia è da portare a più tardi. Parla di epidemie anche Raphaini Carasini Chronicon, col. 440.
159 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 219.
160 CONFORTO DA COSTOZA, Cronaca vicentina, p. 6-7; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 220-
221. MANTESE, Chiesa Vicentina, III, p. 91-92 nota che Giacomo Cavalli è forse fratello di Nicolò Cavalli,
podestà di Vicenza. Inoltre Mantese sottolinea come Venezia sia penetrata nel territorio scaligero, nel
Vicentino, senza che la cosa provochi reazione alcuna da parte di Cansignorio. CASTELLINI, Storia di
Vicenza, lib. 13°, p. 89. Il nome Carlo è in CANOVA e MANTESE, I castelli medievali del Vicentino, p. 118.
161 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 118.
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fortificare.162 L’ultimo giorno di luglio, Giovanni di Alamanno degli Obizzi, insieme a Zanin
da Peraga, Arcoano Buzzacarini, il fortissimo Giocanni Zotto Ungaro e con Francesco da
Carrara, vanno, «con molta e grosa cometiva di giente d’arme, con molte bombarde e
balestre» contro la bastia di Medesina e la assalgono. Dalla fortezza rispondono con balestre e
colpi di bombarda. Armi ancora molto imprecise, ma in qualche modo efficaci, e «d’una parte
e dall’altra era tanto romore, che a pena non se intendea persona». Un colpo di bombarda
colpisce il conte di Sambonifacio ad una gamba, un verrettone colpisce Antonio Dotto alla
mano destra e Nicolò da Carrara riceve un colpo al braccio destro, prova che tutti si
espongono e nessuno si risparmia. Giovanni degli Obizzi e Zanin da Peraga, confortando i
suoi, e «facendo virilmente di persona», riescono a gettare un ponte sopra il fossato, e, i più
coraggiosi di tutti, Zanin da Peraga e Giovanni Zotto, smontati da cavallo, salgono sul ponte
con le lance in mano, guidando molti altri. Prendono di slancio il posto di guardia e tutta la
bastia, ne catturano il capitano Nicoletto Dolfino e 350 armati della guarnigione, tra Tedeschi,
Italiani, Morlacchi e Turchi. Contando i cadaveri dei nemici arrivano a 230 persone uccise. Tra
i prigionieri vi è anche Gregorio da Forlì, l’ingegnere che ha edificato la bastia di Medesina.163
Esaltati dal successo, la notte stessa i combattenti si portano sul fiume che va a Venezia, a
valle della bastia di Lova. L’intento è erigere una nuova bastia padovana che sbarri i
rifornimenti alla fortezza principale di Venezia. Ma malgrado che la spedizione abbia «ogni
sorte di gente da piè et da cavallo, con gran somma di guastatori, con una bastia fatta (cioè
prefabbricata) et carcata sopra li carri, con bombarde, mangani et ogni sorte di edifficij
necessarij», l’impresa fallisce, perché i Veneziani, avvisati, inviano immediatamente molte
barche di balestrieri, con bombarde, che ostacolano l’impresa padovana. Inoltre, escono anche
gli armati di Lova e Francesco da Carrara è costretto a ripiegare, lasciando molti caduti sul
terreno.164 Malgrado questo insuccesso, la conquista con le armi in pugno della bastia
dimostra che i Padovani e gli Ungheresi avrebbero ancora molto da dire sull’esito della
guerra, ma ora il destino riserva un altro duro colpo al signore di Padova. Il 13 agosto
vengono celebrati i funerali di Uguccione di Thiene.165
166 Rivelazioni, libro IV, 143; in PALADILHE, Les papes d’Avignon, p. 245.
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solo il 4 luglio 1374.167 Il processo di canonizzazione si prolunga per i dieci anni successivi e,
finalmente, Brigida viene beatificata il 7 ottobre 1391. Essa viene ricordata il 23 luglio, il
giorno nel quale è nata alla vita eterna.168
167 GIOVETTI, Brigida di Svezia, p. 114-119. Il tragitto delle spoglie è complesso: percorre la via Flaminia
passando per Montefalco, qui ha luogo una seduta preliminare del processo di canonizzazione; poi, per
il passo del Furlo, arriva ad Ancona, dove viene imbarcata fino a Trieste. Da questa città vi è un lungo
attraversamento dell’Austria e della Polonia fino a Danzica. Qui una sosta, perché i ghiacci impediscono
il viaggio.Quando le condizioni del mare migliorano, il 29 giugno, la cassa sbarca finalmente in terra
svedese.
168 GIOVETTI, Brigida di Svezia, p. 120-121.
172 Cronache senesi, p. 650-651. La conquista del castello è anche in Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 288-
289.
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al comune. Il nuovo podestà si dimostra in breve altrettanto deciso che messer Nicola Rosso,
il 10 luglio infatti fa decapitare Giovanni di Caparozzo e multa di 25 fiorini d’oro messer
Andrea di Francesco.
Giovanni di Minuccio, detto il Fonda, genero di Pietro Gambacorti, signore di Pisa,
muore in Piemonte. Egli «era tenuto il più valente e savio omo d’Italia».173
Agnolino di Giovanni Salimbeni invia due sue sorelle a maritarsi; il comune di Siena
fornisce la scorta alle due vergini.174
173 Cronache senesi, p. 651. La nota 2 nella stessa pagina riporta: “Fu persona magnifica e di gran sapere e
molto accreditata nelle armi e di gran seguito nelle fazioni, ma molto più nella prudenza politica, ben
conosciuta da Carlo IV imperatore che lo fece suo segretario. (…) Divenne primo cameriere di Urbano
VI, che di esso si servì nei più malagevoli affari della Chiesa di Dio”. La sua tomba nella chiesa di San
Francesco scomparve nell’incendio del 1655.
174 Cronache senesi, p. 652.
175 La Ystoria de mesier Francesco Zovene, cap. 3; Additamentum Secundum ad Chronicon Cortusiorum, col. 983
scrive: «messer Marsilio fradello del ditto misser Francesco da Carrara si partì da Pava e fo fatto conte di
Campagna di Roma, lo che i Veneziani lo indusse a dover traire lo ditto fradello». Anche KOHL, Padua
under the Carrara, p. 124-125, con diverse informazioni.
176 La Ystoria de mesier Francesco Zovene, cap. 4.
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battente e incessante, con un gran vento e “sonar de aere”, sembra annunciare la tragedia
della casata. Francesco, temendo di non poter dissimulare il suo fastidio, rifiuta di incontrarlo
e Marsilio va a cenare con Francesco il giovane, il quattordicenne figlio del signore di Padova.
Nella battaglia di metà marzo, Marsilio si batte virilmente, ma nel suo cuore il disegno
criminoso continua a lievitare e, dopo la sconfitta patita, decide di passare all’azione traendo
a sé soldati che militano nell’esercito veneziano, mostrando di star trattando il loro passaggio
nel campo padovano. Il tramite del presunto tradimento è un soldato inglese di nome Marco.
Zanin da Peraga, e Cecco da Lion, informati il 13 luglio da Marsilio, fanno rilasciare un
salvacondotto a Marco Inglese ed a Zamparino, un suo collega.178 Mentre Marco mostra di
perfezionare il patto, in realtà mette a punto con Marsilio il tradimento nei confronti di
Francesco da Carrara. I soldati che dovrebbero tradire fanno parte delle bastie veneziane che
fronteggiano i Padovani a Camponogara. Marsilio ora commette un errore fatale: convoca a
sé un nobiluomo di Modena, Zaccaria dal Fredo, suo familiare. Mentre i valorosi soldati di
Padova ed Ungheria si sono fatti tanto onore, conquistando la bastia di Medesina, lo stesso
giorno, il 31 luglio, Marsilio da Carrara invita a pranzo molti nobili padovani, tra loro vi sono
Piero Pollo Crivelli, Nicolò di Pregalea, Musaragno Musaragni, Marco Inglese, e il Modenese
Zaccaria dal Fredo, una volta al soldo dei Veneziani ed ora al servizio di Padova. Quando
gran parte dei convitati sono andati via, Marsilio rimane solo con Zaccaria e gli svela, sotto
giuramento, la sua intenzione di assassinare Francesco il Vecchio e Francesco il Giovane e di
assumere la signoria di Padova, sotto la protezione di Venezia. Zaccaria aderisce al progetto
criminoso. Il primo di agosto, Zaccaria scrive una lettera al doge di Venezia Andrea Contarin,
e la affida a Giovanni da Carpo, perché la porti a Verona a Balbo Galluzi, che si incaricherà di
farla avere al doge. La consegna della missiva è infarcita di così tante raccomandazioni da
indurre a sospetto il servitore, che, ispirato da “meser Domenedio”, decide di aprirla e
leggerla. Una breve scorsa gli è sufficiente per prendere la decisione di tornare a Padova e
consegnare la lettera a Francesco da Carrara. Questi convoca Zaccaria, gli chiede conto di
quanto ha scritto, e Zaccaria, vistosi perduto, senza bisogno di tortura, confessa tutto.
Francesco è scosso, e per più di un giorno rimane incerto sul da farsi. Solo quando Marsilio,
avuta notizia dell’arresto, il 3 agosto, parte e si dirige direttamente verso Venezia, Francesco
passa all’azione: convoca tutta la sua corte e tutti i notabili ungheresi, e costringe Giovanni di
Carpo e Zaccaria dal Fredo a svelare la cospirazione di fronte a tutti. Il tocco di teatro è dato
dalla lettura della lettera di Zaccaria, che viene tradotta in simultanea in ungherese, per
consentirne la completa comprensione agli stranieri. Zaccaria chiede 20-25.000 ducati e una
pensione vitalizia di 100 ducati d’oro al mese, per “destruçer”, distruggere, il nemico di
Venezia. Si impegna a far ciò entro 15 giorni dal momento che avrà ricevuto l’impegno della
Serenissima ed un salvacondotto per lui e quattro suoi compagni. La casa di Marsilio viene
perquisita e, in un gabinetto, viene trovata una lettera della signoria di Venezia. La lettera
viene scoperta perché il sigillo di piombo, assicurato con nastri alla missiva, pende dal buco
in cui è nascosta. La prova del tradimento di Marsilio è schiacciante: la lettera è del doge
Andrea Contarin ed impegna la Signoria a dare 12.000 ducati all’anno a Marsilio se il suo
tentativo di correre Padova e rovesciare il fratello fallisse. Marsilio ha tempo tutto agosto per
realizzare il suo piano. La bolla porta la data del 23 di luglio.179
178 Lo firma Francesco da Carrara in persona e dice: “Io so’ in concordia con Çamparino et con Marco
hengelese et con i altri dela soa compagnia per una certa quantità, la quale io ie debi dare, sì che doman
sença dubio elli de’ trar dela gente de quilli de Venesia lance VIc (600) et pedoni Vc (500), et con la dicta
gente vignir sul pavan. Et perçò se el ve occoresse alguna cosa da provedere, io mando a vui li egregi
chavalieri meser Bonifacio Lovo, meser Çuanne dei Obici et meser Ferigo da Mathlor, cum li quali vui
possa conferire”. ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 96.
179 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 92-101 e GATARI, Cronaca Carrarese, p. 120-122.
Raphaini Carasini Chronicon, col. 439 parla blandamente del tradimento. SAMBIN, La guerra del 1372-1373,
cap. 17; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 223-224. Si veda anche CAPPELLETTI, Padova, I, p.
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315-319 che narra diffusamente il fatto, basandosi su CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova, p.
333-334. Riferisce il tradimento anche Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 290.
180 PELLINI, Perugia, I, p. 1130; GAZATA, Regiense, col. 81; CONFORTO DA COSTOZA, Cronaca vicentina, p. 8
scrive che l’epidemia incrudelisce per tutto l’anno sia in Vicenza che nel suo distretto. GIULINI, Milano,
lib. LXXI anno 1373 descrive la peste in Lombardia.
181 Tra loro vi è anche Marchionne di Coppo Stefani.
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184 GAZATA, Regiense, col. 81; GIULINI, Milano, lib. LXXI anno 1373 scrive che «suo padre ebbe ad
impazzire pel dolore». DE MUSSI, Piacenza, col. 519-520 lo definisce «Valentissimo nell’esercizio delle
armi, bellicoso, generoso ed esperto». Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 290 commenta: «costui era
grandissimo valente homo».
185 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 290 e CORIO, Milano, I, p. 842.
188 DE MUSSI, Piacenza, col. 520; POGGIALI, Piacenza, VI, p. 376-377. Annales Mediolanenses, col. 758 pone la
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luglio. Il signore di Padova si premura di far sapere a mastro Loise che a metà agosto
arriveranno Subter (Zudar) Piero, ban di Schiavonia ed il vescovo di Zagabria a condurgli una
gran quantità d’armati, con cui assediare Treviso e difendere Padova.189 Ma neanche tale
informazione spaventa il doge ed il consiglio e le trattative sono impantanate. La difficoltà del
negoziato è testimoniata da una frase sconfortata che Francesco scrive in una lettera a mastro
Loise: «Quanto più io me acosto ai vostri modi, tanto io so più lonçi e trovome più remoto da
quell’altro ch’io vorave (vorrei)».190
La situazione è complessa: i Veneziani hanno riportato una vittoria decisiva, ma poi
l’esercito nemico ha fatto sentire tutta la sua pericolosità con la conquista della bastia di
Medesina; inoltre, il tradimento, o l’abbandono, da parte di Ludovico di Essen, ha molto
sguarnito la Serenissima. Questa ha cercato di ovviare al problema inviando Giacomo Moro e
Marsilio da Carrara ad assoldare mercenari in Lombardia. Quando queste truppe sono state
reclutate, si pone il problema di come farle arrivare sul teatro di guerra: occorre passare per il
Mantovano, ma il Gonzaga non intende ragioni, non vuole che sul suo territorio passino
truppe che vengano ai danni del signore di Padova. Non vi è altra soluzione per Giacomo e
Marsilio che quella di, amaramente e costosamente, congedare gli assoldati. Questo avviene
l’8 di settembre. Inoltre, i molti e potenti parenti del voivoda Stefano si sono presentati di
fronte al re d’Ungheria, per pretendere la liberazione del loro congiunto, affermando di essere
disposti a schierarsi con Venezia, contro Padova, pur di ottenere che Stefano esca di prigionia.
Re Ludovico, preoccupato di qualche possibilità d’insurrezione nel suo regno, scrive a
Francesco da Carrara che cerchi la composizione del conflitto.191 Il clima generale dunque, e
gli smacchi di ambedue i contendenti rendono ora possibile intavolare trattative per la pace.
Qualcosa si muove, grazie anche all’intercessione del pontefice: Gregorio incarica suo fratello
Nicolò di adoprarsi per la pace. Questi va a colloquio con il legato di Bologna, Pietro
d’Estaing, si reca poi a Venezia, ed infine manda dal Carrara il «magnifico homo Garino,
signor de Apiserio, nevode de Gregoro papa undecimo», che è legato da amicizia con
Francesco da Carrara. Sembra che Venezia accetti finalmente di parlare seriamente; Francesco
sceglie i suoi consiglieri, essi sono, per le cose militari l’espertissimo Bonifacio Lupo di
Soragna, e per quelle giuridiche, messer Paganino della Sala, Padovano, «doctor de lege,
molto eloquente e sagace, diligente et amaistrado in lo audire et respondere dele cose».
All’inizio di agosto, mentre gli amari negoziati proseguono, il papa designa come
paciere il «reverendissimo homo fra’ Tomaso [Querini],192 de’ l’ordine de’ menori, maistro in
la sacra scriptura, patriarcha de Grado». È l’uomo giusto: amico di Venezia per la carica che
ricopre e personalmente grato a Francesco da Carrara che lo difese da un’accusa di eresia ai
tempi di Urbano V. Venezia annuncia le sue condizioni, quasi indiscutibili, e durissime.
Francesco da Carrara diffonde ovunque le pretese veneziane, per farne comprendere
l’irragionevolezza,193 ma è solo propaganda, in realtà Francesco vuole veramente la pace, lo
dimostra lo zelo con cui la ricerca e lo sforzo che farà per convincere il sovrano d’Ungheria ed
i duchi d’Austria ad accettarla. Il signore di Padova soffre della mancanza di denaro, della
difficoltà dei rifornimenti, ma, soprattutto, teme la torbida potenza di Venezia e dei suoi
189 Ludovico d’Ungheria fa anche sapere che ha intenzione di prendere al suo soldo “tutta l’armada dei
Zenoesi”. ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 126.
190 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 130.
191 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 123, nota ** dalla pagina precedente; SAMBIN, La guerra del 1372-1373,
cap. 17. Le buone ragioni di Francesco per la ricerca della pace sono in SAMBIN, La guerra del 1372-1373,
cap. 18.
192 Fra Tommaso Querini da Frignano, generale dell’ordine. Vedi la nota 2 in GATARI, Cronaca Carrarese,
p. 122. Egli arriva a Venezia il 27 agosto, VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 221-222.
Tommaso da Frignano è stato recentemente nominato patriarca di Grado, dopo il decesso di Francesco,
DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 277.
193 MURATORI, Annali d’Italia, Anno 1373.
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1011
Carlo Ciucciovino
nobili, che sono stati capaci di indurre a tradire «quilli che magnava con lui in una scutella».194
Inoltre, i nobili ungheresi a corte premono re Ludovico perché esorti Francesco di Carrara a
trattare la pace, ed ottenere la liberazione di Stefano Voivoda.
Come dice lo stesso cronista, raccontare minutamente le lungaggini delle trattative, sarebbe
«un impegno de carte et spender tempo indarno».195 Mentre il tavolo negoziale è ancora aperto, il
29 d’agosto, Francesco da Carrara reputa opportuno far giustiziare Zaccaria dal Fredo, il
traditore che ha tramato con Marsilio, contro di lui. La giusta sentenza sarebbe l’attanagliamento
con ferri roventi e l’impiccagione, ma il patriarca di Grado intercede per Zaccaria, ed allora
questi viene condannato “solo” ad essere trascinato a coda d’asino fino al luogo d’esecuzione,
dove viene pietosamente decapitato.196
Il 30 agosto, il podestà di Padova, il Bresciano Federico da Valonga, anche lui colto dalle
febbri che hanno mietuto vittime, rende l’anima a Dio.197
La Serenissima non viene neanche ammorbidita nelle pretese dalla notizia che sono
arrivati a Cittadella Nicolò e Giovanni, con ottocento Ungari, «armadi de panciere, de freççe e
d’archi», avanguardia del grosso dell’esercito che Piero Zudar198 e Benedetto ban stanno
conducendo. Il primo di settembre, Benedetto Ungaro passa il Piave con cinquemila Ungari
destinati a soccorrere il Carrara. Gli Ungheresi corrono ostilmente nel Trevigiano e riparano a
Cittadella. Qui li raggiunge Francesco da Carrara, per accoglierli. Dopo alcuni giorni di
riposo, il 7 settembre, l’armata ungherese si mette in marcia dirigendosi verso Conegliano;
durante il percorso, il Trevigiano viene nuovamente saccheggiato, case bruciate, persone
catturate e trascinate lontano dai loro cari, come se si fosse in un paese ostile e non alleato. Il
giorno seguente, anche gli Ungari di stanza a Piove di Sacco, quelli venuti in Italia con il
voivoda Stefano, montano a cavallo e corrono il Trevigiano, sotto Asolo bruciano le case fuori
delle mura e saccheggiano ciò che possono, dopo aver riservato lo stesso trattamento a
Montello, finalmente entrano a Cittadella, unendosi con i propri compatrioti.199 Nello stesso
giorno, Giacomo Moro e Marsilio da Carrara sono costretti a congedare gli assoldati reclutati
in Lombardia perché, come abbiamo già visto, il Gonzaga ha negato loro il transito.
La tornata finale della trattativa di pace ha luogo dal 12 settembre, quando il patriarca di
Grado si siede a colloquio con Francesco da Carrara, illustrandogli le condizioni finali, appena
discusse con la Serenissima. Quando parte alla volta di Venezia, promette di tornare solo con i
patti di pace. In effetti, qualche giorno dopo, chiede ai Padovani di inviargli dei giuristi per
ottenere la definitiva approvazione di Venezia. Il 18 questi vengono identificati e mandati, sono
Argentino Agredi da Forlì e Paganino della Sala. Il giorno seguente, costoro ritornano,
accompagnati dal patriarca che ha il testo finale del trattato di pace. Il consiglio generale di
Padova lo discute ed approva il 20 settembre.200 Nello stesso giorno, subito prima della formale
conclusione della pace, viene anche sentenziata la pena di morte per decapitazione per Marsilio,
qualora venga nelle mani della giustizia padovana, e quella, orribile, riservata ai traditori, per i
suoi complici.201 È come se Francesco volesse far capire che tutto può accettare, ma non qualche
insultante clausola a favore del fratello traditore: verrà amaramente deluso.
Le condizioni della pace sono durissime: Francesco da Carrara si umilia, accettando, una
volta al mese, di far levare il vessillo di San Marco sulla piazza di Padova, riconoscendo diritti
194 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 173.
195 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 143.
196 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 123.
199 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 151 e GATARI, Cronaca Carrarese, p. 124.
200 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 124-125; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 225-227.
201 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 148.
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alla Signoria e facendo demolire molti castelli,202 impegnandosi a non riedificarli. La torre del
Curano, viene consegnata a Venezia e il Carrara si impegna a non edificare più fortezze entro un
raggio di sette miglia da Venezia, verso le paludi e Chioggia. «Tutte le bastie e fortezze fatte per
causa di questa guerra a difesa del Padovano» debbono essere distrutte. Le spese di guerra a
carico di Francesco il Vecchio sono 250.000 ducati, 40.000 da pagare immediatamente, gli altri in
rate annuali, per quindici anni.203 Stefano Voivoda venga immediatamente rilasciato, e, giunto in
Ungheria, faccia senza indugio rilasciare Taddeo Giustiniano e Gerardo da Camino. Quanto ai
confini, Venezia ha diritto di eleggere una commissione di cinque arbitri che li decideranno entro
tre mesi, termine dilazionabile di altri tre; solo se gli arbitri veneziani saranno in dissenso tra loro
(figuriamoci!), si consulteranno con un incaricato del signore di Padova. Spetta a Francesco da
Carrara far accettare la pace al re d’Ungheria ed ai duchi d’Austria. La pace viene firmata «in
Vinesia in lo so ducal palaço, adì mercori (mercoledì) 26 de septembre». Un capitolo del trattato è
durissimo da digerire per il povero Francesco, quello che stabilisce che Marsilio, «integralmente
gauderà i rendidi et i beni soi». Francesco ha sempre rifiutato di accettarlo, ed ha espresso
nettamente il suo rifiuto al patriarca di Grado. Alla fine, il patriarca afferma di aver trovato un
sotterfugio: Francesco accetti il testo e Venezia non pretenderà mai che venga applicato; il
signore di Padova si piega. A dicembre s’accorgerà quanto contano questa sorta di impegni.204 Il
27 settembre, Francesco da Carrara dà forma e spettacolo alla propria umiliazione, inviando suo
figlio Francesco Novello a Venezia ad inginocchiarsi e giurare fedeltà nelle mani del doge
Andrea Contarini. Il giovinetto è accompagnato da una gran comitiva di nobili cavalieri e dottori
in legge, tra loro è Francesco Petrarca, ed a questi, il 2 ottobre, è affidato l’incarico di pronunciare
il discorso di fronte al governo veneziano, ma «per la sua vecchiezza et per una infirmità la quale
ello havea habuda et de la quale ello no era ancora guarido, la vose ie tremò un pocho».
Completata la cerimonia, il doge consegna nelle mani del giovane Francesco il voivoda Stefano e
gli altri prigionieri ungheresi e padovani ancora nelle sue mani. La comitiva prende congedo dai
Veneziani, torna all’alloggio, pranza e, subito dopo si imbarca, dirigendosi verso Padova. Per la
cena della sera sosta a Oriago, ed il mattino seguente, finalmente, arriva a Padova. In attesa che
vengano completate le operazioni di liberazione dei prigionieri e di distruzione delle fortezze,
Francesco da Carrara consegna quattro illustri ostaggi nelle mani dei Veneziani: Arcoano
Buzzacarini, Jacopo Scrovegni, Francesco Dotti e Giacomino Gaffarello.205
La distruzione, dovuta, dei castelli di Oriago, Portonovo e Castelcaro sono «el cortello
che passò el cuore del signor meser Francesco da Carrara, sì che per quello ello levò la divisa
202 Castel d’Oriago, Portonovo, Castelcaro, la torre sopra il Brenta, successivamente le bastie di Bassano
Cittadella, Camposanpiero, Stian, Mazzacavallo, Mirano e le Gambarare ed il ponte di queste,
Borgoforte e Lugo. Venezia demolirà Solagna, Castelfranco, Noale e Lova.
203 KOHL, Padua under the Carrara, p. 126-127 sottolinea come molti alleati del Carrara, come la Chiesa e
Firenze, faranno molto per aiutare il Carrarese a far fronte ai propri impegni finanziari. KOHL, Padua
under the Carrara, p. 148, ma si guardino anche le pagine precedenti, somma in 7.858 ducati il debito
carrarese e in 1.807.309 lire la somma dei prestiti. Una breve notizia sulla pace in Rerum Bononiensis,
Cronaca A, p. 290.
204 Tutti gli avvenimenti di questi concitati ed amari mesi per Francesco e Padova sono riportati in
ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 106-154. Raphaini Carasini Chronicon, col. 440 mette la
pace al 21 settembre e alle col. 440-442 riporta i capitoli del trattato. CESSI, Storia della repubblica di
Venezia, I, p. 326 se la cava in mezza pagina per narrare il conflitto, molto stringato e senza novità il
racconto di ROMANIN, Storia di Venezia, III, p. 244-246. CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova, p.
335-337 elenca le condizioni di pace.
205 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 154 e GATARI, Cronaca Carrarese, p. 125-127;
CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova, p. 335-338; CAPPELLETTI, Padova, I, p. 319-322; VERCI, Storia
della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 227-233; MONTOBBIO, Splendore ed utopia nella Padova dei Carraresi, p.
85. VASOIN, La signoria dei Carrara, p. 69, scrive che il doge Contarini avrebbe detto al giovanetto
Francesco: «Va in pase fiol mio, e dighe a to pare che nol staga più a pecar contro de nu!», traendo
questa notizia da SOMMER, Curiosità storiche padovane, Vol. II, p. 47.
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del bo(ve) col brieve in bocha, che disea “memor”, che è a dire “recordate et no te
smentegare”».206
Paolo Sambin207 così commenta in prospettiva storica l’esito del conflitto: «La sconfitta
assume un significato che va oltre un temporaneo insuccesso militare: segna l’inizio del
declino della signoria carrarese. L’alleanza ungherese, preferita, come dicevamo all’inizio, alla
tutela veneziana e provata in questa guerra, dà cattivo esito. È vero che Francesco da Carrara
non muta il suo indirizzo di politica estera e coltiva l’amicizia col re Ludovico (la quale
nessuna clausola del trattato di pace incide: e ciò il principe carrarese segnala con
compiacenza al re); e con l’Ungheria e con Genova (della cui potenza navale s’era accennato
in funzione antiveneziana qualche volta nelle relazioni ungaro-carraresi anche durante questa
guerra) tenterà la rivincita. Ma anche allora Venezia, che ha ormai consolidato la sua
espansione in terraferma e con questa guerra e con l’altra contro i duchi d’Austria, a cui, si
noti, questa fu felice occasione, riuscirà vittoriosa».
Giorgio Cracco scrive a proposito di questa guerra: «Buon per la Repubblica che i tanti
avversari poi non si mossero, o quasi, sicché non fu arduo battere il solo Carrarese. Ma se si
fossero mossi?».208
Francesco Novello da Carrara è nato a metà del 1362, infatti, quando il 31 dicembre del
1370, sua sorella Gigliola sposa Venceslao duca di Sassonia, egli ha sette anni e mezzo. Il
piccolo Francesco in questa occasione fa una gran figura, quando si presenta tutto armato nel
torneo, con la sopravveste azzurra con le colombe ricamate. Anche tutti i cavalli sono così
addobbati e Francesco procede, orgoglioso, scortato da tre valorosi cavalieri.209
206 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 166.
207 SAMBIN, La guerra del 1372-1373, cap. 19.
208 CRACCO, Venezia nel medioevo, p. 143-144.
212 DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 277 e anche 283. Francesco da Savorgnano è malato (cfr. ivi p.
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La cronaca del Trecento italiano
effetti, gli Ubaldini sono agli stipendi del legato. Ora ci si ricorda anche che nella montagna
fiorentina si commettono “infiniti furti”, se non per azione, almeno “per pazienza” degli
Ubaldini. Su undici componenti di questa famiglia il capitano del popolo di Firenze, Oddo
Fortebracci da Montone, mette una taglia di mille fiorini ciascuno, «da pagarsi a chi gli avesse
dati morti o vivi nelle mani del comune».214 Gli Ubaldini posseggono quattordici castelli negli
Appennini, sei tra i monti: Monte Gemmoli, Frena, Caprile, Roccabruna, Tirli, Monte
Colloreto, e otto nel contado: Lozzole, Vigiano, Castellione o Castel Leone, Montigno,
Valdignelli, Frassino, Susinana, Cerignolo. Fortezze nei luoghi più alti delle montagne che
separano la Toscana dalle Marche, ad est del Passo della Futa, di quello di Raticosa e a nord
ed est di Fiorenzuola, sul monte la Fine, monte Faggiola. Castelli, rocche, casseri posti su vie
impervie, lungo torrenti, sopra boschi. Costruzioni aspre, come il carattere dei loro
proprietari. Gli Ubaldini inoltre hanno finora goduto dell’amicizia degli Albizi. Il comune di
Firenze, cogliendo l’occasione di un dissidio interno alla casata, ottiene due castelli da
Ugolino di Francesco degli Ubaldini,215 che ha avuto un figlio assassinato da Pieraccio del
conte Pazzino Ubaldini. I Fiorentini mettono in campo il loro esercito, affidandolo a Giovanni
Cambi da Santamaria in Campo. Il comandante conduce i militi ad accamparsi «in su Poggio
Ladro» nei pressi di Castellione, stringendolo d’assedio. Di qui conduce disastrose scorrerie
nel territorio degli Ubaldini.216 Il nuovo Gonfaloniere di Firenze è Migliore di Vieri dei
Guadagni,217 un nemico degli Albizi, e, per estensione, degli Ubaldini. Giovanni Cambi, preso
Castellione, sta assediando Frassino, dentro il quale vi è Maghinardo. Migliore Guadagni fa
approvare una legge secondo la quale non solo quei tre Albizi esiliati, ma tutti i componenti
della loro famiglia siano esclusi dai pubblici uffici, e non solo per cinque anni, bensì per
sempre.218 Uno dei Priori, Piero Fastelli Petriboni, preoccupato da come la giustizia si stia
piegando agli interessi di parte guelfa, e più ancora alle vendette ed inimicizie personali,
propone che nessuna ammonizione possa in futuro esser valida, se non dopo l’approvazione
dei signori Priori e del collegio di palazzo. Viene zittito ed attaccato personalmente, e, scaduto
di mandato, il giorno stesso citato in giudizio come sospetto ghibellino, e «fu cosa miserabile,
veder colui, il quale il dì innanzi era stato veduto risiedere nel supremo governo della città,
con la coreggia al collo, gittato ai piedi dei capitani di parte, chieder da loro come da’ suoi
signori supplichevolmente la vita in dono».219
A Migliore Guadagni, a Niccolò di Niccolò Gherardino e Niccolaio del Bello Mancini
succede nel gonfalonierato Niccolò di Giovanni Malegonnelle,220 e, sotto il suo ufficio, il
castello di Frassino viene preso e Maghinardo catturato e condotto a Firenze. Maghinardo,
che pensava di poter ottenere Siena come sua alleata, quando vede arrivare le insegne bianche
214 Sono Maghinardo ed Antonio del fu Ugolino di Tano, un figlio di Maghinardo, Andrea di Ghisello, 4
figli di Vanni da Susinana, e 3 suoi nipoti. AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1373, vol. 3°, p. 45 e
nota 1.
215 Uno dei 2 castelli è Caprile, venduto per 2.500 fiorini, oltre a 10 fiorini al mese, da pagarsi per tutta la
vita a Ugolino. AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1373, vol. 3°, p. 47, nota 1.
216 STEFANI, Cronache, rubrica 739; AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1373, vol. 3°, p. 45; CHINI,
Storia del Mugello, Lib. V, cap. XI, p. 316-317; CERRETANI, St. Fiorentina, p. 149; Cronichetta d’Incerto, p. 274-
276.
217 E’ il primo Gonfaloniere del 1372 (secondo l’uso fiorentino che cambia l’anno al 25 marzo, quindi il
cognome, prima della promulgazione della legge. AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1373, vol.
3°, p. 45-46.
219 Piero risulta tra gli ammoniti il primo marzo 1372 (’73 secondo il nostro usuale modo di contare gli
anni). STEFANI, Cronache, rubrica 735. La storia del povero Piero, ammonito e “rimosso in perpetuo dal
governo della repubblica”, è in AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1373, vol. 3°, p. 46-47. Anche
SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1092 e 1093.
220 Il quarto Gonfaloniere del ’73, quindi luglio-agosto.
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e nere della città in soccorso non suo, ma dei suoi avversari fiorentini, dice: «Io so’ disfatto,
imperocchè io aspettavo e pensavo di avere soc(c)orso da’ Sanesi e raccomandarmi a loro».
L’Ubaldini, in giugno, si arrende a discrezione dei Fiorentini, e la discrezione di questi è
inviarlo in catene a Firenze e giustiziarlo.221 Infatti, la condizione che gli viene posta per aver
salva la vita è che convinca gli altri Ubaldini a cedere il castello di Tirli, ma, non riuscendovi,
lo sventurato Maghinardo viene decapitato per ordine del podestà di Firenze, Giovanni da
Roncofreddo. Esecuzione che getta un’ombra d’infamia su Firenze, in quanto «Maghinardo,
oltre il valore, era riputato il miglior uomo della casa degli Ubaldini».222
Giovanni Cambi, terminata la sua condotta, cede l’esercito a messer Obizzo di Cortesia
da Montecarulli, in Garfagnana. Questi, ottenute le insegne, immediatamente passa all’azione
e conduce l’esercito all’assedio di Susinana, dove vi è Giovanni Ubaldini e un suo figlio. Ma
Firenze, uccidendo il prode Maghinardo, si è negata la possibilità di aver per patti la fortezza,
in quanto nessuno più si fida della sua clemenza. L’assedio si prolunga per mesi, finché un
famiglio di Giovanni decide di tradirlo. Egli convince il suo capo che hanno bisogno di altri
soldati, e, uscito dal castello, si dà a trattare con i Fiorentini. Quando ritorna ha con sé solo
due fanti. Cogliendo l’occasione della scoperta di una cava degli assedianti, e quindi di un
tentativo sventato di prendere con la forza la fortezza, il famiglio ottiene il permesso di salire
sulla torre per accendere un fuoco di festa; invece fa un segnale ai Fiorentini perché vengano
al lato dove egli ha provveduto a far aprire una porta. Vistisi perduti, Giovanni ed il figlio si
arrendono, negoziando la loro libertà in cambio di Valdagnello. Dopo questo castello, l’ultimo
ad arrendersi è Tirli. Tutte le fortezze vengono distrutte, ed il capitano vittorioso rientra a
Firenze il 6 ottobre, «ricevuto con molti onori e largamente premiato da’ Fiorentini».223 Di
ritorno dall’impresa, l’esercito entra a Pistoia, riaffermandovi la sua signoria.224 «D’ora in poi
gli Ubaldini, tanto quelli rimasti in Mugello che sull’alpe, vissero in qualità di gente privata,
soggetta, al par di tant’altre nobili famiglie al governo della repubblica».225
Soggiogati gli Ubaldini, resistono a Firenze solo alcuni membri delle dinastie dei Guidi e
dei Bardi. Sono sottomessi alla Signoria «i Bardi di Mangona, i Cattani di Cambiata e di
Barberino, i signori da Rabatta, i Falcucci e loro consorti, i Giraldi di Montazzi, i Parenti da
Olmi ed altre famiglie mugellane».226 Anche un’altra illustre dinastia di grande futuro, i
Medici, che era una volta «padrona ed arbitra assoluta nei tempi feudali di Villa (ora S. Piero
a Sieve), di Borgo Grinzelli, delle Mozzette, di Rezzanigo, di Cafaggiolo e del Trebbio; non
solo obbediva alla repubblica, ma un ramo di essa, conservando grandi possessi in Mugello,
s’era ridotta a stare a Firenze».227
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La cronaca del Trecento italiano
disciplinato nella guerra sotto suo padre, che l’aveva sempre avuto appresso di sé come suo
consigliere».229
235 Altri dicono che vi sia stata battaglia, nella quale il re di Cipro è stato catturato e costretto alla
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d’oro annui, Cipro deve pagare entro due mesi 90.000 scudi per il mantenimento della flotta
che l’ha piegata e la fantastica cifra di 2.012.400 scudi, divisi in dodici rate annuali, per
rimborsare le spese della maona. 236
Frederic C. Lane osserva che, mentre i Genovesi credono, con la conquista di Famagosta,
di avere in mano la chiave del commercio per l’Oriente, visto che appunto questa città era il
centro di smistamento delle merci d’oltremare e il punto d’arrivo delle galee veneziane, molto
semplicemente Venezia cambia le rotte commerciali e le sue cocche vanno direttamente a
Beirut, ad altri porti della Siria ed a Alessandria, senza passare per Cipro; inoltre, i Corner,
stanziati nella parte meridionale dell’isola, continuano da qui ad esportare zucchero e
spezie.237 A prova della vitalità commerciale della Serenissima, nel 1374 riprendono i convogli
ufficiali per Bruges e vengono messe all’asta galee per viaggi commerciali a Beirut e
Alessandria.238 Comunque, le conseguenze per il regno di Cipro sono disastrose: Peter Edbury
commenta: Cipro «non sarà più in condizione di contribuire a leghe concepite contro i Turchi,
ed ancor meno a sfidare i sultanati dei Mamelucchi».239
§ 42.Bisanzio
Divenuto tributario dei Turchi, l’imperatore di Bisanzio deve anche accompagnare il
sultano nelle sue spedizioni. Nel maggio 1373 Giovanni V Paleologo è in Anatolia a
combattere al fianco di Murad. Mentre egli partecipa alla campagna militare, il suo
primogenito Andronico si ribella contro di lui e contro il sultano. Andronico si è alleato con il
figlio di Murad. Il sultano schiaccia facilmente la ribellione e fa accecare il principe Saudżi
Čelebi, egli pretende che anche il Paleologo faccia altrettanto con suo figlio Andronico. Lo
storico bizantino Ducas scrive che l’imperatore fa cavare gli occhi anche al figlio di
Andronico, Giovanni. Egli aggiunge che «Andronico da un occhio non era del tutto privo
della luce e Giovanni, suo figlio, era ombrato, ma non completamente privo della vista». 240 Il
Paleologo nomina Manuele suo successore e il 25 settembre gli impone la corona di co-
imperatore.241
236 STELLA, Annales Genuenses, p. 166-167 e note 6 e 7; ACCINELLI, Genova, p. 86-87; LOPEZ, Storia delle
colonie genovesi nel Mediterraneo, p. 286; i racconti di EDBURY, The Kingdom of Cyprus, p. 202-207 e FILETI, I
Lusignan di Cipro, p. 119 sono molto dettagliati. La cronaca della conquista dell’isola è raccontata con
molti particolari da Diomede Strambaldi, utilizzato da L. DE MAS LATRIE, Histoire de l'île de Chypre, p.
394-395.
237 LANE, Storia di Venezia, p. 223.
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dei soldati. Dopo pochi giorni, Ottone è raggiunto da un vescovo oltremontano inviato da
Santa Chiesa, che rinnova con impietosa furia le crudeltà contro i ghibellini; egli fa circondare
di fossi e palizzate la cittadella, ancora in mano a Galeazzo Visconti, per impedirne sia
l’entrata che l’uscita.242 In novembre, Bernabò soccorre suo fratello, che ha pochi armati a sua
disposizione per sorvegliare Piacenza, inviandogli il podestà di Milano, Jacobo Pio, al
comando di duecento lance.243
Papa Gregorio invia a Bologna il conte Ugolino di Montemarte, uno dei più leali e capaci
comandanti della Chiesa, quale consigliere del cardinal legato.244
242 CORIO, Milano, I, p. 843 e Annales Mediolanenses; col. 751-752. GIULINI, Milano, lib. LXXI anno 1373 ci
fornisce la data del 16 ottobre sulla scorta di DE MUSSI, Piacenza, col. 514-515. Una breve notizia in Rerum
Bononiensis, Cronaca A, p. 290-291. NUTI, I Fieschi, p. 205. Si veda anche POGGIALI, Piacenza, VI, p. 376.
243 CORIO, Milano, I, p. 843.
245 GAZATA, Regiense, col. 82; GIULINI, Milano, lib. LXXI anno 1373; BALLETTI, Reggio, p. 196; PANCIROLI,
Reggio, Libro V, p. 5-6; ALEOTTI, Reggio, p. 142; TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 56-57.
246 PANCIROLI, Reggio, Libro V, p. 6.
247 BALLETTI, Reggio, p. 196-197, qui Balletti registra che tutti i nove figli di Giberto, maschi e femmine,
sono morti di morte violenta e ne narra le modalità dei decessi. Gli odi familiari si perpetueranno nel
tempo e nel 1393 Boccadoro da Fogliano ucciderà il suo parente Niccolò, signore di Rondinara, per
essere a sua volta sgozzato dai figli dell’assassinato. Anche PANCIROLI, Reggio, Libro V, p. 6.
248 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 128; MONTOBBIO, Splendore ed utopia nella Padova dei Carraresi, p. 85.
249 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 129. L’alleanza tra gli Asburgo e il Carrara mette fine alla lunga loro
ostilità originata dal castello di Pergine, che data al 1348; DEGLI ALBERTI, Trento, p. 256.
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accada, di schierarsi con Venezia contro di loro. Quando, in effetti, esploderà il conflitto tra i
duchi e Venezia, Francesco sarà costretto ad inviare cinquecento suoi cavalieri al comando di
Rainiero Scolari, “homo nobele et experto”. Questi soldati portano l’attacco nella contrada di
Feltre, conquistando la bastia della Mosca, tra il Piave e la montagna, sita a cinque miglia da
Feltre, e controllante la via per la città. Passano poi a prendere la bastia della Coronella, ed
altre due sulla montagna. La pace stipulata tra Venezia ed i duchi d’Austria mette fine alla
guerra, ma non all’inimicizia dei duchi verso il Carrara.250
250 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 152. Credo che l’autore abbia sentito il bisogno di
riportare questo episodio non tanto per sottolineare le ragioni dell’odio che i duchi nutrono nei
confronti dl signore di Padova, quanto per lenire il bruciore dell’umiliante pace firmata con Venezia,
con la narrazione di gesta gloriose.
251 SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1093.
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La cronaca del Trecento italiano
§ 51. Tradimenti
In dicembre, uno della famiglia Cattabiano, un abate di Santa Maria di Castiglion de’
Marchesi, in cui Bernabò ripone la massima fiducia, tradisce ed accetta di dare la fortezza di
Castiglione, nel Parmigiano, al cardinal legato che sta nel castello di San Giovanni in Croce.
Ma alcuni ecclesiastici, che a loro volta stanno tradendo la loro parte a Castelnuovo, nel
Piacentino, scoprono il doppio gioco dell’abate, che, avendo compreso di essere stato
smascherato, fugge da Bernabò, morendo pochi giorni dopo, di morbo. I militi di Bernabò,
cavalcando a Castiglione, evitano il tradimento.255
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Sant’Angelo, cui impone la consegna del malfattore Mariotto. Avutolo in suo potere, la regina
lo fa impiccare.258
La ribellione di Francesco del Balzo è da ricercarsi nelle conseguenze della morte di
Filippo III di Taranto, che non avendo avuti eredi, lasciò i suoi averi a Giacomo del Balzo,
figlio di sua sorella Margherita. Il padre di Giacomo, Francesco del Balzo, duca d’Andria,
vuole per sé l’eredità ed il titolo – solo nominale - di imperatore di Costantinopoli nonché
quello di principe di Taranto. Giovanna non vuole ed annette a sé questi titoli. Di qui il
processo che vede contumace Francesco del Balzo, la sua ribellione e la sua fuga a Avignone,
accompagnato dal figlio Giacomo.259
258 FARAGLIA, Diurnali, p. 9 e 10; CAMERA, Elucubrazioni, p. 273; MIGNOT, Histoire de Jeanne Premiere, p. 235-
236; DEL BALZO DI PRESENZANO, A l’asar bautezar!, vol. I, p. 294-296.
259 CAMERA, Elucubrazioni, p. 273.
260 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 168, 169, 170, 180, 181, 182.
261 La Ystoria de mesier Francesco Zovene; cap. 173, dice che è il nipote e non il fratello, come invece
sostiene Alessio. La fonte citata ci dice anche perché i Forzatè si sono decisi a tradire, Luise per gelosia
verso un prediletto di Francesco, Archoan Buzzacarini, e Filippino perchè crudamente biasimato dal
Carrara per il suo cattivo comportamento quand’era podestà di Feltre.
262 Il piano per uccidere Francesco nasce proprio da Nicolò che dice che il signore di Padova ha
un’amante, nella contrada di San pietro, e quando si reca a visitarla è accompagnato solo da 3 o 4
famigli. Questa è l’occasione giusta, e se si uccidono anche gli accompagnatori, si potrebbero incolpare i
parenti della donna, che è di “bona e potente famiglia”. GATARI, Cronaca Carrarese, p. 131 e nota **.
263 Piero è amico intimo di Giacomo da Lion, ma quando questi gli rivela la congiura, “Piero, udite sì
fatte parolle, tuto si tramutò nel vixo, nè no fecie lieta resposta, anci con voce rochia disse esere
aparechiato” e Giacomo capisce al volo che ha commesso un passo falso. GATARI, Cronaca Carrarese, p.
132. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 235-237; la data fissata per l’attuazione della
congiura era il 23 dicembre.
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264 Anche stavolta il primo sentimento di Francesco è l’incredulità: “Piero, guarda, non mi fare buxia,
ch’io te ne farò portare la pena”. In effetti è una rivelazione dura da digerire: sono traditori suo fratello
Nicolò, e ora anche suo zio Alvise Forzatè, e negli ultimi anni della sua vita, e dopo esser “sempre stato
de i più leali cavalieri del mondo”. Dapprima Nicolò ed Alvise negano. Francesco da Carrara fa venire a
Padova, con un salvacondotto, Tebaldo Rognon, che gli conferma ogni cosa, allora Francesco sottopone
a tortura i congiunti che confessano. GATARI, Cronaca Carrarese, p. 133, e nota * e **.
265 ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 174-179. CHINAZZO, Guerra di Chioza, col. 708.
GATARI, Cronaca Carrarese, p. 130-133. Quando Giacomo scopre che dopo aver coinvolto Pietro Salamoni
nella congiura, questi si è immediatamente recato a palazzo, non ha perso tempo, è saltato a cavallo con
Giacomo di Beroardi e Tibaldo Rognon, e, per la via di Ferrara si è rifugiato a Venezia. GATARI, Cronaca
Carrarese, p. 132. CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova, p. 340-344.
266 “Quali pigliarono mezza villa delle Gambarare, e posero il confine appresso Oriago, e dalla parte del
Trivigiano messero i confini molte pertiche dentro del Padovano, e per tutti i confini furono messi
termini alti sette passi, fatti di marmoro al quadro, e artefatti con un San Marco grande scolpito in
cadauno di essi”. GAZATA, Regiense, col. 81; CHINAZZO, Guerra di Chioza, col. 706-708; CORIO, Milano, I, p.
844 e ALESSIO, Storia della guerra per i confini, lib. II, cap. 183-184. La Ystoria de mesier Francesco Zovene; cap.
177 ci informa che la guerra è durata 11 mesi e 21 giorni.
267 Gli altri figli e fratelli di Francesco sono Carrarese, Margherita e Gigliola.
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271 VARANINI, Vicenza nel Trecento, p. 187-203 riporta molte informazioni sulle famiglie che contano nel
Vicentino. Le loro origini e la base della loro fortuna è la più varia. Vi sono i Nogarola ed i Cavalli che
hanno fatto carriera alla corte scaligera, vi sono uomini che debbono la propria fortuna ed influenza alle
carriere nell’amministrazione, come i Pigafetta, da Serego e Proti. Da Reggio, nell’età di Cangrande,
provengono i da Sesso. I da Thiene debbono la loro fortuna al loro denaro ed alla loro attività di
prestito. Vi sono immigrati di Toscana. Vicentini di provenienza veronese sono i Gangalandi, gli
Ubriachi, i Neri, i da Lisca, i Cipriani, i Pegolotti. La famiglia bolognese dei Ghellini è protagonista di
una rapida ascesa sociale. I Montanari sono attivi sia a Vicenza che a Verona. Meno fortunati ed
influenti sono i Faella. Una famiglia proveniente da Città di Castello, i Francanzani, fanno carriera sotto
Cangrande.
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La cronaca del Trecento italiano
Alla fine dell’anno, gli Inglesi si riducono a Bordeaux, in difficoltà.272 Scrive Desmond
Seward: «Alla fine del 1373 l’Aquitania non esiste più», intendendo che non è più in potere
degli Inglesi, che hanno perso la presa anche nella Guyenne.273 Ma entrambe le parti sono
esauste: il re d’Inghilterra è vecchio e nella mani di una donna intrigante, Alice Perrers, il
principe Giovanni di Gant non riesce a imporsi sugli impopolari ministri reali, le casse reali
sono vuote, anche le ingenti somme incassate per il riscatto del re Giovanni il Buono sono
state spese. Bertrand du Guesclin dispera di potersi impadronire del cuore della Guyenne, la
cosa migliore è trattare una tregua.274
§ 59. Carlo IV
Scrive W. T. Waugh: «Se Carlo fosse morto al suo ritorno dall’Italia, sarebbe passato alla
storia come uno dei sovrani tedeschi che aveva collezionato più insuccessi. Invece, per il resto
della sua vita gli arrise la fortuna e ogni sua iniziativa ebbe uno sbocco felice». Il primo
problema che l’imperatore deve affrontare al suo ritorno è un’alleanza contro di lui,
organizzata da due dei nipoti del Bavaro, Stefano e Federico, figli di Stefano Wittelsbach,
duca dell’Alta Baviera. Alla lega partecipano, per motivi diversi, l’arcivescovo di Magonza e i
re di Polonia ed Ungheria. Carlo, nel partire, ha affidato l’amministrazione del
Brandeburgo275 ad un consiglio che i nobili, capeggiati da Klaus von Bismarck, hanno
ignorato. L’imperatore chiede al rettore del Brandeburgo, Ottone, il rinnovo del trattato
firmato nel ’63, che lo nomina erede in caso di mancanza di eredi maschi, e incassa un rifiuto
netto. Un uomo meno prudente di Carlo avrebbe impugnato le armi, invece il saggio
imperatore lavora alla lenta disgregazione dell’alleanza a lui avversa. La fortuna lo assiste,
muoiono sia l’arcivescovo di Magonza che il re di Polonia e Carlo riesce a trarre dalla sua
parte re Ludovico d’Ungheria, proponendo che suo figlio Sigismondo sposi la figlia del re,
Maria. Isolati i nemici, Carlo può usare le armi ed attaccare la marca di Brandeburgo e
costringere gli avversari a firmare nel 1373 il trattato di Fürsterwalde, che assegna il
Brandeburgo ai Lussemburgo. Vittorioso, Carlo si dimostra magnanimo e consente ad Ottone
di conservare molti possessi.276
272 CONTAMINE, La Guerra dei cent’anni, p. 57; Giovanni di Gant ha condotto con sé 3.000 uomini d’arme e
8.000 arcieri; traversando la Piccardia, Champagne, Borgogna, Borbonnais, Auvergne e Limousin,
compie 600 miglia in cinque mesi. Per rientrare alla sua base è costretto a compiere una micidiale
traversata delle montagne dell’Auvergne in pieno inverno; quando raggiunge Bordeaux con seimila
uomini affamati ha perso gran parte delle sue truppe e tutti i suoi cavalli, SEWARD, The Hundred Years
War, p. 114-115.
273 SEWARD, The Hundred Years War, p. 115.
275 Il Brandeburgo gli è stato assegnato dal trattato del 1363, nel quale i rettori del paese, Ludovico il
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§ 61. Le arti
Nel 1373, Antonio da Atri dipinge due Santi a Santa Maria d’Arabona. A questo artista
sono attribuiti anche affreschi nel duomo di Atri, all’Aquila e una Crocifissione in
Sant’Agostino a Penne, quest’ultima dipinta sul finire del secolo.283 Nicolò Gerini dipinge
l’Incoronazione degli Uffizi.
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La cronaca del Trecento italiano
§ 62. Letteratura
Antonio Pucci, ormai vecchio, mette un ultimo capitolo al suo Centiloquio, nel quale
descrive lo stato di Firenze in tale data.284
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CRONACA DELL’ANNO 1374
5 E’ la loggia che oggi chiamiamo Dei Lanzi. STEFANI, Cronache, rubrica 741 e AMMIRATO, Storie fiorentine,
ottiene facilmente la loro confessione, ma si rifiuta di credere che nella congiura entri suo zio
Alvise Forzatè, che gli ha dato sempre prova di totale lealtà. Un altro rovello è dato dalla
presunta partecipazione alla congiura di Giacomo di Lion, il figlio ecclesiastico di Cecco; che
anche Cecco sia implicato? Il colpo sarebbe terribile, Cecco è uno dei suoi più fidati
confidenti. Dopo la conferma che Giacomo di Lion è fuggito, come misura precauzionale,
Francesco fa serrare le porte di Padova, che nessuno possa entrare o uscire. Il 5 gennaio,
Bonifacio e Nicolò da Carrara vengono inviati nella rocca di Monselice, per essere
imprigionati nella fortezza.7 Finalmente, il 7 gennaio, il signore di Padova si risolve ad inviare
un nutrito contingente di mercenari a prelevare Alvise, Giovanni e Giacomo Forzatè.
Interrogati, negano ogni addebito, allora Francesco invia un salvacondotto a Tebaldo Rognon,
fuggito a Venezia con Giacomo di Lion, perché venga a testimoniare, il premio sarebbe la
possibilità di rimanere a Padova, libero e sicuro. Tebaldo viene e conferma le accuse contro
Alvise. Francesco allora l’11 di gennaio fa ricorso alla tortura, ed ottiene la confessione del
tradimento. Il delatore Tebaldo preferisce tornare a Venezia. Il 17 gennaio, Alvise e Filippino
Forzatè vengono consegnati a messer Niccolò Rangoni, podestà di Padova, perché li giudichi.
Il giorno seguente compaiono alla sbarra, e rendono pubblica confessione. Il lunedì seguente,
23 di gennaio, il podestà «fato sonare arengo, con tuta la soa famiglia armato e con circha
ciento provisionati armati con le spade nude in mano», sale a palazzo e fa trarre di galera i
Forzatè. Questi, come malfattori, sono vestiti di panni bruni, lunghi fino a terra, vengono
condotti davanti alla ringhiera del podestà e viene loro letta la sentenza. Sono condannati «a
eser tagliatogli il collo via da le spalle per muodo che morisse». Alvise si ribella ma viene
trascinato davanti una delle scalinate, dove «magistro Iacomo da Bologna, manigoldo», lo
decapita. Stesso trattamento viene riservato a Filippino, ed i loro cadaveri vengono tumulati a
Sant’Agostino. Gli altri Forzatè sono condannati all’esilio, pena la vita; Francesco può invece
constatare con sollievo che Cecco da Lion non è implicato nella congiura.8 Dopo alcuni giorni,
una lettera pontificia gli annuncia che Giacomo di Lion, il traditore, è stato nominato vescovo
di Padova. Immaginiamo lo sgomento del Carrara, il cui primo pensiero sarà stato che lo
stesso pontefice fosse l’animatore del tradimento. Impietrito, Francesco non risponde al breve
papale; il pontefice dapprima si meraviglia del silenzio, poi, quando apprende l’accaduto,
ripara alla sua gaffe, privando Giacomo dell’alta dignità e nominando al suo posto messer
Raimondo di Provenza, abate di San Nicola di Lido e mediatore della pace tra Venezia e
Padova.9 Il nuovo vescovo prenderà possesso della sua diocesi domenica 26 marzo.10
Il primo di gennaio, Francesco da Carrara cerca di far dimenticare le amarezze che i
Padovani hanno dovuto subire per la guerra con Venezia, organizzando un torneo. I
contendenti sono divisi in due squadre, una vestita di rosso, l’altra di bianco. Messer
Giovanni di Rodi è il capitano dei Rossi e messer Arnoldo è quello dei Bianchi. Arcoano
Buzzacarini, che combatte nelle fila dei Rossi, ottiene il primo premio: un cappelletto con
penne d’oro, mentre il secondo premio, consistente in un cappello con penne d’argento, viene
guadagnato messer Giovanni di Rodi.11
7 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 135, nota **. Additamentum Secundum ad Chronicon Cortusiorum, col. 983
specifica che Nicolò da Carrara morirà nella fortezza. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p.
236-237.
8 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 133-135; CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova, p. 343-344.
11 Additamentum Secundum ad Chronicon Cortusiorum, col. 983-984. VERCI, Storia della Marca Trevigiana,
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La cronaca del Trecento italiano
Carinzia, il 18 gennaio. Il trattato, che è in chiave antiveneziana, non può non scontentare chi
vuole fare traffici con la città sulla laguna.12
Il duca d’Austria Leopoldo, ora signore di Feltre e Belluno, fa preparativi di guerra con
l’obiettivo di impadronirsi di Treviso. Francesco da Savorgnano il 1° giugno informa di ciò sia
il podestà che il capitano di Treviso.13
12 BRUNETTIN, L’evoluzione impossibile, p. 217; PASCHINI, Friuli, I, p. 351-352; l’alleanza è contro tutti,
eccezion fatta per l’Impero, il Papato, l’Ungheria e il conte Mainardo.
13 DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 279.
17 L’elenco dei beni incamerati dagli Asburgo è il seguente: il Carso, la contea di Pisino con Pedena,
menzionata in una lettera del conte di Cilli a Udine datata17 marzo, DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p.
278-279.
19 BRUNETTIN, Una fedeltà insidiosa, p. 336. Mainardo non ha figli maschi, facendo così sperare i possibili
eredi, Wittelsbach, Asburgo e Cilli di poter venire in possesso dei suoi beni, Mainardo invece, anche se
vecchio, si sposerà ed avrà quattro eredi maschi, rendendo vani i patti e le speranze; WAKOUNIG, Una
duplice dipendenza, p. 342-343
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§ 9. Assisi
Francesco, detto Cicco, di Petruccio di Marcuzio, conosciuto come frate Cicco di città di
Assisi, lascia al rettore della cappella di San Biagio nella chiesa vescovile di Santa Maria
d’Assisi, cento soldi, inoltre ben cento lire per far dipingere un’immagine di San Biagio nella
chiesa di San Matteo in Sasso, che è sul monte Subasio.20
23 FROISSART, Chroniques, Lib. I, parte II, cap. 333 parla del riscatto di Giacomo.
26 MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, II, p. 205-206; solo u cenno in PISPISA, Messina nel Trecento, p. 244.
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La cronaca del Trecento italiano
due mesi, per la città non vi sarà più nulla da fare. La condotta prevede che tutti i beni mobili
delle fortezze eventualmente strappate al Monferrato, saranno bottino dei militi, mentre il
possesso della fortezza toccherebbe a Galeazzo. Con tale clausola il Visconti se la cava con
poca spesa: sei fiorini al mese a componente di lancia e due e mezzo ai balestrieri e fanti. Ma a
poco vale l’aver assoldato nuovi armati, le truppe ecclesiastiche, incitate da Giovanni del
Fiesco, fuoruscito vescovo di Vercelli, continuano a scavare gallerie, ed erigere palizzate,
impedendo a chiunque sia di entrare che di uscire da Vercelli.27 La fortezza si arrende il primo
di agosto.28 Poiché Vercelli non può difendersi da sola, e in quanto il vescovo Giovanni del
Fiesco è sicuramente insufficiente a resistere ad un attacco visconteo, il Conte Verde capisce
che è necessità di affidare la città a Giovanna di Napoli o al marchese di Monferrato. La cosa
non può piacergli.29
31 La Ystoria de mesier Francesco Zovene; cap. 178; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 240-242;
e cominciò anche le muraglie de i Borghi, cominciando a Ponte Pedocchioso fin’al Portello, e seguitando
per altri luoghi, dove la città era solamente spaldata. E fece anco la Torre del Bassanello col Zirone
(Girone)”.
33 O della Bellana, figlio del Veronese Ognibene. Vedi nota 3 in GATARI, Cronaca Carrarese, p. 137.
Additamentum Secundum ad Chronicon Cortusiorum, col. 984 conferma che il castello viene edificato in
meno di quattro anni.
34 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 137.
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Pochi giorni dopo, il 12 marzo, Francesco è chiamato ad apporre il sigillo alla sua
amarezza, partono infatti i sindaci padovani incaricati di constatare i nuovi confini stabiliti da
Venezia.35
35 Sono “il famoso dotore misser Guielmo da Cortarollo e Avanciero notaro”. GATARI, Cronaca Carrarese,
p.136-137. Scrive Paolo Sambin: «Dopo la distruzione delle fortezze, la definizione dei confini, che fu
decisa il 13 marzo 1374, prorogato il termine iniziale dei lavori. Non possiamo dire con documentata
certezza, per la solita difficoltà di dare un significato ad antichi termini geografici, come si siano
comportati gli arbitri veneziani; ma quella composizione del collegio di sindaci in quell’immediato
dopoguerra scosso da viva passionalità, non poteva non portare a lesioni di interessi padovani, come
cronisti padovani lamentano; era umano – della perenne tristezza umana – che coì avvenisse». SAMBIN,
La guerra del 1372-1373, cap. 18. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 242-243; CITTADELLA, La
dominazione carrarese in Padova, p. 348-349.
36 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 136.
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costruzione e dal fatto che “scritture in Perugia” dicono «che quella torre del duomo era stata
murata tremila anni addietro». Durante la demolizione il Palladio non viene trovato.42
Guglielmo Noellet, in vista di un possibile tacere delle armi nel conflitto contro i
Visconti, indice un’assemblea generale a Bologna, alla quale invita tutti i signori delle terre a
lui affidate, i vescovi, gli abati, i comuni. Vi intervengono illustri personaggi, come i marchesi
d’Este e i Malatesta. Il risultato dell’incontro è che, nell’attesa della pace, occorre armarsi e per
far ciò, tassarsi.43
Nel ’74, Ugolino compra da Ugo di Turenna Montelione e Montesabbione, egli mette
così fine al contenzioso che il signore di Lorena ha con Orvieto, che vanta diritti sulla città.
Nulla può dire il comune di Orvieto contro il conte di Montemarte, benemerito della città e
quasi un padre della patria.44
Il nuovo legato si reca a Fano a venerare la Madonna nella sua immagine custodita al
Ponte Metauro. Egli soggiorna due giorni nel palazzo pubblico, in attesa del fratello del papa,
poi prosegue il suo viaggio verso Roma.45
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strettamente circondata da una gran folla di notabili, transita sul ponte, diretta verso la chiesa
dei Frati Minori, questo crolla, schiantato dal gran peso, precipitando nel fossato profondo i
miseri resti di Azzo ed un centinaio di persone «li più nobili de le citade de Galeazo». Di
questi «caschando ne la profunda fossa, la maggior parte se summerse». Inoltre, le travi che
reggevano il ponte, e molte delle pietre su cui si fondavano, precipitano a loro volta, sulla
testa dei malcapitati. L’acqua nel fosso è alta, ed i fianchi del fossato sono rivestiti di
muratura, non vi è modo per chi è ancora vivo di scalare le ripide pareti. Chi è scampato si
lancia a cercare scale, corde, scialuppe, mentre, in basso, nel fossato sovraffollato ognuno
cerca scampo come può, e, spesso, a scapito degli altri. Come se non bastasse, appena
avvenuto l’incidente si scatena un furioso temporale, con pioggia intensa e grandine, che
impedisce i soccorsi, aggravando il bilancio della sciagura. Solo tre di coloro che sono
precipitati nel fossato tragico riescono a salvarsi. Intanto, una folla di donne, parenti di coloro
che hanno partecipato al funerale si precipita sul luogo, incurante della pioggia che li
infradicia, e si incrociano le grida: «Dov’è mio marito, o mio figlio, o mio fratello?», grida che
cessano solo quando la donna può riabbracciare il congiunto.47
47 GAZATA, Regiense, col. 83; Annales Mediolanenses, col. 749. CORIO, Milano, I, p. 845. Alcune fonti parlano
invece del figlio, e gli danno il nome di Azzo. L.A. Muratori, Annali d’Italia, Anno 1374. Muratori parla
di 3 aprile, ma Pasqua cade il 2 quest’anno, inoltre dice che Carlo è figlio di Galeazzo. Le corrette
parentele sono stabilite in DE MUSSI; Chronicon Placentinum; col 512 e 513.
48 PELLINI, Perugia, I, p. 1133.
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Moccicoso Tegliacci ed un suo compagno. Il giorno seguente, viene tagliata la testa a Pippo di
messer Ambrogio Benzi. Il 24, ne vengono decapitati altri nove, tra cui Antonio di Vanni,
Nicolò da Ripostena, un Pannocchieschi ed altri tre di Massa, poi il Sanatore si rifiuta di far
eseguire altre condanne. Sono rimasti vivi alcuni dei principali capi dei banditi, tra cui
Andrea di Nicolò di Bonsi Salimbeni. La brigata del Bruco, fomentata da Noccio “sellaio”, si
reca vociando al palazzo dei signori, reclamando a gran voce la vita di Andrea Salimbeni,
minacciando di mettere la città a rumore. Il capitano del popolo, Galgano “dipentore” ed il
priore Bindo di maestro Pavolo “guantaio”, intimoriti, danno licenza a Noccio di fare ciò che
voglia con i detenuti. Noccio guida allora la brigata all’ufficio del Sanatore, che intanto è
fuggito nel palazzo dei Signori, non vi è quindi nessuno che possa decretare la sorte dei
prigionieri, ma Noccio non si perde d’animo, sale sullo scranno del Sanatore e decreta la
decapitazione di Andrea Salimbeni, e la liberazione di sei prigionieri, tra cui due ragazzini. Il
16 giugno, Noccio vorrebbe far decapitare anche Piero di Cerbone di Massa, ma i riformatori
nel frattempo si sono organizzati ed hanno rafforzato le difese contro le turbolenze del Bruco,
perciò una parte rilevante dei Riformatori trova il coraggio di opporsi; ne segue una violenta
discussione, il cui risultato è che a Noccio viene revocato ogni potere. Il povero Piero rimane
in prigione, ed ora quell’oscura cella lo protegge: infatti Noccio non ha accettato senza
reazioni la decisione dei Riformatori, egli ha condotto una folla a premere alle porte del
palazzo della prigione, nel tentativo di introdurvisi e linciare il prigioniero. La forte difesa
delle guardie convince la folla a disperdersi. Qualche giorno dopo i Riformatori si radunano,
e, per suggellare la pace fatta tra loro, si vanno a fare una bella bevuta in palazzo. Quando gli
animi si sono calmati, tutti i prigionieri ancora in vita, sei se ho contato bene, incluso Piero di
Cerbone, vengono liberati.49
49 Cronache senesi, p. 653-655; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1094-1095, molto scarna Rerum
Bononiensis, Cronaca A, p. 293-294.
50 CORIO, Milano, I, p. 845.
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guardano bene dal prendere iniziativa alcuna. Giovanni Magalotti viene «notato per
sospetto», cioè guardato come un potenziale ghibellino.51
Uno dei motivi della poca tenacia nel trovare una soluzione a tale problema è da
ricercarsi nel riacutizzarsi della «pestilenza dell’infiato dell’anguinaia, o sotto il ditello», che
quando prende concede al massimo tre o quattro giorni di vita. La peste è ricominciata a
Firenze a marzo, e, pian piano si smorza fino a cessare del tutto verso settembre-ottobre.
Miete settemila vittime su una popolazione di circa sessantamila anime.52
Firenze si dedica comunque a consolidare il suo dominio sulla parte orientale del
Mugello, acquistando per 5.000 fiorini dai conti di Gattaia la rocca di Belforte, che domina il
noto valico delle Scalelle. Ottenutala, la demolisce dalle fondamenta. Dagli stessi compra
anche la rocca di Gattaia, pagandola 3.000 fiorini d’oro, e, demolitala, ne deporta gli abitanti a
Vicchio. L’anno prossimo poi, a suggellare il suo predominio, paga ben 12.000 fiorini d’oro a
Giovanni, Bartolo, Andrea e Lorenzo Bardi per il Castello del Pozzo e Dicomano, «con nove
popoli intorno, colla rocca di Vicorata e con Londa (l’antica Isola) in riva del Moscia». Firenze
conserva solo Dicomano e Londa e tutto il resto distrugge.53
51 STEFANI, Cronache, rubrica 743 e AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1374, vol. 3°; p. 50-51.
52 STEFANI, Cronache, rubrica 745 e AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1374, vol. 3°, p. 52.
53 CHINI, Storia del Mugello, Lib. V, cap. XI, p. 327.
54 CRISTOFANI, Assisi, p. 206-207, Cristofani non ci riferisce come sia andata a finire.
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La cronaca del Trecento italiano
e la munisce, si schiera contro gli assassini e si collega con i Rossi, i marchesi di Scipione ed i
Pellegrino.56
§ 25. Treviso
Il doge Contarini, preoccupato dalle notizia di grandi armamenti che gli Asburgo, e
particolarmente Leopoldo, stanno effettuando, ordina a Pantalon Barbo, podestà di Treviso,
di rafforzare la sorveglianza dei luoghi a lui affidati. La stessa raccomandazione viene data a
tutti gli altri rettori della provincia.59
56 CORIO, Milano, I, p. 845; Annales Mediolanenses, col. 758 e ANGELI, Parma,p. 199, ibidem a p. 200 ci
informa che Francesco e Jacopo sono cugini di quinto grado del Pallavicino; PEZZANA, Parma, I, p. 107-
109.
57 Chronicon Estense; col. 498.
58 FRIZZI, Storia di Ferrara, vol. III, p. 350; Chronicon Estense, col. 498.
61 DEL BALZO DI PRESENZANO, A l’asar bautezar!, vol. I, p. 297. Si veda il successivo § 34.
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Carlo Ciucciovino
fede e l’Ordine Domenicano la mette sotto la sua protezione. Le pone inoltre a fianco il devoto
e dotto fra’ Raimondo da Capua, come direttore spirituale.62
La notorietà di Caterina, malgrado la sua giovane età,63 è cresciuta in maniera strepitosa.
In questo stesso anno, uno scrittore rimasto anonimo pubblica il libricino con i «Miracoli di
Caterina». E i prodigi a lei attribuiti sono moltissimi e clamorosi e ancor più saranno quando
la peste colpirà Siena. La Santa è protagonista di conversioni folgoranti di peccatori ed
assassini incalliti. Le si attribuiscono guarigioni miracolose, tutta Siena parla delle sue estasi e
i suoi discepoli diffondono la conoscenza delle sue visioni. La sua carità operosa, le sue
privazioni, la sua abnegazione sono sotto gli occhi di tutti. Intorno a lei è andato man mano
crescendo il numero dei seguaci, religiosi e non, che si abbeverano alla sua ardente fede ed al
suo esempio. Una delle definizioni che Caterina stessa da’ a questa compagnia, la cui
consistenza oltrepassa i settanta soggetti, è: “la bella brigata”.64 Tra i suoi seguaci vi sono
molti religiosi e, primo fa tutti, il suo confessore fra’ Tommaso della Fonte, molti Senesi, ma
anche stranieri, il Bavarese fra Giovanni Simons e l’Inglese William Flete, Domenicani e
Francescani e Vallombrosiani e Guglielmiti; nobili come Giacomo e Matteo Tolomei e le loro
sorelle Ghinocchia e Francesca, il capitano di ventura Nicolò Saracini, Gabriele Piccolomini,
Francesco Malavolti, Stefano Maconi, Barduccio Canigiani; letterati come Neri di Landoccio
Pagliaresi e il fratello di Franco Sacchetti, Giannozzo, il pittore Andrea Vanni; notai come
Tommaso di Pietra e ser Cristofano di Gano Guidini; naturalmente poi molte donne, sia della
nobiltà che del popolo.
Caterina, anche se ha imparato a scrivere solo negli ultimi anni della sua vita, non per
questo si è astenuta dall’intrattenere una sterminata corrispondenza con i potenti della terra e
della Chiesa, dettando lettere ai suoi discepoli. Tra i destinatari delle sue quattrocento missive
vi è il papa Gregorio XI, al quale le lettere sono state fatte pervenire dal cardinale Bituricense,
Pietro d’Estaing, e da Berengario abate di Lézat; in una lettera a quest’ultimo ella parla di
crociata, augurando al cardinale che abbia "fame" di veder spiegare il gonfalone della
santissima croce. Anche in una lettera a Bernabò Visconti, del 1373-74, la Santa parla di
prendere la croce.65
62 Raimondo è un pronipote di Pier delle Vigne, egli ottiene dal precedente confessore di Caterina, padre
della Fonte, gli appunti che egli ha redatto e, sulla base di questi e delle personali testimonianze ed
osservazioni, scriverà la Legenda Major, una biografia della Santa.
63 Se è nata nel 1347 ha ora circa 27 anni.
64 Chi voglia approfondire le brevi biografie dei suoi principali “cateriniani”, può leggere CHIMINELLI,
66 Sono Pietro Gambacorta, il signore di Pisa e “capitano della masnada”, il capitano di giustizia messer
Valerano di messer Veri da Cetona, e gli anziani, ser Colo Gatto, ser Vanni Botticella, Puccio Cavallari,
Bartolomeo di ser Giovanni Bartolotti, ser Piero del Grillo, il cancelliere è ser Jacopo d’Appiano ed il
notaio ser Salvatore di ser Barone.
67 MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 766.
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La cronaca del Trecento italiano
Filippaccio Agliata. Filippaccio salpa e va alla ricerca dei pirati e li trova, ma costoro, quando
vedono la forte galea avvicinarsi prendono terra in un’isoletta, abbandonano le saettie e
fuggono su per le montagne. Agliata si impadronisce delle navi pirata e le porta a Pisa, il
povero Gherardo Astaio, è costretto a pagare gli 800 fiorini della cauzione e rimane rovinato.68
68 MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 766-767; Monumenta Pisana; col. 1064-1065; RONCIONI, Cronica di Pisa,
p. 257-258.
69 COGNASSO, Visconti, p. 255; GALLAND, Les papes d’Avignon et la maison de Savoie, p. 288-289, che
sottolinea come il Conte Verde abbia rispettato scrupolosamente la lettera dei suoi impegni nei confronti
del papa, anche se non la sostanza, e spiega i motivi di questo suo comportamento e, tra questi, il
ritardato pagamento da parte della tesoreria pontificia. La malattia di Amedeo è registrata anche in
PARADIN, Chronique de Savoye, p. 253.
70 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 179. Per le trattative, p. 180-181.
71 GAZATA, Regiense, col. 83; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 292; POGGIALI, Piacenza, VI, p. 379.
73 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 294; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 295 la pone erroneamente nel 1375.
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rettore di Perugia, il 23 giugno, egli afferma che i capi dei Tedeschi e degli Inglesi e delle altre
nazioni venuti in Italia, adversus popolorum sanctum Dei, contro il popolo santo di Dio, si sono
accordati per invadere i territori della Chiesa, e questi uomini «senza religione, onore, fede né
pietà» non avrebbero rispettato niente e nessuno.75
§ 31. Saluzzo
Amedeo di Savoia nel 1373, prima di intraprendere la sua spedizione militare contro i
Visconti, è entrato nel marchesato di Saluzzo ed ha ottenuto il giuramento di fedeltà dagli
eredi di Pietro Falletti, che hanno in custodia dal marchese di Saluzzo i castelli di Racconigi,
ed i luoghi di Carpegna e Migliabruna. Il 13 gennaio gli rende omaggio Pietro Falletti, signore
di Ventinasco, e il 16 Isnardo Falletti per Lagnasco. Il conte di Savoia si impadronisce quindi
di Caraglio, Valgrana, Centallo ed altre terre.76
Nel corso del ’74, quando ancora non è scaduta la tregua tra Savoia e Saluzzo, i Falletti
hanno iniziato a tormentare con piccoli soprusi i possedimenti del marchese, che se ne è
lamentato con i luogotenenti del conte Amedeo con lettera dell’11 gennaio. Spirata la tregua, i
soldati del conte di Savoia, acquartierato a Savigliano,77 dilagano per le campagne di
Carmagnola, devastandole e, il 13 giugno, Caramagna capitola. Le armi di Savoia sventolano
ormai sotto le mura del marchesato, quando gli ambasciatori dei Visconti arrivano a
Savigliano e, nel quadro della tregua generale, riescono a far concludere una nuova
deposizione delle armi fino a Pasqua, 22 aprile, del 1375.78
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La cronaca del Trecento italiano
dal papa alla fine del ’75 e lascerà di sé un ricordo efferato nella cupa storia di questo secolo
col sacco di Faenza.82 Francesco del Balzo fa entrare i soldati dentro Aversa e Capua.
Francesco viene convocato da suo zio, Raimondo del Balzo, conte camerlengo e di Soleto.83
Quando il nipote ribelle è alla sua presenza, Raimondo lo rampogna crudamente, lo chiama
«vergogna della casa, maledetto da Dio» e «traditore»; e conclude ripudiandolo: «Da
quest’hora innante non te appellare de casa de Bauzo!». Francesco viene scosso dalla dura
reprimenda e cerca di giustificarsi dicendo che ha assoldato i mercenari promettendo loro 18
fiorini a lancia, ed ora non ha di che pagarli, per cui è costretto a portarseli dietro, nella
speranza di bottino. Su consiglio di suo zio, Francesco conduce i mercenari in Puglia e poi,
nottetempo, fugge, riparando in Provenza. I capitani, gabbati, fanno pagare ai poveri Pugliesi
la slealtà di Francesco des Baux. Combattendo una terra della duchessa di Durazzo, in Puglia,
riescono a conquistarla “alla luce della luna”. La terra è affidata alla sorveglianza di messer
Moncello Arcamone, che, ubriaco, quella notte trascura di disporre i turni di guardia. Da quel
giorno giura di non bere più. La regina Giovanna concorda una cifra di 60.000 fiorini con i
mercenari perché escano dal regno, impegnandosi a non rientrarvi per qualche tempo.84 È
verosimile che la regina consigli la compagnia bretone a recarsi al servizio di suo marito
Giacomo di Maiorca, che, per l’appunto, sta cercando di reclutare truppe per la sua
spedizione contro il re d’Aragona. Troveremo comunque questi Bretoni al soldo di Giacomo.
82 Nomi di altri comandanti: Angelo Aimone, Rainaldo Capostrata, Luigi Pansardo, il Gran Bassardo,
Enrico di Guascogna.
83 Muore il 5 agosto 1375. DEL BALZO DI PRESENZANO, A l’asar bautezar!, vol. I, p. 297 registra le inutili
pressioni del papa tra il 9 gennaio e il 15 marzo per stabilire una tregua, se non la pace, tra la regina, il
ribelle Francesco del Balzo e i Sanseverino.
84 FARAGLIA, Diurnali, p. 10 e 11; CAMERA, Elucubrazioni, p. 274; MIGNOT, Histoire de Jeanne Premiere, p.
238-239; DEL BALZO DI PRESENZANO, A l’asar bautezar!, vol. I, p. 297-298 e II, p. 420-421.
85 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 557.
86 Annales Mediolanenses; col. 759; GIULINI, Milano, lib. LXXI anno 1375 il quale discute sulla possibile data
e conclude per il 4 di giugno, citando il documento di tregua. Si noti che tra i collegati citati nel
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Mentre, dalla fine dello scorso anno le trattative di tregua erano in corso, il duca Alberto
d’Austria insisteva con il papa perché gli concedesse di poter impalmare Violante, figlia di
Galeazzo Visconti, matrimonio che il pontefice aveva vietato a tutti i principi nella sua
scomunica ai Visconti.87
documento vi è la regina di Napoli, chiamata Giovanna di Gerusalemme e di Sicilia, cioè sovrana di due
regni dove la sua influenza è nulla.
87 GIULINI, Milano, lib. LXXI anno 1374.
88 GAZATA, Regiense, col. 83-84; GIULINI, Milano, lib. LXXI anno 1375.
89 Lettera di Giovanni di Bondì del Caccia alla Signoria di Firenze, pubblicata in Miscellanea Fiorentina, I,
p 172.
90 I nomi attuali dei siti sono Caburaccia, Valli, Cornacchiaia e Rifredo. Per le notizie qui contenute si
veda la missiva, “scripta in Bologna la mattina innanzi el sole”, da Simone di Ranieri e Spinello di Luca,
in Miscellanea Fiorentina, op. cit. p. 172-173.
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pubblicità al contratto.91 L’Acuto appare così grato nei confronti della Signoria, da svelare un
complotto che si trama a Prato ai danni di Firenze.92 La compagnia, pacificamente, arriva allo
Stale, scende nel contado di Firenze, lo attraversa e arriva sul territorio di Pisa. Poi, passando
per Siena e la Marca, torna a Bologna. Si dice che le paghe che il condottiero inglese ha
strappato ai comuni minacciati, siano divise a metà tra i mercenari, e l’altra metà a credito del
legato di Bologna, come pagamento di paghe arretrate. Ma questa è probabilmente una
calunnia dettata dall’animosità del cronista fiorentino contro questa Chiesa in mano a questi
ecclesiastici francesi, così rapaci ed arroganti.93
L’arrivo della compagnia in Toscana provoca febbrili provvedimenti da parte dei
governi dei comuni toscani. Si permette l’introduzione in città di derrate alimentari, senza
dover pagare gabelle, viene ordinato di non lasciare nelle campagne nulla che i mercenari
possano usare per il sostentamento loro o dei loro cavalli, ai cittadini viene proibito di lasciare
la città, o le fortezze, o i borghi, senza autorizzazione, si procede al censimento delle macine e
dei mulini dentro le mura. Il 29 giugno, Giovanni Acuto conduce i suoi soldati a forzare la
chiave d’accesso a Pisa, la valle di Calci e Montemagno. Calci e Mezzano, e Montemagno
sono state ben munite, e forti di difensori, e ricche di viveri. I mercenari danno l’assalto, e si
combatte strenuamente da mattina a sera, ma gli aggressori vengono respinti. L’astuto
Giovanni Acuto invia ottocenti dei suoi, scelti, a compiere un lungo giro e prendere la valle
dall’alto, dalla direzione in cui appare meno fortificata e difesa. L’azione di sorpresa riesce e i
difensori vengono messi in rotta. La valle viene interamente conquistata, un gran numero di
prigionieri, uomini e donne, deportati, tutto ciò che è possibile saccheggiare viene predato,
molte delle case bruciate. La via per Pisa è aperta, solo cinque miglia e le mura separano la
compagnia dalla città. Pisa si decide a trattare ed invia ambasciatori dai mercenari, quel
fegataccio di Filippo Agliata, che l’anno scorso ha liberato i mari pisani dai pirati, messer
Oddo Maccajone de’ Gualandi e Canonico. Il 2 luglio i Pisani accettano di pagare 35.000
fiorini in tre rate, e concedere a non più di 2.500 mercenari alla volta, di entrare in città, ma
armati solo di spada o pugnale, e con l’obbligo di uscirne ogni sera, ad un dato segnale, per
rientrare ai loro alloggiamenti. L’8 luglio la compagnia lascia il Pisano per dilagare verso il
Senese.94
Il 15 luglio, gli Anziani di Pisa lanciano un prestito forzoso di 45.000 fiorini, cui la città
deve concorrere per 20.000, il contado per 18.000 ed il clero per 7.000. Inevitabile il malumore
di gran parte della popolazione: un giorno, due cittadini, Ludovico e Giovanni Malcodime si
imbattono in messer Guido Macigna, che è uno di quelli designati dagli Anziani per imporre
la “prestanza” nel loro quartiere. Corrono parole grosse, ed i Malcodime estraggono i
pugnali, al balenio delle lame, un servo di ser Guido, esce di casa recando due “sardesche”,
due lance, ne lancia una contro Lodovico, mancandolo. Il quartiere ribolle, ovunque si può
udire il grido: «Viva il popolo!», l’Esecutore di giustizia cattura il servo e si dispone a
decapitarlo. Messer Guido affronta arrogantemente l’Esecutore e gli impone di desistere dal
proposito di giustizia, aggiungendo che «non a(v)rebbe (la) forza (di) farlo morire».
L’Esecutore fa suonare le campane per radunare il popolo nella piazza degli Anziani, dove si
Quest’ultimo narra l’attanagliamento di Piero da Canneto, un prete di Prato ritenuto colpevole della
congiura. CERRETANI, St. Fiorentina, p. 149-150 conferisce a tutto questo argomento il colore di una
macchinazione ordita dal cardinale Noellet per mettere a terra Firenze, privarla di denaro così che non
possa procurarsi i viveri in questo anno di carestia.
94 MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 771-773; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 209-210; SERCAMBI,
Croniche, p. 212-213.
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sta predisponendo la cerimonia della decapitazione. Ser Guido fa pressione sugli Anziani che
tentano di convincere l’Esecutore a desistere dalla giustizia; questi non vorrebbe, perché è
esasperato dall’arroganza di Guido, tuttavia, alla fine, si piega e sottopone il servo a semplici
tratti di fune, dolorosi, ma raramente mortali. Il popolo, intuito che il partito dei potenti ha
impedito che giustizia piena sia fatta, inizia a tumultuare; dopo due ore di disordini, gli
Anziani ordinano che tutti tornino alle loro case e fanno mozzare ambedue le mani al servo.
Messer Guido è condannato a pagare una multa di 500 lire.95
Siena riceve la poco gradita presenza della compagnia dell’Acuto sul proprio territorio
l’11 luglio. Ottiene che non compia danni pagando 30.500 fiorini (3.000 di questi sono pagati
da Montepulciano). Di questi, 20.000 sono tratti dai chierici, come ha fatto Firenze, che ne ha
imposti loro 75.000 dei suoi 130.000. I mercenari, soddisfatti vanno verso Arezzo ad esigere
dalla città toscana la sua parte di taglia.96 Commenta Duccio Balestracci: «Nel corso
dell’estate, l’Acuto, a vario titolo incassa dai comuni toscani una cifra che si aggira intorno ai
duecentoventimila fiorini».97
99 L. SCIASCIA; Nero su nero; ed. Bompiani, Opere 1971-1983; p. 769; VERCI, Storia della Marca Trevigiana,
tomo 15°, p. 3-6; CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova, p. 351; ROMANIN, Storia di Venezia, III, p.
24; CAMERA, Elucubrazioni, p. 275.
100 GATARI, Cronaca Carrarese, p. 138. Qui, a p. 139, si può anche trovare l’elenco dei libri da lui scritti che
Francesco Petrarca conservava nella sua abitazione. “Bonaventura Badoero da Peraga, Padovano, frate
domenicano, chiamato dal Petrarca lume dell’agostiniana religione”. Per altre informazioni vedi nota 3 in
GATARI, Cronaca Carrarese, p. 138.
101 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 7; CITTADELLA, La dominazione carrarese in Padova, p.
351-352.
102 MANTESE, Chiesa Vicentina, III, p. 171.
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da torneo e da battaglia. Le sue spoglie mortali vengono tumulate nella chiesa degli
Eremitani.103
§ 40. La peste
La pestilenza colpisce duramente. Ad Avignone muoiono dieci cardinali. A Siena muore
il nuovo podestà, il Padovano messer Barnabò dei Magaluffi, ed un suo figliolo. Col podestà
passano a miglior vita sei giudici, e tutti i notai e cavalieri e berrovieri (sbirri). Messer Guardo
da Pisa, giudice delle appellagioni, assume le funzioni del defunto podestà.
La mortalità è «grandissima per tutto e generale; e dove cominciava, non ne rimaneva, e
spezialmente di fanciulli, non si crederebbe chi veduto non l’avesse». Il papa, consolatorio,
invia a Siena l’indulgenza «che chi moriva in quella moria gli era perdonata colpa e pena».106
L’epidemia colpisce anche Bologna, da gennaio a gennaio, ma con un picco di virulenza tra
giugno ad ottobre. La maggior parte delle vittime sono bambini al disotto dei dieci anni; e
tutti hanno «quella malattia della glandula, come fu l’altra», cioè la Peste Nera del ’48.
Verosimilmente, colpisce i bambini, perché la gran parte degli adulti sopravvissuti alla
vecchia ha sviluppato difese naturali.107
In luglio ed agosto la pestilenza incrudelisce e colpisce durissimamente Parma,
uccidendo più del 40% della popolazione, ed inducendo i sopravvissuti a cercare scampo
nelle campagne, svuotando la città. La malattia colpisce Reggio, Modena, e tutta la Toscana, la
Romagna e le Marche.108 A Piacenza si manifesta da giugno, apportando mortalità generale.
Per il morbo e la carestia, dice il nostro cronista, metà della popolazione muore. Dura per sei
mesi e raggiunge il suo picco in ottobre.109 In Lombardia, che in gran parte è stata risparmiata
108 CORIO, Milano, I, p. 845; senza particolari GIULINI, Milano, lib. LXXI anno 1374, parla di peste terribile
TIRABOSCHI, Modena, vol. 3°, p. 57. Si veda anche POGGIALI, Piacenza, VI, p. 380-381 dice che inizia a
Parma a giugno e dura sei mesi, tra i morti vi è un cronista del quale Poggiali si è molto avvalso: Pietro
da Ripalta.
109 DE MUSSI, Piacenza, col. 520.
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dalla peste del 1348, si conta il maggior numero di vittime: «ex sex personis, quatruor sunt
defunctae». I cadaveri vengono sepolti in fosse comuni, a dieci, venti e trenta per volta.110
La pestilenza, «morendone alcuno per dì d’anguinaja, tincone, di foditelli, di faoni ed
altri sozzi mali», incrudelisce anche a Pisa, uccidendo la maggior parte dei fanciulli (quattro
su cinque). Ha ripreso la sua virulenza con i primi caldi a maggio; il 30 agosto il vicario
dell’arcivescovo fa tenere una solenne processione, ed invita la popolazione a digiuni e
penitenze. Malgrado ogni sforzo, la peste durerà fino a settembre del 1375.111
Ad agosto, la peste inizia a mietere vittime a Parma e durerà fino alla Pasqua del ’75. 112
La città di Ferrara vede l’esordio del male in marzo. La cronaca ci informa che è un morbo
generale, colpisce Roma, Puglia, Marca, Toscana, fino a Parma e dura fino a Natale venente.113
Mentre a Lucca la peste si è esaurita alla fine dello scorso anno, a Pisa essa incrudelisce
dal maggio del ’74, aumentando in giugno e durando, malgrado le preghiere e le processioni,
fino al settembre del 1375.114 Si registra il morbo anche a Savona e il tutta la Liguria.115
116 Muoiono i suoi fratelli Lisa e Bartolomeo, il suo amatissimo fratello Stefano e cinque suoi nipotini.
118 DUPRÉ THESEIDER, Caterina da Siena, santa, in DBI, vol. 22° scrive che la lettera della Santa nella quale
ella scrive e Bartolomeo Dominici e a Tommaso Caffarelli della missiva del pontefice portata dal
Vadaterra, è anteriore alla convocazione di fronte al Capitolo di Firenze, e le assegna la data del 26
marzo, quando Bartolomeo è a Pisa come baccelliere; CHIMINELLI, Santa Caterina da Siena, p. 261 mette la
visita del Vadaterra a settembre. Evidentemente la questione non è irrilevante: se Gregorio XI ha scritto
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a Caterina prima del Capitolo, evidentemente il consesso dei Domenicani non poteva non tener conto
della benevolenza del pontefice. La lettera è la XX dell’Epistolario curato da DUPRÈ THESEIDER.
119 FERRI, Io, Caterina, p. 101-102.
120 GAZATA, Regiense, col. 83. “In quello anno pocho grano si richoìa/a la zente fue dolore asai
grande/perché in rechoer poco grano avìa”. RISn, B. Aliprandi, Cronaca di Mantova, pag. 145. CONFORTO
DA COSTOZA, Cronaca vicentina, p. 8-9 conferma le grandi piogge e le alluvioni in totam Italiam. Piogge e
grandi venti che continuano in maggio, con perdita di raccolti, distruzioni, fame. Anche Annales
Mediolanenses, col. 757 registra piogge da marzo a luglio.
121 Cronache senesi, p. 655. La grande fame anche in Annales Mediolanenses, col. 758. La fame a Genova:
STELLA, Annales Genuenses, p. 168, che dice che una mina di frumento si paga 16 fiorini d’oro o 20 lire di
genovini.
122 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 240.
124 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 14°, p. 243-244; CASTELLINI, Storia di Vicenza, lib. 13°, p. 89.
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Gli annali d’Alessandria registrano tre anni di carestia dopo la peste, ed un moggio di
frumento arriva a essere pagato 16 fiorini d’oro.131
Firenze fa lievitare il prezzo dello staio di grano a 30 soldi, e, ad ottobre, fino a 80 soldi.
L’anno seguente arriva a 4 lire e alla fine di maggio perfino 5 lire.132
Santa Caterina da Siena, una sua lettera a John Hawkwood la indirizza: «A messer
Giovanni Aut, capo della compagna che venne nel tempo della fame…». Anche se la lettera,
secondo Dupré Theseider è del giugno 1375, la fame è quella del 74.133
§ 43. Perugia
Mentre è in viaggio per Avignone, improvvisamente muore l’abate di San Pietro di
Perugia, messer Filippo Vibii. Questi è inviso all’Abate di Montemaggiore, che governa la
città in nome del pontefice, e la sua improvvisa morte viene attribuita dalla voce popolare al
veleno dell’Abate. Il suo cadavere viene riportato a Perugia, e, in occasione delle sue esequie,
vengono suonate le campane che hanno taciuto per tutto il perdurare della pestilenza. I
bronzi taceranno di nuovo finché la città non sarà sicura da ogni contagio, il che avviene in
agosto di quest’anno.134
Il 26 agosto muore, in odore di santità, il vescovo di Città di Castello, Buccio di Giovanni
da Pietralunga. Il papa designa alla cattedra di questa città Niccolò di Michele Catalani,
trasferendolo da Fermo.135
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Ottiene l’adesione anche del giudice Mariano d’Arborea,138 scrive alla regina madre di
Ungheria Elisabetta, perché convinca il suo grande figlio a portare le armi contro i Turchi.
Non basta: Caterina diffonde la sua idea presso tutti i suoi seguaci, scrivendo molte lettere e,
sicuramente, a voce.139
138 Lo sappiamo tramite una dichiarazione di William Flete, si veda VIGLIONE, …rizzate el gonfalone, p. 50-
51.
139 VIGLIONE, …rizzate el gonfalone, p. 38-55; CHIMINELLI, Santa Caterina da Siena, p. 289-296.
141 LEONARD, Angioini di Napoli, p. 562-564; CAMERA, Elucubrazioni, p. 274-275; MIGNOT, Histoire de Jeanne
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147 CORIO, Milano, I, p. 847; GIULINI, Milano, lib. LXXI anno 1374.
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§ 54. Segni
Mentre in tutto il Patrimonio i legati ecclesiastici vessano le popolazioni, anche in
Campagna e Marittima si vivono anni difficili. Segni ad esempio, appena liberata
dall’oppressione dei Conti, non ha potuto o voluto gustare la pace, essendosi scontrata con
Cori per motivi di confine. Inoltre, si è dovuta difendere dalla volontà espansionistica di
Roma sotto la Felice Società, che vuole riscuotere tasse e focatico. Roma ha istituito una Taxa o
Tallia, un contributo in denaro, che i comuni stentano a pagare. Nel 1372 il comune di Segni si
rivolge, protestando, a Gregorio XI. Anche Ferentino segue questa strada e nel novembre del
1372, Gregorio XI incarica il rettore Daniele del Carretto di esaminare la questione. Questi
giudica che gli ottanta fiorini richiesti a Ferentino sono eccessivi e li riduce a settanta, ma è
passato un intero anno dalla richiesta alla decisione e Ferentino è poverissima: ha in tutto 400
fuochi e i poveri sono più numerosi che in altri luoghi. Non sappiamo cosa egli abbia
determinato per Segni. Non basta: ai dissanguati comuni vengono imposte anche spese
straordinarie per gli eserciti, anche se il papa, preoccupato per eventuali moti, raccomanda
che, pur invitando al pagamento, non si calchi troppo la mano. E quando, alla fine dell’anno
prossimo, deflagreranno le ribellioni del ducato e nella Marca, il papa raccomanderà a
Onorato Caetani di vegliare per scongiurare torbidi.155 Giorgio Falco narra che la povertà
travaglia le città di Campagna e Marittima, tanto che anche gli esosi funzionari debbono
esonerare Velletri e Cori dal pagamento della taglia. Anagni si lamenta inutilmente. Alatri,
Vico, Collepardo e Guarcino si rifiutano di pagare per l’estrema povertà che ha spinto gli
abitanti ad emigrare.156
Potrà essere di qualche utilità ricordare i nomi dei Senatori di Roma in questi anni; Per
parte del 1372 e per parte del precedente anno, la città è retta dai Conservatori, dal luglio 1372
è nuovamente Senatore Raimondo Tolomei; nel 1373, a gennaio, risulta Senatore il Recanatese
Pietro “de Marina”, Fortunato di Rinaldo da Todi è menzionato come Senatore in agosto e
settembre; da gennaio a luglio del ’74 la carica è coperta da Antonio “de sancto Framundo”,
151 STELLA, Annales Genuenses, p. 168 nota 1; FILETI, I Lusignan di Cipro, p. 119-120; EDBURY, The Kingdom of
Cyprus, p. 207-209.
152 STELLA, Annales Genuenses, p. 168; ACCINELLI, Genova, p. 87-88.
153 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 9-10; DI MANZANO, Annali del Friuli, V, p. 280.
1374
1053
Carlo Ciucciovino
nel 1375 troviamo, da maggio ad ottobre, Francesco conte di Campello, e, forse per la sua
assenza temporanea, i Conservatori a giugno.157
157 DUPRÈ THESEIDER, Roma, p. 683, nota 1 che continua: nel 1376 nel primo semestre i Conservatori, poi a
settembre Simone di Tommaso (Pianciani?) da Spoleto, in dicembre vengono citati “presidenti e rettori
di Roma”, nel 1377 Gomez Albornoz è Senatore e capitano generale e rettore del ducato di Spoleto. Nel
1377-78 sono Senatori Guido de Prohinis (novembre-marzo) e Rommaso di San Severino, da giugno.
158 Cronache senesi, p. 655.
159 I loro nomi sono: ser Arigo Nerini, Ventura di Veri, Francesco di Mataraza, Domenico di Sano, Sozo
di Vannuccio Galea cerchiaio, misser Andrea di Conte, Bartoccio Talomei, Domenico di Guiduccio e
Salvestro di Placiolo. Lo so, sono solo 9, ma questi sono quelli enumerati in Cronache senesi, p. 655.
160 Cronache senesi, p. 655.
1374
1054
La cronaca del Trecento italiano
sorveglianza a Siena viene rinforzata, soldati armati montano la guardia giorno e notte sulla
torre del Mangia e sulle principali fortezze del Senese, vengono costruiti serragli alle porte, il
palazzo pubblico è continuamente protetto dai balestrieri del comune. I Salimbeni si
impadroniscono di Montemassi, ed i Senesi vi mettono immediatamente l’assedio,
imponendo un prestito forzoso di 30.000 fiorini per pagarne le spese. I Fiorentini spalleggiano
Siena nell’assedio, ma i loro soldati producono notevoli danni nel territorio, tanto che occorre
risarcire con 400 e 250 fiorini rispettivamente Sarteano e Radicofani. Montemassi è difficile da
prendere, ed i Senesi inviano in più parti di Toscana per aiuto e consiglio. Mentre ferve
l’assedio, i contendenti non risparmiano i colpi: i Senesi pagano 15.000 fiorini a Migliore Lotti
da Fiesole per avere la rocca di messer Nicolò, ma il trattato, scoperto, fallisce. Siena riprende
Perignano in Val d’Orcia, la Rimbeca, e il Palazzo di Geta, strappandoli ai Salimbeni; un
Tedesco al soldo di Firenze riceve un premio di otto fiorini per aver ideato lo stratagemma
che ha condotto alla conquista. I Salimbeni restituiscono il colpo prendendo Caldana, il cui
castellano Austino di Gieri viene catturato. Peruccio, detto lo Sconcia da Perugia, ottiene un
premio di 200 fiorini dai Senesi per aver rivelato un trattato per dare Roccastrada ai
Salimbeni. Siena, a sua volta, in dicembre, tenta un colpo di mano contro Castiglioncello, che
è tenuto da Cione di Sandro Salimbeni, ma il tradimento è scoperto, molti Senesi ci rimettono
la vita, e molti vengono catturati e spogliati di armi e cavalli.164
Messer Ranieri d’Ugolinuccio de’ Baschi vende a Siena parte del castello e cassero di
Manciano per 600 fiorini, e compra Marsiliana per 5.000 fiorini.165
1374
1055
Carlo Ciucciovino
quelli viscontei, e due volte al mese sono tenuti a “farne la mostra”, cioè farli passare in
rassegna dagli ufficiali “canateri” di Bernabò. Se i cani vengono trovati troppo magri o troppo
grassi, vi sono multe salate da pagare, se muoiono, si rischia di vedersi sequestrati tutti i beni.
La mania di Bernabò per i cani è pari a quella di Galeazzo per i cavalli.169
§ 61. Piemonte
In dicembre, l’imperatore Carlo IV costituisce vicari imperiali il marchese Secondotto di
Monferrato, i suoi fratelli, e Ottone di Brunswick per le terre imperiali di Asti, Alba,
Montevico.174
172 STEFANI, Cronache, rubrica 748 e AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1374, vol. 3°, p. 53-54.
1374
1056
La cronaca del Trecento italiano
tra i quali il maggior esponente è Giovanni degli Obizzi. I soldati arrecano molti danni al
contado. Solo le città murate resistono, tutte le località indifese vengono aggredite e
saccheggiate, gli abitanti sottoposti a sevizie e violenze. Lucca reagisce e, quando arrivano le
truppe di Amedeo di Savoia e di Enguerrard de Coucy, i mercenari sono costretti ad
allontanarsi, fuggendo verso la Lombardia.175
§ 64. Le arti
Uno dei pittori che ha collaborato con Francesco di Neri da Volterra al restauro e
completamento delle Storie di Giobbe nel Camposanto, Cecco di Pietro da Pisa, è un artista
molto dotato, sue notizie risultano a Pisa dal 1370 al 1386 e nel 1402 è già morto. Nel 1374 egli
firma lo Stendardo con San Simone e flagellanti per la confraternita di San Simone a Porta a
Mare. Egli appare un artista maturo, formato alla scuola di Francesco di Neri ed influenzato
dalle opere dell’Orcagna. Nel 1377 egli dipinge un Polittico nella parrocchiale di Agnano e il
tabellone firmato e datato con la Madonna col Cristo in Pietà e sei Santi che è nel Museo di San
Matteo in Pisa.177
In Treviso, esistono due esempi di pittura senese: l’Adorazione dei Magi e Santa Margherita
d’Ungheria, in una cappella di San Nicolò, e L’Incoronazione della Vergine e San Francesco in San
Francesco. Gli affreschi ricordano i modi di Bartolo di Fredi, ma le singole figure sono forse
più vicine a Jacopo di Mino del Pellicciaio.178
Poco dopo la morte di Santa Brigida, senza attenderne la canonizzazione, viene eseguito,
su commissione della regina Giovanna d’Angiò, il Liber celestium revelationum, che oggi è
conservato nella Pierpont Morgan Library. «Le miniature conservano parecchi aspetti della
buona pittura napoletana del tempo dell’Odorisi, […] inoltre hanno somiglianze tanto vive
con l’affresco perduto di Santa Chiara, da poter essere assegnate al medesimo autore».179
Bartolo di Fredi decora, tra il 1374 e il 1380, l’arco trionfale del Duomo di Volterra e la
sua Cappella maggiore. Nella città toscana, Bartolo produce polittici, tavole singole ed
affreschi, tra cui Storie della Passione, in una cappella del Duomo di Volterra, ma questo è
ormai il primo o il secondo decennio del Quattrocento.180
175 LUCARELLI, I Visconti di Milano e Lucca, p. 41-42; Annales Mediolanenses, col. 757 registra che Conradum
1374
1057
Carlo Ciucciovino
questa città, nel 1367, esegue, firma e data le Storie del Vecchio Testamento di fronte a quelle di
“Barna da Siena”, cioè a quelle di Lippo e Tederico Memmi. Oberato dagli impegni, l’artista
cede alcune sue commissioni al pittore Francesco di Vannuccio. Nel 1368, Bartolo prende
accordi con Jacopo di Mino del Pellicciaio per la decorazione della cappella di Sant’Ansano
nella Cattedrale di Siena.
Dopo la caduta del governo dei Nove, il pittore è molto impegnato nell’attività politica
e, dal 1372, ricopre molte cariche pubbliche.182 A San Gimignano, dove la sua reputazione è
molto elevata, nel 1374 dipinge un Polittico con la Natività. Una paio d’anni più tardi compra
casa a Siena. Dal 1377 risiede lungamente a Volterra, dove affresca la cappella maggiore del
Duomo. Bartolo deve penare per poter riscuotere il compenso che gli è dovuto per questa
opera. Nel 1382 dipinge una pala d’altare per la chiesa di San Francesco a Montalcino e viene
retribuito con 170 fiorini d’oro. Nella stessa chiesa, nel 1388, eseguirà un’altra pala con
l’Incoronazione della Vergine e Storie della Vergine. L’anno seguente lavora con suo figlio Andrea
e con Luca di Tommè ad una pala d’altare per la cappella dei calzolari nel duomo. Nel 1390
dipinge una pala per la chiesa di Monteoliveto fuori di Porta Tufi. Nel 1392 dipinge una
tavola con San Pietro per la cattedrale. Lavora poi con Cristoforo di Bindoccio e Meo di Pietro
nella Sala del Mappamondo del Palazzo pubblico di Siena e quindi sulla facciata dello stesso
palazzo. Nel 1397 esegue un’immagine di San Vittore per la cattedrale. Esegue altre opere nel
Quattrocento: muore ottantenne, forse a San Gimignano, nel 1410.
Scrive Enrico Castelnuovo: «Rimane tuttora difficile un equo bilancio della personalità
di Bartolo di Fredi. Il suo catalogo, smodatamente accresciuto agli inizi di questo secolo,
quando sotto il suo nome veniva raccolta gran parte della produzione pittorica senese della
seconda metà del Trecento, ha subito opportune limitazioni grazie ai successivi chiarimenti
della personalità di Andrea di Bartolo, Niccolò Tegliacci, Niccolò di Buonaccorso, ecc., ma le
sue opere sono state frequentemente oggetto di eccessive valutazioni. Un nuovo attento
esame del suo catalogo potrebbe portare a un più equilibrato giudizio sul posto che gli spetta
nella cultura figurativa senese della seconda metà del sec. XIV e sulla influenza, non sempre
puramente iconografica, che le sue opere hanno esercitato sui nuovi pittori del gotico
internazionale».183
182 È capitano del terzo di Camollia; altre cariche politiche le ricoprirà ancora nel 1381, 1382 e 1401.
183 ENRICO CASTELNUOVO, Bartolo di Fredi, in DBI, Vol. 6°.
184 HATCH WILKINS, Petrarca, p. 295-297; ARIANI, Petrarca, p. 60; DOTTI, Petrarca, p. 430-439.
1374
1058
La cronaca del Trecento italiano
governante tutta la vita: Bruna di Cianco da Montemagno, la povera donna che l’ha
amorevolmente accudito nelle fasi più gravi della sua malattia. Il 19 ottobre arriva al
Boccaccio una lettera di Francescuolo da Brossano, il genero del Petrarca, che gli annuncia la
morte del suocero. «Boccaccio fu così sconvolto e prostrato che dovette attendere più di una
decina di giorni a rispondere (e ne impiegò tre per vergare quelle brevi pagine)». Giovanni
conclude il suo epistolario con un sonetto in morte dell’amico (CXXVI) nel quale scrive: «or con
Sennuccio e con Cino e con Dante/ vivi, sicuro d’etterno riposo/ mirando cose da noi non
intese./ Deh, s’a grado ti fui nel mondo errante,/ tirami drieto a te…».185
§ 67. Letteratura
Benvenuto da Imola, figlio di maestro Compagno, (1336/1340-1390), ascoltate le lezioni
di Boccaccio su Dante, riceve dai Bolognesi l’incarico di spiegare la Commedia. Benvenuto
scrive il suo commento in un latino imbastardito, ma molto vivace e naturale. Dà molta
importanza agli eventi storici, anche perché ormai i commenti sono rivolti ad una
generazione che non conosce più la cronaca degli eventi che hanno influenzato il poeta
fiorentino. Le sue fonti principali sono Boccaccio e Villani.
§ 68. Musica
Giovanni Sercambi, in una sua novella ambientata nel 1374, cita alcuni madrigali186
composti da Donato da Cascia. Questo Donato è nato non nella Cascia umbra, ma in un
sobborgo di Firenze di questo nome, ed è quindi noto anche come Donato da Firenze. Non ne
sappiamo molto: dovrebbe essere stato un monaco camaldolese, il suo periodo di attività è
compreso tra il 1350 e il 1370, in definitiva, appartiene alla generazione precedente a quella di
Francesco Landini. Il Codice Squarcialupi lo raffigura in una miniatura vestito appunto in abito
monacale. Di questo autore sono noti in totale diciassette madrigali, cinque di questi, su testi
del Sacchetti, del Soldanieri e di Antonio Alberti. Oltre a questi, una caccia, una ballata e un
virelai. Donato appare influenzato da Jacopo da Bologna.187
Un magister Franciscus, forse Francesco de Goano, un Francese, è direttore del coro di
Avignone, nel Palazzo dei papi, sotto Gregorio XI e poi sotto Clemente VII.
1374
1059
CRONACA DELL’ANNO 1375
Florentini, facta liga cum Bernabove, creaverunt Octo custodiae cum summa
potestate pro uno anno.2
4 Ve ne sono solo 2, contro 17 Francesi, 1 Castigliano ed 1 Aragonese. Si veda I quadri e le istituzioni della
chiesa latina” di BERNARD GUILLEMAIN, p. 52, in Storia del Cristianesimo vol. 6, Borla, Città Nuova Editrice,
Roma, 1998.
5 COGNASSO, Visconti, p. 257-258.
7 PALADILHE, Les papes d’Avignon, p. 246. Questo autore scrive che il papa il 2 gennaio ha rivelato ad una
delegazione avignonese che egli aveva creduto di morire l’anno scorso e che imputava questa malattia
al fatto che egli non era ancora partito per Roma, secondo la richiesta di Santa Brigida.
Carlo Ciucciovino
In marzo il pontefice invia due prelati che debbono assegnare le “livree”, cioè le
abitazioni, dei cardinali a Roma, Viterbo e Montefiascone.8
11 MIRTO, Il regno dell’isola di Sicilia, II, p. 210-216; CAMERA, Elucubrazioni, p. 272; PISPISA, Messina nel
Trecento, p. 244-246.
1375
1062
La cronaca del Trecento italiano
Grato ad Artale per il suo determinante sostegno contro il conte di Aidone, re Federico
non può rifiutare a maggio l’investitura all’Alagona della terra di Salemi, nella valle di
Mazara. Non è questo l’unico beneficio garantito agli Alagona: Manfredo ottiene di poter
mantenere i diritti fiscali da lui incassati nella terra di Noto, come rimborso delle spese
sostenute durante la guerra. Lo stesso Manfredo ottiene l’investitura della terra di Vizzini, e
Artale e Manfredo ricevono una pensione annua di 60 onze d’oro, contro la prestazione di tre
cavalieri armati (un cavaliere ogni 20 onze).12
16 Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 468, nota 2. Sulla compagnia nel
1375
1063
Carlo Ciucciovino
del nord, recandosi ad Avignone, presso Gregorio XI. Dopo una permanenza di un mese alla
corte pontificia, è riuscito ad ottenere il permesso di muovere guerra al re d’Aragona, nel
tentativo di vendicare la morte di suo padre e di riconquistare il regno avito. Giacomo ha speso il
1373 e gran parte del ’74 nel mettere insieme il suo esercito, un’armata composita dove vi sono
Inglesi, Guasconi, Tedeschi e Bretoni. In tutto circa milleduecento combattenti, posti agli ordini
di capitani sperimentati come messer Garsion du Chatel, messer Jean de Malestroit, Silvestro
Budes e Jacques de Bray. Finalmente, nell’estate del 1374, la piccola armata si muove, e, col
permesso del re di Navarra, entra in questa terra per traversarla e penetrare nel territorio del re
d’Aragona. Nell’autunno del ’74, re Giacomo di Maiorca inizia a correre l’Aragona, ne conquista
piccole fortezze, rapisce i malcapitati abitanti, ruba bestie e beni. Il re d’Aragona invia il suo
esercito contro gli invasori; i comandanti aragonesi sono il visconte di Roquebertin e quello di
Rodez. Ma prima che i due eserciti avversari possano scontrarsi, Giacomo cade ammalato, e, nei
primi giorni del 1375, muore. Il suo corpo viene seppellito nella chiesa di San Francesco di Soria.
La regina Giovanna d’Angiò è nuovamente vedova, per la terza volta nella sua vita.17
Rimane vedova anche Giovanna, duchessa di Durazzo, per la morte di suo marito
Ludovico di Navarra, conte di Beaumont-le-Roger. La coppia non ha avuto la benedizione di
aver figli, ma al defunto Ludovico sono nati due figli naturali dalla sua amante Maria di
Lizzarassu: Carlo di Beaumont e Giovanna. La vedova Giovanna di Durazzo sposerà il conte
Roberto d’Artois nel 1377.18
17 FROISSART; Chroniques; Lib. I; parte II; cap. 333; CAMERA, Elucubrazioni, p. 276; BISSON, La corona
d’Aragona, p. 140. HILLGARTH & HILLGARTH, Pere III of Catalonia Chronicle, vol. II, p. 587 registra la voce
che Giacomo sia stato avvelenato da una mistura di erbe tossiche. Re Pietro IV nelle sue memorie
registra anche una notizia sulla cui fondatezza è lecito nutrire dubbi: dice che dopo la morte di
Giacomo, la regina Giovanna chiede di andare in sposa a re Pietro o a un suo principe di sangue, per
poter donare il suo regno all’Aragona, ibidem, p. 592-593.
18 CAMERA, Elucubrazioni, p. 272.
1375
1064
La cronaca del Trecento italiano
scrive a molti potenti, 21 per esortarli al “passaggio”. Qui incontra un ambasciatore della
regina di Cipro, che attende di imbarcarsi per Avignone e il diplomatico le descrive con vividi
particolari le minacce dei Turchi. In questa città le giunge la risposta di Giovanna d’Angiò che
si dichiara disposta a prendere la croce ed a partire ella stessa per la spedizione. La santa si
trattiene a Pisa fino a settembre e mentre è ancora in città compie una breve visita all’isoletta
di Gorgona, dove c’è un monastero.22 Quando lascia Pisa, va a Lucca, fervente d’impegno per
impedire che la città voglia aderire alla lega formata dai Fiorentini, quelli che lei chiama
«membri putridi», perché ribelli a Santa Madre Chiesa. Arriva a Lucca in tempo per la festa
della Santa Croce, dove viene esposto il “Volto Santo”. Rimane tre mesi a Lucca, poi torna
nella sua Siena, dove si sforza di evitare che la città si allei con Firenze, contro la Chiesa.23
21 Tra loro, il re di Francia, Bernabò Visconti, Giovanna di Napoli, Nicolò Soderini, segretario della
repubblica di Firenze, la repubblica di Genova, Smeduccio di Sanseverino, il priore dei cavalieri di Rodi,
Mariano d’Arborea. Ma anche ai condottieri John Hawkwood e Tommaso d’Alviano.
22 Per la visita a Gorgona: CHIMINELLI, Santa Caterina da Siena, p. 301-308.
24 Credo che sia presso l’attuale Magione, ad ovest di Perugia, sul lago Trasimeno.
1375
1065
Carlo Ciucciovino
due famigli di Cinolo, e due altri giovanetti sono bastonati pubblicamente. Il vecchio Nicolò
viene liberato, mentre Cinolo, condannato all’ergastolo, non rimarrà in prigione neanche un
anno.25
§ 10. Siena
Il marchese Piero di Monte Santa Maria, “omo o(no)revole e bene accompagnato, di
savio e buono aspetto”, assume il suo ufficio di Sanatore di Siena il 18 febbraio. Le case dei
Salimbeni, dichiarati traditori di Siena vengono distrutte.26
§ 11. Ferrara
Il 20 febbraio, il marchese Ottone di Brandeburgo e Stefano, giovane duca di Baviera,
transitano per Ferrara, nel corso del loro viaggio di pellegrinaggio per la Terrasanta. Il
marchese Nicolò d’Este rende loro i giusti onori.27 Li troveremo sulla loro via del ritorno il
prossimo 16 giugno, quando sbarcano a Zara.
§ 12. Ancona
Il 18 febbraio, su pressante richiesta degli Anconitani, papa Gregorio XI, da Avignone,
incarica il cardinale Guglielmo di Sant’Angelo, ovvero Guglielmo Noellet, suo vicario
generale, di aiutare il comune a reperire i cereali e di abolire il dazio sulle importazioni, che
grava per la misura di mezzo fiorino su ogni salma di cereali. Ancona è un ottimo porto, anzi
l’unico vero porto in potere della Chiesa ed ha un cantiere navale, inoltre la sua importanza è
testimoniata dal fatto che, nella seconda metà del Trecento, vi si è stabilita una colonia
bizantina. Tuttavia, Ancona ha un dolente punto debole, analogamente a Venezia, non ha un
forte retroterra a cui attingere per gli approvvigionamenti alimentari. Deve quindi importare
il cibo di cui nutrirsi. A tutto ciò si è aggiunto il fatto che la città è rimasta singolarmente
colpita dalla peste nera.28
La Chiesa non si comporta insensibilmente con Ancona, cosciente che le ha assegnato il
compito di provvedere al mantenimento della guarnigione che presidia il forte che vi ha
costruito Egidio Albornoz, le consente di usare il censo dovuto alle casse pontificie per
coprire queste spese.29
1375
1066
La cronaca del Trecento italiano
33 Annales Mediolanenses; col. 759; GIULINI, Milano, lib. LXXI anno 1375.
34 MARANGONE, Croniche di Pisa, col. 768; Monumenta Pisana; col. 1065; RONCIONI, Cronica di Pisa, p. 259-
260; RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, p. 207-209.
35 “Erano insieme congiurati più di trecento, e s’ellino uccideano nullo uomo, non era nulla”, Monumenta
260-262. FALCHI, Campiglia Marittima, p. 154 nota che la Maremma propende per i Raspanti e che i
Dell’Agnello vi posseggono grandi estensioni di territorio, nella Val di Cornia. Sia una strada nel
Campigliese che una fattoria sotto Populonia portano il nome Dell’Agnello.
37 CAPPELLETTI, Piombino, p. 31.
1375
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Carlo Ciucciovino
§ 18. Basi per una faida tra i conti d’Arco e i signori di Lodrone
I conti d’Arco hanno ottenuto e mantenuto a lungo alcuni diritti su Rendena e Preore
consistenti nella facoltà di ottenere ospitalità dai loro abitanti in agosto. In qualche momento,
tali diritti sono stati assegnati ai signori di Lodrone dal margravio Ludovico di Brandeburgo.
Il conte Antonio d’Arco, quando i Brandeburghesi hanno lasciato il Tirolo, ha reclamato le
prerogative in questione, ma i signori di Lodrone temporeggiavano. Il signore di Lodrone per
scopi a noi non giunti, assieme ai suoi fratelli Pietro Paolo e Giacomo Giovanni, ha
assassinato suo zio Raimondino, appropriandosi dei suoi beni. La figlia dell’ucciso denuncia
gli assassini che vengono condannati in contumacia nel gennaio del 1373. Tuttavia, il 6
maggio 1375, i signori di Lodrone ottengono il perdono da parte del vescovo Alberto, nel
castello di Ortenburg. I conti d’Arco hanno approfittato dei problemi dei Lodrone per
riprendersi la Val Rendena e, nel settembre del 1379, i perdonati Lodrone consumeranno la
loro vendetta nei confronti del conte Antonio d’Arco.41
1375
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La cronaca del Trecento italiano
che tale organismo militare è sorto con finalità di controllo del territorio, ma nulla vieta di
dirigere le campagne contro qualsiasi obiettivo ritenuto opportuno. La magistratura comunale è
quella dei Tre governatori di pace e libertà della Repubblica romana, chiamati successivamente i
Deputati sopra la guerra del popolo romano, o Anteposti sopra la guerra e la grascia del popolo
romano.43 Nulla lascia immaginare che i due poteri militari dell’Urbe vogliano contrastare il
ritorno del papa, poiché questo è conforme agli interessi della città, occorre però rendersi conto
della situazione particolare e papa Gregorio si potrà tranquillizzare solo quando Roma si
rifiuterà di aderire alla Lega per la libertà di Firenze.
43 MAIRE VIGUEUR, La felice società dei balestrieri e dei pavesati, in Scritti per Isa, p. 588.
44 PELLINI, Perugia, I, p. 1139.
45 PELLINI, Perugia, I, p. 1139.
47 I nomi dei loro principali esponenti sono Marco Bindi, Bartolomeo di Masso, Biagio da Montemassi,
Nicolò d’Antonio Barnini, Mone, “quello di Lorenzo Ughetti”, Pavolo di Veltro e Battacone. Cronache
senesi, p. 658. Si veda anche CARNIANI, I Salimbeni, p. 253-254.
48 CARNIANI, I Salimbeni, p. 253-255.
49 In GALLAND, Les papes d’Avignon et la maison de Savoie, p. 290-295 la mediazione di Amedeo VI per la
pace.
1375
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Carlo Ciucciovino
trattative. Il cardinale riesce a firmare una tregua di un anno il 4 giugno 1375, rinnovabile per un
altro anno; non sarà necessario: il 19 luglio 1376, il trattato di Samoggia metterà fine alla guerra.50
che «Figone non è in grado di controllare le fazioni e ristabilire l’ordine»; ibidem p. 51-52 narra che
Figone attribuisce il suo insuccesso a Domenico Campofregoso che ha dimostrato disinteresse per le
richieste di Figone. Giovanna Petti Balbi scrive che Araone è «indubbiamente uomo di grande prestigio
ed esperto conoscitore della Corsica, dove aveva a lungo soggiornato come podestà di Bonifacio e poi
forse come governatore con Nicolò di Levanto».
53 “Mille trecent setantacimque ti pande/fue la fame per l’universo mondo/morìe di fame quantitate
grande/di femini e homeni a tondo/pocho pane per tuto si trovava/abendo dinari li borse pien di
fondo./Asa’ donne e femine falava/dil corpo suo per la fame che avìa/di quelle asai se ne trovava./Fono
asai che li fioli vendìa/per avir dil pane da mangiare,/dura chosa a zaschedun parìa”. ALIPRANDI,
1375
1070
La cronaca del Trecento italiano
Cronaca di Mantova, p. 145. Si veda anche Annales Mediolanenses; col. 761. Per tutta la lunga cavalcata di
John Hawkwood, Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 296-297; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 295-296
54 Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 469.
56 BONAFEDE, L’Aquila, p. 115. Nel 1374 il capitano di giustizia Tommaso degli Obizi fa installare un
orologio sulla torre del comune. ANTONIO DI BUCCIO, Delle cose dell’Aquila, col. 746-748, quartine 275-287
dedica molto spazio alla carestia ed alla pestilenza.
57 STEFANI, Cronache, rubrica 754.
1375
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Carlo Ciucciovino
59 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1375, vol. 3°, p. 55.
60 STEFANI, Cronache, rubrica 752; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1095. Il nome gli verrà dato, ad
irrisione della Chiesa, quando il 31 marzo 1376, il papa lancerà la scomunica su Firenze.
61 CERRETANI, St. Fiorentina, p. 150.
1375
1072
La cronaca del Trecento italiano
schierandosi apertamente in suo favore. Non appena firmata la lega, Bernabò Visconti invia a
Firenze trecento lance al comando di Giannotto Visconti.64
§ 30. Dalmazia
Il 16 giugno approdano a Zara il duca Stefano di Baviera ed il marchese di Brandeburgo,
in provenienza dalla Terrasanta. Qui, in Dalmazia, continua a risiedere e governare Carlo di
Durazzo. Di qui progetta una possibile missione nel regno di Napoli e, per ordine di re
Ludovico d’Ungheria, si inizia ad approntare le galee per il trasporto del giovane Carlo.66
64 LUCARELLI, I Visconti di Milano e Lucca, p. 45-46; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 299; Rerum Bononiensis,
Cronaca A, p. 299-300; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1095; Cronichetta d’Incerto, p. 279.
65 GREGOROVIUS, Roma nel Medioevo, Lib. XII, cap. II.
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fronte a Saluzzo, per prendere e punire il marchese Federico. Ma questi decide di appoggiarsi
alla monarchia francese, per resistere al potere del Savoia, ed invia i suoi ambasciatori a
prestare omaggio al re di Francia. Il marchese si impegna a cedere al Delfinato l’alta valle del
Varaito, acquistare castelli nel Delfinato per 10.000 fiorini, un ostaggio in muratura nelle mani
del governatore del Delfinato, e dare il castello di Carmagnola a Guy de Morgis, il
comandante francese. Il governatore del Delfinato, Carlo di Bovilla, ordina al Conte Verde,
schiumante di rabbia, di levarsi di torno e non disturbare il suo suddito.68
Amedeo VI protesta a Grenoble e a Parigi. Nel luglio ’75 il duca Lodovico d’Angiò, cui è
stata affidata la questione, convoca ad Avignone sia Amedeo che Federico di Saluzzo. Il
Conte Verde è furibondo, insulta il marchese, dichiarandolo traditore e lo sfida a duello.
Lodovico impedisce lo scontro, ma, vista la durezza della questione, rinuncia a dirimerla.
Amedeo ricorre allora all’imperatore Carlo IV, che ha motivo di cercare di abbassare
l’ambizione della corte di Francia. Carlo dichiara decaduto Federico di Saluzzo, avoca a sé il
marchesato, affidandolo alle cure di Amedeo di Savoia. Ma è una vittoria solo sulla carta,
mancando al conte di Savoia la realistica possibilità di rivendicare con le armi in pugno il
diritto che i documenti gli affidano.69
68 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 185-186; MULETTI, Saluzzo, Tomo IV, p. 122-130 con molti
dettagli, questa fonte ci tramanda i nomi dei procuratori di Federico, sono: Bergadano Bonelli e
Guglielmo Laurenti, costituiti con strumento del 22 marzo 1375; sulle loro famiglie, ibidem p. 125.
69 COGNASSO, Conte Verde * Conte Rosso, p. 185-186; MULETTI, Saluzzo, Tomo IV, p. 130.
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La cronaca del Trecento italiano
75 Villanova ad est, Stampace, ad ovest, La Pola, sul mare. CARTA RASPI; Mariano IV d’Arborea, p. 145.
76 Probabilmente le galee non sono il frutto di un accordo col governo di Genova, ma solo un contratto
con qualche armatore.
77 Essendo nato tra il 1320 ed il 1325, è sulla cinquantina.
78 CARTA RASPI, Mariano IV d’Arborea, p. 144-148; CARTA RASPI, Ugone III d’Arborea,p. 111-113. La data del
giugno 1376 per la morte del giudice d’Arborea deriva da un dispaccio del governatore di Capo Sassari
al re Pietro d’Aragona, nel quale lo informa del decesso e della peste. Un quadro dei problemi di questi
anni è in ANATRA, Sardegna, p. 86-87.
79 CORIO, Milano, I, p. 848; MALACARNE, I Gonzaga di Mantova, p. 104; GIULINI, Milano, lib. LXXI anno 1375
che discute tutti gli errori di Corio, chiamando Pietro il re di Cipro e non Federico, come detto dal Corio
e mettendo al 1378 il matrimonio di re Pietro con Valenzia o Valentina e non Anglesia. Anglesia
potrebbe invece venir promessa a Federico III re di Sicilia, che morirà prima di celebrare le nozze. La
fanciulla promessa a Federico III potrebbe essere la sorella di Anglesia, Antonia, e Anglesia sposa invece
il Burgravio di Nüremberg, poi marchese di Brandeburgo. Le nozze non avverranno e verso la fine del
secolo Anglesia era ancora nubile. GIOVIO, I dodici Visconti, p. 131 parla dei matrimoni delle figlie
legittime e naturali di Bernabò, ma continuando a sbagliare. Non sono i figli che difettano a Bernabò
Visconti, la moglie gli partorisce ben 17 figli ed una ventina di figli naturali nascono dalle varie amanti.
ANDENNA-BORDONE-SOMAINI-VALLERANI, Lombardia, p. 545.
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Andrea, Berarduccio di Casaglia, messer Antonio della Scalella, Franceschino dei Bencivieni, Nicolò di
Cola, messer Agnolo di messer Francesco Gilio di Manno, Ludovico Bontempi detto Spaccafico, di
Agnolino di messer Pisano de’ Buontempi, nipote del vescovo Carsuccio di Franceschino, Giovanni di
messer Andrea, il Mecca, Golino di Lippo di Nino, Giacomo del Disutile, Martino di Francesco di
Martino del Fico e Bartolomeo del Beccuto, citati da PELLINI, Perugia, I, p. 1142, mentre Diario del
Graziani; p. 219 e 220 dà anche Giovanni di Baldolo di Simonetto, Carsuccio e Gelio di Manno
83 Cronache senesi, p. 659.
84 Ser Guerrieri specifica che è il 1376, ma anche che è sabato, 8 settembre, ma nel 1376 l’8 è lunedì; nel
1375 lo stesso giorno è caduto di sabato (il ’76 è bisestile). La data del 1375 è contenuta anche in una
lettera riportata in Cronaca di Ser Guerrieri da Gubbio, p. 19, nota 1, che poi è scritta a pag. 20.
85 La fanciulla porta una dote di 5.000 fiorini.
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§ 41. Trama per far ritornare Belluno e Feltre sotto la signoria carrarese
Da Trento, dove ha trovato riparo per scampare ad un’aggressione di alcuni Tedeschi in
Valsugana, Brocca da Castello monta un progetto per strappare Belluno agli Asburgo. Egli
trae dalla sua parte il vicario di Trento, Giovanni Salgardi, nativo di Feltre, che non solo
accetta, ma si offre di fare in modo che anche Feltre possa ritornare nelle mani del Padovano.
Si unisce a loro Francesco signore del forte di Castellalto. I figli di questi, Gottardo e Biagio, a
capo di una scorta armata, dovrebbero venire a Belluno, con qualche pretesto ottenere
l’ingresso al castello e, entrati, uccidere il capitano. Intanto mettere a rumore la città per far
sollevare i guelfi, fautori del Carrara, e impadronirsi di Belluno. Gottardo viene spedito a
Padova per illustrare la trama a Francesco di Carrara, il quale si dice contrario al colpo di
mano, ben sapendo che ha firmato un trattato di pace con Venezia, secondo il quale, se
rientrato in possesso di Feltre e Belluno, dovrebbe cederli alla Serenissima. All’inizio del
prossimo anno farà pervenire una lettera a Gottardo, dicendo che la loro congiura è stata
scoperta. Mentre il giovane cerca di avvertire suo padre che è in Tirolo, viene arrestato dal
signore di Castellalto. Alcuni giorni dopo, viene fermato anche Brocca, nel castello di Telvo. Il
14 febbraio, vengono condannati a morte, mentre i figli di Brocca ed i loro discendenti
vengono banditi fino alla quarta generazione ed i loro beni incamerati dal comune. Il capitano
della città, Percevalle, temendo tumulti, ordina l’esecuzione capitale a porte chiuse. I cadaveri
vengono poi esposti pubblicamente, con le teste staccate dal tronco.91
§ 42. Bologna
A settembre, nel giorno della Santa Croce, Azzo Torelli mena un fendente di spada sul
capo del canonico bolognese messer Giacomo della Fratta, ferendolo. Matteo de Griffonibus,
Giovanni Garisendi e Giovanni di Berto Ferranti garantiscono per il feritore. Ma quando
apprendono che l’intenzione del cardinale Noellet è quella di farlo decapitare, inducono Azzo
a fuggire da Bologna, anche se ciò costa loro il carcere. Debbono passare 19 lunghi squallidi
giorni in prigione, prima di venir liberati.92
91 MIARI, Cronaca Bellunese, p. 42-43; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, libro 17°, p. 31-33.
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97 ROSSINI, Verona Scaligera, p. 710-713; Chronicon Estense; col. 499 e CARRARA, Scaligeri, p. 205-211.
98 Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 298; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 298. Vedi anche CORIO, Milano, I, p.
849; VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 16-18; CITTADELLA, La dominazione carrarese in
Padova, p. 352-353; Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 298; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 299-300; Chronicon
Ariminense,col. 913.
99 CONFORTO DA COSTOZA, Cronaca vicentina, p. 10, i tre rettori sono il podestà, il capitano e il Veronese
Gilino de Faelis.
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100 CONFORTO DA COSTOZA, Cronaca vicentina, p. 10. Conforto è detto vecchio perché nato all’inizio del
secolo. In proposito si veda la prefazione di Carlo Steiner alla sua cronaca. Costoza o Costozza è circa 5
miglia a sud est di Vicenza, presso Longare, sul Bacchiglione. VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo
15°, p. 18-19. Si veda anche MANTESE, Chiesa Vicentina, III, p. 93-94; CASTELLINI, Storia di Vicenza, lib. 13°,
p. 89-90.
101 VERCI, Storia della Marca Trevigiana, tomo 15°, p. 14-16.
104 Ephemerides Urbevetanae, Cronaca del conte Francesco di Montemarte, p. 240 e Ephemerides Urbevetanae,
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soldati della Chiesa si rintanano nella rocca, che viene serrata d’assedio. Ma il 25 novembre
arriva Giovanni Acuto, al comando di 3.000 cavalli, a portare soccorso agli assediati, e,
«bruciata la Porta di Santa Lucia, (presso la rocca), può introdursi nella città senza colpo
ferire. Ma, allorché, appena entrato, gli si parò dinanzi la vasta piazza della rocca, tutta piena
di triboli e bombarde, solcata da fosse e intercettata da roste fatte con rami d’alberi intrecciati,
capì che l’abate di Montemaggiore non lo aveva mandato a troppo facile impresa». Infatti,
assalito dai Viterbesi, deve accettare battaglia, ma in mezzo a tutti quegli ostacoli, la sua
cavalleria non può manovrare. Dopo una lotta sanguinosa, deve ripiegare fuori delle mura,
lasciando molti morti e feriti dentro Viterbo. Quattro giorni dopo, il condottiero inglese
riprende la via di Perugia. Francesco, prefetto di Vico, prende possesso del palazzo di Angelo
Tavernini, presso Santa Maria del Paradiso. Il 30 novembre, il popolo saccheggia e distrugge
il palazzo dell’aborrito tesoriere. I Fiorentini inviano 200 lance e 30 balestrieri a rinforzare le
milizie degli insorti Viterbesi. Il 14 dicembre, i Viterbesi e i Fiorentini conquistano con le armi
in pugno il castello, e, subito, iniziano a demolire l’odiato simbolo della loro servitù.106
106 BUSSI, Viterbo, p. 209-210; PINZI, Viterbo, III, p. 374-380; DELLA TUCCIA, Cronaca di Viterbo, p. 36-37 e 399-
401; CALISSE, I Prefetti di Vico, p. 144-148; ASCANI, Apecchio, p. 60. ASCANI, Due cronache quattrocentesche, p.
62 ci informa che il capo dei soldati inviati da Firenze a sostenere la ribellione è un Tedesco: Paolo del
Verde, CALISSE, I Prefetti di Vico, p. 145 fornisce invece il nome di Paher, che – specifica – arriva con 30
balestrieri ungheresi e 200 lance. Testimone della rivolta è LOMBARDI, I ricordi di casa Sacchi, p. 61, che
scrive : «et io vedendo tante dissentioni e ribellioni, , come fedele di Santa Chiesa, mi assentai per non
intrigarmi, et andai con la mia famiglia in Corneto a dì 16 di decembre». D’ANDREA, Cronica, p. 100-102
che afferma che «non fu maculata persona né robba».
107 Poiché il documento si legge male, potrebbe esser anche il 24 ottobre, MAGGINI, Frammenti d’una
Michele di Consiglio di Michele di Bindaccio di messer Consiglio dei Cerchi, che ha trovato queste
poche scarse note di famiglia «fra le scritture vecchie nel cassone», in parte consumate dalle tignole,
scrive: «Com’io l’ò trovata, così l’ò scritta».
109 STEFANI, Cronache, rubrica 756.
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Firenze lancia il suo invito alla libertà dal potere temporale della Chiesa emettendo, a
cura di Coluccio Salutati, una serie di lettere ai signori ed ai comuni che fanno parte dello
Stato della Chiesa, invitandoli a combattere non già la Chiesa, bensì la gallicana tirannis che ne
ha preso possesso e che bada solo a spremere i malcapitati sudditi. Nelle Marche tali appelli
miranti alla formazione di una lega vengono inviati a Francesco di Matelica, Giovanni di
Camerino, ai Sanseverino, ai comuni di Ascoli, Macerata, Fermo. Anche Ancona viene
esortata, alquanto improbabilmente, a ribellarsi.112
115 FARAGLIA, Diurnali, p. 10, nota 5, da PAPON, Hist. Gen. De Provence, III, 224.
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di Chiusi, col. 960; Annales Forolivienses,p. 68 ; DE MUSSI, Piacenza, col. 521. Questa stessa fonte, alle col.
521-524 fa un lungo esame dei difficili rapporti tra Visconti e la Chiesa nel corso del tutto il secolo.
Anche Chronicon Estense, col. 499 e Chronicon Ariminense,col. 913-914. Nella ribellione di Fermo vengono
uccisi Gregorio de Mirto, podestà, e il figlio di ser Cecchino di Ripa Transone, DE MINICIS, Fermo, p. 4.
Ephemerides Urbevetanae, Estratto dalle Historie di Cipriano Manenti, p. 469 registra solo le ribellioni del
Patrimonio.
119 SER GORELLO, I Fatti d’Arezzo,col. 844.
121 GIONTELLA, Tuscania attraverso i secoli , p. 132 scrive che un moto popolare ai primi di dicembre caccia
i pontifici ed apre le porte a Francesco di Vico. Un accenno anche in PINZI, Viterbo, III, p. 389-390.
122 Cronache senesi, p. 659.
123 PELLINI, Perugia, I, p. 1140-1141 e CORIO, Milano, I, p. 850; Cronichetta d’Incerto, p. 280-281. Senza
particolare originalità la sintesi di JONES, The Malatesta of Rimini and the Papal State, p. 91-94. Della
ribellione generale parla, senza dettagli, POGGIALI, Piacenza, VI, p. 382. La sequenza delle ribellioni come
la dà Ammirato: si ribella Città di Castello e Gomez vi invia Giovanni Acuto, approfittando dell’assenza
di John Hawkwwod, Perugia si ribella, quindi Viterbo, Montefiascone, Todi, Gubbio, Spoleto e Forli.
124 SANSI, Spoleto, p. 253.
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Il cronista di Piacenza così spiega la ribellione generalizzata delle terre alla Chiesa: Quia
pastores Ecclesiae volunt plus intendere temporalibus quam spiritualibus, tota Christianitas stat in
guerra. 126 Si dicti pastores (Ecclesiae) solum intenderent spiritualibus, sicut debent, Mundus totus
staret in pace et maxime Christiani. Et si hoc dicti pastores facerent, creditur quod totus Mundus fieret
unum ovile et sub uno pastore, ut in Evangelio Domini nostri Jesu Christi continetur.127
Vediamo ora la narrazione delle singole sollevazioni.128
129 Ne sono esclusi i Marchesi, gli Ubaldini e i Guelfucci. Per tutto il brano, MUZI, Città di Castello, vol. I,
p. 182-183.
130 FRACASSETTI, Fermo, p.30; MICHETTI, Fermo, p. 108; DE MINICIS, Fermo, p. 4.
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con realismo, i Maceratesi comprendono che a nulla approderebbero i loro tentativi senza
l’appoggio dei Varano; incaricano quindi i Priori del comune di intrecciare relazioni in proposito
con Rodolfo da Camerino che, un giorno, viene personalmente in città. I frutti si raccoglieranno
nel gennaio del prossimo anno.133
133 COMPAGNONE, Reggia picena, p. 239-240. I Priori di Macerata sono Nuzio medico, Lippo di Scambio,
Gentile di Compagno, Antonio di Cicco, Cecco di Gigliuccio, Gregorio di Cicco, Ghinolfo di Filippo,
Cola di Moschetto.
134 AMIANI, Fano, p. 296-297.
136 Sono Paolo Aspini, Ghello Asti, Renzio Balducci e Mattero de’ Ragoni.
137 BONOLI, Storia di Forlì, II, p. 9-10; COBELLI, Cronache forlivesi, p. 142; CALANDRINI E FUSCONI, Forlì e i suoi
vescovi, p. 903-904. Non si sa con certezza si il vescovo cittadino, Artaldo da Melano sul lago di Lugano,
abbia mai soggiornato a Forlì, cfr. CALANDRINI E FUSCONI, Forlì e i suoi vescovi, p. 1015-1016.
138 ZAMA, I Manfredi, p. 116.
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140 Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 302-305; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 303-305; Annales
Mediolanenses, col. 759-760.
141 DONDARINI, Bologna medievale, p. 283-284.
142 Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 304-305; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 305; Annales Mediolanenses,
col. 759-760.
143 DASTI, Corneto, p. 324.
144 LANZI, Memorie storiche sulla regione castrense, p. 127. SILVESTRELLI, Regione romana, p. 11 perfeziona la
notizia, scrivendo che Giovanni Sciarra di Vico si impadronisce di Corneto che gli verrà strappata da
Ludovico Vitelleschi.
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fortezza. Le fortificazioni fatte costruire dall’Abate collegano il Palazzo dei Priori con quello
del podestà e questo con la chiesa di San Lorenzo, da cui si accede alla via coperta.148 Gomez
comanda a Giovanni Acuto di accorrere urgentemente, ma incontro al condottiero inglese si
sono fatti ambasciatori della città insorta,149 informandolo dei fatti e invitandolo a desistere,
invito reso convincente da una fornita borsa di fiorini. Si calcola che all’interno della cittadella
vi siano millecinquecento combattenti, che non mancano certo né di viveri, né di armi.
L’assedio si presenta lungo e difficile, ma la fortuna vuole che un valente ingegnere
fiorentino, fatto venire a Perugia dall’Abate per costruire macchine di difesa nella fortezza,
quel giorno si sia trovato fuori della cittadella. Viene scovato dai ribelli e gli viene affidato
l’incarico di costruire arieti, gatti, grilli e manganelle. È quest’ignoto costruttore che idea
l’arma che costringerà alla resa la gente dell’Abate. Tra il vescovato e la fontana della piazza
viene costruito un trabocco enorme, «il maggiore e il più bello che mai si vedesse», che, per i
suoi effetti sarà detto Cacciapreti. Scaglia pietre da 1.500 libbre. Uno di questi proiettili uccide
il conte di Santa Fiora, e manca di poco Gomez Albornoz. Una manganella lancia
incessantemente pietre da 50 libbre. Il bilancio delle vittime dell’insurrezione è irrisorio, venti
Francesi ed un solo ribelle, uno di Colle di Mezzo, ma più gravi sono le vendette personali,
che, alla luce della ribellione si scatenano in città. Per settimane l’assedio si trascina, continui
lanci di pietre, quelle immense, in grado di sfondare tetti e volte, e quelle più piccole; una
gragnola incessante che demoralizza i difensori. Al cassero di Sant’Antonio, ancora in mano
agli armati dell’Abate, avvengono spesso scaramucce con i Perugini che hanno eretto di
fronte una fortificazione per molestarli, ma nessuna azione risolutiva ha luogo. I Perugini
ricevono anche il soccorso inviato dai Fiorentini, 500 lance della lega ed una brigata di fanti, Il
capitano della gente a cavallo è «un savio uomo tedesco» messer Corrado Tirchinghez. Senza
speranza di soccorso, bersagliati senza tregua, depressi, gli assediati si risolvono a trattare la
resa. L’Abate il mattino di Natale si spaventa per alcuni colpo di trabocco che colpiscono gli
edifici nei quali abita, e incarica Giovanni Acuto di trattare la capitolazione. Ci si accorda per
salva la vita e le persone ed i beni, ed i garanti della capitolazione per le due parti sono il
signore di Foligno Trincia Trinci per la Chiesa, e Ranieri e Giovanni marchesi dal Monte Santa
Maria, per i rivoltosi. Trincia e i marchesi debbono prendere possesso della cittadella con 300
armati e non consegnarla ai Perugini fino a quando l’Abate ed i suoi non siano al sicuro. Il 31
dicembre i garanti prendono possesso della fortezza ed il giorno seguente l’Abate ed i suoi
seguaci lasciano mestamente Perugia. Pensiamo con quale animo Gomez Albornoz abbia
lasciato la città, vedendo perduto il lavoro del suo grande parente. Recuperata la libertà,
Perugia pensa alla restaurazione; nel palazzo vengono rimessi i Priori, e si cercano quelli che
erano al potere prima della conquista della città da parte della Chiesa. Se ne trovano solo
sette, perché tre, nel frattempo, sono deceduti, i nomi dei Priori sono Tobaldo di messer
Baldino, Matteo di Francesco di Mattiolo di Diotaite, Berardello di Giovanni della Corgna,
Andrea di Pietro detto Paternostro, Andrucciolo di Puccio da Panicale, Ranaldo del Buffa e
Marco di Ceccone. I tre nuovi sono Bartolomeo di messer Felcino degli Armanni, Golino di
Ceccolo di messer Simone Guidalotti e Francesco di Pelluccio di Lello del Ciotto.150
I cinquecento fanti che Siena invia a Perugia sono al comando dello spadaio Guarnieri di
Palmiero.151
anno 1375, vol. 3°, p. 58; CORIO, Milano, I, p. 850; SOZOMENO, Specimen Historiae, col. 1095. Molto scarno
Chronicon Ariminense,col. 917.
151 Cronache senesi, p. 659-660.
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155 La quale in realtà fu moglie di suo zio Paolo di Montefeltro, figlio di Galasso.
156 Figlia di Giovanni, il terzo di questo nome, defunto l’anno precedente a quello del matrimonio di
Agnese.
157 FRANCESCHINI, Montefeltro, p. 297.
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del 1374, sventata dal rettore di Urbino e della Massa Trabaria, Filippo Corsini. Ora, nel 1375,
Antonio, ventottenne, ritiene che il verificarsi delle epidemiche sollevazioni contro la Chiesa
sia finalmente l’occasione che sta attendendo, si decide per Firenze, smette gli indugi e punta
su Urbino. Vi fonderà uno stato che durerà trecento anni.158
158 DI CARPEGNA FALCONIERI, Montefeltro Antonio di, in DBI vol. 76 per tutto il paragrafo.
159 Rerum Bononiensis, Cr. Vill., p. 302; Rerum Bononiensis, Cronaca A, p. 302-303.
160 MELCHIORRE DELFICO, Memorie storiche della repubblica di S. Marino, p. 103-110.
161 STEFANI, Cronache, rubrica 755 e AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1375, vol. 3°, p. 55.
163 AMMIRATO, Storie fiorentine, lib. XIII, anno 1375, vol. 3°, p. 57-58; CERRETANI, St. Fiorentina, p. 151.
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troviamo il signore di Foligno ancora leale nei confronti della Chiesa, malgrado i Fiorentini
insistano e minaccino.164
un cenno in MONALDESCHI MONALDO, Orvieto, p. 114 recto. Il giuramento di fedeltà di Orvieto alla Chiesa
è in FUMI, Codice diplomatico della città d’Orvieto, p. 554-556, Doc. 690.
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§ 70. Le arti
Non deve stupire l’attenzione degli artisti del regno di Napoli per le novità del primo
“Gotico Internazionale”, infatti Napoli è aperta al Mediterraneo e, principalmente, alla
Provenza. La migrazione di famiglie nobili tra Napoli e Provenza comporta una
contaminazione dei gusti, e «modi, idee, spunti compositivi».168
«Nel panorama napoletano degli anni maturi del regno di Giovanna spicca […] una
figura di una certa originalità, ed è quella dell’autore del ciclo della cappella Leonessa in San
Pietro a Maiella [a Napoli] …che mostra una cosciente volontà di recupero dell’arte di Simone
Martini e di inserimento nel circuito di un linguaggio “internazionale”».169 Questo anonimo
artista decora «la navatella ospedaliera della chiesa di Sant’Eligio al Mercato e, fuori di
Napoli, ancora altri affreschi a Teggiano e a Giffoni Vallepiana».170
Uno dei protagonisti dell’arte in Umbria è Matteo di ser Cambio di Bettolo. Matteo è
nato a Perugia verso la metà del Trecento. Il suo nome appare su un foglio miniato agli inizi
degli anni Settanta, dove si firma Matteolus. Con questo diminutivo è registrato nell’Arte degli
orafi di Porta Sole di Perugia nel 1377.171 Orafo, perché un miniatore deve essere ben capace
di applicare le sottilissime foglie di metalli preziosi o di incastonare gemme nella miniatura o
nel testo. Anche senza conferme dirette, la critica moderna pensa che Matteo si sia anche
cimentato in opere pittoriche.172 La sua opera certa è un foglio che decora «la Matricola dei
sartori di Perugia, con una Maestà inquadrata da una porta di città merlata», dove compare la
data del 1370-72. Nel 1375 esegue un « codice miscellaneo conservato in collezione privata
contenente i Soliloquia di S. Agostino, il Tractatus de interiori domo dello Pseudo Bernardo e le
Orationes di Anselmo di Canterbury». In questa opera Matteo è l’autore non solo delle
miniature, ma anche della parte calligrafica, come pure nella Matricola della Mercanzia. Qui
l’artista «orgogliosamente si firma con la terzina “Io Mateo di Ser Cambio orfo / che qui col
sesto in mano me fegurai / quisto libro scrissi dipensi e miniai”, dalla quale si deduce che fu
responsabile dell’intera fattura del codice».
Matteo appare influenzato dalle opere di Niccolò di ser Sozzo e da Lippo Vanni. Nel
1379, l’artista orna la Matricola dei tavernieri, della quale però ci è giunto solo un frammento.
Nel 1385 decora la Matricola dei legnaiuoli e lapicidi e probabilmente quella dei Notai.
Nel 1388 Matteo viene nominato castellano di Rocca Contrada. Dal 1400 riceve diversi
incarichi civili, testimonianza dell’alto grado di notorietà e di stima che Matteo ha ormai
acquisito. Le altre sue opere esulano dai confini di questa cronaca. L’artista nel 1424 è già
morto. 173 Così commenta Filippo Todini: «Matteo si impone come uno dei protagonisti
171 Il foglio «reca però la data del 1351. Plausibilmente l’iscrizione riguardante Matteo è da posticipare
alla fine degli anni Sessanta, in quanto tali registri venivano spesso reintegrati da nuovi fogli, quando si
rinnovava lo statuto o l’elenco degli iscritti». VALERIO GAI, Matteo di ser Cambio, in DBI, vol. 72°.
172 VALERIO GAI, Matteo di ser Cambio, in DBI, vol. 72° per dettagli in merito.
1375
1091
Carlo Ciucciovino
dell’arte umbra del secondo Trecento, educato su esempi senesi e in rapporto con la cultura
gotica dell’Italia settentrionale».174
§ 71. Letteratura
Baldassarre, detto Marchionne, di Coppo Stefani mette mano alle sue Cronache toscane.
Ne porterà avanti la compilazione fino al 1385. Nell’opera rimangono alcune lacune,
indicazione del fatto che l’autore non ebbe tempo per rimettervi mano e correggere ed
integrare. L’opera è basata sulla cronaca di Giovanni Villani e dei suoi continuatori, e su
documenti pubblici, ma anche su fonti storiche che Villani ha ignorato. Vi è chi ritiene che le
liste dei Priori siano state aggiunte successivamente da qualche copista. Marchionne è nato
nel 1336 e nel 1372 è stato uno dei Dieci di libertà; l’anno seguente uno dei Ragionieri
straordinari del comune. L’anno prossimo Marchionne sarà uno degli Otto di Parte guelfa;
Priore nel 1379 e un Gonfaloniere di compagnia nel 1382. Nel 1377 è podestà di Montecatini
ed ha eseguito diverse missione diplomatiche. È quindi un uomo abituato ad operare in
ambito politico e ne conosce la complessità, l’esperienza ne fa un narratore alieno da eccessi,
sempre moderato, buon cristiano ma «censore della politica papale».175
§ 73. Musica
Entra nell’ordine dei Servi di Maria Andrea da Firenze, detto anche Andrea de’ Servi.
Nel Codice Squarcialupi è nominato come Frater Andreas Horganista de Florentia. Sappiamo il
nome di suo padre: Giovanni. Andrea fa carriera nell’ordine e nel 1407 diventerà capo dei
Serviti di Toscana. Nel frattempo, è stato più volte camerlengo del comune di Firenze. Di lui
rimangono trenta ballate e una ballade, egli predilige l’impianto a due voci e la sua
caratteristica principale è l’aderenza della musica al testo poetico.177
177 FABRIZIO DELLA SETA; Andrea dei Servi, in Dizionario Universale della Musica e dei Musicisti. Vol. 1°.
1375
1092
ABBREVIAZIONI
BIBLIOGRAFICHE
DEL
TERZO VOLUME
ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE
Questa sezione contiene le abbreviazioni bibliografiche utilizzate nella stesura di questo terzo
volume della Cronaca del Trecento Italiano.
Non sono state elencate le abbreviazioni utilizzate nei primi due volumi, per le quali rimandiamo a
dette opere.
Sigle
AIMA Antiquitates Italicae Medii Aevi, di Ludovico Antonio Muratori, Milano, 1738-
1792.
ASI Archivio Storico Italiano.
ASP Napoletane Archivio Storico delle Provincie Napoletane.
ASR Archivio della Società Romana di Storia Patria.
BSP Bullettino Storico Pistoiese.
CSAM Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo.
CSBM Centro Italiano di Studi sul Basso Medioevo.
DBI Dizionario Biografico degli Italiani. Istituto dell’Enciclopedia. Italiana,
Giovanni Treccani, Roma, dal 1960.
DPS Deputazione di Storia Patria.
DSP Romagna Deputazione di Storia Patria per le province di Romagna.
DPS Toscana Deputazione Toscana di Storia Patria.
DPS Umbria Deputazione di Storia Patria per l’Umbria.
SSP Sicilia Società siciliana per la storia patria
DSubSP Deputazione Subalpina di Storia Patria.
ISASI Istituto per la Storia degli Antichi Stati Italiani.
ISIME Istituto Storico Italiano per il Medioevo.
MGH Monumenta Germaniae Historica. Edidit Georgius Heinricus Pertz,
Hannover, dal 1826.
MHP Monumenta Historiae Patriae. Torino dal 1836.
RIS Rerum Italicarum Scriptores di Ludovico Antonio Muratori, Milano 1721 e
seguenti.
RIS² Rerum Italicarum Scriptores, nuova edizione a cura di Giosuè Carducci e
Vittorio Fiorini, Città di Castello, 1900 e seguenti.
RIS³ Rerum Italicarum Scriptores, terza serie, edita dall’Istituto Storico Italiano per
il Medio Evo, Roma, 1999 e seguenti.
TCI Touring Club Italiano.
1095
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Serena Romano e Denise Zaru; Viella, 2013. Raduna gli atti del convegno
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1484-1500.
PIETRO GIOFFREDO, Storia delle Alpi marittime, edizione in volumi, vol. 3°,
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1099
Carlo Ciucciovino
INDICE
1228
La cronaca del Trecento italiano
1229
Finito di stampare nel mese didicembre 2016
Da UniversItalia
Via di Passo Lombardo 421
00133 Roma