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LA LUNA NERA

IL POTERE DELLA DONNA


E LA SIMBOLOGIA
DEL CICLO FEMMINILE

J UTTA V OSS
Edizioni di red studio redazionale, via Volta 43, 22100 Como © 1996.
Traduzione di Amelia Muscetta dall’originale tedesco Das Schwarz Mond -Tabu,
Kreuz Verlag, Stoccarda. Dieter Breitsohl Literarische Agentur, Zurigo, © 1988.
Redazione di Sandra Gerosa.
Coordinamento di Paolo Giorno.
I edizione: 1996

RED edizioni
ISBN 88-7031-785-4

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Dal sangue sacro al sangue impuro:
la storia di un violento mutamento culturale
di cui ancora paghiamo le conseguenze.

Nel corso dell'evoluzione patriarcale il mestruo,


sangue in origine sacro, diventò maledetto e impuro.
La donna fu così defraudata della sua potenza religiosa.
Partendo dalla condizione attuale della donna, e dall'interdizione culturale
lanciata contro le mestruazioni (che nella nostra società sono diventate tabù
e considerate alla stregua di malattia), l'autrice risale all'epoca matriarcale
della potenza femminile e della sacralità del sangue.
Il percorso che segue si snoda tra immagini e miti di culture diverse,
tutti volti a celebrare la forza della donna di far nascere e rinascere,
come pure la decadenza di questa sua facoltà: dalla cinghialessa sacra,
poi ridotta a inoffensiva scrofa, alla luna nera, simbolo eloquente
dell'oscurità in cui è avvolta la mestruazione.
Portare alla coscienza queste immagini primordiali è per l'autrice non solo
un risarcimento culturale, ma un atto anche politico: consente alle donne
di recuperare la loro integrità e il senso della loro, antichissima, autorità.
Ma la riconquista dei valori femminili diventa anche l'unica strada percorribile,
oggi, da tutti, per risanare il rapporto dell'uomo
con la natura e i suoi ritmi cosmici.

Jutta Voss ha fatto studi religiosi. Si è dedicata alla “teologia femminista”


e alla mitologia prima di specializzarsi In psicanalisi
presso l'Istituto C.G. Jung di Zurigo.
Ora si occupa di terapia di gruppo con le donne.

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Indice
Le resistenze e la soluzione
L'uovo, il seme e le nozze sacre

LA MESTRUAZIONE: IL SANGUE DELLA VITA


Introduzione
La sindrome premestruale
La mestruazione: il sacramento femminile
La sillaba primordiale
Il serpente della mestruazione
Il ciclo mestruale
L'immagine ciclica del mondo
La mestruazione e l'evoluzione dello spirito

LA CINGHIALESSA SACRA MALEDETTA


Introduzione
La fiaba: Il piccolo sarto coraggioso
La leggenda: La maledizione della scrofa cattiva
La parabola del Nuovo Testamento: Il figliol prodigo
La legge nell'Antico Testamento: il divieto della carne di maiale

IL MAIALE: L'UTERO COSMICO


Introduzione
L'origine della coscienza
La dea-maiale della nascita e della rinascita
Il maiale del cosmo in Melanesia
La dea-maiale danzante dell'India
Il maiale che fa rinascere dell'Egitto
Il maiale che sorride di Vinta
La dea-maiale delle trasformazioni in Grecia
Il maiale gigante celtico
La scrofa cristianizzata in Germania

LA DEA TERNARIA DEL CICLO


Il campo energetico del ciclo del sangue
Io, la dea del sangue della luna
La dinamica ternaria del ciclo
Le dee ternarie del ciclo

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Le Resistenze
e la Soluzione
Per molto tempo ho avuto notevoli resistenze interiori a scrivere un libro sulle mestruazioni. È
un tema intimo, questo, e per me che sono una donna è il tema intimo per eccellenza. Eppure non
avevo scelta, perché era dentro di me. Sentivo che non avrei avuto pace finché non avessi messo
sulla carta i miei pensieri, riordinandoli. Questo “sangue della vita” mi tocca fisicamente e psichi-
camente. Mi sono confrontata con tremila anni di storia in cui le donne, a causa di quel loro san-
gue da cui è nato ogni uomo su questa terra, sono state demonizzate, maledette, maltrattate, de-
formate, assassinate, ridotte a tabù.

Rainer Maria Rilke scrive All’angelo:

Nel pianto siamo appena commoventi,


a occhi aperti siamo appena sveglie.
Il nostro sorriso non seduce,
e se seduce chi lo segue? Uno qualsiasi.

Angelo, allora dovrò lamentarmi?


Ma quale mai sarà il mio lamento?
Ah, io grido, io batto a tutta forza il mio tamburo,
ma non m’illudo che qualcuno m’oda.

Non voglio più piangere dal momento che sono “appena commovente”. Con un angelo mi potrei
lamentare, perché anche senza parole lui capisce il lamento della donna che sgorga dal tempo
della disperazione.
Ma gli angeli se ne sono andati. Chi vuole sentire questo lamento? È giunto il momento di cer-
care, di dire, di scrivere parole? Parole chiare, parole univoche?

Ma quale mai sarà il mio lamento?

Dovrei saper danzare questo tema, come a Eleusi il mistero del sangue si poteva solo danzare.
Ma anche se potessi fare ciò in modo adeguato, chi comprenderebbe queste antichissime danze
di sangue e di mestruazioni? Come potrebbe qualcuno verificare la lingua del corpo e del cerchio,
questa saggezza incarnata? Come si potrebbe chiedere a una danza quanto sia “giusta” o addirit-
tura quanto sia “vera”?
Oppure, come i Celti, dovrei esprimere il mio tema attraverso simboli dotati di una pluralità di
strati, senza spiegazioni, fidando nell’autenticità e nell’efficacia anche delle immagini più incom-
prensibili! Ma come potrebbe essere verificabile scientificamente questa modalità d’espressione?
In cui le immagini sono pur partecipi di altri mondi e parlano in un’altra lingua dell’“essenza” che
sta dietro le cose?
E così, per più di tre anni ho cercato, raccolto, fotografato, etichettato, catalogato e rielaborato
circa duemilacinquecento immagini su questo tema. Purtroppo, per costi di riproduzione assai alti,
solo poche di essere possono venire mostrate in questo libro.
Dapprima, più che raccogliere materiale su quest’argomento, ho semplicemente cercato me
stessa e la mia storia. Il tema si andava strutturando un poco alla volta, man mano che vivevo as-
sieme a queste immagini, e così cominciai a cogliere in modo non intellettualistico ciò che esse
esprimevano. Fui toccata dalle immagini.
Quando si delineò il “filo rosso” e fu possibile riconoscere l’incredibile rapporto fra “maiale” e
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“mestruazione”, fui più spaventata che rallegrata delle mie scoperte e dovetti iniziare a indagare
sistematicamente questi motivi figurativi, perché un simbolo isolato poteva apparire “casuale” o
“unico” e quindi inutilizzabile, inadatto a dimostrare alcunché. Nessuna delle mie immagini è un
caso unico.
Tutto ciò che ho imparato, scoperto e spesso riconosciuto soltanto scuotendo la testa, lo devo a
queste immagini che risalgono a tempi antichi e antichissimi, lo devo a quel “guardare” che nel
buddhismo costituisce un esercizio centrale della meditazione. Queste immagini mi condussero al-
l’essenza che sta dietro di esse, alle parti invisibili di cui si compongono i simboli autentici. Guar-
dare è il fondamento del sapere. Il sapere della saggezza è impossibile se non si guarda il concre-
to. Ogni sapere nasce dal guardare la realtà così come essa è e come è nella sua essenza. Guar-
dare conduce all’illuminazione, dice Buddha.
Di queste immagini ho avuto urgente bisogno anche per l’equilibrio della mia anima: esse sono
state una sorta di solida balaustra per i miei pensieri, allorché ha incominciato a vacillare il ponte
sottile sospeso sul fiume delle mie conclusioni che si accavallavano precipitosamente.
Solo queste immagini e i vivi simboli dei miei sogni mi hanno “protetta”, impedendomi di precipi-
tare. E comunque queste immagini sono state anche quelle che mi hanno dato la possibilità e il
coraggio di arrivare a conclusioni che altrimenti non avrei osato neppure pensare e men che meno
mettere per iscritto.
Poiché le immagini sono la storiografia matriarcale, ho avuto con loro un dialogo che ha piena-
mente coinvolto la mia soggettività e mi ha insegnato a pensare e a sentire in maniera mitico-
matriarcale. Questo tipo di sapiente ammaestramento è stato di enorme, primaria importanza per
lo sviluppo del lavoro. Ho creduto più alle immagini che alle descrizioni che ne davano certe inter-
pretazioni “scientifiche”, troppo spesso purtroppo intollerabilmente misogine.
Così iniziai a tenere le mie prime conferenze utilizzando queste immagini e sperimentai quanto
profondamente ne fossero scosse e toccate le donne. Soltanto allora ebbi veramente la consape-
volezza dell’importanza che riveste il simbolo del maiale. Come potevo però scrivere un libro su
questo tema del maiale e della mestruazione se tutto ciò che è intimo può essere vissuto soltanto
attraverso il dialogo, soltanto fra persone che si capiscono e che sono solidali fra loro sulla base
delle proprie esperienze e della propria sofferenza?
Forse la solidarietà fra donne, al di là dello spazio e del tempo, ha bisogno del silenzio?

«C’è un tempo per piangere, un tempo per danzare; c’è un tempo per tacere e un
tempo per parlare» (Ecclesiaste 3:4-7).

Ma quando è il momento giusto?


Eppure “adesso” è una delle esperienze fondamentali nella trattazione del mio tema:

«Ah, io grido, io batto a tutta forza il mio tamburo, ma non m’illudo che qualcuno
m’oda».

Tuttavia non avevo scelta, dovevo continuare a occuparmi di questo tema e delle mie resisten-
ze.

Angelo, allora dovrò lamentarmi?

Constatare quante fossero le donne che potevano confermare i miei ostinati ragionamenti mi fe-
ce bene e mi aiutò per un po’ a mantenere l’equilibrio fra l’importanza di questo tema così centrale
per le donne e il peso delle mie resistenze di fronte allo scrivere.
Mi è stato di aiuto immaginare di parlare semplicemente con persone che mi conoscono, che mi
vogliono bene, che sono “in cammino”, piene di vita e di curiosità, e che, malgrado tutte le paure,
hanno voglia di cambiare se stesse e di “intrufolarsi fra i mondi”.
Pensavo alle molte donne che mi hanno affidato le loro esperienze, che hanno riso e pianto, spe-
rato e gridato, sofferto e danzato con me. Ma da dove veniva questa muta fiducia che ancora oggi

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mi riempie di stupore e di gioia?
Con queste donne posso affrontare il mio tema e tentare di scrivere quello che vorrei dire e con-
fidare. Esse sono sorelle, capaci di ascoltare, ignote amiche provenienti dalla storia comune, da
quella storia delle donne che ancora non è stata scritta. Sarebbe più facile tacere, perché una vol-
ta pronunciate e scritte le parole inizia la vera responsabilità del lamento, e dell’accusa.

È scritto nel Bhagavad Gita:

Meglio che tu faccia il tuo dovere


per quanto imperfetto esso sia,
piuttosto che assumerti i doveri di un altro
per quanto bene tu li possa assolvere.
Meglio che tu muoia assolvendo il tuo dovere;
i doveri di un altro
ti porteranno in grande pericolo spirituale.

Io voglio tentare di riconoscere e di compiere il mio dovere, per quanto in modo imperfetto. Vo-
glio tentare di dare parole al mio lamento e di assumermi la responsabilità della mia ricerca di ri-
sposte a me conformi. Voglio restare con me stessa, perché allora sono parte di molte donne, e
parte anche della nostra storia comune.
È questa la soluzione.

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L’uovo, il seme
e le nozze sacre
I simboli sono lettere d’amore
scritte dalla vita

La strada che conduce alle fonti della totalità e della specifica materialità femminile è parallela
alla ricerca della dea onnipotente dei tempi pre-patriarcali. I miti legati a questa divinità sono sto-
riografia matriarcale e non solo illustrano come si è sviluppata l’idea religiosa di una dea e del suo
culto altamente differenziato, ma mostrano anche l’evoluzione spirituale dell’uomo che si è com-
piuta contemporaneamente a questo processo. Nella dea trovò personificazione, in forma di pla-
stica concretezza, l’esperienza del mondo propria di un’epoca in cui si produsse una civiltà alta-
mente sviluppata, fondata sui valori matriarcali del femminile. I miti della dea descrivono una realtà
politica, sociale, economica e una religiosità metafisica. I miti matriarcali percepiscono come un’u-
nità inscindibile la realtà dell’uomo materiale e spirituale, e abbracciano quindi la totalità storica.
In questo senso i miti non sono un linguaggio “astorico”, ma piuttosto il linguaggio “di una storia
diversa” che ci consente di intuire una verità e una realtà del mondo più esistenziali di quelle che
si possono cogliere in una descrizione improntata alle categorie della causalità storica. Così questi
miti possono costituire ancora oggi una miniera preziosa da cui noi, membri di una società ormai
giunta all’esaurimento delle risorse morali, possiamo attingere quelle riserve di cui abbiamo urgen-
te bisogno per dare una forma più umana al nostro futuro. La negazione della storia matriarcale e
della sua profonda stratificazione nell’anima dell’individuo, l’indifferenza della nostra attuale cultura
verso i valori femminili che furono personificati nella dea sono la prova del fallimento di una cultu-
ra.
Per amore del nostro futuro dobbiamo risalire alle fonti del mito matriarcale, per attingervi la fre-
sca acqua della vita e placare la nostra sete di un’esistenza totale. Questo benefico ritorno ai valo-
ri femminili nella politica e nella religione non è una regressione, ma una svolta che restituirà la vi-
ta agli alberi, ai fiumi, all’aria, agli uomini; una svolta interiore da cui sorgerà l’attitudine a conside-
rare le leggi della natura superiori al nostro bisogno di dominarla e di trarne profitto, l’attitudine a
considerare sacra la materia invece di violarla e di profanarla.
L’idea di un futuro dell’umanità non più orientato soltanto verso il maschile, ma plasmato anche
sul femminile, mi fa sperare che la dea Physis, cantata negli inni orfici, venga restituita agli onori
che le competono. Allora, in una religione che prega soltanto lo spirito santo, potremo tornare a
venerare anche la materia santa. Allora, in una cultura che ha proclamato unico e sommo valore
la ragione, il pensiero razionale, restituiremo alla natura e alla corporeità la loro dignità intangibile.
Allora relativizzeremo i valori patriarcali mostrando quanto siano stati unilateralmente sopravvalu-
tati e libereremo invece dal loro stato di degradazione i valori femminili-matriarcali.
La dea Physis è la personificazione religiosa della santa materia. Al tempo stesso essa rappre-
senta un simbolo nell’evoluzione spirituale e religiosa dell’umanità, simbolo nel quale possiamo
scoprire che miti e figure di divinità femminili si sono sviluppati dall’esperienza della materia; altri-
menti la materia non sarebbe stata considerata sacra e raffigurata in forma di dea.
Lo stadio della coscienza umana che precedette il matriarcato fu quello magico-corporeo; in epo-
ca matriarcale si sviluppò la coscienza mitico-psichica e quindi, attraverso l’affermarsi del patriar-
calismo, ebbe inizio una fase razionale-spirituale della coscienza. Lo stadio di coscienza del futu-
ro, in cui maschile e femminile fossero considerati di pari valore, potrebbe essere una mentalità
spirituale integrale. Tutti gli stadi evolutivi della coscienza sono processi energetici che si basano
su una medesima energia primordiale e si trovano continuamente in trasformazione e in sviluppo.
La materia è una forma di questa energia primordiale e non c’è motivo di degradarla conside-
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randola di minore importanza, così come non c’è motivo di svalutare lo stadio della coscienza ma-
gica e quello della coscienza mitico-matriarcale. Nella fisica, la teoria dei quanti ci mostra la fonda-
mentale unità energetica dell’universo. La materia è soltanto la forma a più bassa frequenza e a
maggiore condensazione della stessa energia che costituisce lo spirito.
Quelli che nella fisica classica sono i corpi solidi, a livello subatomico si dissolvono in probabilità,
e queste immagini di probabilità rappresentano connessioni dell’energia universale. Non esistono
“prime pietre”, esiste soltanto il complicato modello di ampi nessi di energia. Se il modello della
materia a più bassa frequenza di vibrazioni passa a frequenze più alte, il visibile diventa invisibile
e non è più percepibile dai sensi e perciò non più osservabile direttamente.
Il nostro corpo materiale non ha spazio e non ha tempo, ma è un continuum di spazio-tempo. In
ultima istanza, il nostro corpo, come ogni materia visibile, è costituito da energia cristallizzata ed è
un intreccio di vibrazioni energetiche che sono la copia dell’energia cosmica primordiale. La mate-
ria è la stessa energia dello spirito, soltanto con una diversa frequenza di vibrazioni. Partendo da
questa impostazione, posso arrivare a concludere che in ogni elettrone del mio corpo sono regi-
strati i campi energetici che risalgono alle epoche matriarcali e che la materia-energia, ad una più
alta frequenza di vibrazioni, forma dei miti che corrispondono alla sua dinamica. In concreto que-
sto significa: la struttura energetica dei miti è una copia perfetta della struttura energetica della
materia. Le dee ed i loro miti sono copie dei processi energetici che si verificano nel corpo umano!
Tre campi energetici esistenti nel corpo della donna si sono “spiritualizzati” e hanno condotto
alla religione matriarcale della dea e ad una cultura politica del femminile in cui il diritto matriarca-
le, nella forma della teacrazia (dominio della dea) e della ginecocrazia (dominio della donna), de-
terminava le strutture familiari e sociali. Sono esclusivamente campi energetici femminili quelli che
formano l’immagine matriarcale del mondo.
Il campo energetico bio-psichico, il più recente dell’evoluzione, si materializzò nell’uovo femmi-
nile e nel seme maschile, la cui dinamica di attrazione e repulsione è sperimentabile solo nel cor-
po della donna. Nella tarda epoca delle religioni matriarcali ufficiali questo potenziale energetico si
spiritualizzò, diventando il mito centrale della dea immortale che celebra il rituale cultuale delle
nozze sacre col suo sposo mortale, il re di un anno. Voglio servirmi di questo mito per illustrare la
mia tesi fondamentale, secondo la quale i processi biologici femminili e i miti matriarcali co-
stituiscono lo stesso campo energetico, stabilendo così un parallelo fra la dinamica biologica e
il simbolismo mitologico. Facendo questo mi propongo di dimostrare altresì che la storia dello svi-
luppo della coscienza dell’umanità ha la sua origine non nella relazione personale fra la madre e il
bambino ma nella materia stessa. Nei miti della creazione ci si presentano strutture che si ripetono
universalmente. Già questa sincronicità conferma che in tutti gli uomini è insito un modello primor-
diale, che è attivo indipendentemente dalle possibilità di mediazioni storiche o personali.
Un modello primordiale di molti miti della creazione è costituito da: l’uovo femminile, il seme ma-
schile e la dinamica della loro unione. Simboli mitici continuamente ricorrenti sono l’uovo d’argento
o d’oro, il fango, la caverna, il labirinto, il serpente, il mare, il caos, l’albero, il tesoro prezioso.
Strutture dinamiche sono le “nozze sacre”, la “guerra santa”, il “sacrificio alla divinità”.
Quali processi energetici si svolgono a livello biologico nel corpo della donna? Nel tentativo di
tracciare un parallelismo, mi voglio concentrare sui momenti biologici tipici e indicare di volta in
volta (fra parentesi) gli elementi mitici tipici ad essi corrispondenti.
L’uovo è la più grande cellula unicellulare. Esso è il tondo, il cerchio, la sfera. Questo uovo con-
tiene la catena proteica a doppia spirale (motivo del labirinto), la molecola del DNA, dall’inconce-
pibile lunghezza di miliardi di chilometri. Questa molecola di DNA contiene in sé l’intera evoluzio-
ne, tutte le trasformazioni energetiche dell’energia primaria (mito dell’uovo primordiale). Nelle
ovaie riposano circa seicentomila uova (il tesoro nelle caverne). Il singolo uovo cresce nel follicolo
(la perla nell’ostrica), circondato dall’acqua che nella sua composizione chimica assomiglia all’ac-
qua del mare. Esso è il “mare primordiale incarnato”, e conferma che tutta la vita proviene dal ma-
re, che si tratti del pianeta o che si tratti dell’individuo (miti del mare primordiale).
Con l’ovulazione (il passaggio dall’acqua alla terra, il salto primordiale) l’uovo passa nel labirinto
delle tube e lì attende l’impulso dinamico dall’esterno. Nell’eccitazione (miti della creazione tramite
riscaldamento), il seme, attraverso la vagina (bosco, monte del mondo e caverna), giunge nell’ute-

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ro (lo “sbadiglio”, letteralmente: il caso, l’abisso primordiale, la caverna, primo luogo di culto dell’u-
manità), nuota nel mare del liquido seminale maschile (viaggio notturno per mare dell’eroe), giun-
ge nel labirinto dell’ovidotto (processione fino al “grande cerchio”). Il seme “sa” la strada. La sua
testina ha una coda che, come se fosse caricata da un aggregato energetico, è in continuo movi-
mento; con essa, in determinati punti del percorso, il seme si ricarica di continuo sfregandosi alla
parete dell’ovidotto per mantenere la strada (modello della processione secondo gli antichissimi
passi dei pellegrini, due passi avanti e uno indietro). Sono moltissimi i semi in cammino, la concor-
renza è grande e solo un seme vince (la “guerra santa”, la corsa del re di un anno, i “fratelli diven-
tati nemici”). Soltanto un seme è il vincitore e può penetrare nell’uovo che torna subito a richiuder-
si ermeticamente (le “nozze sacre” della dea con il re di un anno). Il seme è piccolissimo rispetto
all’uovo (modello della Grande Dea immortale col suo re-eroe mortale). Quando il seme penetra
nell’uovo, si verificano processi energetici fondamentali.
1. La testa del seme viene subito “castrata” della coda, che è la sua potenza. (È qui l’origine di
tutti i sacrifici e di tutte le paure di castrazione, anche dei rituali di sacrificio del re e in se-
guito dei sacrifici dei tori, dei miti di smembramento, così come del mito freudiano del parri-
cidio.)
2. La testa del seme viene completamente “inghiottita” e l’involucro dell’uovo si chiude del tut-
to. (Tutti i miti della cosiddetta madre divoratrice hanno la loro radice qui e non in
processi di interazione umana. Mentre il maschile in quanto potenza autonoma muore e
in quanto processo che dà l’impulso si dissolve completamente nel femminile, il femminile
sviluppa invece nuova vita. La dea è immortale, il re di un anno deve morire.)
3. L’impulso divide l’uovo in due cellule uguali, fornite entrambe di cromosomi femminili XX.
Soltanto dopo settimane, in una “lotta faticosa”, si potrà affermare il cromosoma maschile
Y. (Nascono da qui i miti della Madre primordiale, così come il mito della madre e della fi-
glia, e più tardi, nella storia evolutiva, il mito della lotta con il drago, in cui l’eroe Y si misura
con le Madri XX.) Adesso l’uovo, attraverso l’impulso, produce da se stesso la vita (miti di
autogenerazione).
4. Dopo la fecondazione l’uovo comincia a roteare, a “danzare”, girando a sinistra. Nessuno
sa perché, ma il parallelismo con la danza rituale è evidente. È la prima figura energetica
del culto sia nella caverna sia nel labirinto, che veniva deviata a sinistra.

L’uovo giunge danzando nella cavità uterina, per annidarsi nel sangue, attaccandosi alla parete
(fango, tohuwabohu, “prima materia”). Il sangue sviluppa la placenta (la pietra rossa filosofale),
l’uovo fecondato diventa embrione (miti del pesce) e poi feto, attraversa tutti gli stadi evolutivi,
dall’unicellulare al pesce all’uomo, nuovamente circondato nel suo guscio dall’acqua della vita (mi-
ti dell’acqua della vita e della morte), viene quindi nutrito attraverso il cordone ombelicale (miti del-
la corda, dell’asse del mondo, dell’albero dei mondi, della catena d’oro, della scala, tutti simboli del
collegamento tra trascendenza e immanenza). Il cordone ombelicale porta all’ombelico del bambi-
no (omphalos cultuale, ombelico del mondo, per esempio l’Omphalos di Delo con il suo cordone
ombelicale a forma di serpente).
Dopo dieci mesi lunari (dieci è il numero perfetto) la materia “sa” che deve abbandonare la ca-
verna (miti della nascita della luce) e che deve continuare a compiere fuori gli stessi passi del pro-
cesso di sviluppo della coscienza, in una forma nuova, a un nuovo livello energetico; a livello per-
sonale, transpersonale, e oggi a livello tecnico, in cui la grande sfera dell’universo viene perforata
da piccoli missili, che devono separare la testa dalla coda quando l’energia si è completamente
esaurita. La testa e la coda del seme sono il modello primordiale anche dei missili e possono aver
avuto sviluppo soltanto nella scienza maschile, perché il seme è un campo energetico maschile.
Non esistono invenzioni nuove: esistono soltanto il ricordo e la sua rielaborazione in una forma
nuova.
Il secondo campo energetico femminile si materializzò nel sangue del ciclo, che sta in recipro-
co, ritmico rapporto con l’uovo. Lo sviluppo di questo campo energetico diede luogo alla matrili-
nearità. La reale capacità della donna di far nascere rese possibile un’idea di eternità in questa vi-

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ta. Così le donne ottennero in modo del tutto naturale il potere politico. La discendenza avveniva
lungo la linea femminile e la figlia minore ereditava. La relazione sorella-fratello veniva prima di
quella col marito e dopo il matrimonio questi si trasferiva nella località di residenza della sposa. Le
sacerdotesse, nella maggior parte dei casi un collegio di nove donne che erano considerate le
rappresentanti della dea, guidavano politicamente le città e lo Stato.
Il terzo campo energetico bio-psichico presente nel corpo della donna si materializzò nel ciclo
del sangue uterino, che va distinto dal ritmo ovarico, anche se ovviamente i due cicli interferiscono
e si condizionano reciprocamente. Il ciclo mestruale si spiritualizzò nella dea trifasica nero-bianco-
rossa, e la sua forma più differenziata fu la religione ufficiale di Eleusi. Nel culto delle dee Kore,
Demetra e Persefone veniva venerato il mistero della trasformazione del sangue femminile. Poi-
ché la donna, al contrario dell’uomo, contiene nel proprio corpo tutti i campi energetici del sangue,
dell’uovo e del seme, nonché la reciproca dinamica che sussiste fra loro, fu solo la donna che nel
matriarcato poté creare miti e culti così completi e così adatti a fornire una spiegazione del mondo.
I campi energetici femminili sono diventati storia. L’uomo, a parte il seme che sgorga dal suo cor-
po, non possiede nessuno di questi campi energetici e perciò non può averli proiettati creando cul-
tura. Tutta l’evoluzione storica della coscienza umana ha le sue radici in modelli primordiali fem-
minili. Perfino a livello personale, quando l’uomo e la donna diventano “una carne sola”, si verifi-
cano, come nei tempi mitici, quelle nozze sacre la cui origine biologica è il processo uovo-seme
che si svolge nel corpo della donna.

Ho suddiviso il libro in quattro sezioni. Nella prima mi confronto con l’esperienza della mestrua-
zione, esperienza che nella società patriarcale molte donne vivono in maniera talmente alienata
che spesso se ne ammalano. Ricollegarsi alla saggezza matriarcale racchiusa nei miti e nelle dee
permette di sperimentare di nuovo come allora veniva veramente intesa e vissuta la mestruazione.
Nella seconda sezione, partendo dalla situazione attuale, intendo risalire all’indietro nella storia
passo dopo passo, fino alle epoche di cui abbiamo testimonianza in documenti scritti. Nel simbolo
della cinghialessa cercherò di dimostrare come, nel processo di patriarcalizzazione, la potenza
femminile sia stata sepolta ed eliminata, e cancellata fino a oggi dalla ricerca storica.
Il simbolo della cinghialessa è il mio principale strumento in questa ricerca della sacralità perduta
del sangue femminile. Attraverso la fiaba dei Grimm del piccolo sarto coraggioso, la leggenda
francescana della maledizione della scrofa malvagia, la parabola del figliol prodigo del Nuovo Te-
stamento e i testi delle leggi dell’Antico, voglio chiarire i meccanismi psichici per cui la cinghiales-
sa, in origine sacra, diventò poi la cinghialessa maledetta.
La terza sezione è dedicata interamente alla dea-cinghiale. Sulla base del campo energetico
dell’uovo-sangue illustrerò la doppia autorità femminile nel culto e nella cultura. Il simbolo dell’uo-
vo-stelle indica, attraverso la capacità della donna di far nascere, la sua potenza politica, mentre il
simbolo della coppa di luna nera indica la capacità della dea di far rinascere, e con essa la poten-
za cultuale della donna. Seguirò in molte culture le tracce della dea-cinghiale. Provo una profonda
venerazione di fronte alla grandezza di questo animale simbolico, che nella sua sacralità originaria
si sottrae, a ragione, a ogni approccio intellettuale.
Quello che rimane è il rispetto per la bellezza, la fierezza e la forza che mi si è comunicata at-
traverso questo animale-simbolo e che mi piacerebbe comunicare a mia volta. Quello che in me si
è rafforzato è il senso di quanto grandi fossero l’autorità e la saggezza della donna nel matriarca-
to, insieme con una nostalgia quasi inquieta di esperienze religiose in cui si possa percepi-
re qualcosa di questa naturale pienezza e gioia di vita del femminile. Non ho “rielaborato” il
motivo della cinghialessa, ma la mia anima vive, ama e soffre con questo simbolo mitico, tanto vi-
vo e tuttavia tanto disprezzato nella nostra cultura.
Nell’ultima sezione vorrei decifrare il campo energetico del ciclo mestruale e delineare come il
principio del ciclo trifasico si sviluppò diventando la religione ufficiale. Il sangue della donna è l’ini-
zio della religione e il ciclo mestruale in tre fasi è l’archepotenza (Archepotenz) che ha messo in
moto fisicamente, psichicamente e spiritualmente il processo dell’evoluzione umana.
Il significato culturale del ciclo femminile è rappresentato nelle tre dee, nera, bianca, rossa. La
dea nera della terza fase del ciclo è la dea-cinghiale. Cercherò di dimostrare logicamente che es-

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sa non è una dea della morte, come ci dicono le interpretazioni patriarcali, ma invece una dea ma-
triarcale della trasformazione.
La ricerca femminista ha messo in luce quanto vengano negate le donne attraverso la lingua e
la mentalità attuali. Io sono una donna e scrivo come donna, e in quanto donna ho un altro ap-
proccio ai valori femminili fondamentali, perché il mio corpo e la mia esperienza corporea sono
quelli di una donna. Non c’è uomo che abbia mai potuto sapere come le donne vivono le loro me-
struazioni, malgrado una tradizione millenaria di riti di sangue con cui i maschi hanno cercato di
appropriarsi proprio di questa esperienza. Io scrivo questo libro per le donne, non contro gli uomi-
ni, e mi rallegro per ogni uomo che voglia essere partecipe in modo nuovo del mondo e della real-
tà femminili, perché questo potrà servire a sviluppare la sua Anima, la femminilità che è racchiusa
nell’animo maschile. Ora, però, io sono impegnata in primo luogo alla riconquista dell’identità e
dell’autorità femminili.
Parole come “patriarcato” e “patriarcale” non le utilizzo come ingiurie, ma come concetti evoluzio-
nistici e psicogenetici, anche se non posso negare che essi contengano per me una certa carica
emotiva, perché l’esperienza del patriarcato comporta immense ferite, fra cui quella di essere “il
secondo sesso”.
Lo sviluppo dei miti matriarcali non consente altro pensiero che quello mitico. Questo porta il se-
gno della partecipazione soggettiva agli avvenimenti e del coinvolgimento emotivo in essi. È un al-
tro modo di riflettere, un “essere dentro” gli avvenimenti. L’uomo di oggi, abituato a pensare
razionalmente, crede di poter considerare oggettivamente un fatto, di poter, per così dire, rimane-
re “fuori e davanti”. Egli si distacca dalla totalità, rappresenta e dispiega idee su di essa, ma non
vive più in essa. Quando i fisici scoprirono che a livello subatomico onda e particella rap-
presentano la stessa energia unitaria, fecero l’esperienza che nelle loro ricerche non pos-
sono esistere conoscenze oggettivamente e scientificamente sicure, perché a seconda
dell’ordine degli esperimenti e a seconda delle aspettative dello sperimentatore la particella
subatomica appariva come onda, oppure l’onda appariva come particella subatomica. Que-
sto rese chiara la soggettività delle prove oggettivamente scientifiche.
Ciò che la teoria dei quanti descrive (che nelle reazioni l’osservatore e l’osservato si con-
dizionano reciprocamente e costituiscono un’unità e che quindi lo scienziato oggettivo in
realtà agisce come partecipante soggettivo) è ben noto al pensiero mitico. Attraverso la fisi-
ca dei quanti risaliamo all’esperienza mitica della totalità di ogni vita, alla materia visibile e alla sua
essenza invisibile che risplende dietro a tutto. La struttura della scienza matriarcale è data da que-
sto tipo di “esperibilità mitica” contro la dimostrabilità causale-astratta della scienza attuale. Inoltre,
quest’ultima ha il suo punto di osservazione nel qui e ora, da cui trae le sue conseguenze risalen-
do indietro nello spazio e nel tempo. Perciò è inevitabile che si giunga a conclusioni sbagliate,
perché la catena delle causalità parte da modelli di pensiero attuali. Ma la visione maschile della
realtà non è la visione umana della realtà. Di tutto quello che oggi lo spirito patriarcale porta a
consapevolezza, il pensiero mitico-matriarcale è già consapevole, diversamente consapevole. Per
coloro che pensano miticamente, il criterio della verità è l’esperienza esistenziale, non una
qualche storicità “oggettiva”. Per questo lavoro io voglio rimettere in vigore l’autorità dell’espe-
rienza. Per me essa è uno dei valori più alti, perché conduce alla saggezza esistenziale e non al
sapere astratto. Solo dopo l’esperienza soggettiva viene il momento della riflessione oggettivante,
del processo di riflessione in cui ci si distanzia dal fatto per comprenderlo meglio. Esperienza e ri-
flessione sono forze complementari, la Bibbia le chiama saggezza e conoscenza.
Quando si ha a che fare con un simbolo, con una struttura complessa sviluppata in un arco di
tempo plurimillenario, occorrono entrambe le capacità: il coraggio di affrontare come persona un
processo di esperienza e la calma necessaria per riflettere ed elaborare queste esperienze. Sarà
sempre impossibile decifrare in maniera logica e univoca un simbolo che possiede una pluralità di
strati. Mettere in campo i significati di un simbolo vivo come fossero fatti obiettivi equivale a violen-
tarlo. Possiamo soltanto girargli intorno, cercare fonti mitologiche, associare, intuire, instaurare
con esso un dialogo del cuore, ma non lo comprenderemo mai in maniera definitiva. I simboli sono
come alberi con molti rami diritti e curvi, collegati fra di loro come una rete inestricabile. E come
ogni albero ha nella terra un reticolo di radici di ampiezza corrispondente a quella della sua chio-

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ma, così accade anche col simbolo. Sarebbe davvero presuntuoso da parte mia credere di poter
mai arrivare a interpretare e a spiegare il simbolo del cinghiale e l’ampio simbolismo religioso della
dea-cinghiale. Nella molteplicità di strati che lo compongono esso è più grande di quanto possano
mai concepire la ragione, il cuore e il sentimento di un uomo. In ogni caso io ho seguito con un
senso di gratitudine le tracce del cinghiale che ci hanno lasciato gli uomini di religioni, tempi e luo-
ghi mitici. Sono sempre consapevole di sapere troppo poco, ma so anche che la mia anima “sa”
molto di più. Posso solo comunicare queste intuizioni e invogliare anche altri ad avventurarsi in un
proprio processo di nuove esperienze.
Io sono per il pensiero mitico e soggettivo che regge le mie interpretazioni, eppure devono esser-
ci anche dei criteri per stabilire la validità, se non altro relativa, dell’interpretazione di un simbolo.
Per questo lavoro è stata di primaria importanza la mia innata intuizione, che mi spinge sempre a
chiedere di ogni cosa il perché e il percome. L’intuizione ha bisogno di sviluppare una linea com-
plessiva. In questo essa, anche se spesso non può essere sottoposta a verifiche scientifico-cau-
sali, è però concreta ed esatta sul piano dell’esperienza interiore. Il criterio dell’intuizione è la con-
sequenzialità di una grande linea di pensieri. L’intuizione è la forma dell’intelligenza femminile, che
è localizzata nell’emisfero cerebrale destro.
Per non cadere nell’arbitrarietà è però altrettanto necessario il pensiero razionale-causale, an-
che se per me è sempre importante che un ragionamento abbia comunque un’evidenza immedia-
ta, invece di fondarsi sulla catena di prove di una causalità totalmente astratta. Con la funzione
della sensazione, che compie sempre anche valutazioni, voglio rendere i ragionamenti plausibili
sul piano emotivo, perché si possano valutare soggettivamente le proprie esperienze e trovare i
propri punti di vista. La quarta capacità, sempre secondo la psicologia junghiana, è il sentimento,
con cui si intende la percezione del dettaglio concreto. Così l’intuizione e i suoi presentimenti ven-
gono agganciati alla realtà concreta. E in concreto io ho cercato e fotografato circa 2500 immagini
e ho affrontato con esse un processo di apprendimento e di trasformazione. Queste immagini
hanno concretizzato, relativizzato e messo a fuoco le mie intuizioni, rendendo possibile una visio-
ne complessiva, una teoria. Quando ci si occupa di miti e di simboli, questi quattro criteri mi sem-
brano quelli adatti.
Per dirla con un po’ di umorismo, l’unico scopo di questo viaggio di ricerca in antiche esperien-
ze è quello di rispondere a una sola domanda: perché non sta bene tirare fuori la lingua? Una do-
manda in apparenza innocente, che però tanto innocente non è, come si vedrà in seguito.

(Nota di Nico: la cinghialessa vera mi è apparsa sulla piana, nel 2006, nel campo di pomodori
rossi davanti alla finestra della mia camera, e poi nel prato. Ancora non sapevo nulla del simbolo,
e già lei mi apparve. Ecate è con me, e mi guida in questo viaggio. Grazie alla Dea e a Jutta)

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LA MESTRUAZIONE:
IL SANGUE
DELLA VITA
“Ma la saggezza da dove si trarrà?

L’oceano dice: “Non è in me”


E il mare dice: “Neppure presso di me”.

Essa è celata agli occhi di ogni vivente


E occulta agli uccelli del cielo.
L’abisso e la morte confessano:
“Coi nostri occhi ne udimmo la fama”.

Oh se potessi essere come nelle lune più antiche.”

Giobbe 28 e 29

«Le Furie, dal loro profondissimo spazio occultato dall’educazione e dal lavaggio del
cervello, hanno sussurrato alle donne che torneranno, scrolleranno via la paura e la
vergogna e faranno irruzione attraverso la crepa nella porta della prigione (...) Le
donne non devono implorare per i loro diritti. I diritti ci sono sempre stati. Adesso le
donne se li devono riprendere, insieme con i segreti che appartenevano a loro e che
sono stati profanati, rubati o distrutti.»
Leonora Carrington,
pittrice surrealista

Introduzione
In questa sezione voglio considerare il processo intrapsichico e intrafisico che si verifica soltan-
to nel corpo della donna, cioè il campo energetico dell’uovo e del sangue. In tutto il mondo sono
diffusi i miti di autogenerazione secondo i quali i bambini vengono creati dal sangue della donna.
Nel loro simbolismo questi miti descrivono contemporaneamente la creazione di tutto il cosmo a
opera della donna. I simboli continuamente ricorrenti sono l’uovo, il serpente e il fango. Essi corri-
spondono al codice biologico dell’uovo femminile, al “serpente” mestruale, il flusso del sangue, al
“monte primordiale” della placenta, il fango primordiale della prima materia, come gli alchimisti
chiamavano l’elemento primordiale da cui viene creata ogni cosa.
Risalgo così, lungo la storia dell’evoluzione, a un’epoca in cui la donna, soltanto per se stessa,
13
veniva vissuta come dotata di autorità. Il sangue della donna, da cui sorgono sia la creazione
umana sia quella del cosmo, è la potenza primordiale della dea cosmica. Da questa archepotenza
si sviluppano, in un processo di evoluzione della coscienza che non ha pari, l’idea religiosa della
dea triforme e l’idea spirituale dell’immagine mitico-ciclica del mondo. Il ciclo mestruale viene, per
così dire, esteriorizzato attraverso il ricordo dell’utero, cioè proiettato fuori dal corpo e spiritualizza-
to, e forma così la pura cultura matriarcale.
Partendo dalla situazione attuale della donna e dalla degradazione del suo mestruo (degrada-
zione che provoca malattie), voglio risalire all’epoca matriarcale delle donne e della loro idea del
sangue sacro. Risalendo ancora più indietro nel tempo voglio dimostrare che, a mio parere, la
mestruazione fu probabilmente nell’evoluzione il salto qualitativo che fece diventare il primate uo-
mo.
All’inizio dell’evoluzione umana era il flusso di sangue, la cui importanza si dispiegava in un ric-
co simbolismo. Il filo rosso guida Arianna attraverso il “labirinto dell’utero”. Con una corda rossa
Rahab si legittima come dea salvatrice e come rappresentante della cultura matriarcale (Giosuè,
2:18-21). Nella loro processione da Atene a Eleusi i mýstai, gli iniziati, si legano un filo purpureo
intorno al piede sinistro. Era, nella veste di Ebe (Eva = vita), porge agli dei il vino rosso sovranna-
turale. Si intende anche il fiume riempito di sangue da cui il dio nordico Thor ottenne l’illuminazio-
ne e la vita eterna1. Si tratta dell’idromele rosso dei re celtici e del tappeto rosso che rappresenta
ancor oggi un simbolo di potere e che viene disteso davanti ai re. Si tratta del mar Rosso dove Li-
lith fuggì per vivere da sola dopo aver lasciato Adamo. Si tratta infine del fiume Stige, che si av-
volge sette volte nell’interno della terra per ritornare in superficie nei pressi della città di Clitor (co-
me non pensare alla clitoride?): il fiume sul quale gli dei dell’Olimpo facevano i loro giuramenti,
come li facevano sul sangue delle loro madri e sul sangue e le setole dei cinghiali. La dea indiana
dPal-ldan-lha-mo cavalca sul suo mulo rossastro su un oceano di sangue e Rabie Hainuewele, la
dea-luna di Ceram, fa scendere i bambini sulla terra attaccati a una collana di coralli rossi. In una
fiaba balcanica l’eroe deve trovare un capello rosso come il sangue. E quando lo spezza, «trova
scritte al suo interno molte cose importanti, tutto quello che era accaduto e quando si era verifica-
to, a partire dalla creazione del mondo», affinché «vengano rivelati i segreti finora rimasti nasco-
sti»2.
Sono questi i segreti rossi che dobbiamo scoprire noi donne, per ritrovare il filo rosso della no-
stra specifica vita femminile e del nostro specifico potere originario. Quando una ragazza ha il
menarca e vede per la prima volta il proprio sangue, questa esperienza (anche nella forma sba-
gliata, tabuizzata in cui oggi si presenta) comporta ogni volta una potente cesura, spesso purtrop-
po uno shock tremendo da cui conseguono alterazioni psichiche. Ma a questa cesura si accompa-
gna sempre una spinta nello sviluppo della coscienza. Nessuna ragazza può tornare indietro a
prima del menarca, anche se è proprio questo che cercano di fare le anoressiche con la loro ma-
lattia. Nella storia dell’umanità la percezione del sangue che scorre e poi da solo smette di scorre-
re e poi scorre di nuovo dev’essere stata un’enorme spinta alla coscienza. Tutti i riti iniziatici ruo-
tano intorno al sangue. Il sangue è tabù, nel vero senso della parola: santificato, numinoso, mana.
In Polinesia e fra i Sioux la parola TABU ha due significati: “santificato” o “mestruato”. Gli indiani
Dakota usano la parola WAKAN, che significa: “meraviglioso”, “mestruale”, “spirituale”3.
Nella Cabala il significato reale e spirituale del sangue appare incarnato nella Sephira Daat.
Daath è la Conoscenza, ma la conoscenza fondata non su conclusioni logiche bensì su esperien-
ze sensibili, corporee. Ciò che è corporeo è il fondamento di ogni esperienza spirituale. La parola
ebraica che indica questo modo di conoscere è JADA’, con la sillaba del sangue DA: non è un ca-
so, perché tutte le sillabe primordiali nascono appunto da queste esperienze corporee, e la loro
“invenzione” crea coscienza. Non è frutto del caso, ma della conoscenza corporea se in molte cul-
ture si sviluppano contemporaneamente sillabe fondamentali simili, come per esempio DA e DAM,
per indicare il sangue, perché la “scoperta” della lingua e l’evoluzione della coscienza che essa
provoca poggiano su una proiezione del corpo. In ebraico sangue si dice DAM.
JADA’ si traduce con: “rendersi conto”, “notare”, “conoscere attraverso la percezione o la rifles-
sione”, “fare attenzione a qualcosa”, “preoccuparsene”; in senso religioso significa “capire”, anche
“sapere che cosa è bene e che cosa è male”, quindi anche “distinguere separando”. Nella forma
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Niphal questo verbo diventa NODA’ e significa: “mostrarsi”, “essere visibile”; e anche: “farsi rico-
noscere”, “annunciarsi”, “rivelarsi”4.
La sillaba primordiale DA e DAM, che indica l’esperienza fisica del sangue propria della donna,
abbraccia il rivelarsi, il diventare visibile del sacro e lo sperimentarlo. DA significa il “sangue”, la
percezione materiale e l’esperienza spirituale di esso e la sua potenza creativa. Da qui si sono svi-
luppate nei miti le dee Danae, Dafne, Danu, Diana, Delia, Dalila, Damgalnunna e i figli amanti che
vengono dal loro sangue DA, come Daniel, Damuzi, Damocle.
Questo chiaro rapporto fra materialità corporea, spiritualità e sviluppo spirituale è verificabile an-
che nella parola ebraica RŪAH. RŪAH indica lo Spirito che sotto forma di colomba aleggiava sulle
acque della Creazione. La teologia femminista parla di Spirito femmina5 perché la parola è di ge-
nere femminile, ma il suo significato originario va molto più in profondità.
Nel tantrismo, una forma di culto che ha sempre accolto pienamente la corporeità e la sessuali-
tà, sono presenti nel Rito Grande due elementi: Sukra e Rakta. RAKTA è il sangue mestruale. La
sacerdotessa, che nell’unione deve assolutamente mestruare perché le sue energie lunari possa-
no fluire, incarna questa forza del RAKTA. Essa viene tradotta anche con RUKH o RUQ o con l’a-
rabo RUH.
Di quest’area semantica fa parte anche l’ebraico RŪAH, lo Spirito femmina. Il suo nome signifi-
cherebbe la “forza del rosso”: il concreto colore rosso del sangue e l’esperienza spirituale della
sua forza ed energia.
Nella saggezza orientale c’è sempre il riconoscimento del fondamento fisico della spiritualità.
CH’I o KI oppure GI significano questa energia vitale che scorre invisibile nel corpo; però si dice
che il sangue segue questo flusso vitale del CH’I. Il “flusso rosso” del sangue è la corrente dell’e-
nergia vitale visibile e invisibile. Nei Tantra, Shakti è la dea saggia che sa della mestruazione e
della sua spiritualità. Quando mestrua, si chiama la rossa DAKINI, che rappresenta l’energia ma-
teriale e al tempo stesso spirituale del sangue.
La Dakini tantrica corrisponde, in quanto dea cosmica del sangue, alla dea ebraica RŪAH che
personifica quella saggezza del corpo e dello spirito di cui nell’Antico Testamento si dice che “gio-
cava” fin dall’inizio del mondo.

NOTE

1. B.G. Walker Women’s Encyclopedia of Myths and Secrets, San Francisco, 1983, sotto la voce
Mens.
2. H. von Beit Symbolik des Marchens, Berna, Monaco, 1981, pag. 325.
3. P. Shuttle, P. Redgrove Die weise Wunde-Menstruation, Francoforte, 1983, pag. 65.
4. W. Gesenius Hebräisches und aramäisches Handwörterbuch aber das Alte Testament, Berli-
no, Göttinger, Heidelberg, 1915. Vedi la voce jada’
5. L’autrice usa il termine Geistin, femminile di Geist, “spirito” (Ndt)

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La sindrome premestruale
Quando, con l’inizio dello sviluppo del patriarcato, gli dei maschili fecero il loro ingresso sulla
scena religiosa del mondo, i nuovi miti raccontarono che essi avevano creato il cielo e la terra.
Quando il dio maschile compì la sua ascesa divenendo Dio creatore anche nell’antica Israele, non
ebbe più bisogno del sangue della donna per creare gli uomini. Rese possibile a Sara avere un fi-
glio anche se «era cessato di avvenire a lei ciò che avviene alle donne» (I Libro di Mosè, 18:11).
Questa storia viene raccontata come un grande miracolo, perché Jahvé permise a una donna così
vecchia di avere ancora una gravidanza dopo la menopausa. Ma questo miracolo si presta anche
a un’altra interpretazione. Il dio maschile non ha più bisogno del sangue della donna per “regalare”
figli. Il ciclo mestruale non è più necessario, l’uomo crea anche senza.
I successori di questo Dio-uomo, che non ha più bisogno del sangue della donna per i suoi atti
di creazione, sono oggi gli dei in camice bianco, che vogliono anch’essi abolire la mestruazione,
naturalmente per motivi medico-umanitari, come essi dicono. «Considero sensati gli sforzi per im-
pedire completamente la mestruazione, perché credo che le regole mensili siano uno dei pochi er-
rori della natura.»1 La dichiarazione di questo medico è rappresentativa di una tendenza comples-
siva dell’attuale ricerca ginecologica. I ginecologi fingono di voler liberare così le donne dalla loro
malattia premestruale e quindi di procurare loro un vantaggio costringendole per tutta la vita in un
“busto” di ormoni al posto del busto di stecche di balena del secolo scorso. Con gli ormoni, con-
trollano il ciclo della donna provocando perdite di sangue artificiali attraverso le quali tutto il ciclo
diventa artificiale e controllabile. Notevoli effetti collaterali, gravi alterazioni dell’equilibrio ormonale
e la copertura dei sintomi: tutto ciò rappresenta il prezzo che le donne devono pagare. Questo in-
tervento nell’equilibrio ormonale provoca, inoltre, elevati rischi di tumori e di depressioni psichiche
di natura iatrogena, cioè provocati dalle cure mediche.
Una medicina che vuole eliminare il sangue della donna “per guarirla da una malattia che pro-
prio questa medicina ha contribuito a provocare, non è una medicina veramente ginecologica. Non
è a misura delle donne e per questo non è umana.
Nelle accese discussioni intorno alle motivazioni umane dei ginecologi si commette un elemen-
tare errore di argomentazione. Per liberare veramente le donne dai loro enormi fastidi premestruali
non va abolita la mestruazione, ma la demonizzazione che essa ha subìto in tremila anni di pa-
triarcato.
Si tratta di vincere la demonizzazione operata dal patriarcato e non di eliminare un’altra volta,
come in tutte le epoche di crisi, il sangue della donna. Medici, politici e psicologi devono imparare
a sentirsi responsabili per aver inculcato questa malattia e per averla sistematicamente mantenuta
in vita utilizzandola per il suo valore politico e sociale, assai vantaggioso per il patriarcato. Al con-
trario, l’uomo se la vuole svignare di nascosto, lasciando solo alla donna il peso di una sempre più
grande alienazione.
Anche le norme maschili vigenti nella medicina sono servite ad addomesticare la donna, impo-
nendole l’abito della creatura debole e dolce, e inchiodandola, in un’incredibile tradizione “scienti-
fica”, a sempre nuove immagini di malattia.
Nello stesso modo oggi si riempiono di ormoni i maiali veri, affinché la loro carne diventi succo-
sa e delicata. Nel linguaggio specialistico della medicina “succoso” suona “succulento”2; le sucu-
lae sono le “giovani scrofe”. Le donne vengono rese “succose-succulente” ed educate a essere
“maialini” degenerati e di salute cagionevole. E questa carne di maiale vera, appestata con gli or-
moni e piena di estrogeni, adesso la dobbiamo anche mangiare, benché i responsabili dovrebbero
sapere quanto il ciclo mestruale ne venga disturbato.
Anche se adesso sono in preda alle mie emozioni e all’ira, non manco di oggettività; anzi, sono
estremamente oggettiva, sono proprio nell’oggetto di cui veramente si tratta: le incredibili ferite fi-
siche e spirituali inflitte alle donne, la distruzione della loro totalità, l’eliminazione del loro potere e
di tutte le emozioni a esso collegate. Bloody significa: “sanguinante”, “macchiato di sangue”, “ma-
ledetto”, “dannato”, “crudele”, e anche “ribelle”3. Qui si sente ancora veramente la scrofa selvatica,
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che non è mai feroce senza motivo, ma solo quando viene attaccata ed è minacciata la sua vita e
quella dei suoi piccoli. E questo è proprio il caso delle donne. Adesso sono io bloody: indocile co-
me una scrofa! Così non solo sto alla cosa, ma sono nella cosa, più oggettiva di quanto possa mai
essere un ginecologo maschio non toccato dal flusso del sangue.
La sindrome premestruale è una vera malattia di cui soffrono molte donne. Essa è stata incul-
cata storicamente, interiorizzata psicologicamente e “appresa” dalle donne, ed è perciò una rispo-
sta sociale al patriarcato. Dall’interiorizzazione dei pregiudizi deriva l’autodiscriminazione. Se mi
voglio confrontare con questo dolore inculcato, se voglio diventare consapevole delle sue cause,
se voglio imparare ad affrontare adeguatamente le mie sofferenze e a gestire in modo nuovo la
forza delle mie mestruazioni, assumendomene io stessa la responsabilità, allora è necessario un
confronto concreto con la storia, con l’oggettivo imperialismo della medicina, con le strutture del
potere politico ed economico, con i modelli di segregazione sociale. È necessario il coraggioso
confronto con la cultura di oggi, in cui il sangue delle donne è concretamente ridotto a tabù, come
“cosa impura e ripugnante”. Ma contemporaneamente occorre anche il confronto, ancora più co-
raggioso, con l’immagine di noi stesse che abbiamo interiorizzato: deboli e malaticce, isteriche e
dipendenti, disarmate e bisognose dell’aiuto della medicina.
La sofferenza è sofferenza vera. «Un terzo delle donne sessualmente mature soffre di sindro-
me premestruale (SPM), in parte così gravemente da dover ricorrere all’aiuto di un medico4». Le
donne hanno interiorizzato la maledizione del “succo” rosso e la SPM è il linguaggio con cui il cor-
po risponde alla negazione del proprio sangue ed alla sua demonizzazione come “impuro”. Il
prezzo che il corpo deve pagare per tutto ciò è alto. Le alterazioni fisiche sono notevoli, spesso
dolorose: alterazioni della pelle, vampate di calore, mal di testa e mal di schiena, senso di gonfio-
re, ritenzione idrica, disturbi digestivi, tensioni e gonfiori intollerabili al seno. Il corpo è oltremodo
teso, ma non solo il corpo. Anche l’anima è estremamente tesa, nervosa, irritabile, aggressiva o
depressa, di umore cattivo o labile. Si aggiungono poi le difficoltà di concentrazione e l’insonnia, e
perfino la «tendenza a compiere azioni abnormi, per esempio furti»5. Si arriva perfino a crampi
addominali che somigliano a coliche, forti come doglie, allo svenimento e al vomito, all’asma e ad
attacchi isterici, talvolta all’epilessia, alla cleptomania ed a tendenze suicide.
Emicrania, depressione, bulimia ed anoressia non sono “malattie”, ma risposte comprensibili,
anche se autodistruttivamente rivolte verso l’interno, a condizioni di vita irresolubili sul piano indi-
viduale, provocate dalle deformazioni che le donne hanno subìto in questa cultura. Al di là dei ten-
tativi individuali di guarire e di trovare una soluzione, occorrono iniziative politico-sociali per riusci-
re a comprendere il contesto globale della “malattia premestruale”. Ma sia la medicina sia la psico-
logia offrono quasi esclusivamente la soluzione della terapia individuale. Vengono somministrati
ormoni, progesterone, estrogeni, psicofarmaci, antidolorifici e sonniferi, nonché la pillola, che però
agisce anche da tranquillante e che sul piano sessuale mette la donna ancora più a disposizione
dell’uomo.
L’ottanta per cento dei medici sono maschi. Ai ragazzi fra i dodici e i vent’anni, che hanno biso-
gno di cure per uno stato di debolezza generale, prescrivono medicine che stimolano il metaboli-
smo delle cellule cerebrali, perché lo stato di debolezza è dovuto alle spinte della crescita che si
verificano in questa età. Invece, nelle ragazze fra i dodici e i vent’anni, dalla comparsa del menar-
ca in poi, gli stati di debolezza vengono diagnosticati come disturbi mestruali. Rispetto ai giovani
uomini, alle giovani donne viene prescritto fino al cinquanta per cento in più di antidolorifici, sonni-
feri e sedativi6.
Alle donne si impone la debolezza, ma al tempo stesso per questa ragione esse diventano bi-
sognose di cure mediche perché la loro debolezza viene trasformata in malattia. Con il menarca
ha inizio la carriera di paziente della giovane donna. L’educazione a essere una donna debole e
bisognosa di aiuto sarà fortemente influenzata dalla medicina e dall’industria farmaceutica: la de-
bolezza femminile è un affare lucroso per medici, farmacisti e industrie, le quali funzionano secon-
do la logica di crescita e massimizzazione dei profitti che è propria dell’economia di mercato e so-
no in grado di suscitare con la pubblicità anche bisogni inesistenti. Il settore dell’industria medica
non può avere interesse a una donna forte, sana, capace di autodeterminazione.
Fino ad oggi non esiste alcuna terapia per il dolore veramente adeguata. Uno studio-placebo

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ha rivelato che circa il 60% delle donne sottoposte all’esperimento sono state liberate dai disturbi
premestruali grazie ad una pillola di zucchero, di basso costo e sicuramente priva di effetti collate-
rali. Ciò significa che in questa “malattia” prevalgono le componenti psichiche7. In nessun labora-
torio scientifico del mondo il sangue mestruale viene studiato con lo scopo di arrivare a delle con-
clusioni diagnostiche o terapeutiche adeguate alla sindrome premestruale. Si tratta di un black-out
scientifico alimentato da una tradizione di assurdità mistiche sul sangue della donna. Quando il
patriarcato gettò le basi di questa malattia socialmente imposta alla donna, ne conseguì una se-
conda scissione dualistica dei valori femminili. L’uovo della donna è la sua fertilità, che il sistema
patriarcale auspica in quanto prescrive alla donna anche l’isolamento sociale nella famiglia ristret-
ta. Il sangue della donna, invece, è il suo potere creativo, non gradito al patriarcato, e al tempo
stesso la sua non-fertilità, altrettanto poco auspicata perché permetterebbe alla donna di svolgere
un ruolo sociale nel lavoro, diventando così una concorrente dell’uomo.
Le donne conoscono la “fase bianca” della disponibilità a concepire e la “fase rossa” della me-
struazione. La fase bianca è culturalmente riconosciuta. La donna, inchiodata alla fertilità, all’igie-
ne e al ruolo materno, viene tuttavia, con realismo politico, più o meno dimenticata, e nella nostra
società industriale viene costretta, nel suo stato di madre di bambini piccoli, a una regressione pa-
tologica. Questo pesante problema spirituale lo deve risolvere da sola e individualmente, benché
esso sia socialmente condizionato. Depressioni e nevrosi non insorgono per via della cosiddetta
“labilità” della donna, ma sono il risultato finale di tutto quanto c’è di sbagliato in una società ostile
alla donna e al bambino.
Oggi, il liquido rosso deve portare il peso del tabù più diffuso nel mondo. Viene tolto di mezzo
coi tamponi. Viene addirittura ridicolizzato, tanto che in una pubblicità la capacità di assorbimento
di certi pannolini igienici viene dimostrata con l’acqua, come se la donna fosse un bambino piccolo
che “se la fa addosso” ogni mese. L’immagine della donna è scissa: da un lato la pura e bianca
Maria, che rimane incinta senza avere rapporti sessuali, dall’altro la peccatrice, oscura Maria Mad-
dalena che, pur avendo rapporti sessuali, non rimane incinta. Allora Maria Maddalena dev’essere
per forza una prostituta, perché l’autonomia sessuale e la voluta mancanza di bambini sono cose
“cattive” e “non femminili”. Ma la donna scura, che prima era una “dea nera”, è il simbolo di una
sessualità sensuale il cui scopo è quello di far nascere non dei figli ma la propria personalità.
Con l’assegnazione dei ruoli sociali, che continuano a venire rappresentati come ruoli femminili
biologico-naturali, la donna fu ridotta al lato bianco della concezione. Essa degenerò, per dirla col
simbolismo della cinghialessa, in un maialino portafortuna bianco-roseo, privo di setole. E invece i
cinghiali veri sono irsuti e neri, selvatici e pieni di forza. Se una metà della donna viene eliminata,
allora il suo corpo si fa sentire con la voce della più profonda malattia: si ammala per attirare l’at-
tenzione su questa perdita della più elementare identità. La donna si ammala perché il suo corpo
vuole diventare sano. Il suo corpo, che non dovrebbe più perdere sangue, diventa “ribelle”. La
SPM è, per così dire, la parte ribelle che vuole attirare l’attenzione sulla cinghialessa originaria, la
salute vera che con l’educazione è stata tolta alle donne.
La scissione della donna in donna bianca buona e donna rossa cattiva ha l’effetto devastante di
una scissione nucleare, con l’inevitabile reazione a catena della malattia spirituale. Questa “esplo-
sione” culturale fu innescata con testi delle leggi che vennero fissati per iscritto circa 2500 anni fa
nell’Antico Testamento. Nelle epoche successive i medici furono occupati a convalidare sul piano
medico-scientifico le posizioni di potere dei sacerdoti, che in origine erano motivate teologicamen-
te, e questo portò a una ricerca medica meramente tendenziosa nel campo delle malattie femmini-
li. Questa ricerca fabbricò, nel senso utile alle posizioni di potere patriarcali, immagini di malattia
fino a quel momento inesistenti. Ippocrate (460-377) dichiarava che «la donna è naturalmente ma-
lata della sua costituzione femminile e la sua mestruazione ha il carattere di un regolare salasso
che la protegge dalle conseguenze del suo male»8.
Aristotele (IV sec. a.C.) dichiarava che la donna è «la più fredda» e perciò è «un caso di svilup-
po bloccato». Non avendo superato lo stadio del sangue mestruale e non essendo in grado di
produrre seme, essa è un «essere carente», privo del «naturale calore vitale»9. E continua: «Così
la donna è una sorta di uomo incapace di generare. Perché essere femmina comporta una certa
debolezza: qualcosa non è in grado di far maturare il seme dall’ultimo stadio nutritivo. Questo sta-

18
dio è il sangue»10. La donna è una creatura inferiore, buona al massimo come incubatrice al servi-
zio della fertilità umana.
Secondo Pitagora (VI sec. a.C.) le donne hanno solo il bisogno di “svuotarsi” e la mestruazione
non è altro che la secrezione di quanto è superfluo. A Pitagora si riallaccia Galeno (II sec.), spie-
gando che questo “superfluo” si viene a formare per la vita inattiva della donna, che non è abituata
ai lavori pesanti. Sorano (II sec. d.C.) considera la perdita di sangue uno svuotamento di materia
in eccesso11.
Plinio (23-79 ca. d.C.) scrive chiaramente nella sua Storia naturale che il sangue è “veleno” e,
fra l’altro, ha il potere di offuscare uno specchio. Questa teoria, attraverso tutte le opere sul “ma-
locchio” delle donne mestruate, sopravvive fino all’epoca della caccia alle streghe. Plinio scrive
che il sangue è «lordura a cui non c’è veleno sulla terra che si possa paragonare, più dannosa e
più grave»12. Grazie ad un lavoro “scientifico” di due medici nacque il mito che il sangue della don-
na contiene “menotossina” (veleno mestruale)", un mito rimasto operante fino al XX secolo.
Nell’XI secolo Avicenna, un fisico arabo, sviluppa la teoria che il grembo della donna secerne
sangue perché è «la parte più debole e meno sviluppata del suo corpo»14.
Tommaso d’Aquino, maestro decisivo della purezza della Chiesa al tempo di Francesco d’Assi-
si, insegna, mantenendosi fedele ad Aristotele, che la donna è sì necessaria, ma solo come aiu-
tante dell’uomo: «In relazione alla natura specifica, la donna è qualcosa di manchevole e una ma-
nifestazione casuale; perché la forza attiva che già si trova nel seme maschile ha lo scopo di pro-
durre un genere completamente simile a quello maschile. La generazione della donna però acca-
de a causa di una debolezza della forza attiva, debolezza provocata dalla cattiva costituzione della
materia (…)»15.
Nel XVII secolo Regnier de Graaf si associa alla teoria di Avicenna e aggiunge: «Il sangue me-
struale lascia il corpo dal suo punto più debole, proprio come fanno la birra e il vino, che durante il
processo di fermentazione stillano all’esterno attraverso le parti porose della botte»16.
Nel XVIII secolo John Freind cerca di unificare la teoria dell’eliminazione del superfluo e quella
della fermentazione e parla di un «violento schiumare»17. È l’epoca in cui i fratelli Grimm scrivono
la fiaba del piccolo sarto coraggioso, della cinghialessa dalle “fauci schiumanti” imprigionata nella
cappella, che getta a terra chiunque la voglia uccidere (vedi la sezione “La cinghialessa sacra ma-
ledetta”). Ma in questa stessa epoca essa viene rinchiusa in cappelle ecclesiastiche e in norme
mediche, perché adesso Freind stabilisce la regola medica che le “regole” devono verificarsi ogni
28 giorni, altrimenti si è nella patologia18.
Ora le immagini di malattia passano anche nei concetti della psichiatria: è l’epoca dei massacri
di donne. Helmont di Bruxelles chiama la mestruazione «l’imbecillità mensile»19. Si dice che essa
sviluppi “vapori mestruali velenosi” che poi fuoriescono attraverso gli occhi provocando il “maloc-
chio” che può uccidere. Questa teoria, che fu per molte donne causa di tortura, attraversa tutto il
Medioevo e fu sostenuta in particolare da Alberto Magno (1193-1220). Donna, veleno, malocchio:
ecco la strega e la sua sessualità nera. Nella Posnania l’ultimo rogo arse nel 179320.
Dopo che Regnier de Graaf ebbe scoperto il follicolo e l’uovo femminile, fu chiaro che la donna
forniva alla riproduzione un suo contributo autonomo adeguato al seme maschile; Rudolf Virchow,
il “papa della medicina”, scriveva nel 1848: «La mestruazione è una gravidanza in scala ridotta». E
siccome anche lui la considerava una manifestazione piuttosto patologica, continua: «( ...) una
mucosa leggera, condensata, succulenta (succosa), iperemica (ricca di sangue), aumentata se-
crezione di muco ( ...) mischiata a sangue: così ogni anatomista patologo, a cui non si è parlato
prima di mestruazione, diagnosticherà un catarro acuto di forte intensità»21.
Il passo successivo lo compie Robert Barnes: «La mestruazione può essere paragonata senza
esagerazione a un aborto»22. Così la fantasia maschile celebra la sua convinzione che la strega
prima o dopo il parto uccide e divora i suoi figli. In questa fantasia compare anche l’immagine ine-
stirpabile della cosiddetta “dea della morte”.
Nel 1894 si raggiunge il culmine. Wilhelm Loewenthal afferma: «Per l’esattezza, la donna ses-
sualmente matura, che non è incinta e non allatta, e perciò ha le mestruazioni, non è (…) la cosa
normale», e per questo la perdita di sangue «ha un carattere patologico23. Partorire e allattare: tut-
to il resto è di carattere patologico!

19
Il XVIII secolo scopre che la mestruazione è un danno prodotto dalla civiltà, conseguenza, se-
condo Jean-Jacques Rousseau, di uno stile di vita troppo sontuoso, e provocata soprattutto dallo
scarso lavoro fisico della donna24. Questa idea culmina in teorie del tipo: «Nel vero ideale di don-
na non c’è ciclo mensile» (Heinrich Nudow)". A ciò si aggiunge la fantasia: «Le prime generazioni
del sesso femminile erano sicuramente esenti da questo flusso di sangue» (Lorenz Okens 1779-
1851). Il ginecologo di Münster, che oggi vuole abolire del tutto la mestruazione in quanto errore
della natura, si inserisce perfettamente in questa linea di pensiero26.
Nel XIX secolo, quindi, il “quadro patologico” della mestruazione viene trattato dalla psichiatria.
Si sviluppa una psichiatria legale. Il medico Petrus Andreas Matthiolus (1500-1577) aveva elabo-
rato la tesi che il sangue mestruale provoca la follia27. Le streghe che davano il malocchio avreb-
bero contagiato gli uomini con le cosiddette “malattie veneree” per mezzo del sangue velenoso
che mescolavano ai loro filtri, oppure, sempre con questi filtri, li avrebbero resi impotenti. Tutto
questo prepara la psichiatrizzazione della mestruazione intesa come malattia mentale. La me-
struazione diventa uno stato abnorme o addirittura morboso. Il nuovo quadro patologico si chiama
“alienazione mentale da masturbazione”, “alienazione mentale da mestruazione”, oppure “isteria”,
la pazzia dell’utero. Al contrario, non esiste una “pazzia dei coglioni” né una “alienazione mentale
da eiaculazione”. La persecuzione delle streghe col loro sangue e la loro sessualità è delegata alla
psichiatria, affidata alle mani dei suoi rappresentanti maschili. La stregoneria diventa malattia, la
mestruazione pazzia e psicosi.
Stranamente, adesso la mestruazione diventa malattia mentale, cioè malattia dello spirito. L’an-
tico rapporto fra sangue e spirito, fra corporeità e spiritualità, fra potere creativo e culto religioso
delle donne, spezzato 2500 anni fa dal patriarcato incipiente, in questo quadro patologico torna ad
apparire come un’unità.
La mestruazione è ora una chiara espressione di debolezza nervosa, appare come “nevrosi di
riflesso”, un fenomeno di tipo epilettico o convulsivo28. Nasce la teoria che la generale debolezza
nervosa della donna e la sua eccitabilità che porta all’isteria provengano dalle ovaie; pertanto l’a-
sportazione delle ovaie è la terapia giusta. Per guarire la donna dal suo disturbo mentale mestrua-
le, si asportano l’utero e le ovaie. A ciò si aggiungono le clitoridectomie (asportazioni della clitori-
de) per liberarla dalla “alienazione mentale da masturbazione”. Le lobotomie (operazioni al cervel-
lo) serviranno invece a impedire l’insorgere della schizofrenia e l’eccessiva aggressività delle don-
ne. L’infibulazione medievale (che consisteva nel cucire insieme le grandi labbra) è adesso una te-
rapia contro l’impulso sessuale alla pratica dell’onanismo, che fa impazzire.
Nella Germania hitleriana questa tendenza passa direttamente nel campo politico. I circa 250
tribunali per la sterilizzazione, che esistevano già intorno al 1934, erano occupati da medici, psi-
chiatri e giuristi che decidevano chi andava sterilizzato perché “indegno di riprodursi”. Fino al 1945
furono sterilizzate con la forza 350.000 persone; a causa della sterilizzazione morirono 800 donne
e 100 uomini, stando alle cifre ufficiali. Era stato sperimentato sugli animali un metodo di cauteriz-
zazione delle tube, e poi ad Auschwitz quel metodo era stato applicato senza operazione, iniettan-
do nell’utero delle donne formalina e/o nitrato d’argento della ditta Schering. Gli esperimenti com-
piuti su “materiale femminile” erano atrocemente dolorosi e spesso provocavano la morte29.
Anche dopo la guerra queste cauterizzazioni col nitrato d’argento furono eseguite su donne ri-
coverate per asportazione dell’utero. Prima dell’isterectomia veniva loro praticata, senza che ve-
nissero informate, la chiusura delle tube. Insieme con l’utero venivano asportate anche le tube,
per verificare il successo della nuova tecnica. Il processo intentato contro il ginecologo responsa-
bile di questi esperimenti fu sospeso, perché le pazienti non avevano subito danni30. Se nel Me-
dioevo erano la Chiesa e il diritto a occuparsi insieme della questione femminile, ora sono il diritto
e la medicina a gestirla.
Sul finire del secolo XIX la “teoria della psicosi” va perdendo terreno, ma eccola ricomparire con
Sigmund Freud come “teoria delle nevrosi”. Freud si riallaccia direttamente ad Aristotele e a Tom-
maso d’Aquino ed elabora la sua teoria psicologica dell’invidia del pene come “colonna portante
della femminilità”. La donna è un “essere manchevole”. Il menarca compare come “il primo insudi-
ciamento” e la ragazza vive la mestruazione come la prova sanguinante della perdita del suo pe-
ne. Il sanguinamento è una maledizione, collegata con l’invidia del pene, l’angoscia di castrazione,

20
il masochismo femminile e le conseguenti affezioni nevrotiche. La “alienazione mentale periodica”
è “epilessia psichica”, “degenerazione psichica”, è psychosis menstrualis31. Nelle teorie psicoanali-
tiche la mestruazione appare come “complesso femminile di castrazione”, “trauma genitale”, “per-
dita di un bambino”, il che presupporrebbe che tutte le donne vogliono essere continuamente ma-
dri. Erikson rappresenta questo culto della fertilità con queste parole: «Ogni mestruazione (…) di-
venta il grido levato verso il cielo, nel lutto per un bambino perduto (…)»32. Melanie Klein associa il
sangue mestruale all’urina e alle feci, dunque ad elementi negativi. Il suo allievo Norman O. Brown
così descrive il complesso di castrazione femminile: «La vagina è un’apertura che inghiotte tutto,
una vagina dentata, le fauci di una Madre gigantesca che divora gli esseri umani, una donna me-
struata il cui pene è stato staccato con un morso, un trofeo sanguinante»33. Anche Jung scrive di
una paziente psicotica che si ammalò durante il climaterio e che nel suo stato delirante grugniva
come un maiale dicendo di essere diventata essa stessa «il simbolo della Madre che tutto divo-
ra»34.
È impressionante come la “dea della morte” che compare nelle fantasie maschili su Lilith e sulle
streghe sia penetrata perfino nella psicoanalisi, dove viene rappresentata sempre nell’atto di ucci-
dere con la vagina dentata, simile alla cintura di castità che nel Medioevo gli uomini mettevano al-
le loro donne per essere sicuri del loro “possesso”, quando andavano a combattere la guerra san-
ta.
Karen Horney, infine, fa riferimento all’intero contesto sociale e osserva che «la società è fatta
in maniera tale che premia chi è dotato di pene e non chi perde sangue»35. Ella riconosce che la
SPM rappresenta una risposta ai condizionamenti sociali.
La “nevrosi mensile” non nasce per un “figlio perduto” o per un “pene perduto”, ma per la libertà
perduta, per l’aggressività perduta, per la totalità perduta e per la “cinghialessa imprigionata” nelle
faccende domestiche, che si deve liberare dalla morale della Chiesa, dalle norme della medicina e
dalle violenze della psichiatria. I disturbi premestruali e mestruali sono il risultato del millenario
condizionamento culturale operato dal patriarcato. All’inizio dello sviluppo della coscienza umana,
il sangue della donna, il suo rivelarsi e la conoscenza materiale-spirituale furono una spinta allo
sviluppo della coscienza, che ha creato cultura e culto. Adesso la malattia causata da questo san-
gue “impuro” rappresenta il momento della verità che provocherà una nuova importante spinta
nell’evoluzione della coscienza umana, una spinta che potrebbe a sua volta produrre un nuovo si-
gnificato dello sviluppo della cultura e del culto dopo il tempo del patriarcato. Probabilmente ab-
biamo davvero bisogno di una nuova spiritualità che riscopra la santità del sangue da cui deriva la
vita di ogni uomo e di ogni donna. È un sogno dei medici estremamente morboso quello di elimi-
nare la mestruazione per eliminare la malattia che proprio i medici, insieme con i teologi, hanno
prodotto. Noi donne riscopriremo la santità del nostro sangue, dissolveremo i tabù che abbiamo
interiorizzato, libereremo la nostra potente “cinghialessa” dalle norme che la fanno ammalare e
prenderemo autonomamente nelle nostre mani la responsabilità della nostra guarigione.
Nel Nuovo Testamento c’è il racconto di una donna che fa questa esperienza. Già da dodici
anni aveva un flusso di sangue, «aveva dato tutti i suoi beni ai medici e nessuno era riuscito a
guarirla» (Luca 8). Marco racconta la sua esperienza in maniera ancora più drastica: «Aveva subì-
to molto da parte di molti medici e aveva impiegato per questo tutti i suoi averi, e niente la poteva
aiutare, anzi stava sempre peggio» (Marco 5). Dopo queste amare esperienze la donna si riscos-
se e prese in mano la propria guarigione con un rituale che ebbe effetti quasi magici.

NOTE
1. Beller in Die Zeit’, n. 15/85.
2. In medicina il termine “succulenza” è sinonimo di “subedema”; “mano succulenta” è una
mano edematosa (gonfia) per disturbi vasomotori e trofici. (Ndr)
3. Cassels German-English Dictionary, 1968, sotto la voce Bloody.
4. P. Shuttle e P. Redgrove op. cit., pag. 41.
5. Lauritzen (docente all’Università di Ulm), “Simposio sulla sindrome premestruale”, Franco-
forte, 1984.
21
6. B.J. Kappus (a cura di) Zykla. Alltagsorientierte Menstruationsforschung, Dormettingen,
1986, pagg. 8 e segg.
7. Die Zeit’, n. 4/85.
8. E. Fischer-Homberger Krankheit Frau, Darmstadt, 1979/84, pag. 35.
9. “Courage”, Quaderno speciale 1, “Mestruazione”, Berlino, 1980, pag. 20.
10. A. Blume, S. Schneider Die Regel, eine herbeigeredete Krankheit, Amburgo, 1984, pag. 25.
11. “Courage”, cit., pag. 21.
12. A. Blume, S. Schneider op. cit. pag. 35.
13. Ibidem.
14. “Courage”, cit., pag. 21.
15. A. Blume, S. Schneider op. cit. pag. 26.
16. “Courage”, cit. pag. 21.
17. Ibidem.
18. E. Fischer-Homberger op. cit. pag. 41.
19. Ibidem, pag. 42.
20. A. Blume, S. Schneider op. cit. pag. 30.
21. Ibidem, pag. 32.
22. Ibidem.
23. Ibidem, pag. 33.
24. E. Fischer-Homberger op. cit. pag. 47.
25. Ibidem, pag. 48.
26. Beller, in Die Zeit’, n. 15/85.
27. E. Fischer-Homberger op. cit. pag. 44.
28. Ibidem, pag. 60.
29. S. Rosenbladt Gewalt auf Krankenschein, Amburgo, 1963, pagg. 121 e segg.
30. Ibidem, pagg. 124 e segg.
31. E. Fischer-Homberger op. cit. pag. 65.
32. E. Erikson Jugend und Krise. Die Psychodynamik in sozialen Wandel, Stoccarda, 1970,
pag. 292.
33. N.O. Brown Love’s Body, New York, 1966, pag. 63.
34. C.G. Jung Symbole der Wandlung, in Gesammelte Werke, vol. 5, Olten, 1981, 3a ed. pag.
419 (trad. it. Simboli della trasformazione, in Opere, vol. 5, Boringhieri, Torino).
35. “Courage”, cit., pag. 32.

22
La mestruazione:
il sacramento femminile
Sarà proprio così che la parola sacramento è derivata dalle parole sacer mens. Sacer mens si-
gnifica letteralmente “mestruazione sacra”. Raramente però questo sacramento femminile viene
apprezzato quanto la fertilità o l’ovulazione. Ma l’uovo e la mestruazione non rappresentano un
dualismo di forze, al contrario sono forze complementari, che si condizionano cioè reciprocamen-
te. Porre il valore dell’uovo al di sopra di quello della mestruazione è la decisione socio-politica di
una cultura orientata soltanto in senso maschile. Se ci fosse una società politica adeguata all’e-
sperienza femminile, moltissime malattie semplicemente scomparirebbero.
Anche le donne degradano il loro sangue a “malattia transitoria”, a epistassi dell’utero”. Hanno
creato parole-tabù come la “visita”, il “visitatore rosso”, “il cardinale”, “i pomodori” o “la strada ros-
sa”. Non mancano espressioni umoristiche o maliziose come “la comunista”, “la zia rossa della ri-
va rossa”, “il mar Rosso va in giro” o “la visita da Roma”. Gli indiani usano l’espressione “il tempo
dei fiori”, come i francesi che dicono les fleurs e gli inglesi che parlano di blood-flower. La parola
inglese per fiore, flower, designa “ciò che scorre”. Gli americani dicono: Her cherry is in sherry, la
sua ciliegia è piena di sherry. In India il menarca è “Panno dei meloni che si aprono” oppure “la
rossa Dakini”. Accanto a queste esistono molte espressioni crude e perverse, utilizzate soprattutto
dagli uomini e ricavate dal loro ambito di esperienza relativo al cavalcare e all’uccidere.
Se noi donne vogliamo riappropriarci della nostra mestruazione intesa come sacer mens, ab-
biamo bisogno di parole nuove, di parole nostre. Per liberarci dalla lingua maschile della schiavitù
e anche dalla lingua della schiavitù fisica della SPM, ci dovremo mettere alla ricerca della rossa
pietra filosofale, alla ricerca del santo Graal, di cui si dice che dà vino rosso e vino bianco.
Abbiamo interiorizzato i valori bianchi dell’ovulazione, ma il ruolo della donna non è l’essenza
della donna. Dobbiamo ancora ritrovare il filo rosso, sanare e integrare le ideologie materne a
doppio taglio della nostra cultura con una cultura materiale-spirituale del sangue mestruale. Men-
tre durante l’ovulazione le donne possono impiegare tutte le energie del loro corpo per una gravi-
danza, per la nascita di un nuovo essere, durante la mestruazione esse possono impiegare tutte
le energie del concepire, accogliere, sviluppare, per se stesse e per trovare la propria identità,
quindi anche in questo caso per la nascita di un essere umano. Le mestruazioni sono le doglie
che accompagnano il parto della propria umanità. Durante il mestruo le donne hanno spesso so-
gni profondi e importanti e un rapporto assai naturale con la trascendenza interiore, come in nes-
sun altro momento del ciclo. In noi donne è sempre presente l’antichissima capacità dell’oracolo.
L’oracolo di Delfi veniva annunciato una volta il mese!
Proviene dall’India il mito che narra come l’essenza della dea si condensi, diventi sangue, formi
un grumo di fango e poi una crosta dura; l’essenza si consolida diventando materia e così nasce il
cosmo”. Gli indiani del Sudamerica dicono che l’intera umanità fu creata all’inizio dal “sangue della
luna”. La grande vasaia Mammetun o Aruru spalmava bambole di argilla con sangue mestruale.
Anche Adamo, il primo uomo biblico, fu fatto di ADAMA, che non significa “terra rossa” o “ocra ros-
sa”, ma argilla mescolata a sangue. Perfino Allah faceva gli uomini col sangue fluido; e prima
dell’Islam c’era appunto la dea della creazione Al-Lat.
Della dea Kālī indiana, chiamata Kālī-Maya, si dice: «Invitò gli dei a bagnarsi nel flutto sangui-
noso del suo utero e a berne; e gli dei in santa comunione bevvero dalla fonte della vita e si ba-
gnarono in essa e si sollevarono benedetti al cielo»2. È possibile che i miti del diluvio universale si
riferiscano a questo flutto rosso primordiale dell’esperienza corporea prenatale, ed è molto proba-
bile che qui si alluda alla forma primordiale della Prima Santa Comunione. Il sangue della donna è
il sacramento primordiale.
I miti indiani chiamano questo sacro flutto SOMA e con questa parola designano l’oceano di
sangue della dea Kālī. La fonte del SOMA fu la luna e dal SOMA nacquero tutti gli dei. SOMA era
23
il nome segreto della Dea Madre, e veniva inteso come la parte attiva dell’anima del mondo3.
SOMVARA è il nome che indica il lunedì, il giorno della luna. Alcuni miti raccontano che la dea La-
kshmi diede da bere una bevanda di SOMA al marito Indra per farlo diventare re. Di questa be-
vanda l’uomo rimase “incinto”.
Nei Tantra il succo dell’immortalità si chiamava SAME. I taoisti affermano che si può diventare
immortali bevendo sangue mestruale. Il SAME viene detto anche “il rosso succo yin”. Per i Cinesi
SAME è “l’essenza della Madre Terra”, il principio yin che dà vita a tutte le cose. Nella Cina taoista
il rosso è il colore sacro e il colore della felicità.
In Egitto il SOMA è il geroglifico SA, che è al tempo stesso il segno della vulva, il laccio della
Yoni. Il segno ankh (ANKH, vita e specchio) e l’anello-shen (SHEN, infinito) sono entrambi SA,
come il segno stesso di Iside. Dipinto di rosso, questo laccio significa i genitali femminili e la “porta
del cielo”. Un altro simbolo della potenza della dea è il pilastro-djed (DJED, durata), fatto di so-
stanza rossa, diaspro, calcedonio, porcellana o vetro rosso, che veniva eretto con un grande ritua-
le. Il pilastro djed rappresenta la vulva di Iside. Quando è drizzato, simboleggia il cordone ombeli-
cale, l’asse del mondo che collega il visibile e l’invisibile. L’amuleto di questo simbolo ha la forza
liberatrice del sangue di Iside.
In greco SOMA diventò “corpo”, degenerando in un concetto limitato al visibile. Il fiume greco
Stige era il fiume rosso che, nei pressi della città di Clitor, esce dalla vagina della Terra. Attraver-
sare lo Stige significava intraprendere il viaggio nel regno dei morti. Anche il cammino degli Israeli-
ti attraverso il Mar Rosso può essere inteso come un rituale di rinascita collettivo. Anche il giardino
del Paradiso ha in sé l’idea del centro uterino della Terra. Nell’Elisio fioriva il papavero rosso e ver-
sava la sua acqua la fonte dell’eterna giovinezza, di cui si dice che trabocca una volta il mese. La
morte e la rinascita simbolica erano associate alla fonte del sangue ciclico.
Dalla tradizione sumera ci sono giunte le dee DAMkina e DAMgalnunna (DAM, sangue), dal cui
ventre scorrevano i quattro fiumi del Paradiso, chiamati “fiumi di sangue”. Il primo figlio di Damkina
era DAMU, “il figlio del sangue”. Damo e sangue materno sono linguisticamente affini alla parole e
al concetto greco di DEMOS. A Micene il popolo matriarcale si chiamava DEMOS. DEMOcrazia è
il dominio o meglio la signoria dei figli nati dal sangue materno. Il comportamento democratico era
una virtù fondamentale della cultura politica matriarcale.
I re celtici erano immortali perché bevevano l’ "idromele rosso” dal triplice paiolo dell’immortalità
che stava nell’utero della Madre Terra. Mab, la dea delle fate, somministrava questa bevanda.
Prima la dea si chiamava MEDHBH o MEAD (MET), perché era essa stessa il sangue mestruale
personificato. Il nome celtico che designava la bevanda era DERGFLAITH, che significa “sovranità
rossa”. Il simbolo di questa sovranità è il tappeto rosso, come anche il mantello rosso del sovrano.
Nella Britannia celtica la scelta del re veniva suggellata col fatto che egli veniva “macchiato” di
rosso dalla dea. In celtico rosso si dice RUADH, linguisticamente affine all’ebraico ROAH, e ha
sempre entrambi i significati di “rosso” e di “regale”. In India esisteva una cerimonia simile. Il re
veniva insediato sul trono quando si univa alla “dea rossa” mentre questa aveva le mestruazioni.
Nel Medioevo i re, che portavano un mantello rosso, bevevano il Claret, un vino rosso. Esso
aveva la rossa forza spirituale e il potere della mestruazione, e “Claret’ era effettivamente un sino-
nimo di “sangue”. Il suo nome significa “illuminazione”, ed esisteva il detto: “L’uomo nella luna be-
ve il Claret’, legato alla nozione che il vino rappresenta il sangue della luna. Se oggi nelle chiese il
vino rosso “è” o “sta a significare” il sangue di Gesù, ciò vuol dire che sul piano spirituale si ha an-
cora coscienza del fatto che un tempo il vino rosso era il simbolo del sangue della luna.
Nell’Antico Testamento la mestruazione è chiamata “fiore” (III Libro di Mosè, 15:24). Essa è il
“fiore di luna” che precede il frutto. Nel cristianesimo le uova di Pasqua dell’originaria dea celtica
Eostre venivano dipinte di rosso in quanto frutti dell’utero. Eostre, Pasqua [Ostern in tedesco, Ndt],
risale alla dea sassone-germanica Ostera, il cui nome fa parte dello stesso campo semantico del
greco HYSTERA, che in tedesco significa “utero”. Le uova rosse sono un simbolo di rinascita: ve-
nivano messe sulle tombe per dare forza ai morti nel loro viaggio di rinascita. Le tracce di questa
usanza si possono ritrovare fin nel paleolitico. Circa centomila anni prima della nostra era i morti
venivano sepolti in caverne dipinte di rosso; venivano sistemati in posizione fetale e dipinti a loro
volta di colore rosso o cosparsi di ocra. Per il viaggio attraverso l’aldilà ricevevano doni funerari e

24
cibo, fra cui uova dipinte di rosso.

Note
1. Vedi B.G. Walker op. cit., sotto la voce Mens.
2. Ibidem.
3. Ibidem.
4. Ibidem.

25
La sillaba primordiale
Il culto reso alla mestruazione rimanda ai tempi dei primordi, quando essa divenne il primo sti-
molo al processo di sviluppo della coscienza, all’evoluzione di una coscienza matriarcale, con la
contemporanea scoperta di una lingua la cui prima forma è costituita dalle sillabe primordiali.
Il significato letterale della parola “mestruazione” è “cambiamento di luna”. MENS, MENSIS è la
misura, la luna e il mese. Da questa misura temporale della luna e del sangue derivano: misura-
zione, misura, dimensione, metro, incommensurabilità. Dalla radice latina MENS e dal greco ME-
NOS derivano tutti i termini che indicano la ragione (in inglese MIND), associati ai termini latini “lu-
na” e “mese”. La parola greca per “luna” è MENE, che ha a che fare col MINOtauro, che deve far
scorrere il suo sangue nel centro del labirinto-utero. L’ebraico MENEtekel potrebbe essere anche
un oracolo lunare e i MINOici rappresentano una cultura matriarcale. NOUMEnon indica la festa
della luna nuova1. Anche la METIS greca, l’ “intelligenza” e la “saggezza”, come la MAAT egizia-
na, che rappresenta l’equilibrio dell’ordine della creazione, hanno la loro radice in MENS, la misu-
ra temporale del sangue. La sillaba sumerica ME descrive “i principi ordinatori del mondo”2. Ac-
canto a HYSTERA e a DELPHUS, il greco ha anche il termine METRA per indicare l’utero. Il ciclo
dell’utero era il METRO della donna, e questa parola veniva utilizzata sia per il ciclo lunare sia per
la misura temporale del sangue della donna.
ME, l’esperienza fondamentale della potenza femminile, si sviluppa dando vita alle dee MEdea,
MEdusa, AlcMEna, MEta, NeMEsi e DeMEtra. Metro diventa “madre” [Mutter in tedesco, Ndt]. An-
che MEfistofele e ProMEteo provengono dal sangue della vita ME.
Le parole MEN (luna) e MENSIS (mese) in sanscrito appartengono alla sillaba primordiale MA.
La radice per “spirito” è MAnas, da cui deriva il termine polinesiano MAna. MAna designa la forza
elementare, non corporea, immanente all’universo e corrisponde al CH’I dell’Oriente. MAna è l’e-
nergia sacrale che nella luna nuova è propria della donna che sanguina quando, grazie alla più
profonda sensibilità spirituale e capacità di trascendenza che allora possiede, annuncia l’oracolo.
Più tardi, gli sciamani maschi porteranno vesti da donna, come farà il clero maschile di tutte le re-
ligioni ufficiali fino a oggi. Il papa porta un abito bianco, i cardinali hanno vesti rosse e il basso cle-
ro nere.
La radice sanscrita MA significa: “misurare”, “calcolare le dimensioni e le distanze”, “paragona-
re”, “corrispondere alla misura”, “trovare spazio”, “entrare”. Altre traduzioni sono: “commisurare”,
“assegnare”, “accordare”, “preparare”, “formare”, “confezionare”, “costruire”, “fare”. È quasi super-
fluo dire che dall’esperienza fondamentale del ME è nata l’architettura matriarcale.
In MA rientra MAI, che significa: “fare cenno con la mano”, “compiere movimenti oscillanti”. Si
avverte il motivo della danza. Ulteriori sviluppi sono: “dare l’illusione”, “fare incantesimi”; MONAI
significa “incantesimo”; MARA (polacco) significa “inganno”, “viso”, “sogno”, “tessuto”; MAYA (in-
diano antico) significa “trasformazione”. La dea Maya è la personificazione della magica forza del-
la trasformazione e le sue illusioni possono essere anche pericolose.
La sillaba MEI, parente della sillaba ma, si traduce con: “diminuire”, “cambiare”, “ingannare”,
che si riferiscono al cambiamento ciclico della luna. Significa anche: “legare”, “allacciare”, che ri-
cordano il “filo rosso” o la “corda rossa”. MEKhala ( indiano antico) significa “cintura”. Anche la
magica cintura rossa greca e l’anello-shen egiziano, fatto di corde intrecciate, rientrano nel campo
di parole affini ME.
I significati linguistici di ME si riferiscono a due caratteristiche: la capacità di trasformazione e la
capacità artistica3. A proposito di questa famiglia di parole si chiarisce nuovamente la duplice
struttura del pensiero mitico. Nell’esperienza matriarcale, la concreta attività di costruzione e for-
mazione compiuta dalla cultura, da un lato, e la trasformazione sacrale e il rinnovamento ciclico
nel culto, dall’altro, costituiscono un’ovvia e costante unità.

26
NOTE
1. P. Shuttle, P. Redgrove op. cit. pag. 139.
2. S. Brinton Perera Der Weg zur Göttin der Tiefe, Interlaken, 1985, pag. 101 (trad. it. La Grande
Dea. Il viaggio di Inanna, regina dei mondi, red edizioni, Como).
3. B. Hager Die Entwicklung des Mâyâ-Begriffes im Indo-Arischen, Friburgo, 1983, pag. 3.

27
Il serpente
della mestruazione
L’Uroboro è il serpente che si morde la coda. La fine è sempre a sua volta un principio. Così il
serpente è il simbolo originario del ciclo che non ha mai fine, della forza eternamente rinnovantesi
del sangue femminile. In Persia era diffusa l’idea che il menarca fosse provocato da un serpente.
Si credeva che anche la fecondazione avvenisse attraverso il serpente e non attraverso l’uomo,
perché non era noto il rapporto fra generazione e concepimento. I serpenti erano sacri perché
erano i portatori del segreto della mestruazione. I Persiani credevano che la mestruazione fosse
stata portata nel mondo dalla prima Madre, che si chiamava Jahi. Questa ebbe la sua prima me-
struazione dopo che “il grande serpente” Ahrimann si era unito con lei.
In Egitto il rosso serpente magico e l’Uroboro diventano il simbolo della dea: l’anello-shen che
essa porta nelle mani, come la dea sumera Inanna e la dea babilonese Ishtar. L’anello-shen si
trasforma nelle lettere “alfa” e “omega”, nel simbolo dell’eternità, inizio e fine dell’alfabeto. Perciò
l’anello-shen viene sempre riprodotto sui sarcofaghi: perché esso, essendo il sangue di Iside, è
segno e garanzia di rinascita. Fatto di piante intrecciate e avvolto come una corda, appare in se-
guito anche nel simbolo dello specchio, quindi in una delle rappresentazioni del processo di svi-
luppo della coscienza.
Nell’antica cultura matriarcale cretese, assai sviluppata soprattutto intorno al 1600 a.C., le don-
ne credevano che non un dio ed una dea avessero formato la prima coppia, ma la dea ed il suo
serpente. Di qui derivò la raffigurazione della coppia originaria. La donna e il suo sangue ciclico,
da cui fino al Medioevo si credette che si formasse il bambino, erano la sostanza originaria della
prima coppia umana.
In Grecia un mito narrava che la vergine Era aveva generato i suoi figli, tramite il serpente del-
l’oracolo Pitone, dal tempio-utero di Delfi. Come a Delfi, l’Omphalos, inteso come ombelico del
mondo, veniva venerato anche a Delo; intorno a questo ombelico-grembo-utero si avvolgeva un
serpente. Dei serpenti di Delfi e Delo si credeva che vivessero nell’utero della terra e possedesse-
ro ogni saggezza, perché erano in contatto col sangue del mondo1. In Grecia, la forza del serpen-
te diventa la magica cintura rossa che conferisce magica forza alle donne-dee: il potere, appunto,
sulla vita, la morte e la rinascita. Nella sua forma di Uroboro, il serpente diventa il simbolo non so-
lo del ciclo della donna ma anche del cerchio della vita che eternamente si rigenera e che al ciclo
è collegato. Sempre presso i Greci, la dea Gorgone venne originariamente venerata come sacra,
e poi tabuizzata. Aveva il potere di trasformare in pietra chiunque le si avvicinasse: non per crudel-
tà, ma per via della sua sacralità. Nell’Antico Testamento è scritto che chi guarda Dio deve morire
a causa della sua magnificenza. Nella sua energia originaria, la Gorgone è la dea-cinghiale. La
sua bocca ha denti di cinghiale, e ne penzola fuori una lingua rossa. Come Kālī, è la più sacra dea
del sangue, anch’essa sotto forma di maiale, di cui sono rimaste soltanto le zanne. Questa gran-
diosa e totale divinità del ciclo degenera, col patriarcato, in una bestia crudele di fronte alla quale
tutti si pietrificano dallo spavento e che tutti perseguitano. Gorgone-Kālī è tuttavia la dea del ciclo,
del sangue, del maiale, come mostrerò nell’ultima sezione “La dea ternaria del ciclo”.
La medesima degenerazione subisce la dea MEdusa. Il suo nome rivela che si tratta di una dea
del ciclo. Al posto dei capelli ha in testa serpenti, per così dire il ciclo come principio spirituale. Sia
MEdusa sia MEdea sono le dee del ciclo integrali. Nel corso del patriarcato cambiano significato e
diventano un incubo.
Ma contemporaneamente anche nell’area mediterranea si conserva una visione integrale di
questa dea. Proviene da Byrsa, nell’attuale Libia, uno scarabeo d’oro sulla cui parte inferiore è ri-
tratta una figura che regge in ciascuna mano un cinghiale e un serpente. Dai genitali scende anco-
ra il serpente, pende il cordone ombelicale o scorre il sangue, che prende la forma di un cerchio-
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Uroboro-serpente. La persona raffigurata ha una corona sulla testa e delle piccole ali ai lati di que-
sta. Sopra di essa si libra la luna piena, anch’essa alata, in quanto polo opposto alla falce di luna.
La sua parte posteriore, come mostrano molte antichissime immagini di dee, è molto accentuata.
Maiale e serpente, sangue o cordone ombelicale, utero e luna piena, falce di luna e ali sono sim-
boli dell’autorità femminile, personificata in una dea.

Maiali e serpenti nelle mani di una dea. Scarabeo, Byrsa, Libia.

Il maiale e il serpente della dea Terra. Affresco, Duomo di Limburg, 1235 circa.

Questo campo energetico primordiale, nonostante tutte le distruzioni, si ritrova in un affresco


murario del Duomo di Limburg (1235 circa). La dea tiene in mano un maiale e un serpente, e li nu-
tre entrambi. Forse questa immagine potrebbe diventare per noi donne il simbolo di un impegno,
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quello di restituire forza e sanità, attraverso le forze femminili che nutrono, al maiale (utero) e al
serpente (ciclo mestruale), forse anche di reintrodurli, malgrado tutte le diffamazioni, nel culto ec-
clesiastico che non dovrebbe celebrare soltanto il sangue maschile, ma anche l’energia primordia-
le del sangue femminile.
Quando si dice che le donne non possono venire ordinate sacerdoti perché Dio è un uomo,
questa argomentazione tocca soltanto la superficie del problema. Se le donne vengono escluse
dal sacerdozio è perché portano dentro di sé, nel loro corpo, il vero mistero della trasformazione
del sangue, il ciclo senza fine della vita. Il sangue maschile, anche quello di Gesù, è e rimane il
sangue di un’uccisione, e perciò può essere inteso solo simbolicamente come mistero della tra-
sformazione. Il mistero della trasformazione del sangue femminile è al contrario sempre reale.
La lingua parlata ha conservato fino a oggi in forma cifrata il senso dell’importanza del sangue
femminile. La parola bloody viene usata in inglese anche nel senso di molto, per accentuare il ri-
lievo di una cosa. In tedesco usiamo analoghe parole-bloody per dare più peso a un’affermazione.
Diciamo: saumäβig ärgerlich (arrabbiato come una scrofa).
La parola che indica le forze aggressive della cinghialessa fu dimenticata e non fu mai usata
per accentuare il senso di un’espressione. Ma le forze aggressive delle donne sono d’importanza
vitale. Il sangue femminile, con la sua enorme potenza materiale e spirituale, e i poteri del femmi-
nile non esistono soltanto per dare un po’ più di peso all’esistente. Il sangue della donna è quanto
di più importante ci sia nella vita dell’umanità, perché senza di esso non esisterebbe vita umana.
Perdere sangue è anche la cosa più importante nella vita di una donna, perché per circa trenta-
cinque anni il sangue scorre ogni mese dal suo grembo, e non c’è modo di non sentirlo e di non
accorgersene. Quando impareremo noi donne a riconoscere apertamente il nostro pieno potere, e
quando cominceranno gli uomini a rallegrarsene?
Scrive Hilde Domin nella sua poesia Ti voglio:

Te
e altre parole
vorrei riempire con schegge di vetro
come comanda Confucio
l’antico cinese.
La coppa con gli spigoli
deve
avere spigoli
dice
oppure lo stato va a fondo.
Nient’altro dice
è necessario.
Chiamate
quello che è tondo rotondo
e quello che ha spigoli spigoloso.
Chiamate il sangue sanguinoso
e l’autorità autorevole
altrimenti la democrazia va a fondo
e siate bloody:
assai, maledette, dannate, folli,
Pazze, ribelli come scrofe,
altrimenti il vostro cinghiale va a fondo.

30
NOTE
1. B.G. Walker op. cit., sotto la voce Mens.

31
Il ciclo mestruale
Per reintegrare in una totalità complementare le energie divise dell’uovo (equiparato al bene) e
del sangue (equiparato al male), le donne devono ripensare da sole come si svolge il loro ciclo e
che cosa durante il ciclo accade nel loro corpo. Se ci rivolgeremo al corpo concreto, comprende-
remo e impareremo a onorare di nuovo il mistero della trasformazione che si compie nel nostro
utero.
Anche se adesso descriverò questo ciclo in termini biologici per soddisfare l’interesse medico,
per me è importante in primo luogo il fattore dinamico. Non considero le solite descrizioni medico-
psichiatriche, perché la maggior parte di esse non ritiene importante e quindi non include affatto la
fase della perdita di sangue, benché le scuole psichiatriche parlino di alienazione mentale me-
struale.
Parallelamente voglio presentare il ciclo annuale della fertilità, perché l’uomo primitivo metteva
sempre in relazione l’esperienza femminile della nascita con la fertilità della terra. La terra era l’u-
tero del cosmo.
Le fasi del ciclo del sangue e del ciclo della terra sono le seguenti.
1. La fase preovulatoria o di maturazione dell’uovo, quando l’uovo matura nel follicolo. Questa
fase corrisponde alla luna crescente. Nel ciclo annuale della fertilità essa corrisponde al pe-
riodo del concepimento della terra in primavera, se consideriamo l’area dell’Europa setten-
trionale. Nell’Europa meridionale l’epoca della fertilità si sposta. In Grecia, per esempio, dal
punto di vista dell’agricoltura la “primavera” comincia in novembre. Nel corso cosmico la fa-
se di maturazione dell’uovo corrisponde all’equinozio.
2. La fase dell’ovulazione, che ha inizio col distacco dell’uovo, quando esso lascia il follicolo
per passare nella tuba e il follicolo scoppiato sviluppa l’ormone del “corpo giallo”, corpus lu-
teum, il progesterone. Perciò questa viene chiamata anche fase luteinica. Il progesterone
provoca l’addensamento della mucosa uterina in modo che diventa possibile l’annidamento
dell’uovo nella mucosa stessa, piena di sangue. Questa fase corrisponde alla luna piena.
Nel ciclo stagionale è associata all’estate e nel ciclo cosmico al solstizio d’estate, il giorno
più lungo dell’anno.
3. La fase premestruale, in cui, se non c’è stata fecondazione, i livelli di ormone del corpo luteo
e di estrogeni si abbassano rapidamente, stimolando l’espulsione della mucosa uterina.
Questa fase corrisponde a quella della luna calante; corrisponde anche nel ciclo stagionale
all’autunno del raccolto e nel ritmo cosmico all’equinozio d’autunno, quando il dì e la notte
hanno di nuovo la stessa durata.
4. La fase mestruale, quando viene espulso l’endometrio. Fa parte della mestruazione la fase
della luna nuova, o meglio della luna nera. Astrologicamente adesso il sole e la luna sono in
congiunzione: la luna si frappone tra la terra e il sole e per questo i raggi solari ne illuminano
il lato non rivolto alla terra. Il lato rivolto verso di noi è allora totalmente nero. Va da sé che
in questa fase di congiunzione si costella un campo energetico particolare che, come sap-
piamo, influisce tanto sulle mestruazioni e sulle nascite quanto sulle maree. Dal punto di vi-
sta stagionale questa fase appartiene all’inverno, e dal punto di vista cosmico al solstizio
d’inverno, il giorno più breve dell’anno. Nelle feste del solstizio invernale che si celebrano
nei paesi nordici si usa mangiare maiale o preparare dei dolcetti a forma di maiale, che po-
trebbero essere i precursori dei biscotti natalizi cristiani.
Per i quattro giorni che precedono e i quattro giorni che seguono la fase mestruale si parla di
premestruo. Durante il premestruo e durante la mestruazione l’organizzazione nervosa dell’utero e
della clitoride è particolarmente sensibile agli stimoli e la donna è dotata di una capacità di perce-
zione sia fisica sia psichica assai più profonda. La clitoride, un organo sensorio che, come nessun
altro organo (sia dell’uomo sia della donna), esiste esclusivamente per la percezione degli stimoli
e del piacere, è caratterizzata da particolare eccitabilità e, se stimolata durante l’atto sessuale, è
32
capace di molti orgasmi. La donna, non più succube del tabù patriarcale, che non vive più il pro-
prio sangue come una cosa peccaminosa ed è quindi sessualmente attiva durante la mestruazio-
ne, può conoscere in questa fase una soddisfazione assai superiore e raggiungere dimensioni del-
la sessualità diverse e più profonde che nei periodi “normali”. L’uomo che voglia contribuire a su-
scitare la capacità orgasmica di una donna, vivendola con lei, può godere anche lui di questa
maggiore profondità, anche se fisiologicamente può raggiungere soltanto uno o al massimo due
orgasmi.
Essere sessualmente attive durante la mestruazione significa per le donne protestare concre-
tamente contro la limitazione della sessualità, che porta a considerare quest’ultima come lecita e
buona solo se finalizzata alla maternità. In questo modo le donne escono dalla norma di sapore
ecclesiastico-agostiniano che vuole il piacere cattivo e peccaminoso quando non si accompagna
all’obiettivo della fertilità. Quello che le norme maschili intendono colpire è soprattutto l’autonomia
della donna, perché quando l’atto sessuale si compie durante la mestruazione il concepimento è
escluso a priori. Non essere più inchiodata dalle leggi morali al ruolo materno ha per la donna un
effetto liberatorio. Gli uomini, che perderebbero così influenza e potere, hanno perciò dichiarato
peccato il “coito rosso”. Questo tipo di sessualità “peccaminosa” veniva attribuita nel Medioevo a
streghe e prostitute, che troppo spesso dovettero pagare con la vita questa “colpa”.
È importante che la facciamo finita con la lunga tradizione di deformazione della femminilità e di
educazione alla malattia e che riprendiamo nelle nostre mani (o rimettiamo nelle mani della “vec-
chia saggia”) la nostra guarigione e la concreta conoscenza della medicina empirica. La rivoluzio-
ne che ogni mese si compie nel nostro ventre, la “malattia premestruale”, non è un destino immu-
tabile. Essendo un segnale d’allarme inviato dal corpo, il dolore non può essere semplicemente
eliminato con le medicine, altrimenti si considera causa quello che invece è l’effetto. Possedere un
sapere alternativo significa essere coscienti che contro le tensioni premestruali esistono dei rimedi
semplici, naturali ed efficaci, che non producono gli effetti collaterali degli ormoni e degli psicofar-
maci, sostanze a cui i ginecologi ricorrono con troppa facilità anche perché non sanno che cosa
fare.
Per farla finita con le norme religiose e con quelle mediche che definiscono ciò che è peccato o
follia, le donne possono ritrovare l’accesso al proprio corpo e al piacere di un orgasmo che esse
possono godere da sole. Un orgasmo raggiunto con l’autoerotismo non fa male né al corpo né allo
spirito. Se le donne imparano a toccare di nuovo teneramente il proprio corpo e a raggiungere un
orgasmo liberatorio, senza vergognarsene anche durante la mestruazione, allora già sul piano
meramente fisiologico è possibile che si sciolgano le tensioni, che si affretti l’espulsione dell’endo-
metrio e che il corpo si rilassi. Ma anche a prescindere da tutto ciò, permettere, conoscere, svilup-
pare le proprie sensazioni corporee e goderne è già un passo notevole verso l’autonomia sessua-
le. È solo la mancanza di coraggio, l’incapacità di assumersi le proprie responsabilità, che porta
continuamente la donna a sopprimere il proprio piacere sessuale.
Finora ho analizzato il ciclo soltanto in relazione alla funzione e all’attività delle ovaie, e questo
corrisponde all’unilaterale sopravvalutazione dell’uovo. Con la scoperta degli ormoni e dei loro ef-
fetti, la medicina più recente ha cominciato ancora di più a fare distinzione fra il ciclo mestruale del
sangue ed il ciclo ormonale delle ovaie. Nella ricerca medica la mestruazione viene descritta sol-
tanto dal punto di vista del ciclo ovarico, vale a dire rispetto alla funzione delle ovaie e non più ri-
spetto alla funzione dell’utero, che si svolge parallelamente in rapporto reciproco e in costante in-
terreazione col ciclo ormonale delle ovaie. A causa di questo spostamento di accento, nella lette-
ratura medica trova ormai ben poca attenzione la mestruazione intesa come sanguinamento dal-
l’utero, e quindi come una fase dotata di un particolare carattere e di certe ripercussioni psichiche.
Le donne però vivono l’evento reale del sanguinamento del loro ciclo uterino.
Il ciclo uterino ha soltanto tre fasi: la proliferazione (formazione della nuova mucosa), il distacco
dell’uovo e il suo possibile annidamento (impianto nella mucosa pienamente sviluppata) e infine la
fase secretoria (l’espulsione della mucosa non più necessaria). Tutte e tre queste fasi sono “fasi
del sangue”: aumento, pienezza e diminuzione. Questa dinamica che si compie nel corpo ha un
corso parallelo alla dinamica della luna. È il ciclo uterino, e non quello ovarico, che rientra nell’e-
sperienza della mestruazione.

33
È l’esperienza di questo ciclo uterino, e quindi del “rivelarsi” del sangue, che sta all’inizio della
storia dell’umanità e all’inizio dello sviluppo psichico e dello sviluppo della coscienza spirituale.
L’evoluzione della mestruazione (dagli animali che non perdono sangue ai primati che lo perdono
una o due volte l’anno, infine alla donna che lo perde regolarmente in relazione col ciclo lunare)
segna il passaggio dall’animale all’uomo, rappresenta, per così dire, il salto “quantico” nella storia
dell’umanità: non dissimile da quello che l’esperienza del menarca rappresenta, a livello individua-
le, per la ragazza di oggi, esperienza che si accompagna anch’essa a una forte spinta nello svilup-
po della coscienza. La percezione di queste straordinarie sensazioni corporee, la regolarità della
comparsa del sangue hanno reso possibile l’evoluzione umana e introdotto i culti religiosi e la civil-
tà.
Anche nella fase postmestruale della vita le donne conservano pienamente questo potenziale
energetico, perché ogni elettrone del loro corpo ha immagazzinato queste energie di trasforma-
zione. Queste vibrazioni energetiche che creano civiltà, che trasformano la psiche e lo spirito, le
hanno tutte le donne prima, durante e dopo la fase delle mestruazioni. Nel climaterio cambia il ci-
clo visibile ma non cambia l’essenza del ciclo, la sua invisibile energia. La donna che diventa una
“vecchia saggia” si rivolge di più al mondo invisibile. Si sposta il centro di gravità, ma il mistero del-
la trasformazione è lo stesso, solo più spiritualizzato.
Lo sviluppo della coscienza dell’umanità si fonda sul codice biologico del sanguinamento della
donna e sul suo riconoscimento spirituale come mistero di trasformazione.

34
L’immagine ciclica
del mondo
La donna mitico-matriarcale non ha il ciclo, ma è il ciclo. Essa è identica all’elemento del suo
sangue, è elementarmente totale. Con ciò è essa stessa elemento del cosmo. Se tutto rappresen-
ta l’energia originaria unitaria, allora la donna, a causa del suo ciclo mestruale, reca in sé l’ordine
cosmico. Il suo utero-vaso corrisponde sia alla volta rotonda della caverna sia a quella del cosmo.
Queste volte rotonde, da cui viene prodotta e riprodotta la vita, nella storia delle religioni, come
mostrerò in seguito, vengono raffigurate come “maiale sacro”, dalle cui rotondità sarebbe nato tut-
to il cosmo. Utero, caverna, cosmo, trovano la loro personificazione nella dea-maiale cosmica, dal-
la cui bocca scorre fuori una lingua rossa.
L’immagine matriarcale del mondo ha origine da molti cicli fra loro collegati:
• il cosmo coi suoi corsi e ordini ciclici;
• la luna coi suoi cambiamenti ciclici e la sua regola-misura;
• il ciclo mestruale e la sua regola-misura rossa come cosmo incarnato nell’utero;
• la dea ciclica nella sua forma che si sviluppa in tre fasi e nei suoi tre colori: nero, bianco e
rosso;
• le nozze sacre e la ripetizione ciclica della fertilità; e parallelamente a questo il ciclo mitico
del re di un anno, che deve fecondare e morire e che poi ritorna come successore di se
stesso;
• le stagioni e la loro regola-misura della fertilità e della sterilità dell’utero-terra;
• i cicli psichici dello sviluppo della coscienza attraverso le esperienze del cambiamento, e
l’evoluzione spirituale a ciò collegata;
• le danze rituali in tondo, come viva raffigurazione di tutti i cicli del cosmo.
Sanità matriarcale significa collocarsi in questi ritmi, che sono concretamente esperibili nell’ute-
ro e verificabili materialmente. Essere sani significa vibrare all’unisono con queste leggi cicliche
della natura; ammalarsi significa nuotare contro corrente rispetto a queste leggi naturali.
Guarire, restituendo sacralità a queste regolarità cicliche, non può essere una faccenda privata
delle donne: è una rivendicazione politica, anzi una sfida globale. Ogni uomo non solo prende par-
te ai nessi cosmici complessivi, ma è parte dell’intreccio di relazioni che esiste fra tutte le cose.
Tutti i ritmi sono indissolubilmente connessi. Tutto quello che il singolo fa ha effetti sul tutto: «Io ri-
guardo il cosmo, e il cosmo riguarda me»1. Nessuno si può sottrarre a questa responsabilità com-
plessiva.
Se viene impedito il corso della mestruazione, ne risente l’intero ciclo cosmico. Se viene dan-
neggiata la hystera, anche il fecondo utero-terra viene danneggiato. Se viene distrutto il sistema di
autoregolazione ecologica della terra, allora l’intero bioritmo del cosmo viene distrutto. Lavorando
a risanare il proprio ciclo e a ritrovare la totalità con esso, le donne lavorano anche a risanare
l’intero cosmo.
Ma come è nata, nell’immagine matriarcale del mondo, la sacralità dei tre colori della dea, nero,
bianco, rosso e la sua triplice figura, laddove sia la luna sia il ciclo delle stagioni hanno quattro fa-
si? Tutti gli studiosi di mitologia tirano a indovinare: ma se avessero prestato attenzione al simbolo
principale della dea, il maiale, tutto sarebbe stato loro immediatamente chiaro.
Il maiale è gravido per quattro mesi l’anno, cioè per un terzo dell’anno. L’anno diviso in tre parti
che si celebra nei riti è per un terzo il periodo della disponibilità a concepire, per un terzo il periodo
della gravidanza-fertilità e per un terzo, infine, quello della sterilità e dell’attesa. È proprio quest’ul-
tima importante fase che le donne celebravano come quella della sterilità sacrale, come il tempo
del cambiamento che prepara un nuovo inizio.

35
La confusione che generalmente esiste presso gli studiosi di mitologia riguardo a tripartizione e
quadripartizione sembra corrispondere alla confusione che i medici fanno tra ciclo ovarico e ciclo
uterino. I mitologi dimenticano la luna nera, che è una fase autonoma. Il colore mitologico nero
viene semplicemente associato sia alla luna calante sia alla luna nuova. Analogamente i medici
dimenticano di descrivere e di valorizzare il sanguinamento come una fase autonoma. Se però
consideriamo seriamente la fase della luna nera come una fase autonoma, allora la luna concreta
ha quattro fasi che non possono essere ridotte alle tre fasi, nera, bianca, rossa. Ma le tre fasi dei
maiali, le tre fasi dell’utero, parallelamente alle tre fasi della luna, devono pur sempre essere state
così importanti da dare origine a una divinità triforme coi suoi tre colori mitologici. Se fosse stata
venerata la luna reale, allora la dea avrebbe dovuto evolvere in una divinità quadriforme.
Anche la ricerca matriarcale commette questo errore concettuale. Essa associa alla luna cre-
scente la fanciulla Kore, alla luna piena la madre partoriente e alla luna calante la vecchia saggia,
Ecate o Kālī. Come accade negli studi psichiatrici sulle fasi mestruali, anche qui la fase della luna
nera viene passata sotto silenzio. Questo è tanto più stupefacente in quanto in tutte le immagini di
antiche civiltà giunte fino a noi proprio questa luna nera sotto forma di falce coricata è il simbolo
della dea. La fase mestruale della luna nera non viene veramente percepita come la fase della
dea.
Il semplice parallelismo di fasi lunari e fasi del ciclo, e anche di fasi lunari e raffigurazioni di dee,
rappresenta una conclusione troppo affrettata.
La conoscenza è stata sempre riferita concretamente all’apparenza visibile e spiritualmente al-
l’essenza invisibile. Di concretamente visibile c’erano le quattro fasi della luna, di spiritualmente
invisibile c’erano i tre colori che colgono l’essenza della luna, le sue trasformazioni, quindi le luna-
zioni e con esse la mestruazione fisica.
Accanto alla tripartizione dell’anno scandita dai maiali sacrali e dalla loro gravidanza di quattro
mesi nasce la tripartizione sacrale dell’anno, della dea e dei colori, scandita dal ciclo uterino della
donna. Il colore bianco sta a indicare l’aumento del sangue, il colore rosso la pienezza di sangue
nell’utero, mentre il nero descrive la sua diminuzione, intesa, dalla prospettiva dell’interno
dell’utero, come sterilità.
La cosiddetta “dea-luna” è una dea delle lunazioni. Ma la lunazione adorata nelle religioni non
corrisponde alle quattro fasi della luna reale, bensì alle tre fasi del ciclo mestruale uterino che
venne proiettato sulla luna. Per via della visibilità del sangue mestruale si formò l’idea che nell’ute-
ro dovesse verificarsi mensilmente una trasformazione ciclica del sangue, affinché questo potesse
riapparire ogni mese.
Questo ciclo uterino con le sue tre fasi di aumento, pienezza e diminuzione del sangue nell’ute-
ro, e non il ciclo ovarico in quattro fasi, determinò la proiezione del corpo sulla luna e l’idea religio-
sa della lunazione in tre fasi, nera, bianca e rossa. La dea della lunazione è la dea del ciclo me-
struale.
La sterilità cosmica è la terza parte dell’anno e, nel matriarcato, è una fase sacrale. Nell’Apoca-
lisse, o rivelazione, appare davanti alla donna cosmica il drago rosso, che spazza via dal cielo un
terzo delle stelle (Apocalisse, 12:4); esso è un segno della minaccia che incombe sulla fertilità del
cosmo. Che il drago rosso, in origine il serpente rosso del ciclo mestruale, sia sterile per un terzo
dell’anno è però del tutto normale: è solo la rimozione patriarcale che lo ha fatto diventare perico-
loso. Oppressione e degradazione trasformano anche forze buone e dotate di senso in forze mi-
nacciose e insensatamente distruttive, che infliggono la sterilità come una punizione. A suo tempo
il ciclo mestruale veniva celebrato nei Misteri eleusini. Perciò non c’è da stupirsi se anche l’aposto-
lo Giovanni ha la visione di un cavallo bianco, uno rosso e uno nero (Apocalisse, 6), la dea-cavallo
matriarcale.
In quel simbolo del calendario che è la Sfinge, questa tripartizione è espressa ancora una volta
attraverso i simboli di animali. La Sfinge originaria è composta da tre animali, in corrispondenza
con le stagioni: il leone, che costituisce il corpo, il grifone che forma le ali e il serpente o lo scorpio-
ne che costituisce la coda. La Sfinge è una dea primordiale, in cui la natura trifasica è ancora rap-
presentata come unità. Comunque nella terza sezione, “Il maiale: l’utero cosmico” mostrerò che
nella più antica Sfinge egiziana la parte posteriore era quella di un maiale.

36
Ogni tripartizione sacrale dell’anno, della luna, dei colori e della dea (sviluppatasi quest’ultima
successivamente) si fonda sull’esperienza religiosa del ciclo uterino della donna e delle sue tre fa-
si.

NOTE
1. H. Schmid, citato in P.M. Pflüger (a cura di) Unterwegs zu neuen Werter, Felbach 1983 pag.
28

37
La mestruazione
e l’evoluzione dello spirito
Sessanta milioni di anni fa ebbe inizio l’evoluzione dell’animale in primate, cinque-sei milioni di
anni fa si sviluppò l’Homo habilis, un milione e 600.000 anni fa l’Homo erectus e circa 500.000 an-
ni fa l’Homo sapiens di Neanderthal, il quale circa 100.000 anni prima della nostra era iniziò a sep-
pellire nelle caverne i suoi simili in previsione di una rinascita.
Soltanto da circa 40.000 anni esiste l’Homo sapiens sapiens. Verso il 25.000 a.C. questo nostro
antenato sviluppò una società di cacciatori e raccoglitori, mentre dal 12.000 a.C. circa si formaro-
no le strutture sociali di una cultura fondata sull’agricoltura e l’allevamento.
L’estensione di questi periodi fa capire quale immane processo evolutivo abbia compiuto biolo-
gicamente l’animale per diventare prima primate e poi uomo. Diventa chiaro anche quanto tempo
fosse necessario perché la forma matriarcale di gruppi di animali evolvesse in una forma di socie-
tà matriarcale. Chiamo “matriarcato semplice” l’epoca che va all’incirca dal 100.000 al 30.000 a.C.,
dalla civiltà delle caverne fino alla scoperta della tecnica dell’intaglio. La figurina più antica, che
rappresenta una persona con le braccia sollevate in forma di falce lunare, è stata rinvenuta nel
Geissenklösterle presso Blaubeuren. Intagliata nell’avorio verso il 32.000 a.C., ha la grandezza di
un dito mignolo e le proporzioni della figura umana sono estremamente armoniche. Che esatta
percezione della realtà! Ma in questo lavoro d’intaglio c’è anche la percezione della dimensione
religiosa. Sul retro, la figura porta un lunario fatto di punti scalfiti e su ogni lato ha tredici tacche
per indicare l’anno, composto di tredici mesi lunari.
Chiamo “matriarcato evoluto” il periodo compreso all’incirca fra il 32.000 e il 10.000 a.C., in cui
si andarono formando le strutture sociali e politiche di un ordinamento matriarcale nella forma del-
la ginecocrazia o della “teacrazia”. Nel culto si sviluppò la “tealogia”, la dottrina della dea, di cui si
sono conservate fino a noi, soprattutto nelle caverne, le immagini simboliche. Il simbolismo della
tealogia ruota intorno all’esperienza della mestruazione, raffigurata nell’immagine primordiale della
falce di luna coricata, quindi nella luna nera.
Chiamo “matriarcato altamente evoluto” l’arco di tempo che va all’incirca dal 10.000 a.C. al
1000 d.C. In questa epoca comparvero, verso il 7000-6000 a.C., le prime figure di culto dei maiali
e delle dee-maiale e la loro differenziazione che diede origine a una dea del ciclo trifasico. Verso il
2000 a.C. ogni fase del ciclo fu raffigurata da una singola dea; tutte e tre insieme queste divinità
rappresentavano l’unità del ciclo nero-bianco-rosso, ciclo sia della mestruazione sia della luna sa-
crale. Il culto altamente evoluto di Eleusi ebbe fine verso il 400-500 d.C. Soltanto con l’estinzione
delle religioni matriarcali nell’area mediterranea, le Chiese patriarcali poterono definitivamente af-
fermarsi ai tempi dell’imperatore Costantino. L’irrefrenabile declino delle culture matriarcali ufficiali
aveva già avuto inizio però, a mio avviso, almeno a partire dal 2000 a.C.
La cultura patriarcale ebbe origine nello scontro per il predominio nel periodo della civiltà agri-
cola e si sviluppò intorno al 5000 a.C., dando vita a una società maschile di guerrieri e di proprie-
tari terrieri. Verso il 1200 a.C. gli Habiru (Ebrei) immigrarono in Palestina, intorno all’800 a.C.
Omero scrisse i suoi miti e intorno al 400 a.C. il patriarcato si era affermato nell’area semitica con
una chiara legislazione. Nell’area indiana verso l’800 a.C. sono conclusi i Rigveda, che descrivono
un cielo popolato ormai soltanto da divinità maschili, alle numerose divinità femminili essendo as-
segnate solo funzioni subordinate. Questo processo di patriarcalizzazione ha luogo quasi simulta-
neamente in tutte le regioni, ed autorizza la conclusione che questo sviluppo fosse di per sé logico
e inevitabile. Ma il patriarcato esiste soltanto da due o tremila anni.
Nell’evoluzione dal primate all’uomo lo sviluppo biologico della mestruazione ha svolto un ruolo
assai importante. Gli animali hanno un ciclo fondato sull’estro, che li fa andare in calore soltanto in
determinati periodi: quelli più favorevoli per deporre e covare le uova e in genere per procreare
nelle particolari condizioni offerte da un determinato ambiente. Anche l’animale primate perde san-
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gue dai genitali, ma al momento dell’ovulazione. Inoltre, per garantire la procreazione, e quindi la
continuazione della specie, emette anche un determinato segnale olfattivo che serve da richiamo
per l’accoppiamento. Questo era necessario perché nell’estro l’ovulazione non è continua come
nel ciclo mestruale; anzi, esso è caratterizzato da lunghi periodi di latenza e d’inattività ovarica.
Perciò quando un uovo era maturato l’animale aveva bisogno del segnale del sangue come richia-
mo al coito. Invece nel ciclo mestruale della donna l’ovulazione avviene continuamente e quindi,
anche senza il segnale di accoppiamento rappresentato dal sangue genitale, la conservazione
della specie era meglio assicurata.
L’accoppiamento era sempre possibile, e anche continuamente necessario. E così il sanguina-
mento, segnale originario dell’accoppiamento, si spostò dal momento dell’ovulazione a un mo-
mento successivo, compreso fra due ovulazioni, e si trasformò in mestruazione, durante la quale
non c’è possibilità di concepimento: sicché l’attività sessuale non serve più esclusivamente alla ri-
produzione della specie. Così il sangue mestruale è diventato espressione dell’individuo e della li-
bertà di scelta nell’attività sessuale, che non serve più soltanto a procreare, ma anche a sperimen-
tare il piacere e la libertà dalla soggezione agli impulsi.
Poiché nella donna non vi è alcun segnale di accoppiamento ben definito, il coito è possibile in
ogni momento. La grande differenza rispetto all’animale è che la sessualità umana non è limitata
al periodo dell’ovulazione. L’emancipazione dalle improvvise scariche ormonali dell’estro mette gli
uomini in condizione di non doversi più accoppiare per forza in determinati periodi: e così essi
hanno potuto creare in piena consapevolezza strutture sociali di livello superiore e più stabili.
Nella fase evolutiva in cui il segnale del sangue è passato dal momento dell’ovulazione nei pri-
mati al momento della non-ovulazione nell’uomo, determinando così la “creazione” dell’essere
umano, dev’esserci stato un periodo assai lungo durante il quale il sangue ha continuato a essere
il segnale dell’accoppiamento pur non segnalando più il momento dell’ovulazione. L’istinto natura-
le portava ad avere rapporti sessuali quando si manifestava questo segnale di accoppiamento,
che in realtà era già sangue mestruale. Se anche durante la mestruazione non c’era fecondazio-
ne, la conservazione della specie era però assicurata dalla regolarità dell’ovulazione per tutto l’an-
no.
Quando gli etnologi si scontrano sulle teorie delle migrazioni, discutendo sul se, sul come e sul
perché siano nati in tutto il mondo forme di culto, simboli e danze uguali o simili, non tengono con-
to di questo codice biologico che esiste ovunque e che dà a tutte le donne la stessa base di par-
tenza. È un semplice dato di fatto che «nessun fenomeno spirituale si può conservare a lungo se
non è fondato su fatti biologici»1. Dato che questo codice è uguale per tutti gli uomini, il sangue
femminile diventa in tutto il mondo un valore centrale del culto, perché la memoria biologica e lo
sviluppo psichico si condizionano reciprocamente.
L’utero e la mestruazione danno origine, attraverso la proiezione dell’organo in questione, alle
prime forme di culto che si svolgono nelle caverne attraverso i colori nero, bianco, rosso. Nel pa-
leolitico si incomincia a seppellire i morti in posizione rannicchiata o embrionale, orientando i corpi
in direzione est-ovest, in conformità al corso delle stelle, al loro viaggio notturno di migrazione sul-
la volta celeste. I morti vengono cosparsi o dipinti di ocra rossa, perché essi vengono dal sangue
della Madre Terra. Perciò essi ricevono in dotazione le conchiglie cauri, la cui apertura assomiglia
alla vulva. La rinascita, come quella delle stelle, è pensabile solo tramite la donna. La caverna cor-
risponde all’organo femminile, e la proiezione dell’organo è un primo atto di presa di coscienza
dello spirito. Nel culto, l’uscita dalla caverna equivale alla nascita, per il morto è la rinascita in cui
si crede. Se non esistono in natura, queste caverne vengono costruite a forma di gallerie e labirin-
ti, come le costruzioni megalitiche di Malta e le chiese di tutto il mondo. La rinascita è associata a
queste “caverne”.
La donna è colei che partorisce la vita e che è indispensabile nel rapporto madre-figlio, ed è
pertanto biologicamente dominante. Poiché essa fa nascere realmente, sul piano sacrale è anche
colei che fa rinascere e perciò il suo predominio sociale cresce estendendosi fin nella terza dimen-
sione, quella invisibile. Essa è l’utero da cui proviene la vita, anche dalla morte. La non-vita era in-
concepibile, tutta la vita è sempre vita, anche nella morte. Grazie alla sua capacità di far nascere,
la donna è potente nella vita politica; grazie alla sua capacità di far rinascere, è potente nel culto.

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Metafore di questa potenza sacrale erano sia il continuo ritorno del sangue femminile sia il conti-
nuo cambiamento della luna. La caverna-utero è il luogo di culto del ritorno. I valori centrali del cul-
to sono femminili.
Tutto ciò corrisponde al dominio della donna fondato sul suo codice biologico. La mestruazione
è il sangue regolare, che ha liberato dal sesso stagionale e consentito il sesso permanente. Que-
sto ha cambiato non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente la sessualità della donna.
Essa è capace di orgasmi multipli. Nella bambina di cinque anni, le ovaie raggiungono già le loro
piene dimensioni2. Esse contengono tutto il potenziale della specie umana e il campo energetico
di tale potenziale.
Tanto biologicamente quanto energeticamente la donna è più forte: le femmine superano me-
glio il primo anno di vita; le donne vivono più a lungo degli uomini (anche oggi, benché gravate da
una pluralità di impegni) e hanno maggiore capacità di resistenza al dolore.
Al sangue, alla possibilità di orgasmi multipli, alla capacità di far nascere e di far rinascere, alla
forte resistenza e al predominio nella relazione madre-figlio, si aggiunge la presenza femminile nel
culto e con essa anche la più alta e più rapida differenziazione psichico-spirituale della donna. Es-
sa diventa la garante della vita eterna, sia per la credenza nella rinascita sia perché realmente es-
sa dà la vita a figlie che procreeranno a loro volta. La linearità madre-figlia è il predominio politico.
Con questa sua doppia autorità la donna sviluppa la matrilinearità e la matrilocalità, la teacrazia
e le strutture familiari e sociali della cultura ginocentrica, la tealogia e le forme religiose di un culto
ginocentrico. Ma a questo punto dell’evoluzione devo ritornare ancora una volta a considerare il
campo energetico dell’uovo e del seme, per comprendere anche lo sviluppo del patriarcato come
dinamica che si fonda su un codice biologico.
Nel gruppo animale costituito dalla madre e dal piccolo, il maschio, a parte il contributo alla ge-
nerazione, non ha funzione alcuna. «La breve azione sessuale del maschio non potrebbe mai co-
stituire il fondamento della nascita di comunità.»3 Appena verificatasi la fecondazione, il maschio è
di nuovo fuori del gruppo.
Fra i primati, il fondamento di qualsiasi gruppo è la relazione madre-figlio. Poiché i primati sono
mammiferi, dipendono più a lungo dalla madre. Nella loro evoluzione questa fase infantile si pro-
lunga, rendendo possibile un processo più lungo di sviluppo psichico e spirituale, nonché la forma-
zione di abilità che avvantaggiano sensibilmente la specie nella sua lotta per la sopravvivenza.
Più a lungo dura la fase di dipendenza infantile e più i giovani maschi sono restii a lasciare il ni-
do, e devono esserne scacciati. Si sviluppano così i riti di “espulsione”. I maschi si raccolgono fuo-
ri dell’area madre-figlio o madre-figlia e lì cominciano a competere fra di loro per i diritti di accop-
piamento.
Nel modello originario dell’uovo-seme, il seme combatte per raggiungere l’uovo. Gli uomini svi-
luppano perciò complessi rituali sacrificali, atteggiamenti di umiltà di fronte alla madre-donna-dea
cui rendono grazia, aspetti che sopravvivono ancora oggi nei culti religiosi delle Chiese patriarcali.
Poiché nelle competizioni sono i più grossi e i più forti che vincono, si afferma biologicamente
l’uomo di corporatura più robusta.
La lotta uomo contro uomo corrisponde al codice biologico del seme. Corrisponde anche al
comportamento animale, alle lotte che i maschi sostengono fra di loro per conquistarsi il privilegio
d’inseminare la femmina. Questo è il codice psicogenetico maschile, che fu attivo fino al periodo
della cultura dei cacciatori e raccoglitori. Ma la caccia non era indispensabile, perché il bisogno di
proteine veniva soddisfatto dall’attività di raccolta svolta dalle donne. Perciò la funzione sociale
dell’uomo era in realtà quella di protettore del gruppo.
Lo sviluppo dell’agricoltura cambiò radicalmente il comportamento codificato nella biologia ma-
schile. Aumentando, la popolazione diventò inevitabilmente sedentaria ed il nomadismo lasciò il
posto alla coltivazione della terra e all’allevamento del bestiame. La densità della popolazione pro-
vocò nel maschio quello che si chiama “effetto zoo”. Il suo comportamento sessuale divenne ag-
gressivo e il coito diventò un modo di sciogliere le tensioni interiori. Le lotte per il predominio si in-
tensificarono, ed aumentò la secrezione di ormoni sessuali. L’eccessivo comportamento sessuale
dei maschi, insieme con la competizione fra di loro e le pretese di supremazia sulla donna, ebbe
l’effetto di ridurre il predominio e la sessualità femminili. Per l’uomo, che nel gruppo dominato dalle

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donne occupava una posizione più bassa, la superiorità femminile, sessuale e spirituale, diventò
un problema.
Questo problema ha interessato tutte le culture nella fase di transizione all’egemonia maschile.
L’uomo usò e sviluppò la sua superiorità per il coito, per raggiungere un comportamento sessuale
adeguato alla capacità orgasmica della donna. Attraverso questo comportamento aggressivo e re-
pressivo della sessualità femminile decadde completamente la regolamentazione demografica
esistente per legge biologica. E ancora oggi il bio-equilibrio della popolazione sul pianeta terra ne
risulta distrutto.
Alcune debolezze specificamente maschili costrinsero l’uomo a lottare per ottenere il predomi-
nio nella sessualità:
• inferiore stabilità biologica;
• continue lotte di status;
• maggior sensibilità ai disturbi dello stress;
• più bassa capacità orgasmica rispetto alla donna;
• mancanza della capacità di far nascere e far rinascere.
Con questo la sessualità non venne aumentata ma diventò più aggressiva, provocando la sva-
lutazione della sessualità della donna e del suo ruolo sociale. Nella lotta per la parità sessuale con
la donna ebbe inizio anche la gara fra i sessi.
In natura, le uniche lotte per il predominio che esistono sono quelle fra maschio e maschio, fra
seme e seme nel campo energetico bio-psichico. Nel mondo animale non esiste la lotta fra i sessi.
Anche nel campo energetico uovo-seme non esiste alcun codice biologico per questo fenomeno.
Nel caso della lotta fra uomo e donna è come se il seme volesse assoggettare l’uovo invece di en-
trare in esso. Questa struttura non è autenticamente maschile, ma patriarcale, e porta alla disin-
tegrazione della struttura sociale del gruppo. La lotta vera è sempre una lotta per la donna, per la
quale l’uomo sacrifica anche se stesso.
Chiaramente patriarcale, e non fondata su alcun codice biologico (e quindi contro natura), è la
lotta dell’uomo contro la donna. Essa è la lotta del seme contro l’uovo e non una lotta per l’uovo.
Questa dinamica è il marchio di tutte le culture patriarcali: l’oppressione violenta della donna. L’uo-
mo non ha né l’energia biopsichica delle nozze uovo-seme, né l’esperienza dell’energia del ciclo
mestruale. Ma sono proprio questi i due campi energetici che stanno al centro di ogni religione: le
sacre nozze e il mistero della trasformazione del sangue.
In ogni nuovo momento di crisi della cultura e della religione patriarcali questa lotta contro la
donna e il suo potere è stata ripresa, con tutti i suoi meccanismi distruttivi. Oggi la lotta per il pre-
dominio dell’uomo viene condotta ancora con gli stessi mezzi usati al tempo della civiltà agricola,
cioè con l’aggressiva sessualità maschile. Lo scopo è quello di reprimere l’autonoma sessualità
femminile e di assegnare alle donne ruoli sociali inferiori, che oggi vengono giustificati come con-
dizionamenti biologici. Il patriarcato si è staccato dal codice biogenetico naturale, distruggendo i
campi energetici biopsichici delle donne e con essi anche il proprio rapporto con la natura e la fisi-
cità.
Ai tempi della scoperta dell’agricoltura ebbe inizio anche l’allevamento del bestiame. Benché il
cinghiale sia già in natura un animale stanziale, soltanto con il passaggio alla vita sedentaria dei
gruppi umani divenne un animale da allevamento di primo piano. Il maiale selvatico fu addomesti-
cato diventando così il docile maiale domestico. La sua fecondità acquisì allora un’importanza pri-
maria. Non è certo un caso che le donne, proprio nel periodo in cui iniziavano a essere svalorizza-
te, abbiano fatto di questa cinghialessa libera e aggressiva il simbolo interiore del loro vero potere.
Questa figura animale rispecchia non solo l’intangibilità e la dignità della donna, ma anche la pro-
testa contro la riduzione di se stessa alla funzione riproduttiva di un maiale domestico.

NOTE
1. R. Fester, M.E.P. König, D.F. Jonas, A.D. Jonas Weib und Macht, Francoforte, 1984, pag. 197.
2. Ibidem, pag. 206. 3.
3. Ibidem, pag. 161.
41
LA CINGHIALESSA
SACRA MALEDETTA
«La paura non nuoce mai a nessuno.
Ciò che nuoce allo spirito è
avere sempre dietro di sé qualcuno
che ci picchia e ci dice
quello che si deve o non si deve fare.»
Carlos Castaneda
Viaggio a Ixtlan

«Se incontri un Buddha, uccidi il Buddha.


Se incontri un patriarca, uccidi il patriarca.»
Mumonkan, testo zen,
Cina, XIII secolo

«Basta guardare la figura femminile per capire che la donna non è destinata a grandi
lavori né spirituali né fisici. Essa paga il fio della vita non attraverso il fare ma attra-
verso il soffrire, attraverso ( ...) la sottomissione all’uomo, per il quale deve essere
una compagna paziente e rasserenante (...)
Esse [le donne] rappresentano il secondo sesso, arretrato in ogni senso, a cui si de-
ve perdonare la debolezza, ma a cui è ridicolo manifestare eccessivo rispetto.
Che per natura le donne siano destinate a obbedire si capisce dal fatto che quando
una di loro viene a trovarsi in una condizione di indipendenza totale, contraria alla
sua natura, subito si accompagna a un uomo dal quale si lascia guidare e dominare,
perché ha bisogno di un signore.»
Arthur Schopenhauer (1788-1860)
Paralipomena. Sulle donne

Introduzione
In questa sezione intendo dimostrare come nel corso del processo di patriarcalizzazione si for-
marono determinati meccanismi di rimozione allo scopo di eliminare i valori femminili. Delineo
questo fenomeno concentrandomi sul simbolo della cinghialessa. Quello che originariamente era
l’animale sacro della dea fu trasformato, in un processo di diffamazione senza pari, nella scrofa
maledetta. Ma non fu solo il simbolo sacro femminile a essere distrutto: sul piano politico furono
annientati contemporaneamente i valori della cultura femminile, l’autonomia delle donne reali e
l’autorità delle dee. Questo processo di eliminazione storica si riflette, come in una lente conver-
gente, nel simbolo della cinghialessa. Partendo dalla situazione attuale della nostra cultura e risa-
lendo all’indietro nella storia voglio mostrare questo processo di svalorizzazione in una fiaba, in
una leggenda e in due testi biblici.
42
I fratelli Grimm (nati l’uno nel 1785, l’altro nel 1786) scrissero la fiaba del piccolo sarto corag-
gioso, che rinchiude una cinghialessa in una cappella. Essi rielaborarono questa fiaba proprio nel-
l’epoca che vedeva la fine di trecento anni di persecuzioni contro le donne in tutta Europa. La fia-
ba permette di trarre concrete conclusioni sulle norme sociali vigenti nel XIX secolo, il secolo in cui
Arthur Schopenhauer scrisse il suo pamphlet Sulle donne.
Una leggenda intorno alla vita di Francesco d’Assisi riferisce che una volta questo santo, amico
degli animali, maledisse una scrofa selvatica. Questa leggenda del XIII secolo rivela lo spirito del-
l’epoca e chiarisce come e perché il clero cristiano abbia maledetto milioni di donne, e le abbia fat-
te bruciare sui roghi o in stufe appositamente concepite.
Il Nuovo Testamento, la cui redazione definitiva è solo del IV secolo, contiene la parabola del
figliol prodigo che, dopo aver condotto una vita moralmente riprovevole, si trova a dover custodire
maiali, cosa che per un ebreo del tempo equivaleva alla massima umiliazione. Con questo testo
cercherò di dimostrare quanto profonde siano nello sviluppo del cristianesimo le radici di quel di-
sprezzo per le donne che esso legittima sia nella sua etica sia nei suoi dogmi.
I testi delle leggi dell’Antico Testamento risalgono all’epoca di Mosè, ma furono messi per iscrit-
to, dopo una lunga tradizione orale, solo nel IV secolo a.C., e rielaborati secondo una chiara ten-
denza. Con queste leggi fu fondato il monoteismo maschile, mentre venivano svalutate ed emar-
ginate le religioni della dea. Una delle leggi centrali della religione ebraica vieta di mangiare carne
di maiale. Questo divieto introduce il definitivo spodestamento della dea e sancisce l’assegnazio-
ne di un ruolo sociale subordinato alla donna.
Il simbolo centrale che ho scelto per questo viaggio storico verso le radici psichiche e politiche
del disprezzo nei confronti delle donne è quello della cinghialessa sacra maledetta; cinghialessa
che, considerata sacra durante il matriarcato, è stata più tardi, nel periodo patriarcale, maledetta.
La cinghialessa è un simbolo, non un animale reale, perché questo è un libro di mitologia, non
di biologia. C.G. Jung intendeva i simboli come “immagini primordiali” ed “elementi strutturali del-
l’anima” a cui dava il nome di “archetipi”. Anche Jung però vede nell’archetipo non soltanto un’im-
magine dai contorni precisi ma anche una dinamica che può afferrare un uomo e metterlo in vibra-
zione. Il duplice aspetto, manifesto ed energetico, dell’archetipo, si può comprendere meglio attra-
verso le nozioni della fisica atomica.
I fisici hanno scoperto che la massa di una particella è uguale a una determinata quantità di
energia. Le particelle subatomiche non possono più essere considerate oggetti statici, ma vanno
viste come strutture dinamiche, processi energetici. Come la materia, l’archetipo è una rete di vi-
brazioni di energia, solo con una frequenza più alta di quella della materia visibile. Il campo ener-
getico invisibile di un archetipo può, se vibra con una frequenza inferiore, diventare visibile sotto
forma d’immagine onirica, senza per questo diventare subito materia solida. Un simbolo onirico è
un campo energetico intermedio fra invisibilità e visibilità, fra onda e particella, per dirla nel lin-
guaggio della fisica. Adesso sostituisco il concetto di “archetipo” con quello di “campo energetico”,
perché quest’ultimo è più adatto alla duplice struttura di un simbolo e meglio corrisponde alla nuo-
va idea del mondo introdotta da Albert Einstein, con la sua teoria della relatività, e dai fisici quanti-
stici.
Il campo energetico della cinghialessa però non è attivo soltanto a livello interiore, ma determi-
na assai concretamente lo spirito politico e religioso di intere epoche. A loro volta i processi storici
agiscono sui campi energetici dei simboli trasformandone i contenuti, al punto da cambiarne com-
pletamente l’interpretazione e trasformarli nel loro contrario. È quanto accadde con la cinghialessa
sacra, che divenne la cinghialessa maledetta.
Ogni campo energetico è anche attivo sul piano politico, e avvenimenti politici come la patriar-
calizzazione provocano corrispondenti cambiamenti o distruzioni nel campo energetico di un sim-
bolo. Ogni simbolo, anche quello attualmente distrutto, è attivo contemporaneamente sul piano fi-
sico, psichico, mentale e spirituale, con tutte le conseguenze politiche che ne derivano.
Pertanto, portare alla coscienza un simbolo come quello della cinghialessa sacra maledetta,
nonché le alterazioni che esso ha subìto nel tempo per cause storiche, è un’azione politica. Grazie
alla rimozione dei campi energetici matriarcali, le donne sono state bloccate a tutti i livelli di co-
scienza, compreso quello politico, e fatte ammalare. Ma ogni energia bloccata ferisce o distrugge

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in maniera irreparabile la totalità, non solo nell’individuo ma anche nella cultura.
Le crisi attuali ci rivelano che dobbiamo liberare il nostro campo energetico delle culture ma-
triarcali dalla rimozione e dalla demonizzazione, affinché queste energie dotate di potenza primor-
diale, originariamente ben disposte nei nostri confronti, adesso non ci si rivoltino contro in maniera
distruttiva. La separazione1 fra i campi energetici matriarcali e patriarcali è il peccato della nostra
cultura attuale. La nostalgia delle energie rivivificanti dei miti e dei simboli si è risvegliata; l’antica
forza mitica si è soltanto spostata nell’ambito interiore, ma la sua religiosità è grande come non
mai e non è affatto scomparsa. I miti sono la melodia primordiale dell’anima. Quando questa me-
lodia si spegne o non si sente più, allora è vicina la fine della religione.
Il campo energetico matriarcale, raffigurato nel maiale sacro e personificato nelle dee, ci condu-
ce al centro, alla profondità, alla totalità quando, avvicinandoci colmi di reverenza a una dea, ci
troviamo “faccia a faccia” con lei, non la vogliamo interpretare e padroneggiare, ma siamo pronti a
rispettarla, a vivere e a danzare con lei.
Per diventare di nuovo integralmente donne, dobbiamo prendere coscienza, per quanto doloro-
so ciò possa essere, dei processi di distruzione storici, allo scopo di arrivare alle nostre radici fem-
minili che affondano nell’epoca matriarcale. Voglio mostrare quanto sia stato complesso il poten-
ziale di rimozione della cultura patriarcale, allo scopo di comprendere meglio in che misura sia op-
pressiva l’educazione che viene impartita alle ragazze, un’educazione che spesso le fa diventare,
crescendo, donne alienate da se stesse, che possono essere costrette ad assumere ruoli total-
mente estranei al loro essere. In epoca matriarcale i campi energetici femminili non erano incon-
sci, ma vennero resi tali solo nel corso della patriarcalizzazione. E adesso, per noi donne che vi-
viamo nel patriarcato, sono talvolta talmente lontani che è come se non fossero mai esistiti. Se ci
vogliamo liberare dalle malattie, dalla debolezza imposta e dai ruoli sociali assegnatici, dobbiamo
riportare alla coscienza i campi energetici femminili. A questo vorrei contribuire con le riflessioni
che illustrerò qui di seguito.

NOTE
1. Il termine tedesco è Sund,” stretto di mare”, che con Sünde, “peccato”, costituisce un gioco di
parole intraducibile in italiano. (Ndt)

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La fiaba:
Il piccolo sarto coraggioso
Il contesto storico
Le fiabe sono campi energetici in libera vibrazione, campi energetici storico-culturali. Perciò i lo-
ro personaggi non hanno nome: essi sono tipici, e mostrano come in uno specchio le normalissi-
me fasi dello sviluppo umano, con i conflitti psichici che le accompagnano e che per millenni ab-
biamo espresso in questo linguaggio di immagini. Le fiabe offrono anche soluzioni dei conflitti, co-
sì come sono state sperimentate dagli uomini; ma questi tentativi di soluzione sono di volta in volta
storicamente determinati e rappresentano un ben preciso livello di coscienza. Gli sviluppi e i con-
flitti rappresentati hanno sì un carattere sovratemporale, ma i tentativi di soluzione che le fiabe
propongono rispecchiano forme sociali storicamente determinate, nonché modelli patriarcali per
quanto riguarda l’educazione e le idee sul ruolo della donna. Così anche le fiabe possono essere
utilizzate a sostegno di un determinato sistema che deve essere interiorizzato. In epoca cristiana
questi racconti popolari sono stati strumentalizzati per far interiorizzare le concezioni morali desi-
derate.
Per illustrare come le ragazze, attraverso l’educazione, vengano deformate al fine di adattarsi
alla concezione patriarcale dei ruoli, in particolare al ruolo della donna dipendente e bisognosa di
aiuto, mi servirò di un “amabile” esempio, il simbolo eterno del principe della fiaba. Appena com-
pare, egli libera la fanciulla da tutte le paure, la sposa, pone fine a tutti i suoi problemi e la rende
felice fino alla fine dei suoi giorni.
Fiabe di questo tipo vengono raccontate alle bambine da quando hanno tre anni fino a quando
raggiungono la pubertà e le vicende narrate vengono presentate come stadi evolutivi ineluttabili, al
fine di programmare le piccole per un certo scopo, un certo ruolo e comportamento. Il paradiso,
fonte di ogni gioia, si può raggiungere soltanto attraverso l’uomo. Così viene costruito un comples-
so del principe azzurro che ha effetti nevrotizzanti, ma che non viene comunque diagnosticato
come nevrosi perché nella nostra società rappresenta una norma di comportamento auspicabile e
“sana”, nonostante il numero di donne che poi sprofondano nella depressione. L’immagine dell’uo-
mo che libera da tutte le avversità rende stabile il rapporto di dipendenza delle donne e con esso il
dominio degli uomini e le loro distruttive idee di potere.
Fornire una critica di questo tentativo di soluzione è quanto intendo fare a proposito della fiaba
del Piccolo sarto coraggioso.
La sua interpretazione può aiutare a vedere con più chiarezza un conflitto sia individuale sia
umano e storico, a respingerne con più fondatezza il tentativo di soluzione proposto dalla società
patriarcale e ad elaborarne uno nostro, più adeguato al femminile.

La cinghialessa rinchiusa nella cappella


Nel breve riassunto della fiaba che intendo fornire mi limiterò a delineare i motivi essenziali che
possono aiutare a chiarire i significati del simbolo del cinghiale.
Un piccolo sarto è seduto al suo tavolo e cuce, quand’ecco che per la strada passa una donna
che vende marmellata. Dopo che la donna ha dovuto salire molti scalini per giungere fino a lui, egli
le compera soltanto un quarto di libbra della sua mercanzia. Quindi si spalma di marmellata una
fetta di pane, ma ecco che ci si posano sopra delle mosche, e lui ne ammazza sette. Questa azio-
ne eroica, «Sette in un colpo!», se la ricama sulla cintura, perché «tutto il mondo deve saperlo».
Vagando per il paese, dopo aver compiuto eroiche gesta di guerra che per lui sono la prova della
sua straordinaria grandezza, giunge infine alla corte del re. Questi vede la cintura del sarto e sen-
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te dire dai suoi soldati che non vogliono fra di loro un «guerriero così violento».
Per liberarsi di lui, il re gli impone tre difficili compiti e gli promette in dono, se sarà in grado di
assolverli, la propria figlia e metà del suo impero. Il primo compito consiste nell’affrontare e nel
vincere due giganti, e il sarto lo porta a termine grazie all’astuzia. Come secondo compito deve
catturare un unicorno che fa «gran danno fra il bestiame e la gente». Quando nel bosco l’unicorno
corre contro di lui, egli fa un salto di lato in modo che quello va a cozzare contro un albero, attra-
versandolo col corno da parte a parte. La terza sfida lanciata dal re consiste nella cattura di un
cinghiale temuto da tutti i suoi cacciatori. Quando il cinghiale scorge nel bosco l’eroe, corre «con
le fauci schiumanti e arrotando i denti» contro il piccolo sarto coraggioso e lo «vuole gettare a ter-
ra». Il piccolo sarto, che sta accanto a una cappella, vi balza dentro e poi sale su una finestra. Il
maiale lo segue, ma subito il piccolo sarto salta fuori dalla finestra, chiude la porta e così fa prigio-
niero l’animale selvatico. Allora va dal re e gli dice: «La scrofa l’ho catturata, e con essa anche la
figlia del re!» Così diviene a sua volta re, ma nei suoi sogni rimane un piccolo sarto, e nel sonno
dice: «Io ho catturato... un unicorno e una cinghialessa...»
Nell’immagine del piccolo sarto coraggioso è rappresentato il maschile, l’identità o la non-anco-
ra-identità maschile, che si tiene a galla con fantasie di onnipotenza. L’uomo della fiaba lo fa in
maniera assai abile. Pieno di astuzia, supera le prove che lo attendono, ma purtroppo senza mai
compiere un reale sviluppo. Barando, passa abilmente attraverso di esse e alla fine della fiaba,
senza aver vissuto alcun cambiamento spirituale, è ancora lo stesso piccolo sarto di prima anche
se ha conquistato la figlia del re. Questo “uomo-sogno” è un “eterno fanciullo”, che con tanti truc-
chi e tanto fascino passa sì attraverso la vita, ma senza diventare adulto. Interiormente non diven-
ta un “re” che possa rappresentare consapevolezza ed autenticità.
Nel corso della sua affascinante non-evoluzione, il piccolo sarto coraggioso incontra la figlia del
re, vale a dire il potenziale energetico delle sue parti femminili interiori, che egli deve “sposare” per
diventare intero anche interiormente. Il re, vale a dire la coscienza dominante dell’lo che costitui-
sce nella psiche il campo energetico del maschile, gli impone di superare tre prove per poter di-
ventare davvero un figlio di re, vale a dire un essere veramente adulto. Ma anche quando assolve
questi tre compiti, il suo agire consiste sempre nel tirarsi abilmente indietro.
Per prima cosa il piccolo sarto battagliero deve sconfiggere due giganti. Ci riesce facendoli infu-
riare l’uno contro l’altro, finché si ammazzano da soli. Il piccolo sarto coraggioso è un puer aeter-
nus, un “eterno fanciullo”, che non si confronta mai veramente coi suoi conflitti, ma li lascia risol-
vere agli altri. Questo accade anche alle donne, quando alcune, per via delle loro idee di grandez-
za, non tollerano che altre abbiano fra loro grandi amicizie (“gigantesche” amicizie). Allora sono
capaci di intrigare e di intromettersi fino al punto che l’amicizia si rompe: hanno ottenuto, senza
doversi sporcare loro le mani, che i giganti “ammazzino” da soli la loro relazione. Una persona che
soffre di turbe narcisistiche è incapace di gioire della felicità e delle opere degli altri: deve distrug-
gere quello di cui non è partecipe.
Il secondo compito è assolto quando l’eroe cattura un unicorno selvatico che col suo corno ap-
puntito continua a fare «gran danno fra il bestiame e la gente». Gli animali sono campi energetici
che provengono dalle profondità dell’anima e rappresentano aspetti parziali dei nostri impulsi e dei
nostri istinti. Nel simbolo dell’unicorno non è difficile riconoscere il comportamento aggressivo, im-
pulsivo, fallico del maschile. Cannoni e missili assumono in tutto il mondo il ruolo di questo corno e
provocano realmente molti danni fra gli uomini e nella creazione.
Nelle fantasie di grandezza di un piccolo sarto coraggioso i non-uomini sono diventati “violenti
guerrieri” che alle loro “guerre sante” chiedono insaziabili fama e applausi. Essi hanno bisogno di
azioni eroiche e distruttive, che diano continuamente nuovo impulso alle loro fantasie di grandez-
za. Non si rendono conto, nel loro smisurato desiderio di potere, di quanto distruggano la vita stes-
sa. Questi violenti eroi della guerra che, come il piccolo sarto coraggioso, non sono mai diventati
uomini adulti, li ritroviamo in grandi personaggi storici come l’imperatore Costantino, Napoleone,
Federico II e Hitler, spinti da una sete insaziabile a estendere sempre di più i confini dei loro impe-
ri, incuranti di quante vite umane vadano perdute. Il patriarcato guerriero degli eroi, nello stile del
grandioso piccolo sarto, è sempre un “pueriarcato”, l’egemonia infantile di uomini non diventati
adulti.

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V.E. Pilgrim chiama questi non-uomini «horrorbabies»1: uomini che, non essendosi potuti identi-
ficare col maschile a causa della continua assenza dei padri, dovuta alla guerra o al lavoro, e non
essendosi perciò potuti liberare dalla dipendenza dal materno, sono solo capaci di odiare e di di-
struggere tutto quanto è femminile. Con la sua aggressività il non-uomo fa cozzare il suo corno
contro l’albero, affondandovelo fin quasi a trapassarlo «da parte a parte». Ma l’albero è da sempre
la sede delle dee.
Con questi figli le madri hanno compensato il marito assente, il solo che potesse dare loro uno
status sociale, e in tal modo li hanno legati a sé. Le madri hanno dovuto servire i figli come la don-
na della marmellata ha dovuto servire il piccolo sarto della fiaba. Ma dai figli non hanno ricevuto
alcuna ricompensa. Anche se il non-uomo non è un “figlio di mamma”, ma piuttosto è nel profondo
un “figlio senza padre”, il suo odio per le donne e per la vita deriva dal legame non risolto con la
madre. Sia nell’uomo affetto da turbe narcisistiche sia in una cultura puerocratica e narcisistica
formata da non-uomini, l’odio-amore s’indirizza con tutta la sua aggressività e la sua cieca violen-
za contro la vita stessa. Donne, alberi, fiumi, animali e aria vengono violentati. Una mosca am-
mazzata non basta, devono essere sette, altrimenti la fama che ne deriva non è sufficientemente
grande. Quanto più elevato è il numero di uomini che possono essere ammazzati «in un colpo»
solo con una bomba atomica, tanto più grande è la fama guerriera che ne deriva nella storia.
L’insensata violenza assassina non nasce dall’uomo adulto, ma esplode nell’ “eterno fanciullo”,
come il piccolo sarto, che non è coraggioso ma supera la sua piccolezza con fantasie di onnipo-
tenza. La sua distruttività è subdola e grandiosa, la sua avidità di possesso è insaziabile e la sua
aggressività totale. Ma quanto più insostenibile diventa l’ideologia di una superiorità maschile, tan-
to più forte si afferma la pretesa di dominio, nella fantasia oppure in atti di rude violenza. Nella fia-
ba, l’animale cieco di rabbia, come cieca è l’aggressione inconsulta, cozza col suo corno contro
l’albero e lo attraversa «da parte a parte».
Anche il simbolismo sessuale va preso in considerazione. Nella fiaba sembra che gli istinti ag-
gressivi maschili vengano eliminati violentando il femminile. C’è una psico-teoria secondo la quale
una vita sessuale soddisfatta renderebbe più pacifici e tolleranti. Ciò può essere vero dal punto di
vista maschile; ma non si pensa a spese di chi la vita sessuale maschile viene soddisfatta? Il tipo
di sublimazione patriarcale delle pulsioni non è né pacifico né tollerante né creatore di civiltà; que-
sto tipo di soddisfazione degli istinti è violenza contro le donne. Nella Repubblica Federale Tede-
sca viene violentata una donna ogni cinque minuti; vengono denunciati circa 7000 casi di violenza
l’anno: ma la cifra reale degli stupri è assai superiore, tanto più che le violenze subite dalle donne
nel letto coniugale vengono dichiarate prive di rilevanza giuridica. Nel 1974 vennero condannati
solo 729 autori di violenze sessuali2. Nella nostra cultura nessuno si vergogna di questa aggressi-
vità maschile che giunge fino allo stupro. La paura che le donne hanno degli uomini ha una solida
base nella discriminazione e nella minaccia sessuale a cui esse sono continuamente esposte.
«L’odio che per le donne provano gli uomini, che pur continuando a disporre della maggior parte
del potere e delle ricchezze nella nostra società si sentono tuttavia minacciati, intimiditi, castrati, è
profondamente irrazionale.»3
Ma chi detiene il potere e dispone del denaro stabilisce anche quale tipo di aggressività sia
consentita contro la donna. Gli uomini si sentono perfino lusingati dalla propria immagine di sel-
vaggia aggressività e di istintualità mascolina. La potenza dello stupro è un sogno antico millenni. I
miti brulicano di tori possenti, di stalloni focosi, leoni ruggenti e verri irsuti. Innumerevoli miti narra-
no di dee violentate da dèi; violenza probabilmente subita dalle donne reali nell’epoca di transizio-
ne dal matriarcato al patriarcato, che è quella descritta appunto da tali miti.
Esempi di istintualità femminile corrispondenti e paragonabili a quelli descritti non se ne trovano
quasi. Nella sua doppiezza, la nostra cultura proclama per le donne l’asessualità. Il sesso istintua-
le è sporco. Ma quanto più le donne vengono spinte verso l’asessualità, tanto più sporco diventa il
modo in cui il sesso istintuale viene rappresentato nella pornografia maschile. I modelli delle reli-
gioni ufficiali sono completamente privi di riferimenti alla sessualità femminile. Come Maria, la don-
na dev’essere pura, ascetica, vergine e nemica del corpo. Perfino la nascita di Gesù deve avveni-
re senza ledere l’imene, cosa totalmente priva di senso dal punto di vita biologico. Separate dai
processi più naturali, le posizioni teologiche non sono altro che astratte professioni di fede. La ses-

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sualità istintuale così scissa trova la sua proiezione nel diavolo, e contemporaneamente la ses-
sualità femminile viene identificata col male. La domanda che veniva posta di preferenza negli in-
terrogatori delle streghe era rivolta ad accertare quante volte la donna avesse commesso atti im-
morali col diavolo. Coraggio, forza, istintualità, aggressività e sessualità rimanevano privilegi quasi
esclusivamente maschili; ugualmente la definizione di che cosa è bene e che cosa è peccato par-
te dal soddisfacimento dei bisogni dell’uomo.
Questo è del tutto illogico, perché sia nell’uomo sia nella donna gli istinti fanno parte della natu-
ra umana. Ciò nonostante la donna capace di provare piacere e di vivere una sessualità autono-
ma e attiva appare ridotta, nelle canzoni, nella letteratura e nell’arte, a cosa graziosa e kitsch, tra-
sfigurata e svilita in una sorta di sentimentalume rosa. La donna è “cerbiatta, rosellina, tenera fan-
ciulla ed essere diletto” o come si dice oggi, “baby, pupa, piccola, tesorino”, Queste dolci eroine
non hanno vita pulsionale ma solo nostalgia di una spalla forte. Non conoscono autonome richie-
ste sessuali. Si ridestano i sogni maschili della bionda sciocchina: piccola, senza volontà, arren-
devole e docile, cosciente dei suoi doveri coniugali, così come di quello di fare figli e di cucinare.
Quando una donna si libera dal complesso nevrotico del principe azzurro e s’incammina sulla
strada della trasformazione che la condurrà a formarsi una sua volontà e delle idee proprie riguar-
do alla soddisfazione sessuale, allora va in pezzi la soave immagine dell’essere bisognoso di pro-
tezione, teneramente amabile, passivamente femminile, che poi è soltanto la proiezione in forma
degenerata e proprio per questo innocua dei desideri dell’Anima maschile. Quando si manifesta il
conflitto, la carriera di “diletta” è finita: rimane solo la “strega” o la “dragonessa”.
Con grande spavento dell’uomo, l’amabile cerbiatta è diventata cinghialessa fremente dalle fau-
ci schiumanti. All’aggressività e all’autonomia femminili gli uomini reagiscono con paura, e finisco-
no automaticamente o per assumere una posizione di difesa o per farsi prendere dal panico, che li
fa agire con cieca rabbia. Anch’essi fuggono come i cacciatori della fiaba, che non osano fare più
neanche il tentativo di sostenere l’incontro col cinghiale anche se si tratta di un’avventura da tem-
po desiderata.
Oppure fuggono dalla cappella come il piccolo sarto coraggioso. «La società maschile brulica di
uomini che hanno tagliato la corda e di donne che aspettano.»4 Individui che nel pueriarcato non
sono potuti diventare uomini, ma che nondimeno continuano ad alimentare dentro di sé il mito del-
l’eroe maschile, devono per forza fuggire davanti alle donne. Il conflitto interiore fra la non-virilità,
la virilità richiesta dalla società patriarcale e la virilità eroica sviluppata nella propria fantasia è
semplicemente troppo grande. Donne forti, sessualmente autonome, provocano nel non-uomo ve-
re e proprie reazioni di panico.
La cinghialessa è sicuramente un simbolo della natura selvaggia e forte, dell’invincibilità, della
sessualità animalesca e piena di desiderio della donna. Si contraddistingue per le «fauci schiu-
manti» e per la forza incoercibile grazie alla quale getta a terra chiunque la voglia uccidere. Nes-
sun uomo è in grado di sostenere l’assalto di una cinghialessa, dice la fiaba, perché essa non è né
vezzosa né amabile, né mansueta né arrendevole, e davvero non è facile da governare.
La scrofa selvaggia e schiumante scatena forti paure irrazionali, che affondano le radici in anti-
chissime esperienze dell’epoca a egemonia matriarcale: è per questo che gli uomini reagiscono
alla superiorità femminile con straordinaria suscettibilità e perfidia, con un misto di aggressività e
di disprezzo. “Emancipata” e, recentemente, “femminista” sono gli epiteti preferiti. Gli uomini com-
pensano il loro senso d’inferiorità e difendono il loro predominio degradando il femminile perfino
nella legislazione. E contemporaneamente sopravvalutano la propria aggressività e la propria vio-
lenta sessualità.
L’innata supremazia della cinghialessa sul verro si manifesta chiaramente nel comportamento
reale dell’animale. La cinghialessa forma insieme con i suoi piccoli il gruppo familiare, come ai
tempi del matriarcato faceva la donna coi suoi figli. Fuori dell’epoca dell’accoppiamento, il verro è
un solitario, privo d’importanza per il gruppo5. Da queste forme di convivenza degli animali si for-
mò nella remota antichità la struttura sociale del matriarcato. Se le cose stanno così, allora le don-
ne dispongono nella loro interiorità di modelli energetici matriarcali di predominio, di forza e di in-
vincibilità che sono stati deformati solo da 3000 anni di diseducazione patriarcale. Questa profon-
da estraniazione è stata talmente interiorizzata che noi donne non percepiamo più queste qualità

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e, invece di essere forti noi stesse, ci struggiamo nell’attesa di un “principe azzurro”.
Ma la forza è soltanto una parte dei potenti istinti della cinghialessa; un’altra parte è rappresen-
tata dalle «fauci schiumanti», e per il piccolo sarto, il non-uomo, questo aspetto è altrettanto mi-
naccioso. La schiuma delle sue fauci è color rosso-sangue, come la lingua che ne penzola fuori.
Quando lavoriamo sui sogni scopriamo spesso che i conflitti sessuali vengono spostati dalla
zona genitale a quella orale, perché il censore interiore soltanto in questo modo lascia emergere
oltre la soglia della coscienza un tema così fortemente tabuizzato. Viceversa, il simbolismo della
bocca viene trasposto nella zona della vulva6 e produce il concetto simbolico della “vulva dentata”
[in italiano nel testo, Ndt]. L’organo sessuale femminile provvisto di denti indica la paura di castra-
zione che gli uomini provano di fronte a una vulva che potrebbe mordere. Ma qui non fa altro che
ripetersi, solo a un diverso livello energetico, il codice biopsichico del seme, inghiottito e “castrato”
dall’uovo.
Nelle «fauci schiumanti» della cinghialessa è rappresentata la vulva, immagine della massima
potenza sessuale femminile. La sua attività sessuale istintuale e la sua altrettanto istintuale ag-
gressività, il piacere orgiastico e la soddisfazione orgasmica mal si conciliano con l’immagine della
“diletta”. La cinghialessa schiumante incute troppo terrore ed è difficilmente accettabile, non solo
per gli uomini ma anche per le donne. Perciò viene scacciata nel bosco, e lì dimora nell’ "incon-
scio”, dove continua ad infuriare provocando devastazione e malattia.
L’incapacità di confrontarsi adeguatamente con questi primordiali aspetti vitali produsse orribili
eccessi, come i roghi su cui arsero le donne accusate proprio di licenziosità sessuale e di orge
selvagge. Il clero proiettò l’immagine distruttiva e pervertita della cinghialessa contenuta nella pro-
pria Anima uccidendo, insieme con le donne, anche le parti femminili della propria interiorità. Ma-
ria, la donna senza macchia, oggetto di profonda venerazione, corrispondeva invece nella sua ca-
stità all’altra immagine interiore dell’Anima, quella della “diletta”, amabile, dolce, asessuale; imma-
gine tuttavia assolutamente non sviluppata. Poiché anche le donne avevano interiorizzato questo
ideale di Maria, esse furono così deboli e indifese di fronte all’Inquisizione maschile. La loro incon-
scia tendenza al sacrificio è quasi un tradimento della forza originaria femminile, quasi una perdita
completa del campo energetico interiore della dea onnipotente. Ma non occorre neanche un gran-
de sforzo per vedere nella secolare attività dell’Inquisizione un atto di criminale compensazione
delle paure di inferiorità maschili.
La fiaba offre dunque un tentativo di soluzione che è quello elaborato dall’umanità all’inizio della
patriarcalizzazione, per mettere sotto controllo la scrofa selvatica. Poiché il figlio senza padre, in
quanto individuo singolo, non ha mai imparato a prendere le distanze dalle forze originarie femmi-
nili e a venirne a capo, allora rinchiude le donne, che lo minacciano con la loro forza naturale, in
un’istituzione antica millenni, con le sue regole e le sue norme ben sperimentate. Il minaccioso
animale finisce in una cappella. Le autonome qualità femminili vengono rinchiuse nella prigione
delle norme ecclesiastiche “volute da Dio”, nonché in quella prigione che è il matrimonio: relazione
a due regolamentata dalla Chiesa. Le leggi di natura matriarcali decadono, e al loro posto suben-
trano leggi morali patriarcali, che provvedono a degradare la donna a “secondo sesso”. Perciò il
non-uomo, attraverso la finestra, scappa dalla cappella, incapace di vivere fra norme che egli
stesso ha creato a sostegno delle sue fantasie di onnipotenza.
In queste istituzioni la scrofa selvatica viene sottoposta a una profonda opera di educazione
che tocca tutti i suoi campi energetici, simile, più che altro, a un’opera di punizione e di addome-
sticamento. La cinghialessa viene trasformata in un maialino di marzapane roseo e liscio, in una
scrofa degenerata, malaticcia, tirata su con ormoni, destinata soltanto a partorire tanti piccoli ma-
ialini e a nutrirli amorevolmente alle sue mammelle, mentre l’uomo, che ha ordinato questo isola-
mento sociale, se ne scappa dalla cappella, come il coraggioso, e pure sinceramente vigliacco,
piccolo sarto.
L’uomo-dio ed i suoi figli terreni, che devono regolare la propria vita sessuale proprio come so-
no costrette a fare le buone madri di famiglia, limitarono (per vendetta?) la potenza aggressiva e la
vitalità sessuale delle donne a tal punto che ormai quasi nessuna di esse è in grado di sentire
com’è la propria cinghialessa interiore, quali forti possibilità espressive e quali bisogni essa abbia,
quanto possa essere forte, potente, invincibile e indicibilmente selvaggia, avida e indomita. Il pro-

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blema della cinghialessa sembra essere stato risolto, a un livello sociale superficiale, sradicando
la donna dai suoi campi energetici e imprigionandola in norme morali. In realtà esso non è affatto
risolto, né per la singola donna nel matrimonio né per la società e la civiltà. «Il non-uomo e la non-
donna sono quanto di più pericoloso possa produrre la società maschile.»7
Più viene imprigionata, “chiusa in una cappella”, la dinamica di questi impulsi vitali femminili, e
più tremenda sarà l’irruzione dai boschi dell’ "inconscio” di queste scrofe selvatiche, che con furia
distruttiva penetreranno nella sfera della civiltà, come già riferisce il Salmo 80, a proposito della
vigna devastata: «L’hanno messa sottosopra le scrofe selvatiche».
Ma non sono le scrofe selvatiche, bensì le forze represse dal patriarcato che devastano la civil-
tà. Nessun popolo civile si può permettere impunemente di disprezzare per troppo tempo queste
enormi energie, che sono le vere forze creatrici della civiltà, senza dover pagare un caro prezzo:
queste energie, infatti, ritornando per via indiretta come tutto ciò che viene rimosso, irrompono nel-
la cultura con una carica negativa.
Io credo che oggi, nel dilagare della pornografia e della criminalità da cui siamo afflitti, si stia
manifestando proprio un disfacimento della civiltà. È ipotizzabile che un disfacimento simile si veri-
fichi anche nel nostro corpo quando, nei malati di cancro, l’informazione cellulare viene distrutta
così radicalmente che la materia violentata colpisce, violentando e distruggendo a sua volta, il
corpo che le ha fatto violenza.
“Rinchiudere la cinghialessa nella cappella” ha un prezzo troppo alto, non solo per le donne ma
anche direttamente per gli uomini. Nessuna madre socialmente oppressa e psicologicamente svili-
ta farà mai diventare uomo il proprio figlio. Cresciuto in mezzo a donnette degradate dagli uomini,
ogni figlio diventerà un non-uomo che deve coprire la sua mancanza di virilità con “atti di eroismo”
che distruggono la vita. Egli manderà sui campi di battaglia i suoi figli. E così anche la generazio-
ne successiva non avrà padri. Degradando le donne, il non-uomo distrugge la propria visione di
autentica virilità. Il non-uomo si sente troppo ferito se non è il primo e il più grande, e costringe chi
lo circonda ad applaudirlo perché ha continuamente bisogno di conferme alla sua unicità. Quando
una donna divenuta forte comincia a rifiutarsi di ammirarlo, scoppia il putiferio. Ma l’eterno fanciul-
lo dovrà per forza imparare al più presto a riconoscere le doti delle donne e a gioire anch’egli della
scrofa selvatica che è in loro: altrimenti, nella sua sete insaziabile di fama e di ammirazione e nel
suo odio per il femminile, finirà con l’annientare tutto il globo terrestre. Purtroppo, col suo “super-
fallo tecnico”, la bomba atomica, dispone di un “corno appuntito” con cui può trapassare la terra
«da parte a parte». Poterne ammazzare milioni «in un colpo»: ecco la fantasia prodotta dalle ma-
nie di grandezza di un non-uomo.

Il ruolo della donna nella cultura patriarcale


Adesso voglio mostrare in termini psicologici quale complessa alienazione si sia compiuta nella
psiche femminile e in che modo le donne possano ritrovare e sviluppare in se stesse autentici
aspetti maschili.
Secondo la concezione patriarcale, una donna “normale” non possiede una sessualità indipen-
dente dall’uomo. Perfino giuridicamente viene negata alle donne una propria sessualità: le donne
lesbiche non possono essere punite per una relazione omosessuale proprio perché non possede-
rebbero una sessualità propria e quindi tale da danneggiare altre donne8. La società concede alla
donna come unico sensato progetto di vita la relazione eterosessuale, e Freud ha ulteriormente
alimentato questa tradizione di repressione della sessualità femminile.
Il tentativo freudiano di definire la femminilità parte dall’approccio concettuale “biologico” dell’
"invidia del pene”, quindi da una definizione della femminilità tramite un “valore” maschile, e dal-
l’affermazione che la donna sarebbe un “essere imperfetto”. L’invidia del pene” diventa la “colonna
portante della femminilità”. Lo sviluppo femminile è possibile e sano soltanto quando la ragazza
abbia vissuto e accettato la propria “castrazione”. Che totale capovolgimento del campo energeti-
co uovo-seme!
Una donna deve interiorizzare la sua “mancanza del fallo”. La teoria psicoanalitica è più impor-
tante della percezione della realtà, e la realtà è che la donna non ha nessuna “mancanza”. L’invi-
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dia del pene” e la teoria che il desiderio di figli sia un surrogato dell’organo maschile, l’idea che “la
vera, matura sessualità femminile” consista nell’orgasmo vaginale, tutte queste concezioni sono
meccanismi di difesa patriarcali. La definizione della donna attraverso lo status symbol del fallo
non è altro che disprezzo della donna ammantato di scientificità, e sembra ormai che tale defini-
zione sia «passata da uno stadio di provvisorietà ipotetica allo stato di teoria consolidata e accer-
tata»9.
Recenti ricerche hanno dimostrato chiaramente l’infondatezza della teoria embrionale secondo
la quale la clitoride sarebbe un membro maschile rattrappito. Si è scoperto infatti che nelle prime
settimane di vita l’embrione è senza dubbio geneticamente femminile nei suoi cromosomi XX. Sol-
tanto dopo settimane l’ormone maschile androgeno inizia a mascolinizzare l’embrione femminile10.
Poiché la clitoride non è un fallo degenerato, un tale mito non può reggere a un’impostazione
bioenergetica, che ne smaschera il carattere tendenzioso e difensivo. La cosiddetta “fase fallica”
della fanciulla è una mera fantasia di potere maschile che serve a mantenere in vita l’immagine di
una donna inferiore perché priva di fallo.
In realtà sono stati i valori patriarcali a programmare nella psiche della donna questa “invidia
del pene”, che è inferiorità della sessualità clitoridea, inculcata con l’educazione. Se è vero che
oggi le donne sentono manchevole la loro costituzione fisica e pertanto si sentono anche fisica-
mente castrate, nelle loro affezioni nevrotiche intuiscono proprio questa verità: che non sono esse-
ri biologicamente imperfetti, ma che la castrazione è stata operata sulla loro psiche, e consiste in
modelli educativi misogini. E questo a sua volta fa sì che la donna si senta come un essere fisica-
mente imperfetto. È un circolo vizioso della nostra cultura che genera malattia.
La cosiddetta “fase fallica” della ragazza esiste solo in teoria, in conseguenza della sopravvalu-
tazione maschile del fallo. Nello sviluppo biologico, la ragazza ha un’autonoma fase clitoridea. Il
campo energetico matriarcale dell’uovo-seme e la sua raffigurazione mitica nella dea eterna e nel
suo mortale re di un anno rendono completamente priva di senso l’invidia del pene. Perché l’
“eterno femminile” dovrebbe essere invidioso del “mortale maschile”? È vero piuttosto il contrario.
La paura della perdita del fallo domina l’uomo, non la donna.
Questi valori patriarcali, colmi di disprezzo per la donna e segnati dalla paura, determinano poli-
ticamente e culturalmente che cosa sia la femminilità. Le cosiddette caratteristiche femminili sono
prodotti dell’educazione impartita in una data società e dei suoi canoni di valori. L’educazione del-
la donna al principio unilaterale della dipendenza erotica, e quindi alle conseguenti deformazioni
nevrotiche, rappresenta una risposta storico-sociale al conflitto fondamentale del rapporto uomo-
donna.
Chi detiene il potere nella società determina le norme relative al femminile e stabilisce che cosa
dev’essere definito violenza e che cosa no. Perciò non è violenza stabilire quando la donna deve
essere materna e dolce e quando, fertile nutrice, deve mettere al mondo figli, quando e quali ruoli
deve assumere, quando si deve sacrificare al focolare, quando alla catena di montaggio e quando
al «dolce potere della famiglia»11. Non è violenza picchiare le donne e maltrattare i bambini. È raro
che venga condannato chi commette atti simili.
Il mito di Lilith, antico 3000 anni, agisce ancora, e ancora continua la lotta dell’uomo-Adamo per
stare “sopra” nell’atto sessuale e far “soggiacere” la donna. Ma evidentemente oggi Adamo ha bi-
sogno che altri esseri “soggiacciano” a lui, per sentire la propria superiorità. L’atto sessuale diven-
ta il simbolo della dimensione politica della forza maschile solo perché in esso la donna soggiace
all’uomo.
Oggi le donne si trovano di fronte al compito di trattare questo principe azzurro, che tanto as-
somiglia al piccolo sarto coraggioso, così come la principessa di cui narra la fiaba tratta il principe
ranocchio12: con tutte le forze che possiede ella scaglia contro la parete l’uomo-rana verde-imma-
turo che, nonostante la sua non-virilità, vuole andare a letto con lei. Attraverso questa aggressione
della donna il ranocchio si trasforma in un uomo gentile e sorridente. Gli psicologi minimizzano
questo necessario confronto aggressivo quando, per calmare le acque, sottolineano il senso dello
sviluppo, spirituale e politico, dal matriarcato al patriarcato. Questo sviluppo è stato naturalmente
significativo, e nessuna donna dotata di consapevolezza individuale vorrà reintrodurre il matriarca-
to: intende però riconquistare un’identità femminile autentica ed autonoma, che non venga definita

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attraverso il valore patriarcale del fallo. In parole povere, l’ "unione degli opposti”, l’unione del ma-
schile e del femminile che vogliono gli psicologi, oggi non è più possibile. Le donne, che hanno
sofferto troppo, non vogliono più unirsi con immaturi uomini-rana e, con l’aggressività necessaria,
li scaraventeranno contro la parete, vale a dire pretenderanno la trasformazione dei non-uomini in
uomini. Le stesse donne devono respingere a suon di fischi i tentativi dei politici e degli psicologi
di attenuare i loro aggressivi lanci di rane contro la parete.
Si dimentica anche che nell’evoluzione della coscienza patriarcale un significativo progresso è
segnato dalla nascita del dualismo etico di bene e male, da cui consegue il senso della responsa-
bilità dell’agire. Così adesso l’individuo sta nel mondo con la sua capacità di sapere che cosa è
bene e che cosa è male e deve rispondere personalmente del proprio comportamento. Di fatto è
l’individuo che uccide, e quindi il papa Innocenzo VIII deve rispondere della sua bolla contro le
streghe, perché era in grado di sapere che uccidere è male.
Non è dalla psiche, che si caratterizza piuttosto per la tendenza risanatrice a svilupparsi nella
totalità, che nasce la tendenza omicida che è costata la vita a circa otto milioni di donne nel Me-
dioevo, a sei milioni di ebrei durante il Terzo Reich e a undici-tredici milioni di russi nella seconda
guerra mondiale. Chi deve assumersi la completa responsabilità di questo, a livello pienamente
individuale, è l’Io, con il suo sapere, la sua etica e la sua capacità di riflettere su se stesso. Non
della psicogenesi dell’umanità, ma dei singoli individui del patriarcato è la responsabilità dei mas-
sacri di donne. L’ "oscuro Medioevo” non si può semplicemente scusare con l’assenza di coscien-
za. Se si nega la consapevolezza di questa responsabilità, allora si nega, psichicamente e politi-
camente, la specifica qualità di questo stadio di coscienza. E questa soluzione corrisponde alla
fuga del piccolo sarto coraggioso dalla cappella.
Sul piano privato, lo scontro personale fra uomo e donna è necessario, ma io non so liberarmi
dal sospetto che tutto ciò sia un trucco degno del piccolo sarto, quando i conflitti socialmente con-
dizionati vengono troppo e troppo unilateralmente spostati nel privato. Lo scontro delle donne con
le istituzioni dominate dai maschi richiederà ancora forze e molto più aggressive. Il paternalismo
personale, per esempio quello di un imprenditore, si è spostato sul paternalismo istituzionale, del-
l’impresa o addirittura di interi gruppi di imprese. Così anche la violenza individuale esercitata dal
non-uomo sulla donna è divenuta violenza strutturale del non-uomo istituzionalizzato. I gruppi di
imprese, oggi spesso giganteschi, sono sovente insaziabili, nel loro bisogno di sempre maggiore
potere, quanto il piccolo sarto coraggioso. Le istituzioni paternalistiche come la Chiesa hanno
condotto all’ "imprigionamento nella cappella della cinghialessa-donna”. Ed è fuori di dubbio che in
questo scontro si debbano ancora dispiegare il vigore e la forza, la capacità di prendere le distan-
ze e la necessaria aggressività delle donne.
Per dirla in termini psicologici e nel linguaggio delle fiabe, è necessario lo scontro col “vecchio
re malato”. Egli deve o morire o abdicare, perché un nuovo principe, un vero uomo, renda possibi-
le una nuova prosperità del paese; il che significa anche che nelle istituzioni si devono sviluppare
nuove, sane strutture maschili (forse anche femminili). Che in questo processo di trasformazione
debba esserci l’apporto di talenti specificamente femminili mi sembra inevitabile, perché «lo spre-
co del talento femminile è una perdita pesante che colpisce tutto il paese»13. Nel senso del campo
energetico uovo-seme, il seme maschile non può risparmiarsi sforzi nel raggiungere veramente lo
scopo della fecondazione, cioè realizzare il contatto creativo col potenziale femminile. Questo se-
me fecondatore è l’immagine originaria dell’uomo adulto, virile, cosciente della propria individuali-
tà, che è davvero pronto anche a dissolversi nel femminile ed è capace di rinunciare alle sue pre-
tese di potenza, sia politiche sia spirituali, in nome di un processo creativo più grande.

L’interiorizzazione del ruolo patriarcale della donna


Da un punto di vista intrapsichico devo coerentemente distinguere due livelli energetici, che non
si possono unire o confondere fra di loro. Facendo questo parlo sempre soltanto della psiche fem-
minile. Il suo livello superiore, storicamente successivo, è quello delle strutture patriarcali interio-
rizzate. Il livello energetico sottostante è invece quello storicamente precedente. Esso corrisponde
al campo energetico matriarcale e contiene i simboli che risalgono ai tempi del pieno potere fem-
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minile. È molto importante imparare a tenere separati questi livelli psichici. Può servire a chiarirlo
l’esempio della dea Era. Nell’attuale livello psichico patriarcale essa appare, in conformità coi miti
olimpici maschili, come una “dea” che era solo un’appendice del dio Zeus e poi degenerò nella
sua litigiosa consorte. In epoca matriarcale, invece, questa stessa dea era un aspetto del potente
campo energetico della dea cosmica triforme. Questo potere originario è ancora presente al livello
psichico matriarcale.
Come la dea si è trasformata in moglie, così l’essere femminile si è trasformato in ruolo femmi-
nile. Il ruolo femminile fa parte del livello psichico patriarcale, l’essere femminile si ritrova al livello
psichico matriarcale.
La dea onnipotente è anche, sul piano intrapsichico, una "autentica immagine primordiale” del-
l’identità femminile, non ancora deformata dal patriarcato. Sul piano psichico patriarcale Era-mo-
glie è diventata un “archetipo misogino a posteriori”, una falsa immagine. A livello psicologico di-
venta chiara la dinamica della svalutazione del femminile che avviene nel passaggio da uno all’al-
tro livello energetico. Oggi il livello energetico matriarcale è quasi completamente bloccato e total-
mente scisso, mentre il livello energetico patriarcale è quasi sempre attivo politicamente. Sia nel-
l’interpretazione dei sogni sia in quella delle fiabe sarà indispensabile distinguere coerentemente
questo livello energetico matriarcale, se il processo terapeutico dev’essere veramente commisura-
to alla donna. Anche in fase di terapia una donna non può essere inchiodata a un ruolo patriarca-
le, che viene identificato con la “salute”, ma che in realtà significa soltanto adattamento e oppres-
sione.
Al livello psichico patriarcale si tratta della domanda sul perché e sul come la donna si sia fatta
rinchiudere insieme con la sua cinghialessa nella cappella, invece di fuggirne con la sua indocilità
e la sua forza; come si sia sistemata nella sua prigione e come abbia potuto diventare complice
essa stessa della propria degenerazione in maiale domestico. C’è una cosa che il femminismo
deve ancora riconoscere, affrontando il lavoro che ne consegue: che le donne, attraverso la debo-
lezza che si sono imposte da sole, sono state complici della svalutazione del femminile e delle
norme fissate dal patriarcato e che esse mantengono in piedi, con i propri bisogni d’inferiorità, il
circolo vizioso del “sesso debole”. Questa conoscenza di noi stesse è dolorosa, e noi donne ab-
biamo bisogno di un cuore molto coraggioso per guardare ardite e vulnerabili la nostra parte di
Ombra, senza fuggire prima di prenderne coscienza.
Anche l’uomo concreto è fuggito e ha delegato alle istanze interiori della donna stessa il lavoro
di svalutazione, che egli ha poi consolidato a livello sia personale sia politico. In questo ora la don-
na è l’ "attiva”, l’uomo è “esente da colpa”. Con ciò il piccolo sarto coraggioso «ha guadagnato più
di trenta punti».
Oggetto di minore considerazione generale, la ragazza non conosce come il giovane l’unanime
ammirazione dei genitori, che è indispensabile per la formazione di uno stabile senso di autostima.
Perciò la donna incorre nel pericolo di dover lottare per ottenere amore e riconoscimento. La per-
dita dell’autostima e la “coscienza”, sempre presente a livello latente, della propria inferiorità fisica
sono i pilastri della cappella-prigione destinata a questo sesso. Il desiderio struggente e insaziabi-
le di essere amate e di avere valore produce vari livelli di dipendenza. Inoltre, poiché le giovani
donne, a differenza dei giovani uomini, non imparano a liberarsi da queste dipendenze reagendo
aggressivamente ad esse, e al contrario cercano di conquistarsi l’amore mostrandosi “brave”, indi-
rizzano necessariamente l’aggressività proibita verso l’interno, dove essa si trasforma in aggressi-
vità sotterranea, in recriminazioni e in giochi di potere, oppure in sacrifici masochistici.
La dipendenza della donna genera in lei odio verso coloro dai quali dipende. Non avendo potu-
to imparare a dare una forma alla propria aggressività, la donna cerca di allontanare questo odio
attraverso malattie e comportamenti masochistici. Secondo la psicologia freudiana, il “destino pul-
sionale femminile” sembra essere quello di dover vivere uno spiccato masochismo, ma in realtà
questo comportamento relazionale è una richiesta sociale che viene inculcata con l’educazione. Il
masochismo della donna e il suo obbligato comportamento erotico di dipendenza sono le risposte
a fenomeni pedagogico-politici.
Non fa una differenza sostanziale se per “principe” si intende l’uomo reale oppure il ruolo del-
l’uomo che si è interiorizzato, e che viene ininterrottamente proiettato sull’uomo reale. Il desiderio

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profondissimo, inculcato nella donna fin da ragazza, di essere “salvata” dalla paura, dalla solitudi-
ne, dall’isolamento e dai sensi di colpa, è il corrispettivo del suo desiderio struggente di dipenden-
za, di sicurezza e di comodità. È esso che paralizza tutti gli sforzi della donna per diventare vera-
mente una personalità autonoma e liberarsi dalla definizione della propria femminilità attraverso il
maschile. È questa la forza più potente che, agìta dalle donne stesse, ne segna l’oppressione.
Di madre in figlia viene trasmesso un gran numero di questi modelli di dipendenza e di questi
“tratti del carattere”. Le donne hanno paura di sopportare frustrazioni e di commettere errori, la
qual cosa è invece inevitabile in un processo di sviluppo. Nel conflitto cronico fra dipendenza volu-
ta e libertà non appresa, le donne si sentono tirate da tutte le parti, incapaci di decidere e incapaci
di perdere; allora logorano le loro forze in questa prova lacerante e snervante, pagando spesso
con emicranie e dolori di schiena, perché non possono percepire i propri bisogni e quindi trasfor-
marli. Non di rado le donne si rifiutano anche di prendere coscienza dei propri sentimenti, per non
doverne trarre delle conseguenze. Poi, di questa sofferenza che esse stesse si provocano o se ne
fanno un vezzo oppure danno la colpa agli uomini.
Ma pretendere tutte e due le cose, di essere accudite come bambini piccoli e di essere indipen-
denti come donne adulte, significa proprio essere insaziabili come il piccolo sarto coraggioso, che
vuole avere sempre di più. Questa avidità narcisistica, di un’aggressività smisurata, rivolta anche
contro la propria vita, assomiglia al tentativo di premere contemporaneamente il pedale del freno e
quello dell’acceleratore, cosa che mette fuori uso qualsiasi motore.
L’incapacità di sostenere il faticoso, duro lavoro necessario per trovare la propria identità, unita
alla sindrome maschile del soccorritore, che consiste nel distruggere l’autonomia della donna of-
frendo un aiuto eccessivo e prevaricatore, ha prodotto nel soggetto femminile una convinzione
quasi incrollabile della propria debolezza. Tutte le volte che si fa sentire il richiamo a un nuovo
passo nello sviluppo, le donne hanno la possibilità di rifugiarsi sotto le ali di un uomo e attraverso
molte sottili strategie di fuga si sistemano nella cappella, si dedicano ai doveri domestici o partori-
scono i famosi figli nati tardi. La condizione di sposa e di madre diventa un’infanzia che si protrae
fino alla fine della vita. Ma questo stato toglie ogni forza alla cinghialessa. Quando la libertà diven-
ta troppo faticosa, la “fanciullezza” o dipendenza infantile è così stupendamente comoda!
Il fondamento più stabile per un matrimonio-dipendenza lungo tutta la vita non è il cosiddetto
amore ma la paura della solitudine. La nostra è diventata una società narcisistica, in cui dobbiamo
essere continuamente alla ricerca della felicità. Ma perché? Nessuno ci ha promesso una vita faci-
le e felice. La strada che conduce all’autonomia e all’indipendenza, veramente faticosa con tutte le
sue sfide, può dare una profonda “felicità”. Non c’è colpa più grande di fronte a se stessi che quel-
la di non aver vissuto se stessi. L’obiettivo da raggiungere non è la donna-serva efficiente, servi-
zievole, che si sa adattare, bensì la donna che sa trovare se stessa diventando più libera ed
emancipata, la donna che sa amare senza essere dipendente e senza rendere l’altro tale. È la
donna che ha superato la paura della solitudine e che perciò è diventata capace di amore vero. Il
mito dell’uomo forte e della sicurezza che si acquista attraverso di lui si nutre della paura della so-
litudine, della passività, della dipendenza erotica e della mancanza di autostima della donna. Il
prezzo da pagare per conseguire una sana autonomia è alto: rinuncia alla dipendenza in primo
luogo e quindi capacità di accettare perdite elementari, di rinunciare all’amata debolezza e di as-
sumersi la responsabilità della propria vita. Per dirla nel linguaggio delle fiabe, le donne devono
trovare dentro di sé il proprio principe salvatore, senza aspettarsi la felicità della vita dal marito, da
Dio, dal prete, dal vicino o da altri uomini.
Se la donna fosse davvero integra e lasciasse vivere la sua cinghialessa, forte, aggressiva, au-
tonoma e sessualmente vitale, allora avrebbe una grande capacità d’imporsi e l’invulnerabilità ne-
cessaria per confrontarsi anche con le conseguenze reali del suo processo di crescita, in primo
luogo quella di non essere più ovunque benvoluta, di venire isolata, insultata e combattuta, e di
crescere in questo. Allora non sarebbe più una “diletta”, ma una vera cinghialessa.
Le donne intuiscono dentro di sé questa totalità, ma temono la responsabilità che deriva dall’in-
dipendenza e dalla libertà. Le donne che non sopportano la perdita dell’amore, e che perciò sono
costrette a rimanere dipendenti dalle relazioni, non possono sviluppare le forze necessarie per
nessun tipo di successo. Per paura di questi conflitti, preferiscono vivere al di sotto del loro livello

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intellettuale, hanno depressioni per mancanza di stimoli spirituali e soffrono di malinconia stri-
sciante, perché alla perdita dell’amore, che nonostante tutto si verifica, si accompagna sempre la
perdita della propria identità. Esse soffrono del loro dolore, ma non vogliono cambiare, perché es-
so a sua volta, attraverso la sindrome dell’abbandono, consente loro dipendenza e sicurezza. La
cinghialessa psichica e quella fisica rappresentano un unico campo energetico di autonomia e for-
za femminili originarie. Una donna che è paralizzata a livello psichico lo è anche nell’orgasmo.
Le attuali strutture di potere vivono di uomini che hanno bisogno di donne sottomesse. Ma que-
ste stesse strutture vivono anche grazie al fatto che le donne costruiscono da sole la propria sot-
tomissione e riconoscono la superiorità degli uomini. Per spezzare le vigenti strutture di dipenden-
za e metter fine al reale declino di competenza del femminile, noi donne dobbiamo prendere in
mano i nostri problemi e trovare da sole una soluzione. Né stato né Chiesa né psico-esperti ci de-
vono fornire a domicilio la soluzione dei nostri conflitti, perché sarebbe ancora una volta una pre-
tesa narcisistica quella di non dover sostenere oneri né spirituali né materiali. Se ci rendiamo con-
to di quanto noi donne siamo deformate dal complesso del principe azzurro, allora ci si dischiude
la possibilità veramente nuova di far nascere noi stesse il nostro principe salvatore, cioè di cercare
con la nostra ragione e la nostra intelligenza nuove soluzioni del conflitto e di convertirle in azioni
concrete.

L’essenza matriarcale della donna


Al livello psichico dei campi energetici matriarcali, il modello primordiale dell’uovo-seme si è svi-
luppato dando luogo alle mitiche figure interiori della dea e del suo re di un anno. L’uomo-eroe
presente nella psiche femminile si può intendere come una “qualità maschile” dello spirito. C.G.
Jung chiamava questo aspetto Animus, designando con questo termine le qualità maschili, e non
patriarcali, presenti nella psiche della donna. Se a livello intrapsichico il modello del campo ener-
getico dell’Animus è il seme biologico, allora le funzioni del seme e l’impulso creativo che esso
trasmette nella fecondazione dell’uovo si possono intendere come impulsi di creatività psichici.
La potenza creativa femminile costituita dall’uovo è un potenziale allo stato di quiete, che ha bi-
sogno dell’impulso energetico per diventare produttivo. L’Animus-seme è l’impulso-spirito che met-
te in moto il potenziale femminile, indirizzandolo verso la realizzazione creativa. I semi sono assai
numerosi, e gareggiano fra di loro per raggiungere il loro obiettivo e adempiere il loro compito di
fecondazione. Nella donna essi rappresentano impulsi spirituali contraddittori, che lottano per im-
porsi.
Un secondo aspetto essenziale dell’uomo interiore matriarcale è il momento della penetrazione
nell’uovo, in cui il seme perde la sua autonomia. La testa, la parte cioè che dà l’impulso spirituale,
viene separata dalla coda, la parte autonomamente dinamica, e viene completamente inglobata in
un tutto più grande. (la mente al servizio della pancia e non viceversa – Nota di Nico)
Voglio sottolineare che in questa descrizione del processo primordiale della vita e della psiche
non c’è alcuna svalutazione del seme a cui non si attribuisce affatto un valore minore. Seme e uo-
vo sono entrambi necessari nello stesso modo alla nuova realizzazione creativa. Senza il seme,
anche l’uovo muore senza aver dato frutti, esattamente come muore il seme che non raggiunge il
suo obiettivo. Entrambi hanno lo stesso valore, ma rispetto al processo che si verifica, e quindi alla
sua qualità psichica dinamica, ciascuno di essi segue un modello energetico proprio e diverso.
L’impulso-spirito che si afferma contro tutti gli altri impulsi dovrà essere inteso nella donna co-
me lo spirito finalizzato a un obiettivo, dotato di capacità d’imporsi, volontà di conquista, tenacia,
creatività, e di una forza tale da poter mettere in moto il nuovo superando ogni difficoltà. Una don-
na dotata di tale spirito matriarcale non si disperde in troppe idee ed astrazioni, ma trasforma le
sue idee in azioni, in attività concrete, e non trascura i piccoli ma necessari gesti della banale quo-
tidianità. Tipica di uno spirito-Animus sano è la sua attitudine a riferirsi sempre al concreto, perché
le sue idee creative si moltiplichino nella pratica e siano realmente utili. Il pensiero patriarcale in-
vece si perde troppo spesso in astrazioni, che molte volte possono affascinare ma significano po-
co per la quotidianità. Agire, decidere, concentrarsi, mettere a fuoco, iniziare e stimolare pazien-
temente e continuamente nuovi processi, non perdersi in idee ma verificarne l’utilità: tutte queste
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sono le capacità-seme maschili di una donna matriarcale.
Poiché il seme, per avere il suo effetto di fecondazione, si scioglie nell’uovo, più grande di lui, la
dinamica dello spirito matriarcale sembra essere la capacità di sacrificare la propria forza autono-
ma in vista di un processo creativo più ampio.
L’ultimo grande rappresentante di questa virilità a carattere matriarcale, pronta a sacrificarsi per
un processo più ampio, è Gesù di Nazareth. Gesù è la personificazione più piena, nell’Occidente
cristiano, dell’impulso-spirito matriarcale. È l’incarnazione umana dell’Animus ben differenziato
presente nella psiche della donna, l’immagine psichica maschile sana. Egli rappresenta una po-
tenza spirituale a carattere lunare, trasformatrice, diversa dallo spirito di tipo solare in cui la tradi-
zione cristiana ha trasformato Gesù, facendone il sol invictus, lo spirito invincibile, potente, domi-
nante. E non rappresenta neppure lo “spirito femminile” della RŪAH-Schekina-Sophia, bensì lo
spirito lunare maschile che è dentro la psiche femminile; è per così dire “l’uomo nella luna” che en-
tra totalmente in una cosa, come il seme entra nell’uovo. Lo spirito-Gesù matriarcale libera tutto
ciò che è prigioniero, mettendolo in condizione di operare e di dispiegarsi fruttuosamente.
Attraverso questi impulsi creativi del vero Animus, le donne acquisiscono forza, coraggio e vul-
nerabilità, un senso stabile di autostima che permette di reggere anche di fronte alle perdite più
dure e alle inevitabili rinunce. Imparano a non fare più ricorso alla propria miseria, a respingere la
propria tendenza a innamorarsi della debolezza, a sopportare meglio i sensi di colpa e a resistere
alle malattie. Con consapevolezza creativa, è possibile esaminare la legittimità di ogni senso di
colpa per capire se è fuori luogo o è fondato, e in ogni perdita affettiva si può ricercare la vera
struttura del conflitto che si cela dietro di essa.
L’attività-Animus orienta le energie interiori verso un obiettivo e rende piacevole il confronto con
molte possibilità spirituali, senza mai perdere di vista lo scopo: la totalità, l’autonomia e l’energia
vitale, capace di produrre, dal proprio grembo, il nuovo. Le donne vive nell’Animus osano abban-
donare l’innocente Paradiso dell’inconsapevolezza e della dipendenza, i genitori, l’uomo, e perfino
il Dio-uomo, rischiano di diventare adulte fuori dell’Eden e di dover lavorare la propria terra con fa-
tica, con lavoro e con impegno per far crescere e per gustare i frutti coltivati nella consapevolezza.
Per una donna dotata di spirito è possibile sostenere tutti i sacrifici necessari per raggiungere uno
sviluppo autonomo.
Le donne con la feconda forza del proprio spirito possono superare i ruoli femminili patriarcali
interiorizzati, e trovare un nuovo accesso alla profondità del loro essere originario. Lì in fondo, nel
più intimo livello psichico dei campi energetici matriarcali, troviamo il fondamento dell’autentica
femminilità anche per quanto riguarda le capacità spirituali delle donne. Nei campi energetici della
dea e del suo re di un anno sono racchiusi l’eterna identità femminile e lo spirito maschile fecon-
datore della donna. Con la profondità della psiche matriarcale e dei tempi matriarcali, con la ricon-
quista delle qualità psichiche e del sapere storico la vita femminile può iniziare un cammino di li-
bertà spirituale.
Poiché la vera libertà include sempre anche la libertà dell’altro, una donna dotata di spirito è
anche in grado di rinunciare all’affermazione dei propri bisogni quando la situazione lo richiede.
Per esempio, per amore della sua famiglia una donna può rinunciare al lavoro assumendosi con
adulta consapevolezza la responsabilità di questo sacrificio. Se riesce veramente e profondamen-
te a rammaricarsi di questa perdita, accede, proprio attraverso questa esperienza, a un autonomo
senso di autostima.
Una donna che lavora dovrà spesso dolersi per la rinuncia ad avere figli. Un sano spirito ma-
triarcale dà alla donna la forza di prendere le decisioni che la situazione richiede senza viverle
come sacrifici masochistici che poi possono avvelenare sia la famiglia sia l’ambiente di lavoro.
Questa capacità di totale dedizione a una situazione, perché è ben chiaro e presente il riferimento
a un contesto più ampio, è la forza dello spirito matriarcale presente nella psiche delle donne.
Questi veri sacrifici, come per esempio rinunciare consapevolmente a fare carriera all’interno della
gerarchia patriarcale, le danno un’identità propria. Se invece una donna è asservita al sistema pa-
triarcale e compie sacrifici masochistici per adattarsi a esso e per ottenerne dei riconoscimenti, al-
lora questo sacrificio può compromettere la sua identità femminile.
Questo inserirsi-di-nuovo in contesti più ampi non è subordinarsi all’interno di una struttura ge-

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rarchica, ma un mettersi al servizio di processi più fecondi. Se però questa forza di spirito serve
soltanto ad accrescere il proprio potere e viene agita soltanto per efficientismo, allora si trasforma
in “Animus negativo”.
Le donne che non vogliono diventare consapevoli ma vogliono continuare a dormire non rag-
giungono mai quell’energia psichica interiore che permette di vivere in pienezza di spirito. Spesso
vogliono solo teoricamente la propria autonomia ma in pratica fanno il possibile per doversi lette-
ralmente “ritirare dalla gara” nel bel mezzo del labirinto delle loro velleità, come il seme che non
raggiunge il suo obiettivo.
Corrono vuote immerse nell’attivismo, prese da un parossismo che esse stesse producono co-
me difesa, in continui tentativi di sfuggire coi cambiamenti esterni ai conflitti interiori, e non realiz-
zano niente di nuovo, perché in realtà non vogliono raggiungere veramente alcuno scopo. Si irrigi-
discono in idee superate ormai da tempo, in opinioni e norme fisse di comportamento, e nella loro
ostinazione si irrigidiscono perfino nel corpo: ed ecco che uno spirito non produttivo produce dolori
di schiena. Le donne che si impegnano solo intellettualmente rimangono esistenzialmente sterili,
estranee spettatrici, e muoiono di improduttività spirituale. Non sono capaci di fare, ma sfatte.
È infantile attendere, dormendo, di conseguire uno sviluppo totale senza dedicare a esso total-
mente la propria esistenza spirituale ed è infantile sperare di riceverlo “in dono” dagli uomini. Di-
sperdersi istericamente in cose di poco conto e sacrificarsi masochisticamente servono soltanto a
evitare questa autentica, totale dedizione.
Questa intensa dedizione alla vita stessa merita la grande parola di “amore”. Una donna risve-
gliata nello spirito-Animus, una donna liberata dalla “cappella” delle norme, è capace di amare. È
in grado di conservare l’amore per un essere umano e di persistere totalmente nell’amore, anche
senza riceverne in cambio, anzi è capace persino di rispondere all’odio con l’amore. Una donna
liberata ama con dedizione totale se stessa, gli altri, l’intero creato.
Io voglio risvegliare dentro di me questo spirito creativo e, grazie alla sua saggezza, voglio riu-
scire a capire com’è potuto accadere che nel corso della storia del patriarcato la cinghialessa ve-
nisse trasformata nel mite maiale domestico. Risvegliarsi significa guardare e sentire con esattez-
za. Voglio mettere in azione questo spirito orientato a un fine e intraprendere questa ricerca con
dedizione esistenziale. Voglio sacrificare anche il desiderio di essere una “cara, brava ragazza” e
sopportare di essere scomoda e di non rispondere alle aspettative altrui. Ma in compenso voglio
essere tenera e onesta, guardare e sentire con esattezza per avviare forse così qualcosa di nuo-
vo. Mi voglio lamentare quando è giustificato il lamento e mi voglio rattristare quando è appropria-
to il dolore; ma voglio dire quello che c’è da dire.

Nient’altro, dice lui, Chiamate


occorre. rabbiosa la rabbia
Chiamate e triste il dolore.
rotondo ciò che è tondo Nient’altro, dice lei,
e spigoloso ciò che è spigoloso. occorre.

NOTE
2. V.E. Pilgrim Muttersöhne, Düsseldorf, 1986, pag. 90.
3. “Stern”, aprile 1986, rapporto: Esecuzione della pena a Hameln.
4. C. Lasch Das Zeitalter des Narzissmus, Monaco, 1986, pag. 230 (trad. it. La cultura del narci-
sismo, Bompiani, Milano).
5. V.E. Pilgrim op. cit. pag. 208.
6. Meyer Enzyklopädie, sotto la voce Wildschwein, vol. 25.
7. Il vocabolo tedesco Muttermund, vulva, è composto da Mutter = madre e Mund = bocca. (Ndt)
8. V.E. Pilgrim op. cit. pag. 17.
9. “Lesben presse”, n. 1, 1975, pag. 3.
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10. M. Mitscherlich Die friedfertige Frau, Francoforte, 1985, pag. 8.
11. U. Krattiger Die perlmutterne Mömchin. Reise in eine weibliche Spiritualität, Stoccarda, 1983,
pag. 130.
12. M. Mitscherlich op. cit. pag. 8.
13. Il principe ranocchio o Enrico di ferro: fa parte della raccolta di Fiabe dei Grimm. (Ndr)
14. C. Dowling Der Cinderella Komplex, Francoforte, 1984, pag. 62 (trad. it. Il complesso di Cene-
rentola, Longanesi, Milano).

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La leggenda:
La maledizione
della scrofa cattiva

Il contesto storico
Presentando la fiaba del Piccolo sarto coraggioso ho messo in luce come la cinghialessa venne
rinchiusa nella cappella, cioè quali meccanismi psichici e politici hanno fatto sì che le donne ve-
nissero private della libertà. Dopo che per trecento anni le donne erano state massacrate in tutta
Europa, nel XIX secolo la donna esisteva ancora soltanto come “docile animale domestico”. Stori-
camente il XIX secolo è l’epoca in cui ebbe inizio lo sfruttamento del lavoro femminile e minorile.
La donna era diventata oggetto. Il filosofo Arthur Schopenhauer sostiene questa tesi: «La signora
europea vera e propria è un essere che non dovrebbe proprio esistere; invece ci dovrebbero esse-
re casalinghe e ragazze che aspirano a diventarlo e... perciò vengono educate alla vita familiare e
alla sottomissione»1.
Con questa leggenda risalgo all’epoca di Francesco d’Assisi, che visse dal 1182 al 1226. In
questo periodo i giuristi della Chiesa elaborarono le prime leggi che in seguito avrebbero trovato
posto nel Malleus maleficarum. Lo spirito misogino dei tempi fu d’importanza decisiva per
l’ideazione di quell’ “addomesticamento dei ribelli”, di quel lavoro di allevamento e di punizione che
si compie sulla cinghialessa nella cappella. La leggenda di Francesco è un campo energetico mol-
to importante nella storia dell’umanità, politicamente e psichicamente attivo nel singolo individuo
come in Francesco, ma che in primo luogo mostra lo spirito di un’intera epoca dominata dalla
Chiesa e quindi dagli uomini.
Narra la leggenda che un giorno Francesco era ospite nel Convento di san Verecondo. I frati
del Convento gli raccontarono che proprio la notte precedente una pecora aveva messo al mondo
un agnellino. Ma una scrofa ferocissima (sus ferocissima) aveva ucciso quell’innocente con un
morso vorace. A sentire questo, Francesco fu preso dalla compassione: egli pensava alla morte
dell’ “Agnello senza macchia” e compiangeva l’agnellino morto. «Ahi, fratello agnellino, animale
innocente che rappresenta il Cristo-uomo! Sia maledetta la scellerata che ti ha ammazzato! Né gli
uomini né gli animali devono più mangiare la sua carne.» Dopo che Francesco ebbe pronunciato
queste parole, la malfattrice si ammalò e morì dopo essersi trascinata malata per tre giorni. Allora
fu gettata in una fossa, dove si disseccò completamente perché nessuno, per quanto affamato, se
ne volle nutrire.
Questa leggenda fu scritta due anni dopo la morte del santo. Poiché la maledizione della scrofa
è in contraddizione con l’immagine del santo divenuta tipica, quella cioè di un Francesco amante
degli animali, questa leggenda fu semplicemente “dimenticata” nella tradizione narrativa. La male-
dizione della scrofa come quella della donna venne resa inconscia.
La maledizione della scrofa-donna rientra nel processo storico in atto in quell’epoca: quando,
pur disponendo il papato ancora di poteri illimitati sia nella vita ecclesiastica sia in quella politica,
l’iniziale secolarizzazione annunciava un radicale rivolgimento dei rapporti di potere. Tale rivolgi-
mento era contraddistinto da enormi tensioni fra la teologia e le scienze naturali che dalla teologia
andavano prendendo le distanze, fra l’incipiente razionalismo e la fiorente superstizione, fra la dei-
ficazione di Maria e la maledizione delle donne, fra l’onnipotenza del papa e l’iniziale impotenza
della Chiesa. Già si annunciavano i precursori della Riforma, e venivano trascinati come eretici
davanti al tribunale dell’Inquisizione. Intorno al 1000 ebbe inizio un movimento di emancipazione
delle donne, con i suoi conventi e le sue teologhe che elaborarono una “teologia femminista” e un
nuovo misticismo largamente diffuso fra le suore. Questi conventi di beghine produssero una
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grande fioritura di cultura femminile autonoma. Nel 1223 a Colonia esistevano già 22 gruppi di be-
ghine di cui facevano parte 2000 donne che esercitavano tutti i mestieri. La ginecologia, nelle ma-
ni di levatrici, farmaciste, erboriste e alchimiste, aveva un grande riconoscimento fra la popolazio-
ne povera.
Ma per l’autorità della Chiesa questa “strega buona”, questa “donna saggia” costituiva una mi-
naccia, perché per guarire usava, al posto dell’acqua santa, la propria competenza. Essa svuota-
va di significato le gerarchie di dominio e sottraeva alla Chiesa il potere consolatorio che i sacra-
menti hanno sul malato. Le beghine respingevano la dottrina del Purgatorio, riducendo così le
considerevoli entrate che la Chiesa ricavava dal commercio delle indulgenze.
A partire dal Concilio di Vienna del 1311 le beghine vennero sistematicamente perseguitate,
scomunicate, bruciate, i loro possedimenti furono sequestrati e spesso trasformati in luoghi dell’In-
quisizione. Nel 1487 i processi agli eretici e i processi alle streghe si unificarono: le beghine erano
diventate streghe. La maledizione della “scrofa cattiva” che crepa miseramente nella fossa si rea-
lizzò nella donna.
L’autonomia professionale delle donne era distrutta. Si interruppe lo sviluppo di una teologia a
misura della donna e delle forme cultuali che questa teologia assumeva nel misticismo. Ginecolo-
gia e medicina passarono, dopo i massacri di donne, in mani esclusivamente maschili.
Tempi di rivolgimenti, dovuti al disorientamento e all’irrigidimento delle strutture di potere, sca-
tenarono grande paura, aggressività e rigidità. Nel XII secolo la paura si materializzò nell’immagi-
ne del nemico da sconfiggere. Anche oggi le immagini del nemico possono stabilizzare la struttura
di potere di una società come di un intero popolo: il cosiddetto nemico viene definito con esattezza
e poi può essere emarginato o ucciso secondo la legge. Ma l’immagine del nemico è sempre una
proiezione dell’immagine psichica interiore del soggetto: un’immagine che gli è inaccettabile e che
pertanto dev’essere svalutata o distrutta. C.G. Jung chiamava “Ombra” questo aspetto della psi-
che. I campi energetici matriarcali presenti sia nella psiche del singolo ecclesiastico sia nell’istitu-
zione diventarono l’immagine del nemico interiore, che veniva proiettata sulla donna reale e in lei
combattuta. La leggenda della maledizione della scrofa cattiva mostra questo aspetto dell’Ombra
individuale e collettivo dell’ecclesiastico, della Chiesa e dello Stato. Nel caso della “scrofa cattiva”
si tratta chiaramente di un maiale femmina, che viene caratterizzato coi predicati di scellerata (im-
pia), irruente, selvaggia (ferox) e crudele (crudelis)2. Di contro, l’uomo viene rappresentato come
buono e mite, capace di prendersi cura amorevolmente anche delle creature più piccole. Nella di-
screpanza fra realtà e percezione della realtà, l’uomo proietta il “crudele, cattivo, empio” del pro-
prio aspetto Ombra sulla donna, che poi a buon diritto, con l’aiuto della giurisprudenza, viene per-
seguitata e uccisa per mantenere pura la Chiesa, perché l’uomo possa rappresentare se stesso
come buono e mite e credere lui per primo a questa bontà.
La maledizione sia della “scrofa cattiva” sia della “strega cattiva”, ora non più rispettata come
levatrice ma combattuta come infanticida, corrisponde a una lunga tradizione giudaico-cristiana e
tradisce in maniera più che evidente il linguaggio della Chiesa. Essa mostra di quale spirito fosse
figlio anche Francesco d’Assisi e come egli abbia interiorizzato e proiettato sulla scrofa-donna gli
aspetti-Ombra della Chiesa e i loro meccanismi di separazione.
La crudele conseguenza della proiezione dell’immagine del nemico sono i massacri di donne
che ebbero luogo nei secoli successivi. La ricerca storica considera verosimile che siano state
ammazzate dai sei agli otto milioni di donne. Grazie a medici, padri della Chiesa, apostoli del Nuo-
vo Testamento e profeti dell’Antico, fu dimostrata senza fatica l’inferiorità della donna. Esistono in-
numerevoli libri di argomentazioni e prove “scientificamente fondate”. Nel 1478 Heinrich Kramer e
Jacob Sprenger compongono il Martello delle streghe. Il titolo dell’opera è Malleus maleficarum
(femminile) e non Malleus maleficorum (maschile). Il male è definito come inequivocabilmente
femminile, e va estirpato. Il Malleus maleficarum è l’opera standard per il massacro sistematico
delle donne, che la Bolla papale di Innocenzo VIII, del 1484, dichiarava «non-esseri umani». Que-
sta opera giuridica si rifà a una lunga “tradizione scientificamente comprovata”. Solo negli anni
compresi fra il 1258 e il 1526 comparvero 47 decreti papali su “magia e stregoneria”, e più di 40
edizioni scientifiche. La catena di coloro che davano fondamento scientifico alla tesi che le donne
erano “degne della morte” inizia con Crisostomo e giunge, attraverso Eraclito, Alberto Magno,

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Tommaso d’Aquino, Bonaventura, Scoto e tutti i Compendii theologicae veritatis, fino a quest’ope-
ra “giuridica”, che recava come suggello dell’Università di Colonia la firma di quattro professori e
che fu consacrata con un decreto imperiale del 14863.
In maniera “scientificamente fondata” sono state distrutte sia l’autorità psichico-spirituale della
donna sia la sua vita fisica, per non parlare dei valori culturali femminili.
La maledizione delle donne è la diretta prosecuzione, attiva a livello psichico, delle leggi di Mo-
sè, che dichiaravano impuro il maiale e insieme con esso anche il sangue mestruale4. Queste leg-
gi misogine ebbero origine non solo nell’ebraismo: ma anche in questo caso esse furono emanate
in un’epoca di rivolgimenti politico-teologici, il IV secolo a.C., quando la teologia e la teocrazia mo-
noteistico-patriarcale si affermarono definitivamente sulla cultura matriarcale fino allora viva. Nella
tealogia della dea, invece, il “maiale selvatico” era il più sacro di tutti i simboli.
La proiezione dell’Ombra della Chiesa si concentra successivamente sul simbolo della “scrofa
selvatica” che deve essere maledetta: in realtà è la donna “selvaggia” ed autonoma che deve es-
sere maledetta.

Il rovesciamento del sacro nel suo opposto


Nella psiche di ogni donna la dea onnipotente che costituisce il campo energetico matriarcale è
presente nel simbolo del maiale sacro. Nella psiche di molti uomini che hanno separato il livello
psichico matriarcale da quello patriarcale, la scrofa sacra è stata fatta diventare “impura”.
L’elemento costitutivo e decisivo per lo sviluppo e l’affermazione delle norme patriarcali sembra
essere lo scontro fra la Chiesa patriarcalizzata e le energie religiose matriarcali ancora attive: la
Chiesa le deve svalutare, deve prendere radicalmente le distanze da loro per trovare un proprio
autonomo valore religioso. In questi processi collettivi di patriarcalizzazione deve perdere vigore
l’etica naturale matriarcale fondata sull’essere. Ma poiché le enormi energie dei livelli psichici ma-
triarcali devono essere canalizzate, controllate e tenute in scacco, occorre un’etica culturale. L’uo-
mo, che viene separato dalle leggi di rigenerazione della natura, ha bisogno di nuove norme per
potersi orientare nella cultura.
Quello che prima, nella religione naturale, era sacro e potente, adesso, nelle categorie morali,
viene reso “impuro”, in primo luogo per poterne prendere le distanze; in secondo luogo per avere
l’obbligo e il diritto di farlo. Da una dea buona e potente non c’è bisogno di allontanarsi, e dal bene
è difficile prendere le distanze. Solo se la “madre” muore e, come nella fiaba, ricompare sotto for-
ma di “matrigna cattiva”, la presa di distanza aggressiva può riuscire, perché allora è giustificata.
In terzo luogo, attraverso questa presa di distanza aggressiva, ora giustificata, nasce il nuovo pro-
cesso evolutivo che condurrà a un’autonoma forma energetica patriarcale. Diventa così compren-
sibile l’enorme ambivalenza, inevitabile dal punto di vista della psicogenesi, che sussiste nella psi-
che del maschio e nella “psiche della Chiesa”.
A livello psichico, anche l’uomo ha ovviamente i campi energetici matriarcali originari della dea
onnipotente. Per il suo autonomo sviluppo accade anche sul piano intrapsichico lo stesso proces-
so di ristrutturazione, dal sacro all’impuro: il rovesciamento nell’opposto e con esso una decisiva
trasformazione simbolica, che sul piano politico è straordinariamente ricca di conseguenze. Attra-
verso la presa di distanza, ciò che rappresenta, a livello psichico matriarcale dell’uomo, il “maiale
sacro” viene fatto diventare, a livello psichico patriarcale, il “maiale impuro”: la perversa istintualità
sessuale e la cupidigia bestiale.
Il rovesciamento nell’opposto è il meccanismo di distacco e di difesa usato nella lotta contro i
valori matriarcali, sia sul piano storico-politico sia su quello intrapsichico. Quello che adesso è di-
ventato “scrofa cattiva” è il contenuto di tutte le proiezioni che trasformano la donna da levatrice,
medichessa ed erborista in “strega cattiva”, in avvelenatrice e in amante del demonio e che, nella
fantasia degli uomini, fanno diventare perverse oscenità genitali la sessualità erotica e creatrice di
vita.
Chiamo questo rovesciamento della dea nel suo opposto l’Ombra matriarcale presente nella
psiche dell’uomo, l’Ombra che ancor oggi spinge la Chiesa a non prendere neanche in considera-
zione, e men che meno a incoraggiare, la tealogia della dea come possibilità di esperienza religiosa.
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Poiché questa continua ambivalenza interiore fra il “maiale sacro” matriarcale e la “scrofa catti-
va” frutto della deformazione patriarcale è molto carica di aggressività e di paura, l’uomo e le sue
istituzioni devono trovare le vie per venire a capo di queste enormi energie in azione, e per domi-
narle.

La divisione del ruolo femminile


Attraverso il distacco della coscienza collettiva matriarcale, nella patriarcalizzazione si sviluppò
una tendenza alla coscienza individuale. L’uomo che secondo i miti matriarcali si considerava par-
te del tutto, acquisisce ora la capacità di sperimentarsi come Io autonomo che, in quanto indivi-
duo, può prendere le distanze dagli altri e contrapporsi a essi. Con lo sviluppo che si compie nella
storia dell’umanità quando si passa dalla coscienza del “noi” alla coscienza dell’ “io”, cambia an-
che la struttura del pensiero. Al posto del pensiero mitico-matriarcale subentra quello mentale-
razionale, improntato a una concettualità chiara, acuta, oggettivante, analitica e dialettica. L’espe-
rienza mitica viveva della sua pluridimensionalità e l’uomo che pensava miticamente era partecipe
del tutto sul piano esistenziale. La conoscenza razionale oggettivizza e analizza il mondo come se
esso fosse qualcosa che ci sta di fronte e che possiamo osservare senza prendervi parte.
Per descrivere questo processo rifacendomi al modello uovo-seme, è come se il seme non en-
trasse più nel potenziale matriarcale dell’uovo, ma rimanesse fuori di fronte a esso in modo che
non possa esserci fecondazione. L’uovo diventa quello che sta di fronte, l’oggetto. Ancora oggi lo
spirito maschile-matriarcale si dissolve, in conformità coi processi primordiali, nel tutto più grande
e, come il seme biologico, inizia uno sviluppo creativo. Il seme-spirito patriarcale non entra più a
fecondare le energie femminili ma ne prende le distanze. Se uso davvero il modello primordiale di
uovo e seme e la loro unione come il processo creativo, allora devo arrivare alla conclusione che
l’attuale spirito-seme patriarcale, che rimane all’esterno a causa della sua struttura mentale, non è
evidentemente in grado di un autentico processo di fecondazione coi potenziali energetici femmi-
nili esistenti oppure non vuole questo nuovo tipo di creazione comune femminile-maschile.
Di questa struttura mentale oggettivante fa parte il meccanismo della separazione. Non è mai
esistita un’etica dualistica di bene e male che scinde la totalità originaria dei processi naturali, che
di per sé non possono essere definiti né buoni né cattivi. La natura è non-morale. Un altro risultato
del pensiero che separa è il contrasto, assolutamente teorico, fra fede-mito da un lato e scienza
dall’altro, un contrasto che nell’esistenza non sussiste affatto. Il vero problema è la struttura del
pensiero stessa, che divide fra oggettivo ed esistenziale.
Nella rappresentazione dualistica del mondo anche l’aldilà è distinto in bene e male. La stessa
divisione si verifica nella valutazione della donna. Maria, la vergine immacolata che riceve un figlio
senza sessualità, è la donna buona e, attraverso la Chiesa, diventa norma religiosa per le donne.
In questa maniera la potenza originaria della dea-vergine matriarcale, in quanto donna sessual-
mente autonoma, viene semplicemente cancellata. Questa Maria è “celestiale”. Alle donne che si
piegano sotto il giogo del ruolo femminile di Maria viene promesso il Cielo nella vita eterna.
La donna, che come la dea primordiale Lilith non vuole essere “quella che sta sotto” nella ses-
sualità e che non si lascia schiacciare nel ruolo di sposa sottomessa prescritto dalla Chiesa, viene
destinata per il futuro al fuoco dell’Inferno. Attraverso le proiezioni dell’Ombra della Chiesa, essa
viene degradata a infanticida. Per questa fantasia maschile che separa bene e male, le donne pa-
gano non solo nel fuoco dell’Inferno ma anche, con la vita, sui roghi di questo mondo.
Questa divisione ha le sue radici in una paura atavica sepolta assai più in profondità: la paura
della donna fornita del sangue della vita, della dea delle mestruazioni, che adesso viene diffamata
come dea della morte, così come accade alle levatrici, a coloro che contribuiscono a portare al
mondo la vita dei bambini e invece vengono accusate come infanticide. La dea della mestruazione
però non uccide per far scorrere il suo sangue, ma fa scorrere il suo sangue perché possa sempre
tornare a nascere una nuova vita. È la “custode del sacer mens” e rappresenta perciò la massima
provocazione per una Chiesa che custodisce il sacramento del sangue maschile.
I padri della Chiesa non hanno solo paura della sessualità femminile animalesca, sensuale, po-
tente, carica di piacere: essi finiscono addirittura nel panico di fronte al sangue reale delle donne e
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temono, in verità non a torto, la dimensione psichica di questo campo energetico matriarcale, la
scrofa veramente feroce con le sue “fauci schiumanti”, la vera dea potente e il suo “sangue sacro”.
Poiché i campi energetici recisi non sono mai “eliminati” definitivamente, ma possono risalire alla
superficie della coscienza con forza distruttiva, questa abissale paura dei padri della Chiesa è giu-
stificata e perfino comprensibile, anche se sono stati loro stessi a iniziare questo processo. Que-
sta “giustificata paura” fino a oggi non è stata veramente percepita e guardata, e men che meno
rielaborata.
Il rapporto fra il maiale e il sangue si può avvertire ancor oggi nella lingua inglese. Bloody signi-
fica: “insanguinato”, “rosso sangue”, “macchiato di sangue”, “crudele”, “assetato di sangue”, “dan-
nato”, “maledetto”; bloody-minded significa: “avido di sangue”, “sanguinario”5. La scrofa crudele è
la scrofa insanguinata, rosso sangue. È degno di nota che la lingua ebraica confermi questo rap-
porto. Sangue in ebraico è DAM, e nelle lingue europee si sviluppa in DAMned, verDAMmt, DA-
Me, MaDAMe, DAfne, DAnae, eccetera. La scrofa crudele e maledetta è la scrofa sanguinante,
macchiata di sangue, che a sua volta sta per “donna sanguinante, mestruata”, per verDAMmte
DAMe (maledetta signora) e per tutte le dee il cui nome inizia con la sillaba DA, DAM.
La maledizione della scrofa cattiva è la maledizione della donna mestruata e di tutta la sua po-
tenza creatrice, legata a quel sangue creatore di vita che gli uomini non possiedono. Bloody-mind-
ed erano in realtà non le streghe ma gli inquisitori. I leoni, simbolo del potere della divinità maschi-
le, dilaniano a morsi la scrofa “sottomessa”. Gli ecclesiastici le danno la caccia per ammazzarla
con le falliche lance delle leggi misogine e perfino nelle loro chiese rappresentano il comporta-
mento sanguinario, bloody-minded del potere.

Il leone uccide il maiale. Frontale Ovest ad Andlau, Alsazia.

Se i teologi hanno lottato fino a oggi contro le potenze della “sacra scrofa”, se gli psicologi han-
no “dimenticato” questo livello matriarcale dell’anima e gli storici hanno eliminato queste culture
matriarcali, si è sempre trattato della lotta contro il “sangue sacro” delle donne. L’utero è il vero
vaso del sangue della donna. Il vaso, che identifica la dea come “custode del sacer mens”, è rap-
presentato nel suo simbolo principale: nella cinghialessa.

La caccia al maiale. Cripta della Cattedrale, Basilea, XII secolo d.C.


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L’isolamento della donna
Accanto alla “vergine immacolata” e alla “scrofa-strega macchiata di sangue”, c’è un terzo
aspetto dell’originaria dea triforme che viene separato, isolato dagli altri due ed associato alla ter-
ra, all’esistenza materiale-terrena: la madre, la partoriente, la massaia, la serva, la subalterna, la
sottomessa, colei che dedica la propria vita a partorire e ad allevare figli e che spesso muore di
parto. La scrofa solo e soltanto fertile è accettabile anche nelle chiese. In una chiesa di Wells, nel
Sommerset, la scrofa feconda adorna perfino la chiave di volta, quella che “tiene insieme” i muri.

Il maiale matricino che nutre. Chiave di volta di St. Cuthbert, Wells, Sommerset.

La donna in quanto madre diventa possesso dell’uomo, viene isolata nella vita domestica, pri-
vata dello sviluppo della sua intelligenza e della sua creatività e inchiodata alla fertilità.
Con queste norme viene oppressa anche l’autonoma cultura femminile delle beghine. La ridu-
zione delle doti femminili al ruolo di madre e nutrice è un prodotto della spaccatura operata fino a
oggi dalla psicologia e dalla morale teologica. Nel Medioevo lo scontro sull’autonoma sessualità
della donna si inasprì. I teologi la scissero in sessualità peccaminosa e in sessualità lecita e non
peccaminosa se finalizzata esclusivamente alla riproduzione. Fu definita peccato non la sessualità
di per sé ma l’esperienza del piacere non accompagnata dal desiderio di figli.
Il piacere è peccato, e non può essere vissuto insieme con la moglie, la madre, la partoriente.
La donna intesa come possesso sessuale deve avere un comportamento casto. Non può diventa-
re una “porca”, parola che in italiano significa maiale femmina e viene usata per designare una
“donna dissoluta”, una puttana” che “cavalca sulla scrofa”. La sessualità femminile “da porca” in
senso negativo esiste comunque in prevalenza nella fantasia degli uomini.
Sulla scorta delle proprie proiezioni e con l’intento di reprimere duramente, l’uomo con perver-
sione e sadismo riduce la sessualità della donna ricorrendo alle crudeli infibulazioni che consisto-
no nell’«unire le grandi labbra con un anello, una fibbia o un lucchetto»7 o nel cucirle insieme da-
vanti all’apertura della vagina, oppure, la forma più crudele, nel raschiarle a sangue per farle poi
crescere insieme sopra la vagina. Con un perfetto controllo la donna avrebbe dovuto essere pro-
tetta, nel suo stesso interesse, si diceva, da una sessualità sfrenata.

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Cavalcata di donna sul maiale. Hieronymus Bosch, 1460( ?)-1516,
particolare da II giardino dei piaceri.

Dalle loro “guerre sante” in Oriente i crociati portarono con sé la cintura di castità. «Si trattava di
un busto di ferro o di argento con una fascia di metallo che si piegava in mezzo alle gambe rima-
nendo ben aderente, ed era provvista di un buco circondato da file di denti appuntiti.»8 Durante la
guerra il marito portava con sé la chiave di questo strumento di tortura. Non di rado le dolorosissi-
me infezioni provocate dalla cintura spinsero le donne al suicidio. Oggi gli storici raccontano che a
quell’epoca gli uomini che ritornavano dalle Crociate mostravano la loro adorazione per le loro
donne con dolci canti d’amore. Ma oggi le donne si rendono conto del rapporto che c’è fra umilia-
zione ed esaltazione sentimentale. La fantasia maschile della “vulva dentata” si materializzò in un
reale strumento di martirio. Con la “prova del lenzuolo” ebbe inizio l’idolatria dell’ “imene intatto”,
dell’intatta verginità. Se durante la notte del matrimonio la deflorazione avveniva senza sanguina-
mento, la donna era disonorata. Questo garantiva già prima del matrimonio il controllo patriarcale
della sessualità femminile.
Un attacco ben più grande all’autonoma sessualità della donna era costituito dalla clitoridecto-
mia, sostenuta già da Aristotele9. Essa consisteva nell’asportazione della clitoride e spesso anche
delle grandi labbra fino all’osso del pube, dopo di che le parti venivano ricucite insieme. L’uomo
veniva celebrato come grande eroe quando, durante la prima notte di nozze, «sapeva aprire la
sposa con la sua arma naturale»10. Se non ci riusciva, apriva i genitali della donna tagliandoli con
un coltello. Chi ha il potere decide che cosa è violenza!
La forma di gran lunga più violenta era l’ovariectomia, l’asportazione delle ovaie. Dapprima es-
sa veniva praticata dovunque sulle scrofe vive per renderne più succosa la carne. Lo stesso meto-
do chirurgico veniva praticato anche sulle donne. Questo lavoro artigianale da veterinari si svilup-
pò diventando la prima forma di ginecologia patriarcale. Gli squartatori di scrofe divennero i “crea-
tori di suore”.

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Asportazione dell’utero e delle ovaie a un maiale. Galeno, Opera, Basilea, 1562.

La castrazione della scrofa come della donna consisteva nell’ovariectomia bilaterale insieme
con un’isterectomia (asportazione dell’utero), praticate senza anestesia sulla carne viva. Già autori
antichi descrivono come si eseguivano le castrazioni sia delle femmine di animali sia delle don-
ne11. A ogni modo G.M.E. Matuschka, nel suo libro Gynäkologische Sterilisationen zur Zeit des
Hexenwahnes (Sterilizzazione ginecologica al tempo della caccia alle streghe), non vuole mostra-
re quello che veniva fatto alle donne ma solo provare che la medicina veterinaria fu l’indispensabi-
le precedente della medicina umana. Egli dimostra come medico che nelle sterilizzazioni delle
donne si trattava delle pratiche del taglio di fianco usate sul maiale12. Lo squartatore di porci Jo-
hannes von Essen utilizzò il metodo di castrazione delle scrofe per rendere la figlia inabile a con-
cepire.
Ma questo non è un caso isolato. Johannes Georg Fuchs vescovo di Bamberga, che veniva
chiamato “la volpe di Bamberga” o “il vescovo delle streghe” e che nel periodo in cui fu in carica,
dal 1623 al 1633, fu uno dei più crudeli massacratori di donne, riferisce che nella sua diocesi «uno
squartatore di scrofe aveva castrato la propria figlia per godere con lei, senza preoccupazione, i
più criminosi piaceri»13. In entrambi i casi gli uomini vengono condannati solo a pene pecuniarie,
mentre una donna finisce sul rogo per un presunto “filtro magico di sterilità” che esiste solo nella
fantasia degli uomini. Quello che l’uomo fa concretamente alla donna viene minimizzato, quello
che la donna fa all’uomo solo nella fantasia di costui, le costa la vita!
Il racconto d’inverno di William Shakespeare, scritto nel 1610, mostra quanto fosse accettato
come ovvio, dopo secoli, lo spirito francescano. In quest’opera Shakespeare fa dire ad Antigone,
l’eroe, che nel caso di infedeltà della sposa egli avrebbe fatto togliere le ovaie alle tre figlie adole-
scenti, per impedire che partorissero dei discendenti disonorati14. Un altro dato storico dimostra
per quanto tempo sia rimasto vivo inconsciamente lo spirito misogino di quell’epoca, diventando
così molto più efficace. I successori di Francesco d’Assisi, i francescani, furono i più famigerati in-
quisitori. Poiché le donne non sono mai state bruciate per la loro competenza in medicina ma sot-
to l’accusa di diffondere eresie religiose, caddero sotto l’Inquisizione contro gli eretici dell’ordine
francescano. L’ottantotto per cento di tutti gli “eretici” condannati erano donne.
Il pensiero che separa, che dichiara peccato non la sessualità ma l’autonoma sessualità delle
donne, non vuole rendersi conto che a essere bruciati non furono soltanto i metodi di guarigione,
ma le donne in carne e ossa. Non ci si è accorti neanche che con la violenza sessuale esercitata
sulle donne se ne sono distrutte completamente la sessualità e la sensualità.
Attraverso gli squartatori di scrofe la ginecologia passò nelle mani degli uomini; le guaritrici, le
sciamane e la loro competenza furono sostituite dallo psichiatra maschile, che dichiarò le streghe
“malate di mente”.
La sessualità repressa dagli uomini di Chiesa fu proiettata in maniera sproporzionata sulle don-
ne sessualmente autonome, e così levatrici e medichesse furono degradate a “dee della morte”.
L’intensità delle persecuzioni e dei massacri porta a concludere che l’uomo di Chiesa e la Chiesa
nella sua totalità non hanno preso coscienza in alcun modo della propria Ombra. Ma oggi le donne
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non sono più disposte ad accettare che la Chiesa non abbia voluto (o non abbia saputo?) prende-
re coscienza di quest’Ombra criminale e che ancora non riesca ad ammettere questi fatti storici
come una colpa reale. Anche del suo “inconscio” l’uomo deve pur sentirsi responsabile.
Nella fantasia clericale la cinghialessa diventa l’animale del diavolo e delle streghe. Il legame
che sussiste fra la repressione dei valori matriarcali e il rapporto rigido e ascetico col proprio corpo
è rivelato anche dalla frequenza con cui le immagini dei santi appaiono accompagnate da un
maiale. Innumerevoli leggende di santi narrano delle tentazioni da loro subite a opera di questo
animale: vale a dire della minaccia che per lo spirito clericale patriarcale rappresentano i campi
energetici religiosi matriarcali. Uno di questi santi è appunto Antonio, il santo protettore dei custodi
di maiali. Era questo gruppo di lavoratori che forniva gli squartatori di scrofe e i creatori di suore.

La visione delle porte aperte


La donna sente l’Ombra clericale come una minaccia mortale, come una paralisi annichilente
che la riempie di panico. Nella psiche femminile continuano a vivere ancor oggi, esprimendosi in
varie malattie, la paura del rogo e l’esperienza delle ferite mortali e della brutale distruzione inflitte
alla sessualità della donna. La malattia si chiama “melanconia”, come il quadro di L. Cranach che
illustra questa paura che minaccia le donne come una nuvola nera. La nuvola nera è la nera proie-
zione maschile che vede nella donna dedita a un’autonoma attività sessuale una strega a cavallo
di una scrofa. Cavalcare è l’immagine di attività sessuale: quindi una donna, se non vuole essere
una strega, non può vivere il piacere di una sensualità autonoma.

Cavalcata di una strega sul cinghiale.


Particolare da: Lucas Cranach il Vecchio, Melanconia, 1532.

Nella psiche dell’uomo si può constatare il modello energetico allorché egli, sentendosi minac-
ciato da una donna potente e temendo perdite del suo potere, diventa bloody-minded, “sanguina-
rio”. Nella psiche maschile e in quella della Chiesa è depositato un enorme potenziale energetico
di colpe commesse contro le donne. Prima di poter sognare una rigeneratrice integrazione dell’
Ombra, questa colpa deve diventare cosciente. Riabilitare singoli aspetti femminili che piacciono
anche agli uomini è troppo poco ed è anche pericoloso perché, se isolato dalla totalità, ogni aspet-

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to diventa di nuovo una minaccia.
Divisa nei tre aspetti di santa, puttana e madre, la donna-scrofa si lascia gestire abbastanza
bene anche in chiesa. Noi non abbiamo affatto bisogno di riabilitare l’aspetto della scrofa-madre,
ma soltanto di liberarlo dalla “cappella” di norme in cui è rinchiuso. E neppure dobbiamo limitarci a
liberare la “oscura, cattiva, feroce strega-scrofa”, per quanto urgente sia il suo bisogno di riscattar-
si diventando una donna dotata di una sessualità autonoma. Quello di cui abbiamo veramente bi-
sogno è la donna integrale in tutti i suoi aspetti, il cinghiale intero e vitale, con le “fauci schiuman-
ti”, la dea autorevole del sacer mens. Quello che ha ucciso le donne è stata la “cappella serrata”.
Quello di cui le donne hanno bisogno per vivere è una cappella con le porte spalancate sia all’e-
sterno che all’interno.
Finché verrà demonizzato il sangue della donna e con esso la donna, e finché parallelamente
verrà esaltato il sangue dell’uomo, quello versato sulla croce o in una delle innumerevoli guerre,
non ci sarà salvezza. Il campo energetico storico-politico dei roghi di donne si è condensato
nell’anima femminile come energia-pura e in quella maschile come energia-colpa. Questi processi
distruttivi che ho solo delineato sono contenuti insieme nel campo energetico della “strega”. La
“strega” non è un’innocua figura fiabesca, una fantasia astorica.
Come vogliamo trattare adeguatamente questo campo energetico se non cogliamo la storia
della sua nascita come proiezione della “scrofa cattiva” francescana? Come vogliono terapeuti e
terapeute risolvere il trauma delle violenze subite che molte donne portano dentro di sé,
senza conoscere con esattezza queste violenze reali che spiegano quali abissali paure oc-
cupano e paralizzano le donne? Con quale centuplicata accuratezza dobbiamo trattare la “cin-
ghialessa” nell’interpretazione dei sogni e delle fiabe, se la vogliamo veramente liberare dalla
“cappella”, se noi donne vogliamo veramente diventare autonome in campo sessuale, teologico,
politico ed economico?
Il primo ineludibile passo che devono compiere le donne sulla strada che conduce a una cap-
pella dalle porte spalancate è il coraggio di percepire veramente questo dolore, questa rabbia,
questa impotenza, queste ferite e di trasformare il violento lamento e la giusta accusa in un pro-
cesso sia di apprendimento spirituale sia di guarigione psichica. E poi scuoteremo con tutte le for-
ze aggressive di cui disponiamo le porte chiuse delle norme.
Il primo passo che devono compiere gli uomini per riacquisire anche nella loro psiche un’imma-
gine guarita della donna è quello di sentire come colpa la propria colpa, è cogliere l’Ombra bloody-
minded trasformando la vergogna per quest’Ombra in un processo di apprendimento di vera
espiazione, è implorare il perdono invece di pretenderlo semplicemente dalle donne senza passa-
re attraverso la sofferenza di un proprio processo di apprendimento.
Uomini e donne non hanno ancora avuto il coraggio di guardare le indescrivibili sofferenze du-
rate trecento anni, non le hanno portate alla coscienza e non le hanno indagate con correttezza
storica e con occhio femminile e men che meno le hanno superate spiritualmente. Prima che le
porte si aprano, le donne dovranno sostenere il proprio dolore e la propria rabbia, gli uomini la
propria colpa e la propria vergogna. Come si possono perdonare i delitti, se l’uomo e la Chiesa
continuano a dire che non c’è niente da perdonare?

Chiamate Chiamate
rotondo ciò che è rotondo, i crimini criminosi
e spigoloso ciò che è spigoloso. e i colpevoli colpevoli.

Note
1. V.E. Pilgrim op. cit. pag. 140.
2. M. Odermatt Franz von Assisi: Zwei Tierlegenden, Unveröffentlichte Thesis, C.G. Jung-Institut
Zurigo, 1971, pag. 62.
3. Soldan-Heppe Geschichte der Hexenprozesse, Hanau/M., pagg. 245 e segg.
4. Il Libro di Mosè, 11, 12.
68
5. Cassels German-English Dictionary, 1968.
6. M. Odermatt op. cit. pag. 70.
7. E.G. Davis Am Anfang war die Frau, Monaco, 1977, pag. 170.
8. Ibidem, pag. 172.
9. Ibidem, pag. 159.
10. Ibidem, pagg. 162 e segg.
11. G.M.E. Matuschka Gynäkologische Sterilisationen zur Zeit des Hexenwahnes, Granz, 1981,
pag. 7, nota 3.
12. Ibidem, pag. 10.
13. Ibidem, pag. 14.
14. W. Shakespeare The winter’s tale, II, 1.

69
La parabola
del Nuovo Testamento:
Il figliol prodigo

Il contesto storico
Nella teologia la ricerca storico-critica si è occupata innanzi tutto dello studio dei singoli testi bi-
blici al fine di arrivare a individuarne il nucleo storico. In questo modo il rapporto fra il “Gesù stori-
co” e il “Gesù mitico” dovrebbe diventare più facilmente riconoscibile. Ma questo indirizzo di ricer-
ca non si è minimamente occupato del fatto che il canone biblico nella sua totalità rappresenta
una grandiosa falsificazione delle immagini.
La falsificazione delle immagini nasce da una falsificazione temporale. Con questa espressione
intendo il fenomeno storico per cui fu operata una scelta tendenziosa delle cosiddette tradizioni
“giuste”, mentre contemporaneamente venivano emarginati i testi “eretici”. L’ortodossa composi-
zione del canone biblico con proposizioni di fede ancora adesso “giuste” ebbe luogo soltanto nel II
secolo dopo Cristo e solo nel IV secolo, sotto l’imperatore Costantino, questa scelta tendenziosa
fu portata a termine e imposta con la forza. Questo canone tardo fu retrodatato agli inizi del cristia-
nesimo ricevendo così l’autorità dell’esclusività, come se l’autenticità di questi scritti fosse stata
sancita dai primi apostoli. La conseguenza di questa operazione fu che alla vera immagine di Cri-
sto se ne sostituì una parziale e unilaterale.
I famosi testi copti Nag-Hammadi vennero scoperti nel 1945. Essi risalgono all’epoca compresa
fra il 350 e il 440 d.C. e sono copie e traduzione di testi originari nati al più tardi fra il 120 e il 150
d.C. Parecchi studiosi li fanno risalire però all’epoca compresa fra il 50 e il 100 d.C., quindi a un’e-
poca altrettanto antica o ancora più antica di quella della scrittura dei quattro Vangeli. Questi anti-
chi testi gnostici sono paragonabili al misticismo delle monache medievali. Essi attentano uno svi-
luppo completamente diverso delle esperienze di fede e della struttura comunitaria e ci fanno intui-
re che l’antico cristianesimo ebbe sviluppi e caratteristiche assai più vari e coloriti di quanto ci ab-
bia trasmesso la Bibbia dopo la canonizzazione del IV secolo d.C.
I primi vescovi, come Ireneo di Lione e Ippolito, scrivono opere in più tomi contro l’ “empietà”
dei Vangeli gnostici. Questa lotta massiccia contro i testi gnostici conferma indirettamente l’enor-
me capacità di convinzione di una fede che si orientava prevalentemente sull’esperienza persona-
le, sulla conoscenza intuitiva di sé e dell’essenza del mondo. Proprio questo significa la gnosi.
Questo modo di conoscere l’essenza del mondo era familiare anche all’uomo che pensava e sen-
tiva in maniera mitico-matriarcale.
Dai testi Nag-Hammadi si capisce che lo gnosticismo era un movimento largamente diffuso,
che traeva alimento da molte fonti, dalla filosofia greca, dall’astrologia, dalle religioni misteriche e
perfino da fonti indiane e dalle tradizioni zoroastriane dell’antica religione iraniana. La gnosi è un
campo energetico che abbraccia tutta l’area del Mediterraneo. La fonte divina viene descritta co-
me “forza maschile-femminile”. Un’altra professione di fede dice che «gli elementi maschili e fem-
minili insieme costituiscono la più fine accentuazione della madre saggezza»1. Alcuni gnostici de-
scrivono il divino come rapporto armonico-dinamico corrispondente al modello primordiale dell’uo-
vo e del seme e delle loro nozze sacre, ma anche alla complementarità di onda e particella, affine
all’idea orientale dello yin e dello yang. Questo campo energetico complementare è uscito dal
grembo materno, dalla «madre del cosmo», che viene descritta anche come la «saggezza in-
corruttibile», la «grazia, che era prima di tutte le cose»2.
Nei testi gnostici viene descritto tutto il campo energetico matriarcale della dea originaria. Le
70
sue forme cultuali non conoscono distinzioni fra superiori e inferiori. Questa struttura della comuni-
tà dei fedeli si affermò nei primi due secoli anche nella pratica cristiana, diventando un affronto po-
litico-cultuale agli apostoli che invece sostenevano l’assegnazione delle cariche in base al criterio
della successione a Gesù, secondo il quale doveva essere valido soltanto l’ufficio apostolico ma-
schile. Nelle comunità gnostiche, invece, era naturale che uomini e donne potessero ricoprire tutte
le cariche senza distinzione di rango. Poiché vigeva il principio della stretta uguaglianza, era la
sorte a decidere chi, uomo o donna, dovesse rivestire le cariche3.
Nel II secolo ebbero inizio la sistematica repressione della gnosi e la persecuzione delle sue
comunità di fedeli. I suoi contenuti di fede furono dichiarati eresia, i suoi rappresentanti e le sue
rappresentazioni furono dichiarati eretici. I testi gnostici fanno pensare anche che nel periodo di
rivolgimenti questa lotta religiosa si sia estesa contemporaneamente al campo sociale e politico e
che questo abbia contribuito a far diventare il cristianesimo una Chiesa istituzionale strutturata ge-
rarchicamente. Nel cristianesimo si è verificata una coincidenza simbiotica di politica e religione.
La struttura ecclesiastica prevedeva una gerarchia di tre livelli: vescovi, preti e diaconi, che custo-
divano la “vera fede” e dichiaravano che “non c’è salvezza” al di fuori di queste strutture.
Dal IV secolo in poi i Vangeli gnostici furono espunti come eresie e fu vietato alle donne di pre-
dicare. Chi ha il potere, anche se esso è stato instaurato attraverso falsificazioni, decide che cosa
è eresia. Per sostenere questa operazione la Chiesa si appellava all’apostolato maschile di Pietro,
che si diceva fosse stato insediato nella sua carica da Gesù stesso, e al criterio che la successio-
ne nelle cariche spettasse a quanti avevano assistito alla Resurrezione. Non prendeva atto che in
realtà i primi testimoni della Resurrezione di Cristo non erano stati uomini ma erano state due don-
ne, Maria e Maria Maddalena. Ciò nonostante si impose il principio dell’ “ufficio-pietra-di-Pietro”.
Ignazio difendeva i tre livelli in quanto ordinamento gerarchico corrispondente all’ordine del divino
nel cielo. Ma per fondare l’autorità esattamente su questo ordine divino, il solo canone considerato
valido, quello della Bibbia, fu composto in maniera tale da espungerne tutti i testi che contraddice-
vano questo ordinamento gerarchico dichiarando “vera dottrina della Chiesa” soltanto i testi che
stabilivano il dispotismo assoluto divino-umano. Il divieto delle immagini fu infranto e fu creato un
dio ad immagine del maschio. «Un Dio, un vescovo» diventò il dogma degli ortodossi.
Le comunità gnostiche, con la loro pratica egualitaria e con l’integrazione delle donne, metteva-
no in discussione tanto questa immagine di Dio quanto i livelli gerarchici. Nelle concezioni della lo-
ro fede, il vero capo non è un capo in carne e ossa ma è piuttosto un’energia interiore che guida, e
assume, nell’interiorità di ciascuno, la sua forma inconfondibile, sempre individuale, liberandosi
dalla dipendenza da capi esterni. Alla questione della vera autorità gli gnostici danno una risposta
simile a quella dei buddhisti: «Se incontri il Buddha, uccidilo».
Ma probabilmente il cristianesimo ha conseguito la sua capacità di affermazione storica proprio
attraverso questa triplice operazione: dandosi delle potenti strutture politiche gerarchiche, sce-
gliendo gli scritti del canone che si prestavano ad attestare un unico apostolato maschile autoriz-
zato da Dio e infine retrodatando questa canonizzazione, compiuta realmente nel IV secolo, agli
inizi del cristianesimo allo scopo di avvalorarne l’autorità. Tutte le altre forme possibili di apostolato
vennero eliminate.
Teoria religiosa e prassi politico-sociale, integrandosi reciprocamente, riescono a garantire per
quasi duemila anni un esercizio del potere quasi incontrastato e una piena divinizzazione del ma-
schile nella Chiesa. Nel 1977 il vescovo di Roma, papa Paolo VI, dichiarava ancora che una don-
na non può diventare prete «perché nostro Signore era uomo»4.
Se pensiamo all’incredibile molteplicità del cristianesimo originario come a un puzzle, possiamo
dire che l’eliminazione dell’elemento femminile non ha solo per così dire dimezzato il quadro in
modo da lasciare intatta la metà maschile e cancellare invece quella femminile. È molto più esatto
dire che nell’intera superficie del quadro vengono fatti tanti buchi, sia nella metà maschile sia in
quella femminile. Nella sua veste attuale, la Bibbia è un documento della distruzione della potenza
femminile.

71
Il maiale sacro nell’area mediterranea
In quell’epoca di rivolgimenti che fu il periodo di transizione dall’antica alla nuova era, ricca di
una varietà di influssi culturali difficilmente immaginabile, la donna, almeno quella dei ceti superio-
ri, aveva raggiunto un avanzato livello di emancipazione politica e giuridica. A Roma veniva offerto
lo stesso piano di studi ai fanciulli e alle fanciulle. Uomo e donna si scambiavano volontarie e reci-
proche promesse di matrimonio, le donne imparavano le scienze, la letteratura, la matematica, la
filosofia e professioni come per esempio quella del medico. Le donne delle classi superiori erano
versate nella poesia, nel teatro, nella musica, partecipavano alla vita sociale, si davano agli affari,
facevano viaggi con o senza i mariti. Ovviamente partecipavano pienamente alle cerimonie in ono-
re delle dee ed alle processioni in onore di Demetra e di Iside.
Come fosse ovvio rispettare e integrare i valori femminili, è dimostrato dalle innumerevoli mone-
te che raffiguravano il maiale sacro, per esempio il maiale di Demetra. Della grande quantità di
monete con le loro belle figure di maiali ne riproduciamo qui una soltanto. Per me fu una gioia pro-
fondissima guardare tutti questi potenti maiali. Anche la moneta di Tito, come molte monete di do-
minatori, ritrae una scrofa con tre maialini. Con la moneta della scrofa egli si poteva presentare
come un mýstes, un iniziato ai Misteri di Eleusi. Nel periodo di trapasso al patriarcato la moneta
con la scrofa era ancora un mezzo di pagamento valido e conosciuto in tutta l’area mediterranea.
Quindi il maiale deve essere stato ancora un animale sacro e venerato. Dalla quantità di monete
con la scrofa esistenti si può dedurre che erano ancora diffusi una naturale venerazione della dea-
maiale e un generale riconoscimento del femminile.

Il maiale sacro sulla moneta. Lato posteriore della moneta di Tito.

Con l’affermazione del cristianesimo come unica “vera” religione si estendono le leggi ecclesia-
stiche. Clemente, vescovo di Roma, scrive alla comunità di Corinto che le donne «devono attener-
si alla legge della sottomissione» ai loro mariti e devono tacere nella comunità.
La simbiosi di Chiesa e politica e la loro pretesa di esclusivo dominio maschile fa scomparire le
monete con la scrofa e diventa fatale per la vita delle donne. Costantino, il primo imperatore cri-
stiano, fece morire bollita viva in un pentolone d’acqua la moglie Fausta sospetta di adulterio5, mo-
dello cristiano per i quattordici secoli a venire! «È quasi incomprensibile che i pagani, che non co-
noscevano Cristo, fossero così dolci e gentili con le loro donne, mentre... i nostri signori e principi
cristiani le ammazzavano.»6
72
Il figliuolo perduto fra i maiali7
Adesso, occupandomi di un testo biblico, non farò un’esegesi teologica ma mi confronterò con
esso a livello meramente fenomenologico, consapevole di trovarmi su un terreno pericoloso. Per-
ciò voglio comprendere i simboli, in particolare quello del maiale, a livello mitico, rilevando nel te-
sto le evoluzioni e le involuzioni psichiche. In primo luogo cercherò di mostrare dove sia ancora
presente nel testo il livello energetico matriarcale e come e perché esso sia stato respinto.
Ogni testo biblico esprime anche un determinato modello energetico dello spirito di una certa
epoca. Inoltre ciascuno di essi è un modello energetico patriarcale accettato e pertanto accolto,
con una scelta tendenziosa, nel canone della Bibbia. Nella tradizione cristiana la parabola del “fi-
gliuolo perduto” sembra essere un modello energetico notevolmente attivo ai fini della formazione
psichica umana. Per questo, e perché è stata accolta nel canone, ritengo che essa sia stata e sia
di grande aiuto alla costituzione della religione patriarcale.
La parabola del “figliuolo perduto” appartiene alla mitologia del profondo: al racconto biblico
corrisponde infatti per la sua struttura il mito del “viaggio notturno per mare” dell’eroe solare.
L’eroe maschile assomiglia al sole, che deve tramontare, sostenere tutti i pericoli di un viaggio not-
turno nel mondo sotterraneo, sperimentare per così dire l’iniziazione al femminile, per rinascere in-
fine dall’ “utero della terra” oppure, come nel caso del profeta Giona, dall’utero della balena. Dopo
questa rinascita carica di pericoli, l’eroe è diventato l’uomo adulto che, attraverso il suo eroico
viaggio, si è definitivamente separato dalla sfera spirituale materna collettiva, diventando così un
individuo. Questo distacco del figlio adulto dalla sfera materna, che in molte culture si compie in
maniera simbolica e rituale, si ritrova anche nella parabola del “figliuolo perduto”. Essa descrive
anche il reale distacco, compiutosi in quell’epoca, della nuova religione patriarcale dall’antica reli-
gione matriarcale, che in questa parabola è simboleggiata nei maiali. Contemporaneamente viene
descritto anche il distacco etico-morale del cristianesimo “che guarisce” dal paganesimo che inva-
sa.
La storia di una guarigione narra che Gesù curò un invasato facendo passare la malattia da lui
ai maiali, che allora si precipitarono in mare e annegarono8. Gesù, che nella tradizione successiva
fu proclamato eroe solare, libera dall’invasamento pagano provocato dalla religione del maiale. Ma
questa guarigione miracolosa ha luogo a Garosa, una zona esterna ai domini ebraici, una zona in
cui il maiale era ancora un animale sacro e si adorava la dea-maiale. Questa storia biblica raccon-
ta come Gesù, il dio solare patriarcalizzato, risospinge nella sfera matriarcale dei maiali la malattia
dell’invasamento provocata in realtà proprio dalla nuova religione e dalla repressione che essa
compie dei campi energetici matriarcali. Non c’è da stupirsi se i maiali si precipitano volontaria-
mente nel mare, cioè nell’Inconscio, ed annegano. La religione matriarcale è ritornata nella sfera
che più le è propria, il mare, che ora diventa, comunque soltanto dal punto di vista del patriarcato,
la sfera dell’Inconscio.
Il maiale non solo viene ricacciato nell’Inconscio dalla nuova religione dei cristiani, ma viene
anche disprezzato come animale impuro da ogni ebreo credente. Un ebreo credente non mange-
rebbe carne di maiale neanche sotto la minaccia della pena di morte. Al divieto di mangiare carne
di maiale era collegato il rifiuto della santa dea e con essa del culto pagano della fertilità. Ciò signi-
ficava contemporaneamente anche rifiuto dei pagani, e i popoli non israeliti, infatti, venivano chia-
mati “maiali”. La scrofa era il simbolo del tanto disprezzato paganesimo. Perciò per l’ebreo il maia-
le sacro divenne un maiale pericoloso, che rende invasati, cioè psichicamente malati, perché le
energie femminili sono state represse oppure totalmente separate.
Nella parabola del figliuolo perduto i maiali vengono menzionati come l’essenza stessa di tutto
quanto dev’essere disprezzato e superato. Purtroppo questa potente esperienza storica viene in-
terpretata per lo più soltanto sul piano morale della colpa. Dapprima il padre e il figlio sono per co-
sì dire simbioticamente fusi fra di loro nella sfera spirituale paterna del cielo. Per liberarsi del pa-
dre, il figlio si deve separare dal padre e dalla sfera paterna. Liberarsi non è una colpa morale, ma
una “colpa evolutiva” necessaria ed inevitabile per diventare un uomo autonomo. Anzi, una colpa
esistenziale sarebbe non andarsene. Quando nella parabola il figlio si volge con gioia e piacere al
mondo, e lo gode a pieni polmoni, questo suo comportamento non è una biasimevole mancanza.
Il figlio impara soltanto di aver valutato male se stesso, e questo è quanto ogni uomo impara solo
73
attraverso l’esperienza concreta del “mondo”. Nel suo processo di trasformazione anche interiore
egli arriva fra i maiali, nella sfera materna della fertilità, propria della dea orgiastica. Il maiale non è
un simbolo della madre ma di tutto il femminile, di tutto ciò che trasforma e che ridà la vita. Lì, nel-
la sfera dell’utero della dea, il figliuolo perduto «entrò dentro di sé»9.
Per l’ebreo che ascoltava questa parabola e che doveva compiere anch’egli la strada del figlio,
e il figlio è l’ascoltatore stesso, dalla sfera spirituale buona del padre alla sfera materiale cattiva
della madre, la massima abiezione che si possa immaginare. Per gli ebrei, mangiare carne di ma-
iale equivaleva a una caduta dalla fede di Jahvé, e quindi a una totale perdita di identità. E invece
il figlio mangiò con i maiali a cui doveva fare la guardia! Eppure in epoca matriarcale i guardiani di
maiali erano i sacerdoti dell’oracolo nel tempio della Grande Dea.
Quando il figlio va «dentro di sé», compie il primo passo verso una profonda esperienza di tra-
sformazione e quindi verso la conquista dell’autonomia: abbandonare sia il padre sia la madre. Ma
il figlio ricorda il “paradiso perduto della simbiosi col padre” e non vuole essere libero, ma vuole
farvi ritorno. Invece di diventare autonomo e davvero eroicamente virile, invece di resistere nel di-
stacco dal padre e di separarsi sensatamente anche dalla sfera materna, ritorna al suo luogo d’ori-
gine. Egli regredisce nel “paradiso perduto”. Egli ha la fantasia che essere figlio potrebbe non fun-
zionare tanto facilmente e che sia meglio invece riconquistare, come un servo sottomesso, la rela-
zione simbiotica col padre. E siccome ha anche già interiorizzato questa morale della colpa, si de-
ve presentare come peccatore pentito. Egli non osa intraprendere una strada veramente nuova di
autonomia autentica, maschile, adulta, al di là del padre e della madre. Il figlio è e resta figlio, e
non diventa un vero eroe con un’identità propria. Si riduce a un servo, come le donne si degrada-
no a serve della Chiesa.
Ma ecco che accade il “miracolo cristiano” dell’incondizionato perdono del padre. La mia im-
pressione, a questo punto, è un’altra. Il figlio ritorna pieno di quei sensi di colpa che il padre stesso
gli aveva inculcato e che lui aveva interiorizzato. Il padre si confronta con il figlio in maniera assai
poco adulta e torna a impossessarsi completamente di lui: invece di renderlo capace di essere li-
bero, col suo “amore incondizionato” (che per me è il contrario dell’amore vero) distrugge tutti i
passi, fecondi e infecondi che il figlio ha compiuto sulla via del proprio sviluppo. Il padre non lascia
andare il figlio ma ne fa un “eterno ragazzo”. Certo, lo adorna di tutti i segni del potere maschile
(vestito, anello e scarpe), ma ciò che alla fine viene festeggiato è la rinascita del figlio in quanto fi-
glio, niente di più. È questa la dolce maniera in cui il figlio viene violentato dal padre: la castrazio-
ne patriarcale.

Il Cristo perduto
La religione patriarcale è contraddistinta da questo processo psichico del figlio e di molti figli
dopo di lui. È una religione dei figli che sono stati catturati dalla simbiosi col padre spirituale e che
hanno anche attivamente contribuito a farsi catturare. Il posto vuoto dell’inesistente virilità interiore
viene riempito con la “virilità divina”. In questo modo la ferita presente nell’anima del non-uomo
non viene guarita ma bendata. Il prezzo di questa identificazione simbiotica è alto: il figlio rimane
figlio per sempre.
Sembra essere questo il vero dramma del mito patriarcale: il “vecchio re” non è disposto ad ab-
dicare e a morire. Non è disposto a rimettere veramente il potere nelle mani più giovani del figlio
ed a “costringerlo”, se necessario, ad assumersi la responsabilità da solo, senza padre e senza
madre, diventando così un uomo veramente adulto.
In epoca matriarcale, il mortale re di un anno era il rappresentante dell’impulso creativo maschi-
le che ogni anno, dopo le nozze sacre, si deve sacrificare o viene sacrificato per mettere in moto il
meccanismo dell’ulteriore creazione e garantire la fertilità del paese e della donna. Nel modello
uovo-seme, il seme che entra nell’uovo è quel re di un anno che entra e si dissolve nella sfera
femminile della potenza creatrice. Ma la primavera successiva egli sorge a nuova vita come suc-
cessore di se stesso. Questo principio della rigenerazione annuale nella sfera maschile corrispon-
de al principio ciclico femminile della trasformazione del sangue e del suo continuo rinnovamento.
Nel processo di patriarcalizzazione e di presa del potere, il re non vuole più morire ogni anno, non
74
vuole più obbedire al ciclo della natura, ma diventa un re permanente come David, dapprima per
più anni ma in seguito per tutta la vita.
Nel corso di questa transizione verso la figura di un re permanente ci si imbatte nel violento
contrasto fra padre e figlio: il “vecchio” dovrebbe morire perché il “giovane principe” possa prende-
re il suo posto e venga così mantenuto il ciclo della fertilità. Se necessario, qualora il vecchio non
abdichi di sua volontà, il giovane principe dovrebbe lottare contro di lui ed ucciderlo.
Ma nella parabola il “vecchio re” non vuole morire, e il figlio non lo vuole né combattere né ab-
bandonare. È in questa simbiosi patriarcale, e non fra i maiali, che il figlio è veramente perduto. Si
è staccato dalla sfera femminile e non è diventato un “figlio di mamma”. Non è diventato neppure
un figlio senza padre, ma è diventato però il figlio di un superpadre. Il Dio-Uomo, che è un patriar-
ca ma non un padre, ha castrato l’autonomia del figlio e lo ha reso figlio e bambino in eterno. Poi-
ché nella religione cristiana il Dio-Padre non vuole morire e toglie potenza ai suoi figli con un egoi-
stico “amore incondizionato”, tutti i successori di Cristo vengono degradati a “eterni fanciulli”. Il fi-
glio è il non-uomo che è stato gravemente ferito nell’anima non perché non ci fosse un padre con
cui compiere l’identificazione maschile, ma perché c’era un superpadre: il patriarca!
Al posto del vecchio re che dovrebbe morire, nel mito cristiano muore sulla croce il figlio; infatti
sembra che Gesù, con la parabola del figlio perduto, abbia voluto descrivere la propria strada per
conseguire l’individuazione, oppure la tradizione cristiana ha voluto indicare la via di individuazio-
ne del cristiano nell’imitazione di Cristo. A mio parere, già con questa parabola si è programmato
in anticipo il fallimento di ogni tentativo d’individuazione maschile e di ogni tentativo di conseguire
un’autonoma totalità maschile nell’imitazione di Cristo. Gesù, il figlio del patriarca che si dice sia
morto al posto dell’umanità per espiarne i peccati, in realtà è morto al posto del “vecchio re”. Un
Dio-Uomo che sacrifica il proprio figlio non merita il titolo di padre. Nella parabola non si celebra
neanche, come dicono gli esegeti, la “resurrezione” del figlio, ma il contrario, l’abbattimento e la
sottomissione del figlio al padre. Poiché è morto chi non doveva morire, il padre ha tutte le ragioni
di festeggiare, dal momento che rimane al potere.
Se i figli cristiani riescono a staccarsi dai “maiali” ma poi si rifugiano infantilmente nel paradiso
della simbiosi col superpadre, la religione patriarcale non ha possibilità vere di rigenerarsi a suffi-
cienza e di tornare continuamente a essere creativa e feconda. Si irrigidisce nella sindrome del
vecchio re. Secondo questa parabola, il Dio-Padre non è il «creatore del cielo e della terra» ma è,
proprio lui, quello che non osserva le leggi di rigenerazione del cosmo. Ma come può un Dio crea-
tore chiamarsi fuori dalle leggi cicliche che sarebbe stato proprio lui a creare? È un anticreatore
perché, pur di rimanere al potere, abolisce le leggi della rigenerazione ciclica. Una Chiesa con
questo errore mitico è davvero “perduta”.
Non è la “madre divoratrice”, tanto spesso citata, che fa perdere il figlio, ma la piena identifica-
zione di questo col patriarca e con le sue leggi anticicliche, e la rinuncia del figlio a sostenere con
successo l’eroica lotta contro il patriarca e le sue norme. Da due millenni la dipendenza dal Dio-
Padre e l’identificazione col superpadre sono i processi psichici attraverso i quali i successori di
Cristo, purtroppo davvero in conformità con la parabola, sono diventati degli eterni figli che, non
osando lottare contro i padri e contro le norme dei padri, preferiscono rinchiudere la cinghialessa
nelle norme della cappella, dalle quali poi loro stessi fuggiranno con l’astuzia.
La dea-maiale matriarcale non ha colpa della castrazione spirituale dei suoi figli e dell’impoten-
za che essi scelgono “volontariamente” nel celibato. Contrariamente a tutte le interpretazioni mo-
rali che di questa parabola sono state date, il suo vero significato è che nel cristianesimo l’uomo
“si castra” da solo riducendosi a un non-uomo. Adesso la rabbia dell’uomo ha bisogno di un capro
espiatorio? È per questo che la dea viene combattuta con tanto fanatismo e le donne vengono im-
prigionate con tanta crudeltà? In ogni nuova crisi di identità il figliuolo perduto deve dimostrare la
propria potenza usando il potere con rigore. Siccome il figlio identificato col patriarca, per poter
compiere la piena identificazione col Dio-Uomo, ha dovuto staccare da sé i campi energetici ma-
triarcali dei maiali, molti figli soffrono atrocemente, malati di nervi perché nella loro anima sono
andati perduti i maiali. Questa perdita si manifesta negli sterili atteggiamenti conservatori che as-
sumono, e si presenta come irrigidimento in norme, come ostentazione di potenza attraverso la ri-
gorosa applicazione delle leggi.

75
Caduto nella totale identificazione col “vecchio re”, il padre della Chiesa (o il figlio della Chiesa)
diventa a sua volta vecchio e malato, si irrigidisce e dovrebbe “morire”. Ma il tragico è che egli si è
identificato non con il figlio ma col patriarca, che non può cedere il potere. Il cristianesimo non è
un cristianesimo ma un teistianesimo10.
«Io e il Padre siamo una cosa sola»11: questa originaria professione di fede del cristianesimo
mostra con estrema chiarezza il conflitto nevrotico da simbiosi che s’instaura fra padre e figlio. Per
liberarsi dalla simbiosi, il figlio Gesù non aveva altra scelta che la morte, perché all’interno di que-
sta relazione simbiotica non aveva alcuna possibilità di diventare veramente un uomo adulto. Se il
padre della parabola fosse stato un buon padre desideroso che il figlio crescesse, lo avrebbe co-
stretto, se necessario, anche a lasciare per la seconda volta la casa paterna. Ma il patriarca ama
soltanto il non-uomo, il “figliuolo perduto”.
L’errore non dipende dal mito in sé: è quello che la tradizione e la canonizzazione di Costantino
hanno fatto di Gesù che ha prodotto un atteggiamento cristiano di sottomissione ai superpadri ed
ai padri della Chiesa.
Come le figlie si sacrificano masochisticamente nella vita quotidiana per rivestire i ruoli femmini-
li patriarcali, così si è sacrificato il figlio cristiano rifiutando la lotta col padre. Se i figli osassero in-
traprendere questa “lotta con il drago” contro il superpadre, se osassero addirittura sconfiggerlo e
ucciderlo, allora anche in una religione maschile ci sarebbe la possibilità di nuovi e fecondi svilup-
pi. Diventerebbe possibile un nuovo rapporto coi maiali al livello psichico matriarcale, e con esso
una più integrale spiritualità. Se le figlie osassero rifiutare la sottomissione e la servitù patriarcale,
riconquisterebbero il proprio Spirito-Animus, gli aspetti fecondi della psiche maschile, e la capacità
di non sacrificarsi più assurdamente secondo le norme dei padri.
Attualmente la Chiesa costituisce per le donne un “complesso del superpadre” che esercita su
di loro una violenza psicologica. In ogni caso, ogni istituzione vuole figlie-serve inferiori, obbedien-
ti, silenziose, servizievoli, sottomesse: non autorevoli donne-cinghiale.
Ma finché figli e figlie si sottomettono spontaneamente, non possono diventare coscienti che il
“caro padre” è anche un “padre castratore”. I cristiani non sono invasati dai maiali, ma dal super-
padre. Portare alla coscienza questo micidiale errore d’interpretazione cristiano richiederebbe mol-
to coraggio: richiederebbe cioè o la lotta eroica contro il padre e quindi la sua uccisione, oppure
l’abbandono, senza ambiguità e senza ritorno, della casa paterna. Se non si vogliono perdere, le
figlie devono gettare a mare l’educazione che hanno ricevuto, l’educazione alla dipendenza e alla
gratitudine per l’ “amore incondizionato” concesso loro dal patriarca o dall’uomo patriarcale: per-
ché la perfida condizione imposta loro per ottenere questo amore “cristiano” è che esse si sacrifi-
chino e rinuncino a lottare per la propria autonomia.
Ma una religione di redenzione che richiede tali sacrifici non è una religione di redenzione. Il ve-
ro Cristo, il fecondo eroe matriarcale che, come il re di un anno, fa dono della sua vita per amore e
non per sottomissione, questo Cristo che salva è andato perduto nel cristianesimo. Egli è l’uomo
maschile che si affida alle energie femminili come il seme entra nell’uovo. Egli non è l’uomo pa-
triarcale che si sottomette o richiede sottomissione, né dagli uomini né dalle donne. In fondo, que-
sto Cristo ha “ucciso” il superpadre. Non ha riconosciuto le norme del patriarca, fondate sul potere
e sulla sottomissione, ma ha immesso nel mondo la visione di un amore paterno. Ma anche que-
sta visione di amore senza dipendenza è andata perduta nel cristianesimo.
È consentito il sospetto che il Cristo matriarcale non abbia raccontato la parabola del figliuolo
perduto, perché tutta la sua vita parla un linguaggio diverso. Egli non si è assoggettato alle norme
del patriarca dell’Antico Testamento, ma le ha radicalmente gettate a mare con le parole: «Ma io vi
dico...» Egli ha vissuto esattamente il contrario di quello che la tradizione ecclesiastica, che di
nuovo voleva potere ed esigeva sottomissione, ha fatto della sua vita e della sua opera. Nel IV se-
colo, per consolidare definitivamente il potere clericale, questa parabola non cristiana fu accolta
nel tendenzioso canone patriarcale e fatta risalire al fondatore della religione per ottenere da lui
una legittimazione retroattiva alle pretese di potere della Chiesa. Ma Gesù non ha mai proclamato
questo tipo di teismo funzionale all’esercizio del potere.
«Se incontri il patriarca, uccidilo.» Duemila anni di teismo ecclesiastico senza cristianesimo so-
no abbastanza. Duemila anni di teologia senza cristologia sono troppo. La Chiesa cristiana è solo

76
una chiesa teista. Anche perché possa esserci una religione cristiana, il patriarcato deve morire.
Le figlie diventeranno non-teiste e non si piegheranno più sotto gli dei teisti e sotto le norme pa-
triarcali.
Ma non-teismo non significa vivere senza religione. Solo lasciando la casa paterna, una non-
teologa può diventare cristologa. Se le donne lasciano la casa del patriarca, avrà fine anche la
teologia femminista e potrà finalmente avere inizio una cristologia femminista. Scopriremo un Cri-
sto che ci è stato sottratto, un Cristo senza pretese di potere, un fratello fraterno che si rallegra
delle sue sorelle e apprezza i loro doni; un uomo che ha sviluppato nella sua anima un’immagine
della donna integra e sana.
Nella ricerca di una nuova, feconda spiritualità, la mia visione è una religione della fratellanza12.
I sogni di oggi sono la realtà di domani, le visioni la realtà di dopodomani.
Abbiamo dovuto abbandonare la casa materna e lasciare alle nostre spalle il tempo della luna e
dei maiali. Anche se è stato difficile, va bene così.
Dovremo abbandonare la casa paterna, e mettere fine al tempo del sole e dei soli atomici. An-
che se ci fa paura, sarà bene così. Troveremo la “casa dei fratelli e delle sorelle”, e potrà avere
inizio il tempo delle stelle. Ogni stella è un diamante nel cosmo. Anche se intuiamo solo come po-
trebbe essere, in ogni caso, sarà umano. E sarà bene così.

Note
1. E. Pagels Versuchung durch Erkenntnis. Die gnostischen Evangelien, Francoforte, 1981, pagg.
102 e segg. (trad. it. I Vangeli gnostici, Mondadori, Milano).
2. Ibidem, pagg. 96 e 100.
3. Ibidem, pag. 84.
4. Ibidem, pag. 115.
5. E.G. Davis op. cit. pag. 240.
6. Ibidem.
7. Viene mantenuta l’espressione tedesca “figliuolo perduto”, invece di quella italiana “figliol pro-
digo” per rendere il gioco di parole che ne consegue. (Ndt)
8. Matteo, 8:28-34:
9. Luca, 15:11-32.
10. Gioco di parole di difficile resa fra Christentum e Theistentum. (Ndt)
11. Giovanni, 10:30.
12. Il termine tedesco Geschwisterlichkeit deriva da Geschwister, che significa “fratelli e sorelle”.
(Ndt)

77
La legge
nell’Antico Testamento:
il divieto della carne
di maiale
Il contesto storico
Prima di essere elaborate e raccolte per iscritto, leggi come quelle che ci troviamo di fronte nel-
l’Antico Testamento sono state tramandate a lungo di bocca in bocca e quindi hanno conosciuto
molteplici variazioni. Sappiamo che all’incirca intorno al 1200 a.C. gli Ebrei fuggirono dall’Egitto
emigrando nel paese di Israele, la terra in cui doveva scorrere «latte e miele» e in cui probabil-
mente esistevano religioni di più dee con i loro culti e con i loro boschetti sacri. Rahab con la sua
corda rossa sarà stata sicuramente sacerdotessa e rappresentante della dea nel santuario di Ge-
rico. Essa è soltanto un indizio della religione matriarcale esistente nel paese.
Il regno a vita, che si sviluppò anche in segno di distacco dal culto matriarcale del re di un an-
no, aveva bisogno di parecchi secoli per affermarsi. Parallelamente a questo fenomeno le leggi di
natura matriarcale vengono relegate in secondo piano e combattute nella loro rappresentante, la
dea. Contemporaneamente nascono le prime leggi orali che vietano di praticare la religione in
onore della dea. Verso il VII secolo a.C. il maiale sacro della dea diventa nella concezione degli
Israeliti l’animale impuro: iniziano così il distacco e la lotta contro il culto, evidentemente esistente,
di una dea-maiale1.
Ma solo nel IV secolo, dopo l’esilio babilonese, gli Israeliti rimasti nel paese si riuniscono presso
il tempio distrutto di Gerusalemme. Con le leggi che fino a quel momento erano state tramandate
oralmente compongono un codice di leggi scritte, che elaborano col chiaro scopo di suffragare con
esse la loro fede in un dio maschile, innalzando questa concezione a unica religione “vera”. Con la
redazione finale di queste leggi, diventate ormai assai rigide, vengono definitivamente consegnati
al passato la religione delle dee, il loro culto e i loro luoghi di culto.
Anche i legislatori del tempio di Gerusalemme falsificarono l’epoca retrodatando le leggi al tem-
po della migrazione dal deserto per conferire loro, attraverso la persona di Mosé, un’autorità inop-
pugnabile e quasi divina.
Datarono all’inizio della creazione l’idea di un Dio creatore, che ora si presentava maschile. Ma
all’inizio non fu Dio a creare. All’inizio fu la dea a partorire Cielo e Terra. Questa idea religiosa era
molto più antica. Con il codice di leggi del IV secolo si impose il monoteismo israelita. La dea-sa-
pienza, che «giocava già molto tempo prima di Dio»2, fu spinta in secondo piano.
Questa nuova identità religiosa sviluppata dagli Israeliti sembrava legata al rispetto del divieto
di mangiare carne di maiale. Infatti, per distogliere Israele dalla sua via religiosa, all’epoca dei
Maccabei il re Antioco Epifane comandò agli Ebrei, sotto la minaccia della pena di morte, di man-
giare carne di maiale. Ma nel loro profondo amore per la legge gli Ebrei preferirono morire piutto-
sto che calpestarla3. Lo stesso re cercò anche di sconsacrare il tempio facendovi sacrificare den-
tro dei maiali.
Nel simbolo del maiale si concentra non solo l’eliminazione della dea-maiale ma anche il di-
sprezzo per le donne: «Una bella donna senza onestà è come una scrofa con un anello d’oro nel
naso»4. Il profeta Isaia scrive nel VII secolo a.C.: «Una donna bella ma irragionevole è come un
maiale»5. L’uomo proiettava l’immagine interiore del maiale che lui stesso aveva reso impuro sulla
donna e sugli abitanti di Canaan, che vivevano ancora nella religione matriarcale della dea-maiale.
L’area mediterranea offriva comunque molte occasioni per queste proiezioni dell’Ombra. Il co-

78
siddetto paganesimo brulicava di maiali e di dee maiale. In Grecia si prestava giuramento su un
maiale sacrificato oppure sulle setole tagliate al maiale6. Il maiale era evidentemente la massima
autorità religiosa. La dea Demetra e i suoi Misteri eleusini, il cui simbolo centrale è il maiale, ebbe-
ro un’epoca di grande fioritura negli anni fra il 350 e il 328 a.C. Eleusi aveva una zecca autonoma,
e la sua moneta ritraeva un maiale con la fiaccola della consapevolezza. I Misteri eleusini vengo-
no celebrati in tutta l’area mediterranea; i valori femminili vengono venerati ed esaltati nella danza
e in forme di culto altamente differenziate: in Egitto troviamo Iside e la sua bianca scrofa celeste,
mentre intorno a Roma la dea Cerere e il suo maiale sacrificale e in area greca Demetra. Il suo
culto giunge anche nelle vicinanze di Israele, in Fenicia, come mostra il monumento di Eleusi là
rinvenuto.
A Creta il maiale è presente nel culto fino all’età tardo minoica, verso il 1000 a.C. Una moneta
siciliana del IV secolo a.C. attesta la presenza sull’isola del culto della dea e dei maiali. Dalla Troia
di epoca micenea proviene la “scrofa celeste”, con le sue tante stelle che stanno a simboleggiare i
figli-maialini che ogni sera essa torna a partorire collocandoli in cielo. Merita attenzione il nome del
luogo: Troia, che significa “maiale madre”7.
Fra il VII e il V secolo a.C. si formò un altro stupefacente simbolismo del cinghiale, che passò
poi nella figura di Ecate e in tutte le dee-maiale affini. Su monete e su pietre preziose intagliate di
Rodi, della Sardegna e di Mitilene vengono rappresentati cinghiali con ali e piedi umani e in posi-
zione eretta. È possibile che questi cinghiali eretti come esseri umani simboleggino l’inizio di un’in-
dividualità matriarcale che oggi viene in genere associata soltanto a una consapevolezza maschi-
le. In queste figure la dea-scrofa è rappresentata in forma umana. Anche un’iscrizione sul tempio
Neith di Sais rivela che già molto presto la dea recitava il suo credo in prima persona8.
C’è una moneta greca che rappresenta chiaramente la transizione al momento in cui il patriar-
cato si impossessa del maiale. Essa mostra il dio Amore-Eros che cavalca sessualmente il maiale,
lo possiede. Non sono né la futura strega né la donna supersessuata che cavalcano la scrofa, ma
è l’uomo che se ne impadronisce. Mentre in epoca matriarcale la dea troneggiava sulla sua scrofa,
come avrò ancora occasione di mostrare.
Molti miti greci descrivono gli eroi come cacciatori di cinghiali, e questa scena è ritratta su innu-
merevoli monete. Essa rappresenta il processo di soggiogamento e di repressione del femminile,
l’uccisione della dea. Teseo liberò la regione di Crommion dalla “cinghialessa che tutto devasta”;
Ercole, nella quarta fatica che affronta nel corso del suo sviluppo, deve sconfiggere il “verro di
Erimanto” che in origine era una delle forme assunte dal re di un anno, quindi era il campo ener-
getico matriarcale maschile. In quest’epoca gli eroi iniziano a distaccarsi e a lottare contro il pro-
prio livello energetico interiore matriarcale che è il re di un anno; si tratta ancora una volta della
lotta eroica contro la “madre”, come lo è l’allontanamento del figliuolo perduto fra i maiali nella pa-
rabola dell’Antico Testamento.

Il maiale sacro di Eleusi. Museo di Elephsis. Il maiale sacro di Eleusi con la fiaccola.
Moneta di Eleusi, 350-327 a.C.
79
Il maiale sacrificale nei Misteri eleusini. Monumento in Fenicia.

Due cinghiali sacri. Pietra-sigillo proveniente da Creta, tardo minoico.

Cinghiale con piccolo. Moneta Il maiale del cielo con stelle.


proveniente dalla Sicilia, IV secolo a.C. Troia, periodo miceneo.
80
Cinghiale con ali. Moneta di Rodi, Amore cavalca il cinghiale.
VII secolo a.C. Moneta greca, IV secolo a.C. circa.

Cinghiale in posizione eretta con ali La caccia al cinghiale.


e addome umano. Scarabeo proveniente Cammeo proveniente dall’area mediterranea
da Chalcedon, tardo VI secolo a.C.

Di questa serie di “nuovi eroi” fa parte anche Meleagro. Mentre sta dando la caccia al verro del-
la Caledonia, Acaio viene mortalmente colpito dal dente della belva e muore come Adone, l’amato
di Afrodite. Quando il mito mostra dei giovani greci che muoiono di morte improvvisa e precoce, ci
troviamo di fronte alle ultime accuse contro il mito del re di un anno che deve necessariamente
morire per la fertilità del paese. Meleagro, il dio della vegetazione, muore come molti altri ucciso
dal “dente del cinghiale”, la falce di luna: muore cioè la morte della luna.
81
Il mito di Circe, che trasforma i compagni di Ulisse in uomini con la testa di maiale, rispecchia
anch’esso questo processo. Il potere delle trasformazioni, le fasi della luna, che Circe possiede è
ora, nella lotta patriarcale, il potere magico negativo “su” uomini che si devono combattere. Circe
significa “falco”. Essa dà da mangiare ai maiali le ciliege selvatiche di Cronos, il rosso nutrimento
dei morti (!) Si rivela così come la figura tarda, già deformata in senso patriarcale, della “dea-della-
morte-e-del-sangue” nel suo aspetto di sirena. Come Circe, le sirene sono le “figlie di Forcide”
(maiale), ed erano in origine anch’esse “scrofe feroci e impietose”.
Eumeo, il divino guardiano di porci dei Misteri eleusini, accompagna Ulisse “dai rossi capelli”. In
quanto guardiano di maiali, non è niente di meno che l’indovino, il mago e il sacerdote dell’oracolo
della grande dea.
Nel IV secolo a.C. tutto il campo energetico matriarcale del maiale è in piena fioritura. Contem-
poraneamente inizia anche lo stupro commesso dagli dei maschili, che si riflette in modo chiaro
nei miti. Questi fatti indicano l’enorme tensione in cui i sacerdoti di Gerusalemme dovettero redige-
re le loro leggi misogine per potersi affermare e difendere contro l’ambiente circostante di impron-
ta matriarcale, ancora pieno della forza primordiale del cinghiale sacro.

Il maiale impuro e il sangue impuro


I cosiddetti comandamenti igienici manifestano il processo di cambiamento religioso, mostrano
cioè come il campo energetico originariamente sacro del culto matriarcale fu oggetto di una rein-
terpretazione che lo trasformò da sacro a impuro e come questa trasformazione venne sancita per
legge. Questo processo ebbe per le donne effetti sia politici sia religiosi. Le leggi mostrano anche
che nel IV secolo a.C. deve essere esistita una ben chiara coscienza individuale patriarcale, per-
ché furono riconosciute con chiarezza e messe sotto controllo attraverso le leggi le energie del
femminile definite pericolose.
Rende impuri mangiare i cosiddetti animali impuri, soprattutto il maiale. Per questo motivo i
maiali non si possono neppure offrire in sacrificio al tempio9.
Diventa impura la donna attraverso il parto. Se partorisce un maschio, è impura per sette giorni
e deve restare in isolamento per trentatré; se partorisce una femmina, è impura per quattordici
giorni e deve restare in isolamento per sessantasei: cioè deve restare «nel sangue della sua puli-
zia (!)» Infine deve fare (come i lebbrosi) un sacrificio di espiazione e anche un olocausto10.
Rende impuri il mestruo della donna. Durante la mestruazione la donna è impura per sette
giorni. Chiunque e qualsiasi cosa lei tocchi diventa impuro (mentre lo sperma maschile rende im-
puri soltanto fino a sera). In caso il mestruo sia più lungo o si verifichi in un periodo insolito (distur-
bi del ciclo), la donna è impura finché durano le perdite e per altri sette giorni dalla loro cessazio-
ne. Durante il periodo impuro, non può entrare nel tempio perché lo contaminerebbe e morirebbe
lei stessa11.
Rende impuri toccare i morti. Anche in questo caso, l’impurità dura sette giorni e viene cancel-
lata compiendo due volte un’aspersione rituale con una speciale acqua per aspersioni preparata
con la cenere nera di una vacca rossa (!)12 Ma siccome erano le donne a cospargere di unguenti i
morti, ancora una volta erano solo loro a essere colpite da questa “impurità”.
La carne di maiale, la nascita, la mestruazione e la morte sono le circostanze della vita dichia-
rate più tassativamente impure-peccaminose. La tendenza a dichiarare peccati i valori e le espe-
rienze matriarcali è evidente.
THAME è la parola ebraica per dire “impuro”, e significa: “sommerso”, “fangoso”, “sporco”. Ser-
ve anche a indicare una cosa schifosa, brutta, repellente. Nel corso dell’evoluzione morale questa
parola viene utilizzata per indicare l’ “impurità peccaminosa”. Il profeta Zaccaria scrive un intero
capitolo sullo «spirito dell’impurità» e predica la necessità di estirpare l’«idolatria», che in concreto
significa estirpare i valori matriarcali trasformandoli in peccato. Così adesso non è più la religione
matriarcale che si estirpa, ma, in modo più giustificato, il peccato13.
Le parole del profeta Isaia documentano con la massima chiarezza quanto, nel maiale e nel di-
vieto di mangiarne la carne, si rispecchi la lotta della nuova religione dei padri contro i culti ma-
triarcali: «Essi siedono nelle tombe e di notte rimangono nelle caverne, mangiano carne di maiale,
82
hanno nelle loro scodelle orribili minestre, e dicono: “Stai lontano e non mi toccare, perché sono
sacro”»14.
Venerare la dea-maiale mangiando carne di maiale diventa l’offesa più grave che si possa fare
a Jahvé. Queste parole del profeta fanno capire quale epoca di enormi sconvolgimenti fosse quel-
la in cui le leggi contro le dee si svilupparono, si diffusero diventando opinioni religiose dominanti,
iniziarono a imporsi e vennero infine redatte per iscritto. Per gli abitanti di Canaan, mangiare carne
di maiale era una forma di venerazione rituale della loro dea-maiale. Per loro, la carne di maiale
non era impura ma sacra e per questo gli Ebrei vi videro invece la più grave offesa a Jahvé.
Nella parola SACER si è conservata un’enorme tensione, perché essa significa sia sacro sia
maledetto. Che tutto ciò che è sacro sia anche numinoso, sia qualcosa che afferra l’uomo oltre la
sua volontà, e spesso lo spaventa e lo sopraffa, era una delle esperienze primordiali vissute dalla
donna. Poiché anche il sangue della donna fa paura, deve essere coperto da un tabù. Ciò che è
sacro-potente è anche l’intoccabile. Il tabù che serve a proteggere l’uomo si riferisce però esclusi-
vamente al fatto che il sangue contiene il mana, lo spirito soprannaturale, e non alla sua “pecca-
minosità” e “impurità”. L’intoccabilità serve a proteggere dalla forza numinosa del sangue e non
significa affatto che una donna cosiddetta impura debba venire isolata, come è entrato invece nel-
la legislazione sacerdotale.
Il maiale, la nascita, il sangue e la morte sono le esperienze sacre nella religione matriarcale.
Nel culto patriarcale, attraverso le nuove leggi religiose, diventano il maledetto.
Molto chiaramente:

I diavoli della religione di oggi


sono ciò che era santo nella religione di ieri.

Tutte le malattie “spirituali” che hanno le radici in queste leggi misogine dimostrano quanto an-
cora oggi sia attivo nella psiche femminile questo campo energetico distruttivo. Basterà un esem-
pio ad illustrare quello che sto affermando.
Le prescrizioni sul cibo contenute nell’Antico Testamento sono fin nei minimi dettagli di caratte-
re ascetico e contengono indicazioni incredibilmente minuziose per la cucina kòsher (giusta), il cui
scopo è quello di impedire qualsiasi contatto col sangue. Anche l’anoressia dei nostri tempi è di
carattere estremamente ascetico, ed è spesso accompagnata da un rituale estremamente minu-
zioso con cui vengono esclusi determinati cibi. Il sintomo principale di questa malattia prodotta dal
patriarcato è la totale scomparsa delle mestruazioni: il rapporto kòsher non con il cibo ma con il
proprio corpo. È il (giusto!) rifiuto di diventare pienamente donna in una società rigida, perché il
sangue del proprio corpo viene dichiarato impuro e sporco-peccaminoso. Questo dramma della
violenza sessuale-spirituale, e il suo spostamento alla zona orale è, a ragione, per le adolescenti
una cosa “da vomitare” e le anoressiche lo fanno molto spesso.
Il sangue della donna è impuro e rende impuri. Parallelamente nelle leggi dell’Antico Testamen-
to vengono invece attribuite al “sangue dell’uomo” facoltà purificatrici. Le leggi stabiliscono innu-
merevoli sacrifici di purificazione e di espiazione, incentrati sul “sangue maschile” e sulla sua fa-
coltà di purificare dal sangue della donna15. Queste leggi gettano le basi per il completo “imprigio-
namento della scrofa nella cappella”. Non solo in Israele ma quasi contemporaneamente in Egitto,
in India, in Grecia, la sistematica eliminazione dei campi energetici femminili fu fondata su leggi re-
ligiose, mentre il sangue e la potenza creatrice maschili venivano spinti al centro delle nuove reli-
gioni. Il sangue della donna, da cui nasce ogni essere umano, venne maledetto per legge. Il risul-
tato finale di questa trasmutazione si può sintetizzare in una frase:

Il sangue della donna è ciò che un tempo era sacro


perché oggi è quanto viene più
di ogni altra cosa maledetto.

83
Il maiale sacro hys
HYS è la parola greca che significa “maiale”. Nel dizionario enciclopedico di Menge-Guethling16
dopo la spiegazione c’è scritto (naturalmente non senza un punto di domanda, perché non può
essere ciò che non deve essere): «Maiale, quello che partorisce?»
HYSTERA è la parola greca che significa “utero”. In Freud l’isteria divenne l’essenza della pato-
logia femminile intesa come “malattia spirituale dell’utero”. L’isteria è invece la sana (!) protesta
delle donne la cui HYSTERA non è stata riconosciuta. In HYSTERA, utero, è contenuta la parola
HYS, maiale. Il termine latino per HYSTERA è UTERUS.
Allo HYS greco corrisponde il latino sus, medio-alto tedesco SU, SAU. TROIA è il maiale ma-
dre, SCROFA la scrofa madre che scava, che dissotterra. Essa si chiama anche PORKAS, in gre-
co PHORKIS, antico-alto tedesco FARH. FARKELIN indica il maialino, che si chiama anche POR-
CELUS. Un altro termine per indicare il maialino è DELPHAX, e perciò il DELFINO è l’animale ma-
rino fornito di utero. I maialini sono detti anche SUCULAE. Vengono così chiamate le stelle, dette
anche HYADEN. Le stelle vengono dall’HYS, perciò diventano il simbolo dei bambini. In cretese il
maiale si chiama MARIS. Mare e Maria, nomi che alla lettera pare significhino “acqua amara”, so-
no parole formate con le sillabe del maiale. Dal latino PORCUS si sviluppa l’ORCUS, il mondo
dell’aldilà e delle trasformazioni e, più tardi, l’Orco-Ade della dea-maiale. In iachitico il maiale si
chiama PURES, termine che contiene PUR, puro.
Il verro si chiama in antico-alto tedesco EBUR oppure EBAER, in latino ESUS oppure APER.
Questa parola che indica il maiale è contenuta in APRILE ed anche nel nome della dea APHRO-
dite. In francese, aprile si dice AVRil.
In gallico la cinghialessa si indica col termine MOCCUS, in bretone MOC’H. In francese si indi-
ca col termine MOCHETÈ una donna sporca, sudicia. In antico-alto tedesco maiale si dice SVIN, e
la dea Freya cavalca HildiSVINI. Freya ha anche il soprannome di SYR, che significa scrofa". Il
nome della SIRia potrebbe essere derivato dalla dea-scrofa.
In sanscrito-ariano maiale si dice VARAHI. La sillaba del maiale VA si ritrova in FEARH (ingle-
se), FARK (antico-alto tedesco), VERCHEL (medio-alto tedesco) e FERKEL (alto tedesco). Nella
famiglia di parole HYS rientra in anglosassone la parola HOGG, maiale, in inglese moderno HOG,
che in tedesco diventa HEXE (strega), detta anche HAGAZussa18.
Nel Medioevo il maiale è giustamente l’animale della strega. Molti popoli in Gallia, in Germania
e nell’area mediterranea hanno nel loro nome una sillaba del maiale, per esempio i VANdali, i Cel-
tiBERI, gli EBURoni e i FIR-Bolg gallici, gli ABARini della Germania meridionale e gli HABIRII se-
mitici, cioè i futuri Ebrei.
Alla sillaba del maiale FER-PER appartiene anche l’antichissima Frau Holle -dea PERchta, che
come APHRodite era una dea-maiale. Non si può non riconoscere che anche il nome Gesù si svi-
luppò da Esus. Questa famiglia di parole che si estendeva in tutta l’Europa e in tutta l’Asia anterio-
re è legata alla parola del maiale HYS e descrive ampiamente il significato del maiale sacro e del-
la dea-maiale e insieme anche la potenza della HYSTERA, l’utero della donna.
La parola HYSTERA è composta dalle parole HYS e TERÉO. La formazione delle parole compo-
ste non è frutto del caso ma dell’esperienza corporea. La parola ebraica per TERÉO è NĀZAR, e
significa fare attenzione nel senso di tenere nascosto. Il plurale sostantivo NEṢ#¯UṚ#¯IM si tra-
duce con “caverne”, “posti riservati”, “luoghi di misteri”19. La stessa parola ebraica ricorre in quel
testo di Isaia che attaccava gli abitanti di Canaan perché se ne stavano nelle caverne e mangia-
vano carne di maiale.
TERÉO ha i significati di: “sorvegliare”, “fare attenzione”, “osservare”, “custodire”, “proteggere”,
“serbarsi” nel senso di “vivere ritirato”, “difendersi” nel senso di “proteggersi da qualcosa”.
L’isolamento della donna “impura” nell’ebraismo risale ai riti del menarca cui venivano sottopo-
ste le fanciulle in epoca pregiudaica. Davanti a ogni villaggio c’era la capanna in cui le fanciulle e
le donne mestruate si ritiravano per rispettare la sacralità del mestruo.
Agli uomini era interdetto l’accesso a questo teMENOS, l’area sacra. Quando aveva il menarca,
la fanciulla, in mezzo a grandi rituali, veniva condotta nella capanna, mentre tutta la tribù attende-
va con emozione il suo sogno, che era considerato un oracolo per tutta la vita della donna e un

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oracolo anche per tutta la tribù. Il temenos era “la cosa più sacra di tutte”. Dentro di esso veniva
custodito e venerato il sangue, ed annunciato l’oracolo. Questo ritiro, che aveva la funzione di ser-
vire il sacro, fu trasformato dalla legge ebraica nell’isolamento delle “impure”.
Le caverne del culto degli abitanti di Canaan erano quindi i luoghi misterici del sanguinamento,
della nascita e di tutti i riti del menarca. Erano le HYSTERA esteriorizzate in luoghi di culto. Que-
ste caverne, fuori come dentro, sono misteriose, sono quanto c’è di più sacro, che va custodito,
protetto, osservato. La Hystera è il maiale da custodire, l’area sacra, la caverna da tenere segreta,
il posto dei misteri del sangue e delle sue trasformazioni.

Il maiale è quanto di più sacro esiste.


È il vaso simbolico del sacer mens.

Ogni mito vero ha come valore centrale la venerazione del sangue. L’invidia che l’uomo nutre
per il sangue femminile creatore di vita, unita all’esperienza del proprio sangue, che vita non crea,
portò a distruggere la sacralità del sacer mens. Siccome nessun uomo porta dentro di sé questo
sacramento del sangue, in tutto il mondo gli uomini hanno cercato di compensare questa loro
mancanza. Ma quando l’uomo fa scorrere il sangue, che sia con una ferita simbolica o nelle sue
“non sante guerre”, non crea vita bensì solo ferite e morte.
Il mistero della trasformazione del sangue è il valore centrale della religione. Nella religione pa-
triarcale cristiana, il portatore di questo sangue diventa Gesù: ma il suo è sangue maschile, che
scorre con la morte. Dopo la demonizzazione del sangue femminile e la santificazione di quello
maschile la religione cristiana si concentra sull’uomo sulla croce, il cui sangue deve garantire la vi-
ta eterna. Il «sangue del Nuovo Testamento» (Matteo 26:28) «ci purifica da tutti i peccati» (I Lette-
ra di Giovanni 1:7). Attraverso il sangue di Gesù otteniamo «redenzione» (Lettera agli Efesini,
1:7), e il suo sangue è la «vera bevanda» (Giovanni, 6:55). Il suo sangue rende gli uomini “fratelli
di sangue” in una “società di uomini”. Che il sangue di un uomo ucciso dagli uomini debba garanti-
re vita eterna è privo di ogni concretezza, è un’idea astratta dell’immortalità non verificabile da
nessuno.
Il sangue delle donne, che scorre senza ferite, senza uccisori e senza uccisi, ma che col suo
ciclo rigenerantesi nella madre e nella figlia rende possibile e garantisce la vita eterna su questa
terra, questo sangue è concretamente sperimentabile e verificabile da ogni donna.

Note
1. Isaia, 65:4.
2. Proverbi, 8.
3. I Libro dei Maccabei, 1:50 e segg. II Libro, 6:18-31, 7:1-41.
4. Proverbi, 11:22.
5. Isaia, 66:3.
6. Pauly-Wissawa Real-Enzyklopädie der klassischen Altertums, 1921.
7. 0. Schrader ReaIIexikon der indogermanischen Altertum Stunde, vol. 2, 1929, pag. 359.
8. G. Weiler Der enteignete Mythos, Monaco, 1985, pag. 62.
9. III Libro di Mosé, 11 e V Libro di Mose, 14.
10. III Libro di Mosé, 12.
11. Ibidem, 15:31.
12. IV Libro di Mosé, 19.
13. Zaccaria, 13.
14. Isaia, 65:4.
15. II Libro di Mosè, 4:6 e segg.
16. Mange-Gűthling Enzyklopädisches Wörterbuch, Berlino, 1913.
17. J. Markale Die Keltische Frau, Monaco, 1984, pag. 150.
18. 0. Schrader op. cit. e Pauly-Wissawa op. cit., sotto la voce Schwein.
19. W. Genesius op. cit. sotto la voce näzar.
85
IL MAIALE:
L'UTERO COSMICO
Perché io sono la prima e l'ultima
Sono l'onorata e la spregiata
Sono la donna facile e la per bene
Sono la donna e la vergine
Sono la sterile eppur ricca di figli
Sono il silenzio, l'inconcepibile
Sono la pronuncia del mio nome.

Testo gnostico
da: Il tuono, l'intelletto completo

C'è una cosa


che è indistintamente compiuta.
Essa viene prima della nascita del cielo e della terra.
Com'è quieta!
Com'è vuota!
Autonoma e immutata,
da nulla impedita nel suo corso circolare
la si può considerare la madre del mondo.
Laozi

Introduzione
Dopo aver cercato nella precedente sezione di illustrare il processo di distruzione dei campi
energetici femminili, adesso voglio analizzare il campo energetico della complementarietà di uovo
e sangue nell'utero. Dal codice biologico dell'uovo si sviluppano nella mitologia i simboli delle stel-
le e della luna piena; dal codice biologico del sangue si sviluppano i simboli mitici della luna nera e
soprattutto della coppa di luna nera coricata. Il vaso-utero viene simboleggiato mitologicamente
nel cinghiale.
Per illustrare gli effetti di questi campi energetici femminili devo risalire, per così dire, agli “esor-
di del mondo”, a un’epoca in cui la donna primordiale era consapevole del suo utero, del suo ciclo
mestruale e della sua capacità di partorire. Quando nella femmina del primate si sviluppò il ciclo
mestruale, allora ebbe inizio biologicamente la formazione dell’uomo. Parallelamente alla spinta
all’evoluzione si compì anche la spinta alla formazione della coscienza spirituale. Partendo dall’e-
sperienza del proprio corpo, la donna creò l’immagine mitica del mondo con i suoi ordinamenti na-
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turali ciclici. Partendo dai propri campi energetici dell’utero, dell’uovo e del sangue, “creò” la reli-
gione matriarcale della rinascita ciclica.
È ovvio che posso decifrare solo intuitivamente e approssimativamente questo incredibile pro-
cesso spirituale di sviluppo della coscienza umana e di formazione della religione, processo che si
è protratto a dir poco per oltre 300.000 anni.
Il cinghiale diventa il simbolo del vaso cosmico. La dea-maiale fu la rappresentazione religiosa
della piena potenza della donna di partorire (uovo) e di ripartorire (ciclo mestruale). Affinché noi
donne possiamo riacquisire oggi il senso antichissimo della nostra autorità e della nostra dignità,
voglio mostrare, in alcuni miti e in alcune immagini, che in tutto il mondo l’autorità femminile ha
assunto la forma del simbolo del maiale. Forse così troveremo anche un rapporto col nostro utero-
cinghiale. Poiché questo simbolo ci riguarda ancora oggi, voglio continuare a stabilire collegamenti
fino alla nostra epoca.

L’origine1 della coscienza


«Gli dei sono sempre talmente “originari” che, insieme con un nuovo dio, nasce sempre anche
un nuovo “mondo”, una nuova età e un nuovo aspetto del mondo.»2 Ogni dio dell’Olimpo o del-
l’Antico Testamento ha generato un nuovo mondo e con esso una nuova concezione del mondo e
della storia, l’idea del tempo lineare e dello spazio dominabile. Ma prima dell’immagine patriarcale
del mondo tipica degli ultimi tre millenni, ci fu per lungo tempo un’età matriarcale del mondo, con
un’immagine mitica del mondo “partorita” dalla “donna-dea”. L’immagine femminile del mondo è
caratterizzata in primo luogo dall’esperienza fisica, psichica e spirituale che tutta la vita degli uo-
mini, della terra e del cosmo si rigenera ciclicamente.
La presa di coscienza degli ordinamenti ciclici della natura risale a quella fondamentale espe-
rienza fisica che è il ciclo mestruale. Lo sviluppo nei primati del ciclo mestruale fu l’origine spiritua-
le della formazione dell’uomo3. Le conoscenze della psicologia evolutiva mi hanno aiutata a com-
prendere meglio le singole fasi del processo di sviluppo della coscienza. Ogni neonato è inconsa-
pevole esattamente come lo era la donna dei primordi, il neonato della storia dell’umanità. Prima
di nascere il bambino attraversa tutti gli stadi dell’evoluzione biologica, dall’essere unicellulare al-
l’uomo. L’evoluzione dell’umanità si concentra in dieci mesi lunari. Nella sfera psichica si verifica lo
stesso processo, e un bambino deve riattraversare tutte le fasi di sviluppo della coscienza già per-
corse dall’umanità.
Nei primati la coscienza degli istanti è corporea, riflessa ed automatica. L’uomo mitico inizia a
riprodurre nei miti le sue esperienze fisiche e i suoi riflessi. Così i processi interiori diventano visi-
bili e più coscienti. Ciò che è istintivo diventa cosciente per effetto di uno stimolo corporeo che si
ripete continuamente, finché le esperienze corporee non vengono trasformate in gesti d’imitazio-
ne, che poi danno luogo ad azioni rituali e infine ad azioni coscienti.
Il salto qualitativo della coscienza fu provocato dallo stimolo nervoso della mestruazione, che in
primo luogo incuriosiva per la sua totale novità, e poi si ripeteva regolarmente. Mentre la donna
delle origini affrontava le nuove esperienze di questo sangue, ne veniva stimolato lo sviluppo della
coscienza. Il ritmo sicuro del mestruo fece sorgere un primo senso del tempo: un senso ciclico, in
conformità con quel ritmo. Il ritmo dell’anno è troppo lungo per trasmettere la coscienza della cicli-
cità, mentre i ritmi cosmici degli astri sono troppo lontani dal corpo. Solo molto più tardi fu stabilito
un parallelismo fra i grandi ritmi del tempo e dello spazio da un lato e il ciclo corporeo dall’altro.
Ogni neonato impara innanzi tutto sul proprio corpo. Le figure delle caverne paleolitiche e il colore
rosso in cui sono dipinte rendono chiaro che le esperienze prenatali nell’utero e il ciclo della donna
potrebbero essere stati la base di partenza dello sviluppo spirituale.
In questa fase dello sviluppo della coscienza la donna è l’elemento del sangue ed è la caverna
stessa. La donna “sa” che interno ed esterno corrispondono, e sviluppa così i rituali primordiali,
87
che consistono nel continuare a uscire dalla caverna, ripercorrendo la propria nascita. Attraverso
la continua ripetizione rituale dell’evento della nascita, parallela alla continua ripetizione dell’even-
to del sanguinamento, la donna sviluppa il senso ciclico del tempo e l’idea che anche la propria vi-
ta venga continuamente ripartorita ciclicamente. Per questo l’uomo paleolitico inizia a “seppellire” i
“morti” accovacciati in posizione fetale e cosparsi di ocra rossa, per rendere loro possibile la rina-
scita. L’esperienza della morte come fine della vita nasce solo con la percezione lineare del tempo
introdotta dal patriarcato.
Ma l’esperienza spirituale del come dentro così fuori poteva essere compiuta soltanto dalle
donne grazie al loro utero e al loro ciclo. Ogni nascita avviene dalla cavità del loro corpo. A questo
si aggiunge la constatazione che il bambino nasce dopo che la donna non ha sanguinato per un
periodo piuttosto lungo: quindi il bambino è “fatto” col proprio sangue. Se la donna ha il sangue e
la cavità per partorire la vita, allora ha anche tutto quanto occorre per ripartorirla. L’idea della rina-
scita fu “messa spiritualmente al mondo”, prese forma nei primi riti religiosi e così pervenne gra-
dualmente alla coscienza.
A partire dalla corrispondenza tra interno ed esterno, anche fra la donna primordiale e il cosmo
si avvia lo stesso processo di formazione della coscienza. Come l’utero è il vaso corporeo della
nascita e la caverna del culto è il vaso della rinascita della terra, così adesso la volta celeste viene
sentita come il vaso del cosmo. Lo spazio celeste, con i percorsi arcuati delle sue stelle e i suoi
arcobaleni arrotondati, viene visto come il vaso rotondo dove nascono le stelle, come l’utero co-
smico della rinascita. Nell’epoca del matriarcato semplice, la prima immagine mitica del mondo
dev’essere stata quella di una stella, perché l’idea cosmica della rinascita nacque dall’osservazio-
ne del corso degli astri.
La successiva immagine del mondo del matriarcato evoluto, quella lunare, nacque dall’osserva-
zione della luna e delle sue fasi. Sulla base della sua esperienza di fondo del “come dentro così
fuori”, la donna precosciente stabilì un parallelismo fra il proprio sangue che periodicamente com-
pariva e scompariva e la luna, che periodicamente cambiava fase. A questo si aggiunse la scoper-
ta che le donne avevano le mestruazioni con la luna nera. Poiché l’esperienza di fondo del “come
dentro così fuori” è altrettanto valida se rovesciata in “come fuori così dentro”, la donna diventò
cosciente della ciclica trasformazione del sangue all’interno del proprio corpo. Come la luna si tra-
sforma sopra, nel firmamento, così sotto, nell’utero, si trasforma il sangue. L’immagine lunare del
mondo incentrata sul ciclo luna-mens, segnò a mio parere 30.000 anni di storia spirituale e religio-
sa nel matriarcato.
Contemporaneamente si sviluppò un’altra conoscenza fondamentale, quella del come sopra
così sotto, confermata da vari reperti archeologici. Ad Archenheim, presso Strasburgo, furono ri-
trovate nell’antica valle del Reno delle sfere plasmate con l’argilla circa 300.000 anni fa4. L’univer-
so veniva pensato “rotondo”. A Mas d’Azil gli archeologi trovarono una pietra arrotondata fatta cir-
ca 100.000 anni fa, colorata di rosso. Il cerchio rosso dipinto sulla pietra ha ai due lati delle inci-
sioni che lo dividono in due metà. Questo simbolo descrive con esattezza l’immagine mitico-matri-
arcale del mondo5.
L’idea del mondo come una sfera con una volta superiore e una inferiore nacque dall’osserva-
zione delle stelle. L’uomo notò che esse descrivono nel firmamento un arco da est a ovest, quindi
scompaiono a ovest per ricomparire a est la sera successiva.
Da questa osservazione si desumeva che di giorno le stelle dovevano necessariamente muo-
versi da ovest a est lungo una volta inferiore del firmamento, per ricomparire alla vista la sera. A
questa considerazione si aggiunse l’idea di una via inferiore delle stelle e si sviluppò l’idea mitica
di una regione invisibile collocata “sotto il mondo” e specularmente corrispondente alla regione vi-
sibile della volta celeste. Come sopra visibile, così sotto invisibile.
L’uomo crede di dover compiere anche lui, per poter rinascere continuamente, un viaggio attra-
verso l’emisfero inferiore della terra come fanno le stelle. Riuscendo a concepire il pensiero di un
corso invisibile delle stelle oltre quello visibile, sviluppò l’attitudine al pensiero mitico-simbolico del-
la doppia conoscenza, la capacità cioè di cogliere sempre, dietro il mondo visibile, anche l’essen-
za invisibile del mondo.
L’idea religiosa della volta inferiore dell’universo fu raffigurata dall’uomo mitico nelle “coppette”

88
separate fra loro da una linea orizzontale rossa, sulle quali veniva tracciato con delle piccole frec-
ce l’arco degli astri. Nelle caverne del culto la “coppa inferiore” era conficcata nel suolo, talvolta
scolpita nelle rocce in gruppi di tre o nove pezzi. Nel corso del successivo sviluppo della religione,
le coppe divennero sempre più grandi. A Cnosso, sull’isola di Creta, una grande coppa è confic-
cata nel pavimento di roccia, al centro della sala del trono. La religione primordiale della rinascita
che si compie tramite la “coppa inferiore” è resa eterna dalla pietra. Nel matriarcato altamente e-
voluto, il simbolismo della “coppa inferiore” si trasforma nei vasi di culto, nel mitico Graal, nel pai-
uolo celtico e nel calice cristiano. Poiché la “coppia inferiore” corrisponde alla rinascita dell’uomo,
dal paiuolo scorre il sangue di maiale, dal Graal il vino mescolato, dal calice matriarcale di Eleusi il
sangue mestruale e dal calice cristiano, che si svilupperà da questi suoi precursori, il vino rosso.
Agli inizi dello sviluppo della coscienza la donna plasmava una pietra rotonda con un punto
rosso-sangue nel centro. Questa pietra fu rinvenuta nella caverna di culto di Mas d’Azil. Forse era
il primo “calice” per il sangue sacro della donna. Il simbolo è completo e semplice. Tutto ciò che è
essenziale è semplice.

NOTE
1. Dal tedesco Ursprung, la cui composizione viene messa in rilievo dall’autrice (Ur-Sprung) per
sottolineare il significato etimologico di “salto primordiale”. (Ndt)
2. C.G. Jung, K. Kerényi Eingührung in das Wesen der Mythologie, Hildesheim, 1982, pag. 17
(trad. it. Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Bollati Boringhieri, Torino).
3. La traduzione letterale, che rispetta il significato etimologico di Ur-Sprung, è: «Con lo sviluppo
del ciclo mestruale nei primati avvenne il salto spirituale primordiale della formazione dell’uo-
mo». (Ndt)
4. R. Fester, M.E.P. König, D.F. Jonas, A.D. Jonas op. cit. pag. 112.
5. E.P.M. König Das Weltbild des eiszeitlichen Menschen, Harburg, 1954, tav. II.

89
La dea-maiale
della nascita
e della rinascita
Un detto, che pare provenga dall’India, recita: «Dio dorme nella pietra, sogna nei fiori, si risve-
glia negli animali e vive negli uomini». Con semplicità e precisione esso descrive le fasi di sviluppo
della religione. Riportando l’esperienza indiana all’epoca matriarcale, si può dire che il divino “dor-
me” nell’elemento del sangue, “sogna” nelle dee degli alberi e “si risveglia” nelle dee-maiale.
La più antica prova che la dea “si risvegliò” nel simbolo del maiale la ebbi dopo la mia prima
conferenza su questa dea. Una partecipante mi informò degli scavi nella “Grotte du Pape” a Bras-
sempouy, nel dipartimento delle Landes, a cui aveva partecipato anche lei. Questa grotta è alta,
dal suolo al soffitto, solo un metro e mezzo, e non ha luce. Non può essere stata utilizzata quindi a
scopi abitativi, ma deve essere servita come caverna di culto. Nel secolo scorso furono rinvenute
al suo ingresso numerose statue di Venere. Nel 1987 furono scoperti in uno strato del Gravettien,
quindi di un’epoca compresa fra il 25.000 e il 23.000 a.C., «deux pattes de suidés», due zampe
simili a quelle di un maiale1. Dallo stesso strato di scavi provengono anche le figure di Venere.
Quindi è intorno al 25.000 a.C. che il sacro “si risveglia”, per così dire, nei maiali, e viene già rap-
presentato anche sotto forma di figura umana. La dea verrà rappresentata ancora per secoli in
forma di maiale, perché l’esperienza corporea della caverna-utero che fa nascere si spiritualizza
nel simbolo mitico del maiale che fa rinascere e in quello della successiva dea-maiale. Il suo cam-
po energetico abbraccia una vasta area che si estende nello spazio dalla Melanesia alla Gallia-
Irlanda, e nel tempo dal 25.000 a.C. a oggi, anche se nel primo millennio a.C. fu notevolmente in-
debolito dalla patriarcalizzazione che si compì in tutto il mondo fino a esser quasi del tutto cancel-
lato verso il 500 d.C.
Una statua di maiale straordinariamente particolareggiata, risalente alla Persia dell’epoca sas-
sanide, mostra che nel VI-VII secolo d.C. il complesso campo energetico dell’uovo-seme-utero
veniva ancora rappresentato e adorato nei simboli stella-luna nera-maiale. Il maiale porta sulla
schiena la stella come simbolo della potenziale capacità della donna di far nascere. Sotto la stella

Maiale con stelle, coppa-falce di luna e ali. Persia, epoca sassanide, VI-VII secolo d.C.
90
si può vedere la luna nera a forma di falce coricata. Con questo simbolismo veniva rappresentato
il ciclo mestruale e con esso la potenziale capacità della donna di far rinascere. Fra i due simboli
ci sono due ali aperte, che illustrano il principio spirituale del femminile perché nelle religioni uffi-
ciali la dea viene spesso rappresentata con le ali. Sul fianco del maiale si può vedere un leone che
attacca un animale. Nella religione egiziana il leone viene rappresentato spessissimo circondato
da simboli di stelle: esso è il simbolo della nascita della primavera, quando la stella del sole torna
a nascere. Attaccando l’animale, il sole “uccide” l’inverno. Entrambi gli animali sono simboli dei ci-
cli delle stagioni. In questa insolita statua di maiale sono rappresentati sia il ciclo del corso degli
astri sia il ciclo cosmico della luna-mens e delle stagioni. La scrofa come utero cosmico è portatri-
ce di tutti gli ordinamenti ciclici della natura.
La dea-maiale delle stelle e della luna nera è sempre e dovunque la dea dell’utero-maiale co-
smico, la dea che fa nascere e rinascere. Le stelle sono i suoi maialini, che la scrofa “divora” la
mattina e “partorisce” la sera. In epoca matriarcale anche il sole è soltanto una stella che la dea
“divora” la sera e “partorisce” la mattina. La dea-maiale è quindi, sia di giorno sia di notte, una dea
cosmica della coppa superiore e della coppa inferiore. Il simbolo della stella associato alla dea si
riferisce al tema della rinascita insito nel corso ciclico delle stelle, ma simboleggia soprattutto la
capacità della dea di far nascere, e quindi la sua autorità politica su figli e nipoti. Ma il processo di
sviluppo della religione è ancora più complesso. Nel simbolo della stella viene rappresentata l’au-
torità della dea nel culto, perché con la sua capacità di far nascere garantisce l’eternarsi della vita
di figlio in figlio, almeno in questo mondo. L’idea matriarcale della “vita eterna”, infatti, non ri-
guarda l’aldilà ma assai concretamente l’aldiquà. Conformemente al codice biologico dell’uo-
vo, nel simbolo della stella è descritta l’autorità, sia politica sia religiosa, della dea-donna.
Anche nel simbolo della luna nera viene descritta la duplice potenza della dea, solo con altre
caratteristiche, dal momento che tutti gli ordinamenti ciclici interferiscono e si condizionano reci-
procamente. Eppure i processi dinamici di ciascun avvenimento ciclico sono diversi. A formare il
simbolo della coppa di luna nera coricata, che diviene il simbolo principale della dea, convergono
tre processi energetici, quindi tre diverse esperienze religiose. La luna nera simboleggia l’evento
ciclico della trasformazione nella sua totalità, cioè tanto il ciclo mestruale quanto la fase lunare.
Inoltre essa è l’espressione religiosa del sangue sacro e dell’evento del sanguinamento, spesso
esperito come sacro. Il terzo aspetto, che per me è stupefacente, è la forma di coppa nella rap-
presentazione simbolica, perché realmente questo tipo di falce di luna si può vedere soltanto in al-
cune regioni della terra, mentre il simbolo della coppa di luna nera coricata si ritrova su tutta la ter-
ra. La falce di luna coricata deve quindi rivelare qualcosa di essenziale sull’immagine religiosa del
mondo propria del matriarcato. Poiché tutti gli ordinamenti ciclici della natura si integrano recipro-
camente, ho il sospetto che col simbolo della coppa di luna nera abbia a che fare il corso ciclico
delle stelle attraverso la “coppa inferiore”. Fra ciclo mestruale e uovo c’è, sul piano biologico, lo
stesso rapporto che, sul piano mitologico, sussiste fra la luna nera e la stella.
La stella e la coppa di luna nera sono i complessi simboli della capacità della dea di far nascere
e di far rinascere, della sua autorità nella politica e nel culto. In molte monete, immagini, statue e
sigilli, la dea compare affiancata da un lato dalla sua stella a cinque, sei o otto punte, dall’altro dal-
la luna nera. In mano regge spesso un vaso oppure una coppa. In seguito le sue stelle diventano
punti o cerchi fatti di punti, che poi daranno luogo alla corona di stelle. I reperti archeologici prove-
nienti dall’area greca sono ricchi di simboli di stelle, e su molte monete sono raffigurate stelle a
cinque o a sei punte. Anche la moneta della dea Demetra, coniata dal 431 al 350 a.C., mostra sul
retro un cerchio di stelle, che nella religione greca diventerà anche il simbolo del ciclo della fioritu-
ra. La scrofa matricina di Troia porta sulla schiena molte stelle (vedi figura pag. 77).
La dea Ariadne compare con una corona di stelle, detta anche “corona del vento del nord’.
“Paese del vento del nord’ era una denominazione della “coppa inferiore”, dell’invisibile aldilà della
rinascita. Questo diadema di stelle lo porta anche la signora cosmica che Giovanni descrive nel
XII capitolo della sua Apocalisse. Molte Marie vengono rappresentate con corone di stelle: anche
l’Immacolata, la “Vergine senza macchia”, porta il diadema di stelle, pur avendo perduto nel cri-
stianesimo ogni autorità matriarcale. Nel Flauto magico di Mozart, composto nel 1791, quindi a
trecento anni dai massacri di donne in Europa, la «regina della notte fiammeggiante di stelle»

91
compare ancora come la cattiva “madre divoratrice” che deve essere vinta e a cui si deve strappa-
re la figlia. Ma le fiabe sanno ancora qualcosa del segreto matriarcale del corso ciclico delle stelle.
Nella fiaba Die hölzerne Maria (Maria di legno) l’eroina si cuce un abito di stelle «di velluto rosso,
su cui devono essere cucite tutte le stelle come pietre preziose». Coperta da questo vestito, si di-
fende dalle persecuzioni del padre, come Dafne da Apollo. La fiaba sa ancora che il cielo “rosso
sangue” simboleggia l’utero cosmico. Ancora oggi il campo energetico dell’uovo si conserva nel
simbolismo delle stelle che si trovano raffigurate su tante bandiere, da quella degli Stati Uniti a
quella dell’Unione Sovietica. Le stelle significano l’ "eterna discendenza” di un popolo e simboleg-
giano la nazione, il popolo e il paese. Le uniformi dei generali rivelano quanto oggi la stella sia as-
sociata al sangue maschile. Con le stelle si decorano i generali che conquistano terre e genti, e
più alto è il grado, più numerose sono le stelle. Sulle spalline, che sono le ali, assai mutilate ma
pur sempre esistenti, delle dee originarie, portano la stelletta della loro autorità maschile fondata
sullo spargimento di sangue. L’alleanza difensiva della NATO ha per emblema una stella a quattro
punte. Malgrado la patriarcalizzazione e il pervertimento del suo significato, il simbolo della stella
continua ad essere un segno di autorità nel mondo.
Un secondo simbolo derivante dal campo energetico dell’uovo-sangue-utero è la coppa di luna
nera della triplice potenza ciclica. Questo simbolo viene già rappresentato nelle corna dei tori di-
pinti nelle caverne dell’Aurignaciano. Esse venivano disegnate come una coppa anche se, dal
punto di vista morfologico, la testa dei tori appariva “storta”. M. König2 scoprì che gli artisti non
sbagliavano a dipingere ma rappresentavano in maniera giusta e precisa la sacralità della luna ne-
ra e dei suoi “corni”. Proprio per le corna a forma di coppa di luna nera, il toro diventò il toro lunare
della dea.
Nel simbolo della testa di toro coi suoi corni di luna è stato probabilmente mitizzato un altro co-
dice biologico. L’utero, che anteriormente ha l’aspetto di una testa di toro, porta attaccate le tube e
le ovaie come due corna.
Il parallelismo è sconcertante. Ancor oggi in medicina le tubae uteri della donna vengono chia-
mate “corna dell’utero”.
I corni della luna nera si trasformano, soprattutto in Egitto, nel simbolo della barca che la vacca
lunare della dea Hathor porta per due volte sotto il suo corpo. In questa barca il sole e le stelle ini-
ziano il loro viaggio di rinascita e così anche, più tardi, il re del sole Ra nelle sembianze dello sca-
rafaggio Chepri. Dalla XXV dinastia, intorno al 700 a.C., ci è giunta una figura femminile che porta
scolpita la barca lunare proprio al posto dell’addome, laddove si trovano biologicamente le tubae
uteri.
Un altro simbolo lunare del sanguinamento è il giavellotto, la lancia o la scure che, soprattutto
dai Celti, venivano raffigurati sulle monete. Giavellotto, lancia e scure non sono intesi come armi,
ma simboleggiano la “morte” della luna, perché la luna “sanguina” e “scompare” per tre giorni e poi
diventa luna nera. I tre giorni neri sono il periodo del flusso mestruale. Da questi simboli mitici del
sanguinamento hanno origine, in epoca patriarcale, le fantasie che la dea sia una “dea della mor-
te”. Questa fantasia di morte o, più precisamente, questa “fantasia di uccisione”, risale anche ai
molti miti del “cornuto”. In epoca matriarcale il cornuto era il re di un anno, che portava i corni della
luna nera come simboli della dignità regale conferitagli dalla dea. Il re di un anno munito di corna
veniva ucciso ogni anno e ricompariva poi come successore di se stesso. I suoi corni di luna era-
no anch’essi un simbolo di sanguinamento che rappresentava la morte ciclica della luna. In epoca
successiva, al posto del re di un anno verrà ucciso il toro.
La coppa di luna nera compare ancora in un altro significativo simbolismo, quello delle braccia
sollevate in alto, che potrebbe essere stato un gesto sacrale che esprimeva la venerazione per la
morte della luna e per il sangue mestruale. Già nelle caverne si incidevano figure in questa posi-
zione.
Anche la figura di avorio proveniente dal Geissenklösterle, antica 32.000 anni, tiene le braccia
sollevate in modo da formare una falce di luna. Perciò sulla parte posteriore è inciso anche il ca-
lendario “lunare”, il calendario della mestruazione, perché la misura del mens è la misura del me-
se.
In Egitto, a Creta, in Grecia ed in Gallia le dee con le braccia sollevate mostrano la loro autorità

92
nel culto. Quando, nelle religioni patriarcali di oggi, i preti sollevano le braccia per benedire, imita-
no con questo gesto la coppa di luna nera. Essi non sanno, e neppure sospettano, che con questa
azione simbolica sono al servizio della dea-cinghiale e si fanno custodi del sacramento femminile
perché, imitando la coppa di luna nera, rappresentano ritualmente il sanguinamento ciclico della
donna.
Dal campo energetico biologico dell’uovo-sangue-utero, l’utero si sviluppò diventando il simbolo
del cinghiale. Il maiale HYS è la HYSTERA di tutta la creazione. Poiché le stelle entrano nella
scrofa-madre cosmica per esserne ripartorite, il maiale viene inteso come il vaso della trasforma-
zione per eccellenza. Di conseguenza i maiali vengono spesso rappresentati come dei vasi.
Alla prima età neolitica del bronzo, risale un vaso rotondo che rappresenta un maiale che tiene
nelle zampe anteriori una coppa, simboleggiante probabilmente il viaggio nel regno degli inferi. Da
Hacilar proviene un vaso di terracotta a forma di maiale, del 5800 a.C. circa. Cinghiale e vaso co-
smico costituiscono un’unità. Della stessa epoca, provenienti sempre da Hacilar, sono giunte fino
a noi delle falci di luna e una figura di dea. La dea, il cui fianco sinistro è dipinto di rosso, tiene le
mani sui seni e mostra una grande vulva rossa3.

Maiale rotondo con coppa. Panormos, Naxos, prima epoca neolitica del bronzo.

Maiale a forma di vaso con apertura sulla schiena. Anatolia, 5800-5400 a.C.
Proviene da Capua un boccale coi maiali del V secolo a.C., che rappresenta una specie di anti-

93
ca cornucopia. In Egitto è stato rinvenuto un maiale di argilla smaltata, aperto sia sopra, come il
maiale di Haçilar, sia dietro dove c’è il chiaro segno di un buco. A Bali ci sono delle lampade a
forma di cinghiale. Un maiale proveniente dal Sussex (Inghilterra) ha una testa che si può togliere
per poi utilizzare il corpo come vaso.
Le rappresentazioni del maiale a forma di vaso sono simbolicamente logiche, perché l’interno
del corpo del maiale viene equiparato all’interno del corpo del cosmo, come mostrano certi miti
della Melanesia. Essi narrano come la volta celeste sia nata dalla schiena e la volta terrestre dalla
pancia del maiale primordiale.
Dal campo energetico dell’uovo-sangue-utero si forma, nella mitologia e nella religione matriar-
cali, la dea cinghiale-delle stelle-e-della coppa-di luna nera. Dall’autorità ciclica di questa dea na-
scono la tealogia e la teacrazia. Il predominio femminile conduce alla creazione di una cultura poli-
tica con strutture familiari sociali-matriarcali, la cui principale caratteristica è il matrilocalismo. In
caso di matrimonio è l’uomo che si trasferisce nel paese o nella città della sposa, aderisce alla sua
religione e si adegua alle strutture sociali del suo paese. La successione è regolata in linea mater-
na, di madre in figlia, e a succedere è la figlia più giovane. La relazione coniugale era assai meno
importante di quella fra fratello e sorella. Il cosiddetto incesto era la maniera usuale di garantire la
successione in linea materna. L’esogamia patriarcale rappresenta invece una forma di pretesa di
possesso. Con l’introduzione del divieto di incesto ebbe inizio la lotta patriarcale contro le strutture
politico-sociali del matriarcato. Col tabù dell’incesto vennero gradualmente dissolti gli ordinamenti
ginecocratici e furono spodestate sia la dea sia la donna reale.
In origine, le strutture della città e dello stato erano ginecocratiche e il culto tealogico. Culto ma-
triarcale e cultura ginecocratica sono strettamente connessi come il ciclo femminile ovarico e quel-
lo mestruale, come le stelle e la coppa di luna nera. La dea-cinghiale aveva la piena autorità sia
politica sia religiosa. C.F. von Weizsächer scrive: «Gli dei incarnano realtà politiche»4. Questa as-
serzione vale comunque per i 40.000 anni di storia delle dee. La dea-maiale fu la personificazione
dell’autorità religiosa e politica della donna nel matriarcato.

Sedere di maiale a forma di vaso da cui scorre il sangue.


Hieronymus Bosch, 1460 (?)-1516, particolare da II giardino dei piaceri.
94
In Europa la potente dea-cinghiale nella sua qualità di custode del sangue ciclico è caduta com-
pletamente nell’oblio. Siccome spesso gli artisti hanno intuizioni più profonde del normale, a loro
non è del tutto precluso l’accesso ai campi energetici femminili. Hieronymus Bosch, un pittore vis-
suto ai tempi dei massacri di donne, dipinse nel ciclo intitolato Il giardino dei piaceri un maiale in
forma di vaso, dalla cui parte posteriore scorre sangue.
Con immagini e miti appartenenti a diverse culture dimostrerò più avanti che il maiale inteso
come utero cosmico è universalmente diffuso e che è stato ed è ancora venerato.
Dovunque troviamo una sconcertante sincronicità nel modo in cui il campo energetico dell’uo-
vo-sangue-utero si sviluppa dando luogo alla religione matriarcale delle stelle, della coppa di luna
nera e del maiale e si differenzia in una dea-maiale cosmica. Culto e cultura della dea e della
donna non erano una “grigia età preistorica”. Con la stessa sincronicità avviene anche in tutto il
mondo, a partire dal 2000 a.C., lo spodestamento di questa potente dea-cinghiale.

NOTE
1. H. Delporte Rapport de Fouilles de Brassempouy, 1987, relazione sugli scavi, non pubblicata,
di cui dispongo il manoscritto.
2. R. Fester, M.E.P. König, D.F. Jonas, A.D. Jonas op. cit.
3. Weltgeschichte der Malerei (Storia mondiale della pittura), vol. 2, pag. 77.
4. C.F. von Weizsäcker Die Tragweite der Wissenschaft, Stoccarda, 1964, pag. 53.

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Il maiale del cosmo
in Melanesia

Il maiale primordiale degli Jalî


Gli Jalî sono un popolo che vive ancora oggi nella regione montuosa dell’Irian-Jaya, nella Nuo-
va Guinea Occidentale. Essi si immaginano la terra come una gigantesca superficie al cui centro
dominano i monti. Nelle valli abitano le tribù. I loro miti raccontano che a Oriente c’è la località di
Masamlu, dove abita il maiale primordiale. Il sole e la luna sono i suoi occhi1. Nella loro concezio-
ne le stelle, partendo da Masamlu, a Oriente, percorrono la volta celeste, formata dalla schiena
del maiale primordiale. Di giorno invece percorrono la volta inferiore del cielo, nata dalla pancia
del maiale primordiale. A Oriente, nel luogo di Masamlu, ricominciano di nuovo il loro cammino at-
traverso il maiale del cosmo.
La luna è paragonata a un «grande, splendente dente di maiale»2. Quando cala, «si uccide», e
quando la sera il cielo si tinge di rosso, gli Jalî dicono: «Sotto il cielo rosso c’è qualcuno che muo-
re»3.
Gli Jalî hanno narrato l’origine dell’umanità come mito del maiale primordiale: «Una volta Jeli
era un albero gigantesco, che stava da qualche parte in Oriente e che doveva essere abbattuto.
Quando cadde a terra, l’albero diventò il maiale, il maiale-Jeli».
Questo maiale creò lo stagno-Mebahi. Mebahi significa: «Io sono diventato sangue»4. In una
variante di questo mito, il maiale primordiale si chiama Kuluk pasam ed è di colore rossastro5. In
un’altra variante il maiale è chiamato Sîmîlîla. Nel mito del maiale primordiale si narra che la Ma-
dre primordiale chiese al figlio di ucciderla. «Quando morì, diventò un maiale. Il nome della donna
era Sîmîlîla, la grande scrofa madre. Anche i suoi denti furono chiamati così.»6
Jeli si manifestò anche come maiale Ururking, e da esso fu fatto «tutto quello che esiste»7.
Benché gli uomini facessero molti tentativi per uccidere questo maiale, non ci riuscirono. Questo
mito narra anche del figlio Kuwilanum, che andò verso Occidente ma trovò la strada sbarrata: «Al-
lora egli tornò indietro col maiale-Jeli e giunse fino alla cascata Inalik. Lì il maiale diventò donna».
Di qui furono plasmati gli uomini. Dal cranio del maiale ebbe origine la casa Tûla, la casa sacrale.
Anche gli uomini che costruirono la casa erano ûsa (sacrali) ed eseguivano dei riti che si chiama-
no ûsane e che in genere sono associati ai maiali. Con i riti dei maiali si riproduceva ogni volta
questo inizio primordiale dal maiale da cui sono nate tutte le cose.
Il maiale primordiale Jeli è identico anche alla Madre primordiale. Esso fonda l’essere dell’uo-
mo, le sue relazioni sociali, il suo culto e il suo ambiente. «La madre di noi tutti è il maiale» è la
frase che esprime questa interpretazione del mondo8. Fra gli Jalî la donna ha ancora oggi una po-
sizione di preminenza e determina la compagine sociale: lo rivela il fatto che «fin dai primordi la
carne di maiale veniva mangiata soltanto nelle case di famiglia, cioè da uomini sposati»9. Giovani
scapoli che vivevano nelle case di uomini soli non ricevevano niente.
Anche fra gli Jalî la donna e il maiale sono associati al viaggio ciclico di rinascita attraverso la
“coppa inferiore”, perché «chi ha mangiato carne di maiale poco prima di morire, anche nell’aldilà
avrà a disposizione molti maiali»10. L’ombra dell’uomo, che di notte lo può lasciare per visitare in
sogno, in estasi e in stato di non coscienza il mondo dei morti, avrebbe raccontato una volta che «i
morti hanno molte giovani donne e molti maiali»11.
Tutti i riti sono sempre associati a banchetti festivi di carne di maiale, il cui significato è sempre
quello di cucinare il maiale primordiale. Non c’è festa del menarca senza che il padre della ragaz-
za abbia a disposizione parecchi maiali. Mentre nel rito si raschia simbolicamente un tubero di pa-
tata dolce, il sacerdote recita:

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«Piccola donna, grande donna,
sangue mensile della donna, maiale sanguinante,
l’impulso della fertilità si abbassa,
il nero di sempre (luna nera)...
cola, cola, gocciola, gocciola,
donna con grasso di maiale, donna con grasso che cola.»12

Allora si dà alla ragazza un bastone col quale essa può attraversare il fiume nato in tempi pri-
mordiali dal sangue del maiale. Sangue mensile, attraversamento del fiume e viaggio nella tomba
e nell’oltretomba introducono la ragazza nel suo ciclo, ma innanzi tutto nell’essenza del ciclo del
sangue come dimensione cosmica. Il maiale che viene mangiato in questa occasione si chiama
wam tûvalî, maiale allargato. Così viene mangiata simbolicamente la luna piena, perché cali se-
condo il ciclo.
Dal giorno del menarca in poi il frutto rosso del pandano rimane tabù per ogni ragazza: il frutto
può provocare forti sanguinamenti, perché la donna primordiale lo ha tinto col suo mestruo facen-
dolo diventare, da nero che era in origine, rosso13. In questo modo il mito narra la trasformazione
ciclica del sangue. Il frutto del pandano corrisponde alla melagrana dell’area mediterranea.
Poiché il “maiale primordiale sanguinante” simboleggia l’utero mestruato, la donna sperimenta
nella sua sessualità l’origine di ogni essere. Questa educazione femminile alla sessualità corri-
sponde all’educazione maschile alla “capacità di culto”. È questa una delle radici della cosiddetta
incapacità di culto della donna. La donna non ha bisogno di nessuna “consacrazione cultuale”,
perché essa è il maiale primordiale. Non ha bisogno dei riti di sangue maschili, perché è il sangue
stesso delle trasformazioni.
Nei riti iniziatici maschili viene raffigurata soprattutto la cosiddetta «deposizione dell’origine del
maiale»14. Con canti e danze rituali gli uomini cercano di «attirare allo scoperto i maiali invisibili»15.
Quando, gridando: «La scrofa madre deve venire» e attirandoli con grasso di maiale, hanno fatto
venire dai monti e dagli stagni i maiali, allora imbandiscono il pasto dei maiali e mettono davanti
agli «invisibili maiali primordiali chiamati» del cibo perché «non muoiano»16.
Tutti i grandi riti sono diretti alla conservazione di questo maiale primordiale. È impensabile che
possa esistere «un rito che si può eseguire senza grasso di maiale»17. Lo Jalî dice: «Abbiamo fat-
to una cosa dei primordi»18. Con ciò quest’uomo che vive ancora in una dimensione mitica non ha
“ripetuto” un’epoca primordiale ma ha responsabilmente “dato forma” al suo cosmo primordiale.
Nel maiale primordiale e nel suo culto tempi primordiali e tempo presente costituiscono un’unità.

Il maiale dell’aldilà nell’isola di Ceram


L’isola di Ceram si trova a est della Nuova Guinea. Nei miti e nei culti degli abitanti di Ceram il
maiale è sempre presente. Tutti i rituali sono associati a sacrifici di maiali. Il mito dei primordi dice
che «gli uomini hanno ricevuto la noce di cocco dai maiali» e che alla fine dei primordi furono am-
mazzati nove (!) maiali, da cui nacquero gli uomini e si diffusero sulla terra. I nomi che gli uomini
ricevettero corrispondevano alla parte del maiale che presero con sé19. In un mito, la madre dice
al suo bambino trasformato in maiale: «Prima anche i tuoi nonni sono stati maiali»20. Nel pensiero
ciclico gli spiriti degli antenati sono identici a quelli dei non ancora nati e appaiono in grandi e
bianchi maiali.
Anche i Ceramesi rappresentavano il maiale primordiale come vaso cosmico e lo dimostra il
“mito del villaggio dei maiali”: «Durante una battuta di caccia, il più anziano di due fratelli giunse a
una caverna, perché il suo cane aveva seguito un maiale. Entrò e giunse alla fine della caverna,
dove c’era un grande villaggio con molte palafitte, nel quale si aggiravano molti uomini. Ma gli uo-
mini erano maiali trasformati, e il villaggio apparteneva ai maiali... »21
Il mitico villaggio dei maiali è l’aldilà dei Ceramesi, la terra dei morti e dei non ancora nati. Così
per avere bambini si seppelliscono anche dei maiali sacrificati. Il maiale è luogo della nascita e
non “madre divoratrice”.
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La fanciulla-luna dei miti ceramesi si chiama Hainuewele. Quando doveva andare sposa a Tu-
wale, «nella capanna al posto della sposa fu messo un maiale, con addosso gli ornamenti e i ve-
stiti della fanciulla»22. Hainuewele, e anche un’altra fanciulla lunare, che aveva nome Rabie, si ri-
fugiarono, sotto forma di maiali, negli stagni, per poter sfuggire al matrimonio.
Che le fanciulle-luna personificano il ciclo mestruale e nel loro viaggio nell’aldilà vengono sepol-
te sotto terra lo narra il mito “Sole-luna e la grande marea”: «In tempi antichissimi, quando gli uo-
mini vivevano a TaMENe Siwa...» (nell’aldilà situato sotto la terra) si narra che un giorno, prima
del matrimonio con Tuwale, Rabie «uscì dal villaggio». Poiché davanti al villaggio si trova la ca-
panna delle mestruazioni, questo mito narra dell’iniziazione della fanciulla ai misteri femminili. Ra-
bie calpesta una radice dell’albero balu: «Quando lei ci fu sopra, la radice sprofondò lentamente
nella terra, e Rabie sprofondò con essa. Per quanto si sforzasse, non poteva più uscire dalla terra
e sprofondava sempre di più. Chiese aiuto gridando, e gli abitanti del villaggio si affrettarono ad
accorrere. Tentarono di disseppellire Rabie, ma quanto più si sforzavano tanto più lei sprofonda-
va. Quando fu sprofondata fino al collo, disse alla madre: «È Tuwale che mi prende. Ammazzate
un maiale e fate una festa, perché adesso io muoio. La sera del terzo giorno guardate in cielo,
perché lì vi apparirò come luce e risplenderò su tutti gli esseri viventi».
Il posto in cui Rabie fu attirata nella terra è Tamene Siwa, il centro del luogo della danza, dove
è situata la caverna cultuale dell’aldilà dei maiali.
La fase di luna nera dei tre giorni di “sanguinamento” e di “morte” viene descritta chiaramente
quando si parla del sole (Tuwale) che “divora” e “inghiotte” la luna. Più avanti il mito racconta che
la luna, dopo essere stata «divorata per tre giorni nel nero che è sotto la terra», tornò ad acquista-
re la forma sottile di un «pettine ornamentale». «Un anno dopo Rabie mandò sulla terra un bambi-
no, destinato ai suoi genitori. Lo fece scendere sulla terra attaccato a una catena di coralli.»23
Rabie-Hainuewele è la personificazione della lunazione.
I miti dei Ceramesi dicono che la donna-luna è identica al maiale primordiale e che questo a
sua volta è identico alla donna. Con i loro miti, i Ceramesi cercano di comprendere l’origine della
loro condizione di uomini e di trovare una risposta alla questione della morte e della rinascita. Al-
cuni ricercatori parlano a questo proposito dei miti lunari di “morte e generazione”: il tipico errore
logico bio-psichico dell’uomo falsifica le interpretazioni. In tutti i miti lunari non si tratta di “morte e
resurrezione”, questa sarebbe soltanto un’interpretazione cristiano-patriarcale fatta a posteriori e
fondata sui modelli attuali del pensiero religioso. I miti della fanciulla-luna descrivono la ciclica
morte della luna, il sangue mestruale, e il rinnovamento della luna come del sangue della donna.
Rabie-Hainuewele è la dea della lunazione. È anche la dea cosmica dei due mondi, della coppa
superiore e di quella inferiore. Al centro di Tamene Siwa, il luogo della danza rituale, è rappresen-
tata la “coppa inferiore” della rinascita. Il rito della danza mostra la trasformazione ciclica attraver-
so la “coppa inferiore”. Per nove notti i danzatori e le danzatrici ballano in una grande spirale, che
si muove lentamente in cerchio verso l’interno. Nella nona notte Hainuewele sta al centro e viene
uccisa, e il suo cadavere viene fatto a pezzi e sepolto. La strada sotto la terra è la morte danzata
della luna, la mestruazione danzata nella fase “nera” del sanguinamento. Nella maggior parte del-
le culture il sangue mestruale veniva realmente seppellito sotto terra. Il periodo di nove giorni indi-
ca la tripartizione sacrale del ciclo mestruale.
Nella rappresentazione rituale della morte della luna viene celebrato anche il periodo nero della
sterilità, quando nell’utero non c’è più sangue. Nella danza sacrale si assume la responsabilità
degli ordini ciclici del cosmo, affinché la luna non scompaia per sempre ma torni a comparire e la
fase sacrale della sterilità “nera” si trasformi nella nuova fase “bianca” della fertilità, sia per la luna
sia per la donna sia per la terra. Il maiale primordiale al centro di Tamene Siwa è il “vaso” di que-
sto eterno processo di trasformazione.
I miti ceramesi non si confrontano con la questione patriarcale della morte ma con i processi di
trasformazione universale, che sono matriarcali nel senso più profondo. Perciò la morte della luna
viene descritta ricorrendo a figure femminili il cui “vaso” è il cinghiale, luogo mitico del sangue ci-
clico e di tutte le trasformazioni.
Nell’area asiatica questa esperienza di fondo si è conservata fino a oggi e continua ad essere
danzata e rappresentata ritualmente. A Bali e a Giava quando si recitano drammi rituali e storici si

98
porta la maschera di Rangda. Il suo viso è dipinto di nero-bianco-rosso, e il suo “corpo” incorporeo
è fatto di corde simili a piume, perché essa è un incorporeo “essere dell’aldilà”. In bocca la ma-
schera porta giganteschi denti di maiale fra i quali “scorre” fuori una lingua “sputafuoco” lunghis-
sima e rossa come il sangue. Comunque adesso Rangda viene già descritta anche come «strega
e rappresentante del principio del male»24. Ma in origine Rangda era sicuramente una dea-cin-
ghiale dalle cui “fauci schiumanti” scorreva il sangue mestruale.

Maschera Rangda con zanne di cinghiale e lingua rossa penzolante.


Bali meridionale.

La benedizione del sangue del maiale nella Nuova Guinea


I miti e i riti della Melanesia rivelano come nel corso della patriarcalizzazione le donne sono sta-
te degradate e il loro ruolo sociale svalutato. Secondo i miti elaborati in maniera evidentemente
tendenziosa, il sangue mestruale è “impuro” ed equivale a un bambino “mancato”, a un “mezzo”
bambino o ad un bambino “morto”. Adesso la placenta deve essere seppellita non più perché con-
tiene mana, ma perché è pericolosa in quanto può provocare malattie oppure indebolire la forza
dell’uomo25.
Nei riti di iniziazione dei fanciulli, per tagliare il cordone ombelicale che li lega alla sfera materna
si tagliano loro i capelli e si sacrifica come nutrimento spirituale (!) un maiale.
Inoltre vengono praticati loro dei tagli e dei buchi perché possa fuoriuscire il cattivo sangue
femminile entrato dentro di loro durante la gravidanza. Alla fine di molte azioni rituali il giovane
viene accolto, con una grande festa dei maiali, nel gruppo di appartenenza dei padri. Il rito essen-
ziale di questa patriarcalizzazione dei giovani è quello del sanguinamento. Il giovane che ha rag-
giunto la pubertà viene condotto a un ruscello. Lì gli viene ficcato nelle narici un mazzetto di can-
ne, finché il “sangue femminile”, quanto rimane dello spirito materno, non scorre nel torrente e
viene lavato dall’acqua26. Anche il pene viene escoriato all’esterno oppure viene fatto sanguinare
sfregandolo all’interno con un legno cosparso di sale. Inoltre viene escoriata anche la lingua. Que-
sto flusso di sangue artificialmente provocato attraverso il naso, la bocca e il pene viene chiamato
mestruazione". I Wogeo chiamano menarca il sanguinamento della lingua28. A questo si aggiunge
anche un vomito provocato intenzionalmente infilando una canna in gola. Alla domanda se anche

99
le donne siano tenute a provocarsi questo tipo di vomito, rispondono che «per loro lo fa la luna»29.
Festa della scrofa, sangue dal naso, sangue dalla lingua, sangue dal pene e vomito costitui-
scono l’uomo patriarcalizzato. In questo modo il sangue di maiale, considerato originariamente
sangue buono delle donne, è diventato adesso il sangue benefico degli uomini, mentre il sangue
femminile è stato reso “impuro” e “cattivo”. Adesso perfino il sangue di maiale viene prodotto se-
condo un rituale maschile. I maiali vengono ammazzati con un colpo alla testa perché il loro san-
gue, come la “mestruazione” degli uomini, scorra dalle narici. Nei riti della fertilità uomini e donne
vengono spalmati con questo sangue di maiale, che viene spruzzato anche sulle piantagioni. Ma
adesso la potenza della fertilità la posseggono i “flauti”, perché sono stati spalmati con sangue di
maiale. I “flauti” appartengono agli uomini. Ora il sangue di maiale è positivo: «Un flauto imbrattato
di sangue è come un pene dopo il coito con una donna mestruata». Ma il coito reale con una don-
na mestruata fa ammalare, indebolisce la potenza virile e si dice provochi la lebbra. I Ngaing rac-
contano che «nei tempi primordiali le donne possedevano i flauti, ma poi li dovettero cedere agli
uomini perché li avevano sconsacrati col sangue mestruale»30. Questi miti mostrano che in tutta la
Melanesia è andata perduta l’usanza del coito sacrale dell’uomo con la sacerdotessa della luna
durante la mestruazione.
«Sul piano spirituale gli uomini pretendono di essere i detentori della potenza creatrice. Nel cul-
to il sangue di maiale possiede un potere estremamente positivo, come estremamente negativo è
quello attribuito nella quotidianità al sangue delle donne. A questo proposito si dovrebbe aggiun-
gere che nel culto avviene spesso un’equiparazione fra il maiale e l’uomo. Il sangue di maiale si
trova sotto il controllo degli uomini, ed anche per questo è benefico. Solo tramite questa potenza
creatrice controllata a livello spirituale, dice un principio religioso fondamentale, diventa possibile
la fertilità biologica.»31
La discrepanza fra la pretesa maschile e la percezione della realtà del sangue femminile, che
crea la vita, si può così sintetizzare: soltanto l’uomo, col “flauto magico” rubato, col sangue me-
struale maschile, fa sì che la donna abbia la possibilità e il permesso di essere fertile. La società
maschile, spinta dalla paura dell’autorità del sangue femminile, tabuizzerà e limiterà con la morale
e con i divieti i rapporti sessuali durante la mestruazione. L’autorità della donna viene “cancellata
dal rito”, e nel rito invece si celebra il benefico sangue maschile.

Note
1. S. Zöllner Lebensbaum und Schweinekult. Die Religion der Jalî im Bergland von Irian-Jaya,
West-Neuguinea, Darmstadt, 1977, pag. 52.
2. Ibidem, pag. 54.
3. Ibidem.
4. Ibidem, pag. 466.
5. Ibidem.
6. Ibidem, pag. 472.
7. Ibidem, pag. 467.
8. Ibidem, pag. 65.
9. Ibidem, pag. 73.
10. Ibidem, pag. 76.
11. Ibidem, pag. 80.
12. Ibidem, pag. 121.
13. Ibidem, pag. 487.
14. Ibidem, pag. 180.
15. Ibidem, pag. 184.
16. Ibidem, pag. 194.
17. Ibidem, pag. 330.
18. Ibidem, pag. 205.
19. A.E. Jensen Hainuewele. Volkserzählungen von der Molukken -Insel Ceram, Francoforte,
1939, pag. 239.
100
20. Ibidem.
21. Ibidem, pag. 231.
22. Ibidem, pag. 13.
23. Ibidem, pag. 51.
24. Java und Bali, Ausstellungskatalog Lindenmuseum, Stoccarda, 1980, pag. 250.
25. B. Hauser-Schäublin Von Terror und Segen des Blutes oder: Die Emanzipation des Mannes
von der Frau, in Wiener völkerkundliche Mittelungen” 19/20, 1977-78, pag. 99.
26. Ibidem, pag. 104.
27. Ibidem, pag. 106.
28. Ibidem, pag. 111.
29. Ibidem, pag. 107.
30. Ibidem, pag. 109.
31. Ibidem, pag. 112.

101
La dea-maiale danzante
dell’India

Riti del menarca fra i Tamil1


I riti del menarca che ancora oggi vengono celebrati fra i Tamil risalgono a un sapere antico.
Con una suggestiva festa del menarca dal cerimoniale assai colorito i Tamil rendono noto il loro
status sociale e fanno sapere che la figlia è ormai in età da marito.
La festa del menarca, alla quale sono invitati tutti i parenti, inizia con un bagno purificatore il
primo giorno delle mestruazioni. Cinque donne anziane tengono sul capo della ragazza un vec-
chio setaccio contenente oro, fiori, radici di curcuma e rubini oppure pietre color rubino. Quindi lo
zio paterno versa sulla fanciulla, attraverso il setaccio, la prima brocca d’acqua, e dopo di lui tutte
le donne presenti fanno altrettanto. Segue quindi l’ingresso solenne nella capanna, costruita ap-
posta dallo zio. La ragazza deve varcare la soglia col piede destro. Indossa un sari nuovo e orna-
menti, e viene massaggiata con pasta di legno di sandalo. Nella capanna cinque o sette o nove
donne fanno girare tre volte sulla testa della fanciulla un disco in cui c’è acqua mischiata a radici di
curcuma. Dopo questa cerimonia l’ultima donna fa bruciare della canfora. Oggi si dice che serve
contro il malocchio. È molto probabile che questo rituale del bruciare abbia antiche origini matriar-
cali. I miti eleusini di Demetra raccontano che la dea tenne sul fuoco il figlioletto Demofonte per
renderlo immortale col fumo. Ancora oggi, nelle cosiddette culture primitive, gli uomini si mettono
accanto al fuoco nella direzione in cui soffia il vento, per diventare immortali col fumo. La ragazza
riceve dolciumi e frutta, «perché sia chiaro che si tratta di un evento gioioso». Impressiona l’accu-
rata e sontuosa scelta dei cibi per tutto il periodo delle feste. Mestruazione e cibo, vagina e bocca
sono in relazione fra loro, come mostra l’esperienza. Il bagno di purificazione conclusivo ha luogo
il nono giorno. Mentre la fanciulla fa il bagno, la capanna viene portata via e bruciata ben distante
dalla casa. Il rito è ancora pervaso dal ricordo che un tempo la capanna della mestruazione di tut-
te le donne era fuori, davanti al villaggio e che il sangue veniva seppellito o bruciato davanti al vil-
laggio oppure veniva sparso sui campi.
I Tamil dicono che questa festa è importante quanto la festa di nozze. Astrologicamente e mito-
logicamente poi essa rappresenta anche le sacre nozze della luna e del sole. Con la luna nera del
sanguinamento, la sacerdotessa-dea ed il re sacrale si unirono carnalmente.

Vajravārāhī, la scrofa danzante del diamante


I riti del menarca indiani risalgono alle dee matriarcali Lakshmi e Vajravārāhī e sono più antichi
degli dei vedici, che si imposero solo nell’VIII secolo a.C.” La più antica dea-maiale indiana è Vaj-
ravārāhī. Tradotto alla lettera, il suo nome significa: “scrofa del diamante”. Essa è colei che domi-
na sulle «divinità femminili sdegnate, danzanti»3. In essa si è personificato il campo energetico
“danzante” del ciclo mestruale.
La più antica rappresentazione della scrofa del diamante è pre-vedica, quindi risale all’incirca al
1000 a.C. Tutta la testa è ancora una testa di maiale. Dalla bocca le pende una lunga lingua e sul-
le ginocchia porta un bambino. L’intero campo energetico dell’uovo-sangue-maiale è rappresenta-
to. Vajra significa diamante, che nell’area asiatica è sempre anche simbolo della stella. La stella a
sua volta è simbolo della capacità della dea-maiale di far nascere e rinascere. La stella a sei punte
è il mandala della dea Vajravārāhī. Sotto la sua stella, al cui centro la dea troneggia, è ritratta la
dea del sangue dPal-Idan-lha-mo. Essa è la dea degli elementi del sangue sacro e per così dire la
“madre” di Vajravārāhī. dPal-ldan-lha-mo cavalca su un mulo rossiccio sul rosso oceano di san-
102
gue4, dal quale secondo i miti della dea è nato tutto l’universo. In mano tiene il tridente, un anti-
chissimo scettro matriarcale segno dell’autorità e della tripartizione sacrale del ciclo. Essendo la
dea primordiale dell’elemento sacro, nello sviluppo della religione essa è il fondamento su cui si
sviluppa poi la dea-maiale Vajravārāhī. La stella a sei punte della scrofa di diamante è rossa, ed è
migliaia di anni più antica della stella di David che da essa deriverà, sarà assunta dalla religione
patriarcale e degenererà diventando un segno politico del possesso di terre.

La dea Vajravārāhī (scrofa del diamante) La stella a sei punte, il mandala


con testa di maiale. India, periodo pre-vedico. della dea Vajravārāhī.

In rappresentazioni più recenti Vajravārāhī porta la sua testa di maiale con la lingua penzolante
dietro l’orecchio destro. Il ventre è ricoperto da una rete, che già nelle pitture delle caverne aveva
un ruolo importante. Quando l’uomo del neo-paleolitico scolpiva nelle rocce la sua idea religiosa
del viaggio nell’aldilà in forma di coppette, spesso disponeva nove coppette in gruppi di tre in mo-
do da formare un quadrato. In epoca successiva unì fra loro queste nove coppette con delle linee
orizzontali e verticali, e così nacque il simbolo della “rete celeste”. Reti, cesti e setacci sacrali ven-
gono utilizzati spesso nei riti del menarca e nelle danze e simboleggiano l’autorità sul firmamento
della dea delle stelle e dei maiali. Gli Jalî dicono perfino che nella loro rete sacrale Mûrûwal pen-
dono il sole e la luna. Vajravārāhī con la sua veste sacrale dichiara la sua autorità sul percorso
delle stelle, sia su quello superiore sia su quello inferiore. Intorno al collo porta un serpente con tre
volte tre teste tenute insieme da una croce trasversale. Dal simbolo della croce trasversale si svi-
luppò, già nell’epoca della pittura delle caverne, l’idea dei “quattro angoli della terra”, dell’autorità
politica mondiale della donna e della dea. La collana contiene la ghirlanda di uova, che in molte
culture compare anche come cerchio di stelle o di perle, fino al rosario del culto cristiano. Stella-
uovo-fiore-perla in cerchio indicano il viaggio di rinascita delle stelle sulla rete inferiore del firma-
mento. Sulla fronte, la scrofa del diamante ha il “terzo occhio” della saggezza, e sulla testa porta il
diadema del ciclo dalle cinque figure, simbolo dell’eterna rinascita “dalla morte”. Purtroppo nell’in-
103
terpretazione patriarcale questa corona viene chiamata sempre “corona del teschio”.

La dea Vajravārāhī con la testa di maiale dietro l’orecchio destro.

Il colore iconografico della scrofa di diamante è naturalmente rosso. Il suo incedere nel cielo
con passi a destra e a sinistra mostra il percorso delle orbite delle stelle. I gesti delle mani della
dea sdegnata indicano che essa contiene mana ed esprimono quindi la proibizione di avvicinarla
troppo. Tutti i simboli e il suo intero corpo sono “ricordi” del campo energetico primordiale del ciclo
del sangue. Essa è la perfetta personificazione della mestruazione sacrale, una scrofa selvaggia,
danzante, adirata!
Con la sua danza sul cielo è anche la suprema forza divina che domina su tutte le divinità ros-
se, le DAkinis, che danzando rappresentano il cosmo rotondo e le sue trasformazioni. Quando la
scrofa del diamante danza, e con lei tutte le donne nella ridda del cielo, ciò che rappresenta è la
fede nella capacità di rinascita della dea. La danza della ridda “sul cielo” è un’antichissima espe-
rienza del ciclo, che proviene dagli esordi della formazione della coscienza.
Il più antico documento della danza sacrale proviene dagli uomini di Aurignac, nelle caverne di
Colgul nella Spagna nordorientale. Si calcola che abbia dai 25.000 ai 30.000 anni. Nove donne
danzano in un semicerchio intorno a un uomo nudo, che viene ucciso e la cui “anima che fugge” è
rappresentata in un piccolo spirito dalle forme di un ragazzo. Le nove selvagge danzatrici sono di-
vise in gruppi di tre. A destra danzano tre fanciulle, al centro si trovano tre donne vigorose coi ca-
pelli d’oro e sul lato sinistro sono dipinte tre donne vecchie e magre, l’ultima delle quali, quella sul
lato più esterno, è estremamente emaciata e ha il viso di «una luna vecchia»5. Esse danzano in
senso antiorario e rappresentano chiaramente l’intera lunazione nella sua tripartizione sacrale e
quindi il ciclo mestruale con le sue tre fasi di nove giorni ciascuna. Davanti alla donna più vecchia
e consunta della fase della luna nera si trova un maiale nero, la cui parte anteriore è coperta dalla
104
sua gonna. Le nove donne selvagge danzano la morte della luna del re sacrale. Facendo riferi-
mento alle stagioni, danzano la festa del solstizio d’inverno. Questa danza è il linguaggio della lu-
nazione e l’uomo, che deve morire ritualmente in conformità col ciclo lunare, è il re sacrale ma-
triarcale della dea del cambiamento della luna. Egli non viene “ucciso” ma viene mandato a com-
piere il viaggio di rinascita attraverso la “coppa inferiore”.
Nelle danze di Vajravārāhī le danzatrici non ricevevano un’istruzione religiosa sugli ordinamenti
ciclici dell’universo, ma li “vivevano”, diventavano una cosa sola col tempo primordiale e con l’es-
senza del mondo. Nella ridda il ciclo viene “suscitato-capito” coi piedi e “afferrato-compreso” con
le mani6. La danza del maiale eseguita dalla scrofa di diamante è partecipazione alla festa cosmi-
ca e alle sue eterne trasformazioni. Tutto quello che si è sviluppato come religione, arte, cultura,
risale agli inizi di questa danza cosmica, alla danza della dea-del sangue-e-del-maiale nel cielo.
È fuori discussione che Vajravārāhī, la scrofa del diamante, sia la potente, selvaggia, adirata,
rossa rappresentante danzante dell’ordinamento ciclico e matriarcale del mondo. Si deve andare
nelle caverne di Neanderthal a vedere le immagini dipinte sulle pareti dai primi uomini del neopa-
leolitico per riconoscere quanto universali siano nello spazio e nel tempo la dea-maiale Vaj-
ravārāhī e le danze della mestruazione e della lunazione che la cosmica scrofa del diamante ese-
gue sulla rete del firmamento. Vajravārāhī è un unico campo energetico danzante, simbolo degli
inizi dello sviluppo della coscienza!

Kālī con zanne di cinghiale nella posizione rituale della mestruazione. XVIII secolo d.C.

Nello sviluppo della religione indiana dPal-Idan-lha-mo è la dea primordiale dell’oceano di san-
gue. Da essa nella fase successiva si sviluppò la dea Vajravārāhī, nella quale fu rappresentato
l’intero campo energetico dell’uovo-sangue-utero. Nella religione ufficiale successiva ciascuna del-
le tre parti in cui si articola il ciclo mestruale divenne una fase associata a una figura di dea. Ades-
so ciascuna dea rappresenta una singola fase del ciclo. Nell’oscura dea Kālī prende forma la fase
nera, sterile. Poiché essa siede su Shiva ucciso, il patriarcato le dà il significato di “dea della mor-
te”. Secondo la visione matriarcale, invece, Shiva, come i re sacrali, subisce solo la morte della
luna, annuale e ciclica. Viene ucciso perché possa rinascere.
Kālī è la nera dea-cinghiale della rinascita. I suoi simboli, denti di cinghiale e lingua rossa, non

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lasciano dubbi sulla sua autorità cosmica. Il più delle volte viene rappresentata anche con la man-
naia a forma di falce della morte della luna. Nella mano destra porta spesso la cosiddetta “calotta
cranica”, che è una rappresentazione simbolica della “coppa inferiore”. La sua accompagnatrice
beve dalla coppa di luna nera e porta il tridente che simboleggia la tripartizione del ciclo. La coppa
di luna nera è disegnata anche sulla fronte di Kālī. La dea non porta una “collana di teschi” (inter-
pretazione patriarcale) ma la ciclica collana di perle dell’eterna rinascita. Nel suo atteggiamento ri-
tuale apre la “porta del cielo”, l’ingresso che fa accedere alla “coppa inferiore”. Essa è innanzi tutto
la dea nera della coppa di luna nera, la pura dea del ciclo mestruale. I riti della Melanesia hanno
mostrato che il sangue mestruale viene pensato e rappresentato come proveniente anche dalla
bocca. Così dalla bocca di Kālī, in mezzo ai denti di maiale, fuoriesce sempre una lingua-flusso di
sangue di colore rosso.
Nella patriarcalizzazione vedica Kālī, la dea della trasformazione, viene ridotta all’aspetto della
nera dea della morte e completamente fraintesa. In India è adorata ancora oggi come Kālī bianca,
in questo modo la sua originaria energia di trasformazione continua ad essere presente.
Nella fiaba Bei der schwarzen Frau (Presso la donna nera) c’è una “stanza vietata”. Ma quando
l’eroina malgrado ciò guarda nella stanza tabù, vede che la donna nera si trasforma per fasi in
bianca. Perfino nel patriarcato europeo il pensiero del ciclo non si può cancellare completamente.

Il Soma
Nelle religioni indiane il “succo” dell’oceano di sangue di dPal-Idan-lha-mo si chiama soma. In
epoca vedica viene chiamata Soma una divinità maschile.
I Dravidi furono gli abitanti originari dell’India all’incirca nell’epoca compresa fra il 4000 e il 2000
a.C., prima che la cultura indù venisse distrutta, verso il 1700, dai bellicosi Ariani. Gli Ariani erano
di pelle chiara e chiamarono i Dravidi “uomini dalla pelle scura”, Dasyu. Non è difficile distinguere
in questa denominazione la sillaba del sangue DA e la sillaba del maiale HYS. Sicuramente il po-
polo dei Dasyu avrà adorato le dee-del-sangue-e-del-maiale. Gli Ariani svilupparono il cielo degli
dèi vedici. Il libro sacro dei Veda fu concluso verso l’800 a.C. Il mondo degli dèi è diventato ma-
schile, le dee subiscono lo stesso processo di svalutazione subìto dalla dea greca Era. Sarasvatī,
la dea primordiale dei fiumi e delle fonti, viene descritta come la moglie litigiosa e altezzosa di Vi-
shnu7.
Nella religione patriarcalizzata, in cui Shiva succede a Vajravārāhī nel rappresentare il cosmo
danzante, Soma, il sangue femminile, diventa un dio maschile. Nella religione vedica Soma è di-
ventato il simbolo centrale dei riti sacrificali, non diversamente da quanto accade nella religione
cristiana in cui il sangue maschile diventa il centro sacrale. Un mito però racconta che la pianta del
soma cresce sull’Himalaya, perché appartiene agli spiriti celesti, che l’avrebbero regalata a Vach,
la dea dell’acqua. Soma era anche la bevanda inebriante, una sorta di sostanza lattea fermentata,
che pare si ricavasse dalla pianta omonima. Altri miti raccontano che il soma proviene dall’oceano
di latte agitato, l’originario oceano di sangue della dea dPal-ldan-lha-mo, da cui «ricevono forza gli
dei». Questo soma viene chiamato anche Amrita.
Il dio Soma è anche la luna, la cui forza cresce o decresce come accade a lui. Infatti un mito
racconta che il dio Soma, a causa di una maledizione lanciatagli dal suocero Daksha, è colpito
dalla tisi. Ma poi il suocero che lo ha maledetto, per amore della figlia, vuole ritirare la maledizione;
non potendo farlo, la dimezza, di modo che adesso Soma soffre ancora di tisi solo ogni quindici
giorni9. Anche Soma una volta era una dea della lunazione.
Un mito meraviglioso descrive la spremitura rituale del succo di soma, che «divenne un simbolo
dei processi che avvengono nel cosmo»10. La pianta del soma veniva disposta in un setaccio, che
corrispondeva “alla volta celeste”. Attraverso il setaccio veniva spremuto il succo, e questo succo
che gocciolava giù veniva considerato pioggia. Così la rete-volta celeste continua ad esercitare la
sua influenza dalle caverne fino ai riti del menarca dei Tamil, in cui si versa “acqua” sulle fanciulle
attraverso un setaccio. Ma soma, la bevanda dell’immortalità, non è acqua, anche se si dice che la
pianta sarebbe stata consegnata a Vach, la dea dell’acqua. Soma o Amrita è la luna “tisica”, il suc-
co della luna nera.
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Nel mondo degli dèi vedici Soma e Amrita divennero oggetto di continue contese, perché si sa-
peva che la bevanda rendeva forti e onnipotenti, donava ricchezze e aveva poteri curativi. Quale
antichissimo sapere si era mantenuto anche nel cielo delle divinità maschili! Perché il sangue me-
struale era effettivamente il succo dell’immortalità, cioè dell’eterna rinascita, e donava ricchezze,
rendeva forti e potenti e guariva col suo ciclico “rinnovamento”.
Nella patriarcalizzazione delle religioni indiane il dio maschile Vishnu si è preso l’autorità del
sangue e il vaso di maiale della dea. Negli scritti terminati intorno all’VIII secolo a.C. Vishnu è an-
cora soltanto «una divinità di rango inferiore, il cui status cambiò radicalmente in epoca successi-
va»11. Nella sua terza incarnazione Vishnu compare nella figura del maiale maschile, il suo nome
è Varāha, il verro divino. Un mito più recente narra che lui e Brahmā che costituiscono un’unità di-
vina, avrebbero assunto la forma del verro per creare il mondo con le acque cosmiche. La più an-
tica rappresentazione del possente verro Vishnu risale al VII secolo a.C. e proviene dalla tomba
dello Adi Varāha a Mamallapuram. Un verro di sette metri solleva in aria la dea Prithivī, la dea-ter-
ra vedica, rimpicciolita a una statura di mezzo metro. Nel corso dei secoli successivi la sproporzio-
ne diventò sempre più marcata. Nel cristianesimo infine il Dio Padre diventò un Dio creatore di po-
tenza talmente superiore che la dea-cinghiale delle eterne trasformazioni della vita scomparve del
tutto. Nello sviluppo della religione indiana il principio femminile almeno non è stato del tutto “di-
menticato”.

Il maiale “avido” nella ruota della rinascita


Nei sistemi religiosi tibetani, buddhisti e lamaisti, già patriarcalizzati, nascono dei mandala di ti-
po particolare, i cui contenuti rinviano tuttavia a culture matriarcali. Come i miti matriarcali rispon-
dono alla domanda sull’origine e sulla fine della vita col principio femminile della trasformazione
della vita che si rinnova ciclicamente, così le religioni indiane cercano di rispondere agli interroga-
tivi sulla vita e la morte con la “ruota della rinascita”, che esse chiamano la ruota del Samsara.

Samsara, la ruota della vita con maiale, serpente e gallo al centro. Mandala tibetano.

Al centro del Samsara si trovano il maiale, il serpente e il gallo. Il mandala è costruito a cerchi

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concentrici come i primi labirinti di Creta. Ogni mandala è un’immagine spirituale della “coppa infe-
riore”. Se il suo centro viene trasformato nella meditazione, questo processo interiore corrisponde
alle danze dei Ceramesi sullo spiazzo di Tamene Siwa, su cui essi danzavano sia la lunazione sia
il ciclo mestruale. Allo stesso processo religioso di trasformazione i mýstai danno forma percorren-
do il labirinto. Il mistero della trasformazione del sangue viene raffigurato materialmente.
Il Samsara rappresenta un viaggio di trasformazione spirituale. I cerchi sono divisi in sei settori,
a simboleggiare i sei mondi della coscienza che l’uomo deve attraversare nel viaggio interiore alla
ricerca del proprio centro. Giunto al centro, egli trova la sua essenza centrale, il suo fondamento
originario: di qui egli rinasce e può incamminarsi sulla via del ritorno che, attraverso tutti i sei mon-
di della coscienza, lo riporterà all’esterno. Il viaggio matriarcale attraverso la “coppa inferiore” vie-
ne compiuto adesso sul piano religioso-spirituale. Una volta ricongiunto al suo fondamento origi-
nario, il mýstes viene trasformato e riportato alla vita dai campi energetici femminili.
Per numerosi psicologi ed etnologi il maiale che si trova al centro rappresenta l’avidità, il desi-
derio o l’ignoranza. Il gallo viene interpretato come odio, accecamento o libidine, mentre il serpen-
te simboleggia ignoranza, odio o ira12. Queste interpretazioni morali sembrano interscambiabili e
corrispondono pienamente alle parti femminili, deformate in senso patriarcale, dell’anima dei sin-
goli interpreti. Quindi questi tre animali simbolici matriarcali rappresentano i tre peccati mortali. Ne
consegue che solo la contro-ruota di Buddha è «la ruota positiva dell’insegnamento» che elimina
la «ruota femminile negativa della vita»13.
Con quanta naturalezza vengono “scientificamente” diffamati i valori femminili! Perché nessuno
è in grado di cogliere che questi animali simbolici rappresentati nel centro di un mandala pur sem-
pre religioso, sono stati fatti diventare i tre peccati mortali solo nel corso della patriarcalizzazione?
Inoltre questa ruota della rinascita viene tenuta in mano da una divinità femminile. Essa si chiama
Anityatā e il suo nome significa “eterna trasformazione”. Per l’esattezza, tutto il suo corpo è costi-
tuito dalla “coppa inferiore” delle eterne nascite di trasformazione, che l’uomo mitico sperava fos-
sero concrete e corporee, mentre adesso il credente indiano attraversa il Samsara per poter con-
seguire una trasformazione spirituale. Ogni trasformazione, sia esteriore sia interiore, è di origine
matriarcale e risale alle esperienze religiose del ciclo mestruale. Anche nelle interpretazioni che si
danno oggi continua a valere il principio di trasformare incessantemente in maledetto, in peccato
mortale, ciò che un tempo era sacro. Se nelle interpretazioni dei sogni non si distingue con esat-
tezza storica fra significato matriarcale e deformazione patriarcale di quel significato, le donne
vengono danneggiate perfino nella psicoterapia. Nel contesto matriarcale che ho illustrato finora si
può affermare che il maiale posto al centro della ruota della vita rappresenta il luogo della nascita
e della rinascita che è l’utero. Il serpente è il principio spirituale dell’ordine ciclico del mondo e del
tempo eterno. Il gallo simboleggia il potenziale sviluppo della coscienza ancora a metà fra veglia e
sogno, fra percezione mitica e percezione cosciente. Nella storia della passione, il gallo diventa
per Pietro, dopo il suo tradimento, l’impulso a riconoscere la propria essenza reale, quella che lui
ha tradito. Il gallo simboleggia la conoscenza sacrale e reale dell’essere. Il suo canto sta realmen-
te al limite fra la notte e il giorno, nello spazio in cui si annunciano gli albori di nuove conoscenze.
Anche nella fiaba di Frau Holle il gallo rappresenta questo processo psichico. È l’impulso alla pre-
sa di coscienza nel femminile, una vera forma dell’Animus.
È impressionante che proprio questi tre animali che compaiono nella ruota della vita siano pre-
senti anche nei Misteri eleusini e nella religione celtica. Fra i Celti il maiale è il paiuolo della rina-
scita, il serpente sotto forma di ricciolo a “s” è il simbolo del tempo e della vita eterna. E il gallo
canta a tutto questo.
Se vogliamo riappropriarci di questi animali simbolici come valori femminili centrali, li dobbiamo
interpretare partendo dal contesto complessivo dello sviluppo della religione matriarcale, che si
fonda tanto sui campi energetici biopsichici quanto su un processo di differenziazione durato
100.000 anni. È irresponsabile dare delle interpretazioni esclusivamente patriarcali. I tre presunti
peccati mortali sono le tre vitali doti matriarcali dell’utero, del ciclo e dello sviluppo della coscienza.

108
NOTE
1. Glaube und Brauchtum die Menarche betreffend im Nord Arcot Distrikt von Tamilnadu, Indien
in “Zeitschrift der Anthropologischen Gesellschaft Indiens”.
2. V. Ions Indische Mythologie, Wiesbaden, 1967, pag. 14.
3. Tibet, Kunst des Buddhismus, Hans der Kunst, Monaco, 1977 (catalogo).
4. Ibidem, pag. 43.
5. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, Amburgo, 1985, pag. 479.
6. Dal tedesco (v)erstanden con il duplice significato: erstanden = suscitato e verstanden = capito
e er(be)griffen con il duplice significato: ergriffen = afferrato e begriffen = compreso. (Ndt)
7. V. Ions op. cit. pag. 92.
8. Ibidem, pag. 87.
9. Ibidem.
10. Ibidem, pag. 20.
11. Ibidem, pag. 23.
12. M.L. von Franz Zeit. Strömen und StiIbe, Francoforte, 1981, figura n. 12 (trad. it. I volti del
tempo, red edizioni, Como); C.G. Jung Psychologie und Alchemie, Olten, 1975, pag. 121 (trad.
it. Psicologia e alchimia, Bollati Boringhieri, Torino); D.I. Lang Das Erbe Tibets, Monaco/Ber-
na/Vienna, 1972, pag. 144.
13. E. Neumann Die Grosse Mutter, Olten, 1893, pagg. 224 e segg. (trad. it. La Grande Madre,
Astrolabio, Roma).

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Il maiale che fa rinascere
dell'Egitto
Il maiale-madre Nut
Prima delle dinastie, quindi almeno 3100 anni a.C., Nut viene adorata come la grande dea-ma-
iale nel suo aspetto di stella e viene rappresentata in un maiale smaltato ben proporzionato. In un
“testo drammatico” linguisticamente assai antico apposto alla finta tomba di Seti I nel tempio di
Osiride ad Abidos, Nut viene descritta come la «scrofa madre» che partorisce tutti gli dèi. Di lei si
dice che la sua testa è «nell’orizzonte occidentale», e la sua bocca «in Occidente» e che con que-
sta divora l’astro solare. La mattina il sole torna a uscire dal grembo materno, chiamato «orizzonte
orientale». L’astro solare nasce «aprendo le cosce di sua madre Nut»1.
Il testo continua: «... fu fatto il suo nome: scrofa madre che divora i suoi maialini», perché li
mangia. Suo padre Shu la sollevò fino all’altezza della sua testa e disse: «Che Geb si guardi dal
litigare con lei, perché lei divora i suoi figli. Poi lei li ripartorisce, sicché essi tornano a vivere e ven-
gono fuori laddove è il suo sedere, a oriente...»2 La stella viene menzionata ancora una volta co-
me il “maialino di sua madre”. La dea cosmica Nut è la scrofa celeste che fa rinascere, e sia le
stelle sia l’astro solare sono i suoi maialini rinati.

La dea Nut-Neith come maiale del cosmo che fa rinascere. Egitto, 1a dinastia, 3100 a.C. circa.

Proviene dall’epoca tarda una rappresentazione in ceramica blu della scrofa celeste coi suoi
maialini, che veniva portata come amuleto. Questa rappresentazione del maiale viene attribuita

Iside come maiale azzurro del cosmo con la scritta: «Nut, la grande, la madre degli dei».
Egitto, XXVI dinastia, VI-VIII secolo a.C. circa.
110
alla dea Iside, ma sulla base è riportata la scritta: «Nut, la grande, la madre degli dei»3. Benché la
rappresentazione risalga alla XXVI dinastia, e quindi a un’epoca compresa fra il 600 e il 700, è ri-
masto conservato l’antichissimo titolo della dea.
Nut è la dea originaria delle stelle, che divora a Occidente e ripartorisce a Oriente. È la «scrofa
madre che divora i suoi maialini» e che «partorisce ogni giorno Ra» e che «partorì gli dei»4. Il sole
Ra è uno dei suoi figli-stelle. La conoscenza della nascita notturna delle stelle e della nascita gior-
naliera del sole faceva sperare all’egiziano credente che anche lui nella morte avrebbe intrapreso
un viaggio nel mondo di sotto e sarebbe stato fatto rinascere dalla dea Nut.
Fino a che punto la dea Nut fosse intesa come la dea cosmica della coppa inferiore e superio-
re, anzi fosse addirittura identica a questi due mondi, lo dimostra il geroglifico inciso sulla sua te-
sta, che, essendo il simbolo della dea, ne descrive l’essenza. Il geroglifico di Nut consiste in un re-
cipiente sferico la cui parte inferiore è dipinta di nero e la cui parte superiore, aperta, è dipinta di
bianco5. Essa è veramente la dea cosmica, e solo nel corso della successiva solarizzazione del
mondo delle divinità egiziane viene ridotta alla dea del cielo. Siccome però è anche la dea della
“sfera inferiore”, diventa ovviamente anche la dea protettrice dei morti che nel sarcofago vengono
deposti fra le sue braccia. Essa dà ai morti «la testa, unisce le ossa e riporta il cuore nel corpo»6.
Nel Nuovo Regno poi viene ridotta a questo aspetto di morte e chiamata «dea della morte», «si-
gnora dell’occidente» o «signora della casa dell’imbalsamazione»7. Nel processo di spodestamen-
to essa diventa solo una delle dee che compongono il gruppo dei nove del tribunale dei morti, e
nel santuario di On viene adorata in quanto membro di questo gruppo di nove e chiamata «casa
dell’inghiottimento»8. Dalla totalità dei suoi poteri di rinascita viene quindi isolato, e al contempo
connotato negativamente, l’aspetto dell’inghiottire.
Questa decisiva svalutazione conseguente al ribaltamento dei valori operato dal patriarcato eb-
be inizio nel Regno Nuovo sotto Amenofi IV, che governò dal 1352 al 1336 a.C. e che, nell’intento
di prendere le distanze dalla religione lunare, elevò il sole Ra a simbolo centrale della divinità,
cambiando il proprio nome in quello di Echnaton (aton, sole). È noto che dopo la sua morte il figlio
Tutankhamon revocò la solarizzazione; tuttavia nel corso dei secoli successivi la credenza nel so-
le ebbe lentamente il sopravvento sulla religione lunare. La speranza nella resurrezione si sposta
dalla scrofa madre Nut al re del sole Osiride. Di pari passo con l’idea di una rinascita tramite il dio
maschile si sviluppò anche la credenza di un “tribunale dei defunti” nell’aldilà, in cui veniva giudi-
cata la vita del credente. Specialmente fra la XVIII e la XXI dinastia si sviluppa nella religione l’i-
dea che il viaggio nell’aldilà sia anche legato a una valutazione morale del defunto.
Ma un simbolo elementare come il cinghiale non si lascia patriarcalizzare tanto facilmente. Nel-
la religione egiziana esso ha generalmente mantenuto la sua efficacia. Il maiale sacro era consa-
crato alla luna e veniva sacrificato alla dea Luna in occasione della festa di luna piena. Già in epo-
ca pre-dinastica presso i templi di Menfi e di Abido venivano tenuti grandi branchi di maiali. I sa-
cerdoti del maiale erano i sacerdoti dell’oracolo della grande Dea. Nelle tombe, nei luoghi sacri
della speranza di rinascita, venivano rappresentati greggi di maiali9. L’esistenza di greggi di maiali
è documentata per iscritto a partire dal 2700 a.C. circa10. Il Renni di Elkab, secondo certi docu-
menti, deve aver posseduto 1500 maiali, e nella sua tomba è ritratto un branco di maiali col guar-
diano. Non esiste documento di questa epoca che testimoni una “caccia al cinghiale”, e da ciò si
può dedurre che la venerazione della scrofa madre Nut era ancora presente.
Ma la solarizzazione di Echnaton ha radici storiche ancora più antiche. Un mito, nato già nel
Regno di Mezzo (1994-1781 a.C.), narra che Seth si era trasformato in un maiale nero e che Ho-
rus, a vederlo, aveva subìto gravi danni agli occhi11. . A causa di questo episodio, Ra esorta tutti a
disprezzare il maiale. Su un testo delle piramidi Horus viene già descritto come un uomo “acceca-
to dai maiali12. In seguito a ciò, secondo Erodoto, i guardiani di maiali si potevano sposare soltan-
to fra di loro e formavano una casta particolare e disprezzata13. Chi toccava un maiale doveva fare
subito un bagno nel fiume con tutti i vestiti14. Anche l’alto sacerdote si doveva purificare dopo il
sacrificio di espiazione fatto nella festa della luna15. In questo periodo di transizione in cui coesi-
stono religione lunare e incipiente patriarcalizzazione, le feste del maiale vengono ancora celebra-
te ma, a seconda che prevalga la venerazione o il rifiuto, il maiale viene venerato come dea o ma-

111
ledetto come il male. Nella religione solarizzata i sacerdoti del maiale non possono più entrare nei
santuari, anzi si devono addirittura tenere lontani dalla zona del tempio. Quando, a causa dell’idea
di un “tribunale dei morti” nell’aldilà, vennero scritti molti Libri dei morti al fine di attrezzare il defun-
to per il viaggio nell’aldilà, fu composto anche il cosiddetto Libro delle Porte. In esso è descritta
una scena che si svolge nella sala del giudizio di Osiride e mostra la punizione del dannato. La
scimmia Thot, scrivano e capo-pesatore del tribunale, scaccia il maiale brandendo un bastone.
Nella religione solare il maiale diventa il simbolo dell’ “anima malvagia e dannata” del defunto che
va condannato e il dio Osiride il simbolo della speranza nella vita eterna.

Iside sulla scrofa


Una scritta scolpita sulla “stele di Metternich” contiene il passo: «Min, il signore di Koptos, il fi-
glio della scrofa bianca che sta a Eliopoli»16. La “scrofa bianca” potrebbe essere Iside, perché a
Koptos, come in altri luoghi, essa compare come madre di Horus-Min. Menes è il fondatore della
prima dinastia tinitica intorno al 3188 a.C.17
“La scrofa bianca” è un epiteto cultuale della dea, che in seguito si trasforma in quello di “bian-
ca cavalla del Nilo”. Nel papiro di Fayum la “scrofa bianca” Iside viene messa in parallelo anche
con la “bianca dea vacca” e con la “bianca dea-avvoltoio". Questo complesso campo energetico
matriarcale permette di concludere che a Eliopoli si riservava alla “scrofa bianca” la stessa vene-
razione tributata alle altre raffigurazioni animali della dea.
La “stele di Metternich” non è l’unica testimonianza scritta, anche delle statuette mostrano “Isi-
de sulla scrofa”. Al museo del Cairo c’è la statua di una Iside-scrofa. La dea non cavalca ma tro-
neggia sulla scrofa (nel sessismo patriarcale la sua posizione del “cavalcare” è interpretata come
un simbolo del rapporto sessuale). La scrofa è il trono divino, sede dell’autorità sulla nascita e sul-
la rinascita. In capo, come ornamento o come “corona”, Iside porta chiaramente una triplice tiara,
chiamata kalathos (oggi solo il papa porta una triplice tiara).

Iside troneggia sul maiale del cosmo.

In epoca matriarcale il kalathos era anche un cesto, corrispondente a una sorta di rete del fir-
mamento tirata giù come strumento di culto. Spesso la tiara della dea viene rappresentata anche
112
come un reticolato, come mostra una Iside-scrofa del British Museum19. Iside viene rappresentata
troneggiante sia sul maiale sia su un cesto20. Tanto la scrofa quanto il cesto simboleggiano l’auto-
rità cosmica. Nel culto matriarcale il cesto-kalathos si sviluppa nella cista mystica, fatta come un
cesto con il coperchio. La cista ha un ruolo importante nei Misteri eleusini. Demetra è portatrice
del santo kalathos, e come lei lo sono le sue sacerdotesse e servitrici. Nell’Inno a Demetra di Cal-
limaco il kalathos sta perfino, come pars pro toto, a indicare l’intera processione solenne in onore
della dea-maiale. Nella processione di Demetra il kalathos ha la centralità e l’importanza che, nel
cristianesimo, poteva avere l’ostia nella processione del Corpus Domini.
Quando Iside troneggia sul suo cinghiale, appare nella posizione cultuale della mestruazione. Il
grembo aperto della dea non è una “rappresentazione pornografica” ma un’azione cultuale, che
rende possibile la comparsa del sangue sacro. Gli psicologi parlano genericamente di posizione
del parto, affermando che Iside sulla scrofa sarebbe un simbolo della fertilità. Anche se dovrebbe
essere evidente che in queste presunte rappresentazioni del parto mancano un ventre pregno e
un bambino e che nessuna donna partorirebbe mai in questa posizione, si rimane fermi alle inter-
pretazioni di una dea della fertilità, così come il maiale viene continuamente degradato a simbolo
della fertilità. Ma Iside troneggia sul simbolo dell’autorità della sua Hystera e mostra con la sua
vulva la porta dell’Elisio e col suo sangue mestruale la potenza politica e cultuale. Essa ha con sé
la scala che è uno dei suoi simboli di trasformazione. La scala risale al simbolo primordiale del
cordone ombelicale, che può collegare il visibile e l’invisibile.

Iside troneggia sul maiale del cosmo nella posizione rituale della mestruazione.

Se si riduce la scrofa-Iside alla fertilità, questa interpretazione è per metà vera e per metà falsa.
È naturale che l’utero e il sangue ciclico rimandino alla realtà della fertilità e quindi alla potenza
politica della donna, ma solo per questo Iside non sarebbe stata adorata come dea-scrofa. La
scrofa selvatica non è soltanto l’utero inteso come il luogo della nascita, ma è anche il luogo mitico
di eterne nascite di trasformazione.
La “Iside sulla scrofa” che “possiede” il suo utero sacrale, che mostra la volta inferiore del cielo
e la porta di accesso all’Elisio, è la dea sovrana e universale della mestruazione. È il mistero della
trasformazione, niente di meno che questo, che viene rappresentato nel culto. Iside è identica alla
sua scrofa. Questa religione lunare della dea-cinghiale veniva celebrata nel culto in tutta l’area
mediterranea. La Iside-scrofa è comunque totalmente inadatta a un’ideologia della fertilità, con la

113
quale si cerca di spostare indietro nel tempo, fino ai primordi, un ruolo femminile patriarcale ridotto
alla maternità, al fine di conferirgli autorità e giustificazione “dall’eternità”.

Toeris, la scrofa del calendario


Accanto all’epiteto di “maiale madre”, già Nut ne aveva altri che la mettono in relazione con la
dea Apet. I nomi delle dee Nut e Apet sono in parte perfino interscambiabili.
Nel “testo drammatico” del tempio di Osiride ad Abido, che abbiamo già menzionato, si parla
anche della dea-maiale Nut quando viene apostrofata con l’epiteto plurale NTR. NTR sono anche i
geroglifici del serpente dell’eternità NETJER. L’apostrofe NTR per indicare la madre degli dei si ri-
trova anche nel tempio di Karnak, in cui però veniva adorata non Nut ma Apet, la dea-cavallo del
Nilo. Sul portone dei Tolomei di Karnak viene chiamata «la grande eccelsa Apet... Nut, che parto-
risce gli dei». Nel tempio di Osiride a Dendara c’è l’epiteto: «Nut, la grande, che partorisce gli dei...
la madre di dio dei falchi d’oro, Apet, la grande, che protegge Horus...»21. Con l’interscambiabilità
degli epiteti avviene l’equiparazione dell’azzurra dea-cinghiale Nut ad Apet, il cavallo femmina del
Nilo. Lo stesso processo di trasformazione del simbolo avviene in Grecia, quando la Demetra-ma-
iale diventa la Demetra-cavallo. Fra i Celti la scrofa originaria Arduinna si trasforma nella dea-ca-
vallo Epona.
Quando Nut viene chiamata Apet la grande, compare sempre nelle sembianze di Toeris. Una
figura di Toeris purtroppo non datata, ma a giudicare dallo stile piuttosto antica, mostra chiara-
mente la dea col grugno di maiale, la schiena di coccodrillo e le zampe di leone.

La dea-maiale Toeris col grugno di maiale. Egitto, senza data.

Toeris è una sfinge-maiale, divisa in tre parti, del ciclo dell’anno e della mestruazione. Il più del-
le volte viene rappresentata con zampe di leone, ventre di maiale o di cavalla del Nilo e faccia di
coccodrillo, quest’ultima con i denti digrignati. Spesso anche tutta l’acconciatura dei capelli, dalla
testa ai piedi, viene raffigurata come un dorso di coccodrillo. Evidentemente essa è simbolo del
calendario nella tripartizione sacrale del ciclo femminile. Il ventre può essere quello di un maiale o
114
quello di una cavalla del Nilo e ha la rotondità della gravidanza. La designazione femminile RR.T
per la scrofa vale anche per la dea-cavalla del Nilo. Anche Nut viene descritta con RR.T, allora
essa è sia scrofa sia cavalla del Nilo, chiamata Apet o Ipet. Nel tempio di Silsile (epoca di Rames-
se II) compare Ipet-Iside nelle sembianze della dea Toeris e viene descritta come «Ipet la grande»
e anche come «Nut, che mise al mondo Osiride»22. Toeris equivale al maiale-madre Nut. Il suo
ventre gravido di nascita e di rinascita è un ventre di scrofa o di cavalla del Nilo. Entrambi hanno
lo stesso valore simbolico, ma nella storia delle religioni il ventre di scrofa dev’essere stato la ver-
sione più antica.
Toeris è la sfinge della tripartizione matriarcale dei cicli. Eppure viene continuamente descritta
come un “mostro” e come “figura terrificante” che comunque «tiene lontano il male dalle donne in-
cinte». In epoca tolemaica, per via del suo ventre “gravido”, viene ridotta a dea del parto22. Ma né
la leonessa nel suo aspetto primaverile di nascita delle stelle né il ventre della scrofa che ripartori-
sce le stelle né la testa di coccodrillo sono “spaventosi”. L’interpretazione usuale che il muso di
coccodrillo che digrigna i denti sia il “male divoratore” contraddice tutto il contesto egiziano. Nell’a-
rea nubico-africana il coccodrillo è un animale particolarmente sacro. Sulle porte dei luoghi di cul-
to, che simboleggiano il passaggio al sacro, viene rappresentato nei colori nero-bianco-rosso. Il
coccodrillo rappresenta la porta sacra che fa accedere alla sfera tabù, al luogo di culto dei misteri
di trasformazione. Toeris è la dea della nascita di trasformazione. Attraverso il muso di coccodrillo
le stelle entrano nel ventre della scrofa per tornare a uscirne, rinate, attraverso il sedere di leone. Il
più delle volte Toeris ha un corpo di scrofa, talvolta, come nell’immagine riportata, ha una testa di
scrofa con grugno di maiale, mentre la Sfinge originaria aveva una parte posteriore di scrofa. Il fat-
to che nel corso dello sviluppo della religione tutte e tre le parti sono state parti di scrofa autorizza
a concludere che la dea Toeris si sia sviluppata da Nut, il maiale-madre.

La “divoratrice dei morti”


La cosiddetta “divoratrice dei morti” è la Sfinge originaria con il sedere di scrofa. Nell’epoca del-
la dea-maiale matriarcale tutta la vita nasceva e rinasceva dal deretano della scrofa. Con quanta
determinazione sia stata distrutta la potenza femminile si può vedere nella maniera più impressio-
nante nello sviluppo della “divoratrice dei defunti”.
Con l’inizio della reggenza del re Amenofi IV nella XVIII dinastia si verificò, attraverso la solariz-
zazione, un cambiamento radicale nel modo d’intendere il culto e la cultura. Le dee della luna di-
ventarono mogli del sole. Nell’immagine del mondo e della fede il mondo visibile superiore e quel-
lo invisibile inferiore non furono più visti come un’unità ma come due sfere separate. La “coppa in-
feriore” diventa la sfera della notte e della morte, in cui vengono localizzati il male e il femminile.
Non si rinuncia alla fede nella rinascita, ma la capacità di far rinascere viene sottratta alla dea e
viene invece riconosciuta a Osiride, il dio sole maschile. Il femminile, il mondo infero, diventa quel-
lo che inghiotte come la notte. Siccome adesso si devono dare nuove risposte al problema della
morte, nascono concezioni dell’aldilà completamente nuove.
Nel culto matriarcale gli Egiziani credevano: «Si dorme per risvegliarsi; si muore per vivere».
Adesso questa idea di trasformazione lunare viene bandita nel mondo infero. Dal problema di che
cosa accade nella morte nascono i Libri dei morti, l’Amduat, lo “scritto dello spazio nascosto”. Am-
duat significa alla lettera: quello “che è nel DAt”. La “coppa inferiore” è adesso “lo spazio nasco-
sto”, e l’Amduat contiene le istruzioni per questo viaggio negli inferi. Ora i testi non vengono più
trascritti nell’ovale dei sarcofaghi, ma sulle pareti delle tombe, che diventano la caverna della rina-
scita. Il culto delle tombe assume nel Regno Nuovo dimensioni enormi per assicurare, a dispetto
di ogni solarizzazione, il viaggio di rinascita attraverso la terra dell’aldilà.
Come gli inferi in Egitto, così in Grecia l’Ade-Orco diventa una sorta di bocca infernale del male.
Contemporaneamente nell’area semitica la Sce’ol diventa la “fossa” in cui i morti non lodano più
Dio. La morte non è più “vita in un’altra forma”, la morte adesso è mortale.
Insieme con la separazione fra mondo superiore e inferiore nacque la valutazione morale del
mondo inferiore come mondo cattivo, femminile, e quindi anche la concreta paura della morte. Nel
Libro dei morti egiziano il femminile e il male coincidono nel simbolo della “divoratrice dei morti”
115
che regna nella “coppa inferiore”. In essa si può vedere chiaramente il processo di cambiamento
dei valori.
La fede nel giudizio dell’aldilà ebbe un intenso sviluppo fra la XIX e la XXI dinastia, nell’epoca
compresa all’incirca fra il 1291 e l’850 a.C. In molte immagini che sono state trovate sui sarcofaghi
è ritratta la bilancia in equilibrio oppure la presentazione del defunto giustificato davanti al dio giu-
dice. Questi è per lo più Osiride, ma al suo posto si possono trovare anche altre divinità o addirit-
tura la divinità femminile Maat. Sotto, accanto alla bilancia oppure sui gradini del trono del dio, sta
la divoratrice dei morti, il cui corpo, come Toeris, è diviso in tre parti, con la parte posteriore sem-
pre messa ben in rilievo in nero. Accanto c’è Thot dalla testa di ibis, col suo attrezzo per scrivere,
mentre la bilancia è portata da Anubi o Horut-Thot, che conducono il defunto davanti a Osiride e
comunicano il risultato della pesatura. Se durante la presentazione la bilancia è in equilibrio, al de-
funto spetta il destino beato di “diventare Osiride”. L’identificazione con Osiride è il premio e l’ele-
vazione che spettano al morto “giusto”. Adesso egli diventa, come Osiride, figlio della dea madre
Nut, e può essere sicuro della rinascita.

La divoratrice dei morti nella sala del giudizio di Osiride. Sarcofago, XIX dinastia, 1300 a.C. circa.

Se, quando il cuore del defunto viene pesato, l’ago della bilancia sta in equilibrio, significa che il
morto è “a piombo” (a posto). L’essere a piombo è la misura invariabilmente costante della giusti-
zia del defunto. Con la pesatura si esamina l’accordo con l’ideale di Maat. Nella concezione del
giudizio dei morti Maat è essenziale fin dall’inizio, perché impersona «l’ordine del mondo, la corret-
tezza e la giustizia»24 perfino nella religione solarizzata. In epoca matriarcale la “coppa inferiore” si
chiama «sala delle due dee Maat»25. «Con la sua presenza al giudizio dei morti Maat garantisce il
principio in essa incarnato come criterio decisivo.»26 Conforme a Maat significa dunque conforme
al sacrale ritmo ciclico del sangue, conforme all’ordine creativo del ME. L’autorità che Maat pos-
siede originariamente sul mondo superiore e inferiore le restituisce i suoi due titoli ed essa viene
apostrofata sia come “signora del cielo” sia come “signora del mondo infero”27. Anche nella reli-
gione solare essa compare ancora con una doppia figura oppure con due piume.
In seguito al giudizio della pesatura il defunto ottiene indietro il cuore, la bocca e gli occhi. Con
questo il morto è ricostituito e messo in condizione di continuare a vivere. In quanto giustificato, fa
il “gesto della giustificazione”, il gesto di giubilo dell’accordo con Maat: egli tiene come Maat le
braccia sollevate a forma di falce di luna e porta le due penne di Maat. Il defunto è pienamente
identificato con lei, è giustificato.
In tutte le rappresentazioni del giudizio successive all’epoca di Amarna la divoratrice di morti
compare in sembianze di animali, ed è composta di tre parti. La rappresentazione più antica mo-
stra la testa di coccodrillo con le fauci spalancate, il corpo di leone con la tipica rosetta, la stella-
fiore, e la parte posteriore di maiale o di cavalla del Nilo, con delle zampette molto corte, una coda
mozza e colore scuro. Poiché la lunghezza delle zampe anteriori e posteriori è molto diversa, vie-
ne mostrata per lo più seduta. A partire dalla XXI dinastia il corpo cambia diventando più simile a
116
un cane, ma è chiaramente fornito di mammelle, che indicano il sesso femminile. La divisione in
tre parti rimane. Talvolta la divoratrice dei morti viene rappresentata con due coltelli fra le zampe
anteriori. Dall’epoca tolemaica in poi è fornita di due penne di Maat, ed è seduta su una cassa,
chiamata “la cassa segreta”. Questa cassa segreta di Maat è simbolo del regno dei morti «in cui
con l’aiuto di Anubi e degli dei delle viscere si compie il mistero della rinascita, che permette al de-
funto una nuova vita al seguito del dio-sole»28. In epoca tolemaica, a partire dal 332, e in epoca
romana, a partire dal 30 a.C., non si nota più la tripartizione della divinità, che è del tutto simile a
una cagna con molte mammelle. Nell’Ade greco abbaia adesso anche Cerbero, che con le sue
orecchie bianco-rosse rimanda alle radici matriarcali della sua origine. Il cane degli inferi indiano,
Sârameya, riceve in un canto perfino l’ordine di sbranare il maiale29.
La divoratrice dei morti ha il compito di ingoiare i morti non giustificati. Il suo appellativo è “colei
che inghiotte”, “colei che divora”, “colei che inghiotte i morti”. Dalla XXI dinastia in poi è “la grande
della morte” o la “grande di morte”, in epoca tolemaica semplicemente “la grande”. Essendo la “di-
voratrice dell’Occidente” è anche la “signora dell’Occidente” e la “signora del mondo intero”30. È
chiaro che essa viene fissata negativamente a un singolo aspetto, quello dell’inghiottire, e deve
inghiottire i peccatori e i dannati, ma anche l’ingiustizia stessa.
Un’altra denominazione della divoratrice dei morti è ??????, che può significare destino nel
senso di destino di morte o tipo di morte, ma può essere tradotto anche con maiale o scrofa31. Es-
sa è il destino-scrofa, e dev’essere colei che punisce, anche se non viene mai mostrata in azione
e ogni rappresentazione del giudizio attesta che il defunto esce giustificato dall’atto della pesatura.
In nessun passo di un Libro dei morti si menziona l’essere inghiottiti dalla divoratrice dei morti.
Nel corso della solarizzazione la “divoratrice dei morti” è stata via via ridotta ad aspetti connotati
negativamente, quindi ha subìto lo stesso processo di svalorizzazione occorso anche al maiale-
madre Nut. La divoratrice dei morti rientra nella stessa tradizione delle dee-maiale, è la sorella di
Iside che cavalca la scrofa e di Toeris, la scrofa del calendario. A mio parere è la personificazione
dell’idea più antica di una Sfinge divisa in tre parti, con la parte posteriore di una scrofa, dalla qua-
le originariamente venivano fatti rinascere tutti.
Il fatto che la divoratrice dei morti compaia proprio in un’epoca in cui si compie un processo di
patriarcalizzazione psichico, religioso e politico, sembra indicare che nello scontro coi valori ma-
triarcali originari si verifica il sovvertimento anche di quelli patriarcali per cui la scrofa dea della ri-
nascita si trasforma nella divoratrice che inghiotte.

NOTE
1. H. Grapow Die Himmelsgöttin Nut als Mutterschwein, in Zeitschrift für Ägyptische Sprache und
Altertumstrunde, vol. 71, Osnabrück, 1967, pag. 45.
2. Ibidem, pag. 46.
3. Ibidem, pag. 47.
4. H. Bonnet Reallexikon der Ägyptischen Religionsgeschichte, 1952, pag. 537.
5. Ibidem, pag. 539.
6. Ibidem, pag. 538.
7. Ibidem, pag. 539.
8. Ibidem.
9. J.H. Tylor The Tomb of Renni, Londra, 1900, Tavola II.
10. J. Bergmann Isis auf der Sau, in Gustavianum Kollektion in Uppsala, 1974, pag. 88.
11. H. Bonnet op. cit. pag. 690.
12. J. Bergmann op. cit. pag. 89.
13. Ibidem.
14. Ibidem, pag. 90.
15. J.G. Frazer Der goldene Zweig. Eine Studie über Magie und Religion, 1977, pag. 691 (trad. it.
Il Ramo d’oro, Bollati Boringhieri, Torino).
16. J. Bergmann op. cit. pag. 92.
17. Weltgeschichte der Malerei, Edition Rencontre, Losanna, 1966, vol. 2, pag. 173.
117
18. J. Bergmann op. cit. pag. 88.
19. Ibidem, pag. 83.
20. E. Neumann op. cit. pag. 140.
21. H. Grapow op. cit. pag. 45.
22. J. Bergmann op. cit. pag. 97
23. Nofret, die Schöne, cat. vol. 1, pag. 30.
24. C. Seeber Untersuchungen zur Darstellung des Totengerichts im Alten Ägypten, in München
Ägyptologische Studien, Quaderno 35, Monaco/Berlino, 1976, pag. 139.
25. Ibidem, pag. 65.
26. Ibidem, pag. 139.
27. Ibidem, pag. 141.
28. Ibidem, pag. 72.
29. R. Wildhaber Kirche und die Schweine, in Schweizerisches Archiv für Volkskunde, vol. 47, pag.
242.
30. C. Seeber op. cit. pag. 169.
31. Ibidem, pag. 173.

118
Il maiale che sorride
di Vinča
Gli esordi della cultura Vinča e della sua arte risalgono all’epoca neolitica, a un’epoca compre-
sa all’incirca fra il 7000 e il 5500 a.C. Vinča si trova quattordici chilometri a sud-est dell’attuale
Belgrado, ma la regione della sua arte si estendeva fino alla Jugoslavia settentrionale, all’Unghe-
ria e alla Romania fino all’Egeo. Gli inizi dell’arte neolitica si possono datare, in base ai vasti scavi
di più di 1000 insediamenti eseguiti col metodo del carbone radioattivo, al 7000 a.C. circa. In que-
st’epoca nascono anche delle società ben ordinate, l’allevamento del bestiame e dei maiali, una
cultura altamente sviluppata che usa caratteri di scrittura lineare sugli oggetti di culto. L’antica cul-
tura neolitica si chiama Starčevo fino alla metà del VI millennio a.C., quando ha inizio la cultura
Vinča, il cui segno di riconoscimento più chiaro sono i lavori di ceramica.
Gli strati culturali sovrapposti sono alti complessivamente circa 12 metri, sette dei quali sono
resti di Vinča e due, sottostanti, di Starčevo. Fra i resti di Vinča furono trovate quasi duemila figu-
rine e nelle altre località degli scavi le dimensioni delle case e delle strade rinvenute dimostrano
che questi luoghi devono essere stati più città che villaggi. «La tradizione artistica portata alla luce
nella penisola balcanica centrale e risalente al VI e al V secolo a.C. è una delle più notevoli e più
specifiche della preistoria dell’Europa e del Medio Oriente.»1 È certo che questa cultura si esten-
deva fino all’area greca e che ebbe scambi continui con l’Anatolia, da cui deriva il maiale di
Haçilar, anch’esso del VI millennio.
Con straordinaria abilità artistica sono state realizzate molte sculture di maiali, fra le quali c’è
anche una dea-maiale proveniente dalla regione di Rastu, che si trova quasi a metà strada fra
Belgrado e Bucarest. Essa conferma che già in questa prima cultura matriarcale il maiale era l’a-
nimale principale della dea. Sul suo ventre è raffigurato il modello del labirinto, mentre i seni sono
chiaramente visibili, sicché non c’è dubbio che si tratti di una figura sacrale di una dea-maiale, in
cui evidentemente il corpo veniva inteso come recipiente della nascita e del viaggio di rinascita
che si compie attraverso un labirinto. La statuetta è databile fra il 5300 e il 5000 a.C.

Dea-maiale con ventre a labirinto. Rastu, 5300-5000 a.C. circa.

119
Dalla cultura di Cucuteni, collegata a questa regione, provengono testimonianze che in queste
figure di maiali venivano messi grani di cereali, di modo che l’adorazione del maiale era vista in
rapporto col ciclo stagionale. E questo indica la presenza di un campo energetico religioso-
matriarcale intatto.
La cultura Vinča ci ha lasciato un capolavoro assoluto in un’affascinante testa di maiale che
sorride, ritrovata a Leskavika , nei pressi di Sofia. Essa risale alla metà del V secolo a.C. e nella
sua stupenda plasticità può essere stata scolpita solo con un sentimento di grande amore e vene-
razione per una dea. Ha i tratti di un sorriso quasi umano ed è un maiale “dormiente”, cosa che
forse riflette un mitico legame con la sfera della notte e del sogno, a cui appartiene anche la “cop-
pa inferiore”.

La dea-maiale che sorride.


Leskavika, Macedonia,
metà del secolo V a.C.

Dalla Bulgaria centrale proviene una testa di maia-


le le cui orecchie mostrano chiaramente i buchi per gli orecchini, e questo è a sua volta un chiaro
indice di un dispendioso culto del maiale. Questa testa risale a 4000 anni prima di Cristo. Vasi di
culto con teste di maiale o con un sedere di maiale oppure con motivi stilizzati di guardiani di
maiali furono usati come offerte2.

Testa di maiale con buchi per


orecchini. Stara-Zagora,
Bulgaria, 4000 a.C. circa.

120
È probabile che da quest’area e da questa cultura provenissero le invasioni elleniche che si
susseguirono, in quattro grandi ondate, a partire dagli inizi del secondo millennio. I miti degli stupri
di ninfe rispecchiano come si è probabilmente compiuta l’ultima ondata migratoria dorica. In una
prospettiva storica, i miti di stupri si riferiscono probabilmente al matrimonio dei principi dorici con
le locali sacerdotesse del maiale, matrimonio che però non comportò l’adozione da parte degli
stranieri del culto praticato dalle donne. Il locale culto del maiale dev’essersi lentamente estinto,
sopraffatto dalla preponderanza dell’elemento straniero patriarcale.

Note
1. M. Gimbutas The Goddesses and Gods of Old Europe. Myths and Cult Images, Londra, 1974-
82, pag. 19.
2. Ibidem, pag. 214.

121
La dea-maiale
delle trasformazioni
in Grecia

Sull’isola di Circe
Il maiale proveniente da Nea Makri, in Attica, risale a circa 6000 anni a.C. e mostra che il culto
delle dee-maiale era di casa nel Peloponneso già in epoca molto antica. Una di queste dee-maiale
è Circe, descritta come la dea “dai bei riccioli e dalla voce melodiosa”, prima che la tradizione la
trasformasse nella magica strega. Circe è la figlia di Perse, il maiale Forcide. La sua isola è il ros-
so Elisio, la terra dell’aldilà.
Nel decimo canto dell’Odissea si narra come Ulisse approda con i suoi uomini sull’isola di Circe
e come viene magnificamente ospitato da lei nel suo palazzo. Ma, in seguito, sull’isola del mondo
infero si svolge il mistero della trasformazione. «Quando essi lo ebbero ricevuto e vuotato, Circe li
toccò col ramoscello e li rinchiuse nei porcili. Perché di maiali essi avevano le teste, le voci, i corpi,
anche le setole; soltanto il loro intelletto rimase completamente uguale a prima.» E Circe gettò ai
maiali un mangime di corniole rosse.
Il ramoscello magico ricorda lo scettro di dPal-Idan-lha-mo. Anche il Mabinogion celtico parla in
continuazione del tocco con la verga magica e nelle fiabe, per esempio in quella di Jorinde e Jo-
ringel, la strega si serve di un ramoscello per la trasformazione. Con tutti i suoi attributi, Circe si ri-
vela la dea delle trasformazioni che si compiono attraverso il mondo dell’aldilà. Nell’intera area
greca manca l’immagine di una “strega”. Solo attraverso la patriarcalizzazione Circe e Medea, la
Medusa e la Gorgone, staccate dal loro complesso campo energetico, vengono ridotte a questa
immagine negativa. Il mito di Circe risale a profondi strati matriarcali, sia spiritualmente sia stori-
camente.

Maiale sacro. Nea Makri, Attica, 6000 a.C.

In genere nelle fiabe degli dèi l’eroe viene trasformato nello stesso animale che in origine gli era
sacro e nelle cui sembianze egli era solito mostrarsi. Adesso questo trasformazione diventa una
punizione, perché viene sentita come una ricaduta in una fase dello sviluppo dell’umanità che, in
quanto matriarcale, dev’essere superata.
122
In molte fiabe compare il motivo della trasformazione in maiale, come in una fiaba tedesca1 che
narra del figlio di un re che riceve una maledizione da una strega cattiva e ne viene liberato per-
ché durante la notte delle nozze la sposa brucia la pelle del maiale. In un’altra fiaba la liberazione
avviene grazie ad una fanciulla innocente che rimane presso di lui tre giorni e tre notti, il che allu-
de alla trasformazione della luna e alla morte della luna del re sacrale. Da Siebenbuergen provie-
ne la fiaba del bambino di setole. Una regina sedeva davanti al suo palazzo e sbucciava delle me-
le. Quando il suo bambino di tre anni mangiò le bucce che lei gli aveva vietato di mangiare, gridò:
«Eh, che tu possa essere un maialino!» Trasformato in maiale, l’eroe dovette superare tre compiti;
poi, siccome sua madre bruciò troppo presto la pelle di maiale, fu salvato dalla moglie «alla fine
del mondo». La fine del mondo è la terra dell’aldilà delle trasformazioni, un’isola di Circe. In una
fiaba popolare rumena un re, che deve partire per la guerra e lasciare a casa le tre figlie, le am-
monisce a non entrare in una «stanza posteriore», perché porta sfortuna. Quando ciò nonostante
la figlia più giovane lo fa, apprende che deve andare in sposa a un maiale del nord. E così acca-
de. Ogni notte il marito si trasforma in uomo e la mattina torna a essere maiale. Una strega le con-
siglia di legargli una corda intorno alla gamba, per liberare il maiale dal sortilegio. Ma l’uomo si
sveglia troppo presto, e così il tentativo fallisce e l’eroina, nella ricerca del marito-maiale scompar-
so, deve recarsi dalla luna, dal sole e dal vento. Alla fine deve arrampicarsi su un’alta montagna
servendosi di una scala di ossicini di pollo. E poiché l’ultimo piolo manca, si deve tagliare il dito
mignolo. Allora il marito-maiale è libero2.
La “stanza vietata”, i “venti dell’alto nord’, l’ "alta montagna” che spesso è una “montagna di ve-
tro” e la “fine del mondo” sono descrizioni simboliche del mondo dell’aldilà. La “corda” legata alla
gamba è un simbolico cordone ombelicale con cui l’eroina vorrebbe riportare nella sfera umana il
suo uomo dell’aldilà. La “montagna di vetro” allude al maiale come animale dell’aldilà, perché la
parola gaelica per SchweineFERkel (maialino) è VERRE, che però significa anche “vetro”. Verre
oppure gorre è il “paese senza ritorno”, il regno di Meleagant, da cui Lancillotto vuole riportare in-
dietro Ginevra3. Di esso fa parte anche il Caer Wydr, il “castello di vetro” o Glastonbury, in cui abi-
ta l’anima del re Artù dopo la morte del sovrano. Glastonbury si trova sull’isola di Avalon, l’isola
celtica della mela, che nel suo simbolismo rassomiglia al Paradiso dell’Antico Testamento.
Il “castello di vetro” viene chiamato anche “castello a spirale”. In esso si eseguono le danze del
labirinto, che nel Galles si chiamano Caer droia4, paragonabili al gioco troiano o alla danza delle
gru di Deli. Perciò le danze sono anche un simbolo della terra dell’aldilà, del mondo delle trasfor-
mazioni. Kolabros è la selvaggia danza in cerchio dei Traci, a sua volta collegata ai maiali, perché
kolabros significa “maialino”. In Grecia questa danza in tondo tracica viene chiamata KIRKOS. Kir-
kos è la danza della trasformazione di Circe, i cui figli, nella festa della luna piena, compaiono in
suo onore come maiali5.
Nelle feste di danze in onore di Demetra le danzatrici si chiamavano HYAINI, i maiali.
Cerchio, ballo in tondo, spirale, labirinto, kirkos e kolabros sono originariamente danze dei ma-
iali, che simboleggiano la terra dell’aldilà della dea cosmica. Sono riconducibili a VERRE, il maia-
le, in quanto appartenenti a un gruppo di parole affini, anche Frau Werre, Frau Perchta, Frau Hol-
le. Tutti questi nomi indicano l’autorità di trasformazione della dea, quando fa cadere la neve dalla
rete del firmamento come la dea indiana fa cadere il suo soma dal setaccio.
Circe è una dea cosmica della trasformazione, e la sua isola è il luogo delle nascite cicliche di
trasformazione. La trasformazione dei compagni di Ulisse avveniva ancora senza morale e senza
giudizio negativo sul maiale. Ma nei miti successivi, secondo le dottrine dei pitagorici, furono anco-
ra soltanto gli uomini lascivi a essere trasformati in maiali, ormai considerati “sporchi maiali”. Ecco
che il profondo carattere di trasformazione dei maiali e della loro dea Circe trapassa nella condan-
na morale di impronta sessista del patriarcato.
Il maiale che adesso viene rigettato era anche in Grecia l’animale sacro. Alla dea HYgieia
(Igea), che tiene nelle mani l’uovo e il serpente, si immolava il maiale, e i maiali erano in genere
vittime sacrali frequenti. I guardiani di scrofe erano, secondo la raffigurazione che ne fa il mito di
Eumeo, una casta riconosciuta. Nel culto di Dioniso e di Demetra il sacrificio del maiale era sem-
pre presente, e soprattutto allo Zeus di Creta veniva offerto spessissimo. Un mito racconta che
Zeus fu nutrito da una scrofa, che aveva cavalcato su di lei e aveva perso il cordone ombelicale a

123
Omphalion, nei pressi di Cnosso.

La scrofa-Demetra della “coppa inferiore”


La dea-maiale greca era Demetra. Non posso illustrare in questa sede il suo mito e il culto che
le veniva tributato a Eleusi, perché troppo complessi. Ma tutta l’area circostante indica in lei la
dea-maiale. R. Ranke Graves ha scoperto nelle sue ricerche che le sillabe IR e KAR ricorrono
sempre nei nomi delle dee che nelle loro triplici sembianze di lunazione nero-rosso-bianca attirano
l’attenzione sulla loro dinamica di trasformazione. Pur riconoscendo la dinamica dei colori, come
fasi della lunazione, riduce tuttavia la dea-scrofa totale all’aspetto di vergine e le dà l’appellativo di
una dea bianca, descrivendone logicamente solo le qualità “bianche”.
KERdo è il nome di Demetra. Significa “guadagno” e ha a che fare con la fase bianca della lu-
na. Artemide, la sorella greca della dea celtica dei maiali Arduinna, ha anche il nome di KARia o
KARyaris come madre-luna del dio KER. Si chiama anche Artemis Alpheia. Alphé significa con-
temporaneamente “guadagno”, “bianco” ed è anche un prodotto cerealicolo. Così Artemis Alpheia
è la bianca dea del grano nella sua figura di scrofa. Artemis deriva da ARTEMES e significa “colei
che taglia a pezzi”. A Eleusi, un rito simbolico della mestruazione era quello di tagliare tre spighe
di grano e di sollevarle in alto. Tagliare il grano, macellare gli animali e recidere i capelli sono
azioni simboliche della morte della luna, del sangue mestruale.
Eubuleo, il guardiano di porci e sacerdote dell’oracolo nel mito di Demetra, è anche il guardiano
di porci della dea Marpessa dalle sembianze di scrofa. Marpessa significa “colei che acchiappa”,
“colei che afferra” o “colei che divora”7. Suoi nomi sono anche CHOËRE o KERDO, ma anche
Forcide. Da Forcide derivano le Forcidi, le dee-maiale fra cui le Gorgoni, le Arpie e le Nereidi. Le
cinquanta Nereidi sono la comunità delle sacerdotesse della luna e, in quanto Forcidi, sono le sa-
cerdotesse dei maiali, che portavano la maschera della Gorgone per incutere terrore e proteggere
così il mistero dal pericolo che venisse distrutto dai non iniziati. Anche le Naiadi sono figlie di For-
cide. Esse tessono nelle caverne vesti di porpora destinate ai rinati8. Fanno parte dei Forcidi an-
che le Sirene, che come le Arpie sono fatte a forma di uccelli. Anche Scilla fa parte della cerchia di
sorelle delle dee-maiale. Il suo nome significa “colei che strappa”.
Il mistero sacrale di Eleusi era evidentemente il sollevare in alto le tre spighe tagliate, con cui
veniva trasmesso il sanguinamento sacrale. La trasformazione ciclica era rappresentata dalla dea
Persefone. Come terza dea accanto a Kore e a Demetra, essa personifica l’aspetto della fase ne-
ra della luna, e perciò per un terzo dell’anno deve intraprendere il viaggio nel mondo dell’aldilà. Al
suo posto vengono gettati nella terra i maiali. Il nome Persefone si sviluppò dalle sillabe PHERO e
significa “colei che porta distruzione”. Ma Persefone è una “distruttrice” tanto poco quanto la divo-
ratrice dei morti egiziana è una “inghiottitrice”. Essendo la dea della fase nera del sanguinamento,
va sotto terra e, passando attraverso la piena dissoluzione, si trasforma in un nuovo inizio. Rinata,
ritorna sulla superficie terrestre come KORE, come la dea della fase bianca della lunazione.
Nella sfera del mondo infero greco, l’Elisio o l’isola di Circe, rientra la melagrana. Anche sull’i-
sola di Avalon fioriscono gli alberi di mele. Nell’Elisio fiorisce il rosso papavero selvatico e cresco-
no come cibo dei morti le rosse ciliege del corniolo. Il mito di Circe mostra che le corniole erano
anche il mangime dato ai maiali che si dovevano trasformare. Dalle bacche di KERmes i Greci ri-
cavavano il colore rosso scarlatto del regno dei morti, con cui le Naiadi tingevano le vesti della ri-
nascita.
Della sfera del regno dei morti di Persefone fa parte anche il cane KERberos. Descritto nei miti
come cane infernale con tre teste, dev’essere stato originariamente un maiale non solo per la sua
divisione in tre parti e per le orecchie bianco-rosse. Kerberos è anche una figura animale della dea
Ecate, che per i suoi denti di maiale si rivela una dea-maiale matriarcale. Come la divoratrice dei
morti egiziana col suo sedere di maiale degenerò in una cagna dalle molte mammelle, così è ac-
caduto anche al cane-maiale Kerberos.
Le sillabe sono simboli-parola provenienti dall’epoca matriarcale e dallo sviluppo matriarcale
della coscienza. Esse descrivono in forma estremamente concisa esperienze ampie ed essenziali.
KER oppure KAR oppure in celtico Q’RE significa “destino”, “sorte”, o “tramonto”. Tutte le dee nel
124
cui nome compare questa sillaba sono non a caso figure sacrali di questa “andata sottoterra”. Es-
se sono tutte dee della trasformazione attraverso l’ORCO, attraverso il maiale dell’aldilà Forcide.
KER o KAR descrive la trasformazione come il destino dell’intera esistenza, che si realizza anche,
appunto, attraverso la morte. Tutte le dee KAR sono state dee-scrofa, perché la scrofa è il vaso
simbolico di questo mistero della trasformazione. Demetra col nome Phaia è la scrofa bianca.

Le feste dei maiali della mestruazione

La festa Hysteria
Una delle feste essenziali in cui venivano sacrificati dei maiali aveva luogo ad Argo ed era in
onore di Afrodite. Questa festa si chiamava Hysteria. Vi prendevano parte sia uomini sia donne
scambiandosi i ruoli. Era una festa orgiastica, il cui nome derivava dal sacrificio del maiale9. Era
chiaro così per la donna greca che la sua hystera, il suo utero, veniva paragonata al maiale. La
parola hysteria veniva adoperata nello stesso senso della parola aphrodisia. Nella Hysteria si ce-
lebrava la conoscenza che tutto quanto viene ritualizzato nella luna e nel maiale corrisponde alla
sacralità del sangue mestruale. Di conseguenza anche il sangue del maiale viene inteso come
sangue di purificazione e di espiazione.

Sacrificio di un maiale nei Misteri eleusini. Vaso di una tomba, I secolo d.C.

I piccoli misteri di Agrai venivano festeggiati in onore dell’altro aspetto di Demetra: Kore, la sua
figura primaverile. Il sacrificio della scrofa era compito dell’Hydranos, il sacerdote dei maiali10. Du-
rante la cerimonia si eseguiva una danza della corda, originaria di Cnosso: quindi una danza del
labirinto. In Attica la danza dei maiali si chiama CORdax11. Le danzatrici, le HYainia, prima dell’ini-
zio degli spettacoli si purificavano col sangue di un maiale consacrato.
La festa Hysteria o Aphrodisia risale alle corse in cui le fanciulle gareggiavano per la carica di
sacerdotessa della luna, che fu sempre un ufficio ricoperto dalla sacerdotessa dei maiali. I riti di
purificazione col sangue di maiale erano generali, perché nella festa della Hysteria si celebrava la
santità dell’hystera. Rientravano sicuramente in questa festa anche le posizioni cultuali della me-
struazione, della dea che troneggia sul suo maiale e mostra la “porta dell’Elisio”.
I sacrifici di maiali alla festa della Hysteria sono sacrifici naturali ciclici che rappresentano l’of-
ferta dell’autentico sangue purificatore della mestruazione. I Greci erano a conoscenza del potere
di espiazione del loro animale sacrale. Ancora Oreste, perseguitato dalle Erinni, cercava di ripulirsi
con sangue di maiale e acqua corrente. Benché il matricidio, considerato il peggiore dei delitti, non
si potesse espiare neppure col sangue di maiale, Oreste viene perdonato dagli dèi dorici, adesso
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patriarcali, perché aveva ucciso la madre per vendicare il padre. L’Orestiade mostra la vittoria del-
la rivoluzione patriarcale, la vittoria dorica sul culto matriarcale dei maiali.
Il maiale primordiale era già presente nei primi miti pelasgici della creazione. Il primo uomo,
creato da Eurinome, la dea della creazione, con l’aiuto di Borea, si cucì il primo vestito con pelli di
maiali. Ci potrebbe essere qui un’allusione all’idea mitica dell’uomo che ricorda di avere avuto ori-
gine dai maiali e spera di rinascere ancora dal maiale.
A questo campo energetico matriarcale si rifà il mito di Circe come anche il mito di Kore-Deme-
tra-Persefone. Nei riti non si tratta mai della raffigurazione della morte e della resurrezione, ma si
tratta sempre invece della trasformazione sia fisica sia psichico-religiosa a opera della dea-maiale.
Nelle religioni matriarcali ufficiali della Grecia la speranza di una rinascita del corpo finisce, col
passare del tempo, sempre più in secondo piano. I riti rappresentano le esperienze della trasfor-
mazione psichica da un livello di coscienza a un altro, come il mistico indiano, nella “ruota della vi-
ta”, passa da un mondo della coscienza all’altro. Di conseguenza adesso le stelle non simboleg-
giano più la vita psichica dei morti oppure degli esseri non ancora nati, ma diventano il simbolo
dell’anima. Adesso nel maiale sacro come nella dea nera Persefone si celebra il viaggio ciclico
nella terra come viaggio di trasformazione spirituale.
Accanto ai Misteri eleusini, nel mese di Bedromione c’erano due feste principali, che erano
esclusivamente feste di donne. Mostrerò che entrambe sono importanti feste dei maiali, in cui si
compiva ritualmente il mistero della trasformazione del sacer mens.

La festa delle Skira


Le Skira avevano luogo il 12 del mese di Skirophorion. Il fatto che il mese del calendario rice-
vesse il nome dalla festa è indice dell’arcaicità delle sue origini. Le Skira, chiamate anche Skiro-
phorie, sono le feste di Demetra e hanno un’importanza fondamentale, perché sono strettamente
legate alle Tesmoforie. Si svolgono in giugno-luglio, cioè agli inizi della siccità estiva, dopo il rac-
colto. Esattamente quattro mesi dopo, in corrispondenza dunque con la tripartizione matriarcale
dell’anno, si svolgono le Tesmoforie dall’11 al 13 Pyanopsion, quindi alla fine del periodo della sic-
cità, quando la terra viene arata per la nuova semina. Con la festa della Skirophoria, all’inizio della
siccità, ha inizio il viaggio dei maiali nella terra per i quattro mesi successivi. In un’azione rituale,
dei maialini vivi vengono gettati nella cosiddetta “Megara”, una fenditura della roccia sul cui fondo
ci sono i serpenti. Lì durante la siccità i maiali vanno in putrefazione; quindi, il 12 Pyanopsion, ven-
gono riportati su con una festa rituale. Questo giorno è detto “Nesteia” ed è il giorno centrale dei
tre giorni di festa delle Tesmoforie.
Durante l’azione della festa tutti fanno molto rumore per spaventare i serpenti. Poi i resti dei
maiali vengono posti su un altare e infine, dopo svariate cerimonie, vengono sparsi sui campi. Nel-
le zone contadine questo rito viene compiuto ancora oggi col sangue mestruale. In Curlandia si ri-
trova ancora un rituale molto chiaro: nel terreno pronto per la semina viene conficcata una codina
di maiale, come se l’intero maiale fosse sotto terra e ne uscisse fuori soltanto la coda12.
Col viaggio dei maiali nella terra durante il periodo di siccità si celebra ritualmente la fase nera
della mestruazione. Poiché la condizione per comprendere questo rito è che si conosca la triparti-
zione matriarcale del ciclo sia mestruale sia stagionale, non è possibile che in queste feste si ce-
lebrasse soltanto la capacità della donna di partorire. Altrettanto poco si può parlare di un incante-
simo per la fertilità della terra. Nelle feste delle donne si celebra la fede nella rinascita di ogni
vita. Ritualizzando il proprio ciclo col viaggio dei maiali nella terra, le donne si assumono
anche la responsabilità degli ordini ciclici del cosmo. Perché le donne trovino la loro iden-
tità è importante fare questa distinzione, dato che tutti gli interpreti hanno ridotto questi
culti a riti della fertilità per la donna e per la terra.
Un’immagine dipinta su un vaso di Atene mostra una celebrante nell’atto di compiere l’azione ri-
tuale di gettare nella terra un maialetto. Nella mano sinistra regge un cesto sacrificale a tre punte,
e davanti a lei ci sono tre fiaccole, simboli delle fasi lunari. La “luce eterna” della luna come quella
delle fiaccole illumina la “coppa inferiore” in cui i maialini si decompongono, e subiscono quindi la
morte della luna.
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Il nome Skira pone degli enigmi a tutti gli studiosi di mi-
tologia, dalle cui conoscenze ho tratto molto profitto. Io of-
fro loro una soluzione. Per Skira è possibile che si inten-
desse un oggetto sacro che veniva “portato”, perché il no-
me di Skirophorion significa proprio questo. Nelle Tesmo-
forie venivano portati anche i desmoi, i resti putrefatti dei
maiali, che hanno dato il nome alla festa. Il problema è che
nelle Skirophorie le donne non portano niente in mano, ma
gettano nella Megara i maialini come oggetti sacri.
La tesi di molti esperti è che Skira indicassero dei gran-
di baldacchini bianchi, come quelli utilizzati anche nella
processione che, partendo dall’acropoli, giungeva a una
località di nome Skiron. Ma è impossibile, dicono gli esper-
ti, che questi baldacchini bianchi fossero gli oggetti sacri,
perché non hanno nessuna funzione “sacra” per la festa.
Alcuni interpretano i baldacchini come ombrelli, ma non se
ne capisce il significato.
Questa disputa, che a volte fa sorridere, si dissolve su-
bito se le Skirophoria vengono intese come feste della me-
struazione, nelle quali ricorrono elementi di antichi riti del
menarca di culture matriarcali. Una delle regole fondamen-
tali che si ritrovano su tutto il globo terrestre è questa: una
ragazza col menarca e una donna sanguinante non pos-
sono vedere il sole e non possono toccare la terra, perché
il sole potrebbe prendere al sangue il suo contenuto mana
e la terra potrebbe succhiare la forza del sangue. Il sole
non può “guardare” quando la luna o la donna sanguinano.
Perciò in tutti i riti legati alle mestruazioni la donna viene
Il viaggio dei maiali nella terra protetta dal sole, viene condotta davanti al villaggio e per
nelle Skirophorie greche. tutto il periodo del ciclo rimane nella casa della mestrua-
zione, affinché non tocchi la terra e il sole non la veda.
Nelle Skirophorie il baldacchino è l’oggetto sacro che adempie per la donna mestruata il rito di non
essere vista dal sole. Nelle Tesmoforie si costruiscono anche le capanne, il cui pavimento viene
coperto di piante di lygos affinché la donna mestruata non tocchi il suolo.
In epoca patriarcale entrambe le prescrizioni mestruali sono state assunte dai re maschi
come rituali di potenza. Essi camminano su un tappeto rosso (!) e siedono, come avveniva
nel Medioevo e come avviene ancora oggi in Oriente, sotto un baldacchino. Il fatto che i po-
tenti della politica e della chiesa assumano questi riti del menarca e per secoli li celebrino
come simboli del loro potere senza conoscerne neppure vagamente l’origine, mostra sol-
tanto che prima questa autorità e questa dignità reale appartenevano alle donne che san-
guinavano.
I baldacchini sacri mostrano che nelle feste di Demetra al centro dell’adorazione era il sacer
mens della donna. Per il periodo della festa era prescritta l’astinenza sessuale, che corrisponde al
ritiro della donna mestruata per attendere il sogno dell’oracolo. La prescrizione del menarca di non
toccare il suolo durante la mestruazione veniva osservata facendo sedere le donne su una “pelle
magica”. Con questo rito si compiva sicuramente anche un significativo atto psichico di distacco
dalla madre terra.
Nelle Skirophorie le donne celebrano il loro sacer mens. Nell’azione simbolica del viag-
gio dei maiali sotto terra celebrano la loro “fase nera” del sanguinamento, l’autonomia as-
sicurata dal non partorire e la profetica capacità di oracolo. Esse celebrano orgiasticamen-
te l’autorità della loro femminilità, che non è ridotta alla maternità e alla fertilità.
Quattro mesi dopo, nelle Tesmoforie, viene celebrata la fine del sanguinamento e la fase bian-
ca di una nuova disponibilità a concepire: nella stessa stagione in cui si arano i campi.

127
La festa delle Tesmoforie
Nelle Tesmoforie venivano riportati su i maialini che durante le Skira erano stati buttati nella
Megara. Le donne che compivano questo rito si chiamavano le raccoglitrici. Il mese di Pyanopsion
è la stagione di ottobre e novembre. Sul fregio di un antico calendario proveniente dal santuario di
Eleutherios il mese di novembre è rappresentato sotto forma di uno scorpione che, per via delle
sue tenaglie, è un simbolo della luna nera. Accanto allo scorpione sta una donna che attinge con
un cesto sulla testa, un precursore del kalathos eleusino che anche Iside portava in testa mentre
troneggiava sulla sua scrofa. Quando erano stati riportati su dalla Megara, i resti dei maialini veni-
vano messi in questi cesti, poi deposti sull’altare dalle donne che attingono. In seguito il contenuto
delle ceste, mischiato con le sementi, veniva mescolato sottoterra con una triplice aratura. La tri-
plice aratura sacra risale al rito delle nozze sacre. Di Inanna si racconta che «loda la sua vulva e
chiede a Dumuzi di riempire il suo corpo e di arare la sua vulva»13.
Ancora oggi in Grecia prima della prima aratura si frantuma davanti al vomere dell’aratro una
melagrana, che in questo rito sottolinea ancora il significato del sangue sacrale. I chicchi del frutto
vengono mischiati alle sementi, come prima si faceva coi resti imputriditi dei maiali oppure col san-
gue mestruale.
Tutti e tre i giorni delle Tesmoforie avevano un proprio nome: Anodos era l’11, Nesteia il 12 e
Kalligeneia il 13 di Pyanopsion. Il giorno di Anodos le donne scendevano nella Megara e portava-
no su i sacri resti putrefatti dei maiali, in una processione solenne che giungeva fino al Temenos,
situato in alto, chiamato anch’esso Tesmoforion.
L’ “ascesa” veniva simboleggiata ritualmente. I resti marciti del maiale sono i DESMOI, che da-
vano il nome alla festa. Le donne rimanevano per tre giorni su nel Tesmoforion e costruivano per-
ciò delle capanne di fogliame, nelle quali non è difficile riconoscere la capanna matriarcale delle
mestruazioni. Nelle capanne le donne se ne stavano sempre insieme a gruppi e si raccontavano
probabilmente i loro sogni.
Il secondo giorno, quello di Nesteia, si digiunava, perché esso era per le donne il giorno di ripo-
so dal culto, fra i riti del primo e del terzo giorno. Anche in questa festa, come nei riti del menarca,
si osservavano esatte prescrizioni sul cibo, oppure il digiuno. Nelle capanne le donne si distende-
vano su un giaciglio di lygos, poiché non potevano toccare il suolo. Il lygos è una pianta che corri-
sponde al soma indiano. Essa serve anche da bevanda magica per eliminare velocemente la mu-
cosa uterina e rende possibile una particolare sensitività, una sorta di meditazione trasognata, pa-
ragonabile a una discesa nell’interiorità. Il lygos fiorisce in tre colori, in candele azzurre, bianche e
rosa pallido. La pianta è chiamata anche parthenios, perché frena l’istinto sessuale e stimola con-
temporaneamente una sensibilità interiore indipendente dall’uomo. Poiché affretta il mestruo, va
intesa come pianta dell’oracolo.
Il terzo giorno, Kalligeneia, era dedicato al vaso dell’utero e al passaggio dalla fase sterile alla
fase feconda. Le donne mangiavano grani di melagrana. Ma non potevano mangiare quelli che
erano caduti a terra, perché non potevano toccare la terra. Un colpo con un ramoscello, testimo-
niato anche da altre feste di Demetra, simboleggia chiaramente ancora una volta l’evento della
trasformazione. (capanna sudatoria! Nota di Nico) In occasione della festa delle Tesmoforie veni-
vano anche sciolte le catene dei prigionieri. (Boab! Nota di Nico) Questo rito si può comprendere
soltanto se si intendono le Tesmoforie come festa della mestruazione. Veniva portata in proces-
sione una statua di legno che rappresentava la dea Era. In ricordo di una sua “fuga” la statua di
legno veniva legata a un cancello di lygos con dei rami di lygos. (la donna scheletro. Il sogno di
franco. Nota di Nico) È impressionante il modo in cui si faceva questo “incatenamento”, perché le
corde venivano legate sul suo busto come una croce trasversale paragonabile alla croce trasver-
sale sul busto della dea-maiale Vajravārāhī Il mito spiega che Era fu slegata di nuovo da AdMEte,
cosa che veniva raffigurata ritualmente nella processione con la statua di legno. Era diventata il
periodo della luna nera, perché questo significano la sua fuga, il suo “scomparire”; poi veniva lega-
ta con la pianta di lygos, e alla fine del suo mestruo, quindi all’inizio della luna nuova, i suoi lacci
venivano sciolti. La rinascita è, come la nascita, un “parto”14. Solo su questo sfondo profondamen-
te matriarcale diventa comprensibile la promessa del Messia nell’Antico e nel Nuovo Testamento:
quella che «i prigionieri saranno liberi»15.
128
Con il “parto” inizia una nuova vita feconda per la donna come per il suo ciclo, per la terra e per
l’anno. Il ciclo è di nuovo “in moto”. Maiale, luna, ascesa e discesa, nascere e rinascere vengono
festeggiati dalle donne nelle Skirophorie e nelle Tesmoforie. Al centro delle feste delle donne c’è
niente di meno che il mistero del sacer mens.
Quanto il sacramento femminile sia un campo energetico bio-psichico è dimostrato dalla dea
romana CARMENta, che si potrebbe chiamare anche Sacermenta. Si narra che questa dea ha in-
ventato le 15 lettere dell’alfabeto latino16. Carmenta è l’antica saggia. Dal suo nome deriva quello
delle Cariatidi, le ninfe delle noci, ed a lei sono associati come suoi alberi sacri i mandorli o i noci.
Alla nocciola appartiene il numero sacro coll, nove, e questa è un’allusione alle fasi della luna. Il
ramoscello magico di Circe è il ramo di nocciolo. Tutti gli alberi di nocciole (la capanna sudatoria!!!
Nota di Nico) e tutti i gusci di nocciole che troviamo in innumerevoli fiabe indicano lo sfondo ma-
triarcale del cambiamento della luna. Il colpo magico col ramoscello che indica la trasformazione
attraverso il viaggio dei maiali sotto terra diventa in epoca patriarcale la sferza assassina, che non
trasforma ma uccide. La dea latina CARdea deve probabilmente il suo nome a CARDO. CARDO
significa: “cardine” e “cerniera”. Scrive Ovidio su Cardea: «Sta in suo potere aprire quello che è
chiuso e chiudere quello che è aperto»17. Non si potrebbe descrivere meglio l’autorità della dea
come della donna sulla propria HYStera!

NOTE
1. R. Wildhaber op. cit. pag. 236.
2. B. Bettelheim Kinder brauchen Märchen, Stoccarda, 1985, pag. 347 (trad. it. Il mondo incanta-
to, Feltrinelli, Milano).
3. J. Markale op. cit. pag. 79.
4. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, cit. pag. 125.
5. Ibidem, pag. 45.
6. R. Ranke-Graves Griechische Mythologie, Amburgo, 1985, pag. 7.
7. Ibidem, pag. 21.7.
8. Ibidem, pag. 123.2.
9. E. Neumann Ursprungsgeschichte des Bewusstseins, Olten, 1968, pag. 79 (trad. it. Storia delle
origini della coscienza, Astrolabio, Roma).
10. R. Ranke-Graves Griechische Mythologie, cit. pag. 134.5.
11. Ibidem, pag. 98.4.
12. J.G. Frazer op. cit. pag. 670.
13. S.B. Perera op. cit. pag. 23.
14. La parola tedesca Entbindung significa “parto”, “dispensa” e deriva da ent-binden = slegare, li-
berare. (Ndt)
15. Luca, 4:18; Isaia, 61:1 e segg.
16. R. Ranke-Graves Griechische Mythologie, cit. pag. 52a.
17. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, cit. pag. 77.

129
Il maiale gigante celtico

Il contesto storico dei Celti


Nell’età del bronzo il gruppo occidentale degli Sciti emigrò dalla regione russa verso Occidente
espandendosi a ventaglio, con diverse ondate migratorie, in tutta l’Europa attuale. Le truppe galli-
che (celtiche) conquistarono Roma nel 387 a.C., e minacciarono, sotto la guida di Brenno, perfino
il santuario di Delfi. In tutte le armate della Germania i Celti prestavano servizio come mercenari.
Da Cesare vennero chiamati Celtae; fra i Greci si chiamavano Keltoi; i romani dicevano Galli. Essi
non costituivano un’unità etnica, e la loro lingua si divise in due gruppi linguistici: il gaelico irlande-
se e il bretone o cornico britannico. L’evoluzione spirituale e religiosa di cui era portatrice l’élite
celtica risaliva almeno al II millennio a.C. La sua concezione del mondo e le sue idee religiose si
diffusero, quando queste popolazioni divennero sedentarie, prevalentemente nell’area gallica.
Questa evoluzione chiusa in se stessa fu interrotta quando, nel 124 a.C., i Romani, nel frattempo
divenuti militarmente superiori, invasero la Provenza. La guerra gallica durò fino al 52 a.C. e con
la sconfitta dei Galli guidati da Vercingetorige il mondo celtico perse la sua indipendenza.
Pur disponendo molto presto della scrittura, i Celti hanno conservato per iscritto ben poco della
loro mitologia. I disegni che corredano il patrimonio delle loro saghe furono opera dei monaci del
Medioevo. Gli originali più antichi risalgono al VI sec. d.C. e soltanto fra l’XI e il XII secolo. il ciclo
delle saghe celtiche viene trascritto su circa mille manoscritti. La cristianizzazione sistematica dei
Celti prese l’avvio a partire dal V e dal VI secolo. San Patrizio, nel VI secolo, è uno dei raccoglitori
dei testi “pagani”, che evidentemente fino a quel momento avevano in Irlanda una tradizione
esclusivamente orale. Gli autori di questi testi erano bardi di grande preparazione poetica, musica-
le e tealogica. I Druidi padroneggiavano un repertorio di almeno 360 lunghe storie. Bardi e Druidi
(poeti e veggenti) costituivano l’élite che tramandava: erano i portatori della cultura e della religione.
Come nelle saghe dei Druidi, così anche nelle monete dei Celti si è perpetuata l’immagine reli-
giosa del mondo. I Celti gallici iniziarono nel III secolo a.C. a coniare essi stessi monete, che sono
autentiche testimonianze della cultura celtica. Finora sono stati trovati circa 100.000 pezzi1. In par-
te hanno una superficie ricurva a forma di scodella e sono fatti di puro oro. Li si chiama “scodelline
dell’arcobaleno”, ma su di essi non è disegnato l’arcobaleno, bensì è tracciato, con delle piccole
frecce, il corso arcuato degli astri già tramandato, con la stessa rappresentazione delle freccia,
nelle pitture delle caverne. Anche la forma della “scodellina” induce a pensare alla “coppa inferio-
re”. Per circa 300 anni i Galli ebbero circa 100 zecche disseminate fra la Gran Bretagna e la regio-
ne del Danubio. La conquista romana mise fine all’arte celtica della moneta.
I Celti appresero l’arte della fabbricazione delle monete dai Greci, ma molto presto misero in
circolazione dei loro conii particolari per le loro diverse comunità tribali, che si differenziavano mol-
to dalla cultura greca sia per la tematica sia per la realizzazione artistica. Nella cultura greca ciò
che è corporeo era oggetto di una venerazione sensuale, e al centro stava sempre la rappresen-
tazione della bellezza e dell’armonia. L’immagine greca del mondo era già “staticamente” divisa
nel cielo degli dèi, nella terra e nell’Ade del mondo infero.
Le monete celtiche mostrano invece un vasto simbolismo nelle immagini e nei segni e un’eleva-
ta e differenziata capacità di astrazione. Gli artisti delle monete facevano l’incredibile tentativo di
mostrare l’ “entità reale” che sta dietro le cose senza rappresentare le “cose”. La relazione col tra-
scendente è il tema centrale che ricorre sulle monete, e questo portò alle massime astrazioni sim-
boliche. Per esempio, la dinamica della luna crescente e calante viene rappresentata ancora sol-
tanto sotto forma di “V”, che spesso coincide col naso della dea, formato appunto da queste due
linee che s’incontrano in punta. La dinamica del ciclo rappresentata dal serpente viene raffigurata
nel simbolo del ricciolo della dea a forma di “S”.
L’apparente irrazionalità delle immagini riportate sulle monete celtiche nasce da questo con-
fronto con la sostanziale immensità del cosmo e dell’uomo. Il celtico non nega il fenomeno della
130
morte, ma contesta l’oggettività della percezione sensibile e l’esclusiva esistenza della cosiddetta
realtà. Per il celtico il trascendente non è dietro tutte le cose, ma in tutte le cose. Tutto quello che il
celtico vede è pervaso di trascendenza. Perciò lo spirito celtico arriva a equiparare la vita e la mor-
te, la condizione anteriore alla nascita e quella posteriore alla morte. I morti sono i non ancora na-
ti. La dialettica celtica parte dalla conoscenza intuitiva della relatività di tutte le cose. Il celtico am-
mette a se stesso di non sapere niente dell’universo e dell’uomo. Perciò nella religione celtica non
si sviluppano né un sistema dogmatico né astrazioni religiose. Tutte le conoscenze vengono tra-
dotte in processi spirituali, che vengono raffigurati in “segni sacri”. Poiché i Celti non condivideva-
no la concezione del tempo lineare-patriarcale, non la potevano tramandare neanche nei loro do-
cumenti storici. Per loro il tempo era il processo ciclico di un universo mai concluso. Ciò non signi-
fica che pensassero in maniera astorica, ma solo che pensavano secondo una storia diversa. Per
loro, l’universo era compenetrato di una “quarta dimensione”, della “realtà altra”. Se i Celti, che
conoscevano la scrittura, non lasciarono niente per iscritto ma preferirono trasferire la loro cultura
in immagini, dovette trattarsi di una decisione consapevole e dovuta a un preciso motivo d’ordine
spirituale. L’illimitatezza di tutte le cose, così come la loro essenza, non è “afferrabile” in parole
ma, appunto, solo in simboli. Per i Celti, come per i fisici atomici moderni, lo spazio è senza spa-
zialità e il tempo è senza passato, presente e futuro. Tutto è indivisibilmente qui e ora e nella sua
interezza. Questo conferisce al presente un’infinitezza immanente. Come lo dovrebbe mettere per
iscritto l’uomo celtico? Le immagini che egli stampa sulle monete permettono di intuire questo im-
mane dinamico processo spirituale. Nella conoscenza del mondo dei druidi non c’è neanche op-
posizione fra sacro e profano, fra vita e morte. Non esiste la morte, ma solo l’illimitatezza dello
spazio-tempo. Dice Lucano dei Druidi: «... se i vostri canti contengono delle verità, allora la morte
è solo il centro di una lunga, continua esistenza»2.

Il maiale gigante sulla moneta


Nell’arte della moneta i Celti imboccano una strada simbolica radicalmente diversa da quella
dei loro maestri greci. L’uomo greco, nel suo amore per ciò che è materiale, crea il mondo degli
dèi prendendo a modello il mondo terreno e concreto. L’uomo celtico non vuole rappresentare né
un mondo di dee né la creazione, ma cerca di compiere, rivivendolo, l’atto della creazione stessa,
il processo trascendente. Il maiale gigante come “paiuolo della rinascita” diventa il simbolo religio-
so che consente di esprimere la realtà invisibile. Il maiale gigante come paiuolo primordiale delle
trasformazioni compare in un numero incredibile di monete.
Una moneta degli Ebuforici sembra riprodurre le fasi di sviluppo della religione celtica. All’inizio
c’era l’uovo primordiale, che i Celti rappresentano sempre
come un punto. (Una volta ho sognato Patrizio che diven-
tava un punto – nota di Nico) Anche qui il punto-uovo
compare sotto il corpo di un cinghiale. I Celti vedono nel-
l’uovo la “prima manifestazione divina”3. Questa conce-
zione rappresenta la fase religiosa corrispondente, nell’a-
rea mediterranea, alla credenza che il sacro sia contenuto
negli elementi. Nel successivo stadio di sviluppo della co-
scienza fra i Celti, compare la dea-cinghiale, le cui zampe
posteriori sono rappresentate a forma di lira, che nel sim-
bolismo religioso è un’immagine centrale per indicare il
vaso femminile dell’utero. In epoca successiva si sviluppò
il simbolo animale della dea-cavallo Epona. Su questa
moneta, il corpo del suo cavallo è formato da due falci di
luna e le zampe posteriori hanno, come nel caso del cin-
ghiale, forma di lira. Nella fase più tarda dello sviluppo re-
La cinghialessa ligioso la dea, in sembianze umane, siede sul suo cavallo.
sotto la dea-cavallo. Davanti alla testa del cavallo c’è una ghirlanda di perle
Moneta degli Ebuforici/Aulerci. che corrisponde alla ghirlanda di fiori o alla corona di stel-
131
le, simbolo di eterne rinascite cicliche. Nel centro, come anche nella testa del cavallo, è raffigurato
di nuovo l’uovo primordiale. Il maiale HYS è esso stesso il simbolo dell’aldilà prenatale. In diversi
miti che hanno per oggetto la “principessa sul fondo del mare”, gli abissi marini sono la terra di YS
(l’uguaglianza delle sillabe non può essere un caso). YS non è una terra dell’aldilà molto lontana,
ma è sempre vicina, un’isola oppure una città sprofondata. Nella saga di KER-YS questo aldilà
viene descritto come una splendida città in cui il re ha rinchiuso la figlia4. J. Markale traduce KER-
YS con “città degli abissi”, ma secondo la ricerca sulla sillaba KER condotta da R. Ranke-Graves
e secondo la mia ricerca sulla sillaba HYS, KER-YS significa letteralmente “maiale della trasfor-
mazione della luna”. Questo recipiente delle trasformazioni è l’aldilà celtico.
La fontana magica di KER-YS viene protetta dalla dea primordiale Ilmater. La figlia imprigionata
si trasforma in un salmone rosso e vive come dea Dahut nella città di YS per più di trecento anni.
Il nome Dahut deriva da DAGOSOITIS5 e significa più o meno “strega buona”. Ma Dahut si chia-
ma anche Ahès. Questo nome si è sviluppato da Alc’huez, in cui è contenuta la sillaba del maiale
HYS, e significa “vecchia strega”6.
Dahut-Ahès è la reggente di YS, il mondo dell’aldilà, nonché un’importante dea-maiale. Essa
rappresenta la religione matriarcale di fronte ai “padri”, che si arrogano il potere chiave7 sullo YS.
Il mito di KER-YS narra come la figlia Dahut sottrae di nuovo la chiave al padre e si libera dalla
prigionia. Ma così ha anche aperto le chiuse provocando un’inondazione che ha fatto perdere
l’ingresso per accedere alla terra di Ys. Questa rivolta della figlia matriarcale contro il padre pa-
triarcale potrebbe dare alle figlie di oggi l’esempio di come sottrarre la chiave della chiesa al “pic-
colo sarto coraggioso” e “far uscire la scrofa”, anche a costo di inondazioni... Oggi ci preoccu-
peremmo “consapevolmente” che non vada tuttavia perduto l’ingresso alla terra di Ys.
Che questo maiale possedesse una potenza cosmica, lo mostra una moneta dei Veliocassi.
L’uovo primordiale della vita proviene da un irsuto cinghiale cinto da una ghirlanda di punti e di
perle. Tutto l’universo corre secondo le leggi cicliche che sono simboleggiate nel cerchio-uovo del-
le eterne rinascite. Sul cinghiale è posato un uccello che, come il gallo del Samsara indiano e il
gallo dei Misteri eleusini, rappresenta il principio dello sviluppo della coscienza. Nella parte supe-
riore, dietro il gallo, si trova una testa di cavallo con un corpo a forma di serpente tutto fatto di pun-
ti-uovo. È possibile che il cavallo serpente indichi un livello nello sviluppo della religione in cui la
dea-cavallo Epona è ancora senza corpo e il gigantesco cinghiale riempie ancora tutto il cosmo
finché non si sia pienamente formata la religione di una dea-cavallo.

La cinghialessa cosmica
con l’uovo primordiale
sotto il ventre.
Moneta dei Veliocassi.

Di maiali cosmici con l’arco del cerchio-uovo dell’universo e col simbolismo matriarcale sotto la
pancia ce ne sono in gran quantità. Una moneta degli Armorichi mostra il cinghiale setoloso sotto
l’arco dell’uovo-cosmo. Sotto il corpo del maiale è accennato un labirinto che simboleggia soprat-
tutto l’utero come vaso della trasformazione. In basso, due serpenti, simboli della luna crescente e
della luna calante, combattono fra di loro. Il cinghiale, che veniva rappresentato con le setole, si
trova per lo più sotto il simbolo del cavallo, ma a volte anche sopra di esso. Quando cavalca sul
cavallo, è per così dire un simbolo della dea-maiale, perché il simbolo religioso del cinghiale come
utero cosmico si sviluppò dando origine alla figura umana di una dea.
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La cinghialessa cosmica
col labirinto sotto il ventre.
Moneta degli Armorichi.

La moneta dei Petrocori porta a concludere che il cinghiale “si drizza” diventando una dea-
maiale dalla figura umana. Tutto il viso di questa figura è composto dall’uovo primordiale e dal
grugno di maiale. Intorno alla figura si può ancora riconoscere parzialmente il cerchio-uovo cosmi-
co che indica la sfera dell’autorità della dea-maiale.
Nel corso della successiva evoluzione religiosa, le rappresentazioni dei simboli diventano sem-
pre più astratte. La dea si fa riconoscere come dea della lunazione, perché il suo naso ha una
forma a “V”, il simbolo più astratto fra quelli che indicano le due falci della luna crescente e della
luna calante. Davanti al viso porta il simbolo dell’eternità, il serpente ciclico a forma di “S”. Tutta la
sua nuca porta impresso questo simbolo. Sulla sua testa, come una corona oppure come il gero-
glifico egiziano di Nut, è raffigurato un maiale setoloso. Il maiale è la sua incoronazione. Sopra si
può vedere di nuovo un arco di cerchio-uovo. Questa moneta mostra alla perfezione la religione
celtica di una dea-cinghiale della lunazione. Essa è una dea fin dall’inizio, perché il suo occhio è
costituito dall’uovo primordiale. Essa è anche una dea della rinascita dell’universo, perché su di
essa si inarca il cerchio-uovo dell’universo.

La dea cinghiale che si erge. La dea cinghiale con la corona


Moneta dei Petrocori del maiale. Moneta dei Veneti.

Nel corso della successiva patriarcalizzazione, a partire dal XII e XIII secolo a.C., il cinghiale di-
venta il “verro dalle setole d’oro” e adorna gli stendardi di guerra e le bandiere. Non soltanto Tri-
stano, in quanto eroe maschile dei Celti, reca il verro sul suo stendardo, ma anche Riccardo III. Il
133
suo maiale bianco argento è eternato sul pulpito a Fotheringhay, nel Northamptonshire, ed è raffi-
gurato sulle insegne appese davanti a molte locande. Una leggenda racconta che, con la sconfitta
di Riccardo III del 1485, molti osti si affrettarono a dipingere di azzurro le loro insegne col cinghia-
le, perché il Conte di Oxford, che voleva aiutare Enrico VII a conquistare il trono, aveva sullo stem-
ma il cinghiale azzurro”. Anche se durante il patriarcato la potenza femminile fu assunta nelle mani
maschili dei guerrieri, il cinghiale rimane su molti stemmi. La famiglia De Vere ha lasciato il suo
emblema intagliato in legno nella porta di una chiesa a Lavenham, nel Suffolk. Il bel cinghiale por-
ta, inconfondibile, una stella a cinque punte, il pentacolo.

Maiale con stella a cinque punte. Porta


della Chiesa di Lavenham, Suffolk.

Selvaggi e irsuti, azzurri e provvisti di stella a cinque punte, i maiali celtici-britannici rimandano
all’antichissimo campo energetico egiziano e sumero della dea-scrofa cosmica, che adesso appa-
re soltanto come maiale da locande oppure come animale da stemma.
A causa della storia celtica e del ritardo con cui in Irlanda e in Britannia avvenne la patriarcaliz-
zazione della religione, il rapporto psichico col cinghiale sembra qui assai più positivo che nell’a-
rea mediterranea. La svalutazione del principio femminile e la sua trasformazione in male non si è
verificata in maniera così radicale; è avvenuta però l’assunzione dell’autorità dei maiali in mani
maschili e guerriere.

Le dee-scrofa e il maiale gigante nelle saghe


La religione druidica creò numerose figure di divinità femminili. Un intero ciclo di saghe tratta
della regina dei cavalli, descritta nelle storie di Rhiannon contenute nei testi gallesi di Mabinogion.
Rhiannon, come la dea dei Galli Epona, con cui è in rapporto, è la giumenta bianca, e rientra nel
complesso dei miti di “Notre Dame de la Nuit”. In lei si incarna l’idea di una dea ciclica della notte,
perché «il canto degli uccelli di Rhiannon, che risveglia i morti e fa addormentare i vivi»9 fa ricono-
scere in lei una dea della trasformazione. Il suo secondo aspetto, sicuramente più antico, è il cin-
ghiale. In questa sfera della dea della notte rientra Arduinna con i tratti della dea Diana, che caval-
ca su un cinghiale10. Arduinna è una femmina di cinghiale e una scrofa madre divina.
Del ciclo dei suoi miti fa parte la nascita di Kulhwch del Galles. Il suo nome HWCH (maiale) de-
riva dal fatto che egli è nato ed è stato trovato nella buca di una scrofa. HWCH è la sillaba gallese
che indica il maiale, in bretone MOC’H o MOCCUS, come veniva chiamato perfino Mercurio11. L’e-
roe Kulhwch, per ottenere il consenso di Olwen alle nozze, dovette conquistarsi il pettine di un
maiale. Il pettine del maiale è, come il “pettine ornamentale” della dea ceramese Rabie, un simbo-
lo della falce di luna. Il maiale di Kulhwch si chiama Twrch Trwyth e se ne sta nel pantano coi suoi

134
sette maialini. Re Artù aiuta Kulhwch a caccia. Ma quando essi uccidono i sette maialini della
scrofa, questa uccide un gran numero di cavalieri, fa irruzione in Cornovaglia e vi provoca grandi
devastazioni. Ma infine Artù riesce a strappargli il pettine. «Allora si spinge il maiale proprio giù nel
mare.»“2 Questo mito fa pensare al racconto del Nuovo Testamento dei maiali di Gerasa, che,
sentendosi minacciati, si precipitarono volontariamente in mare. Al tempo della leggenda epica
medievale di re Artù, i maiali vengono attivamente perseguitati e uccisi, defraudati della loro po-
tenza legata alla lunazione e spinti nel mare dell’inconscio. È l’epoca di Francesco d’Assisi, che
fece morire di fame nel fosso la scrofa maledetta.
In tutti i miti celtici il cinghiale appartiene alla sfera dell’aldilà della dea della trasformazione, che
è anche la signora della notte e dell’isola delle fate, reggente dell’altro mondo, dell’Autre Monde.
Essere nutriti dai maiali è sinonimo di immortalità. Secondo il libro di saghe Mabinogion, a Syved
ci sono stati sette maiali prodigiosi, che provenivano dall’altro mondo ed erano stati dati al padre
putativo dell’eroe Pryderi. Essi venivano chiamati MOCH. Pryderi e Tristano potrebbero essere
stati i più famosi guardiani di scrofe della dea-maiale.
Di Pryderi si narra che un giorno vide in un bosco un cinghiale bianco, che scomparve in una
rocca di cui egli ignorava l’esistenza. Pryderi seguì la scrofa nella rocca, che era disabitata. Al
centro del cortile trovò sul bordo di una fontana un calice d’oro, «attaccato a catene che arrivava-
no così in alto nel cielo che non se ne poteva vedere il capo»13. Pryderi fa per afferrarlo, e nel
momento stesso perde la voce e le sue mani rimangono attaccate al calice.
Non è difficile riconoscere nella fontana della giovinezza e nel calice-Graal che, provvisto di un
“cordone ombelicale”, giunge fino alle sfere invisibili, l’altro mondo dei maiali. Pryderi perde la vo-
ce, e nella mitologia questo motivo compare sempre quando l’eroe o l’eroina si trovano nell’aldilà.
La dea-cinghiale di quest’epoca è Arianrhod, il cui regno invisibile è chiamato il Caer Arianrhod.
Il ricordo delle dee-scrofa deve essersi conservato fino al ciclo di Artù del XIII secolo d.C., in cui
traspare il motivo della caccia proveniente dalla fiaba del piccolo sarto coraggioso: la regina si è
innamorata dell’eroe bretone Guingamor, che però la disprezza. Per vendicarsi, lei lo manda a
caccia del cinghiale bianco, che «si aggira per il bosco, e che nessuno è mai riuscito a uccide-
re»14. Finora dalla caccia non ha mai fatto ritorno nessuno. Il cinghiale conduce Guingamor da
una vergine che fa il bagno, che lo invita all’amore. Quando l’eroe vuole tornare a corte con la
spoglia del maiale bianco, sono passati trecento anni. La fata del maiale bianco gli consiglia di non
mangiare e di non bere. Ma egli non l’ascolta, e allora cade morto e viene riportato nello “strano
regno”.
Il mondo delle fate del maiale bianco è l’altro mondo. La dea delle notte è il Maiale Bianco stes-
so. Essa è bianca e selvaggia e dell’aldilà, cioè ciclica.
Anche la Henwen del Galles è una dea-scrofa, descritta come la “Bianca Vecchia”, quindi bian-
ca e nera nello stesso tempo . Il suo mito narra che essa è la scrofa del Koll (coll, nove), il che è
indice della sua qualità di trasformazione. Quando Henwen era gravida, fu profetizzato che il suo
parto avrebbe recato grande dolore alla Bretagna. Perciò Artù voleva uccidere gli animali con i
suoi eserciti. A questo punto anche Henwen si precipitò in mare.
Il fatto che il maiale si precipiti o venga precipitato tanto spesso nel mare, permette di trarre del-
le conclusioni in merito al carattere particolare dell’aldilà. C’era l’idea che la città di Ys si trovasse
sotto il mare. Il maiale rientra anche nel ciclo dei miti della “principessa sul fondo del mare”, nel
regno delle fate dell’isola di Avalon, che corrisponde, nel suo aspetto di isola della trasformazione,
all’isola greca di Circe.
Con l’epica cortese, la mitologia celtica passa in un genere letterario il cui tema era «affondare
la scrofa assopita nei più profondi abissi della notte»15. Nella trasformazione patriarcale la dea-
scrofa viene ridotta all’aspetto di “Notre Dame de la Nuit”. Come dea della notte è stata degradata
a una grande scrofa «pericolosa, nociva, terrorizzante» che «si rotola nel fango»16. Come in India,
in Egitto, in Grecia, anche nella mitologia celtica si compie lo stesso processo patriarcale di sosti-
tuzione del cane al maiale. Già nel IX secolo a.C. nella Historia Brittonum vengono menzionati tre
maiali a cui danno la caccia Artù e il suo cane Caval.
Questa trasformazione del simbolo da matriarcale in patriarcale ha lasciato una traccia nella dif-
fusa espressione “porco di un cane”. Perfino nella Bibbia si trovano due espliciti parallelismi fra il

135
maiale e il cane17. Il passaggio dal maiale al cane, dal simbolismo lunare a quello solare, inizia
nella religione celtica già nel V secolo a.C. Nel mito di Mac Datho e del suo maiale gigante, risa-
lente appunto a quest’epoca, si può vedere come nella religione celtica “emerge” il cane solare;
ma si vede anche che i Celti continuavano a respingere e a combattere la solarizzazione.
Il mito narra di due guardiani di scrofe che, ormai patriarcalizzati, vengono descritti come due re
che combattono fra di loro per i regni di oriente e di occidente. Mac Datho, che era figlio di due
muti, possedeva un cane prodigioso, Ailbe, che entrambi i pastori di scrofe volevano avere. Vo-
lendo appianare il contrasto fra le due parti, Mac Datho li invitò nel suo palazzo, che «aveva sette
porte ed era attraversato da sette sentieri e dentro ci stavano sette focolari e sette paiuoli». Si trat-
ta inconfondibilmente dell’altro mondo. In onore degli ospiti, Mac Datho fece ammazzare un maia-
le gigantesco. Ciascuno poteva attingere una sola volta dal paiuolo in cui veniva cotto il maiale.
Poiché il gigantesco maiale conferiva l’autorità regale e ciascuno dei due voleva essere il primo,
intorno al maiale gigante divampò una lotta violenta perché chi avesse preso il primo pezzo
avrebbe ottenuto la dignità regale su tutte le terre. Nella carneficina generale, Mac Datho fa sce-
gliere al cane da quale parte si vuole battere. Quando esso, dopo aver scelto il partito dell’Oriente,
deve scappare, vengono inseguiti dal partito di Occidente, e il cane perde la vita. Alla fine combat-
tono fra di loro solo i due eroi. Quando soccombe, Fer-Loga, che rappresenta il culto lunare, può
manifestare ancora un desiderio, che deve essere esaudito da Conchobar, l’eroe solare. Fer-Loga
dice: «Non sarà niente di grande. Portami con te a Emain Macha (moc’h = maiale) e ogni otto ore
le donne nubili e le fanciulle puberi devono cantare attorno a me un canto: Fer-Loga è il mio teso-
ro»18.
Fer-Loga è il rappresentante della dea-maiale ed è il suo re sacrale nelle vesti di pastore dei
maiali. La piccola cosa che chiede è niente di meno che la vittoria del culto della luna e dei maiali,
che ogni anno doveva essere conquistato daccapo, anche se ormai la fede lunare era “soccom-
bente” nella lotta contro la fede solare. Eppure la solarizzazione era fallita, perché il cane pagò la
sua scelta con la vita. Ma la religione solare trovò nelle sue saghe il prossimo cane infernale, chia-
mato Culan o CuChulainn, il più temuto del ciclo di saghe del “Ramo rosso”. Dalla fronte di
CuChulainn sale la “luna del guerriero”, e dalla sommità del suo capo zampilla un raggio di san-
gue, alto come un pilastro19. Coi miti del cane infernale CuChulainn si compie vittoriosamente il
processo di solarizzazione. Artù e il suo cane che va a caccia dei maiali mostrano, nel XII secolo
d.C., la fine della religione delle dee-maiale celtiche. In questo periodo nei paesi europei si svilup-
pano le prime leggi che pongono le basi della successiva legislazione del Malleus Maleficarum.

Caer-paiuolo-Graal: il maiale cultuale


Il luogo celtico dell’altro mondo è chiamato CAER. Nel calice, nel GRAAL, nel paiuolo, l’altro
mondo delle trasformazioni viene reso visibile in un attrezzo di culto. È solo una casualità delle sil-
labe se il paiuolo della rinascita «pieno di ispirazione e di sapere» appartiene alla dea CERridwen,
chiamata anche CARidwen?20
Alla ricerca sulla lingua e sulle sillabe si continua a muovere l’accusa di non essere altro che un
giochetto privo di fondamento scientifico i cui risultati sarebbero meramente “casuali”. Ma in primo
luogo i casi capitano, anche nella storia dell’umanità, quando è il loro momento; in secondo luogo
non solo l’evoluzione biologica ma anche quella dello spirito è un gioco di caso e necessità; in ter-
zo luogo, infine, il sapere nasce attraverso il gioco, sia nel singolo bambino sia nel bambino pri-
mordiale dell’umanità. Non a caso Salomone dice nei suoi proverbi che la sapienza dei primordi
«giocava» sul globo terrestre21.
Ogni bambino gioca con le sillabe e le distorce a suo piacere. Distorsione delle sillabe, scambio
di consonanti e vocali fanno parte del gioco linguistico dell’umanità. Le immagini della lingua sono
simboli parlati in molte varianti. Così la KORona greca in tedesco diventa KROne e le dee KOR,
come KARdea o CERdo si evolvono, attraverso la patriarcalizzazione della lingua, nel dio del
tempo CHRonos.
Le sillabe CAER, KOR, ORC, KAR, KER, KIR e CUR o CER e molte altre variazioni sono silla-
be originarie per la descrizione dell’altro mondo. Poiché le esperienze delle donne condussero in
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tutto il mondo alle stesse idee religiose del viaggio dei maiali nel mondo infero, il saggio gioco lin-
guistico creò dovunque le stesse immagini di sillabe.
L’altro mondo della “coppa inferiore” è il CAER Sidi come il CAER Arianrhod, l’ORcus al quale
appartengono le GORGoni con i loro denti di maiale. Il tempio sumero di Ninlil si chiamava KUIR,
la “casa del mondo infero”, in cui vivevano le prefiche, chiamate KURgurra, e le sacerdotesse di
LUKUR. Dal KUIR sumero deriva la tedesca KIRCHe (chiesa). Il KYRios greco (signore, titolo di
Gesù) è il re sacrale della dea dei maiali. Dalla caverna celtica di KRUachan provengono i maiali
spettrali22, come a CERam il mondo infero appartiene ai maiali. Perfino il sus crudelis (il maiale
crudele) di Francesco d’Assisi è indice della crudeltà del mondo infero, crudele non come lo pos-
sono essere gli uomini, ma crudele nella sua inesorabilità come lo è la natura stessa nelle sue tra-
sformazioni. CAER Arianrhod è anche CAER Sidi secondo la parola gaelica SIDHE, che significa
“roccaforte rotonda”. In India il Samsara si chiama anche SIDpe KORlo. A Sede, in Pamphilia, c’è
una coppa profondamente scavata nella terra a forma di labirinto, al centro della quale è raffigura-
ta una melagrana23.
Non è un caso che anche nei nomi delle dee appartenenti a questi luoghi del mondo infero ri-
corrano le sillabe KER, KOR, CAR, CER. Demetra si chiama anche KERdo, Artemide anche KA-
Ria, e la Demetra romana ha il nome di CERes o CARmenta oppure anche KARdea o CHOERre.
Sono tutte dee di Forcide e, in quanto Forcidi, portano la maschera della Gorgone. Del regno dei
morti CAER fanno parte le catene di KORalli, le bacche di KERmes, le ciliege di CORniolo e le
meleGRAne.
La dea celtica del paiuolo corrisponde alla dea dell’orzo Ceres e alla Demetra Alphito nelle vesti
di Kerdo. WEN significa “bianco” e CERDD ( irlandese e gallese) significa “aumento”. Inoltre le arti
che ispirano vengono tradotte con CERDD, in greco KERDOS o KERDEIA, in latino CERDO. Con
queste parole si intendono soprattutto l’arte della poesia e dell’artigianato. In spagnolo, CERDO è
la parola che designa il maiale. CERdana è la danza del raccolto in onore della dea: è una danza
dei maiali come il KIRkos e il kolabros. Il cane infernale si chiama CERbero, e la gru ( in tedesco
KRAnich) è sacra alla dea. Circe è, come Cerridwen, una dea-scrofa. L’isola delle trasformazioni
di Circe corrisponde al paiuolo della rinascita di Cerridwen. Così esse si rivelano come le dee ne-
re. Effettivamente nel Romance of Taliesin Cerridwen viene descritta come «la stridula strega ne-
ra, linguacciuta, scura di pelle, irascibile, fuligginosa, zoppicante, e guercia da un occhio»24. Come
Dahut, che, nelle sembianze di Ahès, diventa la vecchia strega, anche Cerridwen dal Medioevo in
poi non è più la dea totale nera-bianca-rossa nelle vesti di bianca seminatrice, rossa mietitrice e
nera raccoglitrice.
CAER diventa nella religione lunare il vaso di culto della coppa, del calice e del GRAAL. Il Graal
è il frutto di un’ulteriore evoluzione del paiuolo delle Cerridwen, del vaso-utero delle Forcidi. Il Gra-
al poteva essere portato soltanto da donne. La messaggera del Graal è Kundrîe, una donna orribi-
le e una maga come Ecate e Kālī. Kundrîe ha il naso di cane, in bocca ha denti di cinghiale lunghi
due spanne, orecchi di orso e artigli di leone25. Kundrîe è un’antichissima dea dei cinghiali che
proviene dai simboli animali delle stagioni. Così Kundrîe, in quanto portatrice del Graal indica, fino
al tempo dell’epica cortese, lo sfondo ginecocratico. La dea-scrofa col Graal del sacer mens non si
riconosce quasi più.
Nel mito gallese di Peredur ed Evrawc, Peredur incontra una ragazza giovane e nera, che ha i
capelli, il viso e le mani neri come la pece. Essa lo maledice perché, pur essendo entrato nel ca-
stello magico, ha trascurato la domanda e quindi non ha restituito i fiori al paese. Nel Perceval di
Chrétien de Troyes questa figura è la nera Kundrîe, la sorcière coi denti di cinghiale.
La domanda che avrebbe restituito al paese la fertilità è la domanda sul sacer mens, il ciclo ori-
ginario, perché esso promette rinnovamento alla vita come al paese, perché contiene il mistero
primordiale di tutte le trasformazioni. Di questo sangue l’eroe avrebbe dovuto domandare, e il
paese, dopo la sterilità, sarebbe tornato a fiorire come accade col ciclo del sangue.
La rocca del Graal è anche un altro mondo. Quello che per Ariadne è il labirinto, per l’uomo cel-
tico è lo Spiral Castle. Una volta entrato, cioè, il re era morto. Caer Sidi è anche il tetro castello
Caer Culor, o il castello quadrato Caer Petryvon oppure il castello di vetro Caer Wydr. L’altro mon-
do è anche la “bara di vetro” di Biancaneve e il “mare di vetro” dell’Apocalisse di Giovanni, che de-

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scrive la Gerusalemme celeste come una terra diversa «... di oro come vetro trasparente...»26 Pri-
ma che l’aldilà celtico venisse rappresentato come un castello, il Caer era nella natura, nel mare,
nei boschi e nei fiumi, nelle nubi, nell’aria e nei venti, nelle caverne o su isole deserte oppure sem-
plicemente “sotto terra”. Fuori, lontano nel mare ma contemporaneamente vicino, c’è l’isola di A-
valon, quell’isola della mela che è paragonabile al paradiso di Eva. L’altro mondo è una collina
delle fate, dove «abitano solo donne e cresce la mela»27. Le antiche leggi irlandesi infliggevano la
pena di morte a chi abbatteva illegalmente un albero di mele28.
Avalon è la beata isola della mela che unisce assenza del tempo, invisibilità e ricchezza. Colpi-
sce che in Beozia, ma non soltanto là, il melograno si chiami side. Side è anche il nome di una
donna che fu sospinta nel mondo infero. Molte città e molte donne furono chiamate Side. Caer Si-
di è quindi il castello della melagrana. La melagrana è il simbolo dell’autorità della dea degli inferi,
e molti eroi «si dissolvono in cenere» se, pur avendone mangiato, fanno ritorno in patria.
Il Graal di Kundrîe contiene mosto di melagrana, perché è «l’utero della dea madre»29. La lan-
cia con cui fu ferito il re Amfortas è la lancia della morte della luna. Essa mostra al ferito re sacrale
della dea-maiale che, in conformità col ciclo, deve morire, perché la fertilità della terra possa rico-
minciare daccapo. Egli è chiaramente la lancia della morte della luna, perché «quando c’è la luna
nuova» la ferita ai genitali del re fa un male insopportabile30. Nel Graal celtico è contenuto il miste-
ro del sacer mens. Il Graal corrisponde al kalathos greco nei Misteri eleusini. Il calice della cena
cristiana contiene però in forma simbolica sangue umano che promette trasformazioni, anche se il
sangue dell’uomo non ha un ciclo.

La scrofa cristianizzata in Inghilterra


Dalla cristianizzazione in poi, dal Caer provengono «brutti vapori e orribili grida». È un “nido
oscuro”, il luogo dei morti che attendono la purificazione per poter accedere al cielo. I «lamenti dei
dannati» si sentono come «il fragore di una colonna d’acqua che sputa vapore sulfureo». Nel luo-
go che a Delfi era ancora riempito coi serpenti ciclici dell’oracolo, adesso ci sono «belve, mostri e
il drago di Tristano dal fiato velenoso»31. La caverna del cinghiale cosmico è degenerata nell’Infer-
no cristiano colmo della sessualità perversa e degli sguardi avvelenatori delle donne.
Originariamente, nella festa di fine estate all’inizio del nuovo anno celtico veniva festeggiato il
Samhain con un banchetto in onore della dea-maiale32. Adesso nell’area celtico-scozzese il maia-
le diventa l’impuro, l’animale tabù. Quando un pescatore scozzese sente la parola maiale, dice in
fretta: «Cauld airn». È la stessa parola magica di protezione che dice anche in chiesa, quando
viene letto il testo dei maiali di Gerasa33. In Normandia la morte di un maiale diventa l’oracolo della
morte34, e in Bretagna la scrofa diventa l’animale maledetto35.
Tuttavia si conserva anche una tradizione natalizia, detta BOAR’S HEAD, alla lettera: testa del
cinghiale. In Svezia il Natale si festeggia col verro del solstizio d’inverno, il corrispondente del
BOAR’S HEAD, che rimanda ancora all’antica festa del solstizio d’inverno, quando il verro ma-
schio deve morire al posto del re sacrale. Sia il verro sia il re sacrale muoiono a loro volta come
muore il sole il giorno del solstizio d’inverno, perché questo è il giorno più breve e più buio dell’an-
no. Al posto sia del BOAR’S HEAD sia del verro del solstizio d’inverno vengono fatti dei dolcetti.
Come nella tradizione matriarcale greca fra le sementi si mescolano la melagrana oppure i resti
del maiale estratti dalle caverne delle Tesmoforie, così si fa adesso coi pasticcini del maiale o con
le ossa del BOAR’S HEAD. In Inghilterra è rimasta viva anche una spiccata tradizione di santi col-
legati ai maiali. Gli animali matriarcali indicano agli ecclesiastici i luoghi dove devono costruire le
loro chiese e le loro cappelle. Nella fiaba del piccolo sarto coraggioso la cappella nel bosco non è
lì per caso. A me sembra logico da un punto di vista patriarcale che il maiale del CAER adesso
faccia costruire le chiese (in tedesco KlRchen), che sono anch’esse un altro mondo, in cui adesso
però si celebra il nuovo mistero della trasformazione. Glastonbury sarebbe sorta perché una scro-
fa condusse san Guthlac a un melo, presso il quale egli decise l’insediamento. Spesso leggende
sui maiali compaiono in luoghi il cui nome contiene la sillaba MOCH, come per esempio san MO-
CHeomoc, perché MOCH significa “maiale”. Colpisce il fatto che la dea primordiale celtica si chia-
mi MACHa36, e anche la dea madre sumera Nintu ha il nome di MACH37. In francese, MOCHE in-
138
dica tutto ciò che è sporco e brutto, e la MOCHeté è la donna sudicia. Il simbolo di Kundrîe, la
brutta e nera dea dei maiali, arriva nel fango dei bordelli.
Fra i numerosi santi dei maiali, sant’Antonio è uno dei più noti. Il maiale che sta al suo fianco è
dipinto per lo più come grazioso e mite, così lo vedeva il Medioevo. Come il femminile, attraverso
l’educazione, fu trasformato nella “diletta”, così avvenne anche al maiale. Questo attributo del san-
to non è più il simbolo di un diavolo tentatore in sembianze di maiale, né è l’animale della strega
che induce alla sessualità, ma è solo la degenerata scrofa domestica. Eppure il campanellino, che
sembra appeso alla sua gola solo per caso, è ancora una volta simbolo della primordiale autorità
matriarcale. La campana della scrofa, che è appesa anche nei campanili, fa quel rumore primor-
diale con cui veniva annunciata la comparsa del sangue mestruale. Quando, secondo i riti del me-
narca, le ragazze si ritiravano nella capanna della mestruazione, una vecchia saggia seduta da-
vanti alla porta faceva un rumore di tamburo che annunciava il tempo sacro come tempo-tabù.
Perciò la campana della scrofa è diventata anche il simbolo della nuvola del temporale, del rumore
del tuono38 che originariamente preannunciava il sacro. (Dio si manifesta nel segno dell’Eccitante
(tuono dell’I-Ching) nota di Nico)
Le campane dell’aldilà celtico Ys suonano allorché si avvicina la trasformazione della principes-
sa ed è finito il viaggio nel mondo infero. A Little Hempston e a Postcombe due locande recano
l’insegna di un maiale che suona il tamburo.
La “campana di Antonio” suona quindi per annunciare la comparsa della mestruazione, e in
epoca patriarcale questa può essere stata davvero una tentazione diabolica con cui si dovettero
confrontare molti santi, poiché essa rappresentava una parte interiore rimossa del loro femminile.
In qualche santo dalla vita ascetica la cinghialessa matriarcale dalle “fauci schiumanti” può aver
ben messo in discussione tutta la sua identità clericale. Invece di tormentarsi con le “tentazioni”, i
santi avrebbero potuto sperimentare l’iniziazione al mistero primordiale del vero sangue della tra-
sformazione.
Nelle chiese inglesi una gran quantità di maiali che suonano e che danzano decorano le pareti,
le finestre di vetro e le inferriate. Sulla pietra sepolcrale della famiglia Bacon a Gallingham, nel
Norfolk, è rappresentato un setoloso maiale il cui corpo è adorno di fiori. Accanto a esso c’è un
simbolo particolarmente vistoso del maiale col flauto. Pig and whistle (maiale e flauto) è un con-
cetto. Un proverbio inglese dice: «To go to pigs and whistles is to be ruined» (andare dai maiali e
dai flauti equivale a essere rovinato). I Melanesi avevano anche un flauto che era spalmato di ros-
so sangue mestruale e che evidentemente aveva tanto valore che gli uomini lo dovevano rubare
alle donne. È il “flauto magico”, che non appartiene alle mani di Tamino, ma a quelle di Pamina, la
figlia della «dea della notte fiammeggiante di stelle». Sull’insegna di una locanda a Chignal Smea-
ly, nell’Essex, i piccoli dei maiali danzano sulle note di un flauto. A Stotfold, nel Bedfordshire, si
può vedere un maiale rosa, con un flauto rosa, che danza, e nella Cattedrale di Winchester un
maiale che suona il flauto è seduto sul bracciolo di una panca della chiesa. I flauti appartengono
alla dea-maiale, perché lei è anche la reggente dei “venti del nord” e dei rumori dei temporali.
La locanda di York, che prima si chiamava Pig and Whistle, cambiò il nome in Greyhound (cane
grigio), come il maiale cosmico che fu sostituito dal cane CuChulainn. L’anima sembra agire fino
alla banalità secondo gli antichi modelli energetici. Anche al maiale celtico fu “fatta cambiare fun-
zione” in quella del cane. Però il mezzo penny irlandese porta ancora oggi sulla faccia posteriore
una splendida scrofa matricina con cinque maialini.

NOTE
1. L. Lengyel Das geheime Wissen der KeIten, Freiburg im Breisgau, 1985, pag. 32.
2. Ibidem, pag. 24.
3. Ibidem, pag. 39.
4. J. Markale op. cit. pag. 51.
5. Ibidem, pag. 52.
6. Ibidem, pag. 54.
7. Il termine tedesco schIuesseIgewaIt significa anche “potere spirituale della Chiesa” nonché in
139
senso giuridico, la “capacità giuridica della donna sposata”. (Ndt)
8. F.C. Sillar, R.M. Meyler The symbolic Pig, Londra, 1961, pag. 138.
9. J. Markale op. cit. pag. 105.
10. Ibidem, pag. 115.
11. Ibidem.
12. Ibidem, pag. 116.
13. Ibidem, pag. 106.
14. Ibidem, pag. 117.
15. Ibidem, pag. 123.
16. Ibidem, pag. 120.
17. Matteo, 7:6; II Lettera di Pietro, 2:22.
18. L. Lengyel op. cit. pag. 255.
19. Ibidem, pag. 261.
20. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, pagg. 29f, 220, 529.
21. Proverbi, 8.
22. R. Wildhaber op. cit. pag. 251.
23. H. Kern Labyrinthe. Erscheinungsformen und Deutungen, 5000 Jahre Gegenwart eines Urbil-
des, Monaco, 1982, pag. 114.
24. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, pag. 163.
25. C. Fröhlich Der Gral, C.G. Jung-Institut, Zurigo, manoscritto non pubblicato.
26. Apocalisse di Giovanni, 21:18-21.
27. J. Markale op. cit. pag. 57.
28. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, pag. 327.
29. J. Markale op. cit. pag. 89.
30. C. Fröhlich op. cit. pag: 10.
31. J. Markale op. cit. pag. 81.
32. R. Wildhaber op. cit. pag. 252.
33. Ibidem.
34. P.I. Sébillot Le Folklore de la Bretagne, Parigi, 1950, pag. 155.
35. R. Wildhaber op. cit. pag. 253.
36. J. Markale op. cit. pag. 63.
37. H. Schmökel Das Land Sumer, Stoccarda, 1955, pag. 216.
38. Handwörterbuch (Piccolo vocabolario) sotto la voce Schweinesagen.

140
La scrofa cristianizzata
in Germania

Hildisvini e Freya
Probabilmente la prima teacrazia e ginecocrazia si svilupparono parallelamente in India ed in
Mesopotamia. Di lì esse si spostarono nell’area mediterranea portando con sé le strutture alta-
mente sviluppate della società matriarcale. La cultura matriarcale s’incontrò con quella neolitica in
Anatolia e nell’Europa sudorientale. Dalla mescolanza di questi popoli e culture si svilupparono i
due movimenti migratori degli Indoeuropei celtici e germanici, che si sparsero in Germania, Scan-
dinavia, Danimarca e nell’Inghilterra anglosassone. Con loro si diffusero anche i miti matriarcali,
che sono segnali della presenza di ordinamenti ginecocratici.
Jörd è la Madre primordiale germanica. Essa siede filando sotto il frassino Yggdrasil, l’albero
dei mondi, che arriva fino alle profondità della fonte primordiale e nei cui rami, come nella rete di
Jalî, si muovono le stelle, la luna e il sole. Nel matriarcato evoluto, Freya diventa la dea centrale,
che come Cerridwen possiede il paiuolo magico dell’ispirazione.
Freyr, il suo re sacrale e marito-fratello cavalca Gullinborsti, il verro dovunque famoso, il verro
dalle setole d’oro, col quale si fa riconoscere come eroe solare. È meno noto invece che anche
Freya cavalca su un “verro”1, come certi interpreti chiamano il suo animale. Ma il “verro” di Freya è
il cinghiale Hildisvini. Già il nome dice che HildisVINI è una cinghialessa. Inoltre Freya ha il so-
prannome SYR, che significa scrofa2. Freya è chiaramente una dea-maiale cosmica, che non “ca-
valca” ma troneggia su Hildisvini come Iside sulla scrofa. Come vittima viene portato a Freya il
verro espiatorio, chiamato SÔNARGÖLTR. Ma GÖLTR nell’antico tedesco del nord designa un
maiale femmina. Come alla dea Demetra, anche alla dea-maiale Freya non veniva sacrificato un
verro ma una scrofa pregna.
Freya, Frigga, Holda, Hilde, Goda o Ostera rientrano tutte nello stesso campo energetico della
dea-scrofa ciclica. Hilde, come la Rhea cretese e come la Blodeuwedd britannica, abita nella Via
Lattea. L’animale rituale dell’Ostera è ancora oggi il coniglio, che depone le uova di Pasqua. Hilde
si dice cavalchi sulla capra, ma la capra, che avrebbe nutrito Zeus fanciullo, era originariamente
una scrofa3. Anche Heimdall, l’eroe del nord, è stato nutrito con sangue di maiale4. Come a Vene-
re appartiene, accanto al coniglio, la mela, così anche Freya tiene in mano una mela5. Al melo è
consacrato il venerdì. A Freya, come a Venere e a Ishtar, è associato il venerdì (Freitag in tede-
sco, Friday in inglese) come giorno sacro6.
Freya-Holle-Perchta è la dea-scrofa del ciclo nera-bianca-rossa. Frau Holle, nella sua sede di
Kamern, nella Altmark, tiene in custodia, come Frau Harke, i cinghiali7. Frau (signora, donna) Har-
ke è la dea sud-germanica Fro, imparentata cioè con Freya8. Soltanto più tardi la dea, e con essa
il maiale sacrificale femminile, viene sostituita dal dio belga Odino (Gwydion), il cui verro adorna
gli stendardi dei guerrieri.
Come nel mito di Mac Datho, nelle battaglie germaniche di demoni si descrive la lotta fra i re
sacrali, che combattono per il dominio sia sul prossimo mitico anno lunare sia su tutto il regno.
Nelle battaglie germaniche di dèi si tratta soprattutto della vittoria del sistema di dominio patriarca-
le sulla cultura matriarcale e sulla forma di società del matrimonio fratello-sorella, che il patriarcato
vittorioso metterà sotto il tabù dell’incesto. Uno strano mito di Odino narra come il dio, ferito da
una lancia, resta per nove notti e per nove giorni appeso a testa in giù all’albero dei mondi e così
diventa saggio e può decifrare le rune [segni di scrittura dell’antico alfabeto dei popoli nordici,
Ndr]. Il simbolismo del pendere a testa in giù allude alla trasformazione ciclica del re sacrale ma-
triarcale. (L’appeso dei Tarocchi! Nota di Nico) Ma nel crepuscolo degli dei Yggdrasil, il frassino
dei mondi, brucia ed il cosmo precipita. Adesso Odino copre la “vergogna del sangue” del matri-

141
monio fra fratello e sorella col tabù dell’incesto e annulla così gli ordinamenti ginecocratici dell’ul-
timogenitura e del matrilocalismo. Il patriarcalizzato Odino mette fine così alla teacrazia politica.
Frigga, la dea-scrofa cosmica, diventa la sposa fedele e docile di Odino, continuamente in lotta,
come Era, col suo sposo.
Il processo della patriarcalizzazione è parallelo a quello della cristianizzazione. Dopo che l’im-
peratore Costantino, con l’Editto sulla religione del 313, ebbe fondato la chiesa imperiale, furono
intensificate le missioni di conversione dei pagani, accompagnate da una non latente misoginia.
Le missioni si estendevano su tutto l’Impero Romano e avvenivano attraverso gli scambi commer-
ciali, i ceti cittadini e la normale predica nelle comunità, perché l’opera di conversione si era già
estinta verso la fine del II secolo9. Contemporaneamente si spense anche il ruolo delle donne nel-
le prime comunità cristiane. Con la legislazione di Costantino il potere clericale si fa valere anche
fra i Goti orientali e occidentali. Una delle leggi sul potere dice che «tutte le questioni di diritto
pubblico o privato» hanno «definitiva validità legale soltanto tramite decisioni dei vescovi»10. Con-
dizionato dalla missione, dal potere e dalla morale cristiana, il culto “pagano” della dea-maiale si
trasferisce nella superstizione, si trasforma anche nel suo contrario, ma in genere si mantiene an-
cora nei riti dell’agricoltura.
Con lo spodestamento della dea-scrofa ha inizio anche la svalutazione della donna e della sua
religione. La conversione dei Germani orientali raggiunge per ora il culmine col riconoscimento di
Ulfila, vescovo dei Goti (311-383). Sotto Gregorio I i luoghi di culto vengono trasformati in luoghi
che adesso servono il “vero Dio". Sotto Gregorio II e il suo vescovo tedesco Bonifacio, il cristiane-
simo si afferma attraverso il rigoroso battesimo dei pagani. Nel 785 Carlo Magno decreta diverse
gravi punizioni a seconda del ceto per chi «fa un voto o offre qualcosa all’antica maniera dei padri
oppure fa banchetti in onore degli idoli presso fonti, alberi o in boschetti sacri»12. I luoghi di culto
matriarcali vengono dichiarati luoghi di demoni; il cristianesimo, una volta impadronitosene, li fa
diventare i “luoghi sacri” della nuova religione.

La scrofa della strega


Con l’esplosione della caccia alle streghe e delle persecuzioni contro le donne nel Medioevo, il
maiale diventa la malvagia bestia delle streghe. Rientrano in questo quadro le fantasie della ca-
valcata su un maiale infuocato o bianco13. Le streghe stesse assumono le sembianze di un maiale
rosso14. Anche i defunti cavalcano su maiali infuocati. Una saga racconta che lo stesso Lutero, in
quanto eretico, sia fuggito a cavallo di un maiale15.
In quanto maiale del malaugurio, la bestia provoca temporali e tempeste perché, a quanto si di-
ce, è in grado di annusare la tempesta16. Poiché il maiale grufola nella terra, diventa il maiale ma-
gico, che dispone di “magiche” capacità che gli consentono di trovare sotto terra tesori e chiavi di
chiese. Le nubi dei temporali e le campane dei tuoni vengono attribuite alla dea delle nuvole Har-
ke, Holle o Hulda. I nuvoloni o il ciclone sono chiamati Windsau o Sauzehl17. Sauzehl è a sua vol-
ta un nome di Frau Holle. Per causa sua il sacrificio del maiale deve avvenire il giovedì, il giorno
del temporale, in cui si tirano contro i nuvoloni setole di maiale18. Naturalmente i maiali sono focosi
come la svedese Gloso col carro di fuoco e le setole di fuoco, che grugnisce così forte da far rim-
bombare la terra19. Il maiale è proclamato anche animale degli spiriti, ed è o bianco (Svevia) o ne-
ro (Baviera) oppure rosso (Slesia).
Il grufolare che fanno i maiali degli spiriti e i maiali magici si riferisce anche alla relazione del
maiale con l’acqua. Così, secondo una saga slava, il maiale gigante emerge schiumante dal mare,
come Afrodite20. Il maiale veniva gettato in mare come vittima sacrificale quando qualcuno era sta-
to ucciso su una nave. Nel lago di Seelisberg attraverso l’acqua chiara si poteva vedere sul fondo
una mandria di maiali21. Anche Ys, l’altro mondo celtico, si trovava sotto il mare e può aver origi-
nato in seguito la fantasia della città sommersa di Atlantide.
Il nesso fra maiale e mestruazione diventa particolarmente chiaro nella superstizione che gli
escrementi di un maiale ucciso con la luna calante facciano bene contro le perdite di sangue dal
naso e contro lo sputare sangue. Il sangue di maiale veniva usato generalmente per fermare il
sangue ed era considerato particolarmente efficace contro le mestruazioni troppo abbondanti.
142
La scrofa del grano e il viaggio ciclico nella terra
Il maiale appartiene alla luna, alla mestruazione e alla ripartizione cultuale dell’anno e nel Me-
dioevo simboleggia soprattutto l’ “inverno”, quindi il periodo della fase di luna nera e della fase di
sterilità della terra. Nella Turingia settentrionale quando inizia la luna nuova si dice che i maiali
hanno mangiato la luna. A Oldenburg e in Pomerania si macella con la luna calante, perché si
crede che allora la carne si mantenga meglio. Se invece, cuocendo, la carne deve gonfiare, allora
si deve macellare l’animale con la luna crescente (Baviera e Baden).
Tutto il complesso dei riti dell’agricoltura è attraversato dal rapporto del maiale con l’evento ci-
clico. È solo “superstizione”? Oppure queste idee sono “superstizione” solo nella misura in cui una
religione patriarcale, una religione che maledice i maiali, pretende di dire qual è l’unica credenza
“giusta”? Mi colpisce molto che tutti i contenuti della cosiddetta superstizione diventino invece to-
talmente comprensibili nella loro logica se si parte dalle azioni simboliche matriarcali.
Sia la fertilità della donna sia quella della terra vengono vissute sacralmente e raffigurate ritual-
mente, in maniera tale che poi non si tratta più soltanto di auspicare la fertilità, ma di assumersi la
responsabilità degli ordini ciclici della natura. Il rito di mescolare alla seminagione resti di maiale
che fungono da sangue mestruale potrebbe essere una “giusta” credenza matriarcale. Nel corpo
della donna non c’è niente che contenga più ormoni del sangue mestruale e della placenta. Perciò
ancora oggi si seppellisce la placenta nei campi. In alcune località c’è anche l’uso di sotterrare la
placenta e di piantare, proprio sopra di essa, l’albero della vita per il bambino appena nato.
I miti e i riti del grano raffigurano il mistero della trasformazione del sangue, rappresentano la
dinamica del ciclo. Sia l’uccisione del maiale in segno di morte sia la mietitura del grano in segno
di morte simboleggiano una fase, quella del sanguinamento della donna inteso come la sua “mor-
te”, la sua sterilità. Tutte e tre sono esperienze della morte della luna, della luna nera. Tutti i riti
che ruotano intorno al taglio del grano hanno a che fare con la scrofa o con la “vecchia” o coi ritua-
li di morte.
Quando si miete l’ultimo covone, si uccide la madre del grano. Per questo l’ultimo covone viene
adorato come un dio e portato a casa con un solenne corteo, come nella processione delle Te-
smoforie, quando le donne portano i resti di maiale. A Eleusi le danze del labirinto non si svolge-
vano in primavera ma appunto al momento della mietitura22. La morte del grano corrisponde al
sanguinamento della donna e viene danzata. Per questo a Danzica l’ultimo covone si chiama an-
che “la vecchia”, che è un simbolo sia della luna nera sia della dea nel suo aspetto della fase nera.
Secondo J.G. Frazer la discesa di Demetra-madre del grano nel regno dei morti è «un’espres-
sione mitica che sta a indicare l’atto di fecondare del seme»23. Ma è proprio questo che non signi-
fica! Già in Grecia non è questo il significato della dea Persefone che scende nell’abisso durante
la siccità; né è questo il significato dei maiali che durante gli Skira, all’inizio del periodo di sterilità
estiva, vengono gettati nella Megara. Non sono la semina e la fertilità femminile che vengono ce-
lebrate, ma la mietitura e il ciclo femminile. La morte rituale del maiale e del grano simboleggia la
fede nella rigenerazione ciclica di tutto l’universo. Di questa “giusta” fede c’è oggi un disperato bi-
sogno.
Molti riti del Carnevale celebrano il ciclo quando “portano fuori la morte”. Quando l’inverno fini-
sce, la morte dell’anno viene portata fuori dal villaggio sotto forma di spaventapasseri. Fuori, da-
vanti al villaggio, proprio nel luogo in cui in epoca matriarcale sorgeva la capanna delle mestrua-
zioni, viene acceso un fuoco e si bruciano gli spaventapasseri. Perfino nel racconto della passione
di Gesù si è mantenuto il ricordo di questo antichissimo rito, quando Gesù sanguina e muore da-
vanti alle porte di Gerusalemme.
Anche la morte di Gesù è collocata nel campo energetico del sangue ciclico femminile, che ve-
niva esperito come sacro sempre “al di fuori” del villaggio.
La scrofa sotto terra e il grano falciato corrispondono al sanguinamento della donna. Ad Aug-
sburg, colui che taglia l’ultimo stelo di grano riceve “la scrofa”. Nel Baden e in Svevia l’ultimo stelo
si chiama “la scrofa del grano”. Quello che dà l’ultimo colpo ha la scrofa e deve “portare il maiale”.
Se è una donna, le vengono tagliati i capelli, gesto anche questo che simboleggia il sanguinamen-
to. Spesso a quello che “porta il maiale” viene annerito il viso, viene buttato su un mucchio di le-
tame, oppure gli si schiaccia il viso nella sporcizia. Il che vuol dire che viene equiparato ai maiali e
143
al loro viaggio nella terra. Quest’ultimo covone compare in tavola d’inverno (!) sotto forma di maia-
le (maiale di Cristo, maiale del solstizio d’inverno, maialino dell’Avvento), le sue ossa e anche resti
della sua carne vengono conservati e in primavera vengono portati sul campo e mischiati alla se-
menza. Chi era più povero sostituiva il maiale di Cristo con dei biscotti, che però dovevano essere
fatti con l’ultimo covone. I biscotti stanno sul tavolo per tutto l’inverno, per essere mescolati in pri-
mavera con la semenza o col mangime del bestiame.
Il motivo del ciclo è inconfondibile. La speranza di un rinnovamento ciclico (come nell’ultimo
anno, così si spera sia nel prossimo) riceve forma nel rito, che salva l’ultimo covone per tutto il pe-
riodo della sterilità, finché ha inizio la nuova fase di fertilità. Un’usanza bretone mostra con estre-
ma chiarezza questa speranza. All’ultimo covone si dà la forma di una madre del grano, nella qua-
le viene infilata una piccola bambola di grano, “non ancora nata”24.
I riti del grano, anche se sono passati nella cultura sommersa tanto disprezzata, derisa o per-
seguitata, corrispondono pur sempre alle antiche feste di donne delle Skira, delle Tesmoforie e
delle Hysteria. Nel simbolismo del grano si è conservato tutto il campo energetico della religione
matriarcale ufficiale di una dea-maiale e dei suoi ordini ciclici.

Massacro di maiali e spirito dei tempi


Artisti come Lucas Cranach il Vecchio, H.R. Rembrandt, G. Morland, Th. Gainsborugh e Hie-
ronymus Bosch si sono amabilmente interessati nei loro quadri alla “scrofa maledetta”. Nel Giardi-
no dei piaceri, Bosch fa correre un maiale nero, uno bianco e uno rosso. Salvador Dalì dipinse nel
1928, nel ciclo intitolato Les fleurs du mal, un gigantesco maiale che, attaccato a una pesante ca-
tena, pende da una massiccia impalcatura. Deve per forza “pendere sopra”, perché, secondo gli
antichi riti del menarca, non può toccare il suolo. Dice Dalì a proposito del suo quadro: «Il simbolo
della perfezione è il maiale»25. Nel 1937 Pablo
Picasso dipinge il ciclo politico intitolato Sogno
e menzogna di Franco. Nel nono quadro il
caudillo siede a cavallo di un maiale e, con un
vessillo trasformato in lancia, vuole dare
l’assalto al sole26.
L’assoggettamento, la maledizione e
l’abuso del maiale della luna e l’arrogante as-
salto al sole sono segni dello spirito dei tempi.
Ulrich Heecks-Bogemes ha approntato, in ba-
se a un articolo comparso sulla rivista “Stern”,
un documento dell’attuale spirito dei tempi. In
quel reportage si raccontava di esperimenti di
incidenti automobilistici fatti usando maiali vivi
legati con le apposite cinture nelle automobili
e spinti a tutta velocità verso la morte. In que-
sto modo si poteva stabilire scientificamente
quali danni fisici provocasse lo scontro.
L’artista creò per questa scrofa un “altare”,
su cui essa sta saldamente legata e sangui-
nante, con la testa cinta da una corona di rag-
gi a mo’ di aureola di santità. Sul panno bian-
co che ricopre l’altare cola del sangue rosso.
Dietro l’altare Ulrich Heecks-Bogemes mise
un tabernacolo contenente l’articolo sul mas-
sacro dei maiali che vengono sacrificati all’ido-
lo della velocità. Su ciascuno dei due lati del- Il maiale ammazzato con la cintura automobilistica
l’altare, accanto al maiale morto e sanguinan- sull’altare di Ulrich Heecks-Bogemes.
te, stanno tre figure di Miss Piggy, questa im- Essen, 1984.
144
magine patriarcale, idiota e pervertita, della donna-maiale. Le donne-maiale Piggy portano nei
paiuoli, degenerati in pentole da cucina, le candele dell’ “illuminazione”.
Le donne di oggi sacrificano loro stesse i valori fondamentali della dea sull’altare di una
femminilità uccisa e deformata. L’illuminazione, tanto necessaria, non proviene da donne-
miss Piggy, ma da donne ferite che sviluppano il coraggio di guardare in faccia la brutale
verità della cultura patriarcale e di protestare per il sacrificio del sacro cinghiale e di tutte le
sue potenze originarie al dio della tecnica.
La verità del massacro patriarcale dei maiali è molto antica e molto crudele. Anticamente, so-
prattutto nell’arte culinaria dell’antica Roma, c’era una predilezione per le interiora del maiale. I
piatti preparati con sumen e vulva di maiale erano i cibi preferiti. «Per procurarsi una vulva partico-
larmente tenera, si uccidevano con efferata crudeltà scrofe pregne... soffocate con una bevanda di
idromele somministrata all’improvviso, perché così si otteneva un sapore migliore della carne.»27
Vulva e mammelle erano i cibi preferiti, ma la mammella doveva essere ancora gonfia di latte e
non ancora toccata dai piccoli. «La vulva doveva essere asportata il più presto possibile dopo il
parto. Ma la massima delicatezza era la vulva subito dopo un aborto... Crudeli come notoriamente
erano, non si facevano scrupoli a provocare artificialmente questi aborti maltrattando il maiale pre-
gno in maniera disumana.»28
Se si tratta in maniera così disumana il maiale reale, allora l’uomo non è un essere umano, e la
cultura patriarcale non è cultura. Siccome tutto quello che si fa al maiale reale è anche un oltrag-
gio al maiale cosmico, il delitto che si compie contro il maiale è anche un delitto contro la totalità
spirituale delle donne, un delitto contro la loro autorevole identità ciclica, contro la sacralità del loro
sangue, il sacramento femminile.
Un maiale massacrato dolosamente in un esperimento automobilistico mostra una cultura che
distrugge il cosmo. Una singola azione rivela l’intero atteggiamento interiore di quest’epoca. Se
G.K. Chesterton, un inglese con anima celtica, scrive nel suo libro Fancies versus Facts (Le illu-
sioni contro i fatti) che il paradiso della sua fantasia è là dove i maiali hanno le ali29, allora l’inferno
della mia fantasia è là dove i maiali vengono brutalmente e insensatamente massacrati.
Laozi, l’antico saggio, dice: «La via verso il fare è l’essere». E viceversa questa saggezza signi-
fica anche: «La via verso un essere distrutto è un fare distruttivo».

NOTE
1. R. Wildhaber op. cit. pag. 255.
2. R. Markale op. cit. pag. 150, nota 3.
3. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, cit. pag. 97.
4. Handwörterbuch (Piccolo vocabolario), sotto la voce Schwein.
5. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, cit. pag. 307.
6. Ibidem, pag. 306.
7. Handwörterbuch (Piccolo vocabolario), sotto la voce Wildschwein.
8. R. Wildhaber op. cit. pag. 257.
9. K.D. Schmidt Grundiss der Kirchengeschichte, Göttingen, 1967, pagg. 60 e segg.
10. Constitutiones Sirmondianae, in Codex Theodosii, fonti II/II, pag. 31.
11. Quellenbuch zur Kirchengeschichte I/II, pag. 51.
12. Ibidem, pag. 55.
13. R. Wildhaber op. cit. pag. 245.
14. Handwörterbuch, sotto la voce Schwein.
15. Ibidem.
16. R. Wildhaber op. cit. pag. 257.
17. Windsau significa “scrofa di vento” e Sauzehl contiene la radice sau, “scrofa”. (Ndt)
18. R. Wildhaber op. cit. pag. 257, nota 135.
19. Handwörterbuch, sotto la voce Schwein.
20. J. Grimm Deutsche Mythologie, vol. 1, Colonia, 1982, pag. 178.
21. A. Lütolf Sagen, Bräuche, Legenden aus den fünf Orten, Lucerna, 1862, pag. 282.
145
22. J.G. Frazer op. cit. pag. 583.
23. Ibidem, pag. 614.
24. Ibidem, pag. 613.
25. Handbuch der Symbole (Manuale dei simboli), sotto la voce Schwein.
26. Ibidem, sotto la voce Sonne.
27. Pauly-Wissowa op. cit. colonna 808.
28. 0. Keller Die Antike Tierwelt, Lipsia, 1909, vol. 1, pag. 398.
29. F.C. Sillar, R.M. Meyler op. cit. pag. 108.

146
LA DEA TERNARIA
DEL CICLO

O Natura, tu madre di tutto!


Dea di tutti gli effetti, ricca di arti, e antica,
e sempre creatrice!
Tu che tutto costringi, tu da nulla costretta, tu che illumini e guidi!
Signora di tutto, da tutto lodata, prima di tutto!
Intramontabile, prima per nascita, fiorente e antichissima.
Inarrestabile nel tuo corso, tu conduci le stelle delle notti.
Senza rumore cammini in quella direzione sulla punta leggera dei talloni.
Santo ornamento degli dèi, tu fine senza fine di tutto.
Comune a tutti gli esseri, e direttamente sola!
Autogenerata, senza padre, eterna forza primordiale.
Tu che fai fiorire, tu che intrecci i corpi, tu che tutto mescoli.
Inizio e completamento, tu che dai vita e nutrimento.
A tutto bastante, giusta, e dolce madre delle Grazie,
Signora nel cielo e sulla terra, e signora nel mare!
Aspra e severa ai malvagi,
ai remissivi pietosa e amorevole!
Tu, che tutto sai e tutto doni, dea dominatrice;
nutrice di quello che cresce,
liberatrice di ciò che è maturato:
padre tu sei e madre, e balia di tutto!
Soccorritrice delle donne, ricca di seme e...
ricca di arti, plasmatrice di forme, sempre intenta a creare.
Eterna nel tuo moto, ricca di forze e intelligenza;
vortice veloce i suoi passi in incessanti cerchi;
perfetta come un cerchio, sempre fluisci trasformando figure;
troneggiante nel suo splendore, colei che sola compie la sua volontà sempre;
sopra i dominatori elevata, potente e tuonante,
incrollabile, saldamente piantata, tu che espiri fiamme.
Tu che tutto costringi, vita eterna, immortale saggezza!
È tuo tutto. Perché tu sola sei di tutto la creatrice.
Perciò, o dea, ti imploro
che tu porti col tempo
pace e salute, e a tutte le cose la crescita.

Inno orfico alla dea Physis

147
Il campo energetico
del ciclo del sangue
Con l’evoluzione del ciclo mestruale ha inizio la trasformazione biologica del primate in uomo.
Attraverso la reale percezione del sangue avviene lo sviluppo psichico dell’essere umano. Esten-
dendo la conoscenza del ciclo fisico uterino alla lunazione si forma l’idea di un universo la cui es-
senza è l’eterna rigenerazione ciclica. Questa essenza ciclica del cosmo si spiritualizza nella reli-
gione matriarcale dando forma a una dea che rappresenta il ciclo mestruale.
All’incirca 30.000/25.000 anni prima di Cristo l’uomo inizia a rappresentare sulle pareti delle ca-
verne la propria mano usando il rosso e il nero su sfondo bianco. Questi tre colori si svilupparono
dalla percezione del ciclo mestruale, uterino, che ha tre fasi: la fase bianca della ricostruzione del-
la mucosa uterina, la fase rossa dell’utero pieno di sangue, e la fase nera della sterilità, quando il
sangue lascia l’utero. Vista dall’esterno, quest’ultima fase è rossa; vista però dall’interno, dall’ute-
ro, e riconosciuta miticamente, essa è il periodo senza sangue. Un altro sicuro motivo per cui la
fase mestruale fu rappresentata come fase nera è che il periodo del sanguinamento era ed è
l’epoca della luna nera. Il ciclo nero-bianco-rosso è un’esperienza religiosa della mestruazione e
della luna. I colori sono rappresentazioni mitiche.
Con la trifasicità ha inizio la concreta esperienza del tempo attraverso la regolarità con cui il
sangue diventa visibile. La regola fonda il tempo. La presa di coscienza del tempo e del corso del
tempo viene fissata nei graffiti delle caverne, talvolta con tre colori e con tre linee che corrono una
accanto all’altra, talvolta con tre coppette che venivano disposte a triangolo. Il numero nove veniva
rappresentato da tre coppette per tre, che formano un quadrato. Questo simbolismo riproduce più
esattamente lo “spazio del tempo” proprio a partire dal riconoscimento che ciascuna delle tre fasi
sacrali della mestruazione abbraccia nove notti lunari. Il nove diventa il numero sacro universale
della dea cosmica, perché le nove coppe, collegate con linee parallele e perpendicolari, danno
luogo alla rete simbolica del cielo.
Nel simbolismo ormai astratto dei Celti, la dea Epona viene rappresentata solo con tre punti sul
suo cavallo. In seguito porta una corona a tre punte. In India il tridente diventa lo stendardo sacra-
le della dea, e nel Tantra la vulva viene disegnata come un numero tre. In tutto il mondo compaio-
no su monete e su oggetti di culto una svastica a tre punte e il simbolo di tre cerchi concentrici.
Come segno della loro autorità, le dee portano la tiara. Essa è una corona con corni di luna a tre
gradini, e tre gradini ha anche il kalathos greco. In India le dee hanno sulla fronte il terzo occhio,
che con gli altri due forma un triangolo. Il toro della dea Ishtar porta sulla fronte un triangolo con la
punta rivolta verso il basso. Verso il 1000 a.C. viene fabbricato, nello stile La-Tène di un popolo
misto germanico-celtico della pianura del Reno, un serpente Uroboro di ottone, che è diviso in tre
fasi1.
Il ciclo mestruale in tre fasi è l’archepotenza che ha messo in moto, sul piano psichico, fisico,
mentale e spirituale, il vasto processo dello sviluppo dell’uomo.
Tutti i campi energetici esistenti nel corpo della donna si sono storicizzati. Il campo energetico
dell’uovo-seme-nozze sacre diede forma al mito della dea e del suo re di un anno mortale. Il cam-
po energetico dell’uovo-sangue-utero fece sviluppare la cultura matriarcale e il culto della dea-ma-
iale che fa rinascere. Il terzo campo energetico bio-psichico è il ciclo mestruale uterino in tre fasi,
che portò alla formazione della religione di una dea nero-bianco-rossa.
La teagenesi è la psicogenesi: vale a dire, la formazione della coscienza psichica dell’uomo si
svolse parallelamente allo sviluppo della religione di una dea. Questo duplice sviluppo avvenne in
più fasi. Agli inizi della formazione della religione, il sacro veniva adorato nell’elemento, nel san-
gue stesso.
Ogni Dakini rossa è una dea-elemento ancora priva di un nome proprio, è ancora elemento e
già persona, ma in maniera molto indifferenziata. Nella successiva fase religiosa nasce in India la
148
dea dPal-ldan-lha-mo che, pur avendo già un suo nome, continua ad essere la personificazione
del suo oceano di sangue. L’elemento del sangue e la dea sono la stessa cosa. Adesso però la
dea comincia a parlare e ad agire ed è circondata da simboli più differenziati. La dea del sangue
dotata di un nome si sviluppa ulteriormente nella Vajravārāhī, che ha un nome e, con la testa di
maiale che le spunta dietro l’orecchio destro, mostra che le donne hanno acquistato coscienza del
loro utero-vaso che contiene il sangue sacro. In questa fase la donna diventa cosciente anche del-
la dinamica del ciclo che avviene nel suo utero, dinamica che in genere rappresenta nella sua reli-
gione in tre fasi.
Dapprima si sviluppano mitologicamente le dee ternarie, tre figure che compaiono sempre co-
me un’unità. Nella religione matriarcale ufficiale il ciclo del sangue in tre fasi viene personificato in
tre singole dee, che prese nel loro insieme possono essere chiamate la dea del ciclo trifasico, ma
prese singolarmente rappresentano ciascuna una fase, bianca, nera o rossa, dell’intero ciclo. In
queste spinte evolutive la dea-elemento del sangue si è differenziata in una dea ternaria del ciclo.
Il ciclo ternario del sangue è il modello di fondo di questa teagenesi, il modello fondamentale di
tutti i processi di trasformazione psichica che di qui hanno origine, nonché il primordiale modello
spirituale-religioso di tutti i misteri presenti in tutte le mitologie, anche nelle loro successive patriar-
calizzazioni.
Chiamo dee ternarie o ternità le singole dee che rappresentano le tre singole fasi del ciclo. Con
questo voglio prendere le distanze da due concetti. Il concetto di una dea trinitaria corrispondente
alla trinità patriarcale è per me astratto e non verificabile. Usando il concetto di ternità, intendo
prendere le distanze dalla trinità patriarcale. La trinità cristiana di Padre, Figliuolo e Spirito Santo
non è la rappresentazione religiosa di un principio di rigenerazione ciclico, dinamico, e non è
neanche un evento di trasformazione. La trinità patriarcale si sviluppò, laddove era possibile, dall’i-
dea matriarcale del re di un anno, che ogni anno muore e risorge. Nel corso della storia, il re di un
anno diventò il re permanente. Nel Dio-Padre dell’Antico Testamento viene rappresentata proprio
questa dinamica o non-dinamica di un re e signore “eterno”. Parallelamente, l’immagine mitica ci-
clico-dinamica del mondo si trasforma in un’immagine statica, in cui sopra sta il Cielo, sotto l’Infer-
no e in mezzo la Terra. Contemporaneamente si passa da una concezione ciclica a una conce-
zione lineare del tempo, inteso come risultato di un allineamento degli eventi.
Questo cambiamento di paradigma nel modo d’intendere il mondo produce svariati problemi.
Adesso l’uomo si confronta con la sua morte come con la fine della vita. Siccome è costretto a
immaginarsi quella che sarà la sua vita oltre la fine, sviluppa l’idea dell’immortalità che dapprima
mantiene una sua definizione anche fisica, ma poi si trasforma nell’idea di un’anima immortale che
lascia il corpo. L’anima acquista preminenza rispetto alla materia. Il secondo problema nasce dal
fatto che l’uomo, prendendo le distanze dagli ordinamenti della natura, sviluppa un’etica che ha
conseguenze oltre la morte. Pensare in termini di bene e male richiede adesso un cielo per i buoni
e un inferno per i cattivi, dualisticamente separati in sfere ben distinte. La “coppa inferiore”, intesa
come viaggio della rinascita accessibile a tutti nello stesso modo, non esiste più. Poiché con la pa-
triarcalizzazione si forma anche la coscienza individuale, adesso il singolo uomo viene pensato
nell’aldilà come anima individuale che, a seconda della moralità della sua vita, viene cacciata nel-
l’inferno o sollevata al cielo. La concezione che della vita eterna ha la religione patriarcale è
ultraterrena, individuale, legata a valutazioni etiche e definitiva. La concezione che ne ha la
religione matriarcale è collettiva, terrena, è l’idea di un rinnovamento ciclico aperto a tutti
senza valutazioni morali.
Alla concezione ciclica matriarcale del mondo, del tempo e della religione corrisponde la dea
ternaria del ciclo. Essa rappresenta:
• l’immagine rotonda del mondo della coppa superiore e inferiore;
• la concezione ciclica del tempo;
• la dinamica della trasformazione del ciclo ternario, quello uterino;
• il mistero della trasformazione del sangue come mistero originario di tutte le religioni;
• l’idea della rinascita ciclica di tutti gli uomini.
I contenuti di fede della ternità sono fondamentalmente diversi dalle idee religiose della trinità.
È giustificato chiedersi perché come immagine maschile di Dio sia stata sviluppata un’immagine
149
trinitaria benché non fosse fondata nel codice biologico e benché il numero tre come numero sa-
cro fosse nato molto tempo prima nella religione matriarcale. Non c’è motivo di proclamare vero
un solo tipo di dogmi religiosi. È vero che io sono una donna individualmente consapevole all’in-
terno di una cultura patriarcale coi suoi modelli di idee e sono imbrigliata in precise interpretazioni
del mondo. La realtà che tutti crediamo di conoscere è sempre soltanto una descrizione di perce-
zioni soggettive.
Ciascuna di noi possiede una propria immagine interiore del mondo esterno, e questa immagi-
ne non è affatto identica alla “realtà” del mondo esterno. Oggi noi siamo ancorate a interpretazioni
patriarcali della percezione e abbiamo imparato insieme, come collettività, a dichiarare “realtà”
queste percezioni. Ma la “realtà” è un complicato intreccio di vibrazioni energetiche, di immagini
interiori che risalgono ai tempi primordiali e anche, appunto, a campi energetici matriarcali.
Per me donna, che porto nel corpo il mistero della trasformazione, non c’è alcun motivo valido
per considerare gli unilaterali modelli patriarcali di interpretazione del mondo i soli “giusti”. L’idea
religiosa matriarcale nella rinascita è totalmente concepibile, tanto più che i fisici ci hanno insegna-
to che l’energia non va mai perduta, ma viene trasformata in un altro livello energetico. La vita esi-
ste sempre come vita, anche nella cosiddetta morte. Io ritengo l’idea matriarcale di una vita eterna
più sensata, più viva e più verificabile fisicamente dell’astratta idea di un’anima immortale in un
qualche aldilà.
Se partiamo dal campo energetico biopsichico come fondamento concettuale, è logico pensare
che quando si affermò la religione di una trinità maschile il mistero ternario della trasformazione
del sangue dovesse essere combattuto, perché per l’uomo il mistero originario non esiste nel cor-
po e quindi non può essere sperimentato e verificato.
La tragedia della religione dei padri consiste nel fatto che in essa, nonostante questa estraneità
biopsichica, il mistero del sangue è stato fatto diventare un valore centrale, e si è sviluppato un
mistero maschile del sangue e dell’uccisione, il cui contenuto, appunto, non è quello di una tra-
sformazione ciclica. Ma quali potrebbero essere degli autentici valori sacrali di un culto maschile
che fossero in accordo col codice biologico del corpo maschile e quindi integrassero a loro modo
la santità della materia? Quale potrebbe essere un mito che si riferisse al campo energetico del
seme e potesse quindi rappresentare un contrappeso realmente autorevole al mistero del sangue
femminile? Anche per me, in quanto donna, i valori maschili potrebbero condurre ad autentiche
esperienze religiose.
In ogni caso, il mistero ternario femminile della trasformazione del sangue deve ritornare alla
competenza e all’autorità delle donne. Oggi moltissime donne non riescono più a partecipare al
sacramento dell’ultima cena, o celebrare la comunione, perché con questo si ripete ogni volta la
svalorizzazione del proprio sacramento femminile.

NOTE
1. J. Sharkey Die Keltische Welt, 1982, pag. 87.

150
Io, la dea del sangue
della luna
Dato che il ciclo mestruale che cambia fu proiettato nelle fasi lunari, la prima dea-elemento del
sangue è ovviamente la dea della lunazione. Tutte le proprietà che le vengono attribuite e le de-
scrizioni che ne vengono fatte, tutti i nomi e le forme che le vengono dati servono per portare alla
coscienza quello che il ciclo mestruale significò per la donna primordiale. Nell’area mediterranea il
suo nome è Io.
Nel disegno di un bisonte trovato nella caverna di culto di Ganties-Montespan, la linea ed il cer-
chio, forme primordiali delle lettere, sono segnate sui corni della luna. Il cerchio simboleggia la lu-
na, la linea sottile simboleggia la falce di luna calante o crescente. Io è la dea della lunazione. In
italiano io è la prima persona del pronome personale. L’inglese i e il francese JE derivano dalla sil-
laba della luna. Io è la dea dello sviluppo della coscienza dell’ “Io”.
Secondo l’alfabeto degli alberi, I è l’ultima lettera nell’inverno e O è la prima nella primavera1.
Le altre vocali associate agli alberi del boschetto sacro descrivono le altre stagioni. Io è la I dell’in-
verno e la O della primavera. Con le sue lettere del ciclo dell’anno essa è simile al ciclo della me-
struazione. Nell’alfabeto dell’albero, la I dell’inverno corrisponde allo IOTA greco, all’ebraico JOD
e all’irlandese IDHO. IODA è lo stesso sangue della luna, la bevanda dell’immortalità. Idhu-Joda è
la bevanda preparata dalle sacerdotesse dell’oracolo, ricavata presumibilmente dal primo sangue
mestruale di una fanciulla2. Secondo Plinio, il sangue mestruale era naturalmente pericoloso, ca-
pace di scolorire un panno rosso porpora e di annerire una tela di lino nella tinozza3. Trapela an-
cora di qui il sapere originario sul ciclo nero-bianco-rosso.
Nell’evento del ciclo, IODA, il sangue della luna, è l’inverno, l’epoca sterile del “morire” nel sen-
so di “non-creare-vita”. Nell’alfabeto delle dita, la I veniva associata al dito mignolo. In molte fiabe
il dito mignolo è quello che le eroine devono sacrificare per liberare il loro “principe”. Quando viene
sacrificato, il mignolo, col suo sanguinamento, mette in moto la trasformazione. (il mignolo, nella
metamedicina, corrisponde all’ascolto interiore – nota di Nico) Perciò esso è anche il dito dell’ora-
colo della fase “nera” e ha poteri magici. Quando nella fiaba La guardiana delle oche l’eroina per-
de lo straccetto con le tre gocce di sangue, diventa «debole e senza forze»4. Il nettare indiano
Amrita si chiama anche “senza morte”5. Il sangue della luna non uccide ma ha poteri magici di tra-
sformazione, ricavati dall’«erba dell’immortalità» che cresce sulla luna6.
Ad Argo la dea del sangue della luna porta il significativo nome di IODAMA. Essa veniva adora-
ta come dea della luna con le corna oppure come bianca dea della vacca7. Come lodama, piutto-
sto che permettere che le ragazze facessero qualcosa di sbagliato contro i mýstai, le trasformava
in pietre8.
Io aveva anche un altro nome, Phoinissa, che significa “la rossa” oppure “la sanguinosa”9. Poi-
ché Phoinissa-Io personifica il ciclo del sangue, il suo nome viene associato anche alle dee Dafne
e Danae10.
In Siria, a Canaan e nel delta del Nilo, Io, la dea della lunazione originaria della Libia, veniva
adorata col nome di Belili o di Baalith, come Dane e Phoinissa e come Europa, “quella dal largo
viso”, che rappresenta la luna piena. Io aveva anche il nome di Choere o Forcide, il cui appellativo
più fine era Marpessa, “colei che afferra”11.
Io era anche la dea del maiale della fase nera del “non-partorire-vita”. Nel suo aspetto di fase
nera è provvista di attributi come l’ “afferratrice, l’inghiottitrice, la divoratrice”, che simboleggiano
tutti il carattere di inesorabilità naturale dell’evento di trasformazione, perché ogni trasformazione
voluta dalla natura contiene la dimensione del sacrificare, dell’inverno, del sanguinare, del lasciar
andare, del dare. Questo aspetto nero della “morte” viene descritto spesso con l’aggettivo “adira-
to”, che esprime tutta la durezza della perdita naturale. La luna viene chiamata anche AlkMENE,
151
che significa “forte nella collera”. Non a caso la Vajravārāhī indiana era la “prima delle irate Dakini
danzanti”.
Considerata dalla prospettiva del ciclo uterino, la fase nera, collerica, inesorabile, della trasfor-
mazione della natura è la fase del sanguinamento, che non significa “morte” e tanto meno “ucci-
sione attiva”. L’uovo femminile non fecondato viene trascinato fuori col sangue. La vita potenzial-
mente possibile è così veramente terminata. Ma anche un uovo fecondato viene espulso se non è
riuscito ad annidarsi, senza che per questo si possa incolpare la donna di “uccisione attiva”. Que-
sto significa, nel testo non cifrato della biologia, che spesso delle uova fecondate vengono “ucci-
se” a seguito di processi biologici totalmente naturali. Il ruolo determinante nella nascita di un es-
sere umano non spetta alla fecondazione dell’uovo ma al suo annidamento. Le fecondazioni in
provetta che oggi sono diventate possibili mostrano chiaramente che la fecondazione di per sé
non è affatto sufficiente a far nascere un essere. Ma la tecnologia genetica è sulla buona strada
per rendere superfluo anche l’utero della donna, allo scopo di riuscire a “fare” bambini anche sen-
za la sua cooperazione.
Ma la potenza sacrale della dea non consisteva nella sua fertilità, nel partorire bambini (anzi
veniva sempre rappresentata senza), ma nel sanguinamento. Essa veniva sempre dipinta di ros-
so. Il segno di distinzione fra l’animale e l’essere umano non è la capacità di partorire che possie-
dono entrambi, ma il sangue, che si è spiritualizzato in Io, la dea della lunazione.
Tra i Sumeri, Io era la dea IA-HU, la colomba. Il nome YAHU corrisponde alla trascrizione nel
tetragramma ebraico JHVH, che a partire dal 300 a.C. veniva pronunciato JAHVEH12. In Egitto il
nome si trasformò in IOUIYA, impiegato nel Libro dei morti della XVIII dinastia per Amenofi II13.
Tutti gli attributi di Amenofi, per esempio “il più amato nel palazzo reale” oppure “principe” o “ami-
co”, indicano in lui il re sacrale lunare della “Grande Una”. IOUIYA si scrive anche IUAU14. Da que-
sta zona egiziana gli Ebrei emigrarono circa 100 anni più tardi in Palestina, dove svilupparono il
culto di JAHVÉ. JHWH e IOVA e più tardi JEHOVA richiamano, se si considera il loro campo se-
mantico, la dea della lunazione IA-HU.
Io era nota anche col nome di Dia, che era una dea del culto delle querce. Le querce forniscono
le ghiande per i maiali. Perciò la cosiddetta Diana dai molti seni di Efeso porta una collana di
ghiande, che indica in lei una dea-maiale della luna. lo-Choere-Forcide, sotto forma di Pasifae,
partorì al Minotauro molti figli, fra cui Arianna con la ciclica corona di stelle e col filo rosso. La loro
altra figlia è Fedra, che nel palestinese del sud si chiama PRDI15. Non si può negare che il suo
nome ricordi Pryderi, il guardiano di scrofe celtico.
Sotto il nome di Danae, Damkina in sumero, Dinah in ebraico, anche Io viene venerata in diver-
si luoghi di culto. Dafne, che fu trasformata in alloro, è una dea orgiastica della lunazione, e a Delfi
le sue sacerdotesse dei maiali masticavano foglie di alloro prima di annunciare, alla luna nuova di
ogni mese, l’oracolo di Delfi. Solo le cinquanta sacerdotesse di Dafne-Io potevano masticare foglie
di alloro, che per tutti gli altri erano tabù16.
Un’idea delle feste della luna nuova e del loro significato originario di feste della mestruazione
in onore di Io, la dea della lunazione, traspare ancora perfino dal contesto della storia di Mosè,
quando gli Israeliti celebrano con la “luna nuova” le loro allegre feste in cui suonano le trombe17.
Con le trombe essi riproducono il rumore primordiale della vecchia saggia che suona i tamburi da-
vanti alla capanna delle mestruazioni quando, con la luna nuova, “compare” il sacro sangue fem-
minile.

NOTE
1. R. Ranke-Graves Griechische Mythologie, cit. pag. 56, d.
2. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, cit. pag. 192.
3. Ibidem.
4. H. von Beit op. cit. pag. 780.
5. Ibidem, pag. 31.
6. Ibidem.
7. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, cit. pag. 281.
152
8. R. Ranke-Graves Griechische Mythologie, cit. pag. 9.6.
9. Ibidem, pag. 88.2.
10. Ibidem, pag. 58.2.
11. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, cit. pag. 76.
12. M. Daly Gyn/ÖkoIogie. Eine Meta-Ethik des radikalen Feminismus, Monaco, 1981, pag. 100,
nota Miriam Webster.
13. M.T. Daris The Funeral Papyrus of Iouiya, Londra, 1908, pag. 1.
14. Ibidem, pag. 3.
15. R. Ranke-Graves Griechische Mythologie, cit., pag. 90.1.
16. Ibidem, pag. 16.
17. IV Libro di Mosé, 10:10.

153
La dinamica ternaria
del ciclo

La ternità nero-bianco-rossa
La dinamica ternaria del ciclo trova una forma cultuale nei colori sacrali del nero-bianco-rosso,
e compare così nella mitologia come trasformazione del colore. Di Io, dea della luna, si narra che,
nelle sue sembianze di vacca, cambia il suo colore da bianco in rosso-violetto e poi in nero1. Co-
me Pasifae, essa partorì a Minosse il vitello che cambiava colore tre volte il giorno, passando
anch’esso dal bianco al rosso-violetto al nero2. Tutti i tori da razza rinchiusi nella stalla di Augia,
che Ercole dovette ripulire dal letame per conquistare la dignità regale, avevano i piedi bianchi o
neri o rossi. Essi sono il bestiame consacrato alla luna3. La gru era sacra alla dea ternaria del ciclo
perché ha le piume bianche e nere e un vistoso e bel barbiglio rosso. Della gru si diceva che era
la “Gorgone volante”4. Anche l’unicorno era visto nero-bianco-rosso, perché in origine era un ani-
male sacrale della luna secondo la tripartizione delle stagioni5.
Il mito del vello d’oro testimonia come gli originari colori ternari nel patriarcato venissero “dora-
ti”. (la melagrana dorata e bruciata sulla strada del torchio! Nota di Nico) Durante i riti con cui
s’invocava la pioggia, il re doveva portare un vello nero, che era l’abito della sua morte rituale. I
suoi amici, che indossavano un vello bianco, lo risvegliavano nuovamente alla vita. Come Ercole
doveva ottenere le mele d’oro del giardino delle Esperidi, così questo re doveva conquistare il vel-
lo d’oro. Entrambi i miti descrivono il furto e l’assunzione dei valori matriarcali, perché in origine
tanto le mele quanto il vello erano rosso porpora. I colori sacrali penetrano ovviamente anche nei
rituali del culto. Le sacerdotesse della luna si imbiancano i visi di calce, per celebrare nel culto la
loro identità lunare6. In Britannia “per certi riti” le donne si coloravano tutto il corpo col guado, fino
a essere completamente scure7. In Irlanda colorare col guado era un segreto delle donne, a cui gli
uomini non potevano assistere, perché avveniva in onore della dea del “cielo blu della notte” e del
“mare blu”. Gli orfici chiamavano questa dea la “notte dalle ali nere”8. Non si può negare che tutto
ciò ricorda Belili, la dea sumera della luna, e Lilith. Ishtar, che succedette a Belili, possedeva una
“verga nera” di prugnolo, quella verga magica della trasformazione che poi fu fatale alle “streghe”,
perché si diceva che servisse a procurare aborti. Colpisce il fatto che in slavo bianco si dica BELI.
Il rosso, il colore del sangue, è presente in tutti i riti. Al tempio di Gerusalemme, il giorno della
festa dei tabernacoli, si usavano le foglie di palma del salice purpureo dai rami rossi e perciò que-
sta festa “rossa” veniva chiamata anche la festa del salice9. Fra gli abitanti del Galles il rosso era il
colore che più si addiceva ai loro abiti10 e ad Haran i sacerdoti addetti ai sacrifici erano vestiti di
rosso e per di più spalmati di sangue. Essi celebravano i loro sacrifici in un tempio dipinto di rosso
e addobbato con tendaggi rossi11. Il simbolo originario di questa autorità del sangue è la melagra-
na rosso sangue. I miti sulle origini della creazione parlano pure dell’uovo rosso del mondo, che
sarebbe stato un uovo di serpente, il GLAIN, l’uovo orfico del mondo della dea della creazione Eu-
rinome e del serpente Ofione. Solo nella religione patriarcale queste uova furono trasformate in
uova di gallina e in “uova di Pasqua”. Il mantello rosso indossato dalla dea fu chiamato “grembo
materno”. Anche il mantello sacrale rosso, che nel rituale indiano dell’incoronazione veniva avvolto
intorno al re come segno della sua autorità, aveva questo significato12.
Ovviamente i luoghi sacri venivano raffigurati nei colori ternari. Perfino il tempio di Salomone
aveva una recinzione di melegrane e melegrane sulle suppellettili e sulle vesti dei sacerdoti. Sul
monte Moeltre, nel Galles, c’era un luogo di culto con tre pietre diritte di colore blu scuro, bianco e
rosso. Le pietre venivano chiamate “le tre donne” in quanto “trinità di Io”13.
Nell’Asino d’oro, Apuleio scrive che la dea Proserpina ha un triplice volto, che le conferisce il

154
potere di impedire il male: «... il suo abito di tela di lino bianco e fulgido, poi fiammeggiante di un
chiarore rosso-rosato, poi completamente scuro e cupo, coperto di un nero brillante... disseminate
le stelle e al centro la luna a metà della sua pienezza...»14 L’orlo del suo vestito era fatto «di tutti i
fiori e di tutti i frutti dei campi», nella mano sinistra portava un calice d’oro, da cui «una vipera sol-
levava la testa su un collo assai gonfio»15. Nella visione di Proserpina si riassumono tutte le inse-
gne matriarcali della sua autorità. Poiché Lucio ha visto la dea del ciclo, essa risponde alla sua
preghiera: «Sono io, la madre naturale di tutte le cose... la prima generatrice del mondo». E poi
elenca tutti i suoi nomi. Il suo nome greco è Persefone.
Nella pittura pre-cristiana le dee appaiono nei loro colori. Ancora nei primi tempi del cristianesi-
mo Maria, la generatrice di Dio, viene rappresentata esclusivamente nei colori sacrali. A partire dal
IX secolo, è ancora dipinta quasi soltanto di nero, ma porta scarpe rosse e collane rosse. Il pittore
tedesco Grünewald (1475-1528) dipinse ancora nei colori ternari della dea tutte e quattro le Ma-
donne ritratte nelle sue Crocifissioni. Nell’epoca della persecuzione delle donne e dell’allontana-
mento del femminile, l’abito di Maria cambia e diventa bianco-azzurro. I colori sacrali si trasferisco-
no nei simboli secondari. Al margine esterno della Madonna di Stupach c’è un vaso nerissimo, da-
vanti al quale è collocata una coppa rotonda bianca da cui “scorre fuori” una collana di coralli ros-
si.
Parallelamente, i colori ternari della dea passano nelle mani dei potenti della politica. Luigi XIV,
il Re Sole, porta un mantello blu notte ricamato con fiori o stelle. Il suo trono è rosso-oro e il bal-
dacchino di velluto rosso. La melagrana purpurea diventa, nelle mani del sovrano, la mela d’oro
dell’impero, segno dell’autorità guerriera e patriarcale del sangue. I guerrieri portano uniformi ne-
ro-bianco-rosse.
Anche i dignitari ecclesiastici compaiono in “abiti da donna” di velluto rosso o bianchi come la
neve e siedono sotto un baldacchino rosso. Le suore e il basso clero portano abiti neri e bianchi, e
non hanno potere. Vestiti di questi colori, essi si inginocchiano in un luogo in cui prima sorgeva la
capanna delle mestruazioni, la cosa “più sacra di tutte”, in cui si compiva la trasformazione16. In
chiesa essi venerano il mistero del sangue maschile dell’uccisione, laddove prima nel CAER si ce-
lebrava il mistero del sangue femminile della vita. Essi bevono il vino rosso dal calice che prima
conteneva il sangue della luna. Pronunciano parole profetiche laddove prima le donne annuncia-
vano i loro sogni dell’oracolo, in cui tutta la tribù riponeva le sue speranze. Fanno brillare la luce
eterna e aspergono l’altare d’incenso laddove prima la fanciulla col menarca custodiva il fuoco, il
cui fumo rendeva immortali. Fanno suonare le campane della scrofa laddove prima la vecchia
saggia sedeva davanti alla capanna delle mestruazioni e suonava i tamburi al rivelarsi del sacro. Il
mistero originario del ciclo mestruale si è conservato in tutti i simboli della Chiesa dei padri. Solo
che non si venera più il sacer mens del sangue femminile, ma il sacramento del sangue maschile.
Ma dove si vuole trovare la saggezza?
Oh se potessi essere nelle lune precedenti...

Ecate, l’unità ternaria del ciclo


Con la dea Ecate, nel cosiddetto “Ekateion” o “Ekaterion”, viene rappresentata in un’altra ma-
niera ancora l’esperienza del ciclo ternario femminile. Tutte e tre le fasi del ciclo vengono mostrate
ciascuna in una testa o in una singola persona, ma la composizione complessiva è di conseguen-
za un’unità della ternità. Ecate con le tre teste o nella sua figura triplice simboleggia sia il ciclo ter-
nario della mestruazione sia il principio ciclico cosmico.
Nella grande Preghiera a Selene, una preghiera magica in forma di inno alla natura madre di
tutte le cose, la dea Physis, l’orante comincia:

Avvicinati a me, Selene dai tre volti,


e ascolta nella tua bontà i miei canti magici:
ornamento della notte,
nuova, tu che porti luce ai mortali,
tu nata di mattina,
155
tu che siedi su tori dagli sguardi selvaggi, regina...
che danzi nelle tre figure delle tre Grazie
volando con le stelle, Dike e tessuto delle Moire,
Cloto e Lachesi e Atropos tu sei,
tu tricefala, sii clemente a me che ti chiamo,
e ascoltami benevolmente,
tu che di notte governi sul vasto mondo
tu, davanti a cui rabbrividiscono i demoni
e tremano gli immortali,
dea che glorifichi gli uomini,
dea dai molti nomi, bennata,
dea dagli occhi di toro, dea con le corna,
generatrice degli dei e degli uomini,
e Physis, madre del cosmo...

Selene, la dea-luna, o la dea Physis come anche la madre del cosmo in quanto Afrodite-Diana-
Ecate rappresenta nella sua triade il ciclo ternario. Veramente non è corretto chiamare questa
triade solo col nome di Ecate, perché nel ciclo complessivo la dea Ecate corrisponde soltanto
all’aspetto nero e, in quanto singola dea, non rappresenta l’intero principio ciclico. La chiamo per-
ciò Ecate-ciclo. Essa compare in moltissime rappresentazioni in un gruppo di tre, con tre teste, tal-
volta con tre teste di animale o con tre corpi, che in genere sono uniti, schiena contro schiena, in-
torno a una colonna rotonda. Su un cammeo romano, Ecate ha tre teste con una corona a tre, tre
paia di braccia, una col coltello del sanguinamento nero, la seconda con uno scettro-ombelico per
la fase bianca del nuovo concepimento e la terza con due fiaccole per la fase rossa della luna pie-
na.
E. Neumman scrive che essa è «la dea-luna degli spettri e dei morti», perché «l’accentuazione
femminil-maschile della Gorgone non deriva solo dalle zanne dritte del suo grembo-muso, ma an-
che dalla lingua tesa fuori, che possiede sempre un carattere fallico»17. Ma né Ecate né Kālī né la
Gorgone hanno una lingua fallica: hanno invece, fra le zanne di cinghiale della luna, la lingua del
sanguinamento, se si tratta della dea dell’aspetto nero. Sono dee cinghiale delle nascite di trasfor-
mazione, in cui non c’è morte. Sono dee-di-trasformazione-del-morire, non dee-di-uccisione-della-
morte.
Prima l’Ecate-ciclo era il cinghiale della “coppa inferiore”, che diventò in epoca patriarcale il ca-
ne infernale Cerbero. Ma perfino questo cane veniva ancora pensato con la testa di maiale, anche
se era descritto soltanto rosso e bianco e con la testa di cane. Kālī e la Gorgone hanno denti di
maiale, ed Ecate dalle tre teste aveva in origine tre teste di maiale. Essa tiene nelle mani la fiacco-
la, il coltello e lo “scettro-ombelico” o la verga magica della fase bianca. C.G. Jung chiama questa
verga della dea Ecate una «sferza»: ma essa fu resa tale solo nei riti patriarcali di assunzione. La
dinamica originaria del ciclo è presente perfino nella flagellazione di Gesù, perché dopo che egli
era stato flagellato «gli misero l’abito purpureo»18. La “sferza” si chiama Leukophyllos, e significa
“foglia bianca”. Essa si rivela quindi come il simbolo ternario della fase bianca del ciclo. Con la
verga magica la fase nera si trasforma in bianca. Talvolta la Ecate-ciclo tiene in mano anche delle
chiavi. Essa è veramente la dea onnipotente del supremo potere spirituale delle trasformazioni19
sulla terra, come la Dahud celtica possiede le chiavi per accedere all’altro mondo Ys.
L’Ecate-ciclo viene rappresentata anche con tre teste, raccolte insieme sotto un unico kalathos,
come se tutte e tre insieme portassero una corona. Le loro tre teste formano un’unità rotonda, che
rimanda alla dea pelasgica Eurinome, che veniva chiamata anche “dea dell’universo che gira”20.
La ternità di Ecate compare anche sotto forma di figura danzante con gli abiti delle Grazie. La rap-
presentazione del ciclo che danza ricorda non solo Vajravārāhī, la dea-maiale che danza, ma an-
che la ruota di NEMESIS. Il suo nome significa “giusta esecuzione”. Nemesi porta il ramo di melo,
la ruota e, alla cintura, la verga magica. Si sviluppa in seguito diventando la Fortuna romana, il cui
nome deriva da Vortumna e significa “colei che gira l’anno”. In altre parole, Fortuna-Nemesis è la
dea ternaria del ciclo, che tiene veramente in mano il destino.

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Spesso la Ecate ciclica viene rappresentata solo con delle fiaccole in mano. Nell’Ekaterion di
Marienbad essa sta in tre figure di dee, con le spalle rivolte a una colonna rotonda, e porta un ka-
lathos. La figura con le due fiaccole simboleggia la fase rossa, la dea con una fiaccola e la coppa
mostra la fase nera, e la terza tiene una fiaccola e una brocca per indicare la fase bianca. Su
un’anfora della Beozia è rappresentata come la “dea delle cose selvagge”, che viene sempre inte-
sa come la “signora degli animali selvaggi”. Ma Ecate col corpo di un leone, di un cane e di una
cavalla è il simbolo del ciclo delle stagioni, che prima aveva testa di maiale. La signora delle cose
selvagge è la dea orgiastica delle mestruazioni, con la sua autorità sul ciclo stagionale che si rap-
presenta negli animali. Ecate è la veramente “grande”: non in quanto dea della terra o della luna o
della fertilità, ma in quanto dea del ciclo ternario integrale e in particolare in quanto dea nera del
sangue.

I gruppi ternari
La ternità-ciclo si mostra anche in gruppi di tre dee che prese singolarmente non hanno un no-
me proprio, ma hanno un nome soltanto in quanto triade, come per esempio le Muse, le Erinni, le
Grazie e le Parche. Nell’evoluzione della religione esse rappresentano una fase in cui tutto il ciclo
veniva inteso come un elemento, come ternità-elemento.
La prima dea fu raffigurata come dea-elemento-sangue, che equivaleva al sangue. Anche la
Ecate ternaria è in realtà ancora una dea-elemento, perché nella triade di una persona rappresen-
ta il ciclo come elemento complessivo. Nella ternità-elemento la differenziazione fa un passo
avanti. Essa è la dea che viene rappresentata in tre persone distinte, che però compaiono sempre
come un’unità di tre. Le singole figure non hanno un nome individuale che esprima la loro fase
specifica, solo la loro triade come gruppo ha un nome complessivo.
I gruppi di tre vengono interpretati o come “dee-fanciulle” o come “dee-madri”, anche se si di-
stinguono l’una dall’altra per dei caratteri tipici sia dell’abito sia dei simboli che recano in mano. Su
un’anfora che rappresenta il giudizio di Paride, sono dipinte le tre dee che vengono prese per ma-
no da Ermes. Una di loro porta una veste bianca, la seconda una veste a fiori, e la terza ha sulla
testa il simbolo dell’anello-shen, il simbolo del sangue della dea Iside. Tutte e tre portano nelle
mani un grande anello di corda, che va sicuramente inteso come anello del ciclo indice della loro
autorità.
Un rilievo arcaico21 mostra le Ninfe, Grazie o Eumenidi. La prima delle tre dee ha in mano un
fiore, la seconda un frutto e la terza di nuovo l’anello-shen. Come loro, anche le Erinni, le Parche o
le Muse, le Graie o le Furie, vengono sempre pensate in gruppi di tre. Esse non sono né le “dee-
fanciulle” né le “dee-madri”, ma la fanciulla, la madre e la vecchia saggia, e personificano ciascu-
na una fase della ternità del ciclo.
Quando sul trono dell’Olimpo vennero messi Zeus ed Era, la sua “ormai soltanto sposa”, l’onni-
potente dea della ternità degenerò nelle innocenti Korai (fanciulle), in ninfe servitrici senza nome e
in Muse che danzano per gli dei, care, belle e graziose certamente, ma buone solo come orna-
mento da poco conto del cielo degli dei. Quando Era, la dea Physis e madre del cosmo, perde
ogni potere, le ternità si abbassano al ruolo di “dilette”.
Nella mitologia greca è assai diffuso il modello delle tre o delle nove Muse. Le tre Muse sono
anche le nutrici di Apollo sul Parnaso22, che come a Delfi possono ricavare profezie dai ciottoli
danzanti, mettendo alla prova la loro capacità oracolare “nera”. Le Muse e le Ninfe corrispondono
alle tre Graie che si chiamano anche Forcidi. Le Danaidi, le Nereidi, le Gorgoni e le Naiadi sono
tutte figlie di Forcide, la dea-maiale originaria. Esse sono chiamate anche PARche. PARkai è l’epi-
teto delle tre dee del destino23. Il nome PARKAI appartiene al campo semantico PHORkus-ORCus,
l’oltretomba dei maiali. In irlandese il maiale si chiama semplicemente ORC24. L’appellativo di Par-
kai viene dato anche alle tre Moire, che si rivelano così figlie della dea-maiale.
Le Muse, nel loro gruppo di nove, costituivano il collegio orgiastico delle sacerdotesse della dea
della lunazione che stava sull’Elicona. Esse ricordano le nove danzatrici delle caverne di Colgul.
Elicona deriva da HELIKE, e significa “il salice”25. Weide, che in tedesco significa “salice”, deriva
dalla radice WILLOW; WICKER è il cesto di salice, WICKED significa cattivo, e di qui si forma la
157
parola WITCH, “strega”. Quelle che sull’Elicona sono le nove Muse dei salici della dea della luna-
zione, degenerano nel Medioevo nelle streghe-Witch, col simbolo animale del maiale. (Dansa ‘e
sa luna in su salighe – nota di Nico) Le tre Erinni vengono trasformate in Furie assassine e divo-
rano gli uomini, con gli occhi infuocati e i denti digrignati.
Nel II secolo d.C. si sviluppa nell’Egitto cristiano l’immagine di una Maria triforme, a cui nel pri-
mo cristianesimo veniva attribuito in genere soltanto l’aspetto di madre, di theotokos (generatrice
di Dio). Presso i Copti questa dea, nelle sembianze della triplice Maria, sta sotto la croce, e Ran-
ke-Graves la paragona alla Blodeuwedd irlandese, l’Arianrhod, l’aspetto materno del maiale, e
Maria Maddalena, la nera, che nella teologia diventa la penitente e viene dipinta col colore marro-
ne della terra. Nella religione copta Maria Maddalena assomiglia a Morgan Le Faye, la dea del
destino26.
Nel Medioevo i gruppi di tre compaiono ancora solo come wicked, streghe, rappresentate con
coppe e collane di teschi nelle sembianze di Furie e di Lamie, di cui si dice che rapiscono i neonati
sollevandoli nell’aria sulle loro scope da streghe. Anche la verga magica delle trasformazioni è di-
ventata la “scopa cattiva”. Ma anche nelle perverse rappresentazioni pornografiche delle tre stre-
ghe, queste continuano a essere rappresentate come la fanciulla, la madre e la vecchia. La dina-
mica ciclica della dea ternaria non si può eliminare del tutto.

La ternità del nome e il ciclo cultuale


La triade senza nome del destino si sviluppa coerentemente in un’unità ternaria con tre nomi
specifici per ogni singola fase.
Le tre dee del destino si chiamano Moire. Letteralmente, MOIRA significa “parte” o “fase”, di
modo che le tre Moire significano letteralmente le tre fasi del ciclo27. In quanto Forcidi, le Moire
sono le tre fasi del maiale originario. La mia interpretazione della dea ternaria della mestruazione
non può avere una conferma più chiara. Quando filano, la prima Moira regge il fuso. Il suo nome è
Cloto, “la filatrice”. La seconda Moira misura il filo della vita. Il suo nome è Lachesi, “colei che
prende la misura”. La terza Moira taglia il filo con le forbici, l’antica falce di luna. Il suo nome è
Atropo, “colei che non si può evitare28. Cloto, Lachesi e Atropo sono le tre fasi-Moire del ciclo me-
struale: l’inizio, il centro e la fine. Una fiaba della Grecia settentrionale narra che, alla nascita di un
principe, le dee del destino deliberano sulla sua vita. Una Moira vuole dargli una lunga vita, un’al-
tra lo vuol far morire il giorno dopo e la terza trova un compromesso: da ciascuna delle tre egli ri-
ceve nove anni29. Così le Moire sono descritte anche come le fasi della lunazione nel numero sa-
cro nove.
Analoghi nomi-fase ricevono le tre Danaidi, la triade della dea della lunazione Danae. Esse so-
no chiamate anche le Telchine o le “incantatrici” (a Rodi). Il nome della fase bianca è Linda: “colei
che lega col filo di lino”. Il suo nome potrebbe essere un riferimento alla legatura del cordone om-
belicale, con cui inizia la nuova vita. La fase rossa viene chiamata Camira, “colei che distribuisce”.
Il nome della terza fase è Ialisa, “la donna che si lamenta”30. Con i tre nomi è chiaramente descrit-
ta la qualità dell’esperienza del ciclo ed è reso chiaro il modo in cui il ciclo mestruale poteva esse-
re raffigurato ritualmente e riprodotto nel culto.
Gli Orfici chiamavano la luna “testa di Gorgone”. Le Gorgoni sono tre dee ciascuna con un pro-
prio nome. La prima si chiama Steno, “la forte”; la seconda Euriale, “colei che vaga in lungo e in
largo”, e l’ultima è Medusa, “l’insidiosa”31. Definire “insidiosa” la dea MEdusa, il cui nome contiene
la sillaba ME, è sicuramente frutto di un’interpretazione improntata alla morale patriarcale. In sen-
so matriarcale, in conformità con le trasformazioni della luna, le tre Gorgoni si definiscono come la
forte dea-fanciulla, sessualmente autonoma, della fase bianca, come la dea vagante delle nozze
sacre e come la dea nera della mestruazione, la dea del ME, che “trattiene” la sua luce lunare.
Afrodite, la dea-maiale bianca nata dalla schiuma, porta, per esempio nella notte d’amore con
Anchise32, anche la veste rossa della nozze sacre. È chiamata anche Melainis, “la nera”, oppure
Skotia, “la scura”, oppure Androphonos, “colei che uccide gli uomini”. Il nome di colei che uccide
gli uomini ricorda la dea Kālī, di cui si dice che uccide il dio maschile Shiva. Afrodite si chiama an-
che Epitymbria: “colei che proviene dalle tombe”. Anche i suoi nomi descrivono chiaramente l’e-
158
vento ciclico della trasformazione, perfino con una forte accentuazione e differenziazione della sua
qualità di fase nera, benché si continui a chiamare questa dea “la nata dalla schiuma” e le si asso-
ci il colore bianco.
Io, la dea della lunazione nella sua figura originaria, è nelle sembianze di Amaltea “la delicata”,
nelle sembianze di Iodama “la piena di sangue” e in quella di Adrastea “l’ineluttabile”, il destino e
la trasformazione33. Per Era e per molte dee i nomi della loro dinamica ciclica si riducono a Kore,
alla Madre e alla Vedova. Il ciclo viene ora descritto in tre fasi della vita.
Nel corso dell’evoluzione della religione patriarcale greca, già prima di Omero, Era veniva su-
blimata nella «donna pura e sposa», come scrive K. Kérenyi34. Considero questa “sublimazione”
piuttosto una degradazione. Ad Argo, in cui Era veniva adorata come “bambino, giovane donna e
vedova”35, c’è una straordinaria rappresentazione cultuale della sua identità-ciclo, nell’insolita ar-
chitettura dei suoi luoghi di culto. Prima dell’VIII secolo a.C. l’Eraion era già stato per secoli il gran-
de santuario del matriarcato. AI centro c’era un altare, da cui lo sguardo spaziava su tutto il paese.
Era aveva tre nomi che concordavano coi nomi del paesaggio ed erano detti anche “le balie di
Era”. Era-Akraia è “quella della sporgenza del monte”, per cui essa veniva designata come la dea
dell’ “altezza”, cioè del punto più alto del monte in questo paesaggio. Era-Prosymna era il suo no-
me per il luogo sotto l’Eraion. Anche lì doveva trovarsi un santuario, che si chiamava CHORA36,
con un termine appartenente alla stessa famiglia di parole del sumero KUIR e del celtico CAER. Al
centro, fra la posizione più alta dell’Akraia e la posizione più bassa della Prosymna, fu costruito,
sul monte Euboia, il grande santuario di Era. La dea Era-Euboia è “la ricca di buoi”. I suoi templi,
situati su diversi monti, raffigurano il ciclo ternario. Quando le processioni di Era passavano ac-
canto a tutti i templi, formavano nel paesaggio di Argo il percorso rituale del cerchio. Ovviamente
la dea Era-Akraia porta in mano la melagrana. Era-Prosymna corrisponde al tempo della luna ne-
ra: quando la luna scompare, anche Era “va sotto terra”. Nella processione di Era si esegue perciò
un percorso verso il basso. Quando i fedeli giungevano nella CHORA, nel periodo della luna nera i
cori chiamavano la luna, affinché la dea fosse ripartorita dalla luna nuova37.
La dea Era-Prosymna della fase nera corrisponde alla Persefone greca e alla Proserpina latina
dal “manto di un nero brillante”. Nella processione mensile o nella grande processione annuale
Era, o meglio la sua statua, veniva portata dalla CHORA alla fonte Kanathos e bagnata in essa.
Così il ciclo ricominciava di nuovo. La cosiddetta “vedova” ridiventava la cosiddetta “vergine”.
Dopo il bagno e l’abluzione del sangue, la fase nera si trasforma nella fase bianca. Nell’utero
questo processo del sanguinamento corrisponde a una reale pulizia. Come vergine, Era portava il
nome di Parthenos. Come Parthenos veniva adorata a Ermione in un santuario di Era situato su
un monte basso. La sacralità ternaria del ciclo è trasferita nell’architettura, e nella processione ri-
tuale viene seguito, esperito e danzato il ciclo.
La ERA nera, che veniva adorata nella CHORA, aveva il nome di CHERA, “la vedova”. Era-
Chera è “la donna che si lamenta”, “colei che taglia il filo della vita”, l’ “ineluttabile”, il destino ci-
clico delle trasformazioni. La denominazione di “vedova” per la dea della fase nera in realtà non
ha senso, a meno che si riferisca ai lamenti e agli abiti neri da lutto delle vedove dei nostri tempi.
Era, che in epoca pre-ellenistica era una dea immortale, non diventava mai “vedova” per la morte
del suo re di un anno, perché questo ricompariva come successore di se stesso. Altrettanto priva
di senso è la denominazione di “vedova” per la Era ellenistica, perché si diceva che fosse la mo-
glie di uno Zeus immortale. Ma come può mai diventare vedova la moglie di un immortale? L’inter-
pretazione di Era come vedova è inadeguata, perché riferita al matrimonio, descrizione patriarcale
della fase nera del ciclo, che non ha proprio niente a che fare col matrimonio. Vergine, madre, ve-
dova indicano le tre fasi del ciclo mestruale intese come fasi-età della vita. La dea nera corri-
sponde alla donna le cui mestruazioni sono finite. È la vecchia saggia e non la vedova.
Il dio-uomo Zeus compare nel culto di Era solo dal V secolo a.C. nelle sembianze di un giovane
uomo barbuto che scaglia fulmini. Per due secoli si chiama soltanto Parastates, “colui che sta
accanto”. Egli stava accanto alla dea come suo mortale re di un anno. I primi templi di Era ad Ar-
go risalgono comunque all’incirca al 1000 a.C.38 e gli inizi del culto matriarcale del ciclo si colloca-
no almeno nel VI millennio a.C., quando a Nea Makri, in Attica, fu costruito lo stupendo maiale in
cui è stata adorata la dea pre-ellenistica della lunazione (vedi illustrazione a pag. 121).

159
NOTE
1. R. Ranke-Graves Griechische Mythologie, cit. pag. 56.c.
2. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, cit. pag. 79.
3. R. Ranke-Graves Griechische Mythologie, cit. pag. 127.a e 127.1.
4. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, cit. pag. 275.
5. R. Ranke-Graves Griechische Mythologie, cit. pag. 90.3.
6. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, cit., pag. 524.
7. Ibidem, pag. 284.
8. R. Ranke-Graves Griechische Mythologie, cit. pag. 2.b.
9. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, cit. pag. 65.
10. Ibidem, pag. 48.
11. Ibidem, pag. 311.
12. Ibidem, pag. 493.
13. Ibidem, pag. 79.
14. Ibidem, pag. 81.
15. Ibidem, pag. 83.
16. L’autrice mette in rilievo, nella parola Kirche, la sillaba KIR. (Ndt)
17. E. Neumann op. cit. pagg. 166 e segg.
18. Giovanni, 19:12.
19. Il termine tedesco Schlüsselgewalt significa letteralmente “potere chiave” e indica il potere spi-
rituale del Papa e della Chiesa. (Ndt)
20. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, cit. pag. 207.
21. J. Harrison Prolegomena to the Study of Greek Religion, Londra, 1961.
22. R. Ranke-Graves Griechische Mythologie, cit. pag. 17.2.
23. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, cit. pag. 270.
24. Ibidem.
25. Ibidem, pag. 200.
26. Ibidem, pag. 163.
27. R. Ranke-Graves Griechische Mythologie, cit. pag. 10.1.
28. Ibidem, pag. 10.b.
29. H. Hoog Die Wasserfrau. Von geheimen Kräften, Sehnsüchten und Ungeheuern mit Namen
Hans, Colonia, 1987, pag. 12.
30. R. Ranke-Graves Griechische Mythologie, cit. pag. 60.2.
31. Ibidem, pag. 33.3.
32. Ibidem, pag. 18.3.
33. Ibidem, pag. 7.3.
34. K. Kerényi Zeus und Hera. Urbild des Vaters, des Gatten und der Frau, Leiden, 1972, pag. 93.
35. R. Ranke-Graves Griechische Mythologie, cit. pag. 12.6.
36. K. Kerényi op. cit. pag. 97.
37. Ibidem, pag. 117.
38. Ibidem, pag. 107.

160
Le dee ternarie del ciclo

La “creazione” della dea del ciclo e la sua distruzione


Al matriarcato semplice associo lo sviluppo di Io, la dea dell’elemento-sangue. Nel matriarcato
evoluto essa assume la forma di una ternità, che si esprime nei gruppi di tre dee senza nome. La
differenziazione del gruppo ternario in tre singole dee ciascuna con il suo nome, i suoi simboli e i
suoi poteri mitici, si verifica nel matriarcato altamente evoluto. Nel mito di Kore-Demetra-Persefo-
ne e nella specifica forma di culto che esso riceve nei Misteri eleusini, le tre dee incarnano ciascu-
na una fase del ciclo nella sua integrata totalità e autorità.
La fase bianca dell’utero in cui, dopo la pulizia compiuta dallo scorrere del sangue, si riforma
l’endometrio, è personificata nella mitologia greca nella dea-vergine Kore. Essa è la donna ses-
sualmente autonoma, la dea dei fiori, la fanciulla dei fiori selvatici.
La fase rossa dell’utero, in cui la mucosa uterina si riempie al massimo di sangue, prende for-
ma nella dea Demetra. Essa tiene in mano la melagrana, che col suo colore rosso sangue ed i
suoi innumerevoli grani rappresenta la pienezza uterina del sangue ed i figli potenziali. Demetra
non è né una “dea-madre” né una dea della fertilità che partorisce figli: è la dea rossa che, portan-
do nel suo utero sangue ed uovo, reca in sé la possibilità di fertilità. La tesi ancor oggi sempre ri-
petuta che tutte le dee sarebbero dee della fertilità è chiaramente un’interpretazione patriarcale
che degrada a non-donne tutte quelle che non hanno figli.
La fase nera dell’utero, in cui l’endometrio, non essendosi verificato l’annidamento dell’uovo,
viene eliminato e scorre via dall’utero, è rappresentata dalla dea Persefone. Per un terzo della du-
rata del ciclo essa deve andare “sotto terra”, nell’aldilà e nell’altro mondo. Questo regno “nell’ute-
ro” è l’Elisio, in cui fioriscono i papaveri rossi e si trova l’albero su cui maturano le melegrane, che
vengono raccolte con la falce di luna. Persefone è la dea-cinghiale della “coppa inferiore”.
Il ciclo ternario totale viene simboleggiato in queste tre dee, che insieme rappresentano una to-
talità integrata dell’essere femminile. La distruzione di questa unità, la scissione atomica della dea
del ciclo e quindi dell’identità femminile e l’isolamento e il pervertimento di ogni singola fase e di
ogni singola dea ha fatto sì che nel patriarcato si definisse la dea nera “dea della morte”, la dea
rossa “dea della fertilità” e la dea bianca virgo intacta. Queste interpretazioni, frutto della misoginia
patriarcale, sono semplicemente false e pericolose dal punto di vista del campo energetico biopsi-
chico della dea ternaria del ciclo. Ma sono proprio queste interpretazioni che hanno condotto nel
patriarcato a una determinata situazione psichica e politica delle donne.
Il compito attuale della psicoterapia e della politica dovrebbe essere quello di integrare
di nuovo queste fasi nella totalità della dea e della donna, di tornare a comprendere, risa-
nandolo e rigenerandolo, il livello matriarcale della psiche: si tratta di distinguere l’essenza
matriarcale della donna dalla deformata Anima patriarcale dell’uomo, che scambia l’essen-
za della donna con la propria “Anima anoressica”, proiettata continuamente sulla donna
stessa.
Voglio mostrare con l’esempio delle “nozze sacre”, che il patriarcato definisce “il rapimento-ma-
trimonio di morte”, quanto la totalità ternaria della dea e parallelamente la totalità spirituale della
donna vengano distrutte dai miti patriarcali di allora e dalle interpretazioni psicologiche degli stu-
diosi di mitologia di oggi. Non solo, accade che nella psicologia junghiana l’ “archetipo del rapi-
mento-matrimonio di morte” venga trasmesso acriticamente da una generazione di terapeuti all’al-
tra: questo “archetipo”, essendo un campo energetico che tutto pervade, determina anche lo spiri-
to dei tempi attuali e impronta la situazione concreta delle donne.
Nel “motivo archetipico del rapimento-matrimonio di morte” la giovane dall’imene intatto viene
rapita e subisce, con la “penetrazione dell’uomo”, il matrimonio di morte. In epoca matriarcale le
nozze sacre si celebravano facendo dormire la sacerdotessa mestruata con il re di un anno per
iniziarlo ai misteri femminili e insediarlo per un anno sul trono. In epoca patriarcale la donna viene
161
iniziata ai misteri della morte e insediata nell’ufficio permanente di moglie-serva.
E. Neumann scrive a proposito dei Misteri eleusini, in cui le “nozze sacre” trovavano la loro
forma rituale, che essi conservano «la conoscenza dei misteri dello stadio matriarcale». «Rapi-
mento, stupro e matrimonio di morte sono i grandi motivi che nel mito del ratto di Kore, della sepa-
razione fra madre e figlia, determinano l’evento centrale dei Misteri eleusini.» «La parte essenzia-
le... è la riunificazione di madre e figlia. Dal punto di vista psicologico questo ritrovamento significa
l’annullamento del rapimento e dell’irruzione maschili e il ristabilimento dell’unità matriarcale di
madre e figlia dopo il matrimonio.»1
Ma a Eleusi madre e figlia non si riuniscono dopo la criminosa violenza inflitta a questa dall’uo-
mo, né si cancellano la violenza fisica e il danno psichico subiti. Non si può negare che una tale
interpretazione sessista derivi dallo sfondo medioevale, quando si cucivano alle donne le grandi
labbra e l’uomo veniva «festeggiato» se nella notte delle nozze «era capace di aprire la sposa con
la sua arma naturale»2. La brutale interpretazione misogina dei più alti misteri femminili è il risulta-
to delle fantasie sessuali dell’uomo e dei suoi desideri di morte per le donne, per cui il rapimento di
Kore e il suo “matrimonio di morte” sono attribuiti alla «fascinazione esercitata dall’aspetto terreno
maschile (!), cioè dalla sessualità»3.
Il rapimento-matrimonio di morte è chiaramente un totale capovolgimento del vero mito delle
“nozze sacre” in cui, nel campo energetico biopsichico, non è l’uovo a subire la morte, ma il seme
a dover sacrificare la propria potenza vitale. Il femminile si sviluppa e si accresce ulteriormente, il
maschile muore. Nel mito delle “nozze sacre” il re di un anno deve morire dopo il congiungimento
mentre la dea è eterna. Nel ribaltamento patriarcale del “rapimento-matrimonio di morte”, l’uomo
diventa il dio immortale, mentre la donna deve subire la morte nell’accoppiamento. La distruzione
della totalità ternaria della dea e della donna e la diffamazione della sua sessualità culmina in E.
Neumann nella constatazione che a Eleusi si celebravano ogni anno le “nozze sacre” col rapimen-
to, lo stupro e la morte, e che perciò esse vanno paragonate a una «festa terribile della notte mor-
tale»4. Secondo questa interpretazione, nei più sacri misteri femminili si “iniziava” l’uomo allo stu-
pro delle donne.
Questo spirito dei tempi, che dura da secoli, è paragonabile a un’infezione atomica psichica, e
ha fissato dei modelli politico-sociali: la nuova immagine del mondo del dio Zeus e di sua moglie
Era, dell’uomo divino e della sua donna degradata a “moglie di dèi”. Il capovolgimento delle “noz-
ze sacre” nel “rapimento-matrimonio di morte” ha legittimato ogni sorta di violenze esercitate dagli
uomini sulle donne, la terra, l’aria, l’acqua, gli atomi. Che anche la giustizia si sia assoggettata a
questo spirito dei tempi, è fuori dubbio. L’interpretazione “maschilista” dei Misteri eleusini è per le
donne una terribile notte mortale. Che cosa farà allora uno psicoterapeuta con una donna violen-
tata e quindi psichicamente in difficoltà, se nel fondo della sua testa, o meglio nel “fondo della sua
anima”, ha registrato il concetto che i valori religiosi centrali dei misteri matriarcali sono la morte e
lo stupro? Forse una donna violentata nella metropolitana o nel letto matrimoniale deve anche ce-
lebrare la violenza subita come un mistero? Come possono gli psicoterapeuti e gli studiosi di mito-
logia dei nostri tempi proiettare tali mostruosità della fantasia nei misteri primordiali senza mai in-
terrogarsi sulla propria disposizione interiore e senza mai cogliere la propria mentalità di stupra-
tori?
Nei Misteri eleusini si festeggia il sacer mens femminile, la sacra mestruazione. Le donne cele-
brano il loro ciclo nelle dee ternarie: la Kore dei fiori che si trasforma nella Demetra delle melegra-
ne e quindi nella dea dell’aldilà Persefone che, nelle sembianze della dea-maiale Gorgone, com-
pare con la lingua rossa che penzola fra le zanne a falce di luna. Il ciclo ternario nero-bianco-rosso
della mestruazione si è spiritualizzato nella dea trifasica integrata. Le tre spighe recise, come i
maiali gettati nella fossa, simboleggiano il sanguinamento della donna, la morte della luna nel co-
smo.
Quando Persefone va per un terzo dell’anno nell’aldilà dell’utero-terra, ha inizio il mistero della
trasformazione del ciclo del sangue. Quando essa ricompare nelle sembianze della bianca Kore
dei fiori, i mýstai danzano orgiasticamente il nuovo inizio del ciclo cosmico. Allora la terra rifiorisce
a nuova fertilità, ritorna la luce della luna e nell’utero della donna ha inizio l’epoca del nuovo con-
cepimento. A Eleusi la religione ufficiale della dea-maiale cosmica e del suo ciclo mestruale nero-

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bianco-rosso fu celebrata nel culto per almeno 2000 anni.

La dea dei fiori della fase bianca


Ho già presentato la dea dei fiori come dea bianca con l’appellativo di Alphito. Essa è la vergine
che vive non una sessualità riferita all’uomo, ma un nuovo inizio della sua ternità sacrale riferito al
ciclo. Il parto virginale della Maria biblica dice che essa ha concepito senza l’aiuto dell’uomo, per
partenogenesi, concetto tealogico e non biologico che si riferisce alla fase bianca del ciclo, quella
del concepimento. La dea dei fiori è VIRGO, che significa “donna non sposata”, e non ha niente a
che fare con la castità o l’imene intatto. Da VIRGO deriva il bretone GWERC’H, che in gallese è
MEIRCH, e significa “ragazza”. Il bretone GWERC, il gallese GWRAIG vengono usati invece per
“moglie” e “donna”, e fanno parte della stessa famiglia di parole del latino VIRGO. In celtico dà
luogo a WRAKKA, in bretone a GRAC’H e a GROAC’H, che indicano “la vecchia”, e in seguito an-
che la “strega”5.
VIRGO è, già sulla base del campo semantico, non l’ “intatta”, ma la fanciulla, la donna e la
vecchia, la ternità del grande e potente maiale primordiale VERre.
Utilizzare il concetto di VIRGO per indicare la vergine con una virgo intacta, con un imene ille-
so, è frutto del desiderio patriarcale di esercitare un controllo sessuale sulla donna già prima del
matrimonio. Virgo è sempre già la totalità ternaria di tutte e tre le fasi del ciclo come di tutte e tre le
età della vita. La partenogenesi implica non solo l’assenza di ogni riferimento alla sessualità ma-
schile, ma il riferimento alla fase bianca uterina della disponibilità a concepire; in termini psicologi-
ci significa apertura a nuovi sviluppi. Il “fiorire” nell’utero indica la nascita della mucosa uterina
piena di sangue6. Nel Cantico dei Cantici, che è un testo del culto matriarcale delle nozze sacre, lo
sposo canta:

Levati su, amica mia, mia bellissima, e vieni!


Ecco infatti l’inverno è passato,
la pioggia è cessata, se n’è andata.
I fiori sono riapparsi nella contrada...
e le viti in fiore spandono profumo (2:10-13).

Il ciclo femminile viene cantato in base al ciclo delle stagioni, quando il sacerdote loda la bel-
lezza dell’amata:

Tu sei il fiore di Saron


il giglio delle convalli,
come il giglio fra spine,
così è l’amata mia fra le fanciulle (2:1).
Il tuo corpo è come un mucchio di frumento,
orlato di gigli (7:1).

Il canto d’amore alla dea del fiore, del fiorire e del sangue fa parte della poesia del culto ma-
triarcale delle nozze sacre.
Il fiore è il simbolo originario della nuova vita. Lo porta già all’inizio del II secolo a.C. la dea ba-
bilonese Nintu, come l’egiziana Nut-Neith. La dea ugaritica Astarte tiene il fiore sollevato come
una scure, e così anche Ishtar, la dea che le succede. Paragonabile alla Astarot di Canaan è l’egi-
ziana Hathor, che porta in mano fiori di loto. Fiori di loto e melegrane contraddistinguono le dee
dei fiori egiziane con i loro diademi floreali, ma anche le dee cretesi portano diademi di fiori d’oro.
In un collier blu-notte di gemme e fiori di melograno è rimasto conservato un capolavoro delle
fayence del XV-XIV secolo a.C. Un prezioso diadema di fiori d’oro proveniente da Micene è fatto
con nove fiori da quattro petali e mostra così la ternità del ciclo del mese lunare tripartito. Preziosi
come sono, questi diademi indicano la sacralità della dea dei fiori e della sacerdotessa che la rap-
presenta nel tempio.
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Una stupenda coppa coi fiori della cultura di Tel-Halaf ad Arpatschija pare risalga a circa 7500
anni fa7. In centro, sul fondo della coppa, “fiorisce” un grande fiore rosso su una base rosso-bian-
ca-blu. Posso immaginare facilmente che una tale preziosa coppa venisse usata nel culto come
calice sacrale per la comunione. Perfino nella Cattedrale di Chartres “fiorisce” nel centro del gran-
de labirinto un fiore a sei petali.
In area greca Era e Atena sono venerate come PAIS, la “fanciulla” o il “bambino”. Atena ha l’ap-
pellativo di Peonia ( in greco piaonia). La pianta della peonia è nell’area mediterranea un fiore sel-
vatico che fiorisce all’epoca dell’equinozio di primavera8. Il trifoglio bianco è sacro sia alla ternità
greca sia a quella celtica. Omero chiama il sacro trifoglio anche “loto”9.
Blodeuwedd è la dea dei fiori celtica, di cui si dice che è fatta di nove fiori diversi10. Le è partico-
larmente sacra la primula con i cinque fiori e le cinque antere11, perciò non c’è da stupirsi se la sua
stella ha cinque punte. Anche alle Muse è associata la primula12. Blodeuwedd è un altro nome
della dea Olwen, la regina di maggio. Anche a lei è correlato il trifoglio bianco e a lei, in quanto
dea uguale ad Afrodite, viene attribuita «la benedetta mela selvatica, ridente di orgoglio»13. Il mito
narra che essa è anche la dea della Via Lattea, la dea delle stelle, come la Rhea cretese o la Hol-
le nordica o la dea sassone Ostera. Come dea dei fiori è la dea della fase bianca dei Cerridwen
che emergeva dalla ruota d’argento14. Poiché, secondo i miti, Blodeuwedd venne creata con nove
fiori bianchi e con la nona onda del mare, si chiama anche “la nata dai fiori”15. È innegabile la so-
miglianza con la dea del mare Afrodite, “nata dalla schiuma”.
Un mito gallese narra del conflitto primordiale di Blodeuwedd, rappresentato successivamente
nel mito di Tristano e Isotta. Durante l’assenza del marito, Lleu Llaw Gyffes, la dea dei fiori s’inna-
mora di Gronw. Nella loro passione, i due amanti progettano di uccidere il marito di Blodeuwedd.
Gronw consiglia all’amata di strappare al marito stesso il segreto della sua morte, ed egli effettiva-
mente lo rivela. Blodeuwedd fa tutti i preparativi, ma per approntare l’arma necessaria le occorre
un anno intero. Con uno stratagemma di Blodeuwedd, il marito viene fermato nel bosco, in modo
che Gronw possa scagliargli contro la lancia da caccia ed ucciderlo. Lleu si trasforma in uccello e
vola via lanciando «un grido che scuote le midolla». Ma Gwyddyon, lo zio, cerca Lleu e lo trova
sotto forma di aquila su un albero dove lo ha condotto una scrofa. Allora lo zio lo ritrasforma in uo-
mo. Lleu si vuole vendicare di Blodeuwedd, la maledice e la trasforma in civetta, perché non pos-
sa più osare di «mostrare il viso alla luce del giorno»16.
Come nella leggenda di Isotta, questo mito primordiale mostra che Blodeuwedd si rivolta contro
la prigione patriarcale del matrimonio e si rifiuta di accettare la privazione dell’autonoma sessualità
della dea dei fiori. Essa rivendica il proprio diritto a una libera scelta sessuale, e non decide a fa-
vore della conquista culturale patriarcale del matrimonio-possesso, ma «uccide il patriarca», come
è scritto nel testo zen, e sceglie colui che può amare liberamente ed autonomamente, cioè il figlio-
amante e re di un anno matriarcale.
Per quanto duro ciò possa suonare, la rivolta delle dee dei fiori con la loro autonomia sessuale
non è completa finché il “patriarca” non viene ucciso veramente o le sue norme di potere patriar-
cali non vengono eliminate. Adattarsi al matrimonio significa per Blodeuwedd rassegnarsi all’ “im-
prigionamento nella cappella”, oppure lasciarsi strappare, come Dahut, il “potere decisionale” sul
proprio utero. Il mito dice anche che Blodeuwedd ricadrebbe nello stato animale della civetta se il
tentativo di liberazione dovesse fallire. A Blodeuwedd e alle sue “sorelle” Lilith, Dahut e Isotta ap-
partengono, come a ogni altra donna, la libera scelta del partner sessuale e la libera decisione di
avere o no dei figli.
Come la dea dei fiori Blodeuwedd, ogni donna deve lottare contro l’alienazione e l’eterodetermi-
nazione volute dal patriarcato, osare la rivolta, che richiede molto coraggio, e per uccidere, se ne-
cessario, “il vecchio re”. Se non è disposta ad assumersi questa ineluttabile “colpa esistenziale”,
essa diventa una “figlia perduta”, non meno perduta del figlio di cui parla la parabola del Nuovo
Testamento.
Il conflitto fra identità matriarcale, che se necessario richiede l’uccisione del patriarca, e adat-
tamento patriarcale, in cui la donna viene imprigionata in norme che non le corrispondono, deve
essere sviluppato fino all’estrema conclusione, sia a livello individuale sia a livello collettivo. Que-
sto conflitto primordiale delle donne è il complesso di Blodeuwedd. Quando l’autonoma dea dei

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fiori osa la rivoluzione, allora la legge dei padri viene relativizzata e la decisione a favore dell’amo-
re non sottostà più all’influenza dell’arbitraria morale del potere. Amore e sessualità possono ritor-
nare a essere un libero dono, che può venire anche revocato e che pertanto richiede dai partner
una capacità di relazione autentica. Amore e sessualità non possono continuare a essere una pro-
prietà regolata da norme, «finché morte non (vi) separi».
Ma chi ha mai potuto parlare di una rivolta delle figlie contro il padre? La ribellione delle figlie
dei fiori non è caparbietà e tracotanza nevrotica delle tanto insultate “emancipate”, ma la giusta ri-
vendicazione che le donne non siano più consegnate alle leggi morali, frutto delle pretese di pos-
sesso patriarcali, e costrette a obbedirvi. Il fatto che le donne risolvano questo conflitto in maniera
diversa e, malgrado tutta la nostalgia e tutta la loro capacità di amore adulto, rinuncino con-
sapevolmente a tante relazioni, non è certo una soluzione a lungo termine, è sempre e soprattutto
soltanto una soluzione individuale e provoca ben pochi cambiamenti collettivi.
La rivolta delle donne-Blodeuwedd contiene niente di meno che la pretesa radicale di un cam-
biamento di paradigma nella religione e nella politica, nella percezione e nell’interpretazione del
mondo. Donne come Blodeuwedd, Dahut, Lilith e Isotta non vogliono ritornare nei mondi mitici ma
vogliono attingere, dalle fonti sepolte dell’identità femminile, l’acqua che ci dia la forza di impe-
gnarci per una fraterna intesa fra gli uomini, di sviluppare un’immagine universale del mondo e di
formare una coscienza complementare, maschile-femminile. (L’essenza del Kiwi!!! – nota di Nico)
L’acqua dissetante attinta alle profonde sorgenti della saggezza matriarcale contiene la conoscen-
za dei valori religiosi e politici dell’autonomia sessuale della dea dei fiori come della “donna dei fio-
ri”. (La donna dei fiori sono io!!!)

La dea della melagrana della fase rossa


La fase rossa della ternità ciclica si spiritualizza nella dea della melagrana. La melagrana rosso
sangue che tiene in mano la dea seduta sul suo trono è il simbolo dell’endometrio che raggiunge
nell’utero il suo stato di pienezza rosso sangue. Esso è sacro a tutte le dee ed è adorato dalla
Sumeria all’Irlanda.
Il melograno cresce nell’altro mondo. Le Gorgoni possedevano un boschetto sacro, chiamato
Isola rossa, simile al boschetto di meli delle Esperidi, da cui Ercole rubò le mele ormai diventate
d’oro. Si diceva che anche sull’isola di Afrodite nel lago Tritone si trovasse un albero di mele. Così
il melograno stesso diventa il contrassegno del rosso Elisio.
In tutta la Grecia vigeva un tabù rispetto ai cibi di colore rosso, e anche le donne Jalî non pote-
vano mangiare il rosso frutto del pandano. Si credeva che la melagrana si offrisse solo ai morti, e
perciò essa doveva simboleggiare la morte e stare in mano alla cosiddetta dea dei morti. La mela-
grana stessa «si spacca come una ferita» e si può gustare solo «dopo che è marcita diventando di
un rosso purpureo cadaverico»17. Probabilmente fu questo processo biologico che fece diventare
la melagrana simbolo del frutto della mestruazione.
Kore, che coglieva narcisi, anemoni scarlatti o papaveri rossi, si rivela non solo dea dei fiori:
talvolta viene rappresentata anche col frutto della mela, perché anche nel ciclo reale i passaggi
sono fluidi e la dea di ogni fase sta a rappresentare anche l’intero ciclo. Era e Afrodite portano sia
fiori bianchi sia mele rosse. La bianca Kore dei fiori si trasforma, in conformità col ciclo, nella rossa
Demetra della mela e quindi nella nera Persefone, che per via dei semi di mela trascorre un terzo
dell’anno nell’aldilà. Tra i Greci il tabù dei cibi rossi veniva sospeso, come ogni tabù, in occasione
di feste particolari: per esempio nelle Tesmoforie le donne mangiavano grani di melegrane per
rendersi simili a Persefone.
Molte dee dei tempi più antichi portano collane di melegrane con nove frutti. Preziosi vasi a
forma di melagrana attestano l’uso sacrale a cui erano destinati i recipienti, dal momento che era-
no fatti di oro e perle e in Egitto avevano perfino nove sepali invece dei cinque naturali. Come il
fiore, anche la melagrana viene rappresentata al centro del labirinto. A Side, in Pamfilia, era stata
scavata nella terra una coppa-labirinto, al cui centro si trova una melagrana18. È quasi ovvio che la
melagrana venisse stampata più volte sulle monete, soprattutto su quelle di Demetra, che la ritrag-
gono sempre accanto alla spiga di grano. Accanto alla spiga di grano è impressa spesso anche la
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capsula del papavero, simbolo della dea nera.
Nell’ORCO-CAER-KUIR cresce il melograno. Il paese celtico delle mele, AVALON, deriva eti-
mologicamente da APFEL (che significa “mela” in tedesco), gallese AVAL, inglese APPLE, indo-
germanico ABOL. APOLlo è il figlio nato dalla mela della dea.
In greco mela si dice MELON. Di conseguenza Ercole, Dioniso e Apollo hanno il soprannome di
Melone. I loro seguaci sacrificavano mele alla dea19. Nell’AVALON celtico rientra l’AVERNUS lati-
no, che doveva designare la sede dei defunti20. Nella città d’oro di Gerusalemme, l’altro mondo di
vetro coi suoi quattro fiumi provenienti dai quattro angoli della terra, cresce accanto al «fiume della
vita» l’«albero della vita» che dà i suoi frutti «tutti i mesi»(!), e le cui foglie servono «a guarire i po-
poli»21. Il grande albero Mugna era un albero ternario composto di melo, nocciolo e quercia e ogni
anno dava, ciascuno per un terzo dell’anno, «un raccolto di mele deliziose, di noci rosso sangue e
di ghiande rigonfie»22. Nell’ultimo terzo dell’anno crescevano le ghiande per la dea-maiale Perse-
fone.
Certe isole, che sono l’altro mondo circondato dalle acque, vengono chiamate con nomi che de-
rivano dal melo (Apfel). L’attuale isola di Ösel, su cui c’era una località di nome ABOUL, si chia-
mava ABALUM. Anche la città italiana ABELLA Malifera (oggi Avella) deve il suo nome di mela a
quest’idea dell’aldilà. Nella tradizione bretone delle leggende del Graal, il re dei pesci, il sangui-
nante guardiano del paiuolo del maiale, porta il soprannome di EVALLACH, perché egli è il re sa-
crale nell’altro mondo di Avalon. L’isola celtica delle mele si chiama anche EMAIN ABLACH, e i
poeti celebrano i suoi meli e lo splendido profumo delle sue mele23.
Se si considera l’autorità chiaramente femminile della mela, è una spudoratezza della mitologia
la leggenda del giudizio di Paride, dell’uomo che porge alla donna la melagrana. Elena è la dea
della mela, e a lei, in quanto donna, appartengono le mele. Prima di questo mito patriarcalizzato è
probabile che fosse esattamente il contrario. Elena avrà offerto al suo re sacrale la mela a cui era
associato il potere politico di un anno che veniva conferito esclusivamente dalla dea. Il mitico dono
della mela è evidentemente l’insediamento del re di un anno sul trono e nella carica di re.
Anche nel racconto sul Paradiso contenuto nell’Antico Testamento è descritta la scena del miti-
co dono della mela. «E la donna vide che sarebbe stato bene nutrirsi dell’albero e che esso era un
piacere per gli occhi, e attirava, perché rendeva intelligenti. E lei prese un frutto e ne mangiò, e ne
diede anche al suo uomo, che le era accanto, e anch’egli mangiò.»24 È strano tuttavia che, ben-
ché in questo racconto si parli soltanto di “frutto”, tutti concordino silenziosamente che si tratti di
una mela. Perché mai? Che l’anima di tempi primordiali “sappia” più della Bibbia? Quando Eva
porge ad Adamo il suo frutto di melograno, questo non è niente di meno che l’iniziazione dell’uo-
mo ai misteri femminili del sangue mestruale e contemporaneamente l’insediamento cultuale del
re di un anno matriarcale nel suo ufficio di rappresentanza. Nella rielaborazione patriarcale del mi-
to del Paradiso, a questo rito e alla conoscenza dei misteri matriarcali segue la minaccia di morte.
In epoca pre-biblica, quando le sacerdotesse della lunazione gareggiavano fra loro per ottenere
la carica del sacramento nel tempio, si offriva alla vincitrice un ramo di melo. Anche nelle prime
Olimpiadi dell’epoca classica si porgeva il ramo di melo al vincitore della corsa del re. Dalla setti-
ma Olimpiade in poi esso fu sostituito, pare per un oracolo pronunciato a Delfi, col ramo di ulivo.
Si ritrova qui il passaggio dalla morte annuale del re sacrale alla signoria del re patriarcale della
durata di otto anni, divisi in due gruppi di quattro anni per due re-fratelli (usanza che si è conserva-
ta nelle Olimpiadi attuali, che si svolgono ogni quattro anni), finché non si afferma il re permanen-
te.
Nell’antico Oriente il melograno è l’albero della luna. Esso viene cantato nel Cantico dei Cantici,
in cui la dea nera Sulamith viene lodata come rosa di Saron. Poiché essa è anche la dea rossa
della melagrana, intona il suo canto d’amore nel contesto matriarcale dell’amore fra fratello e so-
rella: «Ah, se tu fossi mio fratello... io ti porterei a casa di mia madre nella cameretta di colei che
mi partorì e ti disseterei con vino speziato e col sidro delle mie melegrane»25. Col sidro di melegra-
ne non s’intende affatto un filtro d’amore cultuale, ma il concretissimo sangue mestruale, perché la
dea gode dell’amore quando sanguina. Sulamith è la dea della rosa, della melagrana e del sidro di
melagrana.
Il trono di queste dee pre-semitiche poggia su gambe di melagrana, e la Terra Lodata, in cui più

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tardi scorrono ancora soltanto «latte e miele», è la terra «in cui fioriscono fichi e melograni»26.
Nell’annuale ingresso solenne nel tempio, i sacerdoti indossano vesti color porpora e scarlatte27, il
cui orlo è adorno di melegrane e di campanelli d’oro (!) Inoltre la melagrana era l’unico frutto che si
poteva portare nel sacrario. Nel sacrario della capanna delle mestruazioni era consentito solo il
sangue femminile. La vittima sacrificale del Passah veniva per consuetudine infilzata solo su spie-
di di legno di melograno28. Tradizioni più tarde raccontano che nel tempio c’era un cancello a cui
erano fissate cento melegrane29. Nel tempio di Salomone la rete celeste, simbolo dell’autorità del-
la dea universale, è presente sotto forma di cancello.
Nella cerimonia cabalistica del matrimonio, il Sabbat è dedicato alla melagrana. In un inno ad
Anat c’è questa preghiera: «Riversa pace nel mezzo del campo, nel tuo giardino, sotto il melogra-
no, lasciaci celebrare le Sacre Nozze»30. La melagrana è il simbolo usuale dell’amore fatto duran-
te la mestruazione nelle nozze sacre della dea. Questo congiungimento non serve alla fertilità ma
al godimento del sidro di melagrana. Il mitico cogliere e raccogliere mele è un’immaginosa espres-
sione che sta a indicare il sanguinamento; porgere la mela è l’iniziazione al sacramento femminile
e l’insediamento del re lunare nel suo ufficio, che è quello di servire per un anno questo sacra-
mento.
In molti miti la caccia del cinghiale simboleggia la ricerca di questa mela della saggezza prove-
niente dall’altro mondo. Quando Giobbe chiede disperato dove si possa mai trovare la saggez-
za31, la saggezza matriarcale-rigeneratrice, che “giocava” dai primordi del mondo, la risposta tea-
logica potrebbe suonare così: «Sotto un melograno, condotta da un cinghiale, un venerdì sera
prima del Sabbat, nella stagione in cui le mele sono mature per il raccolto, quando la luna è com-
pletamente nera. Allora è il tempo delle nozze sacre, il tempo di annusare il profumo delle mele-
grane e di bere il mosto di melagrana. Allora è il tempo di indossare l’"abito purpureo della dea” e
di farsi iniziare, come i mýstai di Eleusi, al mistero primordiale del sacer mens femminile e di dan-
zare nelle danze del maiale, pieni di gioia di vivere, gli ordinamenti ciclici del mondo».

La dea con la lingua della fase nera


Negli Inni orfici la dea nera viene descritta come la “notte dalle nere ali”. Secondo Eschilo è
«avvolta in panneggiamenti neri» e ha un viso «fuligginoso»32. I suoi alberi sacri sono il pruno sel-
vatico della magia e della facoltà oracolare, e il pioppo nero. Essa è la dea del sidro di melagrana.
Le mitiche mele, una volta colte, vengono pigiate, “spremute”. Considerato dalla prospettiva
dell’utero, il sangue viene davvero “spremuto fuori”, e inizia la fase nera, sterile, che dura per un
terzo del ciclo.
Le dee nere Kālī, Gorgone, Ecate e Persefone personificano il sanguinamento della mestrua-
zione. La sua fase nera corrisponde alla Moira Atropo, che «non si può né aggirare né evitare»33.
Persefone è la dea delle trasformazioni naturali, a cui non si può sfuggire. Nel matriarcato alta-
mente evoluto, la dea-maiale nera è la più sacra delle dee, perciò nel periodo postmatriarcale è la
più maledetta.
Nel suo aspetto nero ha l’appellativo di “donna feroce” e viene descritta come “irosa e crudele”.
Spunta qui il “crudele cinghiale” di Francesco. Ecate è chiamata anche Agriope, il “volto crudele”34.
Essa però non è cattiva, ma danza orgiasticamente l’ineluttabile morte della luna. Semele ha an-
che il nome di Thyone, la “dea furiosa”35. Nella festa della Lenaia ad Atene, veniva celebrata come
la “donna feroce”. A Creta Artemide era la “donna delle cose feroci”, e compare come cerva con le
corna, accompagnata da sacerdotesse di nove anni. A Eleusi Demetra viene identificata con la
Brimo sotterranea. Il suo nome significa la “forte” o anche la “furia”. Ma nonostante i loro aspetti
cosiddetti crudeli, tutte le dee-cinghiale nere non sono dee dell’uccisione ma dee delle trasforma-
zioni «che non si possono né aggirare né evitare». La lingua rossa, tirata fuori in mezzo ai denti di
cinghiale, è il segno della loro autorità del sangue.
Alla scrofa di diamante indiana e a Kālī corrisponde in Grecia la Gorgone, che in epoche ante-
riori veniva raffigurata in gruppo di tre. Linguisticamente affine a GoRGOne è in sanscrito GARJ,
che significa “gridare” o “minacciare”, in slavo GROJ-A, “minacciare”, e groza, “gridare”. La parola
tedesca GRUNZEN (grugnire) potrebbe far parte di questo contesto. In indogermanico Gorgone è
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“colei che urla terribilmente”36. Questo significato di base fu dimenticato dai Greci, ed è rimasta so-
lo l’idea generale del “terrificante”, con particolare accentuazione allo sguardo selvaggio37. E.
Neumann riduce la dea Gorgone alla «madre terribile»38, oppure la interpreta come «carattere ele-
mentare negativo»39.
Nel corso della patriarcalizzazione le Gorgoni Stino ed Euriale non giocano più alcun ruolo; è
rimasta solo la terza delle Forcidi-Gorgoni, Medusa, chiamata l’”insidiosa”, talvolta anche la “do-
minatrice”. La Gorgone-Medusa era in origine una “bella figlia” di Forcide. Perciò porta il sopran-
nome “porcina”, perché, come Circe e Medea, è una dea-scrofa e sta sotto la protezione di Ecate,
che veniva equiparata alla Diana nera di Efeso40. La Gorgone Medusa è, fino al V e IV secolo
a.C., la dea della lunazione «dalle belle guance»41. Il suo viso è largo e rotondo e sempre sorri-
dente, ed è dipinto metà di bianco e metà di nero, come se nel viso rotondo della dea fossero rap-
presentate la coppa superiore e quella inferiore del cosmo. I suoi capelli sono neri, pettinati a mo’
di rete celeste, i suoi denti di cinghiale e la lingua nella bocca ridente sono evidenti. Le ali che por-
ta attaccate alle spalle e alle scarpe sono dipinte di nero-bianco-rosso, e con le mani e i piedi for-
ma un quadrato, che risale al quadrato dei quattro angoli della terra che si trova spesso nelle ca-
verne e mostra l’autorità di cui questa dea gode nel mondo da oltre 30.000 anni. In epoca ma-
triarcale è una stupenda, autorevole dea-cinghiale del ciclo ternario della mestruazione, e il suo
passo che si muove ”in quadrato” mostra tutta l’estensione, spaziale e temporale, della sua autori-
tà nel mondo.

La dea-cinghiale Gorgone-Medusa,
Siracusa, periodo greco-arcaico. Colori: nero bianco e rosso.

Gorgonia significa “corallo”, e la sua lingua rossa simboleggia il rosso sangue della vita42. Alcuni
miti narrano che le gocce di sangue che colavano a terra dal suo capo reciso si trasformavano in
serpenti velenosi. Atena aveva regalato ad Asclepio due bicchieri col sangue di Medusa, preso
dalla sua parte sinistra. Con esso egli poteva risvegliare i morti, mentre col sangue ricavato dalla
parte destra poteva annientare immediatamente la vita. Il sangue della Gorgone era il farmaco
della vita e della morte. Perciò i sacri riti del sangue costituivano il segreto del culto nei misteri ma-
triarcali. Le sacerdotesse del maiale portavano maschere da Gorgoni, perché custodivano questo
segreto elementare della vita.
Un altro mito racconta che Medusa era una fanciulla talmente bella che Atena impallidiva di in-
vidia e aveva gareggiato con lei per il premio della bellezza. Per punirla della sua bellezza Atena
168
l’aveva trasformata nella «immagine della più orribile bruttezza»43. Atena, la figlia nata dalla testa
di Zeus, la figlia identificata col padre, ha riportato la vittoria sulla dea-maiale matriarcale, a cui nel
corso della patriarcalizzazione vennero abbassati gli angoli della bocca, di modo che il suo bel vi-
so si trasformò in una maschera terrificante.
La decapitazione di Medusa a opera di Perseo viene rappresentata nel tempio di Selinunte ver-
so il 540 a.C. La sua uccisione riflette l’epoca di rivoluzione e di lotta contro gli ordinamenti gine-
cocratici. La figlia-padre Atena appoggia Perseo nel suo piano, perché doveva essere stata
un’esacerbata nemica delle “belle” leggi matriarcali. Un’esacerbata nemica di sua madre?
Atena conduce Perseo a Samo, nella città di Dikterion, in cui si ergevano le statue di tutte e tre
le Gorgoni. Ammonisce Perseo a non guardare Medusa mai direttamente, ma solo nel suo spec-
chio, perché la sua vista diretta lo pietrificherebbe. Così gli regala come “specchio”, uno scudo lu-
centissimo in cui può guardare Medusa pur volgendole le spalle. Con questa astuzia, egli può de-
capitare Medusa con un solo colpo della sua falce, senza mai averla guardata direttamente. Atena
gli deve aver guidato la mano. Altri miti narrano perfino che non Perseo ma Atena stessa uccise la
Gorgone-Medusa e, vincitrice, si attaccò al petto il segno della vittoria che le spettava, il gorgone-
ion (lo scudo con la testa di Medusa), segno della sua forza nella lotta44.

Perseo decapita la dea-cinghiale Gorgone Medusa


Tempio di Selinunte, 540 a.C. circa

Fra l’altro, questo mito offre una risposta meritevole di riflessione alla domanda sul perché del
declino del matriarcato. La figlia-padre stessa dà all’uomo il potere di “decapitare” la dea matriar-
cale e la propria identità femminile. Lei gli guida la mano, agisce attivamente e permette all’uomo,
attraverso lo scudo-specchio, una “pseudo-consapevolezza”, grazie alla quale egli può eliminare il
femminile che è alle sue spalle, senza prenderne coscienza e quindi senza affrontare un confronto
diretto col femminile e con la sua autorità. Incapace di stabilire un rapporto con tutta la potenza
delle donne, l’uomo crede di poter “liquidare” la propria Ombra femminile con l’aiuto della donna
identificata con l’uomo stesso.
Per amore dell’uomo, Atena sacrifica la propria identità femminile e avalla i suoi intenti assassini.
È vero che, secondo il mito, Atena è uscita dalla testa maschile di Zeus: essa è cioè l’immagine

169
di una donna-figlia, che è stata “partorita” dalle idee e dalle immagini maschili. Nondimeno proprio
questa nuova immagine di donna ha creato la donna orientata sul maschile. Man mano che il pre-
dominio di Zeus si sviluppava e si rafforzava, le donne si sono uniformate alle fantasie degli dei-
uomini e hanno interiorizzato i contenuti dell’immagine che Zeus ha della donna. Le donne si sono
identificate con Atena, figlia di Zeus, comportandosi in conformità con l’ideale di donna che ha Zeus.
Nell’animo delle donne questa transizione dall’identificazione matriarcale all’adattamento a idee
e bisogni maschili ha prodotto conseguenze devastanti. La donna ha “decapitato” da sola l’autono-
mia interiore della propria Medusa e la totalità femminile ternaria, separandosi dai campi energeti-
ci matriarcali. È indicibilmente amaro dover riconoscere in questo mito che è stata la mera invidia
della potenza matriarcale della “sorella” a provocare questo capovolgimento dei valori. Nell’anima
delle donne l’Ombra di questa invidia è rimasta operante per secoli, come dimostra il fatto che nel
Medioevo molte denunciarono e mandarono sui roghi altre donne. Con questo comportamento
esse hanno letteralmente guidato il braccio degli uomini-Perseo a massacrare le donne.
Ancora oggi le sorelle di Atena guidano, agli uomini che non diventano coscienti, il braccio con
cui si distrugge la potenza femminile ternaria, senza che l’uomo sia costretto a diventare capace di
confrontarsi “occhi negli occhi” con tutta l’autorità della donna-Gorgone. In questo conflitto fra non-
uomo e donna potente, Atena rende possibile la soluzione più vile e più a buon mercato, l’uccisio-
ne alle spalle. Ancora oggi le figlie-padre incoraggiano i loro uomini a”decapitare” in questa manie-
ra le donne potenti. Questo processo della “decapitazione” storica della donna è documentato dal
mito di Medusa del VI secolo a.C., e dura ancora oggi. La vittoria patriarcale ottenuta tramite le fi-
glie-padre sembra compiuta.
Con lo sviluppo dell’immagine del mondo a tre piani, la dea-maiale nera viene cacciata nell’A-
de. Già resa completamente “senza testa” dalla decapitazione, degenera a dea della morte nel
senso di dea dell’uccisione, e a dea dell’Ade nel senso di “crudele sovrana” dei morti. Ma perfino
in questa totale deformazione, continua ad essere soltanto la moglie del re dell’Ade. Neppure
l’ORCUS della sua autorità di FORCide le appartiene.
La scissione nucleare della dea ternaria, la sproporzionata sublimazione della fase bianca, il
dominio e la violenza esercitati sulla fase rossa e la totale diffamazione e demonizzazione della
fase nera hanno avuto conseguenze devastanti per lo sviluppo della religione. La “decapitazione”
della religione matriarcale ha privato anche l’uomo della testa. Dopo la decapitazione di Medusa,
molte donne vennero concretamente decapitate.
La decapitazione della Gorgone si ritrova nella Chiesa cristiana. A Cunaud, nell’Anjou, Gorgone
diventa GRANDE GOULE (Grande gola) (Maw: semi di papavero ndNico), che ingoia una colonna
intera. Essa viene definita “la divoratrice” e la “pericolosa”. La colonna conficcata nella sua bocca
potrebbe però essere esattamente il contrario, cioè una grandiosa lingua che fuoriesce dalla boc-
ca e giunge fino a terra. Ma per la Chiesa cristiana questa interpretazione non sarebbe opportuna,
perché essa, come Francesco, ha bisogno del cattivo divorante femminile per poter risaltare posi-
tivamente come il buon creativo maschile.
Nel XII secolo nell’Abbazia di Charlieu viene rappresentata su una colonna una radiosa faccia
del sole con gli occhi aperti. Accanto è raffigurata una faccia di luna. Sulla testa si possono vedere
due falci di luna come corna del diavolo, dalla sua bocca esce la lingua, ed i suoi occhi sono tenuti
chiusi dalle due mani. Nella Chiesa il femminile è stato demonizzato e reso inconscio. Coerente-
mente, ad Autun viene affisso, in alto, sotto la volta della chiesa, il diavolo con una lingua gigante-
sca, a guisa di plastica minaccia. Il parallelismo simbolico con le maschere Rangda e la loro
splendida rossa lingua penzolante, è semplicemente sconvolgente. Con una sola differenza: quel-
lo che un tempo era sacro, adesso è il diavolo in persona.
Si stenta a riconoscere ancora l’onnipotente dea-maiale Gorgone Medusa, la dea della lingua
della fase nera. Ma ha ricevuto una risposta la mia domanda, la domanda ridicola e apparente-
mente innocua sul perché sia così sconveniente tirare fuori la lingua, e i bambini si prendano uno
schiaffo quando lo fanno. A me, donna, la risposta fa un dolore terribile, e per trovare conforto a
questo dolore devo volgere lo sguardo a Eleusi.
A Eleusi Persefone è la nera dea-cinghiale, che per un terzo dell’anno si reca nella “coppa infe-
riore” e lì mangia grani di melagrana. Durante l’iniziazione al mistero ternario, ogni mýstes riper-

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corre nel rito la strada di Persefone coprendosi il capo, chiudendo gli occhi e ammutolendo, per-
ché nel paese spirituale delle trasformazioni non ci sono più momenti, né tempo, né parole. Solo
attesa. Al culmine dell’iniziazione vengono mostrate ai mýstai, in silenzio, le tre spighe mietute.
Così accade simbolicamente la rivelazione del sacro, la nascita del sacer mens.
L’ultimo giorno dei Misteri eleusini vengono riempite e collocate due coppe a forma di trottola,
una rivolta a Oriente, l’altra a Occidente45. Queste due coppe risalgono sicuramente
all’antichissima immagine delle due coppe della sfera cosmica. Esse vengono rovesciate, mentre i
mýstai gridano: HYE “fa” piovere”, e KYE “ricevi”. La dinamica ciclica viene rappresentata nel cul-
to, e viene evocata e interiorizzata la speranza della rigenerazione del cosmo attraverso il “piove-
re” e il “ricevere”.
Sul parapetto di una fontana, ad Atene, sono incise queste due parole, ma ad esse è aggiunto
anche un terzo imperativo46, che si dimentica sempre. Esso intende inequivocabilmente la cin-
ghialessa della fiaba del piccolo sarto coraggioso, che con le sue “fauci schiumanti” suscitava tan-
ta paura che finì imprigionata.
Sulla fontana, che conduce all’ORCUS della Gorgone-Medusa, al rosso Elisio di KIRke, al palo
rosso di Inanna a KUIR, al CAER di CERiddwen, al GRAAL di Kundrîe, alla terra dei melograni di
Afrodite, al KER-YS di Dahut, alla CHORa di Era, al calice del saCER mens della dea cinghiale
ternaria, su questa fontana verso l’oceano di sangue sta l’invito: hyperchue!
Spumeggiando trabocca!

NOTE
1. E. Neumann op. cit. pagg. 289 e segg.
2. E.G. Davis op. cit. pag. 162.
3. E. Neumann op. cit. pag. 290.
4. Ibidem, pag. 299.
5. J. Markale op. cit. pagg. 167 e segg.
6. La parola sangue, in tedesco Blut, è etimologicamente affine a fiorire (Blühen) e fiore (Blüte).
(Ndt)
7. Weltgeschichte der Malerei, cit. vol. 2, pag. 79.
8. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, cit. pag. 529.
9. Ibidem, pag. 245.
10. Ibidem, pag. 45.
11. Ibidem.
12. Ibidem, pag. 585.
13. Ibidem, pag. 46.
14. Ibidem, pag. 382.
15. J. Markale op. cit. pag. 212.
16. Ibidem.
17. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, cit. pag. 300.
18. H. Kern op. cit. pag. 114.
19. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, cit. pag. 304.
20. Ibidem, pag. 300.
21. Apocalisse di Giovanni, 22:2.
22. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, cit. pag. 290.
23. J. Markale op. cit. pag. 91.
24. I Libro di Mosè, 3:6.
25. Cantico dei Cantici, 8:1-2.
26. V Libro di Mosè, 8:8.
27. II Libro di Mosè, 28:33.
28. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, cit. pag. 311.
29. II Libro delle Cronache, 3:16; I Libro dei Re, 7:18; Geremia, 52:22.
30. G. Weiler Ich verwerfe im Lande die Kriege, Monaco, 1983, pag. 5.
171
31. Giobbe, 28:12.
32. R. Ranke-Graves Die Weiße Göttin, cit. pag. 484.
33. R. Ranke-Graves Griechische Mythologie, pag. 10.1.
34. Ibidem, pag. 28.4.
35. Ibidem, pag. 27.11.
36. Pauly-Wissowa op. cit. pag. 1632.
37. Ibidem.
38. E. Neumann op. cit. pag. 87.
39. Ibidem, pag. 146.
40. Pauly-Wissowa op. cit. pag. 2770.
41. Ibidem, pag. 1636.
42. Ibidem, pag. 1632.
43. Ibidem, pag. 1636.
44. Ibidem, pag. 1642.
45. C.G. Jung, K. Kerényi op. cit. pag. 213.
46. Ibidem, pagg. 212 e segg.

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IMMAGINI DEL PROFONDO
Collana diretta da Claudio Risé

QUESTA COLLANA
«L'inconscio si esprime per immagini»
usava dire Cari Gustav Jung. Ma a queste immagini,
alle immagini dei miti, delle leggende, dei sogni,
l'uomo ha guardato sempre meno, complice
l'insegnamento scolastico, che ne ha smarrito il valore,
e la stessa psicologia che, a disagio
su questo terreno sottile, preferisce concetti precisi
al fluttuante e ambiguo popolo dei sogni e delle fiabe.
Purtroppo il concetto, è sempre l'impietoso Jung a dirlo,
«non è che una pallida approssimazione, una traduzione
parziale e imprecisa di quell'immagine profonda
che esso, più o meno goffamente, cerca di esprimere».
Smarrendo la pienezza dell'immagine nel vuoto della parola,
l'essere umano ha smarrito anche
(pur frequentando sempre più gli studi degli analisti)
il rapporto con l'inconscio, e ne soffre.
L'interesse, che si manifesta ovunque, per il sacro,
per il simbolo, esprime anche questa sofferenza
e il bisogno di riconciliazione con le visioni
attraverso le quali si è per lunga teoria dei secoli riconosciuta.
Ritrovare dunque queste immagini,
presentarle nella loro forza e vitalità,
collegarle le une alle altre e tutte alla cultura e alla storia
degli esseri umani che le hanno prodotte e rappresentate:
ecco la proposta di questa collana.

Marie Bonaparte Flyda degli abissi


Marie-Louise von Franz Le tracce del futuro
Le fiabe del lieto fine
Tipologia psicologica
L'Eterno Fanciullo
l mondo dei sogni
Passio Perpetuae
L'esperienza del tempo
Aldous Huxley Divorante, irriducibile Perla
James A. Hall Messaggi dalla tenebra
Robert L. Stevenson Teatro della notte
Marion Woodman Puoi volare, farfalla
Lo sposo nascosto
Patricia Monaghan Le donne nei miti e nelle leggende
Sylvia Brinton Perera La Grande Dea
173
Capro espiatorio
Gaston Bachelard Psicanalisi delle acque
Psicanalisi dell'aria
La terra e le forze
La terra e il riposo
Poetica del fuoco
Edward F. Edinger I simboli e gli eroi di Jahweh
Joane Stroud, Gail Thomas L'Intatta
George Sand Il crepuscolo delle fate
B.A. Te Paske Il rito dello stupro
Jacques de la Rocheterie Il corpo nei sogni
La natura nei sogni
Quaderni di Eranos Le stagioni della vita
La Terra Madre e Dea
Il sentimento del colore
Il rito
Il vertice e l'abisso
L'Uomo ricercatore e giocatore
I culti misterici
Paul Gauguin L'isola dell'Anima
Quaderni di Psiche Eros e Amore
L'Io a più dimensioni
Il Doppio
Uwe Steffen Incontro col drago
Giona e la balena
Oscar Wilde Il Pescatore e la sua Anima
Claudio Risé Parsifal
Il maschio selvatico
Diventa te stesso
Henry Miller Dipingere è amare di nuovo
Eugene Monick Phallos
Il maschio ferito
Michel Mirabail Dizionario dell'esoterismo
William Faulkner Calendimaggio
Robert Bly Il piccolo libro dell'Ombra
Peter Schellenbaum Il no in amore
La ferita dei non amati
Tra uomini
La danza dell'amicizia
Alzati dal lettino e cammina
Michel Cazenave,
Roland Auguet Gli imperatori folli
Joseph Campbell Miti per vivere
Le figure del mito
Tra Oriente e Occidente
Franz Carl Endres,
Annemarie Schimmel Dizionario dei numeri
Verena Kast La coppia
Le fiabe di paura
Liti in famiglia
La migliore amica
Erich Neumann La personalità nascente del bambino
Credo Mutwa Indaba figli miei

174
La religione della Terra - a cura di Grazia Marchianò
Cari Gustav Jung Scritti scelti
Werner Weick Dal profondo dell'anima (video)
Clive Hart Immagini di volo
Rudiger Dhalke Mandala
Wolfgang Teichert I giardini dell'anima
Elémire Zolla Incontro con l'androgino
Arnold Bittlinger Padrenostro
Gilbert Durand L'immaginario
Christa Mulack Maria
Ingrid Riedel Forme

Informazioni e cataloghi aggiornati possono essere richiesti all'editore che sarà lieto di spedirli a
chiunque semplicemente invii il proprio nome, cognome, indirizzo a:
red edizioni, via Volta 43, 22100 Como, tel. 031-279146.

Edizioni di red studio redazionale, via Volta 43, 22100 Como, © 1996.
Traduzione di Amelia Muscetta dall'originale tedesco Das Schwarz Mond-Tabu, Kreuz Verlag,
Stoccarda. Dieter Breitsohl Literarische Agentur, Zurigo, © 1988.
Redazione di Sandra Gerosa. Coordinamento di Paolo Giorno.
I edizione: 1996

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