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Il collezionista di quadri perduti
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Il collezionista di quadri perduti
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Il collezionista di quadri perduti

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About this ebook

Avvincente come Ken Follett
Misterioso come Il nome della rosa

Un grande thriller storico
Dall'autore del bestseller La cattedrale dell'Anticristo

Roma, maggio, 1555. Raphael Dardo, agente segreto e mercante d’arte di Cosimo de’ Medici, ha una missione da compiere: trafugare opere d’arte che l’Inquisizione ha giudicato eretiche, prima che vengano distrutte. Per questo è nella città eterna, nei giorni in cui si attende con ansia che il conclave elegga un nuovo pontefice. Mentre è di ritorno da uno dei suoi giri a caccia di dipinti, Raphael è costretto ad assistere a una macabra scena: il corpo senza vita di una giovane donna viene ripescato nel Tevere. Il suo bellissimo viso è molto noto in città, perché la ragazza ha posato per diversi pittori famosi. Il Santo Uffizio è convinto che dietro il suo omicidio ci sia la mano di un artista misterioso e inafferrabile, le cui tele sono ritenute opere del diavolo. Nessuno ne conosce il volto, ma tutti lo chiamano l’Anonimo. Fra monasteri e bordelli, osterie e labirinti sotterranei, Raphael Dardo comincia a seguire le tracce del pittore maledetto, incontrando donne diaboliche, artisti folli, collezionisti stravaganti ed eretici satanisti. Ma si troverà ben presto invischiato in un affare molto più pericoloso del previsto. Chi è l’Anonimo? Perché tutti gli danno la caccia?

Il mercante d’arte di Cosimo de’ Medici è alla ricerca di dipinti condannati come eretici dall’Inquisizione 
Delitti diabolici si stanno consumando durante il conclave nella città eterna
Chi si cela dietro il pittore maledetto conosciuto come l’Anonimo?

«Un romanzo che corre per i neri sentieri della storia.»
Marcello Simoni, autore del bestseller Il mercante di libri maledetti

«Da abile alchimista della parola, Fabio Delizzos miscela gli ingredienti narrativi in un thriller storico mozzafiato!»
Matteo Strukul, autore del bestseller I Medici. Una dinastia al potere

«Un’ottima scrittura e una felice costruzione della struttura e del racconto.»
la Repubblica
Fabio Delizzos
Nato a Torino nel 1969, è cresciuto in Sardegna e vive a Roma. Laureato in Filosofia, creativo pubblicitario, per la Newton Compton ha pubblicato con grande successo e consenso di critica i romanzi La setta degli alchimisti; La cattedrale dell’Anticristo; La stanza segreta del papa; La loggia nera dei veggenti; Il libro segreto del Graal e Il collezionista di quadri perduti. Ha partecipato anche alle antologie di racconti Giallo Natale; Delitti di Capodanno; Sette delitti sotto la neve. Sempre ai vertici delle classifiche di vendita, i suoi romanzi sono stati tradotti in diversi Paesi.
LanguageItaliano
Release dateNov 14, 2016
ISBN9788822702753
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    Book preview

    Il collezionista di quadri perduti - Fabio Delizzos

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    Parte prima

    Roma, 18 maggio 1555. Quarto giorno di conclave

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    19 maggio. Quinto giorno di conclave

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Parte seconda

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    20 maggio. Sesto giorno di conclave

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Parte terza

    21 maggio. Settimo giorno di conclave

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Capitolo 54

    Capitolo 55

    Capitolo 56

    Capitolo 57

    Capitolo 58

    Capitolo 59

    22 maggio. Ottavo giorno di conclave

    Capitolo 60

    Capitolo 61

    Parte quarta

    Capitolo 62

    Capitolo 63

    Capitolo 64

    Capitolo 65

    Capitolo 66

    Capitolo 67

    Capitolo 68

    Capitolo 69

    Capitolo 70

    Capitolo 71

    Capitolo 72

    Capitolo 73

    Capitolo 74

    Capitolo 75

    Capitolo 76

    Capitolo 77

    Capitolo 78

    Capitolo 79

    Capitolo 80

    Capitolo 81

    23 maggio. Nono giorno di conclave

    Capitolo 82

    Capitolo 83

    Roma, 7 giugno 1555

    Capitolo 84

    Firenze, 16 luglio 1555

    Capitolo 85

    Nota dell’autore

    Ringraziamenti

    en

    1410

    Prima edizione ebook: dicembre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0275-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Fabio Delizzos

    Il collezionista di quadri perduti

    omino

    Newton Compton editori

    A Rosa, sine qua non

    Parte prima

    Roma, 18 maggio 1555. Quarto giorno di conclave

    Capitolo 1

    A fulgure et tempestate libera nos Domine.

    La grande campana oscillava possente stagliandosi contro un cielo dello stesso colore. Il battaglio colpiva con forza il bronzo facendo vibrare le frasi che vi erano incise, dando loro voce.

    Soli Deo honor et gloria.

    Un rintocco per scacciare gli eserciti ostili e tutte le insidie del demonio, un altro per allontanare il fragore della pioggia di ghiaccio, un altro ancora contro il turbine degli uragani, l’impeto delle tormente e dei fulmini e i tuoni minacciosi, per fermare il vento vorticoso, debellare e vincere gli spiriti delle tempeste e le potenze dell’aria.

    Exaudi Domine vocem popoli tui et libera eum ab omni malo.

    Ma il maligno pareva attratto dalle preghiere rivolte a Dio. Come un cacciatore di supplicanti seguiva le tracce delle sue prede e non lasciava scampo. Gli uomini avrebbero dovuto tremare in silenzio e, invece, gridavano ai quattro venti di essere in pericolo e inermi.

    Il piede del birro esitò prima di toccare il corpo nudo della donna.

    Nessuna reazione.

    Provò ancora. Niente.

    Si chinò per metterle una mano davanti alla bocca, ve la tenne alcuni istanti, poi la ritrasse asciutta.

    Non respirava. Il barcaiolo che si era tuffato nel fiume per ripescarla si stava ancora strizzando i vestiti, ma la sua nudità era coperta dalla ridda di curiosi che gli facevano domande.

    «Quando è successo?».

    «L’hai vista che si gettava dal ponte?».

    «L’hai trovata già morta?».

    Lui non rispondeva, e allora gli altri cominciarono a farsi domande tra loro.

    «Qualcuno la conosce?».

    «Quanti anni avrà avuto?».

    «Sarà il caso di avvisare il bargello?».

    Il birro estrasse la spada e la puntò contro il tumulto. «Fate silenzio!», sbraitò.

    Aveva bisogno di calma.

    La scena alla quale si era trovato davanti non era facilmente decifrabile per la sua mente annebbiata dal vino.

    Non ricordava neppure per quale motivo si trovasse a passare dalle parti di San Pietro a quell’ora, con un possente temporale in arrivo.

    Con il sole erano scomparse anche le ombre.

    Presto sarebbe giunta la pioggia.

    Non lontano da lì stava sorgendo la nuova basilica, grande quanto l’indignazione che aveva causato in Lutero e quanto la spaccatura che aveva creato all’interno della cristianità. La basilica cresceva lentamente, come una bestia di pietra, divorando mattoni rosso sangue e travertino candido e malte di pozzolana. Una fabbrica smisurata. Impalcature di legno la cui parte più alta sfuggiva allo sguardo del passante e nelle brutte giornate si perdeva fra le nuvole insieme ai muratori, agli scalpellini, ai falegnami, ai tagliatori e ai fabbri che le formicolavano sopra.

    Di solito, si udiva il frastuono della costruzione fino alla fine del tramonto, a eccezione della domenica, ma con il conclave in corso tutti i lavori si erano fermati, per non disturbare i cardinali riuniti nella Cappella Sistina. E il maltempo incombente di quella sera aveva anticipato di un po’ la quiete notturna.

    Però il silenzio era devastato dai tuoni, e il vociare dei curiosi in cerca di qualcosa da raccontare stava diventando assordante.

    Il birro fece un passo per tenersi in equilibrio e continuò a osservare il cadavere.

    Cos’altro avrebbe potuto fare?

    Doveva mostrarsi all’altezza della situazione, e poi c’era una relazione da presentare ai superiori. E questo non era previsto, altrimenti avrebbe bevuto di meno.

    Sputò.

    Si grattò la testa.

    Niente di niente.

    Non notava alcun segno di violenza.

    Tutto ciò che i suoi occhi sotto spirito riuscivano a vedere era che la donna non aveva forse più di vent’anni. E doveva essere stata di una bellezza da mozzare il fiato; lo era anche adesso che il sangue non le colorava più la pelle. Non si poteva neppure affermare che avesse una pelle, non più. L’acqua rovinava i cadaveri, pensò.

    Si disse che avrebbe dovuto fare un’altra strada per tornare a casa. I dintorni di San Pietro, col favore dell’oscurità, diventavano un ricettacolo di briganti, falsari e stupratori di monache. Stare alla larga era sempre una buona idea, specialmente per un birro da solo.

    La memoria era resa corta dai caldi vapori del vino, ma non tanto da aver già dimenticato quel che aveva detto il barcaiolo qualche minuto prima: la donna era già nel fiume quando lui l’aveva avvistata dalla sua barca.

    Dunque, qualcuno doveva averla spinta giù nell’acqua.

    Forse ancora viva, forse no.

    Ma una giovane così bella, sorridente anche da morta, non poteva essersi tolta la vita da sola.

    Non era nell’ordine delle cose stabilito da Dio.

    Capitolo 2

    Sulla riva sinistra del Tevere, non lontano dal porto di Ripetta, Ariel Colorni, in piedi sulla prua della barca, vestito di velluto nero e con il fazzoletto alzato sul viso, aspettava qualcuno. La sua figura sottile, un po’ più scura del cielo notturno, ondeggiava fra le nubi.

    Ruotò la testa lentamente, in cerca di movimenti sospetti al di sopra degli argini. Era tutto tranquillo, anche lui lo era, ma si tenne addosso la paura, come un abito appropriato a quella circostanza. I suoi occhi interrogavano l’oscurità con la pacatezza di un saggio. Perché sapevano che, in caso di necessità, una pistola con tiro a ripetizione sarebbe saltata fuori in un attimo.

    Però l’attesa era insopportabile.

    Secondo i calcoli e le prove, Raphael avrebbe dovuto essere lì al suono delle campane. Non che stesse eseguendo un’operazione facile: doveva staccare dalla parete del palazzo del Santo Uffizio due ritratti affrescati, usando strumenti di precisione, alla misera luce di una lampada a olio, stando attento a non farsi scoprire dai birri. Si trattava di staccare due porzioni di intonaco, depositarle delicatamente sui supporti piani, e infine chiuderle nelle teche e caricarle sul carretto.

    E quello era solo l’inizio. La parte più difficile veniva dopo: passare la dogana, nel porto, per poi raggiungere la barca.

    Per fortuna avevano una carta vincente nella manica: il mulattiere. Era un esile ragazzino sordomuto, ma faceva parte di una banda di briganti molto potente, le cui specialità erano organizzare combattimenti con scommesse, derubare i ricchi sulle strade e trafugare merci di ogni genere dalle porte cittadine o dai porti fluviali e marittimi, per sottrarle all’imposizione dei dazi.

    Fin dal loro arrivo a Roma, Raphael aveva preso accordi con il capo di quella banda: i pochi che ne conoscevano l’esistenza la chiamavano semplicemente donna Angelica.

    Era lei il lasciapassare necessario per portare fuori da Roma le opere eretiche che Raphael era venuto a cercare.

    La sua era una missione pericolosa, ma lui diceva che gli dava forza, che lo faceva sentire dalla parte del giusto. Ariel non approvava, però lo capiva. Da quando il fratello di Raphael era stato arso vivo sul rogo, e i suoi quadri sequestrati e distrutti, lui si era messo in testa di salvare tutte le opere che correvano il pericolo di essere date alle fiamme dagli inquisitori.

    Questa volta, la sua attenzione era tutta rivolta a un pittore sconosciuto, chiamato l’Anonimo, ricercato dall’Inquisizione romana con l’accusa di uccidere i propri modelli e realizzare i suoi dipinti con l’aiuto del diavolo.

    Ariel sorrise. Di solito le ricerche di Raphael non lo riguardavano, ma questa volta anche lui si sentiva coinvolto: l’Anonimo aveva suscitato la sua curiosità di alchimista e prestigiatore.

    Finalmente udì il carretto che arrivava, il respiro dell’asino, il cigolio delle ruote, e gli schiocchi di lingua del garzone muto che incoraggiava l’animale ad andare più svelto.

    Portava un piccolo carico: due scatole quadrate di legno alte un palmo e larghe un braccio. E Ariel sperò che fossero piene.

    Avvistò anche la figura di Raphael. Sopraggiungeva camminando tranquillamente, ma di sicuro resistendo al desiderio di correre. Quando arrivò fece cenno al mulattiere di caricare le casse sulla barca, poi lo pagò e con dei gesti gli fece capire che doveva mantenere il segreto. Aspettò che il ragazzo si allontanasse, e salì a bordo.

    «Parti», ordinò, voltandosi indietro. «Svelto».

    «Lo hai preso?», gli chiese Ariel spingendo col piede contro la sponda e cominciando a rimestare l’acqua nera con i remi. «Allora?».

    I sorrisi scintillarono nell’oscurità, mentre la barca scorreva dolcemente sul fiume. A mano a mano che si allontanavano, lo sciabordio sullo scafo diventava più rumoroso, l’eco della città si affievoliva e i contorni dei palazzi sfumavano nella notte, lasciando il posto a uno zodiaco di finestre illuminate.

    Ariel assecondava i gorghi e la corrente.

    Raphael continuava a lanciare sguardi preoccupati in ogni direzione.

    Ma tutto sembrava procedere secondo i calcoli.

    Gli inquisitori del Santo Uffizio sarebbero rimasti molto stupiti nel vedere che gli affreschi raffiguranti i volti dei criminali ricercati dalle autorità erano stati staccati dal muro del palazzo.

    Non sfregiati o distrutti dagli stessi ricercati o da altri criminali, come spesso accadeva, ma segati via con estrema precisione.

    Era una delle passioni di Raphael: salvare i dipinti raffiguranti i criminali. Spesso, infatti, erano artisti di grande fama a realizzarli; le loro preziose opere sui muri delle chiese, dei palazzi e degli edifici pubblici fornivano un importante servizio alla cittadinanza, agevolando la cattura dei fuggitivi, ma erano destinate ad avere vita breve, proprio come le persone che immortalavano.

    In passato, Botticelli aveva dipinto gli assassini di Giuliano de’ Medici dopo la congiura dei Pazzi; Andrea del Castagno ne aveva raffigurati così tanti da essere soprannominato Andrea degli Impiccati; e Andrea del Sarto aveva fornito le immagini dei cittadini e soldati felloni che avevano abbandonato Firenze durante l’assedio.

    Tutto perduto.

    Così, nottetempo, ogni volta che gli era possibile, Raphael le strappava insieme all’intonaco e poi, grazie a una tecnica ideata e sviluppata da Ariel, riusciva a trasferire l’affresco su una normale tela, trasformandolo in un quadro.

    Nelle scatole di legno c’erano i volti dell’Anonimo e di un certo Tremadio, braccati dai birri del Santo Uffizio e dipinti da un allievo del grande Michelangelo Buonarroti, così almeno si diceva in città.

    Tremadio era raffigurato come un frate dallo sguardo torvo e le mascelle pronunciate. L’Anonimo, invece, aveva la testa di un caprone, con le corna. Era stato raffigurato così, dato che il suo volto – come il suo nome – era sconosciuto.

    Raphael continuava a spazzare la notte con lo sguardo, alla ricerca di ombre.

    Non vide niente.

    Accavallò le gambe e si mise comodo. «Portiamoli nella catacomba», disse.

    Sembrava tutto tranquillo. Le acque argentee, le ombre scure degli alberi, i riflessi sui marmi delle chiese, dei conventi… Inspirando era possibile avvertire il profumo vanitoso delle ville cardinalizie e quello resinoso dei loro giardini. Ma, superato Castel Sant’Angelo, giunti all’altezza di San Pietro, Ariel smise di remare all’improvviso e lasciò che la barca proseguisse inerte per un lungo tratto.

    Indicò più avanti, sulla sponda destra.

    Lo vide anche Raphael.

    C’era agitazione, un raduno rumoroso di persone sulla banchina.

    Sembrava che avessero ripescato qualcosa o qualcuno dal fiume.

    La barca passò oltre, scivolando sul riflesso brillante di una fila di fiaccole.

    Passarono inosservati. L’attenzione di tutti era catturata dal corpo che giaceva supino sulla pietra bagnata, coperto con un sacco di iuta.

    Le lunghe ciocche di capelli che aureolavano la testa facevano capire che si trattava di una donna.

    «Abbi pietà di lei, o Signore Iddio vivente e Re del mondo», disse Ariel.

    Raphael, invece, tacque.

    Capitolo 3

    Le mani legate dietro la schiena, e poi agganciate a una fune pendente dalla carrucola.

    A un comando dell’inquisitore, monsignor Arquez, il boia issava di un metro da terra l’interrogato e poi lo lasciava ricadere di colpo, così che le spalle subissero un violento strattone. Le teste degli omeri schizzavano fuori dalle loro sedi naturali e finivano col vagare fra tendini e muscoli.

    Dolore.

    Insopportabile.

    A tratti, però, il torturato sentiva anche qualcos’altro. Paura. Smarrimento. E negli attimi benedetti in cui il dolore atroce si affievoliva, riemergeva il tanfo di urina che gli era colata dalle brache fin dentro i calzari.

    «Parlate, se non volete continuare a soffrire», intimò Arquez, tracce di umanità in un amalgama di parole che avevano tutte lo stesso significato: fredda, implacabile spietatezza. «Dove vi riunite?».

    Nessuna risposta. Il corpo risalì gemendo, poi ricadde con un grido strozzato.

    «Aiuto! Mi ammazzate! Io non so niente», disse l’accusato con il tono più supplichevole che avesse mai udito uscire dalla sua bocca.

    «Voglio sapere dove si nascondono gli altri membri della setta, chi ne è a capo».

    Il boia, il viso coperto da una maschera di cuoio, si avvicinò per annusare l’effluvio di terrore che emanava dal suo corpo sudato. Lo issò di nuovo.

    «Pietà!».

    E lo fece ricadere, immergendolo nuovamente in un bagno di dolore.

    Tremadio lanciò urla pietose.

    Arquez piegò la testa all’indietro, e per un attimo le candele pendenti dal soffitto gettarono una debole luce nella sua bocca scoprendo una tetra schiera di denti del colore dello zolfo. Un particolare che contrastava con i tratti gentili del viso, la pelle eburnea, le guance incavate sotto zigomi sporgenti, le iridi così chiare da sembrare una traccia sbiadita attorno alla pupilla. «Avete celebrato messa, e consacrato, e predicato, e confessato, senza essere un sacerdote. Anche solo per questo dovrei consegnarvi immediatamente al monsignor governatore di Roma perché siate arso vivo sulla pubblica piazza. Ma le vostre colpe sono ben più gravi. Avete predicato che, per salvare l’anima, è bene fare il contrario di quanto prescrive il Vangelo. Eppure, lo vedete, sono qui, pronto ad ascoltarvi. Vi conviene rispondere».

    «Sì, sì, rispondo, dirò tutto quello che volete!».

    «Siete un adepto del diavolo, è vero?».

    Tremadio rivolse lo sguardo alla corte, alzando la testa con difficoltà. Occhi grondanti di lacrime. «Io sono innocente».

    «Praticate negromanzia e incantamenti per nuocere alla buona gente?»

    «No, no, questo mai», pianse.

    «Mentite! Vogliamo i nomi di tutti, vogliamo sapere dove si trovano».

    «Io…». Il falso frate si guardò il grembo. Le mani non c’erano, erano dietro la schiena, strette l’una all’altra con il ferro, che solcava la pelle, strozzava le vene. Rifiatò, poi, biascicando, disse: «Io sono ignorante, membri eccellentissimi di questa corte. Parlo troppo. Ho detto cose gravi sul Vangelo. Grazie, grazie». La testa crollò, eruppe in un pianto disperato «Merito di essere punito. Ma io non so nulla di quel che mi chiedete. Non sono a conoscenza di alcuna setta».

    «Abbiamo informazioni sul vostro conto. Testimonianze incontestabili».

    «Chi mi ha denunciato?»

    «Ditecelo voi. Avete dei nemici? Fate i loro nomi. Se anche uno solo corrispondesse a quello di chi ha esposto denuncia nei vostri confronti, potremmo essere più clementi».

    Ci fu uno scambio di sorrisi sarcastici fra i membri della corte.

    L’imputato stava per cedere, ma resistette. Parlare era soltanto un altro modo per condannarsi a una pessima morte. E poi, di sicuro, i Familiari dell’Inquisizione lo avevano spiato, osservato a lungo, e magari erano stati presenti a qualcuno dei suoi sermoni.

    Era stato imprudente.

    Non poteva negare, non poteva confessare.

    La fine era arrivata, pensò.

    Arquez si fregò le mani. «L’esitazione svela il mentitore, Aldrico Tremadio, e io conosco bene i labirinti mentali di un interrogatorio». Fece un cenno al boia. «Mastro Verre, forse è il caso che spieghiate all’imputato in quale situazione si trova».

    Il carnefice prese una pinza per comprimere le dita e la soppesò. Sembrava soddisfatto. Mise l’acciaio su un braciere acceso e ve lo tenne fino a farlo diventare incandescente.

    «Dove vi riunite? Voglio nomi e cognomi».

    «Io non so di cosa state parlando».

    «Di voi depravati, sodomiti, seguaci del demonio. Il pittore senza nome, detto l’Anonimo, ne fa parte?».

    L’appeso balbettò: «Non ne so niente di queste cose».

    «Allora, vuol dire che non tenete alla vostra vita».

    «Io non so niente», urlò disperato. «Come ve lo devo dire? Avete preso la persona sbagliata».

    Il boia gli si fermò alle spalle, invisibile.

    Tremadio sentiva il suo respiro caldo sul collo.

    Monsignor Arquez, ritto sulla sedia, annuiva ghignando. «Volete usare quella bocca come si deve e dirci quello che vi stiamo chiedendo?»

    «Il dolore è troppo grande», lamentò Tremadio. «Non riesco a pensare».

    All’inquisito fu lasciato il tempo di riprendersi.

    Non troppo, perché Arquez era impaziente. «Su, parlate».

    Tremadio scosse la testa. «Ho preso parte ad alcune riunioni di liberi pensatori. Ma nessuno conosce i nomi degli altri. Il luogo cambia ogni volta».

    «Sono ritrovi satanici?»

    «No, no, eccellenza, sono sempre state soltanto delle riunioni. È capitato di leggere il Vangelo ad alta voce, talvolta, lo confesso. Ma di solito si parlava degli accadimenti più recenti. Per tenersi informati su quel che succedeva in città, insomma. Gli invitati si riuniscono ogni mese, consultano un quaderno e accanto a ogni notizia aggiungono le loro informazioni, confermando o meno, fornendo ulteriori dettagli. Discutono sui fatti correnti. Dopodiché questa sorta di notiziario viene trascritta da alcuni copisti e diffusa agli amici. A volte si stampa su fogli volanti e si vende per strada, al mercato…».

    «Un notiziario, dunque. Delle semplici pasquinate. E allora perché usate un alfabeto cifrato per comunicare fra voi?»

    «Parlate di cose che non capisco, onorando magistrato».

    «Nella vostra casa abbiamo rinvenuto delle lettere scritte con linguaggio cifrato». Ne scelse una e la lesse ad alta voce:

    Caro Frater S., armonia con la corrente della vita universale. Libertà, bellezza e amore fiammeggino nel tuo cuore. Ricordi il figlio adottivo di Pietro Dardo, il fratello di Leonardo il pittore? È vivo, è tornato a Roma e sta bene. Ha preso contatto con il maestro e vuole incontrarlo. Racconto dettagliato appena ci rivedremo. Osculum infame. Il sempre tuo Frater T.

    «Riconoscete questa lettera come vostra? Siete voi Frater T.?».

    Sì, la riconosceva. Ricordava l’ingenua serenità d’animo con cui l’aveva vergata solo pochi giorni prima, sicuro che, se anche fosse finita nelle mani sbagliate, non sarebbe stata decifrata così facilmente. E invece… Troppa imprudenza, troppa, specialmente da parte di chi avrebbe dovuto sapere con quale spietata efficacia agiva il Santo Uffizio.

    «L’imputato e i suoi interlocutori», spiegò Arquez agli altri membri della corte, «si sono avvalsi di una semplice cifratura di Cesare: a ogni lettera dell’alfabeto latino in chiaro ne viene sostituita una dell’alfabeto cifrante. I nostri esperti hanno eseguito un calcolo delle frequenze delle lettere e ne sono venuti a capo in un’oretta. L’alfabeto cifrante è questo». Lo fece vedere a tutti, scritto su un foglio di carta a caratteri cubitali, appaiato con quello in chiaro.

    B A P H O M E T U V W X Y Z C D F G I J K L N Q R S

    A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z

    «A ogni lettera dell’alfabeto cifrante ne corrisponde una dell’alfabeto in chiaro. Quindi per scrivere frater, scriverò mgbjog. Come potete notare, le prime lettere dell’alfabeto cifrante usato da questi stregoni compongono la parola baphomet».

    B A P H O M E T U V W X Y Z C D F G I J K L N Q R S

    «Questa è la parola chiave, quella da cui il ricevente del messaggio ricava facilmente l’intero alfabeto cifrante. È sufficiente continuare con la lettera del normale alfabeto che viene subito dopo l’ultima lettera della parola chiave; baphomet finisce con una t, dunque l’alfabeto cifrante continuerà con la u, e così via, per poi ricominciare da capo, ma saltando le lettere che sono già contenute nella parola chiave, e si prosegue in questo modo fino a ottenere l’intero alfabeto cifrante. Ora, io non sono un esperto di storia, ma ho studiato il processo ai cavalieri Templari, e so che furono accusati di adorare un idolo diabolico chiamato Baphomet».

    Gli altri assentirono con ammirazione.

    Arquez tornò a rivolgersi all’imputato. «Volete dirci chi è Frater S., il destinatario della vostra missiva?»

    «Vorrei poter rispondere. Ma purtroppo non so nulla. Come vi ho detto, io raccoglievo pettegolezzi e li scrivevo. Tutto qui. Ho frequentato poche volte quelle persone, solo per trascorrere qualche ora piacevole in compagnia. Ripeto che non conosco i loro nomi, e non so dove vivono».

    «Dunque non siete voi Frater T.?»

    «No».

    Per monsignor Arquez valse come un sì. «Osculum infame significa bacio vergognoso», spiegò, anche se tutti i presenti conoscevano molto bene il latino. «Le streghe salutano così il diavolo durante i sabba, baciandogli l’ano, la sua seconda bocca. I Templari furono accusati di praticare questa e altre nefandezze. Parlate, finché siete in tempo».

    L’inquisito ruotò la testa alla ricerca del boia e con la coda dell’occhio lo vide: era ancora lì, fermo dietro di lui, con la pinza in mano. «Voglio collaborare», disse.

    «Chi è Frater S.?»

    «Non lo so davvero, vostra eccellenza illustrissima».

    «Allora diteci di questo figlio di Pietro Dardo e fratello di Leonardo».

    «Non ho scritto io quella missiva».

    «Siete così sprezzante della vita? La missiva era nella vostra casa, pronta per essere inviata, e voi negate di averla scritta? Eppure di missive ne abbiamo trovate anche altre, che forse avete dimenticato di bruciare. Ad esempio questa: Caro Frater S., ho paura che il Frater B. abbia perso il lume della ragione. Sono in apprensione. Parliamone di persona. Segue un’oscenità, poi conclude con il consueto: Osculum infame. Il sempre tuo Frater T.».

    «Non è opera mia».

    «C’è in gioco la vostra vita. Chi sono tutti questi frater, chi è Leonardo Dardo? Vogliamo i nomi di tutti!».

    «Dardo…», Tremadio si precipitò a ricordare, «era un pittore. È morto qualche anno fa».

    «Morto come?»

    «Lo avete ucciso voi!».

    «Spiegatevi».

    «Fu condannato dal Santo Uffizio per eresia».

    Arquez andò al banco, prese la penna e segnò l’appunto: Archivio, processi, pittore, Leonardo Dardo. «Continuate», disse, «chi sarebbe questo fratello che è tornato a Roma?»

    «Non lo conosco personalmente, ne ho solo sentito parlare. È un agente d’arte».

    «Come si chiama?»

    «Non lo so».

    «Anche lui fa parte della vostra setta?»

    «Quale setta? Oh, mio Dio», piagnucolò, «voi volete farmi dire per forza certe cose. Io non sono a conoscenza di nessuna setta. Lo giuro!». Spinse lo sguardo oltre l’inquisitore e notò che nessuno stava scrivendo. Perché non c’era un notaio a registrare fedelmente le domande e le risposte? Che razza di interrogatorio era?

    «Rispondete!».

    «Vorrei, ma…».

    Dal banco dei giudici, dietro il quale sedevano altri due uomini, inerti e muti, venne un cenno di assenso.

    Di nuovo il tetro cigolio della carrucola.

    La caduta, lo strappo.

    Le grida sempre più deboli.

    «Ne fa parte, sì o no?».

    «No, no, no».

    «Perché vi interessa tanto, allora?»

    «Suo fratello…».

    «Respirate. Io aspetto».

    «Suo fratello era un nostro amico».

    «E però non conoscete il suo nome».

    «Davvero, eccellenza».

    «Cosa sapete?»

    «Che è alla ricerca di pittori. È qui in qualità di agente del duca di Firenze, Cosimo de’ Medici, al quale segnala i migliori pittori da convocare a corte. E compra anche molti quadri, paga bene, non so dirvi altro».

    «Carrucola».

    «No, no, vi prego. Ha incontrato uno che conosco, un appassionato d’arte, e gli ha chiesto notizie di questo maestro pittore».

    «Chi è

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