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Psicologia di

comunità

Gabriel Esteller Collado


Introduzione
Da disciplina “alla ricerca di una sicura identità”, la PdC è giunta
progressivamente a precisare le radici concettuali, le metodologie, i settori di intervento.
Se ne possono rintracciare le caratteristiche considerando, sia pure schematicamente, i
seguenti elementi:

- Un grado elevato di instituzionalizzazione della disciplina, realizzato


mediante un processo costante e continuo di riconoscimenti in ambito
accademico e professionale.
- Si è rifforzato il quadro teorico, con l’elaborazione di modelli e quadri di
riferimento.
- Si sono ulteriormente specificati e articolati i temi di ricerca. L’interesse si
è progressivamente focalizzato sugli aspetti della prevenzione dei
comportamenti a rischio.

Questo volume si colloca in questo quadro ma con alcune valenze specifiche:

- È un volume “internazionale”.
- È un volume “locale”.
- È un volume “didattico”.
Capitolo 1
(Cinquant’anni di psicologia di comunità
nel mondo)
1. Prima e oltre Swampscott
Swampscott viene ricordata nella storia della PdC perché nella primavera del
1965 vi si tenne una conferenza sul tema “La formazione degli psicologi per i servizi di
igiene mentale di comunità”. A quell’evento si decise convenzionalmente di attribuire la
nascita della psicologia di comunità (Pdc).

Nel volume “International Community Psychology” (Reich et al., 2007) vengono


analizzate le diverse forme e le caratteristiche specifiche della PdC.

L’interesse e l’attenzione per lo studio della comunità non nascono nella metà
degli anni sessanta negli Stati Uniti. Non solo ma, l’idea che la PdC sia nata negli USA
e che lo sviluppo in altre aree sia dovuto al solo lavoro teorico e pratico statunitense.

La richezza della PdC è la sua diversità: la caratteristica costitutiva della


disciplina indica che non esiste un solo modo di fare PdC.

Ci sono alcuni valori alla base della disciplina, che vengono prima di qualsiasi
differenziazione di posizione ideologiche o pratiche di intervento: sono proprio questi
valori che fondano la PdC.

La disciplina è costantemente percepita ai margini del mainstream della scienza


psicologica “ufficiale”. In ogni caso, va evidenziato che la presenza della PdC come
disciplina accademica e anche come attività professionale documentate in almeno 38
paesi del mondo costituisce una chiara evidenza di legittimazione.
2. Lo scenario internazionale
2.1. America del Nord: Stati Uniti e Canada
Stati Uniti

La PdC negli Stati Uniti é stata per molto tempo l’unica storia conocsiuta.

Gli elementi che hanno segnato un cambiamento memorabile nella politica


statunitense e nelle concezioni della malattia mentale sono stati il National Mental
Health Act (1946) e il Community Mental Health Centers Act (1963).

Il gruppo di psicologi a Swampscott (1965) definirono un ruolo professionale


più coinvolto nei problemi delle persone  participant conceptualizer, teorico
partecipante.

Alla fine degli anni 60 si verificò uno spostamento a livello nazionale verso
un’amministrazione più conservatrice.

Si avviò un periodo di riflessione e di consolidamento teorico, con le analisi di


Cowen sul concetto e sull’importanza della prevenzione, basato sull’elaborazione della
“psichiatria preventiva” di Caplan (1964). Si elaborò il concetto di empowerment
(Rappaport,1977).

I temi su cui si sono focalizzate le ricerche nei decenni successivi sono


emblematici dei diversi indirizzi assunti dalla disciplina.

Un ambito centrale fu gli studi sull’ambiente, lo studio interdisciplinare degli


effetti prodotti dall’ambiente fisico e sociale ugli esserei umani. Si occupa della
valutazione e dello sviluppo degli ambienti umani ottimali. Un altro tema affrontato fu
l’analisi dei valori.

Ulteriore aspetto fu l’elaborazione di modelli collaborativi di intervento


sociale.

Dopo gli anni 80, lo sviluppo della disciplina è proseguito tra spinte propulsive e
ostacoli di varia natura.

La PdC continuerà a svilupparsi come psicologia del cambiamento sociale, una


psicologia che valorizza la diversità.
Canada

La peculiarità della PdC canadese è legata alle caratteristiche del contesto


geografico, demografico, storico e culturale.

Lo sviluppo della disciplina è riconducibile ad almeno tre fattori:

- Le politiche federali di Health Care.


- L’assenza relativa di zone povere dentro le città.
- L’istituzione di programmi di formazione universitaria meno dominati
dal tradizionale modello clinico.

Nel 1982 si forma la Sezione di PdC della Canadian Psychological


Association.

La richezza e la differenziazione della PdC canadese si deve a:

- Valori ed etica.
- Salute mentale di comunità.
- Prevenzione e promozione della salute.
- Intervento di rete sociale e di mutuo aiuto.
- Promozione dell’inclusione e della diversità.
- Intervento sociale e sviluppo economico.

Le politiche federali e provinciali hanno costituito un ruolo fondamentale perche


hanno dato un auto economico concreto allo sviluppo di programmi centrati sulla
prevenzione, sulla promozione della salute, sull’inclusione di segmenti di popolazione
marginali e vulnerabili.

2.2. America Latina


La vera visione alternativa alla PdC nordameriana è quella latinoamericana.

Occorre tener conto della comune storia passata di colonizzazione di una regione
europea (spagnola) e della comune storia rappresentata dall’influenza delle culture
indigene.

La costruzione della PdC in America Latina nella sua specificità si deve a sette
fattori:
1. La psicologia sociale.
2. La prospettiva critica adottata: la PdC in America Latina ha assunto un
orientamento verso la prassi, legando pratica e teoria e introducendo la
partecipazione di nuovi attori sociali nel processo di ricerca e di intervento.
3. La necessità di trasformare insoddisfazione in azione.
4. Il cambiamento sociale.
5. Processo di ricerca di una scienza: che superasse le forme individualistiche della
psicologia sociale dominante all’epoca. Recuperare la comunità come gruppo
colletivo.
6. Le comunità come ambito e livello di vita sociale.
7. Le modalità di relazioni costruite all’interni di un dialogo.

Le influenze riconosciute solo la teoria di Lewin, le teorie marxiste, la teoria


della dipendenza e la ricerca di un nuovo ruolo per lo psicologo.

Una spinta importante venne dall’introduzione di corsi universitari di primo e


secondo livello in Puerto Rico e Messico, una prospettiva multidisciplinare, l’attenzione
alla conoscenza di senso comune e ai modi indigeni, popolari di conoscere. Importanza
di due tipi di agenti:

- Agenti esterni: i ricercatori universitari.


- Agenti interni: le persone interessate.

Gli autori latinoamericano condividono la critica alle teorie e ai metodi


positivisti, e alle tendenze individualistiche della psicologia dominante, come una delle
forze motivazionali della produzione della PdC.

Gli psicologi di comunità dovrebbero lood around, focus inside.

2.3. Asia e Australia


Giappone

Qui, la PdC nasce sul modello USA, subito dopo Swampscott.

Negli anni 80 sono iniziati alcuni tentativi di stabilire un approccio locale alla
disciplina, volto a sostenere il lavoro degli psicologi in alcune comunità specifiche. Ben
presto, viene posta all’attenzione dei ricercatori e dei professionisti una serie di nuovi
proglemi sociali legati al contesto giapponese (terremoti, anziani, il hikikomori).
La specificità della società giapponese richiede metodi di intervento
culturalmente appropriati, ancora in fase di elaborazione.

Australia

Qui lo sviluppo della PdC sembra seguire un doppio percorso.

A livello formale segue lo stesso trend degli USA e dell’Inghilterra, che viene
favorito dalla vicinanza linguistica.

A livello informale lo sviluppo della PdC è tipicamente australiano, legato ai


temi del pluralismo, della de-colonizzazione e del ri-allineamento politico nella regione
dell’Asia e del Pacifico già a partire dagli anni 70.

Verso la fine degli anni 80, la PdC assume un ruolo importante nel risvegliare la
consapevolezza della “giustizia sociale”; tre distine aree:

- Il movimento femminista e l’attività di psicologhe femministe all’interno


dell’APS.
- La nascita di un Gruppo di interesse dell’APS di “Psicologi per la
promozione della pace nel mondo”.
- Il problema degli indigeni.

Una ulteriore caratteristica è l’esistenza di forti differenze “regionali”; da un lato


sono basate sugli sviluppi della disciplina nell’emisferio Nord del pianeta, dall’altro
presentano aspetti comuni con paesi dell’emisferio Sud, caratterizzati da una lunga
storia di oppressione della popolazione indigena.

In Nuova Zelanda la storia della PdC è la storia stessa della collonizzazione e


dell’interazione continua tra cultura indigena e cultura dei coloni.

Lo sviluppo della PdC come disciplina autonoma data dagli anni 70, quando
vennero istituiti corsi di PdC.

I valori di giustizia sociale, collaborazione e diversità sono alla base della


ricerca. Gli psicologi lavorano a livello macro (colletivo), meso (relazionale) e micro
(personale).

2.4. Africa
Sudafrica

Qui, lo sviluppo della PdC è legato strettamente al contesto sociopolitico. Segue


e si intreccia con la storia dello Stato e si divide quindi in due periodi: pre e post-
apartheid.

Nel periodo dell’apartheid, la PdC, era ampiamente di derivazione statunitense,


dato che tutte le istituzioni erano sotto il controllo e la gestione dei bianchi.

La PdC ha offerto una base teorica agli psicologi che cercavano di fornire servizi
psicologici a comunità traumatizzate e di realizzare azioni di cambiamento di quei
fattori che influenzavano fortemente la salute mentale delle popolazioni.

Cambiamenti significativi a livello teorico sono avvenuti con l’avvento dell’era


post-apartheid. Molti psicologi cominciarono a interessarsi agli approcci della
psicologia comunitaria della liberazione, sviluppati nei paesi dell’America Latina.

Solo con grandi sforzi la PdC si è re-indirizzata verso forme comunitarie di


sostegno alla popolazione e di promozione di azioni di cambiamento sciale.

La PdC Sudafricana compiere un’azione di empowerment dei gruppi, per


spronarli verso azioni colletive volte al cambiamento sociale  Apartheid Archive
Project: oggi è importante che la società sudafricana riveda, riconosca e faccia i conti
con le esperienze traumatiche del passato, per poter gesire meglio il proprio presente e il
proprio futuro.

La PdC è cresciuta come disciplina accademica grazie anche all’ingresso di


intellettuali neri nelle università.

Una delle critiche che viene attualmente mossa alla PdC è il mancato impegno a
sviluppare in modo sistematico una toeira e una pratica che siano “sudafricane”, in
grado cioè di incorporare i sistemi di conoscenza indigeni nella teoria e nelle modalità
di intervento della PdC.

Vi sono relazioni complesse tra i bambini e i loro familiari “sociali” che sono
molto più importante dei genitori biologici. La PdC deve capire queste relazioni se
intende sviluppare interventi in situazioni di rischio e resilienza nello sviluppo dei
bambini.
Camerun

Le radici teoriche della PdC sono da rintracciare nell’antico principio indigeno


della self reliance collettiva, del sostegno reciproco e del senso di comunità. Il
pensiero sociale africano promuove: “insieme è meglio”.

Viene sottolineata la necessità di superare le teorie e le metodologie tradizionali


euroamericane. Occorre abbandonare le modalità occidentali per scoprire nuovi metodi.
Occorre un cambiamento di paradigma.

È una psicologia al servizio di un progetto di liberazione, che pone al suo centro


il quesito “quale realtà conta?”. Ogni comunitpa culturale deve darsi fare con i propri
mezzi per capire l’esistenza umana nelle sue molteplici dimensioni di spiritualità, realtà,
senso di comunità, alla scoperta dei valori propri di iniziativa e dignità delle persone.
3. Il contesto europeo
3.1. Portogallo
L’evoluzione della PdC in questo paese è strettamente legata agli sviluppi storici
e politici che hanno caratterizzato gli ultimi quattro decenni, dalla dittatura di
ispirazione fascista che aveva governato il paese dal 1928 al 1974 alla rivoluzione
democratica dell’aprile 1974 e all’ingresso del paese nell’Unione Europea nel 1986.

È infatti solo con la rivoluzione del 1974 che inizia un periodo di cambiamenti
profondi a livelli sociale ed economico. Gli interventi di comunità si sono indirizzati
inizialmente alle campagne di alfabetizzazione ispirate ai lavori del brasiliano Paulo
Freire.

L’apporto degli psicologi in questa operazione fu praticamente nullo, anche


eprché solo alla fine degli anni settanta sono state istituite le facoltà di Psicologia nelle
tre grandi università statali (Coimbra, Lisbona e Porto).

Un ulteriore passo significativo è stato rappresentato dall’inclusione del paese


nello Spazio europeo e dall’integrazione nell’Unione Europea: le sfide e le opportunità
offerte sono risultate decisice, anche per il decollo della PdC, in termini di
riconoscimento della figura professionale.

L’impulso concreto a programmi di intervento basati sui principi chiave della


PdC ha contribuito in modo sostanziale all’espanzione e al rafforzamento della
disciplina, dal punto di vista di riflessioni teoriche e di sperimentazioni operative.

Gli psicologi di comunità portoghesi, partendo da una prospettiva evolutiva ed


ecologica, sono impegnati ad approfondire i temi dell’empowerment, della cittadinanza,
della partecipazione e del senso di comunità in diversi gruppi sociali.

3.2. Spagna
Allo stato attuale non sembra esserci alcuna definizione consensale di una
disciplina chiamata “psicologia di comunità”.
L’azione di comunità di fatto ha trovato spazio solo dopo la caduta della dittatura
franchista e la lenta transizione verso la democrazia alla fine degli anni 70. È con la
Costituzione del 1978 che in Spagna si crea una struttura di regioni autonome. Questa
nuova organizzazione dei servizi favorisce l sviluppo degli orientamento della PdC e un
crescente impiego di psicologi.

Nel contesto accademico la disciplina rimane legata all’ambito della psicologia


sociale, trovandosi ad agire in una realtà ancora dominata dalla concezione clinica
individualistica. Sono tre gli sviluppi recenti della PdC:

1. Un aumento di pubblicazioni di autori spagnoli, in favore della sua


tradizione trasformativa e impegnata.
2. Un’influenza della PdC latinoamericana molto evidente.
3. Un’attenzione anche ai contributi della psicologia sociale nordamericana ed
europea, soprattuto per gli studi sulle rappresentazioni sociali.

3.3. Germania
Qui la PdC è stata e continua a essere influenzata dai cambiamenti
nell’economia del paese.

Lo sviluppo della disciplina è riconducibile ad alcni fatti storici: la


politicizzazione della psicologia negli anni 70, il movimento della psichiatria sociale
sviluppatosi negli USA.

Negli anni 70 furono istituiti i primi insegnamenti di PdC e uscirono i primi


volumi. La formalizzazione della disciplina con la creazione della Società per la ricerca
e la pratica della psicologia di comunità.

Una delle caratteristiche della disciplina tedesca è lo stretto collegamento tra


ricerca e pratica, sviluppato in numerosi ambiti:

- La psichiatria.
- La prevenzione e la promozione della salute.
- Auto e mutuo aiuto.
- Gli studi sulla rete sociale e sui sistemi di sostegno sociale.
- Gli ambienti di vita e l’analisi delle influenze ambientali sul benessere
individuale e sociale.
- Il counseling.
- Lo sviluppo di metodologie.

Secondo Bergold e Seckinger (2007) la PdC in Germania si trova oggi in una


situazione contraddittoria: vi sono problemi legati all’identità come psicologi di
comunità e altri connessi all’identità della disciplina.

3.4. Norvegia
Lo sviluppo, o in questo caso il mancato sviluppo, della PdC in Norvegia è
legato alle vicende sociali e politiche del paese. La situazione della Norvegia è del tutto
particolare.

Non è facile identificare una branca della psicologia come “psicologia di


comunità”. Uno dei motivi è che gli scopi e gli obiettivi della PdC sono stati assunti dal
sistema del welfare state, che è centrale per lo sviluppo della società norvegese fin dal
secondo dopoguerra.

La psicologia ha dato per scontato il raggiungimento di questi obiettivi e anche


gli psicologi che condividevano i principi della PdC. L’unica eccezione è quella della
psicolgia femminista, che ha dato voce all’analisi delle disuguaglianze di genere tuttora
presenti nella società norvegese.

La PdC norvegese è stata decisamente influenzata dal lavoro di Bronfenbrenner


(1979). Il suo lavoro si concentra sul singolo e sul suo contesto familiare inmediato.

Tuttavia, va evidenziato che i principi della PdC sono più o meno inseriti nelle
ricerche applicate e nei programmi di comunità. Gli psicologi lavorano negli ambiti
della prevenzione, consulenza, supervisione e terapia breve.

Negli ultimi anni la situazione sta cambiando qui, in seguito alla


globalizzazione: il modello scandinavo del welfare state è entrato in crisi. La forma
moderna del capitalismo sta ridefinendo gli ambiti, prima considerati non commerciali,
della salute e dei sistemi di cura, enfatizzando i valori dell’individualismo, del
consumismo e della competizione.

Secondo Carlquist et al. (2007), la PdC nei prossimi anni dovrà fare i conti con
l’aumento delle disuguaglianze sociali, della percezione di ingiustizia e di frustrazione.

3.3. Regno Unito


Si è costituita formalmente nel settermbre 2011 a York. In realtà già da diversi
anni in UK insegnano e lavorano psicologi di orientamento “comunitario”.

In una ricostruzione dell’evoluzione storica della disciplina, Burton et al. (2007)


individuano alcune tappe fondamentali:

1. Prima delgi anni settanta è possibile reperire alcuni precursori: Marie Jahoda,
psicologa sociale che engli anni trenta condusse in collaborazione con altri
professionisti una indagine sui disoccupati di una cittadina austriaca.
2. Nel decennio settanta-ottanta il lavoro degli psicologi si focalizza su alcuni
temi.
3. Negli anni ottanta-novanta si diffonde a livello teorico un nuovo paradigma
antipositivistico legato al costruzionismo sociale, emerge l’interesse per le
problematiche del femminismo ed escono lavori sui metodi qualitativi.
4. Dopo gli anni novanta l’interesse per una psicologia esplicitamente di
comunità riemerge o si consolida in diverse aree del paese. Nel 1991 è stata
fondata la prima rivista europea, il “Journal of Community & Applied Social
Psychology”.

La psicologia di comunità fornisce il quadro di riferimento per lavorare con le


persone emarginate dai sistemi sociali. È un modo di lavorare pragmatico, riflessivo, la
PdC è un’alternativa alla psicolgia dominante individualistica.
4. La situazione in Italia
La PdC è costituita in seguito a un processo di differenziazione da discipline
“vicine”. Il punto di partenza viene riconosciuto all’approccio di Kurt Lewin (1936),
padre fondatore della psicologia sociale, chi a fornito le coordinate fondamentali su cui
impostare le riflessioni e le analisi di PdC.

Il processo di interazione tra sviluppo della disciplina e contesto sociopolitico a


sua volta è connesso con l’elaborazione e la diffusione di modalità operative e techniche
di intervento.

Si deve risalire alla fine degli anni settanta l’uscita del volume Psicologia di
comunità (Francescato, 1977). Nel 1979 e nel 1980 si tennero rispettivamente il I e il II
convegno italiano di PdC, i cui lavori testimoniarono l’esistenza “di fatto” di un numero
consistente di psicolgi che già lavoravano in un’ottica di PdC.

In questo clima culturale fine anni settanta, caratterizzato da una grande vivacità
intellettuale che si espresse in forma di movimenti collettivi contro lo status quo,
ritenemmo importante dar conto di quanto stava maturando nella realtà italiana e
proporre una visione contestualizzata di questo nuovo approccio. Nel 1980 uscì
“Psicologia sociale di comunità” (Palmonari e Zani). Nel 1981 venne creata la
Divisione di PdC della Società italiana di psicologia (SIPS). Dal novembre 1994 la
divisione si è trasformata in Società italiana di psicologia di comunità (SIPCO), che si è
dotata di uno Statuto, un Regolamento e un Codice etico.

Nel 1986 venne istituito l’indirizzo di Psicologia clinica e di comunità, in cui


l’insegnamento di PdC era materia fondamentale.

Oggi l’insegnamento è presente in numerosi corsi di studio di primo livello


(laurea) e secondo livello (laurea magistrale) ma l’offerta di corsi post-lauream è scarsa
nel settore pubblico.

I tei su cui maggiormente hanno lavorato gli psicologi di comunità italiani sono:

- Un forte coinvolgimento nella costruzione di basi teoriche.


- L’interesse a sottolineare il legame tra i processi di valorizzazione del
singolo e le lotte collettive e a collocarsi nell’interfaccia tra l’individuale
e il collettivo, lo psichico e il sociale.
- Promuovere l’empowerment a tutti i livelli.
- Approfondimento del concetto di comunità.
- Elaborazione di metodologie e di strategie di intervento.
- Volontariato.
5. Il dibattito attuale
Lo sviluppo della PdC in Europa è molto diversificato, nonostante, secondo
Kagan et al. (2011) è possibile individuare alcuni temi comuni:

- Il focus sulla comunità come centrale per la disciplina.


- Uno sguardo critico alla psicologia dominante tradizionale.
- Un interesse per il potere, i valori, la giustizia: centrarsi sulla situazione
delle persone che vivono in condizioni di deprivazione, povertà,
oppressione e discriminazione.
- Un interesse per la prevenzione dei problemi piuttosto che per il
trattamento e il rimedio.
- Un’enfasi sul giving psychology away piuttosto che puntuare al suo
incremento.

Dal punto di vista accademico la PdC occupa spesso una posizione marginale,
ma nonostante tutto esiste e i dibattiti ancora attuali che pongono al centro gli
interrogativi sulla sua esistenza sono in fondo un’espressione di vitalità.

5.1. Problemi e sfide: more needed, less wanted?


In un articolo apparso nel “Journal of Community & Applied Social
Psychology”, Francescato e Zani ¨(2010) hanno sostenuto che la PdC in Europa sta
atraversando un periodo complesso e pieno di sfide. Queste sfide possono riassumersi
nei seguenti punti:

- L’aumento della povertà e dell’ingiustizia sociale.


- La presenza di social divides: “convivere” in modo rispettoso e pacifico è
diventato il vero problema a una riduzione della coesione sociale.
- I migranti e le difficoltà strutturali.
- I giovani: in Europa vi è un altissimo livello di disoccupazione e ha come
conseguenza la maggiora difficoltà a vivere in modo indipendente dalla
famiglia.
- Il gap di genere: il potere rimane saldamente in mano al genere maschile.
Le nuove forme di famiglia hanno creato più libertà, ma anche maggiori
occasiosi di conflitto.
- Lo scenario politico: i tagli ai programmi sociali di intervento, i
cambiamenti culturali e socioeconomici creano degli ostacoli allo
sviluppo della PdC. Di qui la situazione “paradossale” che emerge,
caratterizzata dalla consapevolezza dell’efficacia dei programmi di PdC
che sarebbero necessari (more needed), ma dalla mancanza di volontà
politica di destinare fondi per finanziarli (less wanted).
- Se non ora, quando?: il fortunato e provocativo slogan fatto proprio dal
movimento delle donne nelle manifestazioni potrebbe essere preso come
simbolo di un “risveglio” della popolazione verso una presa di coscienza.

Kelly (1990) aveva sottolineato quattro punti rilevanti per mantere e rafforzare
lo sviluppo della disciplina:

1. Adottare approcci alla ricerca multipli e alternativi.


2. Collaborare sia con altre discipline sia con i cittadini.
3. Usare metodi di ricerca-azione.
4. Favorire interventi preventivi che integrino modelli clinici, di comunità e d
sanità pubblica.
Capitolo 2
(Il ruolo del sociale nella psicologia di
comunità)

1. Le ragioni dell’interrogarsi
Interrogarsi sul ruolo che spetta al sociale in questo nuovo campo di riflessione e
di intervento può apparire paradossale. In primo luogo, c’è il fatto che la PdC,
storicamente, è apparsa in continuità con i movimenti sociali che hanno animato la
società civile. La critica psicologia di comunità ha un carattere di critica all’ordine
sociale costituito.

In secondo luogo, è evidente una preoccupazione sociale che in PdC si manifesta


sia nella scelta degli oggetti e delle pratiche volte al cambiamento individuale e sociale,
sia nei suoi valori e principi.

La questione si riferisce soprattutto agli spazi materiali in cui è possibile


individuare una dimensione sociale. Chiarire lo status riconosciuto alla dimensione
sociale docrebbe contribuire al progresso teorico di quella che oggi è considerata una
disciplina autonoma.
2.Uno sguardo alla storia e alle correnti
della psicologia di comunità
Esiste una pluralità di concezioni e pratiche che danno luogo a diverse
psicologie di comunità.

Le correnti più antica è indubbiamente la corrente cosiddetta dell’”educazione


popolare” e della “psicologia della liberazione”, nata in America Latina, che sembra
essere una fonte di ispirazione importante della psicologia critica, è volta alla difesa
delle popolazioni svantaggiate, alla loro coscientizzazione e all’organizzazione e al
sostegno dei movimenti sociali. È da tale prospettiva che derivano i principi
fondamentali dell’intervento di comunità.

Sono state individuate diverse fasi, strettamente legate alla storia politica della
seconda metà del XX secolo, che hanno portato a distinguere tra la psicologia “delle”
comunità, il lavoro “nelle” comunitpa e infile la psicologia “di” comunità.

Fino agli anni sessanta ci sono stati interventi a carattere assistenziale


“paternalistico” volti a permettere l’adattamento “delle” comunità, intese come oggetto
di assistenza, ai cambiamenti indotti dall’introduzione di un modo industriale di
produzione agricola. A partire dalla metà degli anni sessanta si osserva la convergenza
di tre movimenti:

- Espressione popolare di un desiderio di partecipazione alla vita della


società civile.
- Critica al lavoro degli studiosi di scienze umane accusati di essere
rinchiusi nella loro “torre d’avorio”accademica.
- Orientamenti pedagogici ispirati da Paulo Freire.

Tale convergenza condusse gli psicologi sociale a intervenire nelle comunità in


modo volontario, e spesso clandestino, a mettersi al servizio delle popolazioni
svantaggiate.

Dopo il crollo della dittatura, il loro lavoro cessa di essere clandestino e si


oriental negli anni ottanta, a interrogarsi sugli aspetti teorici e metodologici del lavoro
“nelle” comunità.
Questo darà vita, negli anni novanta, all’istituzione di un Psicologia sociale di
comunità. Tale prospettiva intende liberarsi dalle pratiche assistenziali, che
continueranno a essere sviluppate dai loro sostenitori nei modelli dominanti negli Stati
Uniti.

Parallelamente, l’Europa e il Nord America vedono svilupparsi tre orientamenti


che sono alla base della PdC attuale:

- Negli Stati Uniti, la conferenza inaugurale di PdC, tenutasi a


Swampscott, che promuove una migliore condizione di salute e
benessere sociale, li fa eco la corrente della salute mentale. Franco
Basaglia ha creato strutture territoriali di inclusione e sostegno, basate sul
presuppsto dell’organizzazione in rete da parte degli operatori,
dell’accettazione da parte del contesto che accoglieva queste strutture.
- Un’altra corrente è quella focalizzata sulle politiche di prevenzione e di
promozione della salute, che rifiuta le concezioni puramente biomediche
che spiegano l’eziologia delle malattie e ne orientano la cura ignorando i
fattori psicologici e sociali.
- In tempi più recenti, una corrente di psicologia critica raccomanda i
ricorsi alla prospettiva di comunità per contestare i paradigmi dominanti
e rispondere alle minacce sociali legate alla modernità, al liberismo e alla
glibalizzazione.

2.1. I valori difesi in psicologia di comunità

Questi correnti possono richiamarsi a una stessa prospettiva. Tra i valori che
aggregano queste correnti, alcuni sono comuni a tutte, mentre altri fanno riferimento a
oggetti e pratiche di intervento distinte. Quattro tipi di valori sono messi in gioco:

- La difesa dei diritti e degli interessi degli individui e delle comunità, e la


condanna di ogni forma di ppressione e di esclusione sociale.
- La giustizia.
- La solidarietà.
- L’autonomia, la liberazione e l’emancipazione di tali persone e gruppi.

2.2. Principi e modelli di azione


Vengono enunciati principi e modelli di azione differenti. Sul piano dei principi
si raccomandano:

- L’accompagnamento dei gruppi sociali e dei loro membri nella ricerca di


liberazzione e di benessere.
- Il sostegno alle strutture della comunità.
- L’aiuto all’empowerment individuale e collettivo e allo sviluppo della
soggettività e della riflessività.
- La difesa della diversità umana e culturale.
- Il contributo alla rasfromazione e al cambiamento sociale.
- La lotta contro la discriminazione delle persone svantaggiate o affette da
problemi psichici.

Si tratta allora di comprendere e analizzare i processi attraverso cui un gruppo


sociale può arrivare alla coscienza della propria identità nelle condizioni di vita
quotidiana.

Ne deriva una sorta di lavoro colletivo orientato all’identificazione dei bisogni e


delle domande condivise nella colletività.

Questa concezione dell’attività ne definisce un nuovo status o ruolo:

- Non è più il solo detentore della conoscenza in gioco.


- Non è più la sola autorità che dirige il cambiamento.
- Gioca un ruolo di catalizzatore, facilitatore.
- Non tratta i suoi partner come soggetti di ricerca ma come attori liberi.
Da ciò l’importanza della conoscenza locale e della sua valorizzazione.

La salute di comunità, inoltre, è sottesa da prospettive politiche. Essa si prefigge


di:

- Oltrepassare i limiti imposti dal modello biomedico della salute pubblica.


- Promuovere un sistema aperto, che favorisca l’acquisizione di
atteggiamenti verso una gestione autonoma delle cure.
- Modificare lo status dei professionisti della salute che devono mettersi al
servizio della comunità e dei suoi membri.

Tutte le correnti propongono una visione olistica e sistemica. Operano uno


spostamento di responsabilità. Postulano l’interdipendenza tra ambiente di vita e stati di
malessere sociale o di malattia. Va notato che questa prospettiva si avvicina a quella
della psicologia ambientale.
3. Il ruolo del “sociale” nella
psicologia di comunità
Le situazioni e le azioni sociali sono dirette dalle norme e dalle posizioni degli
attori, che sono codificate nella struttura dei rapporti sociale.

Tuttavia l’articolazione tra contesti e rapporti sociali rimane poco esplorata o


definita in modo approssimativo per il fatto che alcuni fenomeni o processi vengono
“traslocati” tra le differenti correnti della PdC.

Questa indeterminatezza dipende anche dal modo di concettualizzare la


comunità. L’uso del concetto di comunità rimanda in effetti a cose diverse; tale uso
inoltre si è evoluto nel corso del tempo. L’analisi del contenuto delle ricerche che hanno
utilizzato il concetto di comunità permette di individuare due grandi tendenze: una
empirica e l’altra teorica.

In alcuni casi si riferisce al concetto di comunità per indicare insiemi sociali


concreti, oggetto di osservazione e di intervento. Questi insiemi vengono definiti a
partire dalle loro caratteristiche territoriali. È sufficiente riconoscere le differenze
concrete per rendersi conto che la dimensione sociale può svolgere ruoli diversi. Questa
osservazione impone di esplorare il legame tra i processi che regolano le relazioni
sociali e i contesti particolari nelle quali tali relazioni si stabiliscono.

Si può anche osservare il modo in cui la comunità nel corso del tempo ha
ricevuto uno status di operatore ideologico, assumendo così una connotazione utopica.
La comunità diventa uno spazio di riferimento che rimanda a forme di socializzazione
passata che possono rivestire una qualità negativa o ideale.

Nell’epoca moderna recente la comunità è divenuta oggetto di dibattito tra


colore che sostengono il progresso sociale e coloro che si oppongono alla
modernizzazione.

Accanto ad autori che hanno sottolineano la dimensione concreta del concetto di


comunità, ve ne sono altri che lo hanno reso un costrutto teorico che risponde a più
obbiettivi. La comunità allora è considerata come uno spazio simbolico e materiale in
cui si forma l’identità sociale e il sentimento di appartenenza e dove si elaborano le
interazioni positive o conflittuali; i rapporti sociale sono collocati a livello delle
relazioni interindividuali, intra e intergruppi.

Questa concezione permette di ricollegare il ruolo delle rappresentazioni sociali


nella dinamica sociale che regola le relazioni tra i membri di un gruppo sociale e tra
gruppi differenti.

Si può pensare che questa tendenza a trattare di comunità senza integrarne le


dimensioni sociali sia dovuta probabilmente al fatto che, da Tonnies (1887) in avanti,
l’idea di comunità è stata opposta a quella di società. La prima, basata sulla volontà
organica. La seconda, è basata su una volontà razionale ispirata da modi di pensare
caratterizzati dall’individualismo.

Se il concetto di comunità o di comunitario è difficile da comprendere, questo


accade poiché si colloca tra due polarità di cui una lo diluisce e l’altra lo irrigidisce.
Dall’altra parte, alcuni vedono nel fenomeno di comunità o comunitario il segnale di un
ripiegamento su particolarismi etnici, culturali, religiosi che allontanano dalla
collettività cittadina e dai valori universali, siano essi repubblicani o meno. Questa
caratterizzazione particolarista età già stata stigmatizzata che impediva all’individuo di
raggiungere i valori universali.

Tutto ciò non impedisce che oggi a questo termine nelle scienze umane sia
attribuito un senso e uno status positivo. La riabilitazione del concetto di comunità
rende ancora più urgente il compito di definirne forme, dimensioni e proprietà.
3. I luoghi di osservazione della
dimensione sociale
In storia si parla di comunità a proposito di gruppi che si sono costituiti nel corso
del tempo, in un luogo e che condividono una medesima cultura e una medesima lingua.
Questa prospettiva complessiva trava un’eco nelle altre scienze umane.

La filosofia fa altre aggiunte: l’unirsi intorno a valori o interessi comuni e


richiamare nuove concettualizzazioni che si riferiscono all’attività di ricerca e di
innovazione scientifica e tecnica, dalle “comunità scienfitiche”, analizzate oggi in
termini di reti di attori.

Queste comunità di apprendimento o cognitive consentono di scambiare e


trasformare conoscenze tacite in esplicite.

Nel diritto civile o amministrativo si fa riferimento a una formazione diversa da


quella di una società o di una associazione, poiché il concetto di comunità non
presuppone che le persone decidano volontariamente di coinvolgersi o di appartenere al
gruppo. Il concetto si applica a forme di collettività definite dalla loro territorialità, dalla
città alla nazione.

A proposito di queste differenti accezioni, è possibile individuare le


caratteristiche sociale che possono giocare un ruolo nella dinamica della comunità. Per
mostrarli, è opportuno ricorrere al paradigma dei quattro livelli di analisi in psicologia
sociale proposti da Doise (1982): livello individuale, interindividuale, intergruppi,
culturale e ideologico. Avvicinato dal modello ecologico di Bronfenbrennet (1979), il
quale, distinguendo gli ambienti più o meno vicini al soggetto, produce la definizione di
contesti (macro, micro, meso ed esosistema).

In una accezione storica, sociale e antropologica la dimensione sociale interviene


sia a livello soggettivo, negli individui che appartengono a una colletività, sia a livello
di tale collettività.

Quando il termine “comunità” si applica a degli isiemi come la famiglia, la


scuola, l’ospedale, si è in presenza di quelle che gli psicologi chiamano le “agenzie
sociali”: organizzazione che funzionano regolarmente, in base a norme che garantiscono
il funzionamento e la distribuzione di ruoli tra i membri.

Infine, la prospettiva derivata dal diritto orienta l’attenzione sugli spazi sociali
definiti da un contesto territoriale e da relazioni di prossimità che non sono
necessariamente scelte.
4. Condizioni e ostacoli all’intervento in
una cornice di comunità
Le difficoltà incontrate quando si interviene a sostegno di categorie svantaggiate
vengono attribuite alle pressioni che si esercitano sulle stesse. Si enfatizza
l’interiorizzazione dell’immagine negativa che il contesto sociale rmanda alle vitttime
della discriminazione e dell’oppressione.

La centratura sui destinatari dell’intervento di comunità a volte fa dimenticare


che il contesto di vita non è soltanto un fattore determinante della situazione da
modificare. È anche lo spazio in cui si accolgono le trasformazioni proposte.

4.1. Esempio 1: Il fallimento di un intervento

Basato sulla esperienza di Jodelet nella colonia familiare di Ainay-le-Château


(Jodelet, 1989), che offriva un sistema di affido familiare a coloro che uscivano da una
istituzione psichiatrica.

Ciò che Jodelet ha scoperti sul sistema di relazioni sociali stabilito tra la
popolazione e gli utenti dell’ospedale psichiatrico ha dimostrato la forza delle reticenze
e delle difese sociali che provocano.

In effetti la comunità di accoglienza dei malati mentali era esposta alla condanna
da parte della popolazione esterna al perimetro della colonia familiare, che attribuiva
alla presenza dei malati il rischio di contaminazione e di deterioramento della facciata
sociale. Inoltre, la popolazione esterna esprimeva giudizi negativi sulla moralità di
coloro che accoglievano i malati. Ne scaturirono pratiche che reintrodussero nella vita
quotidiana quelle barriere che l’abbattimento delle porte dei manicomi avrebbe invece
dovuto eliminare.

È stato possibile identificare un processo di difesa da parte della comunità che


non voleva permettere l’integrazione dei malati al suo interno per paura di essere
identificata con i malati dalle comunità vicine.
Il fatto che questa rappresentazione fosse condivisa da tutti dipendeva in qualche
modo dall’elaborazione collettiva degli scambi e della comunicazione sociale. Si
ritrovava anche tra le persone che avevano stabilito una relazione di vicinanza con i
propri ospiti. Esse esprimevano pure la loro impossibilità morale a mantenere delle
relazioni di esclusione con persone di cui riconoscevano l’umanità.

Jodelet si è proposto un intervento successivo con le persone impegnate nella


presa in carico dei malati di mente. Questo progetto è abortito e il suo fallimento
permette di discutere alcuni problemi che la ricerca-azione può incontrare. In questo
punto, lei è stata difiutata da tutti, compreso il personale ospedaliero. Questo è accaduto
nel momento in cui si sono accorti che avevo penetrato gli arcani della vita locale, con
le sue credenze, i suoi timori, i suoi segreti. Il gruppo non poteva tollerare una devianza
esplicita al suo interno.

Insegnamenti da questo esempio:

- Di fronte a un intervento, un gruppo può certamente attivare dei


comportamenti e delle procedure che gli consentono di difendere e
proteggere i segreti che lo legano alla comunità. In questo caso non si
può parlare né di conscientizzazione né di rivelazione del senso
inconsapevole delle pratiche.
- Ci possono essere interventi che non vengono attivati direttamente.
Questo vale in particolare nei casi di denuncia. Eppure, come dice
Touraine (2003), bisogna lavorare anche con i gruppi che si oppongono
ai nostri valori, senza screditarne l’approccio.
- La reazione di resistenza da parte di un gruppo può mostrare che le sue
dinamiche sono state ben comprese da chi interviene. La ricerca non è
sempre fusionale, a volte è conflittuale, scomoda.

3.2. Esempio 2: Una lotta per la salute

Messico, Arrenque parejo en la vida. Lo scopo del programa è dare alle


popolazioni povere e bisognose opportunità pari a quelle delle classi più agiate in
materia di tutela/conservazione della salute materna, neonatale e della prima infanzia.

Questo intervento ha permesso di ridurre la mortalità materna e neonatale del


52% in tre anni, rifacendosi a un modello innovativo. Da un lato la mobilitazione degli
abitanti. Dall’altro un lavoro interculturale con il personale sanitario, che aveva il
compito di relazionarsi con i membri delle comunità rurali per sensibilizzarli alla cultura
delle comunità indigene.

Quando le levatrici tradizionali ritengono che il loro intervento non sia in grado
di ridurre il rischio di moralità, esse prendono l’iniziativa di accompagnare le donne
verso i centri di cura.

La partenza per l’ospedale provoca sentimenti di insicurezza e movimenti di


rivolta contro la distruzione delle norme familiari. Succede che le ausiliare al servizio di
sanità pubblica siano costrette a lottare fisicamente con il marito e la suocera, arrivando
addirittura a legarli, affinché non impediscano loro di partire.

Quando il cambiamento delle pratiche penetra il tessuto sociale, impegnando sia


il campo della salute e della salute mentale sia quello delle lotte politiche, si profila un
altro obiettivo per la PdC: lottare contro il pregiudizi che rimangono e impediscono il
cambiamento. La lotta a ciò che ostacola il cambiamento rappresenta un nuovo compito
per la PdC.
Capitolo 3
(Disuguaglianza e ricerca dal punto di
vista della psicologia critica di comunità)
1. Disuguaglianza come focus della
ricerca
Un programma di ricerca epidemiologica internazionale ha dimostrato che i
cosiddetti “paesi sviluppati” sono caratterizzati da ferarchie di potere sociale e di
privilegio, e che le persone situate alle estremità inferiori di queste gerarchie hanno tassi
di mortalità di gran lunga superiori rispetto a quelli delle persone al vertice di tali
gerarchie.

Questo può portare a differenze forti e inquietanti nell’aspettativa di vita. Più


radicalmente, questo programma di ricerca ha anche dimostrato che i paesi, gli Stati e le
città che sono più egualitari, sono caratterizzati da una maggiore aspettativa di vita,
migliore salute e minore malessere sociale.

Fryer si focalizza sulla relazione tra posizione gerarchica e malessere, perché:

- La gerarchia può essere operazionalizzata in termini non solo di reddito.


- Alcune ricerche hanno mostrato che una posizione gerarchica più bassa,
piuttosto che la povertà, è centrale nel malessere.
- Una ricerca sperimentale con scimmie cynomolgus, la cui posizione nelle
gerarchie sociali è stata sperimentalmente manipolata verso il basso, ha
mostrato che la retrocessione aumenta l’arteriosclerosi coronarica, la
disfunzione di ipotalamo-ipofisi-surrene e quella ovarica.

Ma queste ricerche non mettono in luce i dettagli dei meccanismi sociali


attraverso i quali le persone sono (ri)collocate in gerarchie caratterizzate da
disuguaglianze nel potere e nei privilegi. Un’area importante è la ricerca psicologica
sull’impatto della disoccupazione.

La disoccupazione è coinvolta nella costruzione sociale della malattia mentale.


Il malessere psicologico era la conseguenza, e non la causa, delle transizioni nel
mercato del lavoro.

Evidenze empiriche coerenti sono state riportate da studi effettuati in tutta


Europa, Nord America e Australia. Allora le conseguenze psicologiche negative della
disoccupazione sono così state considerate una scoperta empirica.
Se accettiamo che la disoccupazione causa malessere psicologica, si pone la
questione di quante persone ne sono colpite. Non esistono dati che possono dire con
esattezza il numero reale di queste persone ma significa che il numero dei disoccupati,
così come inteso in questo capitolo, è ampio e di gran lunga superiore alle stime
ufficiali.

La letteratura suggerisce che molte persone, oltre agli attuali disoccupati, sono
psicologicamente influenzate in modo negativo dalla disoccupazione, che l’impatto
della disoccupazione può persistere anche dopo la ri-occupazione e che un lavoro
insicuro e di scarsa qualità ha conseguenze sul malessere simili alla disoccupazione.

Nelle moderne società industriali la disoccupazione è un potente meccanismo


attraverso il quale la disuguaglianza è costruita e mantenuta a livello socioeconomico.
La disuguaglianza sociale è socialmente costruita nelle nostre società.

L’OMS afferma che “la carenza di psichiatri, infermieri psichiatrici, psicologi e


assistenti sociali è uno dei principali ostacoli nell’offerta di cura e trattamento nei paesi
a basso e medio reddito”.

Tuttavia, la vastità dei problemi è tale che gli operatori non potrebbero mai
essere abbastanza per “trattare”, una alla volta, tutte le persone che stanno soffrendo.

Infine, l’intervento individualista, che assume una causalità intrapsichica dei


problemi dovuti alla disuguaglianza sociale, collude con il biasimare la vittima e
promuovere gli interessi dello status quo che trae beneficio da quella disuguaglianza.
1. Disuguaglianza come
conseguenza della ricerca?
Refiriendoci alla disoccupazione, la straordinaria coerenza dei risultati attraverso
il tempo, la cultura, i metodi e el tecniche di ricerca è generalmente intesa come un
indice di affidabilità e validità, ovvero come una base statisticamente significativa per
affermare che la disoccupazione provoca la malattia mentale. Ma, secondo Tuhiwai
Smith, questa straordinaria coerenza potrebbe forse essere meglio interpretata come
base per sostenere che la “conoscenza” sulla disoccupazione e sulla salute mentale era
stata costruita coerentemente e utilizzata ideologicamente per promuovere il potere di
forti gruppi di interesse, che la coerenza dei “risultati di conoscenza” attraverso il
tempo, la cultura, i metodi e le tecniche di ricerca riflette semplicemente e in modo
coerente gli interessi dello status quo.

Mentre è abbastanza ovvio capire chi ha interesse a sostenere che il malessere


psicologico causa la disoccupazione, non è altrettanto ovvio capire che la credenza della
causalità sociale, cioè sostenere che la disoccupazione causa disturbi mentali, è dannosa
per lo status quo ed è nell’interesse dei disoccupati.

La disoccupazione di massa serve gli interessi dello status quo in diversi modi:
la disoccupazione di massa non voluta garantisce che ci siano potenziali lavoratori
disposti a fare i lavori più noiosi e perciò funziona in modo efficace come politica dei
redditi, poiché garantisce che ci siano persone disoccupate che competono per i lavori
delle persone occupate, agevolando così i datori di lavoro nel ridurre i salari e le
condizioni di lavoro.

Per capire questa situazione, è di aiuto affermare che i disoccupati sono persone
povere-disastrate e che devono passare attraverso rituali intrusivi e degradanti per
ottenere una miseria che permette loro di mantenersi sani abbastanza da competere per
il lavoro, ma non abbastanza per avere uno stile di vita valido alternativo.

La disoccupazione deve essere ed è vista in modo negativo, per funzionare


efficacemente come strumento di controllo sociale. Ricercatori in ambito psicologico
possono avere lo scopo di dimostrare che la disoccupazione causa malessere psicologico
(e non che i problemi psicologici causano disoccupazione), ma finiscono per contribuire
alla costruzione sociale discorsiva del malessere associato alla disoccupazione.

Le ricerche pubblicati da psicologi clinici hanno valutato una terapia cognitivo-


comportamentale a persone diosccupate. La logica di fondo è che aumentando
l’efficacia dei disoccupati nella ricerca del lavoro si può aumentare la loro probabilità di
diventare nuovamente occupati e così eliminare il rischio degli effetti psicologici novici
della disoccupazione su di loro.

Fryer è interessato in modo critico a capire:

- Di chi sono gli interessi a servizio dei quali si sostiene che i problemi di
salute mentale dei disoccupati non sono causati da eventi socioeconomici
esterni.
- Quali sono le implicazioni di questo lavoro rispetto all’attribuzione della
colpa per il danno psicologico prodotto dalla disoccupazione.
- Come gli interessi delle varie parti sarebbero serviti se ci fosse la
convinzione che la malttia mentale causata dalla disoccupazione fosse
reversibile attraverso poche sessioni di psicoterapia.
- A chi giova (beneficia) credere che la disoccupazione di massa possa
essere affrontata con trattamenti cognitivi di persone dopo che queste
sono diventate disoccupate, piuttosto che con la prevenzione
socioeconomica collettiva prima che le persone perdano il lavoro.
- A chi giovano gli interventi che creano e mantono un eccesso di
potenziali lavoratori oltre l’offerta e allenano queste persone a competere
fra di loro piuttosto che interventi volti a creare e a mantenere posti
vacanti in eccesso rispetto ai potenziali lavoratori e ad allenare i datori di
lavoro a competere tra di loro per ottenere un numero insufficiente di
potenziali dipendenti.
- A chi giova creare l’illusione di un intervento efficace attraverso
l’aumento delle possibilità per i disoccupati di un reimpiego che
ridistribuisce semplicemente la miseria della disoccupazione da un
sottogruppo a un altro.
- Fino a che punto la costruzione e l’uso di certe “conoscenze” relative alla
disoccupazione, l’occupazione e la salute mentale sono utilizzate per
promuovere il potere dello status quo, piuttosto che il potere dei
disoccupati.
Tuttavia, secondo una prospettiva critica, ci sono molte versioni della realtà, in ciascuna
delle quali “la realtà” è costituita attraverso la produzione soggettiva di senso di una
intersezione unica di strutture che sono sociali. La versione dominante della conoscenza
è appunto la versione della realtà al servizio degli interessi del gruppo più potente. Gli
psicologi
Capitolo 4
(La psicologia di comunità come linking science.
Potenzialità e sfide delle competenze transdisciplinari)
1. Introduzione
La PdC è stata caratterizzata da una ricerca di identità politica, come psicologia
tesa ad aumentare la giustizia sociale e il benessere individuale all’interno di una realtà
complessa.

La psicologia dovrebbe promuovere i concetti di benessere e felicità come


“valute psicologiche”. Per raggiungere questo obbiettivo, la psicologia deve avere un
impatto su tutte le sfere della vita sociale (economica, politica, dei sistemi sociali e
comunitari, etc.)

Numerosi studi multidisciplinari hanno mostrato che il mantenimento delle reti


sociali, le pratiche di comunity-building e il rafforzamento del processo di
empowerment rappresentano la chiave per il benessere individuale.
2. Concetti per una “scienza di
collegamento”
Se si confronta la PdC con le altre discipline psicologiche, il quadro che emerge
è piuttosto paradossale. Se da un lato la PdC appare come una “piccola isola” di scienza
all’interno della più ampia disciplina psicologica, dall’altro i discorsi e i temi di ricerca
della PdC sembrano avere un impatto notevole su tante altre discipline.

Poiché il concetto di PdC è per sua natura transdisciplinare, la sua identità porta
con sé un’ampia gamma di linee di ricerca locali e individuali, e tenta di integrare al suo
interno i sistemi di valori personali con la ricerca e la pratica interdisciplinari
scientificamente fondate.

La concezione transdisciplinare della PdC avrebbe in sé le potenzialità per


diventare una delle psicologie applicate più forti nella società civile. Questo sarebbe
possibile collegando tra loro:

- I punti di forza di diverse discipline tradizionali.


- Gli ambiti della scienza accademica con le aree della pratica.
- Lo sguardo analitico sul passato con le idee creative per il futuro.

La PdC intesa come scienza di collegamento intende liberarsi dai limiti derivanti
dalle discipline e tassonomie accademiche tradizionali.
3. Il community-building in una
società civile
Analizzando i rischi e le possibilità della globalizzazione, alcuni ricercatori
famosi quali Anthony Giddens (1999), Zygmunt Bauman (2000) e Ulrich Beck (2005)
concordano nel ritenere che i processi attivi di community-building volti a sviluppare
una cultura di “comunità di apprendimento” saranno indispensabili per superare i rischi
e i pericoli della globalizzazione.

La PdC del futuro deve riadattare il modello tradizionale di comunità intesa


come realtà locale territoriale, a favore di una visione sistemica del ruolo del
community-building nelle organizzazioni, nelle reti sociali non solo a livello locale ma
anche a livello della società civile.

Per la PdC sarà necessario sviluppare un’identità nuova e rafforzata, basata su


alcuni valori fondamentali e in grado di far fronte alle sfide di un mondo complesso e
globalizzato. I passi descritti di seguito potranno servire come linee di quida per la
ricerca e l’azione:

- La PdC diventerà sempre più globale.


- Un approccio di PdC deve tenere conto di una molteplicità di prospettive.
- La PdC diventerà più impegnata nella formazione e
bell’istituzionalizzazione delle politiche economiche e sociali.
- La PdC diventerà un campo di ricerca e azione che farà la differenza
nelle questioni che hanno a che fare con il cambiamento sociale mediante
la promozione della giustizia sociale..

La PdC dovrebbe iniziare a essere una vera scienza di collegamento:

- Scoprendo modelli di empowerment tra gli individui, i gruppi e le


strutture sociali.
- Imparando non solo dal passato, ma anche dal significato delle nuove
situazioni emergenti.
- Stabilendo nuove alleanze intersettoriali e sperimentando nuove forme di
collaborazione tra i differenti attori nella società.
- Favorendo la reciproca assunzione di rischi.
Vengono descritte tre aree transdisciplinari e i loro possibili legami con la PdC:
empowerment patterns, presencing e design thinking.

3.1. Scoprire gli empowerment patterns

Il cocetto di empowerment è stato adottato in diverse legislazioni europee e si è


sviluppato come sinonimo di approcci innovativi alle sfide sociali e alla crescita di una
società civile orientata al consumatore e al pro-sumer (produttore e consumatore).

L’idea di un pattern language è stata adottata da molte discipline ma ha un


potenziale non ancora del tutto evidente: collegare il sapere delle varie discipline al fine
di comprendere e praticare l’arte dell’empowerment e del community building a partire
da prospettive differenti, sviluppandone le diverse potenzialità. Douglas Schuler (2008)
e il suo Public Sphere Project hanno iniziato a sviluppare un pattern language per
l’organizzazione della comunità e per il community building, che potrebbe innescare un
avanzamento nello sviluppo di un “linguaggio a modelli” per l’empowerment e il
community building, basato sulla conoscenza scientifica della PdC unita ad altri settori
accademici e professionali.

3.2. Presencing: imparare dal futuro emergente

Il concetto di presencing (Senge et al., 2004) cerca di ampliare le nostre


conoscenze e le prassi di community building, trasformando la nostra abitudine ad
apprendere dal passato in una valorizzazione delle potenzialità racchiuse nei contesti, e
creando una profonda innovazione mediante il passaggio dall’interesse per l’ego-
sistema all’interesse per l’eco-sistema. Scharmer sostiene l’utilità di rallentare l’attuale
processo di presa di decisione, ridare vita alle fonti di creatività comune e di ispirazione
indipendente.

Per riscoprire la nostra fonte di creatività personale e collettiva Scharmer (2007)


propone un processo a sette passi che inizia dall’identificazione dei vecchi schemi di
problem solving, trasferisce il loro significato all’interno di nuove prospettive e di una
visione più ampia, identifica nuove potenzialità di creatività collettiva, consolida una
nuova visione e sperimenta idee innovative. Questa organizzazione potrebbe essere un
modello di percorso di apprendimento in PdC.
3.3. Design thinking: apprendimento esperienziale basato sulla
transdisciplinarità

A partire dalla Stanford University, da alcuni anni le scuole di design thinking si


stanno infatti diffondendo nel mondo, mostrando come gli approcci transdisciplinari
possano essere d’aiuto nell’affrontare i problemi sociali.

Il concetto alla base del design thinking esemplifica le potenzialità di un


approccio transdisciplinare ai problemi sociali, in grado di sviluppare un quadro di
collaborazione e di collegamento fra attori sociali, discipline accademiche e prassi
differenti.
4. Prospettive per una psicologia di
comunità del futuro
La PdC dovrebbe empowerizzarsi impiegando le proprie competenze per
sviluppare innovazioni sociali e per guardare agli scenari futuri, proponendo obiettivi
condivisi in collaborazione con altre discipline, aziende o altri attori nella società.

L’ambito della PdC dovrebbe focalizzarsi su micro e macroquestioni di


community building insieme a partner diversi.

In Europa, l’Unione Europea e la Commisione Europea saranno tra i partner più


importanti nel rafforzare i processi di community building e il senso di comunità nella
nostra società.

Occorrerebbe creare dei Gruppi di interesse di comunità che in futuro saranno in


grado di mantenere e promuovere il ricco corpo di conoscenza sul community building
e di sviluppare temi che potranno essere importanti per la nostra società.

Si dovrebbe rafforzare le competenze DSA (di Design, Sociali e di Azioni) per


una futura PdC transdisciplinare:

- Le competenze di design svilupperano le abilità strategico-innovative e


creative.
- Per quanto riguarda le competenze sociali, gli studenti e i professionisti
faranno esperienza dell’arte del community building come background
innovativo ed empowering.
- Le competenze di azione di focalizzeranno sulle modalità per co-creare,
implementare e valutare nuovi concetti e innovazioni sociali.
Capitolo 5
(Dalla complessità e giustizia sociale alla coscienza:
idee che hanno costruito la psicologica di comunità)
1. Introduzione
Una veloce analisi delle riviste di PdC mostra che la maggior parte degli articoli
si riferisce a lavori di carattere preventivo. E in questi lavori si sottolinea la necessità di
effettuare anche cambiamenti sociali.

In questa figura si mostrano le idee che contraddistisguono la PdC come


sottodisciplina psicologica di carattere partecipato, impegnato, integratore, liberatorio,
critico e consapevole.
2. L’idea di ecologia del contesto
Diversi autori hanno costruito un focus intorno alla considerazione ecologico-
contestuale e culturale propria del paradigma relativista quantistico.

James G. Kelly (1966) intuisce che per lavorare con le comunità si deve capire
che ognuna di esse è unica, che la relazione epistemologica tra i ricercatori e le persone
oggetto della ricerca, nel lavoro di ricerca e azione comunitarie, è complessa poiché
genera una relazione di influenza reciproca e di doppia costruzione di senso. Il sapere
prodotto ha bisogno di costruzione, esame e rielaborazione continui a causa del suo
costante cambiamento.

Incontriamo questo focus anche in Rappaport (1977), che integra l’aspetto


ecologico con il riconoscimento dell’inevitabile esistenza di valori in ogni relazione.

Questa ricca relazione complessa è una dimostrazione della complessità del


mondo comunitario che è il nostro campo di studio.

La maggior parte dei lavori pubblicati in inglese, e molti anche in spagnolo, nel
campo della PdC, sono forme di intervento di prevenzione.
3. L’idea di relazione
La maggior parte delle volte parlando di comunità si fa riferimento a un gruppo
che ha una storia, una cultura, e/o una sottocultura. Solo le relazioni che si creano tra le
persona a generare quella configurazione che si chiama comunità e a determinare i
limiti speciali del territorio, se ci sono.

Il lavoro psicosociale comunitario parte dalla costruzine di relazioni tra agenti


esterni (noi, coloro che lavorano, da fuori, con le comunità) e agenti interni (le persone
interessate a realizzare cambiamenti), poiché questo lavoro è una forma di azione
condivisa (agencia compartida).

Nella PdC molte volte le comunità sono questi altri, la cui alterità spesso è stata
anche definita in modo negativo, relegandoli all’esclusioni.

Per il suo mandato principale di giustizia sociale la PdC cerca di eliminare le


forme di esclusione. Questo episteme conduce a forme di potere simmetrico, evitando
così tre forme di esclusione (Montero, 2003):

- L’esclusione dell’Altro dall’universo contenuto nella totalità.


- L’esclusione dell’Altro dal mondo della vita controllato da altre persone.
- L’esclusione dell’Altro negato, sottomesso, squalificato e costruito come
negativo, la cui indipendenza si nega o si sopprime.

Queste forme di esclusione costituiscono ciò che Lévinas (1977) ha chiamato


“ontologia dell’egoismo”, “forma per eccellenza per la quale l’altro diventa sé stesso
convertendosi in me”.
4. L’Alterità
Molto del lavoro che fa la PdC è diretto a riempire le carenze o a conseguire
l’uguaglianza nei servizi pubblici da parte di esseri definiti come diversi, come Altro
esterni, che appartengono alla stessa società ma non la sfruttano sul piano
dell’uguaglianza.

È necessario capire che questo altro al quale ci avviciniamo deve essere parte di
una relazione caratterizzata da uguaglianza e rispetto.

La nozione di Altro e di ciò che Lévinas (1977, 1989) e Moreno chiamano


“episteme dell’Alterità” definisce questo Altro riconosciuto come soggetto nella
definizione della relazione di lavoro psicosociale comunitario come:

- Un attore sociale con opinioni, desideri, aspettative e voce propria.


- Appartenente a una cultura e con una storia.
- Un/a produttore/produttrice di conoscenza.
- È un agente interno che partecipa.

Accettare l’altro nella sua alterità significa che la critica destinata a rompere i
canoni idelogizzati e ideologizzanti si deve applicare allo stesso modo agli agenti
interni, come agli agenti esterni.

E questa idea porta direttamente a un’altra idea, fondamentale nella PdC: la


partecipazione.
5. Il binomio partecipazione-
impegno
C’è consenso nel considerare la partecipazione un aspetto centrale e forse il più
importante per la PdC. Quando si parla di partecipazione nella PdC, il termine si
riempie di significati. Il primo è che non si tratta di qualcosa che può essere portato a
termine individualmente, poiché significherebbe distruggere il senso e la nozione stessa
di comunità.

Fin dalle sue origini la PdC, anche nella sua forma di Psicologia sociale
comunitaria, comprende la partecipazione, poiché è quest’ultima che permette di
realizzare le trasformazioni che rispondono alle aspettative e alle necessità delle
comunità.

Già dagli anni ottanta si riconosceva che il fattore impegno gioca un ruolo
fondamentale.

Anche se né la partecipazione né l’impegno sono eterni, la loro presenza insieme


può dare delle risposte ai cambiamenti nella comunità. La pratica comunitaria ha
permesso di identificare alcuni aspetti che fanno del binomio parteicpazione-impegno la
base per una teoria della partecipazione nella PdC:

- La relazione diretta osservata nei gruppi e nelle persone; a una maggiore


partecipazione corrisponde un maggior impegno e viceversa.
- Questo si è verificato nella pratica, con diversi gradi o livello di
partecipazione impegnata.
- Esiste una tendenza che fluttua in senso centripeto e centrifugo in
riferimento ai livelli di partecipazine o al/ai nucleo/i di maggior
partecipazione impegnata in una comunità.
- Quando c’è partecipazione impegnata, i vincoli permangono.
- L’impegno partecipativo deve esserci tanto negli AI (agenti interni)
quanto negli AE (agenti esterni).
- Lo scambio di conoscenze scientifiche o specialistiche e di conoscenza
popolare che proponevano Freire (1970, 1973) e Fals Borda (1978,
1985) si realizza attraverso la partecipazione-impegno.

Dalla partecipazione impegnata derivano altre idee:


- Il carattere attivo di tutto l’essere umano: nessuno è troppo povero,
troppo ignorante per non poter partecipare.
- La condizione politica dell’azione comunitaria: prodotta dalla
partecipazione impegnata, che nel prodursi costituisce una forma di
azione nello spazio pubblico e insieme una forma di appropriazione di
tale spazio, come forma di attività di cittadinanza.

5.1. I metodi partecipativi


Non proprio un’idea, ma un’azione, e molto importante, è l’adozione di metodi
partecipativi creati nelle altre scienze sociale e che si usavano con successo nei lavori
sociologici, antropologici ed etnometodologici (ricerca-azione partecipata, interviste
partecipate, osservazione partecipante...), metodi che, ripresi dalla PdC, sono stati
adattati al lavoro psicosociale di comunità. Questi metodi non solo hanno una funzione
guida per l’azione, ma in più sviluppano e rafforzano l’azione partecipata e l’impegno in
essa.
6. L’idea di potere simmetrico
Si sviluppa inizialmente nella pratica e solo in seguito viene teorizzata.

Il “potere simmetrico” sembra un ossimoro (oximorón/contrasentido), ma


quando si accetterà che possano esistere forme diverse di esercitare il potere tali da
rompere l’asimmetria, si potranno realizzare cambiamenti giusti e duraturi.

Serrano García e López Sánchez definiscono il potere come “una interazione


personale, o indiretta, e quotidiana, nella quale le persone manifestano i loro consensi
sociali e le divergenze tra la loro esperienza e la loro coscienza”. Loro considerano il
potere una relazione.

L’idea, introdotta da Crozier, di utilizzare strategie di potere potrebbe servire


per definire questa relazione intrecciata, rendendo possibile la contrapposizione tra le
risorse, entrambe asimmetriche, per trovare equilibrio nella relazione e nell’accesso a
ciò che si deridera.

La figura illustra la situazione di potere asimmetrico e simmetrico.


7. Un’idea derivata dal bisogno:
l’empowerment
La mancanza di consapevolezza del potere che si può avere ed esercitare per
trasformare la cosa o per ottenere una migliore qualità di vita è un problema ben
presente nell’ambito della PdC. Nel 1981 Rappaport ha introdotto il concetto di
empowerment, come una modalità di sopperire (hacer frente a) alla carenza di potere
per mezzo dello sviluppo della coscienza del proprio potere o delle proprie capacità.

Nel 1984 Rappaport ha definito il concetto di empowerment un insieme di


possibilità.

L’idea ha sviluppato una vita propria ed è forse una delle più riuscite a giudicare
dal suo tasso di utilizzo nel campo della ricerca, dell’intervento e della prevenzione in
PdC. La sua utilità euristica è molto alta, così come la sua produttività.

L’ida di mancanza di consapevolezza del potere ha suscitato un’altra critica di


Carlos Vázquez Rivera (2004) a partire dalla sua critica al concetto di empowerment e
dalla sua elaborazione del concetto di refortalecimiento (“rafforzamento”), concetto che
possiamo qualificare come ecologico nel senso enunciato da Kelly, poiché riafferma la
necessità della contestualizzazione. Il “refortalecimiento” considera le debolezze come
punti di forza; si colloca “dove il sociale è personale” perché il personale è politico e il
soggetto è il suo contesto.
8. L’idea di prassi
Questa idea ha origine in Grecia, e fu opera di Aristotele (Etica nicomachea).
In questa prima definizione, ossia come “pratica”, faceva parte di una triade insieme con
la poiesis (creazione) e l’episteme (conoscenza). Una seconda versione aristotelica
sostituì l’episteme con la teoria, come l’estremità più alta dell’umano.

Nella psicologia sociale di comunità sviluppata in America Latina, si considera il


concetto di prassi nella versione elaborata nel XIX secolo da Karl Marx, in cui si
supera la distanza generata attraverso la storia, che separava la prassi dalla teoria.
Questa prassi ha un carattere critico e considera ragione pratica e ragione teorica
unite, dalla pratica nasce la teoria e dalla teoria deriva la pratica.
9. La relazione tra idee, concetti
teorici e problemi sociali
Bisogna fare una distinzione nel parlare di problemi sociali classificandoli in due
linee che in realtà si intrecciano:

- Problemi di sopravvivenza e di autonomia/liberazione.


- Problemi di eccellenza e di autonomia/liberazione.

Dobbiamo capire che purtroppo ci sono società in cui mantenersi vivi è il primo
compito quotidiano delle persone, per le quali la liberazione è fondamentale. Qui
l’autonomia si può chiamare liberazione: dalla schiavitù, dall’oppressione...

E ci sono società il cui compito principale è raggiungere il maggiore benessere


possibile.

Le cause fondamentali dei problemi sociale, anche se non sembra, sono sempre
le stesse:
10. L’idea e la presenza della
coscienza
La PdC sviluppata in America Latina adotta i concetti fondamentali e l’enfasi
sulla necessità di una mobilitazione della coscienza, in modo che si possano produrre
trasformazioni profonde nelle persone.

Per “coscientizzazione” si intende un cambiamento nella coscienza che amplia


il suo campo cognitivo e affettivo, realizzando così azioni trasformatrici. La
coscientizzazione ipotizza di poter unire alla conoscenza della realtà attuale, la
conoscenza delle sue cause e dei suoi effetti, così come delle capacità individuali e
colletive per realizzare azioni trasformatrici.
Capitolo 6
(Empowerment)
Subindice
1. Introduzione.
2. La teoria dell’empowerment.
3. La misura dell’empowerment.
4. Ambiti di applicazione.
5. La discussione sull’empowerment.
6. Conclusione.
1. Introduzione
L’empowerment è un concetto chiave della psicologia di comunità, che ha subito
un’evoluzione teorica interessante. Verrà presentata inizialmente l’elaborazione
“tradizionale”, nella versione formulata e approfondita in tappe successive; verranno poi
illustrati alcuni strumenti di misura; infine saranno discusse le critiche più significative.
2. La teoria dell’empowerment
Questo termine non è stato tradotto in italiano. È un termine di uso comune che
rischia di essere inflazionato o banalizzato, usato cioè senza gli opportuni riferimenti
teorici.

La prima definizione è stata fatta per Rapport. Letteralmente significa


“acquisizione di potere”. Più nello specifico, si intende un processo attraverso il quale
individui, gruppi, organizzazioni e comunità possono aumentare il loro grado di
controllo nelle vicende che riguardano la loro vita.

Nelle definizioni che si sono succedute nel tempo, alcuni autori hanno
sottolineato il livello individuale. Nell’elaborazione della teoria sull’empowerment,
Zimmerman sottolinea l’importanza di quattro requisiti:

a) L’empowerment è una variabile continua (quindi non e dicotomica, cioè


semplicemente presente o assente, ma presente con diversi gradi di intensità).
b) Può mutare nel tempo e non si sviluppa in modo lineare (una persona può
avere acquisito capacità di controllo in un certo periodo della propria vita, ma
esserne stata priva in precedenza o esserlo in momenti successivi).
c) Si specifica in relazione al contesto.
d) Varia in relazione alle caratteristiche personali e professionali della
popolazione a cui si riferisce.

Un contributo ulteriore di Rapport è il processo alle pratiche ed è attento a “dare


voce” alle persone interessate. Le storie personali e le narrative comunitarie sono risorse
che consentono di aprire nuove strade nell’agenda dell’empowerment

L’aspetto più significativo della teoria è aver esplicitato che l’empowerment è un


concetto multilivello, che è possibile cioè articolare in un livello individuale
(psicologico), uno organizzativo e uno sociale/di comunità. Si applica a livello
individuale quando si occupa di variabili intrapersonali e comportamentali, a livello
organizzativo quando ci si occupa di mobilitazione di risorse e di opportunità di
partecipazione, a livello di comunità quando si affrontano le strutture sociopolitiche e il
cambiamento sociale.
Il quadro teorico è stato articolato con l’analisi delle tre pietre miliari
individuate da Zimmerman come costitutive del concetto.

a) Il controllo, ossia la capacità, percepita o effettiva, di influenzare le


decisioni.
b) La consapevolezza critica, ossia la compressione di come operano le
strutture di potere, di come vengono prese le decisioni.
c) La partecipazione, ovvero (o sea) la tendenza ad attivarsi per far
accadere le cose per ottenere i risultati auspicati e sviluppare strategie per
il cambiamento sociale.

2.1. L’empowerment individuale (psicologico)


Si tratta di un approccio complesso di varie dimensioni: di personalità,
cognitivi e motivazionali.

Il locus di controllo interno fa riferimento alle caratteristiche di personalità del


soggetto che percepisce di controllare attivamente gli eventi, concetto ripreso e ampliato
in quello di self-efficacy di Bandura, relativo alle credenze dell’individuo circa le
capacità di mobilitare le proprie risorse cognitive e le azioni, in grado di produrre certe
prestazioni al fine di ottenere il risultato atteso.

L’empowerment mette in gioco le competenze attive del soggetto, è l’individuo


che decide se e come prendersi carico della propria situazione. Per Bruscaglioni,
l’empowerment è “il processo di ampliamento delle possibilità che il soggetto può
praticare e rendere operative. In quest’ottica il livello di empowerment di un soggetto è
l’ampiezza del ventaglio di “possibilità” tra le quali può scegliere.

Le tre componenti dell’empowerment -controllo, consapevolezza critica e


partecipazione- vengono identificate rispettivamente come dimensioni intrapersonali,
interpersonali e comportamentali dell’empowerment individuale.

2.1. L’empowerment organizzativo


A livello organizzativo, si può distinguere tra ciò che un’organizzazione è in
grado di offrire ai suoi membri in termini di opportunità per acquisire maggior controllo
sulla propria situazione (aspetto empowering) e ciò che un’organizzazione può fare per
influenzare il contesto più ampio, incidere sulle politiche sociali, offrire alternative ai
servizi esistenti (aspetto empowered).

Rispetto alle tre pietre miliare dell’empowerment, nelle organizzazioni il


controllo fa riferimento a strutture e procedure orizzontali e l’assunzione di
responsabilità condivise; la consapevolezza critica riguarda l’elaborazione di strategie
e la capacità di mobilitare risorse interne ed esterne per raggiungere gli obiettivi
desiderati; la partecipazione comporta il coinvolgimento dei singoli in reti e
organizzazioni e l’individuazione di obiettivi condivisi.

2.1. L’empowerment sociale o di comunità


È un riferimento preciso alla comunità locale, quindi si sottolinea l’importanza
di collocare il processo nel contesto specifico in cui vivono le persone e i gruppi sociali;
viene sottolineato il rispetto reciproco. Il fine dell’empowerment sociale è favorire lo
sviluppo di una comunità competente, affermando che una comunità ha un repertorio di
possibilità e di alternative; sa dove e come ottenere risorse; chiede di essere autonoma.

Il lavoro degli psicologi di comunità è aiutare queste comunità a riacquistare


speranza. Un intervento orientato all’empowerment cerca di attuare un processo che
sfida la struttura sociale e i rapporti di potere della società, a difesa dei diritti.
Promuovere l’empowerment comunitario significa lavorare per l’emancipazione delle
persone, favorire la partecipazione sociale e in particolare attivare i gruppi sociali con
azioni volte all’inclusione.

Le strategie sono generalmente due: azione sociale e di sviluppo di comunità.


Gli interventi riconducibili all’azione sociale si basano sul presupposto che le risorse
sono limitate e distribuite in modo diseguale. Gli interventi riconducibili all’approccio
di sviluppo di comunità assumono che la comunità ha in sé le conoscenze, le risorse, il
potenziale organizzativo e di leadership per realizzare un cambiamento costruttivo a
livello comunitario.
3. La misura dell’empowerment
Non è praticabile né concettualmente appropriato pensare a una misura
universale del costrutto, date le caratteristiche peculiari dell’empowerment di essere
contesto -specifico e popolazione-specifico.

Tuttavia, vengono di seguito proposte in via esemplificativa due scale, che sono
mostrate utili nell’analisi di alcune situazioni. La prima scala è stata elaborata da
Spreitzer sulla base di un modello dell’empowerment a quattro dimensioni riferite agli
stati psicologici individuali rispetto al proprio lavoro: la significatività, l’abilità,
l’autodeterminazione e l’influenza. La significatività è definita come la
corrispondenza tra le richieste dei compiti lavorativi e il sistema di valori, credenze e
ideali della persona e rappresentata l’importanza che la persona attribuisce a quello che
fa; l’abilità è la convinzione di possedere abilità e strumenti necessari per svolgere il
lavoro e per farlo adeguatamente; l’autodeterminazione è la sensazione di controllo
rispetto al proprio lavoro, di avere libertà di iniziativa e di possibilità di decidere come
organizzare il lavoro in termini di tempo, metodi e intensità; infine, l’influenza è la
convinzione di avere una incidenza sugli esiti operativi e anche strategici del proprio
lavoro.

La seconda scala è quella denominata empo, che misura tra componenti chiave
dell’empowerment individuale a livello teorico: la capacità di porsi degli obiettivi e di
raggiungerli efficacemente, la mancanza di speranza e di fiducia, e per ultimo,
l’interesse verso questioni sociopolitiche e la partecipazione politica, considerati
indicatori di consapevolezza critica.

Queste tre dimensioni contribuiscono a formare un costrutto più ampio, definito


empowerment personale e politico, per cui, secondo gli autori, la scala può essere
considerata anche come misura totale, cioè unidimensionale del costrutto.
4. Ambiti di applicazione
Scienza politica, in cui è presentata già alla fine degli anni sessanta con i
movimenti per i diritti civili e i movimenti femministi. Nella letteratura pedagogica
viene utilizzato per indicare l’autonomia del discendente nel processo di acquisizione di
conoscenze nell’arco di vita.

In ambito organizzativo e manageriale, il termine rimanda allo sviluppo di


capacità creative e innovative dei dipendenti, chiamando in campo la definizione del
modello di impresa, la leadership, le relazioni di lavoro. Nelle politiche sociali il
concetto è stato adorato in molti atti legislativi a livello europeo e nazionale, ed è
diventato sinonimo di approcci innovativi volti al cambiamento sociale. Nel ambito
sanitario, riferito a una molteplicità di situazioni, relative a programmi di prevenzione
primaria e secondaria.
5. La discussione sull’empowerment
I due concetti principali su cui si basa l’empowerment sono il potere, che ne
costituisce la radice etimologica, e la partecipazione, che sottolinea l’aspetto pratico.

La parola chiave al cuore del concetto è potere. E infatti il dato che attiva il
processo di empowerment è proprio la situazione di mancanza di potere. Il punto di
partenza del processo di empowerment è quindi una situazione definibile come
passività appresa, sentimento di impotenza acquisita.

La versione classica di Weber, secondo cui il potere è un’espresione unilaterale


di volontà imposta sugli altri, sulla base di una relazione sempre asimmetrica.

La tassonomia di potere più nota nelle scienze psicologiche è certamente quella


di French e Raven. Essi distinguono cinque forme di potere: potere dell’esperto (che
deriva dalla percezione di competenze e conoscenze riconosciute a una persona),
legittimo (quando si riconosce a qualcuno il diritto di esercitare un’influenza sugli altri
in virtù del suo ruolo, di ricompensa (quando una persona ha le risorse per offrire delle
ricompense ad altri, sotto forma di benefici o premi di varia natura), di riferimento
(basato su una sorta di identificazione del subordinato con colui che esercita
un’influenza, percepito come depositario di norme e valori che rendono la situazione
più sicura e più semplice da gestire), coercitivo (in cui il potere si basa sulla paura che
una persona possa infliggere ad altri punizioni e minacce, direttamente o anche
indirettamente).

A partire dagli anni ottanta, si è imposta un’altra concezione di potere, elaborata


da Serrano García, che ha sottolineato invece il carattere relazionale che può avere il
potere, parlando appunto di “potere simmetrico”.

5.1. I paradossi dell’empowerment


Recentemente sono stati ripresi e analizzati alcuni paradossi sottostanti al
concetto:

- Lo stigma che viene attribuito alle persone che si intende aiutare.


- La complessità del processo di oppressione, spesso favorita dalle stesse
persone che la subiscono.
- Lo sbilanciamento di potere tra individui e professionisti.

I primi due temi sono legati tra loro e complessi: riguardano la situazione delle
persone svantaggiate o emarginate per una molteplicità di motivi, a seconda anche del
contesto storico e socioculturale, ma che in genere non possiedono parametri adeguati
agli standard socialmente definiti da una ristretta maggioranza che detiene il potere.

Il terzo punto riguarda l’asimmetria di potere tra chi aiuta e chi è aiutato: come si
vede, il tema del potere e della sua distribuzione ritorna sempre in primo piano. Un
punto fermo da tenere presente da parte dello psicologo è il principio di
autodeterminazione, che consiste fondamentalmente nell’evitare la delega all’esperto,
stimolando lo sviluppo delle competenze delle persone, con un’azione di
accompagnamento nel processo di emancipazione e di cambiamento delle loro
condizioni sociali.
6. Conclusione
Concludiamo con il riferimento a un altro filone della letteratura sviluppatosi di
recente, relativo al concetto di resilienza di comunità. In termine di processo, il
concetto fa riferimento a un insieme di risorse che permettono di far fronte a un evento
perturbante. In termini di esisto, indica la ripresa o il mantenimento di indicatori del
funzionamento della comunità e dei suoi membri dopo l’esposizione all’evento
disastroso. Vi sono delle ovvie aree di sovrapposizione tra i concetti di empowerment e
di resilienza: le concezioni di comunità resiliente generalmente infatti includono
l’aspetto dell’empowerment come centrale rispetto al processo di adattamento della
comunità di fronte a un evento perturbante, in quanto si considera fondamentale la
partecipazione della comunità nella presa di decisione e nella soluzione di problemi
innescati da tale evento.
Capitolo 7
(Il senso di comunità)
Subindice
1. Concetto teorico.
2. Misura del senso di comunità.
3. Senso di comunità locale e ciclo di vita individuale.
4. Il senso di comunità tra vecchi e nuovi contesti di vita.
5. Senso di comunità e eventi critici.
1. Concetto teorico
Il costrutto di senso di comunità è uno dei concetti centrali della psicologia di
comunità. Una delle sue particolarità, che condivide con altri costrutti della PdC, è
quella di racchiudere implicitamente una dimensione di valore.

Le radici teorico-culturali del concetto sono molteplici, anche se sono più


tipicamente ricondotte alla sociologia tedesca ottocentesca, e in particolare al pensiero
di Tonies, con la sua distinzione fra Gemeinsschaft (identificato a volte come il
villaggio o piccolo paese dove le persone hanno forti legami di parentela e amicizia) e
Gesellschaft (la città impersonale, la società). Tonies era preoccupato del fatto che i
cambiamenti delle strutture sociali determinassero la perdita potenziale
dell’interdipendenza supportiva, della responsabilità reciproca e degli scopi comuni del
villaggio e della vita comunitaria tipica della Gemeinsschaft, a favore della natura
altamente differenziata e individualistica delle strutture a scala più ampia della
Gesellschaft.

A partire da riflessioni analoghe, in tempi più recenti, Sarason propose il


concetto di senso psicologico di comunità per indicare “la chiave per la comprensione
dei problemi più presentati della società, il lato oscuro dell’individualismo, che si
manifesta nell’alienazione, nell’egoismo e nella disperazione”. Sarason descrisse il
senso di comunità come il sentimento di essere parte di una struttura prontamente
accessibile e supportiva.

Altri contributi teorici al concetto sono stati forniti dalle teorie ecologiche e
ambientali del comportamento umano (Bronfenbrenner). Questo approccio ha
focalizzato l’attenzione sulla relazione fra le persone e l’ambiente fisico e sociale delle
loro comunità. Le prospettive ecologiche affermano che le caratteristiche fisiche dei
contesti non esistono indipendentemente dal luogo in cui il comportamento è attuato, e
possono influenzare in modi positivi o negativi le cognizioni, le emozioni e il
comportamento delle persone ivi inserite (de las personas incluidas en el mismo).

McMillan e Chavis definirono il senso di comunità come “un sentimento che i


membri provano di appartenere, di essere importanti gli uni per gli altri e per il gruppo,
e una fisucia condivisa che i bisogni dei membri possono essere soddisfatti mediante
l’impegno di essere tutti insieme”. Le componenti del senso di comunità sono: il
senso di appartenenza, l’influenza, l’integrazione e il soddisfacimento dei bisogni,
la connessione emotiva condivisa. McMillan e Chavis hanno suggerito che questi
elementi operano congiuntamente e dinamicamente per creare e mantenere un senso di
comunità complessivo.

Negli ultimi anni sono state molte critiche al modello (al de McMillan y
Chavis), e allo stesso costrutto. Gli elementi sui quali si è concentrato il dibattito sono:

1. Il livello di concettualizzazione del SoC (senso di comunità): il senso di


comunità può essere considerato e trattato come un costrutto a livello sia
individuale (ej: percezioni individualli dell’appatenenza) sia extraindividuale
(una proprietà di un sistema sociale) e non è collegato alle percezioni di relazioni
interpersonali specifiche. In ragione di questa particolarità alcuni autori hanno
affermato che il senso di comunità non richiede effettivamente l’interazione e la
condivisione di esperienze, ma può basarsi anche esclusivamente su cognizioni
ed emozioni a esse associate. Seguendo questa linea di pensiero, alcuni autori
hanno approfondito lo studio del senso di comunità alla luce della teoria
dell’identità sociale.
2. Il ruolo dell’appartenenza a diverse comunità di individui: solitamente, le
ricerche in questo ambito hanno esaminato il SoC in riferimento a una comunità
specifica o a quella che veniva reputata la “comunità primaria”, in genere
corrispondente a quella territoriale. Tuttavia, gli individui sono
contemporaneamente membri di diverse comunità e retti sociali, sia geografiche
che relazionali.
3. Il presupposto di che il senso di comunità sia sempre positivo e desiderabile:
si tratta tuttavia di una concezione che riflette una visione statica della comunità,
che assume implicitamente l’esistenza di una omogeneità o una omologazione di
prospettive, scopi e valori fra i membri della comunità e non riconosce la
presenza inevitabile di conflitti fra individui e gruppi sociali e la loro funzione di
autoregolazione sociale anche positiva e costruttiva.
4. Le sue dimensione costitutive: gli studiosi che hanno affrontato lo studio del
SoC a partire dalla teoria dell’identità sociale, hanno sottolineato l’importanza di
includere fra le sue dimensioni anche la forza dell’identificazione con la
comunità, come dimensione ortogonale alle altre.
2. Misura del senso di comunità
La maggioranza delle ricerche ha rilevato il Soc a livello di percezioni e vissuti
individuali. Un tentativo di superare questa impostazione individualistica, a favore di un
livello di analisi collettivo o di comunità.

Le valutazioni del senso di comunità hanno utilizzato principalmente questionari


nell’ambito di indagini campionare. Uno dei primi strumenti proposti, sviluppato a
partire dal modello teorico di McMillan e Chavis, è il Sense of Comunituy Index.

Considerando la comunità in senso localistico-territoriale, citiamo la Scala


italiana del senso di comunità sviluppata da Prezza. Si tratta dello strumento
principalmente utilizzato nella realtà italiana per la popolazione adulta. Un’altra riferita
al contesto italiano è la scala messa a punto da Cicognani per misurare il senso di
comunità territoriale in adolescenza, recentemente validata anche in forma breve di 20
item.

Esiste inoltre una varietà di strumenti messi a punto per la misurazione del Soc
in comunità e gruppi o contesti diversi, che non necessariamente fanno riferimento alle
dimensioni teoriche del costrutto postulate da McMillan e Chavis, ma spesso partono da
un processo di costruzione dello strumento “dal basso”, utilizzando preliminarmente
dati qualitativi.

Alcuni degli aspetti critici rilevanti sono: la mancanza di norme per


l’interpretazione dei dati, la bassa stabilità delle dimensioni teoriche del Soc nei diversi
contesti e con gruppi differenti, l’importanza di considerare i fattori storici per
comprendere i processi della comunità e i suoi cambiamenti nel corso del tempo.

Metodi alternativi adottati per superare questi limiti includono l’uso di strumenti
e approcci qualitativi per cogliere le prospettive dei partecipanti sulla comunità. A tale
scopo, in genere si utilizzano storie e narrative sulla vita e sulle esperienze nella
comunità, interviste e focus group, e anche metodi come il photovoice. Se lo scopo è
lo sviluppo della comunità (intervento), allora è più utile utilizzare i diversi metodi
qualitativi esistenti.
3. Senso di comunità locale e ciclo di
vita individuale

Le ricerche sul senso di comunità riferito alla comunità localistico-territoriale


hanno esaminato come il fenomeno vari in base a caratteristiche individuali,
sociodemografiche e psicologiche, e a fattori contestuali, e ne hanno messo a fuoco le
relazioni con altri costrutti, fra cui la partecipazione nella comunità, l’insicurezza
urbana, la salute e il benessere.

3.1. Correlati sociodemografici del SoC territoriale


Rispetto alle caratteristiche sociodemografiche, una variabile che discrimina nei
punteggi di SoC riferito alla comunità residenziale è l’età: fra gli adulti, le ricerche
hanno indicato che esso tende ad aumentare con l’età raggiungendo i livelli massimi
negli anziani, mentre le ricerche effettuate con gli adolescenti hanno rilevato una
diminuzione, dall’inizio alla fine dell’adolescenza, dei punteggi di SoC riferiti al
proprio paese di residenza. Inoltre segnalano come il dato relativo all’età anagrafica e
alla fase del ciclo di vita individuale vada letto in rapporto a quello sul grado di
radicamento nel territorio. Entrambi gli aspetti (età e stabilità/mobilità residenziale)
sono a loro volta connessi inestricabilmente alle aspirazioni e agli obiettivi di vita delle
persone.

Tali differenze nel SoC in base alla fase del ciclo di vita non sono indipendenti
dalle caratteristiche del contesto residenziale, fra cui il risiedere (reside) in contesto
urbano oppure rurale. Il SoC è superiore nei piccoli paesi rispetto alle grandi città.

Un’altra variabile sociodemografica che è stata spesso indagata è il genere,


rispetto a cui molte ricerche hanno indicato valori di SoC più alti nel genere maschile,
sia fra gli adulti che fra gli adolescenti. Una possibile spiegazione può essere
l’stereotipo di genere che vuole gli uomini più inclini alla formazione di una vasta rete
sociale e le donne alla ricerca di relazioni interpersonali più intime ed emotivamente
significative.
3.2. Correlati psicosociale del SoC territoriale
Il SoC è stato indagato anche nelle sue realzioni con altri fenomeni e processi
psicosociali, come la partecipazione sociale, l’insicurezza urbana, il benessere e la
salute mentale.

Varie ricerche hanno confermato la presenza di una relazione positiva, e


bidirezionale, fra il SoC e varie forme di partecipazione (sociale, civica, politica) nella
comunità, sia nella popolazione adulta come adolescenti. In riferimento agli adolescenti,
si è visto anche che l’esperienza nell’ambito di gruppi formal strutturati contribuisce
positivamente a incrementare la partecipazione sociale nella comunità attraverso il
rafforzamento del senso di appartenenza grazie all’esperienza nel gruppo; anche negli
adulti l’appartenenza a gruppi si accompagna a maggiore SoC. Il SoC è associato anche
alla partecipazione al volontariato, mentre meno chiari sono i risultati relativamente alla
partecipazione politica.

Un altro fenomeno indagato è il rapporto fra il SoC e il sentimento di


insecurezza urbana e la paura del crimine, sia nella popolazione adolescente sia fra gli
adulti. I resultati al riguardo non sono tuttavia coerenti.
4. Il senso di comunità tra vecchi e
nuovi contesti di vita
4.1. La scuola come comunità
Sergiovanni ha proposto la metafora di che la scuola è come la Gemeinschaft di
Tonnie. Altri autori hanno continuato a pensare alla scuola come a una comunità ma di
apprendimento, intesa come quell’organizzazione nella quale i membri acquiscono idee,
accertano la responsabilità di sviluppare e mantenere l’organizzazione, lavorano
insieme, comprendendosi reciprocamente e tollerando le reciproche diversità.

Il senso di comunità scolastico (SSoC) è stato definito come l’appartenenza di


un individuo a un gruppo sociale scolastico da lui considerato importante e il
sentimento di essere accettato e valorizzato dai membri di tale gruppo.

Royal e Rossi hanno proposto un modello di SSoC articolato in 10 dimensioni:


valori condivisi, visione condivisa, scopo comune, fiducia, cura, lavoro in gruppo,
inclusione della diversità, comunicazione, partecipazione e rispetto-riconoscimento.

Lounsbury e DeNeui hanno creato una scala di misura del senso di comunità
specifica per gli studenti dei campus universitari, denominata Campus Atmosphere
Scale. Perkins non hanno elaborato strumenti specifici per la missurazione del SSoC,
ma hanno utilizzato il Sense of Community Index. (Hay muchos más que han hecho
escalas de medida, pero son irrelevantes).

Indipendentemente dal modello teorico di riferimento e dalla specificità dello


strumento di misura utilizzato, la letteratura converge nel sottolineare che il senso di
comunità a scuola è un importante predittore del successo scolastico degli studenti. Le
ragazze hanno livelli di SSoC più elevati dei maschi, in particolare le ragazze di origine
ispanica. Gli studenti che appartengono a gruppi sociali svantaggiati beneficiano
maggiormente di livelli alti di SSoC.

La mancanza di senso di appartenenza a scuola è stata messa in relazione con


ansia, depressione, solitudine, ma anche con il coinvolgimento in comportamenti a
rischio, vittimizzazione e abuso di sostanze.
Altre ricerche se hanno concentrato sui predittori del senso di comunità,
focalizzando l’attenzione in particolare sul comportamento degli insegnanti e sul
funzionamento organizzativo della scuola. Bryk e Discroll hanno dimostrato che il
comportamento degli insegnanti è un predittore del clima scolastico in classe. Royal e
Rossi hanno visto che il senso di comunità è maggiore tra gli insegnanti che lavorano
nelle scuole più piccole rispetto a quelle più grandi e in quelle private rispetto a quelle
pubbliche. Newmann ha dimostrato che i maggiori predittori del senso di comunità
degli insegnanti sono la capacità del dirigente scolastico di dare sostegno e prendersi
cura del proprio personale, la capacità degli insegnanti di sostenersi reciprocamente, la
condivisione di informazioni sui contenuti delle attività curricolari e il rispetto è la
condivisone delle norme da parte degli studenti.

Keiser e Schulte hanno sottolineato che per capire come incrementare il SSoC è
fondamentale ascoltare il punto di vista di tutti gli attori della scuola, ed esaminarne
cultura e modalità di funzionamento.

Albanesi, Marcon e Cicognani hanno messo a punto uno strumento di analisi e


osservazione dei processi e delle pratiche organizzative finalizzato a incrementare il
senso di comunità nella scuola italiana. Lo strumento si basa sul modello di Strike:
secondo l’autore una scuola è comunità nel momento in cui soddisfa quattro condizioni:
dà prova di condivisione dei linguaggi e del progetto educativo (coerenza), persegue un
progetto educativo condiviso dai diversi attori (coesione), garantisce sostegno e cura tra
i diversi attori della scuola (cura), presenta condizioni strutturali che facilitano le
relazioni e il coinvolgimento (contatto). Al modello originale è stata aggiunta una
quinta, conessioni, che si riferisce ai legami della scuola, alle collaborazioni con il
territorio e alla capacità di costruire rete, aspetti importanti affinché la scuola si
configuri come una comunità aperta e capace di scambiare risorse con altre comunità.

4.2. Il senso di comunità nei contesti lavorativi


Evidenze empiriche hanno mostrato che i lavoratori hanno un senso di comunità
più alto se nell’organizzazione i superiori sono supportivi e attenti ai loro bisogni, se vi
è una distribuzione equa nell’allocazione delle promozioni, se si incoraggiano le
interazioni tra i lavoratori, se vengono offerti lavori interessanti, se si promuove una
certa padronanza sul proprio lavoro.
Burrouhg ed Eby hanno coniato in proposito l’espressione “senso di comunità
organizzativo” i cui antecedenti includono il bisogno di affiliazione, il contratto
psicologico transazionale, gli scambi non economici, come i benefit e i servizi per i
dipendenti, il contratto psicologico relazionale che indica una relazione più profonda e
reciproca tra i dipendeti.

In una Ricerca Da Zani sia ha fatto l’analisi di regressione è emerso che un


aspetto cruciale nella spiegazione dell’impatto dello status di lavoratore sull’OSoC è la
percezione dell’adesione della organizzazione ai suoi valori fondativi, suggerendo che
sono questi valori l’elemento motivazionale cruciale nel rafforzare il senso di comunità
dei soci con l’organizzazione.

4.3. Il senso di comunità virtuale


Il senso di comunità virtuale (SoVC) ha guadagnato l’attenzione nell’ultimo
decennio. Zonkiewicz e Smith hanno dimostrato che negli ambienti virtuali l’influenza
non è una dimensione costitutiva del SoVC, evidenziando anche alcune difformità
rispetto al modello di McMillan e Chavis.

Blanchard ha messo a confronto il SoC tradizionale, per intenderci quello facia a


faccia, con quello virtuale, definendo quest’ultimo come l’insieme dei sentimenti di
membership, identità, cambiamento e attaccamento al gruppo in un contesto virtuale
mediato dalla comunicazione elettronica. Un primo studio ha preso in esame diversi tipi
di comunità virtuali per validare uno strumento di misurazione del SoVC. Lo strumento
ha mostrato buona validità di costrutto e una maggior percentuale di varianza spiegata
rispetto al Sense of Community Index.

I membri di una comunità virtuale si possono dare sostegno privatamente,


attraverso lo scambio di e-mail, o pubblicamente, condividendo i propri messaggi con
l’intera comunità virtuale. Secondo Wellman e Guilia, lo scambio di supporto pubblico
può aumentare la percezione dei membri di essere un gruppo di sostegno, quando in
realtà sono poche le persone effettivamente coinvolte nello scambio.
5. Senso di comunità e eventi critici
Sarason ha ipotizzato che il SoC sarebbe aumentato in presenza di eventi critici e
tragedie e in occasione di eventi significativi per la storia della comunità. In virtù di tali
caratteristiche, ha affermato che il SoC può essere usato per monitorare i cambiamenti
della comunità.
Capitolo 8
(Il benessere della comunità)
Subindice
1. Dalla prevenzione alla promozione del benessere.
2. Approcci agli interventi di comunità.
3. Le partecipazioni dei cittadini negli interventi: benefici e criticità
4. Conclusioni.
1. Dalla prevenzione alla promozione
del benessere
La PdC è nata storicamente dal tentativo di individuare strategie di intervento
alternative all’approccio clinico, il quale, spiegando i problemi a partire da cause di
natura individuale e intrapsichica, finiva per “colpevolizzare” il singolo individuo e
proponeva, come modalità di intervento privilegiata per lo psicologo, l’approccio
terapeutico, curativo e riparativo. È dall’insoddisfazione di questo orientamento si ha
proposto dimostrare l’importanza dei fattori contestuali e macrosociali.

Il riconoscimento dell’influenza dei fattori esterni all’individuo nella salute si è


accompagnato alla consapevolezza della possibilità di intervenire su alcuni di essi allo
scopo di prevenirne le conseguenze nocive e scongiurare quindi lo sviluppo di malattie.
Si individuò quindi, a partire dagli anni sessanta, l’approccio della prevenzione come
strategia di intervento elettiva per la PdC.

Secondo Caplan, esistono 3 tipi di azione preventive:

1. Prevenzione primaria (Universale): si rivolge alla popolazione sana con


l’intento di impedire l’insorgere della malattia. Sono rivolti a tutta la
popolazione.
2. Prevenzione secondaria (Selettivi): cerca di individuare precocemente i casi
problematici o a rischio e di fornire trattamenti in una fase precoce di sviluppo
della malattia. Sono rivolti a gruppi della popolazione a rischio di sviluppare un
disturbo/malattia.
3. Prevenzione terziaria (Indicati): si rivolgono alle persone che sono state
identificate come portatrici di sintomi.

Nello specifico, la PdC ha identificato nella prevenzione primaria la sua


prospettiva di intervento privilegiata.
La strategia preventiva ha conosciuto significativi sviluppi negli anni ottanta e
novanta, in particolare in ambito statunitense, ed è stata applicata a interventi per
affrontare una grande varietà di problematiche rilevanti per la salute fisica e mentale,
ma aventi anche implicazioni di natura psicosociale.

L’approccio preventivo ha dato origine a un campo di studi ora definito “scienza


dalla prevenzione”, contraddistinto dall’applicazione delle conoscenze teoriche
all’analisi dei problemi sociali e da un approccio metodologico rigoroso alla
progettazione e valutazione degli interventi finalizzato alla ricerca di evidenze di
efficacia, come prerequisito per la definizione di buone prassi e per la loro diffusione.

Negli anni più recenti, nel contesto statunitense sono stati rilevati alcuni limiti di
questo approccio. Da un lato, si è osservato che la definizione di prevenzione proposta
dall’Institute of Medicine era troppo ristretta e rischiava di incoraggiare la ricerca di
fattori esplicativi del disturbo mentale a livello individuale o di microlivello. Dall’altro,
le difficoltà incontrate nello stimolare l’adozione di questo approccio “scientifico” da
parte degli operatori e professionisti dei servizi hanno condotto a riconoscere la
necessità di integrare la prevention science con altri contributi interdisciplinari e con
modalità appropriate di coinvolgimento (participación) della comunità, allo scopo di
proporsi come una vera “scienza della comunità”.

Nel contesto italiano, l’approccio preventivo ha rappresentato una promessa di


cambiamento paradigmatico negli approcci all’intervento e nell’elaborazione di servizi
nella comunità, incorporato esplicitamente nella legge che impose la chiusura dei
manicomi ai nuovi ingressi e la pressa in carico comunitaria dei disturbi mentali.
Accanto alla prevenzione, l’altra principale strategia di intervento applicata fin
dalla fine degli anni settanta, è la promozione del benessere, intesa come sviluppo
delle competenze a livello individuale e di comunità, considerata da molti l’approccio
più congruente con i principi della PdC. Questa strategia aderisce maggiormente alla
concezione bio-psico-sociale ed ecologica di salute e dei fattori all’origine della salute
promossa dall’Organizzazione mondiale della sanità, riconoscendo anche il ruolo attivo
delle persone e delle comunità nella tutela e promozione del benessere.

Un contributo in questa direzione è stato fornito dalle evidenze su la


multifattorialità delle influenze sulla salute, efficacemente espressi dai concetti di
fattori di rischio e fattori di protezione. Con il primo termine (fattori di rischio) si
indicano caratteristiche della persona e dei contesti sociali e ambientali di vita che
rappresentano fattori di vulnerabilità per lo sviluppo di malattie. Con il secondo termine
(fattori di protezione) si fa riferimento a caratteristiche della persona e dei contesti
sociali e ambientali di vita che aumentano la capacità di adattamento e la possibilità di
contrastare gli effetti negativi dei fattori di rischio. Fra questi ultimi, è consueto
considerare fattori come la resilienza e il sostegno sociale.

La metafora dei fattori di protezione, che la letteratura ha contribuito a elaborare


e identificare a livelli ecologici diversi, è quindi al centro della strategia della
promozione del benessere. Una caratteristica di questo approccio è in particolare il fatto
di focalizzare l’attenzione sulle risorse e sulle competenze, ovvero i fattori di
protezione, invece di concentrarsi sui fattori di rischio per cercare di evitarli o ridurne
l’effetto nocivo (come nell’approccio preventivo).

Cowen proporre una concezione di benessere specifica per la PdC. Partendo dal
presupposto che il benessere debba essere una preoccupazione costante e che esso si
fondi sulla costruzione progressiva di competenze piuttosto che su interventi riparativi,
l’autore propone una concezione integrata rispetto a una varietà di costrutti esistenti.
Egli sostiene infatti che il benessere vada concepito come un fenomeno ampio,
relativamente durevole, collocabile su una dimensione continua, comprensivo della
capacità di recupero in casi di avversità e influenzato da terminanti personali,
transazionali e ambientali. Cowen pone l’accento su tre costrutti centrali. Il primo è la
presenza di competenze, intesa sia come possesso effettivo di capacità, il secondo è lo
empowerment e l’ultima fa referenzia a la capacità di affrontare e resistere alle
avversità. Secondo l’autore, questi tre costrutti (competenze, empowerment e resilienza)
dovrebbero orientare la ricerca e gli interventi di promozione del benessere della nostra
disciplina.

Il primo decennio del nuovo secolo ha visto altri sviluppi, con implicazioni
significative per la PdC: la psicologia positiva (strategia psicoterapeutica che utilizza
l’approccio cognitivo-comportamentale per promuovere le dimensioni del
funzionamento psicologico individuale positivo) o l’approccio delle capabilities. (Hay
más, pero son irrelevantes).

L’approccio critico, il cui esponente più riconosciuto in PdC è Isaac


Prilleltensky, si associa a strategie di intervento di comunità che puntano non solo a
migliorare la condizione dei singoli individui ma anche al cambiamento sociale,
attraverso l’azione sui contesti di vita, allo scopo di favorire le condizioni per un
migliore benessere sociale e riequilibrare le disuguaglianze strutturali e sociali e le
iniquità che per prime sono state riconosciute all’origine della malattia. L’approccio
critico propone quindi una prospettiva di promozione del benessere rivolta in particolare
ai gruppi marginalizzati ed esclusi, realizzando un ribaltamento del punto di
osservazione sul benessere, da quello “dominante” (che abbiamo esaminato finora, che
proprio perché assunto come mediamente più diffuso rischia di essere considerato
“normale” e normativo) a quello di chi ne è escluso a causa delle condizioni strutturali
di assenza di potere, considerate inique.

Prilleltensky propone incorporare i diversi livelli del contesto ecologico nella


definizioni del benessere e di coniugare la promozione del benessere individuale con
quelli collettivo, e nelle versioni più recenti si spinge fino a identificare il benessere con
la giustizia sociale.
2. Approcci agli interventi di comunità
“È attraverso l’azione comunitaria concreta ed efficace che la promozione della
salute può stabilire priorità, prendere decisioni e progettare e realizzare strategie tese
al miglioramento della salute. Momento centrale di questo processo è il potenziamento
della comunità, per renderla veramente padrona e arbitra delle sue aspirazioni e del
suo destino”

(Carta di Ottawwa, 1986)

È pertanto un richiamo esplicito alla comunità, intesa sia come constesto che
come attore della promozione del benessere dei suoi membri.

2.1. Gli interventi di promozione del benessere nella comunità


Interventi che si propongono di incrementare le competenze e le abilità a livello
individuale o di piccolo gruppo. Esempi classici di metodologie in quest’ambito sono:
l’educazione socioaffettiva, l’educazione alle life skill, il metodo esperienziale, la peer
education, il mentoring, gli interventi di sostegno basati sull’attivazione delle reti sociali
informali o volontarie. Rientrano in questo modello anche gli interventi di natura
informativa ed educativa.

2.2. Gli interventi a livello di comunità


Gli interventi che potremmo considerare più “prototipici” dell’approccio di
comunità sono quelli dell’approccio ecologico e sistemico. Questi tipi di interventi
lavorano per potenziare le risorse e le competenze della comunità in un senso più
allargati: si parla quindi preferibilmente di strategie di intervento come la ricerca-azione
partecipata, che coinvolge più estesamente i destinatari e altri membri della comunità
nella stessa analisi dei bisogni.

La finalità diventa quindi promuovere (oltre alle competenze dei singoli


individui) anche le competenze dei gruppi e lo sviluppo delle comunità; ciò può
avvenire, ad esempio, favorendo la creazione di alleanze e coalizioni fra istituzioni,
organizzazioni formali e gruppi informali, e incrementando la rete informale di
sostegno, permettendo così di raggiungere le persone e i gruppi più isolati e
marginalizzati che ne hanno maggiori necessità.

Questo approccio all’intervento è stato applicato in misura crescente a partire


dagli anni novanta e ha comportato lo spostamento (desplazamiento) dell’attenzione dai
gruppi “a rischio” alla promozione del benessere della comunità in senso più ampio.

L’applicazione della prospettiva ecologica all’intervento di comunità comporta


anche altri tipi di implicazioni. Ad esempio, come le organizzazioni della comunità
valutino la rilevanza degli interventi di provata efficacia attuati in altre realtà per il loro
contesto particolare e coerentemente alla loro finalità organizzativa, come le
organizzazioni della comunità possano essere mobilitate e coordinate allo scopo di
raggiungere scopi collettivi.

La scelta si lavorare con un approccio collaborativo con membri e gruppi della


comunità valorizza il processo di promozione della salute e i suoi effetti specifici come
uno degli obiettivi dell’intervento medesimo. Alcuni dei modelli possibile in
quest’approccio sono:

a) Modello dello sviluppo di comunità: richiede la partecipazione di vari settori


della comunità nell’identificazione e nella soluzione dei problemi; lo scopo è
mobilitare abilità e risorse per produrre cambiamenti sociali. Sottolinea
l’importanza del confronto e della condivisione fra punti di vista diversi, della
ricerca di consenso, della collaborazione (partnership), della costruzione di
un’identità di gruppo e di un senso di comunità.

b) Modello dello sviluppo di coalizioni e partnership: un’idea trainante nel


lavoro degli psicologi di comunità che privilegiano l’approccio della
costruzione di competenze. Una coalizione è un gruppo che coinvolge
molteplici settori della comunità che si uniscono per affrontare dei bisogni e
risolvere dei problemi della comunità. Le colazioni possono essere costituite
fra membri di gruppi di cittadini, compressi quelli marginalizzati e
gruppi/istituzioni dotati di potere che possano aiutarli ad affrontare le
condizioni alla base della loro cattiva salute. Si propone di risolvere problemi
comuni attraverso la collaborazione, è duratura.
c) Modello Natural helpers: si tratta di un approccio attento ai fattori culturali,
che valorizza i punti di forza e le risorse della comunità allo scopo di fornire
cura, consigli, informazioni e sostegno. Questo tipo di intervento agisce sugli
atteggiamenti connessi alla salute, sulle credenze e sulle norme sociali a livello
di rete sociale e di comunità.

d) Modello Marketing sociale di comunità: unisce allo sviluppo di comunità le


tecniche del marketing sociale, e che vede quindi la collaborazione fra
ricercatori, esperti di marketing sociale e membri della comunità, i quali,
lavorando in collaborazione, definiscono e analizzano i problemi della
comunità, stabiliscono gli obiettivi di salute, progettano, attuano e valutano
l’intervento. Parte fondamentale di questo approccio è la formazione sulle
tecniche dell’intervento del marketing effettuata dagli esperti a favore dei
membri della comunità.

Accanto agli interventi di comunità appena descritti, centrati sull’attivazione di


risorse e sullo sviluppo di capacità a livelli diversi, occorre menzionare quelli che
cercano di andare oltre per promuovere il cambiamento sociale attraverso strategie di
azione sociale e politica. Proporsi obiettivi di cambiamento sociale richiede anche di
sviluppare una maggiore “consapevolezza critica”.

Il benessere della comunità dipende dalla possibilità di emancipazione dalle


forze oppressive; pertanto, da questa prospettiva non è sufficiente accontentarsi di
migliorare aspetti circoscritti della salute, come la maggiore consapevolezza della
propria alimentazione, quando le condizione sistemiche di disuguaglianza continuano a
perpetuare la fame, e non basta incrementare i servizi di volontariato caritatevole se non
si mettono in discussione anche le premesse che conducono alla creazione di tali servizi.
È per questi motivi che gli interventi nelle comunità dovrebbero fornire servizi e risorse
e al tempo stesso accrescere nelle persone e nei gruppi la consapevolezza politica della
capacità di mobilitazione.

Un modello di intervento messo a punto dall’autore, coerente con questi principi,


è lo SPEC. Questo modello proporre un approccio all’intervento di comunità basato sui
punti di forza e sulle competenze della persona, sull’uso di metodi di prevenzione
primaria, promozione dell’empowerment, sviluppo di comunità, advocacy politica e
azione sociale, e calibrato sulle caratteristiche specifiche della comunità. È necessario
considerare tutti questi elementi contemporaneamente.

2.3. La partecipazione dei cittadini negli interventi: benefici e criticità


Campbell e Jovchelovitch individuano almeno tre percorsi attraverso i quali la
partecipazione della comunità può influenzare gli esiti di salute. Uno è il
coinvolgimento di gruppi e associazioni della comunità locale nelle decisioni relative
alla progettazione, erogazione e valutazione di servizi e politiche per la salute.

Una seconda forma di partecipazione dei cittadini è il coinvolgimento diretto di


gruppi formali e informali della comunità locale nella progettazione e
nell’implementazione di iniziative per promuovere comportamenti salutari, in contesti
diversi.

I ultimo, va considerato che vivere in una comunità caratterizzata dalla presenza


di reti sociali dense, fiducia, sostegno reciproco e alto livello di coinvolgimento in
programmi di interesse reciproco è importante per la salute e il benessere dei cittadini.
Capitolo 9
(Quale ricerca in psicologia di comunità?)
Subindice
1. Introduzione.
2. Dai principi e valori alle strategie di indagine.
3. Finalità e tipi di ricerca in psicologia di comunità.
1. Introduzione
Nei dibattiti interni alla nostra disciplina, si riconosce ormai da anni che la
ricerca dovrebbe utilizzare maggiormente metodologie capaci di analizzare i fenomeni a
livello di contesti ovvero metodi congruenti con il livello di analisi sistemico.
2. Dai principi e valori alle strategie di indagine
La finalità sovraordinata che la ricerca assume in PdC, ovvero quella formativa,
di empowerment ed emancipatoria e volta a promuovere la giustizia sociale, rende
l’attività di ricerca inestricabilmente connessa all’intervento. Per questo motivo la
ricerca-azione partecipata (PAR) è un approccio centrale della disciplina e congruente
con le sue finalità di promozione dell’empowerment e della giustizia sociale.

Il principio della ricerca-azione partecipata ha come finalità il miglioramento


delle conoscenze, delle competenze, l’acquisizione di una migliore consapevolezza
critica (conscientization) dei partecipanti. I resultati dovrebbero pertanto servire
soprattutto ai destinatari, che vi hanno contribuito e che ne dovrebbero essere principali
proprietari, beneficiari e utilizzatori. La crescita della comunità diventa uno dei criteri
per valutare la bontà della ricerca e la sua rilevanza esterna. Deve essere accompagnata
dalla riflessione e sistematizzazione del processo da parte del ricercatore, che ha di
spiegare modelli i processi complessi.

Alla base dell’approccio ecologico ci sono una visione del mondo e una
epistemologia che Trickett (2009) definisce contestualista, che si differenzia
radicalmente dall’empirismo logico che sottende gran parte della ricerca delle scienze
sociali e del comportamento. Questa prospettiva assume che le teorie del
comportamento e le ricerche riflettano la cultura e il contesto particolare nei quale sono
generate. È evidente la distanza di questa posizione dal modello di ricerca tradizionale,
mainstream, per il quale il contesto ha un ruolo tutt’al più di “variabile di moderazione”.
Compito del ricercatore dovrebbe essere quindi, quello di verificare i confini di
applicabilità dei resultati e riformulare la questione della generalizzabilità attraverso la
domanda: in quali contesti ci aspettiamo che questo risultato sia replicato?

L’adozione di una posizione contestualista richiede però dei correttivi per evitare
il rischio di cadere nel relativismo. In particolare, vanno considerati i seguenti
presupposti:

- Deve essere fondata su un’epistemologia perspectivist; ciò implica


riconoscere e valorizzare anche i punti di vista soggettivi dei partecipanti.
- Deve enfatizzare la generazione e la verifica delle ipotesi allo scopo di far
avanzare la conoscenza.
- Deve adottare molteplici metodi.
- Non deve fondarsi solo sulla validità interna, deve validarsi anche esterna ed
ecologicamente.

Un altro aspetto critico del contestualismo riguarda la misura in cui il contesto


sociale dove opera la ricerca di comunità influenza i metodi, i temi di indagine e i
presupposti valoriali. Si riferisce in proposito ai rischi che l’interdipendenza fra la
ricerca e i finanziamenti (pubblici e privati) possa pregiudicarne l’autonomia e che ciò
conduca a un uso acritico dei metodi.
3. Finalità e tipi di ricerca in psicologia
di comunità
La ricerca è promossa da qualcuno e solitamente avviene al di fuori
dell’esclusivo contesto accademico, a opera di un gruppo di ricerca composto da varie
figure professionali, fra cui ricercatori e operatori dei servizi e di associazioni; interessa
quindi in misura e per finalità diverse le persone a vario titolo coinvolte, e anche il
grado di proprietà dei dati e l’uso che se ne fa possono variare. Sulle caratteristiche e
“sfide”/difficoltà implicate nelle ricerche condotte in partnership fra ricercatori e
operatori si è soffermata negli ultimi anni l’attenzione degli studiosi (i ricercatori sono
interessati alla verifica e allo sviluppo della teoria, gli operatori primariamente di
migliorare la qualità della vita della comunità.

Altra preoccupazione è la rilevanza degli strumenti, a volte lunghi e complessi, e


il loro impatto sui destinatari, per i quali la “consueta” proposta di contribuire alla
conoscenza scientifica e alla rilevazione dei loro bisogni ai fini del miglioramento della
loro condizione futura non è sempre sufficiente per motivarli alla collaborazione e alla
sincerità nelle risposte.

La ricerca sulla comunità può avere quindi diverse funzioni: una funzione
“scientifica”; di conoscenza, apprendimento, empowerment sulla propria realtà o di
advocacy. In ogni caso le questioni della validità della ricerca e dei criteri per garantirla
sono fondamentali, anche se i criteri di validità utilizzati possono assumere
un’importanza differente in base al tipo di ricerca e alle funzioni che essa assolve.

Un ulteriore aspetto a tenere in considerazione è che il modo in cui la ricerca


viene comunicata e confezionata varia in funzione di tali obiettivi (busco y encuentro
aquello que busco). I metodi e gli strumenti utilizzabili per la ricerca in PdC sono
molteplici e derivano dal patrimonio delle metodologie della ricerca psicosociale.

Una classificazione tradizionale è quella che li distingue in base al grado di


coinvolgimento dei partecipanti. Distinzione che colloca a un estremo l’uso di indicatori
e dati esistenti, ma anche materiale documentale e d’archivio (nessun contratto),
l’osservazione non intrusiva dell’ambiente (contratto minimo), per passare agli
strumenti di self-report, come i questionari (contatto moderato), fino a giungere,
all’estremo opposto, alle diverse tipologie di interviste e ai focus group (coinvolgimento
elevato). Un altro modo di classificare i metodi di rilevazione dei dati è in base al grado
di strutturazione o predefinizione dei contenuti rilevati, che variano dall’estremo della
strutturazione completa all’assenza di strutturazione.

La gran parte delle ricerche nella nostra disciplina continua a fondarsi su misure
raccolte a livello individuale, anche se vi sono esempi di metodi in cui la raccolta dei
dati è livello di gruppo.

3.1. Come rilevare i problemi si salute della comunità: la ricerca epidemiologica


Si tratta di una ricerca, ampiamente utilizzata nel settore sanitario, che ha origine
in epidemiologia medica e salute pubblica; applicata di valutare, attraverso indicatori
specifici (prevalenza), la diffusione di problematiche psicosociali e di salute fisica e
mentale nella popolazione, nell’arco di un periodo di tempo, aiutando a mettere a fuoco
i fattori di vulnerabilità e le risorse. Richiede di campioni ampi e rappresentativi,
l’utilizzo di metodi statistiche complesse e la collaborazione di discipline diverse.

Nei tempi successivi è stata impiegata in ambito psichiatrico. Il metodo


epidemiologico ha avuto da allora un ruolo fondamentale nel favorire la comprensione
dell’associazione della malattia fisica e mentale con fattori contestuali e ambientali, nel
suggerire indicazioni per la prevenzione e nel valutare l’efficacia degli interventi.

Essa permette di fare ipotesi sulle cause dei problemi, ma non di verificarle,
infatti non consente di indagare i processi: ad esempio in che modo le disuguaglianze
economiche giungono a compromettere la salute? Per conoscere la risposta occorrono
altri tipi di ricerca. Ci dà informazioni che orientano le priorità dell’intervento, ma nella
misura in cui la prevalenza e l’incidenza sono usate come criterio di importanza, si
rischia di lasciare in secondo piano le problematiche meno frequenti.

3.2. La misurazione della qualità della vita della comunità: il metodo


degli indicatori sociali
Un altro modo per ottenere informazioni sulla comunità e sui fenomeni che la
riguardano è l’uso di indicatori, ovvero di dati già esistenti provenienti da fonti diverse e
raccolti solitamente per altre finalità.

Tali aiutano a definire un quadro complessivo delle condizioni di vita di una


comunità, anche se possono presentare dei limiti, dovuti alle finalità diverse per le quali
sono solitamente raccolti e al grado di precisione e accuratezza con cui rilevano i
fenomeni. È necessaria un’integrazione con altri tipi di informazioni.

Una tipologia di indicatori di particolare interesse per la qualità della vita e del
benessere delle società. Negli ultimi anni, la misurazione del benessere sociale è
divenuta una priorità, in particolare allo scopo di indirizzare della politica verso un
approccio multidimensionale alla misurazione della qualità della vita, superando le
visioni economiciste e portando al centro dell’attenzione anche le esigenze della
sostenibilità ambientale della crescita economico e dell’equità sociale.

3.3. Costruire un ritratto della comunità: i profili di comunità


Una domanda centrale della ricerca in PdC è in che modo i diversi contesti
sociali e della comunità in cui le persone vivono producano effetti sugli individui e sui
gruppi, generando problemi psicosociali e di salute. Per rispondere non basta
considerare gli indicatori epidemiologici e sociali.

Il metodo dei profili di comunità propone una serie di letture che permettono di
ottenere una valutazione multidimensionale (includendo dati di natura oggettiva e
soggettiva) della comunità locale capace di evidenziare aree di criticità e risorse.
Ciascun profilo propone un’analisi specifica del contesto della comunità, a livello
strutturale-oggettivo a livello psicosociale:

- Profilo geografico-territoriale: comprende le caratteristiche fisiche e


urbanistiche.
- Profilo demografico: comprende la popolazione e le sue caratteristiche.
- Profilo dei servizi: include la descrizione delle diverse tipologie di servizi
presenti e la loro distribuzione.
- Profilo istituzionale: comprende le diverse istituzioni presenti nel territorio.
- Profilo delle attività economiche: include la descrizione delle diverse
tipologie di occupazioni dei membri della comunità, la ricchezza economica,
le attività produttive, ma anche dati (stimati) sul lavoro sommerso, il lavoro
minorile…
- Profilo antropologico, storico e culturale: descrive la storia e la cultura
della comunità, i valori e le credenze condivise.
- Profilo psicosociale: descrive le dinamiche psicosociali fra individui e
gruppi presenti nella comunità e le percezioni che i residenti hanno della
comunità.
- Profilo del futuro: delinea il ritratto delle percezioni e delle aspettative
rivolte al futuro.

La visione più recente del metodo dei profili fa coinvolgere attivamente anche i
membri della comunità, incorporando quindi elementi della ricerca-azione partecipata.

3.4. L’analisi dei processi psicologici e psicosociali delle persone nella comunità
Individuare i fattori responsabili della salute in un’ottica di PdC richiede un
passaggio ulteriore, che consiste nel verificare, in una logica anche ipotetico-deduttiva, i
processi e i meccanismi psicologici e psicosociali attraverso i quali i fattori macrosociali
e strutturali impattano sulla salute.

Questi fattori vengono misurati mediante tipi di ricerca correlazionali. La


maggior parte di queste ricerche è condotta all’interno di contesti di comunità specifici.
Alcuni autori sostengono che molti metodi statistici tradizionale hanno contribuito a
rendere parziale e distorta l’immagine del contesto e della sua influenza sui
comportamenti. Sono stati quindi suggeriti alcuni metodi statistici più coerenti, fra
questi, vi sono l’analisi multilivello (che permette di “scomporre” i diversi livelli del
contesto che possono agire sugli esiti individuali, l’analisi dei cluster (che focalizzando
l’attenzione sui casi permette di “ricomporre” la persona e il GIS (uno strumento
recentemente applicato anche nell’ambito della ricerca epidemiologica, che offre una
rappresentazione (mappa) spaziale che può aiutare a identificare le risorse e i bisogni di
salute della comunità.

Un altro elemento critico è il fatto di basarsi su una concezione e su modelli


lineari delle relazioni causa-effetto.

È evidente allora, da questi esempi e considerazioni, che ci troviamo di fronte


alla sfida di sviluppare a metodi più idonei a cogliere la complessità dei contesti della
comunità e che lo sviluppo metodologico può contribuire a promuovere anche lo
sviluppo teorico-concettuale della disciplina.

3.5. La voce dei membri della comunità: i metodi qualitativamente


La prospettiva ecologica ci ricorda anche che i metodi di ricerca sono essi stessi
parte dei contesti, e influenzano l’impatto della ricerca di comunità, spesso al di fuori
dello stesso controllo del ricercatore, producendo anche effetti imprevisti o non
desiderati. Questo è particolarmente evidente quando si considerano metodi meno
strutturati appartenenti alla tradizione qualitativa e della ricerca partecipata. Metodi
come i focus group, le mappe comunitarie e il photovoice, anche se sono utilizzati come
strumenti di ricerca, producono effetti sui partecipanti. I resultati della discussione di
gruppo possono anche attivare una nuova conoscenza e consapevolezza collettiva grazie
al confronto fra prospettive differenti.

Il photovoice è un metodo per promuovere lo sviluppo di comunità utilizzando


la fotografia come strumento di narrazione e documentazione. Attraverso la fotografia, i
partecipanti raccontano i loro punto di vista. Si tratta di un metodo di ricerca-intervento
partecipata, che può accrescere il livello di empowerment nella misura in cui riesce a
fare ascoltare alle autorità.

Per comprendere l’ecologia della vita quotidiana, un approccio è stato quello di


adottare metodi qualitativi allo scopo di capire come individui collocati all’interno di
diversi contesti danno significato alle loro condizioni di vita. Si tratta di un insieme di
strategie di ricerca (etnografia, studio dei casi…) e di strumenti di rilevazione delle
informazioni poco o per nulla strutturati, spesso applicati in combinazione con altri con
i quali si cerca di dare voce al modo in cui le persone percepiscono, si rappresentano i
fenomeni e le proprie condizioni e agiscono e strutturano il proprio ambiente di vita a
partire da tali concezioni.

Secondo Banyard e Miller (1998) questi metodi risultano più congruenti con i
principi e i valori della PdC, per diversi motivi:

- Consentono di recuperare nell’analisi il contesto.


- Permettono di valorizzare la diversità: i metodi poco strutturati consentono ai
partecipanti di esprimere liberamente i propri punti di vista.
- Favoriscono l’empowerment.
Le problematicità è il ruolo assunto dal ricercatore, quando cerca di “dare voce”
ai partecipanti, ma da una posizione per definizione dominante (di esperto).

Stein e Mankowski propongono evitare tali problemi, facendo riferimento a


quattro ruoli del ricercatore: chiedere (asking), testimoniare (witnessing), interpretare
(interpreting), conoscere (knowing).

Le narrazioni sono state estesamente studiate e la loro utilità nella ricerca di PdC
è stata sottolineata da molti. Una peculiarità del metodo narrativo è la possibilità di
applicare diverse letture de dati, che offrono informazioni su livelli differenti (da quello
individuale a quello culturale).

Esistono diversi approcci all’analisi narrativa. Murray ha proposto quattro tipi:


individuale, interpersonale, positional e ideologico. Le narrative sono state utilizzate per
promuovere la giustizia sociale.

3.6. Verificare la qualità degli interventi: la ricerca valutativa


Valutate gli effetti dell’intervento in tale evenienza richiede un approccio diverso
e l’utilizzo di altri indicatori.
Capitolo 10
(La ricerca-azione partecipata e la
psicologia di comunità)
Subindice
1. Origini teorici.
2. Che cos’è la ricerca-azione partecipata?
3. Ostacoli per la ricerca-azione partecipata.
1. Origini teorici
Brydon-Miller definisce la PAR come una pratica in cui “la distinzione tra il
ricercatore e l’oggetto della ricerca è messa in discussione, in quanto ai partecipanti
viene data l’opportunità di assumere un ruolo attivo nella definizione dei problemi che
riguardano loro stessi, le loro famiglie e le loro comunità.

Reason e Bradbury ci ricordano che la ricerca-azione ha le sue origini negli


approcci prescientifici, indigeni alla conoscenza e all’invenzione. Tuttavia, nella
psicologia occidentale, le origini della ricerca-azione nella psicologia sociale e clinica
sono ricondotte convenzionalmente alle teorie dell’azione e in particolare alla ricerca-
azione di Lewin e alla scienza dell’azione di Argyrise Schon.

L’interesse nel campo della ricerca-zione diminuisce tra il 1950 e il 1970.


Tuttavia, la crisi della psicologia sociale del 1970 e l’avvento del nuovo paradigma di
ricerca, caratterizzato da un’ondata antipositivista e da un’enfasi al non riduzionismo
nella pratica della ricerca, pongono le basi al ri-emergere dell’interesse verso la ricerca-
azione. Attualmente la ricerca-azione in PdC risulta molto spesso associata con la
ricerca qualitativa.

Nel campo dell’educazione, le influenze latinoamericane, come Paolo Freire o


Fals Borda, hanno avuto un ruolo importante. Il loro lavoro si basava fermamente sul
considerare la partecipazione degli individui una condizione necessaria del processo di
coscientizzazione, e solo attraverso la partecipazione gli individui e le comunità
avrebbero potuto essere in grado di impegnarsi nell’azione sociale necessaria per il
cambiamento sociale e la liberazione.

Ricerca partecipata di comunità è un’espressione attualmente usata spesso per


riferirsi al lavoro partecipato nel campo della salute e per descrivere la ricerca
sviluppata a livello comunitario dagli accademici.

La ricerca operativa di comunità collega le pratiche organizzative con le pratiche


di partecipazione comunitaria.
2. Che cos’è la ricerca-azione
partecipata?
Hall (1981) ha delineato i requisiti necessari affinché una ricerca possa essere
considerata partecipata:

- La ricerca si origina nelle comunità le cui popolazione vivono


tradizionalmente una condizione di sfruttamento o di oppressione.
- La PAR affronta le preoccupazioni della comunità, con l’obiettivo di
raggiungere un cambiamento sociale positivo.
- La PAR è allo stesso tempo un processo di ricerca, di educazione e di azione
in cui tutti i partecipanti contribuiscono.
- La PAR indaga l’azione dei partecipanti alla ricerca nello specifico contesto
locale.
- La PAR include cicli di azione-riflessione.

La ricerca partecipata può, allora, essere descritta come un’ “indagine


sistematica svolta in collaborazione con i soggetti coinvolti in un problema, a scopi
educativi o per un’azione volta al cambiamento2”.

Molto importante, nella PAR, è l’appartenenza delle conoscenze alle persone, in


quanto sono loro a beneficiare per prime della conoscenza prodotta.

La promozione della ricerca-azione partecipata è fondamentalmente un esercizio


delle persone a: identificare il problema o l’interese, raccogliere informazioni, riflettere
e analizzare e usare i resultati come base di conoscenza per migliorare la qualità della
vità e, quando possibile, documentare i resultati per una loro maggiore diffusione, ad
esempio, per la creazione di una letteratura delle persone “comune”.
3. Ostacoli per la ricerca-azione
partecipata
Raramente la PAR procede come programmato, dal momento che nei processi di
ricerca sono sempre presenti problemi di potere e di assenza di potere. Tuttavia,
riteniamo che anche quando il processo della PAR si interrompe sia possibile imparare
molte cose importanti sul contesto in cui la ricerca è stata effettuata, sulle realtà sociali
di vita delle persone con cui abbiamo lavorato.

Una delle sfide più grandi nell’usare la PAR è trovare le strategie per
coinvolgere le persone nella ricerca, Le ricerche tradizionali non sempre sono percepite
come coinvolgenti e a volte è difficile per le persone vedere i benefici della
partecipazione. Abbiamo bisogno di pensare a modalità innovative per coinvolgere le
persone in modo che continuino a partecipare e, cosa cruciale, che si divertano nel farlo.
Capitolo 11
(La rete sociale e il lavoro di rete)
Subindice
1. Origini e sviluppo del concetto di rete sociale.
2. La rete sociale: caratteristiche strutturali e caratteristiche funzionali.
3. Che cosa producono le reti?
4. L’intervento di rete.
5. Dalla rete alla partnership: una configurazione obbligatoria nel sistema di
welfare locale.
1. Origini e sviluppo del concetto di rete sociale
Nell’ambito degli studi sulle reti sociali, un importante contributo è quello
fornito dalla network analysis. Questa prospettiva teorica si è sviluppata a partire dalla
confluenza di tre correnti di pensiero: la scuola antropologica di Manchester
(definisce per prima volta il concetto di rete sociale), la scuola della Gestalt (pose le
basi topologiche per lo studio delle reti sociale, la scuola di Harvard (sistematizzò le
procedure per l’analisi strutturale delle reti).

1.1. La scuola di Manchester


Barnes distinse tre campi di relazioni:

- Relazioni in base all’appartenenza territoriale.


- Relazioni sulla base del sistema industriale.
- Relazioni che ciascun individuo stabilisce indipendentemente dai due sistemi
precedenti. È potenzialmente diverso per ciascun individuo.

Barnes definisce questo sistema di relazioni informali come un network, una rete
sociale in cui “ogni persona è per così dire in contatto con un numero di altre persone,
alcune delle quali sono direttamente in contatto l’una con l’altra, mentre altre non lo
sono. Allo stesso modo ogni persona ha un numero di amici, che, a loro volta, hanno
altri amici; alcuni degli amici di una persona si conoscono l’un l’altro, mentre altri non
si conoscono.

Barnes fu il primo in distinguere tra rete personale (la configurazione dei


legami che circondano un singolo individuo) e rete sociale (l’insieme dei legami fra
tutti i membri di una popolazione).

Le reti sociale possono essere elemento di sostegno, ma anche veicolo di


controllo sociale e normativo.

1.2. La scuola della Gestalt


Moreno (1934) è considerato il fondatore della sociometria è uno dei padri della
network analysis. Mise a punto il sociogramma per descrivere e misurare la presenza di
rapporti di accettazione e/o rifiuto in un gruppo.
Anche Lewin definì un metodo per la rappresentazione spaziale di fenomeni
psicologici; tale metodo considera tutti gli elementi che interagiscono e che producono
effetti nella vita di una persona e li rappresenta in un sistema topologico (campo,
regioni, frontiere).

1.3. La scuola di Harvard


L’analisi strutturale americana si sviluppò a partire dagli anni settanta ad
Harvard. Il focus principale è costituito dal modo in cui la forma delle relazioni sociali
determina i contenuti delle relazioni: in quest’ottica il comportamento individuale è
interpretato in termini di vincoli strutturali sulle azioni piuttosto che di forze interne. I
precursori di questo approccio furono Warner e Mayo (estudiaron la productividad
laboral en la central eléctrica de Hawthorne). Questi autori utilizzarono per primi il
concetto di clique e i sociogrammi per rappresentare la struttura delle relazioni informali
nel gruppo di lavoro.

Secondo Wellman, scopo dell’analisi di rete è capire come le strutture sociali


condizionano comportamenti e atteggiamenti degli individui e i modi in cui veicolano le
risorse. Questo approccio è stato spesso accusato di eccessivo determinismo, poiché il
riconoscimento che gli atteggiamenti e i comportamenti degli attori sono condizionati
dalla struttura delle relazioni in cui sono inseriti si è spinto fino al disconoscimento
dell’agency individuale. Si tratta comunque di un approccio caratterizzato da un forte
rigore matematico e da una elevata sofisticazione statistica.
2. La rete sociale: caratteristiche
strutturali e caratteristiche funzionali
L’analisi delle reti sociali può procedere da diverse angolature. Si può adottare
una logica posizionale (in cui si analizza la cosiddetta “equivalenza strutturale”,
focalizzando l’attenzione su gruppi di attori che occupano la stessa posizione nella
struttura di rete più generale), oppure una logica relazionale, centrandosi sul modo in
cui gli attori sono collegati tra loro, prestando attenzione ad aspetti come la forza e la
tipologia dei legami).

In PdC l’approccio relazionale e lo studio di reti egocentrate sono quelli che


hanno avuto maggiore risonanza per un lungo periodo, soprattutto per le implicazioni e
le potenzialità in termini di intervento, sia che questo si caratterizzi propriamente come
intervento di comunità, sia quando assume connotazioni più cliniche.

A seconda del tipo di approccio all’analisi che si adotta, variano le caratteristiche


delle reti su cui si focalizza l’attenzione. Per la nostra disciplina e l’approccio
relazionale, le più importanti sono quelle che qui presentiamo brevemente, rimandando
per un’analisi più approfondita ai numerosi manuali pubblicati.

La rete può essere descritta a livello di struttura attraverso i seguenti parametri:

- L’ampiezza: si riferisce al numero di persone incluse nella rete.


- La densità: grado di interconnessione tra i membri della rete. Al concetto di
densità sono associati altri due parametri strutturali: la presenza di cluster
(sottogruppi caratterizzati da legami più coesivi e da contatti più frequenti) e il
range (misura di diversità dei soggetti).
- La composizione: si riferisce al grado di omogeneità rispetto alle
caratteristiche di ego.
- La frequenza delle interazioni: corrisponde al numero di contatti che
intercorrono tra membri.
- Molteplicità o complessità: aree di contenuto. Possono essere generali o
specifici.
- Reciprocità o simmetria: un bambino molto piccolo tenderà ad avere
relazioni fortemente asimmetriche con i genitori.
- La qualità affettivo-cognitiva: amicizia, intimità o vicinanza affettiva, stima o
disprezzo in relazione.
- La funzione: si riferisce alla funzione svolta dai membri di una rete. La
specifica funzione svolta dai membri della rete dipende dal tipo di rete di
supporto, che possiamo distinguere in: sistema di sostegno informale (a la sua
volta, distinguibile tra rete primaria (famiglia, amici…) e rete secondaria
(gruppi associazioni)) e sistema di sostegno formale (la rete secondaria
formale è costituita dall’insieme degli attori che a livello istituzionale sono
depurati alla presa in carico di specifici bisogni della comunità.

La distinzione tra reti di sostegno formale e informale è utile nel piano


teorico, ma nella realtà pratica rischia di essere artificiosa.
3. Che cosa producono le reti?
La ricerca psicosociale ha ampiamente esaminato gli esiti che derivano dal far
parte di una rete sociale, sia dal punto di vista dell’individuo che dal punto di vista della
società. La prima prospettiva, di matrice più strettamente psicologica, ha esaminato la
relazione tra appartenenza a una rete sociale, benessere e sostegno sociale. La seconda
prospettiva, di matrice più sociologica, ha posto l’attenzione sui meccanismi e sui
prodotti collettivi generati dalle reti sociali, in particolare sul cosiddetto “capitale
sociale”.

3.1. Salute e benessere


Diversi studi hanno evidenziato una correlazione tra isolamento sociale e
disturbi psicologici. Mostrando così che la relazioni sociali, in particolare quelle più
intime, hanno un’influenza fondamentale per il benessere e la salute.

I meccanismi che spiegano l’efficacia del sostegno sociale per il benessere e la


salute non sono del tutto chiari. Alcuni autori hanno sostenuto che il sostegno sociale ha
un effetto diretto sulla salute psicofisica, ipotizzando che sia la sola presenza delle
risorse di rete ad avere un effetto protettivo.

Questi meccanismi sono stati classificati da Di Nicola in quattro modelli di


spiegazione:

a) Nel primo modello, centrato sul rapporto di scambio, il rapporto causale e tra
malattia e reti: si ritiene cioè che la condizione di malattia determini una
riduzione della numerosità dei rapporti sociali e della loro qualità.
b) Nel secondo modello, centrato sulla dimensione culturale della rete, si ipotizza
che la salute siano prodotti delle reti in relazione alle funzioni normative che
esercitano e ai modelli culturali che propongono.
c) Il terzo modello attribuisce alle reti la “funzione primaria di rafforzamento
dell’identità e della sicurezza individuale”. In questo modello le reti si ergono
come barriere di fronte agli stressor ambientali.
d) Il quarto modello si riferisce invece all’importanza del feedback che la rete
produce rispetto ai comportamenti messi in atto.
3.2. Capitale sociale
Si deve fare una distinzione tra aspetti strutturali e funzionali del capitale sociale.

- La prima è quella di Bourdieu, secondo cui l’ammontare di capitale sociale


effettivamente posseduto da un dato agente dipende dall’ampiezza del network
di connessioni che esso può efficacemente mobilizzare. (Visione strutturale)
- Coleman definisce il capitale sociale in base alla sua funzione “il capitale
sociale non è una entità che hanno due caratteristiche comuni: tutte si rifreiscono
a qualche aspetto della struttura sociale e tutte facilitano alcune azioni degli
individui inseriti nella struttura.
La concezione di Coleman pone l’accento sulla struttura sociale piuttosto che sul
singolo. Il capitale sociale viene dunque definito come una risorsa. La
disponibilità di capitale sociale, per contro, si associa a maggiore disordine
sociale, riduzione della partecipazione civica e politica e diminuzione della
fiducia reciproca tra i membri della comunità.
Putnam fa una distinzione tra capitale sociale bridging e bonding. Il bridging
social capital è quello dei legami deboli, un tipo di legame capace di procurare
informazioni utile e opportunità, con una valenza emozionale ridotta. Il bonding
social capital, invece, è quello prodotto da individui che sono vicendevolmente
legati su un piano emotivo.
4. L’intervento di rete
La rete sociale per lo psicologo di comunità è uno strumento di intervento.
Gli orientamenti metodologici dell’intervento di rete possono essere classificati in
relazione a diversi criteri. In riferimento alla nostra disciplina, esiste da un lato
l’intervento di rete centrato sull’individuo e dall’altro un intervento di rete centrato
sulla comunità. Nel primo caso lo psicologo di comunità lavora soprattutto per
migliorare la qualità della vita di un individuo, attraverso l’attivazione di reti di
relazioni interpersonali e il miglioramento della qualità delle reti esistenti, nel secondo
la sua attività potrà declinarsi maggiormente nel senso del coordinamento o
dell’attivatore di reti.

4.1. L’intervento di rete centrato sull’individuo


Le ricerche evidenziato che trattare i pazienti psichiatrici senza isolarli dal loro
contesto sociale produceva esiti terapeutici migliori, e che alcune patologie si
sviluppano all’interno di costellazioni di rapporti sociali e relazioni familiari
disfuzionali. La terapia di rete si basa dunque su due presupposti: rendere cosciente la
famiglia allargata e la rete prossimale dell’individuo degli irrigidimenti e degli aspetti
critici di funzionamento che le caratterizza, e utilizzare le energie liberate
dall’acquisizione di questa consapevolezza per produrre un cambiamento. Tale percorso
si sviluppa in sei fasi:

1. Ritribalizzazione: i membri della rete vengono riuniti per restituire visibilità e


consistenza alla rete.
2. Polarizzazione: vengono esternati le conflittualità e i rapporti di potere.
3. Mobilitazione: la rete è pronta per mettere in campo le proprie energie per
affrontare il problema.
4. Depressione: le difficoltà portano nei membri della rete frustrazione e
resistenze. Gli operatori devono aiutare il gruppo a fronteggiare questa fase.
5. Sblocco: alcuni membri della rete iniziano a cercare soluzioni favorendo la
rimobilitazione degli altri.
6. Esaurimento/euforia: il ciclo di trattamento si conclude con la manifestazione
di euforia per il lavoro svolto.
4.2. Il lavoro (sociale) di rete
L’origine di questo approccio si può far risalire agli anni settanta alla
tradizionale del lavoro di territorio. L’intervento sul territorio è bifocale, nel senso di
essere orientato al contempo alla persona e all’ambiente. Una prima accezione di questo
approccio si riferisce alla tradizione della community care anglosassone, secondo la
quale l’operatore di rete ha fondamentalmente il compito di promuovere e attivare reti
informali nella comunità per fare fronte a problemi specifici: può trattarsi di
promuovere la nascita di gruppi di auto-aiuto.

Una seconda accezione si colloca a un livello più macro, ed è orientata


all’attivazione di reti stabili di lungo periodo destinate a fare fronte ai problemi
complessi della comunità. In questo senso, il lavoro sociale direte deve essere intenso
come una cultura piuttosto che come una tecnica.

Secondo Mastropasqua (2004), il lavoro sociale di rete è lo strumento attraverso


il quale si può ricostruire un’idea di comunità agganciata al concetto di welfare.

La regione della Emilia-Romagna ha definito il Piano di zona distrettuale


triennale per la salute e per il benessere sociale: specifica gli interventi di livello
distrettuale in area sociale, sociosanitaria, compreso il Piano annuale delle attività per la
non autosufficienza, individua le specifiche risorse che Comune, AUSL/Distretto,
Provincia e Regione impegnano per l’attuazione degli interventi, approva progetti o
programmi specifici d’integrazione con le politiche educative, della formazione e
lavoro, della casa, dell’ambiente, della mobilità. Il piano triennale costituisce lo
strumento unitario della programmazione sociale, sociosanitaria, sanitaria territoriale, e
privilegia in un’ottica di progressiva gradualità l’integrazione sociosanitaria come area
di programmazione congiunta e condivisa fra Comune e AUSL, costruendo un
documento unico che contiene le scelte strategiche in area sociale, sociosanitaria e
sanitaria.
5. Dalla rete alla partnership: una configurazione
obbligatoria nel sistema di welfare locale
Secondo Bocaccin, una partnership sociale è definita dalle seguenti
caratteristiche:

- Relazioni tra i diversi partner improntate alla reciprocità e alla sussidiarietà


(apoyo).
- Competenza di soggetti istituzionali, di mercato e di terzo settore.
- Agire intenzionalmente, collaborativo e reciproco.
- Attivazione di un processo decisionale congiunto.
- Esplicitazione di una finalità specifica.
- Realizzazione di un progetto condiviso.
- Perseguimento di un beneficio comune.

Lo specifico che differenza la partnership da una rete è quello di mettere in


campo le identità e la cultura organizzativa di ciascun attore, che non può in alcun caso
rappresentare solo sé stesso, in un rapporto di partenariato formalizzato in un accordo.
Himmelman propone una definizione di partnership “un’organizzazione di
organizzazioni che lavorano insieme per un obbiettivo comune”. Dal punto di vista
operativo lo studioso distingue quattro strategie per la costruzione della partnership che
si collocano su un continum che va dal semplice scambiare informazioni in rete per uno
scopo comune, alla collaborazione vera e propria, intensa come una assunzione di
rischio.

1. Creare rete = scambiare informazioni.


2. Coordinare = creare rete e condividere attività e progetti.
3. Cooperare = coordinare condividere le risorse e integrare le attività.
4. Collaborare = cooperare e condividere i rischi.

Ma come si fa a costruire partnership efficaci? Gli strumenti messi a punto dai


vari studiosi e professionisti che se ne occupano sono molto pragmatici, declinati in fasi
e liste di domande e indicatori: tutti rimandano in qualche modo alla progettazione.
Ripamonti sottolinea che la partnership si costruisce attraverso l’attivazione di:
membership (la costruzione dell’appartenenza), involvement (il coinvolgimento) e
commitment (l’impegno attivo e l’assunzione di responsabilità e rischio).
Capitolo 12
(Gruppi in azione)
Subindice
1. Introduzione.
2. Gruppi che organizzano le risorse informali della comunità.
3. Gruppi che organizzano le risorse professionali della comunità.
4. Gruppi in azione: processi e competenze per lo psicologo di comunità.
1. Introduzione
L’attività dello psicologo di comunità si svolge tutta dentro e attraverso i gruppi.
Il gruppo, diceva Lewin, è qualcosa di più, anzi di diverso dalla somma delle parti.
Questa metafora descrive bene i due criteri che definiscono l’essenza del gruppo. L’uno
è interdipendenza: per essere qualcosa di diverso da una somma di parti, il gruppo
deve permettere ai suoi membri di assolvere a determinate funzioni e svolgere specifici
ruoli in modo che ciascuno trovi il proprio posto nel gruppo. L’altro è l’identità sociale:
per essere un punto di ancoraggio identitario su cui (potere) innestare il riconoscimento
del proprio far parte, la propria conoscenza e la propria rappresentazione del mondo
sociale.

Questi stessi criteri possono essere utilizzati anche per classificare il modo di
lavorare con i gruppi dello psicologo di comunità, come due dimensioni di un continum
che contraddistinguono le nostre pratiche.

Da un lato troviamo il lavoro di rete egocentrato, l’attivazione di partnership, la


progettazione partecipata, il lavoro di équipe e il gruppo di lavoro focalizzati sul
riconoscimento e sulla costruzione consapevole dell’interdipendenza; dall’altro le
pratiche orientate al riconoscimento e alla valorizzazione della dimensione identitaria,
come le attività di advocacy, di coscientizzazione e di empowermwent dei gruppi
marginali e/o stigmatizzate.

Vi sono attività che si collocano idealmente al centro del continum: includono lo


sviluppo di comunità e la promozione dei gruppi di auto-aiuto.
2.Gruppi che organizzano le risorse
informali della comunità

2.1. I gruppi/le organizzazione di volontariato


Rappresentano un contesto organizzativo regolato al cui interno le persone
svolgono un’attività di tipo prosociale. Deve avere le seguenti caratteristiche:

- Assenza di fini di lucro.


- Struttura democratica.
- Cariche associative elettive e gratuite con esplicitazione dei criteri di
ammissione e di esclusione degli aderenti, dei loro obblighi e diritti.
- Gratuità.
- Il grado di liberta di scelta dell’atto che è spontaneo.
- Il contesto organizzativo formale entro il quale viene esercitato.
- L’orientamento solidaristico.

Le altre organizzazioni del privato sociale con cui si interfaccia lo psicologo di


comunità sono:

a) Cooperativa sociale: natura societaria e il loro scopo consiste nel perseguire


l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione
sociale. Possono essere di due tipi:
- Tipo A: si occupano della gestione di servizi sociosanitari ed
educativi.
- Tipo B: si occupano principalmente dell’inserimento di persone
svantaggiate attraverso lo svolgimento di attività diversificate.
b) ONG: si occupano di solidarietà internazionale e cooperazione nei paesi in
via di sviluppo.
c) Associazioni di promozione sociale: associazioni riconosciute o non
riconosciute, i movimenti, i gruppi, i loro coordinamenti o federazioni
costituiti al fine di svolgere attività di utilità sociale a favore dei propri
associati o di terzi, senza fini di lucro e nel pieno rispetto della libertà e
dignità degli associati.
Dal punto di vista delle attività, la vocazione socioassistenziale e sanitaria del
volontariato italiano, prevalente rispetto a quella educativa e civica, tanto che il
volontariato si configura a tutti gli effetti come una infrastruttura del welfare.

Per il buon funzionamento di una OdV (organizzazione di volontariato) è


necessario fare programmazione e progettazione mirata, monitorare i bisogni della
propria utenza o del territorio, acquisite, curare e valorizzare la risorsa umana, fare
buona comunicazione. Tale complessità fa sì che, da una parte, il lavoro benevolo del
volontariato sia sempre più impegnativo e continuativo e, di conseguenza, che le OdV
siano più esigenti in fase di reclutamento dei volontari. Fare volontariato paga
potenzialmente su almeno tre piani distinti: quello delle motivazioni personali, quello
identitario e quello politico.

Il piano delle motivazioni personali

Il volontariato è sostenuto da motivazioni egoistiche, autocentrate e


strumentali e non solo da motivi altruistici eterocentrati e valoriali. Un
modello di spiegazione del volontariato che parte dalla premessa che le
persone si impegnano nel volontariato per soddisfare uno o più bisogni. In
base a tale modello è possibile distinguere 6 funzioni:

- Funzione di valore: preoccupazione per in benessere altrui e il


contributo alla società.
- Funzione di conoscenza: l’opportunità di apprendere,
comprendere e praticare abilità-
- Funzione sociale: le persone fanno volontariato a causa di forti
pressioni normative o sociale.
- Funzione di carriera: può servire a sviluppare i propri progetti
lavorativi.
- Funzione ego-protettiva: riduce i sentimenti di colpa.
- Funzione di rafforzamenti dell’autostima.

Il piano identitario
Le esperienze e il comportamento associati all’attività volontaria
facilitano lo sviluppo di un’identità di ruolo corrispondente, che è
l’immediato precursore della continuazione dell’attività volontaria.

Il piano politico

Fare volontariato è un modo per prendere parte, per dare al proprio agire per il
bene comune un senso politico, agendo sul proprio contesto di vita con un chiaro intento
migliorativo e trasformativo.

È innegabile che occuparsi di persone in condizione di bisogno, impegnarsi per


il riconoscimento dei diritti dei più deboli, significa anche fare azioni di lobbying,
esercitare una qualche forma di controllo sul sistema di erogazione dei servizi e
partecipare alla sua progettazione.

2.2. I gruppi de auto-aiuto


Impegnare le proprie risorse per rispondere ai bisogni di un altro che è simile a
sé. Katz ha definito i gruppi di self-help come “strutture di piccolo gruppo, a base
volontaria, finalizzate al mutuo aiuto e al raggiungimento di particolare scopi. Sono di
solito costituiti da pari che si uniscono per assicurarsi reciproca assistenza nel soddisfare
bisogni comuni, per superare un comune handicap o un problema di vita. I membri di
questi gruppi hanno la convinzione che i loro bisogni non possano essere soddisfatti da
le normali istituzioni sociali. I gruppi di self-help enfatizzano le interazioni sociali
faccia a faccia e il senso di responsabilità personale dei membri.

Levy ha individuato cinque condizioni necessarie per definire il gruppo di auto-


aiuto:

- Lo scopo: l’obbiettivo principale e dichiarato deve essere fornire aiuto e


sostegno ai membri. Al miglioramento della competenza psicologica e
comportamentale.
- Origine: deve derivare dai membri medesimi (mismos), più che risalire a
qualche agenzia esterna.
- Fonte di aiuto: deve risiedere negli sforzi, nelle capacità e nelle competenze
dei membri che condividono il problema.
- Composizione del gruppo: deve basarsi sulla condivisione di un nucleo
comune.
- La struttura: sotto il controllo diretto dei membri.

Per Lieberman, il senso di appartenenza rappresenta un importante fattore


terapeutico nel gruppo di auto-aiuto. Alcuni studiosi hanno criticato l’uso dell’etichetta
“gruppo auto-aiuto” che sembra non dare conto del processo di reciprocità che
caratterizza questi gruppi, e preferiscono quindi utilizzare il termine “auto-mutuo-
aiuto”.

Un dato interessante riguarda la cospicua presenza di gruppi rivolti a familiari,


altro dato in forte crescita rispetto alla rilevazione precedente, che segnala una nuova
vocazione dei gruppi di auto-aiuto e una prospettiva di ulteriore sviluppo dei gruppi:
sostenere le famiglie di fronte a transizioni prevedibili.

Un altro è la presenza di un conduttore/facilitatore. Il 71% dei conduttori svolge


una professione in ambito sociosanitario. Sulla professionalizzazione dei conduttori ¡, le
valutazioni sono ambivalenti e riecheggiano un dibattito che da sempre accompagna
l’analisi dei gruppi di self-help. Da un lato la professionalizzazione è l’esito di una
maggiore conoscenza; dall’altro però ha modificato anche le dinamiche di sviluppo
dell’auto-aiuto, sempre meno spontaneo e nato dal basso.

2.3. Altri gruppi che vengono dal basso: comitati di cittadini,


movimenti, associazionismi
Le risorse della comunità non si mobilitano sempre all’insegna di parole
chiave come solidarietà e utilità sociale. Spesso si attivano di fronte alla percezione di
avere subito un’ingiustizia, un torto, di essere esposti a un danno potenziale, o alla
necessità di affermare valori e principi. Si può allora parlare di società, gruppi e
movimenti impegnati in un esercizio di cittadinanza che difende gli interessi collettivi
all’interno dello spazio pubblico. Le parole chiave diventano allora giustizia, equità
sociale, diritto, discriminazione, protesta e i movimenti sociali ne sono i portavoce.

Melucci, uno degli studiosi che si è occupato dei movimenti sociali, distingue
movimenti rivendicativi, movimenti politici e movimenti antagonisti, in relazione al
loro focus di interesse.
Alla base della partecipazione collativa alle azioni di protesta, la psicologia
sociale ha posto tre processi fondamentali: la percezione di un’ingiustizia,
l’identificazione con un gruppo e la percezione di efficacia o strumentalità della
partecipazione.

Il sentimento di ingiustizia nasce dalla deprivazione relativa, ovvero la


percezione di uno svantaggio.

La percezione di efficacia è ritenuta uno dei fattori più potenti nell’influenzare


l’azione collettiva, in particolare nell’ambito della teoria della mobilitazione delle
risorse e degli approcci razionali all’azione collettiva. Il presupposto della teoria della
mobilitazione delle risorse è che, per risolvere i problemi collettivamente, le persone
devono essere capaci di acquisire le risorse e devono percepire di avere l’abilità come
gruppo di risolvere i problemi del gruppo stesso.

L’identificazione collettiva implicata nella protesta ruota attorno a un tema di


rilevanza sociale, che genera risentimento e che richiede un cambiamento sociale in cui
sia coinvolta la società allargata. La componente comportamentale dell’identificazione
collettiva si traduce nell’appartenenza a organizzazioni che sostenendo il proprio gruppo
e difendendo specifici diritti e valori, favoriscono l’acquisizione di un’identità
politizzata o identità di attivista.
3. Gruppi che organizzano le risorse
professionali della comunità

3.1. Il gruppo di lavoro


Quaglino definiscono il gruppo di lavoro come una pluralità in integrazione,
ovvero “una pluralità che tende progressivamente all’integrazione dei suoi legami
psicologici, all’armonizzazione delle uguaglianze e delle differenze che si manifestano
nel collettivo e attraverso la sua dinamica si può identificare come gruppo di lavoro”.

Per conseguire i obbiettivi, ogni parte deve combinarsi con l’altra, ognuna è
necessaria e non sufficiente, per ciascuna c’è un posto preciso. Il tutto deve essere
assemblato da una mano abile, che potremmo riconoscere nella leadership, intesa come
la capacità di oliare il meccanismo d’incastro, valorizzando il bisogno di ogni parte di
avere un proprio posto ma anche di essere parte del gioco. Nella realtà psicologica,
però, il piano razionale è solo un aspetto di ciò che è osservabile nel gruppo, che
corrisponde a quella che Quaglino definisce la dimensione reale, osservabile, del
gruppo. Ci sono altre dimensioni che dipendono: dal rapporto del gruppo con il proprio
ambiente sociale, un ambiente storicamente e culturalmente determinato; dal modo di
rappresentarsi l’identità e la cultura proprie del gruppo di lavoro; dal sistema di
significati inconsci che ciascun individuo riversa nel proprio gruppo. Tutte queste
dimensioni concorrono a definire l’identità del gruppo.

L’obiettivo è una delle sette variabili su cui si costruisce un gruppo di lavoro. Le


altre sono rappresentante rispettivamente da: metodo, ruolo, leadership, comunicazione,
clima e sviluppo del gruppo.

3.2. L’équipe (multidisciplinare/multiprofessionale)


L’idea dell’équipe multidisciplinare/multiprofessionale interna a un
ente/organizzazione, che è deputata a farsi carico globalmente di un problema,
appartiene alla tradizione del sistema welfare moderno dell’Italia. Questo approccio si
basa su presupposto: l’organizzazione che ha in carico la gestione di un problema
ha/deve avere al suo interno le molteplici competenze professionali che sono
necessarie a “risolverlo”.

Se debe distinguir entre los sistemas cerrados (antiguos/tradicionales) y los


abiertos (modernos). En los cerrados, a pesar de que se trabaja de forma multidisciplinar
aun se mantiene una alta compartimentación del trabajo y no se desarrollan los
proyectos de una forma holísitica. Sin embargo, en los sistemas abiertos, se entiende
que cada parte es fundamental para el proyecto y todos los departamentos, equipos y
divisiones estñan en constante contacto para asegurar el éxito del proyecto.
4.Gruppi in azione: processi e
competenze per lo psicologo di comunità
Lo psicologo di comunità può trovarsi in un gruppo con molteplici vesti. Può
essere un membro dell’équipe o svolgere un ruolo di facilitazione; può essere un leader
o un consulente; può essere chiamato a facilitare la costituzione di un gruppo di lavoro o
a gestire una conflittualità tra gruppi di una comunità; può condurre focus group o
gruppi di auto-aiuto, agendo su mandato di un ente o di una piccola associazione.
Ciascuna di queste attività richiede con buona probabilità l’adozione di tecniche di
gruppo specifiche e un diverso focus, ma tutte si basano su due competenze
fondamentali per lo psicologo di comunità: la capacità di lettura dei fenomeni di gruppo
e la capacità di governare i processi che hanno luogo al suo interno.

Leggere i fenomeni di gruppo significa porsi in una condizione di osservazione e


ascolto del gruppo, cercando di cogliere gli aspetti di funzionamento concreti e
osservabili, e le rappresentazioni sottese a tali aspetti. Non si tratta di fare una diagnosi,
ma di avviare un processo di ricerca con il gruppo sui propri modi di funzionamento;
non si tratta di smascherare il gruppo, ma di accrescere la consapevolezza su ciò che
accade nei gruppi e usare questa consapevolezza per facilitare il percorso del gruppo
verso il suo scopo.

Lo psicologo di comunità, in veste di consulente/facilitatore, dovrà aiutare il


gruppo nella ricerca delle informazioni su questi aspetti e metterlo in condizione di
trovarli da sé in un futuro, secondo il principio give psychology away, ben noto nella
PdC, adottando i seguenti criteri operativi:

1) L’intervento sul processo (il come) è sempre da privilegiare rispetto


all’intervento sul contenuto (la cosa).
2) Il processo di svolgimento del compito è sempre da privilegiare rispetto al
processo di interazione interpersonale.
3) Gli interventi strutturali sono in linea di massima i più potenti nella misura
in cui vengono applicati a processi ricorrenti e stabili, ma sono anche
interventi che susciteranno le maggiori resistenze.

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