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Blackstar, il singolo che anticipa il nuovo album di David Bowie e il video di Johan Renck. Le prime
eContent award 2015 – Indie-eye
impressioni
Di Michele Faggi
Quando Michael J. West dalle pagine di Jazz Times documentava l’enigmatico incontro tra David
Bowie e l’orchestra di Maria Schneider, si chiedeva anche quanto Sue (or in A season of crime)
avrebbe inciso sul futuro creativo del musicista britannico. La risposta è Blackstar, dove
l’impostazione Jazzistica attraversa un territorio musicale sincretico che rilegge in forma meno
improvvisativa alcuni aspetti della scrittura bowiana rovesciandone gli assunti. Le dichiarazioni di
Tony Visconti, più critiche ai tempi della pubblicazione di The Next Day, hanno fatto il giro della
stampa mondiale e sostanzialmente benedicono il nuovo corso come una forma di rinnovamento
più netta: “Se avessimo utilizzato i musicisti con cui David collabora regolarmente avremmo visto
dei performer rock suonare jazz, mentre con jazzisti che suonano rock tutto viene ribaltato [….] e
non c’è niente che sia stato fatto in riferimento al passato“.
La nuova band di Bowie include quindi il sassofonista Donny McCaslin e il chitarrista Ben Monder
entrambi parte della Maria Schneider Orchestra ai quali si sono aggiunti Mark Guiliana alla
batteria, Tim Lefebvre al basso and Jason Lindner a piano e tastiere.
Donny McCaslin con Tim Lefebvre, Mark Guiliana, Jason Lindner @ 55 Bar NYC Zoom F1
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La Blackstar del crooner allora non è la stessa che sostituisce gli occhi del personaggio bendato
(ancora gli accecamenti, ad allungare la serie di denigrazioni dell’occhio nella storia bowiana) , né
quella crowleyana stampata sulla copertina di una bibbia nera brandita da un bowie predicatore; i
segni vengono rovesciati, irrisi, sostitutiti e ricombinati, inclusi quelli della storia mitopoietica che
ha attraversato la discografia bowiana, con la carcassa di un astronauta che si allontana verso un
sole oscuro mentre la sua tuta abbandonata nasconde un teschio tempestato di gemme preziose,
versione “nera” dello “skull” bianco di Damien Hirst, l’opera nota con il nome di “for the love of
god“.
Video e liriche in questo senso intrecciano un percorso creativo che Bowie e Renck hanno discusso
insieme scambiandosi idee, mentre il primo inviava disegni e bozzetti al secondo e interveniva
direttamente nella costruzione di un immaginario che gioca con numerose tradizioni sacre. Sono
certamente le tre figure umane appese come spaventapasseri ad un’esile croce di legno, simboli
delle divinità rurali, ma anche i rituali di possessione voodoo e tutte le simbologie Zoroastriane,
non solo per quanto riguarda i riferimenti espliciti al pentacolo e alla torre Crowleyani, ma anche la
nascita di un messia putrido che sorge dal sottosuolo, non così distante dall’incarnazione di
Ahriman, uno dei nomi di Angra Mainy, “eterno dator dei mali e reggitor del moto“, come scriveva
Giacomo Leopardi nella sua terribile invocazione Ad Arimane.
Chissà se la posizione di Bowie sia vicina a quella del poeta recanatese, per il quale l’andamento
naturale dell’universo è diretto non altro che al male; ma al di là di esche e biforcazioni, dopo il
defacement Raineriano di The Next Day, è interessante vedere il nostro ancora al centro di uno
spossessamento che lo colloca fuori e dentro il proprio universo: “something happened on the day
he died, spirit rose a metre then stepped aside, somebody else took his place and bravely cried: I’m
a blackstar”