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Antropologia di comunione
L’attualità della Gaudium et Spes
Rubbettino
“Cos’è l'uomo?”
2
Francesco Brancaccio
Antropologia di comunione
L’attualità della Gaudium et Spes
Rubbettino
© 2006 - Rubbettino Editore
88049 Soveria Mannelli - Viale Rosario Rubbettino, 10 - Tel. (0968) 6664201
www.rubbettino.it
“Fedele è Dio,
dal quale siete stati chiamati
alla comunione
del Figlio suo Gesù Cristo,
Signore nostro!”
(1Cor 1,9)
A Maria,
Cettina,
Mons. Costantino,
e a tutto il Movimento Apostolico,
ricordo e annunzio della Verità, via di salvezza e conversione,
sacrificio quotidiano di obbedienza e di amore... carisma di Comunione...
6 Antropologia di comunione
Ringraziamenti
La sua fonte è nel pensiero di Dio, da implorare continuamente perché dia luce alla
mente del discepolo. Ogni pensiero di verità come grazia dello Spirito è concesso al-
l'uomo, quando questi ascolta la Verità e ascoltando prega, pregando medita, medi-
tando si impegna a trasformare il pensiero in vita, in parola, in testimonianza.
Siano rese grazie al Padre, il Principio della Verità, al Figlio, la Verità che è Persona e
si fa Parola detta all'uomo, e allo Spirito Santo, che guida la Chiesa alla Verità tutta
intera. Sia benedetta la Vergine Maria Madre della Redenzione, dal cui unico grembo
nasce il Verbo di Dio Incarnato ed è generata la Chiesa, di Lui corpo e voce.
La vita del pensiero teologico è nella Chiesa. Fuori della comunione ecclesiale, come
una pianta sradicata, il pensiero teologico è privato del sole che è la Fede della Chie-
sa, del buon terreno che è la sua sacra Tradizione, dell'acqua che è la Grazia. Nella
comunione del Corpo che è la Chiesa, ogni pensiero di verità è frutto del dono che si
riceve e a sua volta si fa dono di verità per la vita di tutte le membra.
Dell'unico Corpo che è la Chiesa, mi preme ringraziare S.E. Mons. Antonio Ciliberti,
Arcivescovo Metropolita di Catanzaro-Squillace, per la fiducia e il sostegno accordati-
mi nel mio ministero presbiterale e nel mio servizio teologico. A S.E. Mons. Antonio
Cantisani, Arcivescovo emerito della stessa diocesi, il mio grazie per l'incoraggiamen-
to manifestato verso la mia formazione teologica.
Dall'Ispiratrice del Movimento Apostolico, signora Maria Marino, fin dalla mia pri-
ma giovinezza ho attinto l'annuncio e il ricordo della Verità e della Volontà di Dio
manifestate alla Chiesa. E' grazie a lei, al suo amore per il Cielo tutto e per la Chiesa,
alla sua missione fedele, veritiera e sofferente, che ho potuto accogliere il Vangelo, ri-
nascere alla vita in Cristo, scoprire la mia vocazione sacerdotale.
E profonda riconoscenza esprimo al teologo Mons. Costantino Di Bruno, Assistente
ecclesiastico centrale del Movimento Apostolico, nel quale vedo una santa testimo-
nianza presbiterale e un pensiero totalmente consegnato alla verità di Cristo, una sa-
pienza sempre viva, feconda, attraente, una svettante e fedele elevazione nel Mistero.
A tutti i miei confratelli nel sacerdozio, ai teologi che condividono l'impegno di que-
sta collana "Verbum", al Movimento Apostolico e alla sua Presidente Cettina Marraf-
fa, a quanti compartecipano il servizio ecclesiale della Parola, la mia gratitudine per il
reciproco sostegno nel mirabile cammino di apostolato che percorriamo insieme.
Presentazione
convincere ogni cuore della necessità che lui stesso riprenda il suo posto,
qualora lo avesse abbandonato, nel mistero «reale» della comunione, per
dare efficacia piena al mistero di Dio, di Cristo, dello Spirito Santo, della
stessa Chiesa, di ogni altro suo fratello di fede e di comunione.
A Don Francesco Brancaccio l’augurio che possa ancora e ancora con-
sumare il suo cuore, le sue mani, la sua stessa vista nella contemplazione
del mistero «reale» della comunione. Ne vale proprio la pena.
La comprensione pura, santa di questo mistero dona luce piena alla
Chiesa. La fa essere la lampada accesa posta sul lucerniere per fare luce a
tutti quelli che sono nella casa del mondo.
Oggi in verità questa lampada da molti è stata posta sotto il moggio, a
motivo di quella insipiente e stolta teoria di comunione, che negando ogni
evidenza di verità alla Volontà rivelata di Cristo e di Dio, abolisce ogni
«realtà» per l’affermazione di una semplice e mera spiritualità che lascia
l’uomo immerso nei suoi peccati e nei suoi infiniti errori circa Dio e lo stes-
so uomo.
Alla Vergine Maria, Madre della Redenzione, affido quest’opera di
Don Brancaccio. Sia Ella ad aiutare ogni lettore a custodire intatto il miste-
ro di Cristo Gesù e della Chiesa che è contenuto ed espresso nelle sue pagi-
ne.
Di fronte a tanti elementi di novità rispetto alla situazione degli anni sessanta,
ci si potrebbe chiedere quanto rimane della prospettiva storica adottata dalla
Gaudium et Spes. In realtà, se si va al cuore dei problemi, permane nella sua
incisività ed acquista attualità persino maggiore l’interrogativo di fondo che
allora la Costituzione poneva: i cambiamenti intervenuti nell’età contempora-
nea sono tutti utili al vero bene dell’umanità? (cf GS 6)1.
1 GIOVANNI PAOLO II, Discorso «Gaudium et spes: il suo messaggio ultimo è Cristo stesso,
Redentore dell’uomo», 4, Loreto 8.11.1995, in PONTIFICIO CONSIGLIO PER I LAICI, Gaudium et
Spes: bilancio di un trentennio, «Laici oggi. Rivista», 39, Città del Vaticano 1996, 11.
12 Antropologia di comunione
un Concilio non aveva mai potuto fare «nella bimillenaria storia della Chie-
sa»; aver saputo svolgere questo compito epocale senza «limitarsi a consi-
derazioni storiche e sociologiche», affrontando invece «ampiamente, in ot-
tica teologica, gli interrogativi fondamentali che da sempre assillano il cuo-
re umano: “Che cosa è l’uomo? Quale è il significato del dolore, del male,
della morte, che malgrado ogni progresso continuano a sussistere?” (GS
10,1)»2.
Ecco perché l’impostazione di fondo dell’antropologia della GS è sem-
pre attuale:
Del resto appartiene ormai all’evidenza storica che un frutto del Concilio
sia stato proprio il rinnovamento dell’antropologia teologica. Questo lavoro
intende inserirsi nell’ambiente dell’antropologia teologica postconciliare, nella
consapevolezza che tale qualifica è una certificazione di attualità.
Il compito specifico di questo lavoro è duplice: ad un’impostazione
analitico-fondativa si compenetra una finalità sintetico-innovativa. L’impo-
stazione è analitica, nel senso che la ricerca procede seguendo in modo or-
dinato e positivo il testo della GS per rinvenire in esso i fondamenti della
sua antropologia. In tal modo quest’opera si presenta anche con l’utilità di
un commentario teologicamente orientato. Ma l’intenzione è sintetica per-
ché l’esame sarà condotto facendo emergere, in modo innovativo, una pos-
sibile chiave di lettura unitaria del documento, finora non esplorata, che
sarà proposta come una delle categorie che qualificano l’antropologia con-
ciliare. Questa chiave di lettura è indicata con la formula antropologia di co-
munione.
In altri termini, l’obiettivo di questo contributo teologico consiste nel di-
mostrare che l’antropologia conciliare possiede una sua costitutiva dimensio-
ne comunionale, considerata a partire dal suo fondamento cristologico. Cosa
si intende qui per «dimensione comunionale dell’antropologia»?
Le sistematizzazioni filosofiche dell’antropologia hanno spesso preso
in considerazione la realtà umana della comunione, o quanto meno della
socialità, riconoscendola come dimensione tipica dell’essere dell’uomo.
2 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Discorso «Gaudium et Spes», 3-4, in PONTIFICO CONSIGLIO
PER I LAICI, Gaudium et Spes, 11.
3 GIOVANNI PAOLO II, Discorso «Gaudium et Spes», 5, in PONTIFICO CONSIGLIO PER I
LAICI, Gaudium et Spes, 12.
Introduzione 13
Mt Vangelo di Matteo
MThZ Münchener theologische Zeitschrift, München
n./nn. numero/i
NA CONCILIUM OECUMENICUM VATICANUM II, Declaratio de Ecclesiae
habitudine ad religiones non christianas Nostra Aetate, 28 ottobre
1965: AAS 58 (1966) 740-744
NdT Nota del Traduttore
NRTh Nouvelle Revue Théologique, Leuven/Louvain
OiC One in Christ, London
orig. originale
p./pp. pagina/e
par. paragrafo/i
PG Patrologia. Series Graeca, ed. J.P. Migne, Paris 1857-1866
PL Patrologia. Series Latina, ed. J.P. Migne, Paris 1844-1855
PT GIOVANNI XXIII, Lettera enciclica Pacem in terris, 11 aprile 1963:
AAS 55 (1963) 257-304
Qo Qoelet
Qschr Quartalschrift, Milwaukee - Wis
RCI Rivista del Clero Italiano, Roma
RdT Rassegna di Teologia, Roma
Rm Lettera ai Romani
RThom Revue Thomiste, Bruges
Sal Salmi
Sal. Salesianum, Torino
Salm. Salmaticensis, Salamanca
Sap Sapienza
SapDom Sapienza, Roma
SC CONCILIUM OECUMENICUM VATICANUM II, Constitutio de sacra
Liturgia Sacrosantum Concilium, 4 dicembre 1963: AAS 56 (1964)
97-134
ScC La Scuola Cattolica, Milano
ScEs Science et Esprit, Bruges
SCh Sources Chrétiennes, Paris 1941ss.
Sir Siracide
SM(I) Sacramentum Mundi, ed. K. Rahner, I-VIII, Brescia 1974-77
ss. seguenti
Studium Studium, Madrid
T.III CONCILIUM OECUMENICUM VATICANUM II, Schema de Ecclesia in
mundo huius temporis, 3 luglio 1964: AS III/V, 116-142; 147-200
T.IV CONCILIUM OECUMENICUM VATICANUM II, Schema constitutionis
pastoralis de Ecclesia in mundo huius temporis, 28 maggio 1965: AS
IV/I, 435-516
T.V CONCILIUM OECUMENICUM VATICANUM II, Schema constitutionis
pastoralis de Ecclesia in mundo huius temporis. Textus recognitus,
13 novembre 1965: AS IV/VI, 421-559
18 Antropologia di comunione
1 Pur sintetizzando le fasi salienti dell’iter del documento, non è questo il luogo per ri-
percorrerlo dettagliatamente, visto che, a tal fine, le pubblicazioni curate da alcuni degli
stessi protagonisti delle diverse fasi della stesura sono già abbastanza conosciute ed esau-
rienti. Basta ricordare qui i lavori di H. DE RIEDMATTEN, «Storia della costituzione pastora-
le», in E. GIAMMANCHERI, ed., La Chiesa nel mondo contemporaneo. Commento alla Costitu-
zione pastorale «Gaudium et spes», Brescia 1966, 19-59; M.G. MC GRATH, «Note storiche
sulla Costituzione», in G. BARAÚNA, ed., La Chiesa nel mondo di oggi. Studi e commenti in-
torno alla Costituzione pastorale «Gaudium et spes», Firenze 1966, 141-156; P. DELHAYE,
«Histoire des textes de la Constitution Pastorale», in Y.M.-J. CONGAR, M. PEUCHMAURD,
ed., L’Église dans le monde de ce temps. Constitution pastorale «Gaudium et Spes», I, Unam
Sanctam, 65a, Paris 1967, 213-277; R. TUCCI, «Introduzione storico-dottrinale alla Costitu-
zione pastorale “Gaudium et Spes”», in S. QUADRI, ed., La Chiesa nel mondo contempora-
neo. Costituzione pastorale del Concilio Vaticano II, Torino 1967, 17-134; C. MOELLER, L’éla-
boration du schéma XIII. L’Eglise dans le monde de ce temps, Paris 1968. Di recente, un po-
deroso lavoro di G. Turbanti ha sostanzialmente completato il paziente lavoro di ricostru-
zione storica e di catalogazione dei relativi documenti (G. TURBANTI, Un concilio per il mon-
do moderno. La redazione della costituzione pastorale «Gaudium et spes» del Vaticano II, Te-
sti e ricerche di scienze religiose - Nuova serie, 24, Bologna 2000).
20 Antropologia di comunione
2 Cf.AS I/IV, 223-224; cfr. anche DE RIEDMATTEN, «Storia della costituzione pastora-
le», 21.
Il fondamento cristologico della solidarietà umana e della comunione… 21
optò per uno sviluppo maggiore della parte dottrinale del documento, a
cui aggiungere un’indicazione circa le problematiche attuali affrontate e
inserite ancora come allegati.
Perché la scelta degli allegati? I commentatori vi scorgono la preoccu-
pazione dei Padri di dilungarsi in un documento conciliare su questioni ri-
tenute troppo contingenti alla situazione storica del momento. In ogni ca-
so, ne derivò il primo testo (noto come «Testo di Zurigo») che la Commis-
sione di coordinamento accolse come base per la discussione in aula du-
rante la terza sessione conciliare.
8 È da notare tuttavia che tali indicazioni (cfr. AS III/V, 145), sebbene accom-
pagnassero il testo consegnato ai Padri per la discussione, erano state composte probabil-
mente dopo il testo stesso, nei confronti del quale godevano così di un miglior grado di ma-
turazione dei contenuti e del metodo.
9 «Il Sacro Sinodo parli ai figli della Chiesa, affinché congiungendo le loro forze pren-
dano la loro parte nel mondo da edificare secondo lo spirito di Cristo. Ma desideriamo viva-
mente, affinché si realizzi un unico impegno insieme a noi, di essere ascoltati anche dai di-
letti fratelli delle comunità delle Chiese da noi separate, che credono nello stesso Signore e
Salvatore del mondo, e che con pari sollecitudine hanno dato non poche testimonianze. Ri-
volgiamoci inoltre a coloro che, pur non conoscendo ancora Cristo, insieme a noi rendono
grazie al Dio vivo e santo, la cui gloria invisibile è resa manifesta nello splendore della crea-
zione (cfr. Rom. 1,20). Infine invitiamo tutti gli uomini che ci domandano ragione della spe-
ranza che è in noi a riflettere con noi su chi sia l’uomo e quali siano la sua vocazione e il suo
Il fondamento cristologico della solidarietà umana e della comunione… 25
Tutte le cose create chiamano l’uomo a Dio (cfr. Gv 1,3; Col 1,17). In Cristo
Gesù, d’altra parte, l’uomo può udire e comprendere, secondo verità, la voce
delle cose; tutte le cose, infatti, sono state create per Lui ed in Lui, che è il Ver-
compito in questo mondo» (T.III, 3: AS III/V, 117-118 [TdA]). Si ricorda anche la simile,
ma più sintetica, dichiarazione di E. Guano: «Il Concilio si rivolga ai cattolici; in modo tale,
tuttavia, che per mezzo di essi si possano raggiungere anche i non cattolici e perfino i non
cristiani» («Relatio», AS III/V, 146 [TdA]).
10 E. GUANO, «Relatio»: AS III/V, 143-144 (TdA).
11 Per questo motivo il titolo del capitolo preferisce definire la vocazione dell’uomo in-
tegrale («integra») e non semplicemente mirabile («admirabilis»), come avveniva nel prece-
dente «Testo di Malines».
26 Antropologia di comunione
bo del Padre (cfr. Col 1,16). Egli, venendo nel mondo, rivelò con parole uma-
ne l’alto senso delle cose create. Il Verbo del Padre, assumendo nella sua in-
carnazione la natura umana, elevò a superiore dignità tutto l’uomo, corpo ed
anima, e tutta l’opera della creazione, anche la stessa materia, e inserì tutte le
cose, anche i doveri terreni, in una più alta disposizione verso Dio che trascen-
de la natura dell’uomo12.
ducono alla categoria centrale che lo schema impiega per parlare dell’uo-
mo: la «persona». Dal punto di vista ontologico, la socialità appare nella
struttura del testo in funzione dell’essere personale dell’uomo14; tuttavia
dal punto di vista logico l’annesso I si esprime nei confronti della «perso-
na» in se stessa al fine di delucidarne la dimensione sociale. Occorre chie-
dersi: la socialità dell’uomo rientra nella costituzione ontologica della per-
sona o è semplicemente una sua connotazione estrinseca?
In ogni creatura umana – afferma il testo –, per quanto abietta sia o per quanto
gloriosa appaia ai suoi occhi, Dio riconosce la sua «immagine e somiglianza»
(Gn 1,26). Dio ha amato l’uomo e lo amerà sempre. Per restituirgli lo splendo-
re originale e la vera dignità, Dio mandò nel mondo il suo Figlio, «nato da don-
na» (Gal 4,4). Nella sua stessa persona, l’uomo Cristo Gesù è costituito in rela-
zione personale al Padre. In Lui, Dio rivela al mondo perfettamente cosa sia
l’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio. Difatti, «l’umana natura, nel-
l’incarnazione stessa, è condotta alla somma perfezione» (S.Th. III,1,6). Assu-
mendo la nostra umanità, Gesù Cristo è stato costituito primogenito di figli di
Dio, reso partecipe dell’immensa comunità degli uomini, suoi fratelli.
Per questo solo Cristo conosce l’uomo, egli sa cosa ci sia nell’uomo15.
In verità, Cristo Gesù, unico Figlio di Dio, ci ha resi partecipi di una vocazio-
ne superiore (cfr. Eb 13,14): affinché credendo in Lui e nel Padre che lo ha
mandato, abbiamo la vita eterna, siamo chiamati e siamo realmente figli di Dio
(cfr. Gv 3,16), uniti con Lui nell’amore divino formiamo l’unica famiglia di
Dio (cfr. 1Gv 3,1), riconosciamo Dio Padre con animo di figli, ora per fede,
ma un giorno faccia a faccia (cfr. 1Cor 13,12)17.
Cos’è l’uomo considerato alla luce di Cristo? Posti corporalmente nel mondo,
i singoli uomini sono persone, dotate d’intelletto, coscienza e libertà. Poiché,
in realtà, tutti sono al tempo stesso persone, per questo costituiscono la comu-
nità umana, che deve essere trasformata nella comunità dei figli di Dio, con-
gregati in Gesù Cristo18.
Davanti a Dio, i singoli uomini sono chiamati a riprodurre l’immagine del Fi-
glio. Tutti sono chiamati insieme a costituire un unico corpo, il Corpo di Cri-
sto nel Regno. È nostro compito far sì che la comunità terrena concordi ogni
giorno di più con la dignità dell’uomo e la volontà di Dio19.
la persona si realizza nella relazione con gli altri, per la quale concorre a co-
stituire la comunità dei figli di Dio direttamente voluta dal piano eterno di
Dio. La persona è presupposto ontologico della comunità; la relazione co-
munitaria non costituisce, ma realizza ed esprime la persona.
decisiva delle tre, il nuovo schema sarebbe stato conosciuto anche come
«Testo di Ariccia». Al termine, la Commissione di coordinamento (maggio
1965), esprimendo soddisfazione per il lavoro svolto, raccomandò il nuovo
testo al Papa Paolo VI, che decise di trasmetterlo all’esame dei Padri du-
rante l’ultima sessione conciliare.
21 «Relatio generalis», I,2: AS IV/I, 521 (TdA); si noti che questa indicazione sostan-
zialmente riprende e sintetizza le linee programmatiche già tracciate da E. Guano nella ter-
za sessione: cfr. AS III/V, 146.
22 «Relatio generalis», I,2: AS IV/I, 521 (TdA). La tendenza che andava emergendo circa
la soluzione del dibattito è ben sintetizzata dall’intervento di un Padre: «Come abbiamo già
ascoltato in quest’aula, non può bastare che la Chiesa rifletta su problemi di questo mondo; al-
lo stesso modo essa stessa deve anche intessere un dialogo col mondo attuale, in un linguaggio
che a questo mondo risulti comprensibile» (I. Schoiswohl: AS III/V, 416 [TdA]).
32 Antropologia di comunione
sì si esprime: «[Il Concilio Vaticano II] senza esitazione rivolge ora la paro-
la non soltanto ai figli della Chiesa e a tutti coloro che invocano il nome di
Cristo, ma anche a tutti quanti gli uomini»23.
La scelta di parlare a tutti gli uomini indistintamente, come già in pre-
cedenza accennato, ha importantissime conseguenze sullo stile, ma soprat-
tutto sulla metodologia e sulla stessa scelta dei contenuti da approfondire o
restringere.
Lo stile viene perciò perfezionato per renderlo il più possibile «“diret-
to”, “semplice”, non troppo ecclesiastico o esortativo, “pastorale”, “euri-
stico” e, per quanto è possibile, adatto a tutti»24.
Il metodo e la disposizione della materia vengono invece adattati allo
scopo di «riflettere la speranza e l’ansietà dell’uomo di oggi e presentare la
Chiesa come trascendente e rivolta al servizio degli uomini», tenendo pre-
sente, tuttavia, che questo orientamento di fondo «in nessun modo con-
traddice l’altra asserzione di molti Padri, neanche di quegli stessi Padri se-
condo cui lo schema deve poggiare su fondamenti teologici chiari, fermi,
“cristologici”»25.
In tal senso, l’originale scelta di progredire nell’esposizione dei conte-
nuti in modo induttivo, scelta che nel documento precedente si era mo-
strata più nelle intenzioni che nel testo in sé, viene precisata meglio e adat-
tata alle differenti parti dello schema: di conseguenza si decide che nel
proemio si espongano con metodo più marcatamente induttivo i fatti e le
verità che contraddistinguono la condizione degli uomini di questo tempo
e che in seguito – pur rispettando il principio metodologico tale che «dalle
realtà maggiormente conosciute si progredisce fino alla manifestazione
delle altissime verità della fede cristiana, che certamente si riassumono nel-
la persona del Verbo Incarnato»26 – si pervenga chiaramente alla presenta-
zione della verità rivelata spiegando il pensiero della Chiesa sull’uomo e il
mondo contemporaneo.
In questo schema, che culmina nel riferimento fondamentale al Verbo
incarnato, «in realtà l’uomo stesso, sia considerato come persona indivi-
duale sia come membro della società, occupa il centro di tutta la materia
trattata»27.
La conseguente struttura del testo comprende, dopo un breve proe-
mio, due parti fondamentali, che espongono entrambe – la prima in modo
più generale, la seconda entrando più direttamente nella problematiche
stituzione pastorale e l’uomo diventa il centro focale del contenuto del do-
cumento31.
Un’antropologia cristiana elaborata, in vista del dialogo col mondo
contemporaneo, a partire dall’esame induttivo della situazione contempo-
ranea per culminare con l’originario riferimento a Cristo e alla Rivelazione:
è questo dunque il contesto globale in cui il documento deve riflettere sulla
persona e la sua dimensione comunitaria, nel proprio costitutivo riferi-
mento a Cristo32.
I contenuti che riguardano più direttamente il presente lavoro, dispersi
nel testo precedente tra il primo capitolo e gli allegati, sono raggruppati, in
questo contesto, nei capitoli I e II della prima parte, «La Chiesa e la situa-
zione dell’uomo», che la «Relatio generalis» indica come «I principi». I
principi, i fondamenti dell’antropologia cristiana sono comunque elaborati
solo dopo l’«Esposizione introduttiva», più estesa che nel «Textus prior» e
dedicata, tra l’altro, a una «nuova descrizione del cambiamento psicologi-
co, morale, religioso, ecc.»33.
Qual è dunque il fondamento di ciò che non è più una serie di afferma-
zioni antropologiche, ma una vera antropologia?
femmina li creò» (Gn 1, 27). Questa unione dell’uomo e della donna, istituita
per la perpetuazione della stirpe umana, costituisce anche la prima forma di
comunione delle persone34.
L’uomo, mentre si eleva sulla realtà materiale, è simile a ogni uomo, e senza re-
lazioni con gli altri non può né vivere né impiegare le sue doti; cosicché la vita
sociale non è un peso a lui sovraggiunto accidentalmente, ma è necessaria con-
seguenza della sua natura più profonda: la relazione con i compiti reciproci
degli altri, il colloquio con i fratelli eleva l’uomo, in quanto può corrispondere
a tutte le sue capacità e alla sua vocazione38.
[La fede cristiana] ci insegna che Dio, pur essendo Uno, sussiste in tre Persone,
ognuna delle quali vive così rapportata alle altre che da questa stessa relazione è
costituita. Allora la persona umana, essendo creata ad immagine di Dio uno e tri-
no, come può non avere in sé un’impronta di Lui? E infatti, se l’uomo è in terra la
sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa, egli pure da se stesso si rapporta
agli altri, cosicché è solo donandosi che può trovare se stesso40.
In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero
dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era «forma di quello futuro» (Rm
5,14), e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando
il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e
gli fa nota la sua altissima vocazione. Nessuna meraviglia, quindi, che tutte le
verità su esposte trovino in lui la loro sorgente e tocchino il loro vertice41.
si dice più «La vocazione della persona umana», ma «La dignità della per-
sona umana»46. Non scompare tuttavia il termine «vocazione», trasferito
ora nel titolo generale della prima parte del documento, titolo che suggeri-
sce il riferimento ecclesiale all’essere dell’uomo: «La Chiesa e la vocazione
dell’uomo»47.
La nuova titolazione specifica così la vocazione dell’uomo come og-
getto dell’intera prima parte48. Il termine «vocazione» quindi non riguarda
solo la dimensione personale dell’uomo (come lasciava intuire il titolo del
cap. I nel «Testo di Ariccia»), ma abbraccia tutti gli aspetti della realtà
umana affrontati nei diversi capitoli, ivi compresa la dimensione comunio-
nale (cap. II).
Per quanto concerne il culmine cristologico della riflessione sulla per-
sona umana, esso è esposto nel n. 22, le cui novità rilevanti riguardano il ti-
tolo («Cristo, l’Uomo nuovo» viene preferito a «Cristo, l’Uomo perfetto»)
e l’approfondimento dell’opera salvifica dello Spirito Santo e della passio-
ne di Cristo.
Per quanto riguarda invece il capitolo sulla comunità degli uomini, la
sua conclusione cristologica (n. 32) sintetizza i precedenti numeri 35 e 36,
raccolti soprattutto per brevità.
Dell’apporto dottrinale di queste novità alla teologia del documento ci
si occuperà direttamente nei prossimi capitoli, quando saranno commenta-
ti i nn. 22 e 32 della GS.
1 Comincia qui il commento ai testi della GS. Per un’analisi completa dei suoi contenuti,
sono numerosi i commentari pubblicati nell’immediato post-Concilio, diversi dei quali curati
da esperti che hanno contribuito alla stesura del documento stesso. Cfr. in particolare: V. BA-
CHELET, A. FERRARI TONIOLO, ed., La Chiesa e il mondo contemporaneo. Costituzione pastorale
Gaudium et spes. Introduzione, testo, note, indice analitico, Roma 1966; G. BARAÚNA, ed., La
Chiesa nel mondo di oggi. Studi e commenti intorno alla Costituzione pastorale «Gaudium et
spes», Firenze 1966; E. GIAMMANCHERI, ed., La Chiesa nel mondo contemporaneo. Commento
alla Costituzione pastorale «Gaudium et spes», Brescia 1966; AA.VV., Estudios sobre la constitu-
ción Gaudium et Spes, Bilbao 1967; E. CHIAVACCI, La Costituzione pastorale sulla Chiesa nel
mondo contemporaneo Gaudium et Spes. Testo latino e italiano con commento e note, Roma
1967; Y.M.-J. CONGAR, M. PEUCHMAURD, ed., L’Eglise dans le monde de ce temps. Constitution
pastorale «Gaudium et spes», I-II-III, Unam Sanctam, 65a, 65b, 65c, Paris 1967, 1968, 1969; H.
CROUZEL, ed., L’Église dans le monde de ce temps. Études et commentaires autour de la constitu-
tion pastorale Gaudium et spes de Vatican II, avec une étude sur l’encyclique Populorum progres-
sio, Bruges 1967; AA.VV., Esquema XIII, Madrid 1967; S. QUADRI, ed., La Chiesa nel mondo
contemporaneo. Costituzione pastorale del Concilio Vaticano II, Torino 1967; AA.VV., L’Église
dans le monde de ce temps. Constitution Pastorale “Gaudium et Spes”. Texte conciliaire. Introduc-
tion. Commentaires, Paris 1968; A. HERRERA ORIA, ed., Comentarios a la Constitución Gaudium
et spes sobre la Iglesia en el mundo actual, BAC, 276, Madrid 1968.; H.S. BRECHTER, ed.,
Lexikon für Theologie und Kirche. Das Zweite Vatikanische Konzil. Dokumente und Kommenta-
re, III, Freiburg 1968, 241-592; AA.VV., La Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo con-
42 Antropologia di comunione
2 «Quell’“immagine di Dio” che è l’uomo, viene tratteggiata più nitidamente in una tri-
plice prospettiva: 1. l’uomo è un essere capace di conoscere e amare Dio; 2. al tempo stesso,
l’uomo è il rappresentante di Dio sulla terra, di fronte al mondo non-umano, che egli ha il
compito di umanizzare dominando la natura: tale compito è una glorificazione del nome di
Dio; 3. anche l’interdipendenza delle persone fa parte della struttura creativa fondamenta-
le: per la sua stessa essenza, l’uomo è co-creaturale, vivente nella comunità umana; la dupli-
ce realizzazione della condizione umana – uomo e donna – ne è quasi il prototipo» (E.
SCHILLEBEECKX, «Fede cristiana e aspettative terrene», in GIAMMANCHERI, La Chiesa, 107).
La dignità della persona umana 45
le dell’Associazione Teologica Italiana), Milano 1971, 619-629; A. ERHUEH, Vatican II: image of
God in man. An inquiry into the theological foundations and significance of humane dignity in
the pastoral constitution on the Church in the modern world, Gaudium et spes, Roma 1987. Per
uno studio più esteso del tema antropologico dell’immagine di Dio, cfr. anche B. SCHREIBER,
«L’uomo immagine di Dio. Visione d’insieme», in E. ANCILLI, ed., Temi di antropologia teolo-
gica, Studia theologica – Teresianum, 1, Roma 1981, 499-548; M. AGUILAR SCHREIBER, L’uomo
immagine di Dio. Principi ed elementi di sintesi teologica, Studia theologica – Teresianum, 6,
Roma 1987; El hombre, imagen de Dios, Semanas de estudios triniatrios, 23, Salamanca 1989; I.
SANNA, Immagine di Dio e libertà umana per un’antropologia a misura d’uomo, Roma 1990; J. L.
RUIZ DE LA PEÑA, Imagen de Dios. Antropología teológica fundamental, Santander 1988; trad.
italiana, Immagine di Dio: antropologia teologica fondamentale, Roma 1992.
La dignità della persona umana 47
5 «Chiamando l’uomo “immagine di Dio” si evita anche il malinteso, per cui la relazio-
ne dell’uomo a Dio viene ridotta ad una dipendenza solamente di origine, qual è quella che
ha l’opera dall’artefice: l’immagine infatti dipende da colui, di cui essa è immagine, in modo
permanente, e la sua dipendenza non è aggiunta al suo essere, ma ne costituisce la realtà, il
senso, la perfezione propria [...].
48 Antropologia di comunione
«In che cosa consiste la somiglianza speciale, per cui l’uomo (e solo l’uomo) è immagi-
ne di Dio nell’universo? Dal contesto del testo genesiaco sembra che l’autore sacro non al-
luda direttamente a qualche dono della natura o della grazia, posseduto dall’uomo, ma a
quel rapporto dialogico che solo l’uomo, padrone della sua esistenza, può stabilire verso altre
persone e valori. Questo “dialogo” ha luogo, anzitutto, tra Dio e l’uomo» (ALSZEGHY, «La
dignità della persona umana», 427-428).
6 Nella teologia contemporanea, è soprattutto H.U. von Balthasar che propone la fe-
condità umana come immagine della comunione intratrinitaria. Prima di citare le sue affer-
mazioni, comunque, è possibile individuare già nella tradizione patristica uno sviluppo del-
la teologia dell’immagine di Dio nella creazione, che può costituire l’antefatto della posizio-
ne di von Balthasar. In particolare si può risalire a Riccardo di San Vittore, il quale, a sua
volta, sviluppa delle permesse poste da S. Agostino.
La dignità della persona umana 49
nesi rimandano, pur restando sempre nella più estrema analogia, al loro ri-
ferimento alle relazioni trinitarie: dall’essere di Adamo, ingenerato per rap-
porto all’umanità, proviene l’essere della donna; dalla loro relazione reci-
proca di amore «procede» la persona del figlio.
Se la natura di Dio implica questa unità fatta di «dualità» e di amore
che è egli stesso persona, allora ogni cosa che l’uomo fa, in quanto ad im-
magine di Dio, deve riprodurre questa natura. Ma l’uomo può riprodurre
questa natura quando rimane legato all’immagine. C’è un legame con Dio
che è dall’esterno, per creazione: Dio mette qualcosa di sé nell’uomo (im-
magine). Questo qualcosa di Dio vive nell’uomo nel suo volere ritornare in
Dio: si delinea così la necessità ontologica per l’uomo dell’obbedienza a
Dio. L’ascolto e l’obbedienza al Creatore consentono all’uomo di realizzare
l’immagine divina8 che porta in sé e quindi di realizzare la propria natura.
La volontà di obbedienza è volontà di essere in Dio per ricostruirsi nel pro-
prio essere.
Questo passaggio consente di comprendere, inoltre, la dimensione più
direttamente personale, e non solo comunitaria, dell’immagine di Dio nel-
l’uomo. Poiché è realizzata nell’obbedienza, l’immagine di Dio deve essere
trovata nell’essere personale dell’uomo.
Riferito all’essere personale dell’uomo, il concetto di «immagine» ha
una duplice dimensione. Da una parte, in quanto categoria che connota la
relazione tra creatura e Creatore, l’immagine di Dio nell’uomo deve essere
sempre interpretata salvaguardando e spiegando la dipendenza creaturale
dell’uomo rispetto al Signore. La necessità ontologica dell’obbedienza a
Dio, a cui prima si faceva riferimento, appartiene a questa dimensione del
concetto di «immagine».
Dall’altra parte, l’immagine di Dio eleva l’essere dell’uomo al di sopra
delle altre creature e, già per creazione, lo colloca, sotto un certo aspetto,
nella sfera del divino: nell’uomo sono state poste per immagine delle per-
fezioni che sono proprie di Dio, che, mentre contraddistinguono l’uomo
nella sua essenza, rimandano direttamente l’essere creato alla sua sorgente
divina. GS 12 riconosce come perfezioni divine nell’uomo le capacità di
amare e di conoscere e la «signoria». Tuttavia, seguendo il principio sopra
espresso, secondo cui l’essere di Dio rivelato rivela anche l’essere dell’uo-
8 Se l’immagine di Dio nell’uomo dipende da Dio quanto alla sua esistenza e alla sua
sussistenza, ciò non toglie, ovviamente, che all’uomo è affidata la responsabilità di realizzar-
la, di farla «vivere» e «crescere»: «L’immagine creata di Dio non è immutabile, ma ha una
storia. Essa dovrebbe svilupparsi progressivamente, non solo in senso estensivo (per la mol-
tiplicazione dell’umanità) ma anche in senso intensivo (in quanto i singoli e la società uma-
na dovrebbero sempre meglio accogliere la partecipazione della perfezione divina)» (Z. AL-
SZEGHY, «La dignità della persona umana», 431).
La dignità della persona umana 51
mo quale sua immagine, bisogna riconoscere che anche altre facoltà del-
l’uomo sono partecipazione delle perfezioni divine. Dall’intera Scrittura
sappiamo di Dio che Egli è Creatore, Carità, Sapienza, Provvidenza, Eter-
nità, Volontà, Grazia, Dono, Purissimo Spirito, Comunione, Coscienza, Li-
bertà. Ognuna di queste perfezioni, ritrovandosi nell’uomo entro i limiti
della natura creata, costituisce ciò che viene definito «immagine di Dio»
nell’uomo.
L’attributo di «Signore» proprio di Dio può servire a catalizzare il
significato personale dell’immagine di Dio nell’uomo, racchiudendo in sé
tutte le perfezioni divine nell’uomo e mostrando il dono divino per cui la
creatura umana trascende i limiti della sua creaturalità.
19 A questo scopo, il testo conciliare cita direttamente Sal 8,5-7 e in nota Gn 1,26; Sap
2,23; Sir 17,3-10.
10 Cfr. É. HAMEL, «Fondamenti biblico-teologici dei diritti umani nella “Gaudium et
Spes”», in R. LATOURELLE, ed., Vaticano II. Bilancio e prospettive, Assisi 19882, 1001-1016.
52 Antropologia di comunione
Ma Dio non creò l’uomo lasciandolo solo: fin da principio «uomo e donna li
creò» (Gn 1,27) e la loro unione costituisce la prima forma di comunione di
persone (GS 12,4).
11 «Il Concilio, dopo aver messo in rilievo che essere immagine di Dio implica la capa-
cità di conoscerlo e amarlo, prosegue nella stessa frase: “l’uomo da Dio fu costituito sopra
tutte le creature terrene, quale signore di esse, per governarle e servirsene a gloria di Dio”.
Infatti, la possibilità di entrare in una relazione dialogica con Dio, determina la posizione
dell’uomo verso tutto l’universo materiale. Perciò la narrazione della creazione congiunge
la supremazia dell’uomo su tutti i viventi, con la dignità dell’immagine di Dio (Gen. 1, 26;
Eccli. 17, 4)» (ALSZEGHY, «La dignità della persona umana», 429).
12 «La condizione di immagine di Dio equivale [...] alla chiamata all’esistenza nella co-
munione con Dio. A partire da questa affermazione centrale occorre intendere le altre che
completano la descrizione dell’essere dell’uomo [...]. Inoltre questo carattere di immagine
di Dio è il principio che regola le relazioni tra gli uomini (cfr. Gn 9, 3)» (L. LADARIA, Antro-
pologia teologica, Casale Monferrato - Roma 1995, 94).
54 Antropologia di comunione
13 W. Kasper sintetizza il tutto argomentando che nella Trinità «le persone coincidono
con le relazioni» (W. KASPER, Il Dio di Gesù Cristo, BTCon, 45, Brescia 19894, 375; cfr. an-
che pp. 372-379).
L’Autore si fonda su un proficuo riferimento alla tradizione e al magistero, che qui è
utile ripercorrere: cfr. ATANASIO, Epistola de synodis, 16: PG 26,707-712; GREGORIO NA-
ZIANZENO, Oratio 29,16: SCh 250,210-213 («Padre non è il nome dell’essenza,... né dell’agi-
re; ma indica quella relazione che il Padre ha con il Figlio e il Figlio con il Padre» [TdA]);
AGOSTINO, De Trinitate V,5: CChr.SL 50,210-211 («Per quanto diverso sia l’essere del pa-
dre e l’essere del figlio, non è tuttavia diversa la sostanza, poiché non diciamo questo dal
punto di vista della sostanza, ma della relazione; poiché infatti il relativo non è un accidente,
in quanto non è mutabile» [TdA]); CONCILIO DI TOLEDO XI, Simbolo, 14-35: DS 528-532;
TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q.29 a.4 («Dunque persona divina significa re-
lazione in quanto sussistente» [TdA]); CONCILIO DI FIRENZE, Bolla Cantate Domino («De-
cretum pro Iacobitis»), 703-704: DS 1330-1331.
La dignità della persona umana 55
14 «Dio infatti non ha voluto creare uomini isolati, ma una comunità, cioè una pluralità
strutturata. L’esistenza di una comunità, in cui l’uomo è immerso, corrisponde ad un’esigen-
za della natura, ma la comunità tende a diventare comunione, in quanto la perfezione dell’e-
sistenza comunitaria implica l’accettazione personale per cui i singoli, aprendosi agli altri, si
completano a vicenda, e concorrono così a realizzare un’imitazione analogica della vita inti-
ma delle tre divine persone» (ALSZEGHY, «La dignità della persona umana», 430).
15 Ci si può confrontare a questo punto con la posizione di J. Zizioulas, il quale, muo-
vendo dal commento al Contra Arianos di Atanasio e trovando così fondamento in un con-
testo di teologia trinitaria, perviene alla comprensione dell’essere come comunione: «“Dio è
mai esistito senza il suo Figlio?”. Questa domanda ha un’estrema rilevanza ontologica. Nel-
la frase la parola “mai” è usata ovviamente non in senso cronologico ma logico, o piuttosto
ontologico. Non si riferisce ad un tempo in Dio, ma alla natura del Suo essere, al Suo essere
in quanto essere. Se l’essere di Dio è per natura relazionale e se ciò non può essere espresso
dal termine “sostanza”, non possiamo concludere quasi inevitabilmente che, posto il carat-
tere ultimativo dell’essere di Dio per l’ontologia, la “sostanza”, in tutto ciò che essa significa
circa la dimensione ultima delle cose, può essere concepita solo come comunione?» (J. ZI-
ZIOULAS, Being as Communion. Studies in Personhood and the Church, London 1985, Cre-
stwood 19972, 84 [TdA]).
56 Antropologia di comunione
Costituito da Dio in uno stato di giustizia, l’uomo però, tentato dal maligno,
fin dagli inizi della storia abusò della sua libertà, erigendosi contro Dio e bra-
mando di conseguire il suo fine al di fuori di Dio. Pur avendo conosciuto Dio,
gli uomini non gli hanno reso l’onore dovuto a Dio, ma si è ottenebrato il loro
pazzo cuore, e preferirono servire la creatura piuttosto che il Creatore. Quel
che ci viene manifestato dalla rivelazione divina concorda con la stessa espe-
rienza. Infatti l’uomo, se guarda dentro al suo cuore, si scopre anche inclinato
al male e immerso in tante miserie, che non possono certo derivare dal Creato-
re che è buono. Spesso, rifiutando di riconoscere Dio quale suo principio,
l’uomo ha infranto il debito ordine in rapporto al suo ultimo fine, e al tempo
stesso tutto il suo orientamento sia verso se stesso, sia verso gli altri uomini e
verso tutte le cose create (GS 13,1).
Non appena la dignità della persona umana, oggetto del cap. I di GS, è
individuata nell’essere ad immagine di Dio, il testo conciliare introduce
nella sua esposizione il tema del peccato16. Lo stato di giustizia nel quale
spondendo alla domanda «chi è l’uomo?», non si può prescindere dal peccato, sia per valu-
tare serenamente l’attuazione storica del progetto divino sulla creatura a sua immagine, sia
per leggere correttamente i dati ontici ed esistenziali dell’uomo.
17 La definizione dottrinale delle conseguenze del peccato già in passato era stata fatta
oggetto del Magistero, per cui non aveva bisogno di ulteriori contributi: cfr. DAMASO I, Epi-
stula de incarnatione contra Apollinaristas: DS 146; XV SINODO DI CARTAGINE, De peccato
originali, can. 1: DS 222; SINODO DI ARLES, Lucidi presb. Libellus subiectionis: DS 339; II SI-
NODO DI ORANGE, De peccato originali, can. 1.13.15: DS 371.383.385; SINODO DI QUIERCY,
De libero arbitrio hominis et de praedestinatione: DS 622; SINODO DI VALENZA, De praedesti-
natione: DS 633; BENEDETTO XII, Costituzione Benedictus Deus: DS 1002; CONCILIO DI FI-
RENZE, Bolla Laetuntur Caeli: DS 1306; ID., Bolla Cantate Domino («Decretum pro Iacobi-
tis»): DS 1347; CONCILIO DI TRENTO, Decretum de peccato originali, 1-2: DS 1511-1512; ID.,
Decretum de iustificatione, 1: DS 1521; ID., Doctrina de sacramento paenitentiae: DS 1680;
PIO XII, Lettera Enciclica Humani Generis: DS 3875.
18 J. Ratzinger fa notare che GS 13 non cita Rm 5 (il principio della condizione di pec-
cato in Adamo), ma poggia su Rm 1,21-25, che dispiega il tema della situazione universale
di peccato e la necessità di redenzione in una prospettiva più esistenziale, più adatta all’im-
postazione esperienziale richiesta alla struttura della GS (cfr. J. RATZINGER, «The Dignity of
the Human Person», in VORGRIMLER, Commentary, 125).
19 Cfr. CONCILIO DI TRENTO, Decretum de peccato originali 1-2: DS 1511-1512; ID., De-
cretum de iustificatione, 1: DS 1521.
58 Antropologia di comunione
21 «Fin dalla caduta, scaturita dalla pretesa dell’uomo creato di essere l’utimo punto di
riferimento dell’esistenza (di essere Dio), è questa, in ultima analisi, la condizione dell’esi-
stenza per la quale il mondo creato tende a porre il proprio essere in riferimento solo a se
stesso e non all’essere increato, a Dio. L’idolatria, vale a dire il trasformare l’esistenza creata
nel termine ultimo di riferimento, è la forma assunta dalla caduta, ma ciò che vi sta dietro è
il rifiuto dell’uomo di rapportare l’essere creato alla comunione con Dio. In altri termini,
osservata dal punto di vista dell’ontologia, la caduta consiste nel rifiuto di rendere l’essere di-
pendente dalla comunione, in una frattura tra verità e comunione» (ZIZIOULAS, Being as
Communion, 102 [TdA]).
60 Antropologia di comunione
Così l’uomo si trova in se stesso diviso. Per questo tutta la vita umana, sia indi-
viduale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e
il male, tra la luce e le tenebre. Anzi l’uomo si trova incapace di superare effi-
cacemente da se medesimo gli assalti del male, così che ognuno si sente come
incatenato. Ma il Signore stesso è venuto a liberare l’uomo e a dargli forza, rin-
stesso tra Dio e l’uomo, diviene per il peccato l’indice inequivocabile della
gravità del danno prodotto dall’intenzione autonomista dell’uomo. Anche
in questo caso è evidente come la relazione uomo-donna (considerata in
modo estensivo come simbolo di ogni relazione interumana) sussista solo
nella relazione di comunione uomo-Dio: dove questa è deturpata, è in-
franta anche l’altra.
Fatto riferimento alle conseguenze prodotte dal peccato sull’essere del-
l’uomo, il testo conciliare ricorda che l’uomo non ha in se stesso la capacità
di superare efficacemente gli assalti del male. Ciò comporta che non è pos-
sibilità umana, nella condizione storica del peccato, ritrovare la via dell’ar-
monia creata. Ma non si tratta solo di un’impossibilità storica: non è nean-
che una possibilità ontologica, che la creatura ricomponga da sé ciò che il
Creatore ha fatto in essa, poiché l’opera del Creatore è consistita nel porre
qualcosa di suo nell’uomo, la sua immagine. L’immagine, in quanto è qual-
cosa di propriamente divino, non può essere recuperata dall’uomo in se
stesso, una volta che è deturpata, perché essa non è frutto della natura
umana: una realtà divina non può essere rigenerata da un principio umano.
L’immagine è posta nell’uomo dall’esterno ed è alimentata dal continuo le-
game di obbedienza dell’uomo a Dio. Fuori da questa relazione, l’immagi-
ne non vive. Quando il peccato deturpa questa relazione, per questo stesso
l’uomo non realizza più l’immagine di Dio che è posta in lui. Ma poiché
l’immagine di Dio determina l’essere dell’uomo nella creazione, il peccato,
proprio in quanto deturpa l’immagine, – come afferma GS 13 – è una di-
minuzione per l’uomo stesso, gli impedisce di conseguire la propria pie-
nezza.
Tuttavia – aggiunge GS 13 – «il Signore stesso è venuto a liberare l’uo-
mo e a dargli forza, rinnovandolo nell’intimo, e scacciando “il principe di
questo mondo” (cfr. Gv 12,31)». Se la divisione non è ricomponibile per
forza umana e l’uomo non può rifarsi da sé, la storia di salvezza è la volontà
di Dio di rifare l’uomo. Perché Dio vuole rifare, ri-creare l’uomo? La Scrit-
tura rimanda semplicemente alla volontà di Dio, la afferma. Tuttavia la ra-
gione di questa volontà divina può essere rinvenuta già nella creazione: Dio
ha messo qualcosa di sé nell’uomo, vuole che questa realtà sublime sia ri-
portata alla sua origine.
La via della rigenerazione e della ricomposizione dell’immagine di Dio
nell’uomo è un nuovo intervento di Dio dall’esterno sull’opera della crea-
zione. È un intervento definito come liberazione e forza, ma nel «rinnova-
mento» dell’intimo essere dell’uomo. Non può sussistere un dono di Dio
in un uomo non rinnovato nel suo essere. Se l’uomo non è reso nuovo, ogni
singolo dono in esso non trova la possibilità di vivere. Un singolo dono nel-
l’uomo, infatti, è finalizzato alla piena realizzazione del suo essere. Ma se
l’essere è deturpato nella sua dimensione essenziale, l’immagine, un dono
La dignità della persona umana 63
Unità di anima e di corpo, l’uomo sintetizza in sé, per la stessa sua condizione
corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui
toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore (GS
14,1).
26 «Il dualismo neoplatonico [...], eliminato dalla Scolastica, era sopravvissuto nella
teologia spirituale. In molte opere pie, il corpo è considerato come un’entità separata e co-
me l’origine di tutte le debolezze umane. Qui invece l’uomo è presentato immediatamente
nella sua duplice dimensione spirituale e corporale: “corpore et anima unus”» (P. DELHAYE,
«La dignità della persona umana», in BARAÚNA, La Chiesa nel mondo di oggi, 274). Cfr. an-
che A. ALVAREZ BOLADO, «La fe cristiana y la imagen del hombre. Comentario a los pp. 11 a
18», in Estudios sobre la constitución Gaudium et Spes, Bilbao 1967, 38; CHIAVACCI, La costi-
tuzione pastorale, 47-48; ALSZEGHY, «La dignità della persona umana», 442; RATZINGER,
«The Dignity of the Human Person», 126-127.
27 Il Creatore «creò dal nulla l’uno e l’altro ordine di creature: quello spirituale e quello
materiale» e fece l’uomo «quasi partecipe dell’uno e dell’altro, composto di anima e di cor-
po» (CONCILIO LATERANENSE IV, De fide catholica: COD 230).
28 Cfr. la definizione di J.B. Metz del corpo come «l’anima che fa presente se stessa al
mondo» (J.B. METZ, «Leiblichkeit», in H. FRIES, ed., Handbuch theologischer Grundbegrif-
fe, II, München 1963, 33).
La dignità della persona umana 65
29 Cfr. p. 61.
30 Molto efficace la definizione, desunta da questo passo della GS, dell’uomo quale «ri-
flessivo cuore dell’Universo» (ALVAREZ BOLADO, «La fe cristiana», 39 [TdA]).
66 Antropologia di comunione
L’oggetto del primo capitolo della GS, la persona umana nella sua di-
gnità, viene affrontato nei nn. 15-17 attraverso l’esplicitazione di tre aspetti
costitutivi della spiritualità umana: l’intelligenza, la coscienza, la libertà.
Poiché tuttavia la preoccupazione fondamentale dei Padri conciliari resta
quella di motivare la dignità della persona umana, l’esame di ognuna delle
tre dimensioni essenziali sopra elencate è condotto in modo tale che cia-
mondo e per l’invocazione che verso esso sale non può che essere definito lo “spazio di
Dio”, invano si cercherebbe di interpretarlo diversamente che come l’a priori “religioso”, la
struttura trascendentale che costituisce l’uomo nella sua natura e nel suo destino di “essere
religioso”. Naturalmente questa visione della hominis constitutio si rifà nel dettato concilia-
re alla tradizione dottrinale cristiana, ma la sua formulazione è tale che non può non far
pensare ad alcune salde acquisizioni del pensiero filosofico moderno…» (G. MORETTO, De-
stino dell’uomo e Corpo mistico: Blondel, de Lubac e il Concilio Vaticano II, Brescia 1993,
123-124).
33 «Il concetto cristiano dell’uomo e della sua dignità è tale che in ultima analisi scaturi-
sce da questo suo essere riferito a Dio, un Dio trascendente e personale al quale in modo
esclusivo si può attribuire la dignità in tutta la sua pienezza, dignità che discende fino al-
l’uomo e, attraverso lui, si comunica per partecipazione alle realtà terrene che si relazionano
con lui... Non si può sostenere la dignità dell’uomo sopra altro fondamento che non sia la
sua condizione di essere riferito alla divinità e relazionato con essa…» (J.J. ALVAREZ DE
PAZ, «La Dignidad de la Persona Humana. Comentarios a los puntos 11-18», in Esquema
XIII. Comentarios, Madrid 1967, 39 [TdA]).
68 Antropologia di comunione
4.1 Perché l’apertura alla comunione non è inserita tra le dimensioni co-
stitutive della persona umana?
35 Ibidem.
36 Cfr. «Relatio ad num. 12»: AS IV/VI, 443.
37 Ivi, p. 36.
38 Cfr. T.IV, 16: AS IV/I, 445.
39 «Questa indole sociale dell’uomo creato ad immagine di Dio è enunziata più breve-
mente, in quanto tale indole determina la persona stessa. Per il resto, il paragrafo specifica-
mente dedicato all’indole sociale è stato eliminato dal capitolo I, visto che il capitolo II trat-
ta proprio di questa materia» («Relatio ad num. 12»: AS IV/VI, 443 [TdA]).
40 Ibidem.
70 Antropologia di comunione
41 Cfr. p. 46.
42 J. Ratzinger fa notare che, nell’affermazione secondo cui per l’intelligenza l’uomo
partecipa alla luce della mente di Dio, potrebbe essere rintracciata un’eco di Pascal e della
tradizione agostiniana medioevale: «La prima affermazione riprende l’idea pascaliana sulla
superiorità del pensiero nei confronti dell’universo intero, ma ora la applica specificamente
all’intelletto, che in precedenza era stato definito genericamente “interiorità” [...]. Allo stes-
so tempo c’è un’eco della tradizione agostiniana medievale. Quando l’intelletto è descritto
come partecipazione alla luce della mente divina, ascoltiamo un’eco della dottrina medieva-
le dell’illuminazione, derivata da Agostino, nella sua forma tomisticamente adattata – è
chiaro. E l’idea di partecipazione è un altro fondamentale concetto della metafisica cristia-
La dignità della persona umana 71
na, che trae la propria ispirazione da Platone. Entrambi gli elementi, la metafisica della luce
e l’ontologia della partecipazione, sono solo menzionati, non ulteriormente sviluppati. Ma
essi rivelano lo sfondo della tradizione agostiniana che gli autori del testo hanno in mente»
(J. RATZINGER, «The Dignity of the Human Person», 131-132 [TdA]).
72 Antropologia di comunione
«Col dono, poi, dello Spirito santo, l’uomo può arrivare nella fede a contem-
plare e a gustare il mistero del piano divino» (GS 15,4).
43 «L’analisi del teso indica che la “sapienza” perfeziona la natura intellettuale della
persona umana, e che questa perfezione è collegata alla crescente capacità di scoprire e vi-
vere il vero e il bene oltre i livelli dei fenomeni visibili. Ciò che emerge chiaramente da que-
sto testo è la nozione di “processo” o “viaggio” associata con la scoperta e l’amore della ve-
rità. Tale processo di scoperta e amore della verità include questa “verità” nell’iter del dive-
nire “più umano”» (P.J. MATHESON, The notion of truth in «Gaudium et Spes», Roma 1982,
70-71 [TdA]).
La dignità della persona umana 73
Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma
alla quale invece deve obbedire e la cui voce che lo chiama sempre ad amare e
a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orec-
chie del cuore: fa’ questo, fuggi quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge
scritta da Dio nel suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo, e
secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sa-
crario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’inti-
mità propria. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella leg-
ge, che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo (GS 16).
44 «La radice della coscienza è già nel movimento radicale che orienta la persona uma-
na a Dio come al suo fine: detta coscienza è quindi in rapporto all’autotrascendenza dell’uo-
mo per l’amore teocentrico dell’Altro e dell’altro» (L. RULLA, F. IMODA, J. RIDICK, «Antro-
pologia della vocazione cristiana», in R. LATOURELLE, ed., Vaticano II. Bilancio e prospettive,
II, Assisi 19882, 971).
45 «La coscienza è dunque una relazione fondamentale con Dio, che si compie nell’a-
scolto, l’accoglienza, l’obbedienza – in altri termini, nella “fede”» (J. MOUROUX, «Situation
et signification du chapitre I sur la dignité de la personne humaine», in CONGAR, PEUCH-
MAURD, L’Eglise, II, 243 [TdA]). L’autore fonda la definizione della coscienza come relazio-
ne fondamentale con Dio su questa premessa: «La coscienza è situata nel “cuore”, il “cen-
tro più intimo dell’uomo”, là dove Dio gli parla ed egli lo ascolta. Essa è un dialogo, in que-
sto punto sacro dove si realizza l’opzione decisiva per il bene o il male, dunque per o contro
Dio; essa impegna così l’atto supremo della libertà. Ma allo stesso tempo la coscienza è tra-
scendente: la legge morale è iscritta in noi senza di noi, la nostra dignità è di obbedirle e noi
saremo giudicati su questa fedeltà; alla fine, essa ci rivela Dio, almeno attraverso l’assoluto
della legge morale» (Ibid. [TdA]).
La dignità della persona umana 75
Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare
la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono
tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, pre-
vale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi sociali si allontanano
dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della mo-
ralità (GS 16).
46 «La coscienza del cristiano non obbedisce solo alle sue intuizioni profonde – e divi-
ne d’altra parte –, ma agisce in dipendenza della fede e della carità» (P. DELHAYE, «La di-
gnità della persona umana», 276). Il fondamentale rapporto tra la coscienza e la Rivelazione
e la Grazia non è stato fatto oggetto diretto della riflessione conciliare, anche se è implicita-
mente affermato e presupposto.
76 Antropologia di comunione
è data, agli occhi della GS, una morale senza verità oggettiva. Non ci può
essere ricerca del bene comune senza ricerca comune della verità, che è al
di fuori dell’uomo e al di sopra di lui, in quanto ha in Dio la sua sorgente
eterna.
Il principio ontologico della comunione diventa così più chiaramente
un principio etico. La comunione è posta nella verità dell’essere dell’uomo
e, per ciò stesso, deve essere posta anche nella verità morale per tutti gli
uomini.
La GS, sia pur parlando in positivo, lascia così intravedere uno dei pro-
blemi odierni, che consiste proprio nello sganciamento della ricerca del be-
ne comune dalla ricerca comune della verità. Un bene comune senza verità
può essere solo l’utile o l’interesse comune, che però, in quanto tale, non
può mai essere universale, ma solo corrispondente al desiderio di una
«maggioranza», definita in termini numerici o più frequentemente in ter-
mini di «maggiore potenza» (economica, sociale, militare, ecc.). Il bene in
quanto tale, invece, è «comune» in se stesso, poiché è fondato sulla verità
dell’essere, che è comune ad ogni uomo proprio in quanto uomo. Ci può
essere una ricerca della verità che proceda, in virtù di una coscienza certa,
dall’esperienza e dalla ragione dell’uomo, ma tale ricerca non può essere
compiuta che nel dono della Verità che abita in Dio, che è Dio stesso, e
che, nella sua pienezza, dall’uomo può essere solo accolta, non conquistata
grazie alle sue capacità.
Il problema odierno diventa così lo sganciamento del bene comune
dalla verità che è in Dio. Si potrebbe forse pervenire ad un «accordo» sulla
verità e su di essa motivare un bene da perseguire e di fatto spesso così av-
viene. Ma la dimensione comunionale della natura umana non è fondata su
un accordo, bensì su un progetto divino. Cercare la verità fuori di Dio si-
gnifica così essere impossibilitati a rinvenire l’autentico bene comune, che
è comune in quanto legato alla realizzazione della comunione ontologica
nella quale l’uomo è situato.
Ma l’uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà, quella libertà cui i nostri
contemporanei tanto tengono e che ardentemente cercano, e a ragione. Spesso
però la coltivano in malo modo, come licenza di fare qualunque cosa purché
piaccia, compreso il male. La vera libertà, invece, è nell’uomo segno altissimo
dell’immagine divina. Dio volle, infatti, lasciare l’uomo in balìa del suo pro-
prio volere, così che esso cerchi spontaneamente il suo Creatore, e giunga libe-
ramente, con la adesione a lui, alla piena e beata perfezione. Perciò la dignità
dell’uomo richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso
cioè e indotto da convinzioni personali, e non per un cieco impulso interno o
La dignità della persona umana 77
per mera coazione esterna. Ma l’uomo ottiene tale dignità quando, liberandosi
da ogni schiavitù di passioni, tende al suo fine con scelta libera del bene... (GS
17).
47 J. Ratzinger è risoluto nell’affermare che il paragrafo sulla libertà «è uno dei meno
soddisfacenti dell’intero documento». Egli argomenta che «l’intera dottrina neotestamen-
taria sulla libertà fu completamente estromessa dal Testo 5, e di conseguenza il punto di vi-
sta adottato è semplicemente irreale per il Cristiano. L’omissione della cristologia dalla
dottrina dell’immagine e somiglianza di Dio, con la quale è collegata la nozione di libertà,
ancora una volta impone le sue conseguenze» (J. RATZINGER, «The Dignity of the Human
Person», 136-137). Cfr. anche RULLA, IMODA, RIDICK, «Antropologia della vocazione cri-
stiana», 975-977.
48 A conferma di ciò si noti, per esempio, che la «Relatio ad num. 17» del «Textus reco-
gnitus», rispondendo alla richiesta di un Padre, espressamente avvisava che in tale para-
grafo non si sarebbe fatta menzione del concetto teologico di «libertà dei figli di Dio», «poi-
ché è altra cosa rispetto alla libertà di cui qui si tratta» (T.V, «Relatio ad num. 17»: AS
IV/VI, 444 [TdA]).
78 Antropologia di comunione
49 Un interessante spunto di riflessione potrebbe essere qui suggerito dal confronto con la
posizione di K. Rahner, secondo cui «in ogni atto di libertà Dio è posto atematicamente come
suo fondamento e come suo termine ultimo… In ogni atto di libertà Dio è voluto atematica-
mente ma realmente, e di converso si sperimenta in tal modo cosa c’è realmente con Dio: l’ine-
sprimibile orientamento dell’originale trascendenza dell’uomo, l’uscire da sé nella conoscenza
e nell’amore» (K. RAHNER, Schriften zur Theologie, VI, Zürich-Köln 1965, 217 [TdA]).
50 Così E. Chiavacci interpreta il contenuto essenziale di GS 17: «La libertà è la stessa
capacità di rispondere alla chiamata segreta di Dio; […] la libertà di indifferenza non
avrebbe senso se non come condizione della libertà di rispondere al valore vocante. La di-
gnità dell’uomo deriva così da quest’ultima, non dalla prima» (E. CHIAVACCI, La costituzio-
ne pastorale, 60).
La dignità della persona umana 79
In faccia alla morte l’enigma della condizione umana diventa sommo. L’uomo
si affligge non solo per l’avvicinarsi del dolore e della dissoluzione del corpo,
ma anche, ed anzi più ancora, per il timore che tutto finisca per sempre. Ma
l’istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’i-
dea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il
germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia, insorge
contro la morte (GS 18,1).
La costituzione pastorale affronta il tema della morte nel contesto della
51 «È qui appunto che si rivela in tutta la sua novità il senso cristiano della libertà. L’uo-
mo non è libero solo perché può scegliere tra svariati oggetti; ma l’uomo è libero principal-
mente perché è chiamato, in forza della sua libertà, a prendere posizione di fronte a Dio. La
libertà ha un significato essenzialmente teologico» (E. QUARELLO, «Coscienza, libertà e
morte dell’uomo», in AA.VV., La Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contempora-
neo, 470).
80 Antropologia di comunione
sua antropologia cristiana. Il primo esito del semplice fatto di trattare l’ar-
gomento in tale contesto è l’aver immediatamente indicato che la morte
rientra nell’antropologia come un aspetto determinante. Una morte consi-
derata solo come fine dell’esistenza umana non potrebbe rientrare nella si-
stemazione dell’antropologia. Se invece, come mostra l’esperienza, la mor-
te pone in questione l’intimo anelito dell’uomo all’eternità, allora essa non
solo è un aspetto della costituzione personale dell’uomo, ma il luogo della
verifica ultima della reale dimensione del suo essere, il momento in base al
quale è condizionata la realizzazione ultima della sua apertura trascenden-
tale.
L’approccio di GS 18 all’argomento proviene ancora una volta da una
prospettiva esperienziale. L’uomo si confronta continuamente con il timo-
re del nulla e dell’annientamento del suo essere, contro il quale si scontra il
«germe di eternità» che egli porta in sé.
Il concetto di «germe di eternità», che il testo conciliare menziona co-
me un dato evidente e non bisognoso di essere ulteriormente fondato, po-
trebbe suscitare qualche dubbio nel lettore52. Di fatto, nell’esperienza quo-
tidiana, pur se la morte pone sempre in questione ogni esistenza personale,
si può riscontrare quasi un processo di rimozione dell’idea della morte in
molti soggetti. Altri arrivano ad accettare l’idea della fine definitiva della
propria esistenza e pongono tutta la ricerca della loro realizzazione nella
dimensione terrena. Altre volte il concetto di morte come distruzione del-
l’uomo è entrato in modo ben tematizzato in sistemi filosofici e ideologie.
È chiaro che queste osservazioni evidenti non siano potute sfuggire ai
redattori della GS. Si può dunque ragionevolmente sostenere che il «germe
di eternità» di cui parla il testo conciliare è prima di tutto un contenuto ri-
velato53, che può trovare riscontro nell’esperienza umana, ma che può an-
che essere soffocato da un rifiuto più o meno consapevole da parte dell’uo-
mo del suo fine eterno e dell’impegno per conseguirlo. GS presuppone
quindi che il desiderio di immortalità sia un dato insito prima nell’essenza
dell’uomo, quale è rivelata da Dio, e solo in un secondo momento rinve-
nibile nella sua esistenza concreta54. Il germe di eternità è una verità di or-
dine ontologico prima che esistenziale. Se l’uomo si pone consapevolmente
in questione davanti all’assurdità dell’idea di morte come annientamento,
ciò è un riscontro del dato rivelato, più che un’esperienza che induce all’e-
laborazione di un’antropologia. Il metodo induttivo impiegato dalla GS è
di ordine pedagogico, non epistemologico.
Presupponendo il dato rivelato, la GS può così orientare la sua osserva-
zione dell’esperienza umana e farne una via pedagogica per condurre il let-
tore ad una visione del significato umano della morte, cioè alla com-
prensione del posto della morte nel conseguimento della pienezza dell’es-
sere dell’uomo: non solo la morte non è annientamento dell’uomo, ma tap-
pa essenziale della sua realizzazione ultima. Vediamo come il documento
conciliare effettua questo passaggio decisivo della sua antropologia.
Mentre qualsiasi immaginazione vien meno di fronte alla morte, la chiesa inve-
ce, istruita dalla rivelazione divina, afferma che l’uomo è stato creato da Dio
per un fine di felicità, oltre i confini della miseria terrena. Inoltre la morte cor-
porale, dalla quale l’uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato, inse-
gna la fede cristiana che sarà vinta, quando l’uomo sarà restituito allo stato
perduto per il peccato, dall’onnipotenza e dalla misericordia del Salvatore.
Dio infatti ha chiamato e chiama l’uomo a stringersi a lui con tutta intera la
sua natura in una comunione perpetua con la incorruttibile vita divina. Questa
vittoria l’ha conquistata il Cristo risorgendo alla vita, dopo aver liberato l’uo-
mo dalla morte mediante la sua morte (GS 18,2)55.
essere, la comunione con la vita divina: è questa la via della pienezza antro-
pologica; l’uomo trova in Dio quell’eternità di cui possiede solo il germe,
quella realizzazione ultima del suo essere in ordine alla quale egli, per natu-
ra, possiede solo l’orientamento, ma non la capacità di compimento.
L’eternità è la realizzazione dell’uomo ma non è una proprietà dell’uo-
mo. Tuttavia l’uomo può essere pienamente uomo ricevendo in dono l’e-
ternità di Dio. Quando l’uomo vive la comunione col suo Signore, l’eter-
nità di Dio diviene la sua eternità, in un mistero di partecipazione alla vita
divina. Fuori dalla comunione con Dio l’uomo non può pervenire alla pie-
nezza per la quale è stato creato: la comunione con Dio diventa così il car-
dine dell’antropologia cristiana.
Si noti che a questo punto la GS non può fare a meno di anticipare
qualche affermazione che, nella struttura del documento, avrebbe dovuto
essere destinata all’esito cristologico del capitolo sulla dignità della perso-
na umana. Per la prima volta nel cap. I, infatti, GS 18 esplicita il riferimen-
to dell’uomo a Cristo: «Questa vittoria l’ha conquistata Cristo risorgendo
alla vita e liberando l’uomo dalla morte mediante la sua morte».
Il riferimento esplicito a Cristo si era reso necessario per fondare l’as-
soluta libertà e gratuità del dono divino in ordine alla realizzazione eterna
dell’uomo. Precisato infatti che l’uomo diventa pienamente uomo non in
se stesso ma nella comunione divina con Dio, restava da chiarire che tale
comunione non è ancora conseguibile dall’uomo per sua capacità. Senza
entrare in profondità in un discorso cristologico, viene semplicemente af-
fermata la necessità per l’uomo del dono del mistero pasquale di Cristo,
della sua risurrezione e vittoria sulla morte, per la liberazione dell’uomo
dalla morte.
Questo semplice riferimento al mistero di Cristo è comunque di gran-
de rilevanza: l’antropologia cristiana è un’antropologia «pasquale». Se
l’uomo non si risolve nella morte, ma si apre all’eternità, ciò è dovuto sì al
piano eterno di Dio che ha fatto l’uomo per l’eternità, ma si realizza attra-
verso l’inserimento di ogni uomo in Cristo e la partecipazione alla sua ri-
surrezione. L’eternità che dà all’uomo la sua pienezza è l’eternità in Cristo.
La ragione più alta della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla
comunione con Dio (GS 19,1).
56 «Se oggi si sente la vita comunitaria come vero valore, la fede cristiana circa la morte
salva anche quel valore: così vita interiore, vita fisica, vita di comunità, tutto è vittorioso del-
la morte in Cristo» (E. CHIAVACCI, La costituzione pastorale, 63).
57 «L’esposizione delle origini e della natura dell’ateismo contemporaneo appare, nella
costituzione conciliare, all’interno del capitolo sulla dignità della persona umana. L’umane-
simo ateo, in qualsiasi sua espressione, pretende di possedere la vera interpretazione del mi-
stero dell’uomo. Afferma con ciò che ogni sforzo di salvezza dell’uomo, fondato su una fede
religiosa, produce l’alienazione dell’essere umano» (R. BELDA, «La Iglesia frente al ateísmo
moderno. Comentario a los pp. 19 a 21», in AA.VV., Estudios sobre la constitución Gaudium
et Spes, Bilbao 1967, 59 [TdA]).
84 Antropologia di comunione
mo non solo è legata al rapporto con Dio, ma proprio consiste nella sua vo-
cazione alla comunione con Dio: questa introduzione del testo che porta il
titolo di «Forme e cause dell’ateismo» ci fa attendere dunque una trattazio-
ne dell’ateismo non primariamente dal punto di vista morale o pastorale,
ma soprattutto dal punto di vista antropologico: coma l’ateismo sia in rela-
zione con la pienezza antropologica, che non può essere conseguita se non
nella comunione con Dio.
Per verificare l’esattezza di questa impostazione del tema dell’ateismo
nel contesto della GS, è bene ricercare nella storia del testo le motivazioni
che soggiacciono alla sua redazione e le intenzioni per le quali gli è stata as-
segnata una collocazione nella prima parte della costituzione pastorale.
58 Esortando i fedeli ad essere memori della grandezza della vocazione umana, la cui
dignità non deve essere sminuita, il testo afferma: «Bisogna deplorare la cecità di coloro
che, con le dottrine o con le opere, costringono la vita degli uomini alle soli dimensioni ter-
rene» (T.III, 7: AS III/V, p.120 [TdA]).
59 Cfr. T.IV, 18-19: AS IV/I,446-447.
La dignità della persona umana 85
timo e vitale tra realizzazione umana e comunione con Dio. Dopo di ciò,
vista la grande rilevanza morale e pastorale del tema dell’ateismo nella si-
tuazione contemporanea, ci si soffermava sui problemi dell’imputabilità
dell’ateismo alla singola coscienza e della relazione che la Chiesa deve tene-
re con i non credenti.
Il motivo dell’approfondimento del tema dell’ateismo nel «Testo di
Ariccia» rispetto al «Testo di Zurigo» è da rinvenire nel dibattito che nel
frattempo si era acceso in aula.
Il Card. Silva Henríquez aveva rilevato per primo il carattere umanisti-
co dell’ateismo moderno, che non può essere risolto in una semplice con-
danna, ma che richiede una risposta della Chiesa fondata su Cristo quale
Uomo nuovo. La vera antropologia cristiana risiede nel mistero di Cristo,
che non è solo l’epifania di Dio, ma anche l’epifania dell’uomo nella sua
pienezza. L’Oratore aveva richiesto dunque un nuovo testo conciliare sul
tema dell’ateismo come questione sull’uomo, che avrebbe dovuto mostrare
la fede cristiana in Dio come risposta alla domanda sull’uomo60. Questi
suggerimenti si ritrovano evidentemente ripresi nel «Testo di Ariccia».
Il testo definitivo di GS 19-21 segue chiaramente la struttura e i temi
dei nn. 18-19 del «Testo di Ariccia», che furono revisionati da un’apposita
sottocommissione.
L’intuizione circa il significato prevalentemente antropologico del testo
sull’ateismo viene dunque confermata dall’effettiva vicenda della sua com-
posizione e dalla motivazioni che l’hanno guidata, nonché dal contesto
dottrinale in cui esso è collocato nella redazione definitiva61.
Ai fini di questo lavoro, dunque, sarà sufficiente cogliere la portata an-
tropologica del testo di GS 19-21, senza dilungarsi sull’analisi più specifi-
camente storica, morale e pastorale dell’ateismo in quanto tale, svolta sus-
seguentemente dal testo stesso62. Quello che dobbiamo chiedere a GS 19-
21 è il suo peculiare contributo all’antropologia conciliare e in particolare
alla valorizzazione della dignità della persona umana.
La ragione più alta della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla
comunione con Dio. Fin dal suo nascere l’uomo è invitato al dialogo con Dio:
non esiste, infatti, se non perché, creato per amore da Dio, da lui sempre per
amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non lo riconosce li-
beramente e se non si affida al suo Creatore. Molti nostri contemporanei, tut-
tavia, non percepiscono affatto o esplicitamente rigettano questo intimo e vi-
tale legame con Dio, così che l’ateismo va annoverato fra le cose più gravi del
nostro tempo, e va esaminato con diligenza ancor maggiore (GS 19,1).
gi, 25, Roma 1986, 41-55; V. MIANO, «L’ateismo», in AA.VV., La Costituzione pastorale sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo 478-508; K. RAHNER, «Ateismo e cristianesimo implici-
to», in Nuovi Saggi, III, Roma 1969, 244-245; ID., «Tentativo di interpretazione dell’inse-
gnamento conciliare sull’ateismo», in E. GIAMMANCHERI, La chiesa, 137-156; G. DE LUCA,
Dalla carità alla fede: la nuova via per la giustificazione dell’ateo, Roma 1990.
63 In questo senso si può parlare con E. Schillebeeckx di uomo come «essere vocazio-
nale»: con la GS, «La Chiesa non elabora più un’antropologia cristiana a partire da una “na-
tura umana astratta”. Questa antropologia è vista piuttosto nella prospettiva della vocazio-
ne: a partire dal significato dell’esistenza umana come vocazione e come responsabilità.
L’uomo è un essere vocazionale…» (E. SCHILLEBEECKX, L’Église du Christ et l’homme
d’aujourd’hui selon Vatican II. 4e Session, Le Puy-Lyon-Paris 1966, 31 [TdA]). L’uomo è
cioè un essere vocazionale in quanto non è posto in essere pienamente realizzato in sé, ma è
chiamato a conseguire in Dio la sua pienezza, non indipendentemente dalla propria respon-
sabilità e libertà.
La dignità della persona umana 87
La relazione con Dio definisce l’uomo nella sua nascita, nel suo esiste-
re, nel suo vivere secondo verità.
Il problema che a questo punto il testo lascia intravedere è di enorme
importanza. Il fatto della nascita e dell’esistenza dell’uomo dipendono uni-
camente da Dio. L’uomo nasce in funzione del dialogo con Dio, esiste per-
ché Dio lo ha creato per amore. La relazione che pone in essere l’uomo è
un rapporto che muove da Dio verso l’uomo, non viceversa.
Però la GS ha già precisato che l’uomo posto in essere è creatura ad im-
magine di Dio, dotato per ciò stesso di responsabilità in ordine alla realiz-
zazione del suo essere. Ciò significa che se la nascita dell’uomo dipende so-
lo dalla relazione Dio-uomo, la sua realizzazione dipende dalla risposta
dell’uomo a Dio: «[L’uomo non] vive pienamente secondo verità, se non lo
riconosce liberamente64 e non si affida al suo Creatore».
Il problema che la GS pone in evidenza è la vita secondo verità dell’uo-
mo, che non può essere piena senza relazione di amore al Creatore. Vi è qui
una delle affermazioni conciliari più esplicite circa la costitutiva dipendenza
dell’uomo, fin dalle profondità del suo essere, dalla comunione con Dio. Vi-
vere «secondo la verità» significa vivere in conformità a quella verità che è la
verità scritta nell’essere dell’uomo: si tratta della verità che è prima di tutto
ontologica e, di conseguenza, verità morale. Allora, se la verità dell’uomo
dipende dalla risposta libera di amore al Creatore, ciò comporta che l’uomo
non è pienamente uomo al di fuori di questa relazione: anche se l’uomo è ad
immagine e somiglianza di Dio per il fatto di essere creato tale, egli non è
pienamente realizzato se non nella comunione con Dio65. Per la realizzazio-
ne dell’uomo occorrono dunque i requisiti del «vero», del «bene» e della li-
bertà, intesi come apertura alla comunione con Dio.
Si comprende allora il pieno significato degli aggettivi «intimo» e «vi-
tale» che definiscono il legame dell’uomo con Dio. La comunione con Dio
fonda l’«intimo» dell’uomo, cioè il suo essere più profondo: c’è una di-
pendenza ontologica dell’uomo da Dio. Questa affermazione di solito non
pone problemi. Ma la comunione fonda anche la vita dell’uomo, nel senso
64 Notare che viene qui impiegato il concetto di «libertà» nel senso delineato da GS 17:
la libertà è finalizzata alla scelta del bene (cfr. pp. 77-79).
65 «[Se Dio] creò l’uomo a sua immagine, lo fece per elevarlo alla partecipazione della
sua vita; con il progetto di perfezionare in modo trascendente questa immagine in somi-
glianza di conformità, incorporandolo a una vita di comunione con Lui, nella conoscenza e
nell’amore. Questo progetto, che è efficace, come ogni parola di Dio, è insito nell’uomo fin
dal primo istante della sua esistenza e comporta che di fatto egli si trovi incompleto quando
non compie l’ulteriore avvicinamento all’essere e alla vita di Dio. Di conseguenza, l’apertu-
ra e la tendenza all’ordine soprannaturale appaiono come già inserite nella condizione stes-
sa dello spirito umano» (J. CORDERO, «El principio antropológico en la Constitution “Gau-
dium et Spes” del Vaticano II», CTom 96 [1969] 631 [TdA]).
88 Antropologia di comunione
che come l’uomo è posto in essere da Dio, così anche vive solo in dipen-
denza da Dio. L’uomo è posto in essere, ma è anche mantenuto in vita da
Dio. Essere mantenuto in vita da Dio non significa solo trovare in Dio la
causa fiendi del proprio esistere, biologico o spirituale. La vita di cui si par-
la è la vita «piena»: si tratta di vivere «pienamente secondo verità», cioè
della vita che realizza in tutto l’essere ad immagine di Dio, e questa vita
non sussiste fuori della comunione con Dio.
Da notare anche che la relazione con Dio che permette all’uomo di vi-
vere pienamente secondo verità è «riconoscere liberamente» («libere agno-
scere») l’amore di Dio e «affidarsi», o «consegnarsi» («se committere»), al
Creatore. Il Concilio sta parlando qui della persona nella pienezza delle
sue facoltà costitutive di coscienza, libertà e volontà. Se la relazione con
Dio realizza veramente la persona umana, allora essa deve coinvolgere la
persona in ciò che la costituisce come tale. Non ci può essere una realizza-
zione dell’essere che coinvolga solo le sue dimensioni accidentali e non so-
stanziali. Allora, la relazione con Dio che permette all’uomo di vivere pie-
namente (da rimarcare che qui si parla della pienezza dell’uomo, non di
una realizzazione ancora incipiente o imperfetta) non può essere inconsa-
pevole, non può essere anonima: deve essere cosciente, libera. «Ricono-
scere liberamente» presuppone una conoscenza tematica, riflessa, voluta.
Una realizzazione dell’uomo inconsapevole, una relazione con Dio ano-
nima, non riconosciuta come tale, comporterebbe il dover trovare la pie-
nezza del proprio essere personale al di fuori delle dimensioni costitutive
della sua persona.
Per di più il Concilio afferma la vita piena dell’uomo nell’«affidarsi»,
«consegnarsi» al suo Creatore. «Affidarsi» significa che, avendo ricono-
sciuto liberamente il Creatore, quindi con tutta la pienezza di razionalità,
intelligenza, coscienza, volontà e libertà, la realizzazione piena avviene nel-
la consegna a Dio di tutto ciò che appartiene al proprio essere. Vivere pie-
namente secondo verità comporta che tutto quanto è la verità del proprio
essere venga affidato a Dio: la fede matura e consapevole, che è presuppo-
sta all’atto di consegna di se stesso66, diviene così la via della realizzazione
dell’uomo. Avendo riconosciuto Dio in piena consapevolezza, l’uomo può
vivere pienamente di obbedienza alla parola manifestata di Dio, in una re-
lazione a Dio di piena fiducia, non bisognosa di una continua ratifica razio-
nale di quanto Dio dice. Nella relazione di abbandono a Dio – relazione
che, non si dimentichi, realizza pienamente la vita dell’uomo – la fede man-
tiene la sua razionalità, ma non dipende dalla ragione. La fede diviene la
66 «A Dio che si rivela è dovuta l’obbedienza della fede (cfr. Rm 16,26; rif. Rm 1,5; 2Cor
10,5-6), per la quale l’uomo si abbandona a Dio tutto intero liberamente, prestando “il pie-
no ossequio dell’intelletto e della volontà a Dio che rivela”...» (DV 5).
La dignità della persona umana 89
La chiesa crede che il riconoscimento di Dio non si oppone in alcun modo alla
dignità dell’uomo, dato che questa dignità trova proprio in Dio il suo fonda-
mento e la sua perfezione: l’uomo riceve da Dio creatore le doti di intelligenza e
di libertà ed è costituito libero nella società, ma soprattutto egli è chiamato a
comunicare con Dio stesso in qualità di figlio e a partecipare alla sua stessa feli-
cità. Inoltre essa insegna che la speranza escatologica non diminuisce l’impor-
tanza degli impegni terreni, ma anzi dà nuovi motivi a sostegno della attuazione
di essi. Al contrario, invece, se manca il fondamento divino e la speranza della
vita eterna, la dignità umana viene lesa in maniera assai grave... (GS 21,3).
67 È stato detto che «quando il Concilio afferma che l’ateismo è una grave limitazione
della dignità umana (GS 21) e che il peccato è una “diminuzione per l’uomo stesso…”, im-
posta di fatto il rapporto Creatore-creatura in termini che richiamano l’impostazione tilli-
chiana di Dio come fondamento dell’essere della realtà che diventa in questo modo, per se
stessa, manifestazione del mistero di Dio» (S. LOI, «Cristologia e antropologia», 106). Senza
soffermarsi sulla plausibilità del richiamo a Tillich, sembra opportuno precisare che questo
riferimento conciliare all’ateismo, secondo le intenzioni palesate dalla GS («[Se manca il
fondamento divino], ciascun uomo rimane a se stesso un problema insoluto, confusamente
percepito»: GS 21,4), rivela l’obiettivo di chiarire la realtà umana a partire dal riconosci-
mento di Dio, piuttosto che manifestare il mistero di Dio a partire dalla realtà terrena di cui
è fondamento. È questo schema di pensiero che sarà espresso subito dopo in termini ine-
quivocabili: «Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uo-
mo» (GS 22,1).
90 Antropologia di comunione
68 «La Chiesa afferma invece che l’uomo è sé stesso solo quando si riconosce creatura e
figlio di Dio. La speranza escatologica non nega l’impegno terreno, ma gli conferisce un
senso nuovo. Senza riferimento a Dio e senza speranza, l’uomo incorre nella tentazione di
disperare. Egli rimane un mistero anche per sé stesso. Naturalmente non ne ha coscienza in
ogni istante, ma certi momenti più cruciali della vita gli pongono un problema che egli non
può risolvere senza riferirsi all’amore di Dio (Gaudium et Spes, n. 21 A-D)» (P. DELHAYE,
«La dignità della persona umana», 283).
69 Alcuni commentatori, sviluppando i contenuti di GS 19-21, hanno introdotto il su-
peramento cristologico della dialettica atea tra l’uomo e Dio, preparando così all’esposizio-
ne di GS 22: «L’uomo, nella sua intimità più profonda, è aspirazione verso Dio. Tale aspira-
zione può essere soddisfatta in due modi: una equivoca: mangiando il frutto dell’albero del-
la conoscenza del bene e del male [...]. Come nella ribellione biblica, l’uomo attuale confida
che, appropriandosi di questo frutto, otterrà un potere che gli consentirà di emanciparsi da
Dio; l’altra autentica: mangiando del frutto dell’albero della croce, cioè partecipando libe-
ramente al mistero della Morte e Risurrezione del Signore.
«Nella persona di Gesù Cristo, Dio fatto uomo e primogenito di una famiglia universa-
le di uomini deificati, la tensione dialettica Dio-Uomo trova il suo equilibrio definitivo. La
tensione è risolta radicalmente, perché, in Cristo, tutti siamo rinati a una nuova vita, la cui
dignità supera di gran lunga le legittime aspirazioni più ambiziose del cuore umano» (R.
BELDA, «La Iglesia frente al ateísmo moderno», 59 [TdA]).
«Nel cristianesimo il rapporto tra Dio e l’uomo passa attraverso l’incarnazione del Ver-
bo. È qui che nel modo più pieno si incontrano la gloria di Dio e la grandezza dell’uomo.
L’incarnazione, con tutto ciò che essa significa e comporta, è il cuore della risposta cristiana
all’ateismo, l’espressione più perfetta della coincidenza tra la fedeltà a Dio e la fedeltà al-
l’uomo [...]. Non si può essere fino in fondo fedeli a Dio se non si è fedeli all’uomo. Il teo-
La dignità della persona umana 91
9.1 Struttura di GS 22
centrismo passa per l’antropocentrismo. Non c’è dunque autentica teologia senza antropo-
logia. Il problema di Dio non può essere considerato come una questione speciale, generata
da un “bisogno religioso”, ma coincide alla fine con il problema dell’uomo, soprattutto in
quanto egli si confronta con le situazioni limite: la colpa, la sofferenza, la morte, ecc.» (J.
GIRARDI, «L’Église face à l’humanisme athée», in CONGAR, PEUCHMAURD, L’Eglise, II, 358-
359 [TdA]).
70 Cfr. GS 12,2; cfr. anche GS 10,2.
92 Antropologia di comunione
9.3 Il mistero dell’uomo nel mistero del Verbo incarnato (GS 22,1)
In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero
dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di
Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del
74 «Il titolo è cambiato in modo che l’irruzione del Verbo incarnato nel mondo appaia
come una novità che non deriva da dimostrazione filosofica o dal desiderio umano» (T.V,
«Relatio ad num. 22»: AS IV/VI, 446 [TdA]). L’esigenza era stata manifestata in aula da A.
Renard: «Si dichiari esplicitamente (nel n. 20, lin. 11) che l’irruzione di Cristo Signore nel
mondo o in persona è qualcosa di totalmente nuovo. Gesù è Dio e uomo e Redentore: non
si potrebbe mai arrivare a Cristo per una dimostrazione filosofica e neanche per un mero
desiderio umano» (AS IV/II, 385 [TdA]).
75 Infatti, la dicitura «uomo perfetto» permane comunque nel testo fino alla redazione
definitiva: cfr. T.V,22,2: AS IV/VI, 440; GS 22,2.
76 Cfr. «Expensio modorum ad num. 22»: (AS IV/VII, 403).
77 Una tesi suppone che il Concilio abbia preferito il titolo «Cristo uomo nuovo» alla
variante «Cristo principio dell’uomo nuovo» semplicemente perché «esso rivela in modo
efficace l’origine ontologica degli esseri umani, e anche per i suoi fondamenti biblici» (J.
HAYUMA-MARTIN, «De Christo novo homine». A hermeneutical study on the christological
94 Antropologia di comunione
Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la
sua altissima vocazione. Nessuna meraviglia, quindi, che tutte le verità su
esposte trovino in lui la loro sorgente e tocchino il loro vertice.
doctrine of «Gaudium et Spes» 22 within the context of Vatican II and its implication in the
receptional phase, Roma 1994, 8 [TdA]).
78 Il Card. Silva Henríquez aveva proposto di modificarla così: «In realtà solamente nel
mistero del Verbo incarnato trovano vera luce l’odierna inquietudine religiosa e la domanda
sulla salvezza dell’uomo» (AS IV/I, 570 [TdA]). È chiaro che la proposta era riduttiva in
confronto all’intenzione di rispondere, alla luce di Cristo, alla domanda fondamentale «Co-
s’è l’uomo?», cioè all’interrogativo sul mistero dell’uomo nella sua interezza. Non sarebbe
stato inoltre favorevole alla visione integrale dell’uomo in Cristo la separazione della do-
manda religiosa dalla domanda antropologica.
79 «Ciò che era espresso nel limo, era Cristo pensato come uomo futuro» (Cfr. TERTUL-
LIANO, De carnis resurrectione, 6: PL 2,802 [TdA]). La citazione di questo testo patristico
che fa riferimento alla creazione dell’uomo in Cristo fu aggiunta in nota nel «Textus denuo
recognitus» su richiesta di un Padre (cfr. T.VI, 22: AS IV/VII, 248; 403). L’aggiunta sostiene
e chiarifica la definizione del rapporto tra Adamo e Cristo. Per poi esprimere meglio il sen-
so della citazione, nel testo corrispondente si preferisce definire Adamo, primo uomo, qua-
le «figura», e non semplicemente «forma» (cfr. T.V, 22: AS IV/VI, 440), di Cristo uomo fu-
turo. In tal modo, viene rafforzata l’idea del costitutivo riferimento a Cristo dell’ontologia
dell’uomo sin dal momento in cui è posta in essere per creazione.
La dignità della persona umana 95
80 Anche se nella versione italiana di GS adottata in questo lavoro si dice che Cristo è
«nuovo Adamo», occorre specificare che nell’edizione tipica latina Cristo è detto «novissi-
mus Adam» (GS 22,1), espressione che in italiano è tradotta più precisamente con «ultimo
Adamo». L’aggettivo «novissimus» fu deliberatamente mantenuto anche dopo che un Pa-
dre ne aveva chiesto la sostituzione con «novus Adam», nuovo Adamo. La Commissione
decise infatti: «Il Testo rimanga così, infatti in 1Cor 15,45 Cristo è definito novissimus
Adam» (cfr. «Expensio modorum ad n. 22»: AS IV/VII, 403-404 [TdA]). Oltre il principio
di fedeltà al testo biblico (1Cor 15,45) suggerito dalla Commissione, si può arguire anche
una giustificazione teologica della preferenza accordata al termine «novissimus»: Cristo
non è «novus Adam» nel senso cronologico (viene dopo il primo Adamo), ma è «novissi-
mus Adam», l’ultimo Adamo, in senso ontologico: è lui il compimento definitivo, la pienez-
za, dell’essere creato in Adamo.
81 Da qui si comprende anche perché non fu accolto il suggerimento di scrivere «nel
Mistero del Verbo incarnato, sofferente e risuscitato…» (cfr. «Expensio modorum ad num.
22»: AS IV/VII, 403). La commissione rispose spiegando che il mistero pasquale sarebbe
stato delucidato in seguito (cfr. Ibid.), ma si può anche proporre un’osservazione teologica:
la condizione fondamentale («condizione» non è ovviamente da intendere nel senso di «ne-
cessità» dell’incarnazione) affinché il Verbo riveli e realizzi l’essere dell’uomo è che sia Egli
stesso uomo, che sia incarnato. Sul piano logico, quindi, la passione e la risurrezione, che
danno la pienezza dell’unico mistero di Cristo e, in Cristo, del mistero dell’uomo, devono
essere affrontate successivamente.
82 «Non è Adamo che spiega Cristo, ma Cristo che spiega Adamo. Perciò, solo per
mezzo di Cristo possiamo sapere che cos’è l’uomo» (L. LADARIA, «L’uomo alla luce di Cri-
sto nel Vaticano II», in Latourelle, Vaticano II, 943). «Quando il Signore ha pensato Ada-
mo, l’ha pensato in Cristo, lo ha pensato ad immagine di Cristo, ne ha fatto un essere vi-
vente ad immagine però della stessa vita che è Cristo Gesù. Se Adamo è solo figura di Cri-
sto, significa che non è lui la realtà né di se stesso, né di un altro suo discendente. Significa
che la realtà di sé e di ogni altro suo figlio è Cristo Gesù. Cristo Gesù è la realtà di ogni uo-
mo, compreso Adamo. Chi si vuole costruire, edificare, chi vuole divenire se stesso, deve
uscire dalla figura, entrare nella realtà, farsi a totale immagine della realtà. La realtà vera è
Cristo. Ma è Cristo crocifisso e risorto. Cristo crocifisso e risorto è l’immagine vera, unica,
la sola, che consente all’uomo di uscire dalla sua inconsistenza di figura per divenire realtà
nuova, perfetta, compimento pieno della sua umanità. Questo è un cammino che deve ac-
compagnare l’uomo per tutto il corso della sua vita. Questo cammino di avvicinamento a
Cristo si compirà il giorno della risurrezione gloriosa. Fino a quel giorno l’uomo non sarà,
96 Antropologia di comunione
veramente tale non può prescindere dal riferirsi a Colui che, quale Uomo
nuovo, è la verità dell’uomo. Allo stesso modo, il singolo uomo non può
realizzare la sua umanità che nell’umanità di Cristo83.
Si può dunque osservare che se il documento, nella sua prospettiva pa-
storale e nel suo tentativo di dialogo con tutti gli uomini, aveva affrontato il
tema della dignità della persona umana sulla base di un’idea comune di
«umanità», alla fine esso stesso conduce ogni uomo a riflettere che un’idea
comune di «umanità» non può attingere alla profondità dell’essere uomo
se non è radicata nel mistero di Cristo. Non si può partire da un’idea di
umanità già completa per poi mostrarne il riferimento a Cristo, perché è
proprio il riferimento a Cristo che dice «l’umanità» nel suo senso più
profondo84.
Egli è «l’immagine dell’invisibile Dio» (Col 1,15). Egli è l’uomo perfetto, che
ha restituito ai figli d’Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito
agli inizi a causa del peccato. Poiché in lui la natura umana è stata assunta,
senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche in noi in-
nalzata a una dignità sublime. Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in
certo modo a ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con men-
te d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Na-
scendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a
noi fuorché nel peccato.
né potrà dirsi compiuto» (C. DI BRUNO, Cristo, Vangelo di Dio. Origine, causa e frutti della
giustificazione secondo la Lettera di San Paolo Apostolo ai Romani, in
www.movimentoapostolico.it/romani/testi/capitoli/romani5.htm dell’08.05.2006).
83 «Il Concilio parla dell’uomo alla luce di Cristo, non semplicemente perché in Cristo
tutto viene illuminato ma perché nel Figlio incarnato si scopre in ultima analisi chi è e a che
cosa è chiamato l’essere umano; non si tratta di una luce che viene dal di fuori, ma della
stessa realtà della vita di Cristo» (L. LADARIA, «L’uomo alla luce di Cristo», 943).
84 «L’intenzione di perseguire un dialogo con i non credenti sulla base dell’idea di “hu-
manitas”, culmina qui nello sforzo di interpretare l’essere umano cristologicamente e così di
raggiungere la “resolutio in theologiam” che, certamente, significa anche “resolutio in ho-
minem” (purché il significato di “homo” sia inteso in senso sufficientemente profondo).
La dignità della persona umana 97
Possiamo forse lecitamente dire che qui per la prima volta in un documento ufficiale del
magistero, appare un nuovo tipo di teologia completamente cristocentrica. Sul fondamento
di Cristo con ciò si ardisce di presentare la teologia come antropologia, ed essa diviene radi-
calmente teologica solo includendo l’uomo nel discorso su Dio per mezzo di Cristo, manife-
stando così la più profonda unità della teologia» (J. RATZINGER, «The Dignity of the Hu-
man Person», 159 [TdA]).
85 Nel «Testo di Ariccia» si diceva che la somiglianza divina è stata «oscurata fin dal
primo peccato» (T.IV, 20,2: AS IV/I, 448 [TdA]). Il «Textus recognitus» sostituisce «oscu-
rata» («obnubilatam») con «deformata» («deformatam») (cfr. T.V, 22,2: AS IV/VI, 440). La
modifica è ovviamente una precisazione teologica, in quanto l’effetto del peccato è tale da
incidere realmente sull’essere dell’uomo, deformando, non semplicemente oscurando, la so-
miglianza divina.
86 Cristo può restituire all’uomo l’essere creato ad immagine e somiglianza di Dio in
quanto è lui stesso l’immagine di Dio e l’uomo perfetto. La richiesta di un Padre, respinta
dalla Commissione, di scrivere «Colui che, in quanto Dio, è “immagine del Dio invisibile”
(Col 1,15), Egli stesso è anche come uomo perfetto…» (cfr. «Expensio modorum ad num.
98 Antropologia di comunione
22»: AS IV/VII, 404 [TdA]) avrebbe impedito questo passaggio. Se infatti Cristo fosse im-
magine di Dio solo in quanto Dio e non anche in quanto uomo perfetto, non potrebbe «re-
stituire» all’uomo la vera immagine di Dio, non potrebbe riportare l’immagine di Dio nel
suo essere uomo.
87 In una conferenza su «L’antropologia teologica della “Gaudium et Spes”» citata te-
stualmente da G. Salvini, W. Kasper ha offerto una puntuale interpretazione del rapporto
tra cristologia e antropologia, imperniato sul concetto di «immagine di Dio»: nella costitu-
zione pastorale, l’«idea di fondo dell’unità salvifica della creazione e della redenzione fa sì
che, anche se il punto di partenza è l’antropologia, il criterio di misura e l’orizzonte di com-
prensione di tutte le affermazioni antropologiche sia costituito dalla cristologia… È il con-
cetto di “immagine di Dio”, con la teologia ad esso relativa, che costituisce la cerniera tra
antropologia e cristologia» (G. SALVINI, «A 30 anni», 379-380).
88 Su Col 1,15-20, cfr. E. KÄSEMANN, «Eine urchristliche Taufliturgie», in Exegetische
Versuche und Besinnungen, Göttingen 1964, 34-51; A. FEUILLET, «L’hymne christologique
de l’épître aux Colossiens», in Le Christ sagesse de Dieu d’après les épîtres pauliniennes, Pa-
ris 1966,163-273; N. KEHL, Der Christushymnus im Kolosserbrief. Eine motivgeschichtliche
Untersuchung, Stuttgart 1967; J. FITZMEYER, «La lettera ai Colossesi», in Grande commenta-
rio biblico, Brescia 1973, 1262-1270; J. ALETTI, Colossiens 1,15-20, Roma 1981; A. GRILL-
MEIER, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, I, Brescia 1982, 137-167.
La dignità della persona umana 99
Tuttavia nel Vangelo, Cristo si rivela come Figlio Unigenito del Padre
mostrando innanzitutto la sua comunione col Padre: l’unicità della sua re-
lazione con Dio conduce poi all’affermazione dogmatica dell’unità di na-
tura. Di conseguenza, il concetto cristologico di immagine, per essere com-
preso nella sua pienezza neotestamentaria, deve essere considerato nella
sua dimensione evangelica, fondata sull’unità di natura e sulla comunione
delle persone divine, sulle relazioni intratrinitarie rese visibili dalla parola,
dalle opere, dalla preghiera, dal mistero pasquale di Cristo89.
Il Vangelo mostra nella storia il legame eterno di Cristo col Padre (cfr.
Gv 14,9-11): Cristo è la manifestazione del Padre perché nella carne ren-
de visibile quel legame eterno di comunione che lo unisce al Padre. Que-
sta relazione tra le Persone nella Trinità (cfr. anche Gv 10,30 e 17,21), che,
rivelata nel Vangelo, ha dato il via alla formulazione dei concetti di perico-
resi o circuminsessio sia nella tradizione patristica90 che nella teologia suc-
cessiva91, è ciò che veramente consente di vedere il Padre nella persona di
Cristo.
ni in confronto al loro equivalente greco: «Nella diversa traduzione si esprime ancora una
volta la diversità tra impostazione greca e impostazione latina, ma anche fra due diverse
correnti presenti nella stessa dottrina trinitaria latina. I greci partono dalle ipostasi e inten-
dono la pericoresi come compenetrazione attiva, come il vincolo che unisce la persona. I
teologi latini, invece, partono in genere dall’unità della sostanza e vedono la pericoresi più
come un’interconnessione fondata sull’unica sostanza. Qui la pericoresi non è più il moto,
ma piuttosto la quiete in Dio. Tommaso cerca una sintesi e fonda la pericoresi sia sull’unica
unità sostanziale come pure sulle relazioni e rapporti originari» (W. KASPER, Il Dio di Gesù
Cristo, 378-379).
92 «Venendo da una comunione (quella tra il Figlio e il Padre nella vita trinitaria), pro-
cedendo verso una comunione (quella tra l’uomo e il Padre nella grazia glorificante), pas-
sando per una comunione (quella tra il Figlio e l’uomo in Cristo Gesù), “per mezzo della
sua comunione il Signore ha riconciliato l’uomo con Dio Padre, riconciliandoci con lui stes-
so mediante il suo corpo di carne e riscattandoci col suo sangue” (S. IRENEO DI LIONE, Adv.
Haer., V,14,3)» (J.M.R. TILLARD, «Il sottosuolo teologico della Costituzione: la Chiesa e i
valori terrestri», in BARAÚNA, La Chiesa nel mondo di oggi, 226).
93 «Alla luce di Col 3,10, sembra che Paolo si riferisca piuttosto a Cristo come nuovo
Adamo, capo della nuova creazione. Adamo era stato creato ad immagine di Dio (Gn 1,27)
e aveva ricevuto il mandato di regnare su tutta la terra (Gn 1,28). Il nuovo capo dell’uma-
nità riesce finalmente ad attuare tale mandato» (J. FITZMEYER, «La lettera ai Colossesi», in
Grande commentario biblico, Brescia 1973, 1266).
La dignità della persona umana 101
94 «Chi è allora Cristo Gesù? È l’immagine del Dio invisibile. L’immagine vera è il Fi-
glio. Gesù è vero Figlio di Dio. È generato prima di ogni creatura. Prima viene la generazio-
ne del Figlio, poi l’intera creazione. Dobbiamo però precisare che il prima non è temporale,
il prima è eterno. Cristo Gesù è generato nell’eternità. Il mondo ha iniziato ad esistere e con
la sua esistenza è iniziato il tempo, la storia. È iniziato il prima e il dopo, mentre nell’eternità
non c’è né prima e né dopo. Eternamente Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo. In questo atto
purissimo eterno Dio genera il Figlio, lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio. Non
c’è prima, non c’è dopo, c’è però generazione e processione, oggi, nell’eternità. L’uomo non
è immagine di Dio, perché non è suo Figlio per generazione eterna, da Dio, come luce da
luce, Dio vero da Dio vero, della stessa sostanza del Padre. La nostra è sostanza creata. Essa
non è generata. Neanche emana da Dio, come la luce dal sole. È stata fatta dal nulla. Di Cri-
sto invece niente di tutto questo. Egli è prima del tempo, è dall’eternità, da sempre; è da
sempre e per sempre. Questa la sua identità perenne, più che perenne; identità eterna. Cri-
sto non è creatura in quanto persona divina. È creatura perché tale è divenuto con la sua in-
carnazione nel seno della Vergine Maria» (C. DI BRUNO, Lettera ai Colossesi. Per mezzo di
Lui e in vista di Lui, in www.movimentoapostolico.it/colossesi/testi/capitoli/colosse1.htm
dell’08.05.2006, 39-40).
102 Antropologia di comunione
95 Il
«Testo di Ariccia» aveva: «Egli, con la sua incarnazione, si congiunse strettamente
(“coaluit”)...» (T.IV, 20,2: AS IV/I, 448 [TdA]). Il «Textus recognitus» sostituì «si congiun-
se» («coaluit») con «si unì» («se univit») (cfr. T.V, 22,2: AS IV/II, 440). «Il verbo “se univit”,
che fu scelto al posto del verbo “coaluit”, è più forte nel rendere l’idea dell’“unità” di Cristo
La dignità della persona umana 103
e della “solidarietà” con ogni persona umana, a causa dell’uso dell’avverbio “quodammodo”
[“in certo modo”, NdT], mentre il verbo intransitivo “coaluit” avrebbe indicato un’“unità”
o “solidarietà” puramente superficiali» (J. HAYUMA-MARTIN, «De Christo», 43 [TdA]).
96 Dichiarando che nel Verbo incarnato «la natura umana è stata assunta, senza per
questo venire annientata» («Natura umana assumpta, non perempta»), GS 22,3 racchiude
in nota una densa sintesi della fede della Chiesa secondo le voci dei primi concili ecumenici:
«In due nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili» (CONCILIO DI CALCE-
DONIA: COD 86); «Senza che il Verbo passasse nella natura della carne e senza che la carne
si trasformasse nella natura del Verbo» (II CONCILIO DI COSTANTINOPOLI, can. 7: COD
117); «Come, infatti, la sua carne tutta santa, immacolata e animata, sebbene deificata, non
è stata cancellata, ma è rimasta nel proprio stato e nel proprio modo di essere...» (III CON-
CILIO DI COSTANTINOPOLI: COD 128).
104 Antropologia di comunione
blime, allora, nell’unità di natura, ogni persona è «in certo modo» unita a
Cristo97.
La conseguenza evidenziata da GS 22,2 è che Cristo è in tutto simile a
noi: per aver assunto la natura umana, egli «Ha lavorato con mani d’uomo,
ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con
cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di
noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato».
Per sviluppare quanto il Concilio afferma, si può mostrare innanzi-
tutto che, in conseguenza del fatto stesso dell’incarnazione, esiste già
una comunione tra Cristo e l’uomo che si colloca sul piano dell’essere,
della natura. La carne che Cristo ha assunto è la carne di Adamo, la stes-
sa di ogni singola persona umana sulla terra. Tuttavia, la partecipazione
del Figlio di Dio alla natura umana non è alla maniera di ogni uomo: en-
trando nella natura umana, egli eleva la natura di cui partecipa. L’assun-
zione della carne di Adamo fa sì che il Figlio di Dio ne possa essere il Re-
dentore.
Unendosi alla natura umana, inoltre, il Figlio di Dio crea le condizioni
di possibilità del suo rivelarsi e donarsi alla persona umana, non solo alla
natura. Infatti, l’unità di Cristo con ogni uomo per assunzione della natura
umana è un’unità ancora incipiente, perché non coinvolge la responsabilità
e la libertà di ogni individuo nell’accogliere Colui che si fa uomo. Facen-
dosi uomo, però, il Figlio di Dio inizia la sua opera di rivelazione e di dono
di sé, rivolgendosi questa volta all’intimo di ogni coscienza. Nel momento
in cui ogni singola persona accoglie consapevolmente e liberamente il do-
no che le giunge da Cristo, la sua unità con lui diviene pienamente co-
munione. La comunione personale con Cristo consente a sua volta ad ogni
uomo di essere unito a Cristo stesso per natura, ma questa volta non solo
per la comune partecipazione alla natura umana, bensì per la partecipa-
zione della natura divina di cui il Figlio fa dono a colui la cui natura umana
egli ha assunto. Se il Figlio di Dio si è fatto partecipe della natura umana
assumendo la carne di Adamo, rendendo così possibile la redenzione og-
gettiva, ora ogni uomo può divenire partecipe della natura divina «assu-
mendo» la carne di Cristo, cioè divenendo membro del suo corpo, attuan-
do così la redenzione soggettiva.
Dall’assunzione dell’unica carne di Adamo da parte del Figlio, procede
così l’unità con ogni uomo; dall’unità segue la comunione del Figlio con la
97 Per questo motivo la natura umana in Cristo è «elevata» a dignità sublime e non solo
«chiamata», come chiedeva un Padre (cfr. «Expensio modorum ad n. 22»: AS IV/VII, 404):
l’elevazione della natura umana è già di fatto realizzata in Cristo, non è solo una vocazione.
La vocazione è piuttosto quella, rivolta ad ogni singolo uomo, di vivere in conformità a que-
sta nuova sublime dignità della natura umana e realizzare così il proprio essere personale.
La dignità della persona umana 105
persona umana che si lascia rinnovare dal suo dono; dalla comunione pro-
cede un’unità più profonda che è il risultato della comunione personale e
della partecipazione alla natura divina nell’unico corpo di Cristo
Nella comunione col Figlio può nascere poi la comunione più profon-
da degli uomini tra loro, che si ritrovano uniti non più dalla sola apparte-
nenza all’unica natura, bensì dalla comune appartenenza al corpo di Cri-
sto, che eleva il loro essere alla partecipazione della natura divina. Il corpo
di Cristo diviene così il fulcro della comunione del genere umano: è in co-
munione con gli altri uomini, ogni uomo che è in comunione con Cristo.
L’affermazione che «il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni
uomo» è dunque una verità che, per l’importanza dei suoi risvolti, è più di
ordine antropologico che cristologico: se infatti il Figlio di Dio si è unito in
certo modo ad ogni uomo, ciò è perché ogni uomo si unisca a lui e, nel suo
corpo, entri a far parte della più profonda comunione cristologica del ge-
nere umano. Si tratta di un principio fondamentale per un’antropologia di
comunione. La costitutiva dimensione comunionale dell’essere dell’uomo
comincia ad apparire come un dono cristologico. Negli sviluppi di questo
lavoro si avrà modo di approfondire questa prospettiva antropologica.
9.5 Il mistero di Cristo come verità del mistero dell’uomo: il mistero pa-
squale (GS 22,3)
nella quale era stato creato. La morte è il non poter più tornare a quella
condizione di comunione con Dio nella quale l’uomo era stato posto.
La vita meritata per noi dall’Agnello innocente è dunque innanzitutto
la ricomposizione del legame vitale di comunione tra l’uomo e Dio. La vita
è nella riconciliazione con Dio.
La riconciliazione stessa, indicata come merito di Cristo per noi, è così
una condizione dell’uomo nuovo in quanto tale. Non è dato prima l’essere
nuovo e poi come conseguenza la riconciliazione con Dio, ma è dato l’esse-
re nuovo nella riconciliazione, nel dono della vita. In termini negativi, co-
me conseguenza, la riconciliazione è affrancamento dalla schiavitù del pec-
cato e della morte.
Il peccato è dunque mostrato dal testo nella sua potenza distruttrice
dell’umanità. Non è solo questione giuridica, problema di imputabilità di
colpa all’essere creato da Dio, ma realtà che disgrega l’essere creato in se
stesso, in quanto lo priva della piena comunione con Dio che è la fonte
stessa della sua vita.
Nel suo sacrificio, prosegue GS 22,3, Cristo non ci ha dato solo l’esem-
pio, ma ci ha aperto la strada. Viene poi espressa una conseguenza in ter-
mini di condizione: se seguiamo la strada, la vita e la morte vengono santifi-
cate e acquistano pieno significato.
«Vita e morte» indicano la condizione umana nella sua totalità; la santi-
ficazione è dunque la pienezza della realtà umana, il pieno conseguimento
da parte dell’uomo di quanto gli è meritato da Cristo. Essa è raggiunta se-
guendo la strada aperta da Cristo.
L’esito decisivo di questo paragrafo è dunque l’aver proposto all’uomo
il ripercorrere tutto il processo cristico come via del proprio affrancamento
dalla morte e della propria immissione nella vita meritata dall’Agnello. La
strada da seguire per la santificazione, infatti, è, come indica GS 22,3, la
stessa percorsa da Cristo. Ciò significa che il processo compiuto da Cristo
(obbedienza, amore, sacrificio, vita nuova), in Cristo può e deve essere per-
corso dall’uomo, perché abbia la vita.
Il cristiano, poi, reso conforme all’immagine del Figlio che è il primogenito tra
molti fratelli, riceve «le primizie dello Spirito» (Rm 8,23), per cui diventa ca-
pace di adempiere la legge nuova dell’amore. In virtù di questo Spirito, che è
la «caparra della eredità» (Ef 1,14), tutto l’uomo viene interiormente rifatto,
fino al traguardo della «redenzione del corpo» (Rm 8,23): «Se in voi dimora lo
Spirito di colui che resuscitò Gesù da morte, egli che ha risuscitato Gesù Cri-
sto da morte darà vita anche ai vostri corpi mortali, a motivo del suo Spirito
che abita in voi» (Rm 8,11). Il cristiano certamente è assillato dalla necessità e
dal dovere di combattere contro il male attraverso molte tribolazioni, e di su-
108 Antropologia di comunione
bire la morte; ma, associato al mistero pasquale e assimilato alla morte di Cri-
sto, andrà incontro alla risurrezione confortato dalla speranza.
98 «Infatti, per virtù dello Spirito Santo, il mistero della redenzione rimane per sempre
vivo ed efficace nei secoli, fino alla venuta del Signore» (T.IV, 20: AS IV/I, 449 [TdA]).
La dignità della persona umana 109
199 Trova qui la sua giustificazione l’affermazione che sarà enunciata in GS 41: «Chiun-
que segue Cristo, l’uomo perfetto, si fa lui pure più uomo». A sua volta questa affermazione
completa l’argomentazione di GS 22,4 ora in esame.
100 «Il quarto paragrafo, dal nostro punto di vista, è di particolare importanza: deve es-
sere messo in rapporto al secondo, in cui si parlava di Cristo immagine di Dio e della restau-
razione per mezzo di lui della somiglianza divina deformata. Qui ci viene detto con chiarez-
za che il cristiano diviene conforme a Cristo, a sua immagine. Il tema dell’immagine appare
adesso nella sua interpretazione neotestamentaria con esplicito riferimento a Cristo. Il Con-
cilio fa allusione in nota a Rm 8,29 e a Col 3,10-14, ma si fa sentire la mancanza di un riferi-
mento a 1Cor 15,45-49, che forse avrebbe potuto aiutare a mettere in relazione la protolo-
gia con l’escatologia» (L. LADARIA, «L’uomo alla luce di Cristo», 945).
101 GS 22,4, attraverso la nota 27, rimanda a Rm 8,29 e Col 1,18 per fondare e spiegare
l’uso delle espressioni «conforme» a Cristo e «primogenito tra molti fratelli».
110 Antropologia di comunione
102 La citazione, nel testo di GS 22, di Rm 8,11 è stata estesa alle parole «a motivo del
suo Spirito che abita in voi» dal «Textus denuo recognitus» (cfr. T.VI, 22: AS IV/VII, 249),
proprio per rafforzare il riferimento allo Spirito Santo nella realizzazione dell’uomo nuovo
in Cristo: per lo Spirito che abita in lui, il cristiano è associato al mistero della risurrezione
di Cristo e può quindi vivere secondo lo Spirito.
La dignità della persona umana 111
nello Spirito, le facoltà umane, che sono sempre facoltà della persona uma-
na, acquistano la capacità, da attuare per santificazione, di governo e di do-
minio su ciò che nell’uomo è carne. Nel dominio e nell’uso della carne (in-
tesa nel senso impiegato da S. Paolo nella lettera ai Romani) l’uomo riflette
la signoria e la libertà di Dio.
Reso creatura nuova, guidato come Cristo dallo Spirito (cfr. Mt 4,1; Mt
12,18.28; Lc 4,14.18; 10,21), l’uomo ottiene la chiarezza della volontà di
Dio e la forza per attuarla, ricevendo così la capacità di mostrare Dio, di es-
sere pienamente a sua immagine, non solo nel suo essere personale, ma nel-
lo svolgimento santo della sua vita terrena. In riferimento all’immagine di
Dio, la grande opera compiuta dallo Spirito è nell’aver fatto non solo l’es-
sere dell’uomo, ma la sua stessa esistenza, nella santità e libertà dell’intelli-
genza, della volontà e dell’amore, una manifestazione della vita divina.
In conclusione, quindi, al cristiano è aperta la strada della pienezza an-
tropologica perché riceve la conformazione a Cristo in forza dello Spirito
che abita in lui.
A questo punto GS 22 allarga il suo orizzonte. Se nel cristiano si attua
la risposta cristica alla domanda «che cosa è l’uomo?», che cosa dire, a tal
proposito, di tutti gli uomini? Quale possibilità è data ad ogni uomo di
conseguire in Cristo la propria pienezza? C’è differenza tra il cristiano e
ogni altro uomo in ordine alla possibilità di essere pienamente uomo?
E ciò non vale solamente per i cristiani ma anche per tutti gli uomini di buona
volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto
per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divi-
na, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di ve-
nire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale.
morto per tutti, allora è da ritenere che ogni uomo abbia la possibilità di
venire in contatto col mistero pasquale106.
Quindi, su questa base, non può essere precisato niente circa il conse-
guimento della pienezza antropologica in Cristo da parte di tutti gli uomini
di buona volontà. Di essi si può dire solo che sono chiamati alla vocazione
divina, che è unica per ogni uomo, e che quindi, venendo associati nel mo-
do che Dio conosce al mistero pasquale, possono accogliere la salvezza.
Ma essere nella salvezza non significa ancora essere nella «cristifor-
mità» già attualmente e pienamente conseguita. È la pienezza dei mezzi sal-
vifici che offre la possibilità di conseguire anche la piena conformità a Cri-
sto; si può affermare che questa pienezza è resa disponibile al cristiano,
perché se ne conosce la via (cfr. GS 22,4), ma non si hanno gli elementi per
riferire lo stesso argomento agli altri uomini di buona volontà.
La semplice affermazione che ogni uomo può essere associato al miste-
ro pasquale di Cristo non ha quindi lo stesso peso e la stessa chiarezza di
quanto GS 22,4 ha affermato direttamente a proposito del cristiano. Le af-
fermazioni su tutti gli uomini di buona volontà hanno solo una valenza so-
teriologica. Il paragrafo dedicato al cristiano, invece (GS 22,4), ha pro-
fonde implicazioni antropologiche, dona un forte contributo alla risposta
al quesito «che cos’è l’uomo?».
A commento di GS 22,4-5, si può approfondire in chiave antropologica
una fondamentale affermazione soteriologica asseverata dalla dichiara-
zione Dominus Iesus della Congregazione per la Dottrina della Fede: «Se è
vero che i seguaci della altre religioni possono ricevere la grazia divina, è
pure certo che oggettivamente essi si trovano in una situazione gravemente
deficitaria se paragonata a quella di coloro che, nella Chiesa, hanno la pie-
nezza dei mezzi salvifici»107. Nella Chiesa è a disposizione la pienezza dei
mezzi salvifici. Sia il testo conciliare che la Dominus Iesus ribadiscono tut-
tavia la possibilità della salvezza offerta ad ogni uomo di buona volontà.
106 Questa argomentazione tende a sottolineare che la salvezza di ogni uomo è prima-
riamente un’opera divina. Per questo, nell’affermare la possibilità per ogni uomo di venire
in contatto col mistero pasquale, la forma verbale attiva «si uniscono» («se consocient»),
utilizzata dal «Testo di Ariccia» (cfr. T.IV, 20: AS IV/I, 449) e dal «Textus recognitus» (cfr.
T.V, 22: AS IV/VI, 441), fu poi cambiata nel passivo «sono associati» («consocientur»; cfr.
T.VI, 22: AS IV/VII, 249), visto che «se non conoscono Cristo, non possono attivamente as-
sociarsi a Lui. È ben possibile, invece, che in modo invisibile siano da Lui associati al miste-
ro pasquale» (T.VI, «Relatio ad num. 22»: AS IV/VII, 406 [TdA]).
107 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione Dominus Iesus, 22:
EV 19,1195. Si tratta di un’affermazione che riprende testualmente una precisa indicazione
programmatica affidata alla Congregazione dallo stesso Giovanni Paolo II (cfr. GIOVANNI
PAOLO II, Discorso ai partecipanti, 4). Cfr. anche GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Re-
demptoris Missio, 7.12.1990, 55: EV 12,657; COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Il
cristianesimo e le religioni, Città del Vaticano 1996, 85: EV 15,1074.
114 Antropologia di comunione
108 «La
Chiesa infatti, guidata dalla carità e dal rispetto della libertà, dev’essere impe-
gnata primariamente ad annunciare a tutti gli uomini la verità, definitivamente rivelata dal
La dignità della persona umana 115
Tale e così grande è il mistero dell’uomo, che chiaro si rivela agli occhi dei cre-
denti, attraverso la rivelazione cristiana. Per Cristo e in Cristo riceve luce quel-
l’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo Vangelo ci opprime.
Cristo è risorto, distruggendo la morte con la sua morte, e ci ha donato la vita,
affinché, figli nel Figlio, esclamiamo nello Spirito: Abba, Padre110!
[TdA]). Dal «Textus denuo recognitus», invece, l’opera della redenzione è più chiaramente
incentrata nella risurrezione di Cristo: «Cristo è risorto, distruggendo la morte con la sua
morte...» (T.VI, 22: AS IV/VII, 451 [TdA]).
111 «In questo testo, di chiara ispirazione paolina, (cfr. Rm 8,15; Gal, 4,6) appare con
chiarezza la dimensione trinitaria della nostra salvezza. L’uomo raggiunge la sua pienezza
quando, in virtù dell’azione dello Spirito Santo, è figlio nel Figlio e partecipa alla relazione
unica che Gesù ha con il Padre. Questa salvezza ha un aspetto comunitario che il Concilio,
continuando, evidenzierà nel cap. II» (L. LADARIA, «L’uomo alla luce di Cristo», 945).
112 In riferimento a GS 22,6 quale conclusione dell’intero capitolo I, C. Aparicio Valls
annota che «l’intenzione del Concilio in questo capitolo è quella di offrire fondamenti validi
per gli altri capitoli della Costituzione. Si presenta un’antropologia eminentemente biblica
che parte dalla Rivelazione. Non dimentica che i destinatari sono tutti gli uomini di buona
volontà e pertanto presenta solo quegli aspetti che sono accettabili da tutti o che possono il-
La dignità della persona umana 117
luminare tutti. Questo spiega, tra l’altro, l’assenza della teologia trinitaria e di un maggiore
approfondimento dell’escatologia, aspetto che in qualche modo ritorna alla fine del capito-
lo. Il capitolo offre una visione cristiana dell’uomo che scaturisce dalla verità rivelata, con
una prospettiva storica, insistendo sulla dignità dell’essere umano in quanto creato a imma-
gine di Dio e chiamato a cooperare con il Creatore. È a questo punto che appare la dram-
matica dialettica in cui l’uomo vive e si offrono risposte a tali interrogativi alla luce della Ri-
velazione» (C. APARICIO VALLS, La Plenitud del Ser Humano en Cristo. La Revelación en la
«Gaudium et Spes», Tesi Gregoriana. Serie Teologia, 17, Roma 1997, 120-121 [TdA]).
Capitolo terzo
1.1 La dimensione sociale e comunitaria della vita umana nella fase pre-
paratoria
Occorre ricordare che, quando il testo sulla Chiesa nel mondo contem-
poraneo era già da tempo argomento di discussione in sede conciliare, il suo
oggetto non era ancora ben precisato e delimitato. È facile intuire dunque che
la fase preparatoria non avesse consegnato ai lavori conciliari un progetto ben
chiaro e definito circa i contenuti da trattare e le finalità da perseguire.
Nei discorsi preconciliari di Papa Giovanni XXIII si rinvengono alcu-
ne indicazioni sul futuro lavoro del Concilio in merito alla condizione so-
ciale dell’uomo contemporaneo:
120 Antropologia di comunione
1
GIOVANNI XXIII, Allocuzione ai membri delle commissioni preparatorie, 14.11.1960:
DC 57 (1960) 1484.
2 Cfr. GIOVANNI XXIII, Ecclesia Christi Lumen Gentium, 11.09.1962: DC 59 (1962)
1217-1222.
La comunità degli uomini 121
Il Santo Concilio insegna che l’uomo, essendo fatto ad immagine di Dio, sotto
Dio, è e deve essere il fondamento, il fine e il soggetto di tutta la vita sociale,
poiché la persona, creatura costituita di spirito e corpo, dotata di intelletto e
volontà, è direttamente ordinata a Dio come fine ultimo e dopo la caduta è re-
denta da Cristo Verbo di Dio Incarnato. È infatti fondamento, perché la vita
sociale scaturisce intrinsecamente dalla natura razionale dell’uomo; è fine,
perché la vita sociale, per sua natura, tende alla pienezza dell’uomo e per que-
sto ad essa è ordinata [...]; è soggetto, perché in tutti i campi della vita sociale
e nelle attività l’uomo si manifesta sempre come persona e come tale deve es-
sere riconosciuto3.
Secondo la testimonianza delle Sacre Scritture, Dio, Creatore di tutti, per por-
tare a compimento la sua opera intrapresa, formò l’uomo a sua immagine (Gn
1,26-27). Dopo di ciò dalla prima unione dell’uomo e della donna ebbero ori-
gine tutti gli altri, che furono distinti nelle varie tribù e nazioni e disseminati
per le diverse regioni del mondo. Quindi, il genere umano, per la sua comune
origine dal Creatore, deve essere preso e considerato come unitario, secondo
queste parole: «Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce
per mezzo di tutte le cose ed è presente in tutti noi» (Ef 4,6). Anche la ragione
umana insegna questa stessa unità, poiché tutti sono per natura una cosa sola;
una cosa sola per il compito da svolgere in questa vita mortale; una cosa sola
per la stessa abitazione, vale a dire l’universo; una cosa sola per i beni della na-
tura, dei quali tutti possono fruire per diritto naturale; una cosa sola infine per
3 DOS 1.
4 «Qui la persona umana così definita è il fondamento e il fine di ogni vita comune nel-
la società; nella Costituzione pastorale, invece, essa è considerata come la base del dialogo
tra la Chiesa e il mondo» (R.A. SIGMOND, «Unterlagen zur Geschichte der pastoralen Kon-
stitution über die Kirche in der Welt von heute», IDOC.B 66/2 [1966], 5 [TdA]).
122 Antropologia di comunione
il fine ultimo, Dio stesso, a cui tutti devono tendere con forza. Questa unità
della famiglia umana è rafforzata nell’immagine eterna dell’Altissimo, il Figlio
di Dio, nel quale «tutte le cose sono state create» (Col 1,16) ed è stata sigillata
nella Redenzione, i cui benefici Cristo Signore ha donato largamente a tutti5.
1.2 La dimensione sociale e comunitaria della vita umana nei lavori con-
ciliari prima della discussione in aula
Sebbene i due schemi preparatori DOS e DCG non siano altro che un
fugace riferimento ad alcuni problemi sociali, il primo progetto di docu-
mento elaborato nella fase conciliare mostrava una più esplicita sistema-
zione della questione sociale e dei problemi attuali più urgenti attorno al
valore fondamentale della dignità della persona umana.
5 DCG 1.
6 È in questo senso che, secondo R.A. Sigmond, il quale ebbe parte attiva nella redazio-
ne della GS, questo schema servì da base a tutti i capitoli che si trovano, sotto un titolo ana-
logo, negli schemi successivi (cfr. R.A. SIGMOND, «Unterlagen», 6).
La comunità degli uomini 123
1.3 La dimensione sociale e comunitaria della vita umana nel corso della
discussione in aula conciliare
Siamo tutti chiamati a formare in Cristo una sola famiglia dei figli di Dio, che
accolga nello stesso amore tutti gli uomini di qualsiasi stirpe o lingua, popolo
o condizione. Egli infatti è venuto per riunire in unità tutti i liberati dalla mise-
ria del peccato e dalla discordia, e per guidarli con il suo comandamento di
amore, di unità e di pace10.
Non si può dunque affermare che questo schema tragga spunto da un’an-
tropologia individualistica. Il suo proemio è la sintesi di una visione dell’uo-
mo che riconosce l’essenzialità della dimensione comunionale sia nella crea-
zione, sia nella redenzione in Cristo, sia nel suo compimento escatologico.
Il primo capitolo11, che intende esporre la visione cristiana della per-
sona umana come base dell’intero documento, propone un’antropologia
cristica, ma senza espliciti riferimenti al tema della dimensione comunio-
nale, se non la riaffermazione della vocazione universale a costituire un’u-
nica famiglia di Dio12.
Perché dunque il «Testo di Zurigo» non ha sviluppato nella sua parte dot-
trinale il tema antropologico della comunione, così ben delineato in apertura?
Si deve ricordare, a tal proposito, quali erano stati i criteri della rifusio-
ne del testo precedente, quello di Malines, per comporre il «Testo di Zuri-
go». Si rimproverava al «Testo di Malines» di essere troppo dottrinale, po-
co attento alle grandi problematiche contemporanee circa le quali la Chie-
13 Fra tutti gli interventi che si susseguirono dopo la presentazione in aula del «Testo di
Zurigo», tra la 105a e la 119a Congregazione generale (20 ottobre – 10 novembre 1964), al-
cuni sono da sottolineare perché particolarmente significativi circa la tematica della dimen-
sione sociale dell’uomo o perché si riferiscono ai fondamenti di tale dimensione più che a
singoli aspetti o problemi da trattare.
Il Card. A. Bea chiese che tra i punti da chiarire e da ribadire ci fosse l’esplicita affermazio-
ne del dominio universale di Cristo su tutta la creazione e sulla vita sociale ed economica (cfr.
AS III/V, 273). Il Patriarca maronita P. Meouchi lamentò un accentuato individualismo del te-
sto (cfr. AS III/V, 278). A. Mathias sostenne la necessità che il documento potesse rappresenta-
re un vero testo classico della visione cattolica del mondo e dell’unità, della fraternità e dell’u-
guaglianza di tutti gli uomini, figli di uno stesso Dio e redenti dallo stesso Cristo (cfr. AS III/V,
281). R. Tchidimbo lamentò tout court che lo schema non considerava l’uomo nell’ambito del-
la collettività (cfr. AS III/V, 369). F. Romero Menjíbar suggerì dei principi come base dell’intero
schema, tra cui il primo consisteva nella precisazione della Chiesa nella sua stessa natura di co-
munità di salvezza incarnata nel mondo, cioè negli uomini: da qui la possibilità e il dovere di
dialogare col mondo (cfr. AS III/V, 409). A. Hacault chiese si rimarcasse che la Chiesa cerca al-
la luce del Vangelo le soluzioni tecniche possibili, perché fa parte della sua stessa essenza la co-
munione con tutti gli uomini (cfr. AS III/V, 540-541). Il Card. A. Caggiano propose di dedicare
un paragrafo alla «comunione fraterna», da fondarsi sulla giustizia, sulla carità e sullo spirito di
povertà (cfr. AS III/V, 563-565). M. Pourchet, proponendo di riarticolare l’intera parte dottri-
nale, suggeriva che il primo punto da sviluppare fosse la solidarietà fra la Chiesa e tutta la fami-
glia umana, fondata sull’incarnazione (cfr. AS III/V, 594). G. Béjot sottolineò come la dignità
della persona umana dovesse apparire alla luce di Cristo, perché solo alla luce di Cristo può ri-
sultare chiara l’autentica natura umana con tutte le dimensioni della sua dignità individuale e
sociale (cfr. AS III/V, 717).
14 «Quando degli oratori insistevano in gran numero sulla necessità di esporre le gran-
di linee di un’antropologia cristiana adatta ai tempi moderni, essi riscontravano un favore
La comunità degli uomini 127
generale. Non basta, osservavano diversi Padri, trattare dei problemi con i quali l’uomo si
confronta, bisogna chiarire il mistero dell’uomo…» (P. HAUBTMANN, «La communauté hu-
maine», in L’Église dans le monde de ce temps. Constitution Pastorale “Gaudium et Spes”.
Texte conciliaire. Introduction. Commentaires, Paris 1968, 260 [TdA]).
15 Cfr. la sintesi dei temi più discussi in aula nel dibattito di ottobre-novembre 1964,
proposta da C. MOELLER, L’élaboration du Schéma XIII, 97-101. Moeller osserva tra l’altro
che «i dibattiti generali furono molto seri, ma dispersivi» (Ibid., 97 [TdA]).
16 Secondo O. Semmelroth, dal punto di vista dottrinale, furono queste le principali
novità del capitolo su «La comunità degli uomini» del «Testo di Ariccia» rispetto al testo
precedente: «Qui si trovò anche lo spazio per una più seria trattazione del peccato e dei
suoi effetti sulla vita sociale umana e, in rapporto con ciò, per il valore della croce di Cristo
in ordine alla guarigione della società. Era stato anche espresso il desiderio che il carattere
sociale della vita umana fosse fondato su un riferimento biblico alla creazione. Fu inserito
inoltre un accorto collegamento della vita sociale umana con la comunità delle tre persone
della Trinità, non certamente come un oggetto di fede, ma di dottrina cattolica. Infine, fu
128 Antropologia di comunione
messo in luce più chiaramente il nesso fra la struttura della società e il benessere delle per-
sone stesse» (O. SEMMELROTH, «The Community of Mankind», in VORGRIMLER, Commen-
tary, 164 [TdA]).
17 G. GARRONE, «Relatio generalis»: AS IV/I, 524.
18 G. CAPRILE, Il Concilio Vaticano II. Cronache del Concilio Vaticano II, edite da La Ci-
viltà Cattolica, V, Roma 1969, 68.
19 Ciò non significa tuttavia che l’antropologia in quanto tale rimanesse sempre l’ogget-
to diretto di tutta la discussione e di tutta l’attenzione degli Oratori. La lettura degli Acta
Synodalia mostra al contrario che la maggior parte degli interventi fu focalizzata attorno a
temi sociali di particolare urgenza o attualità, fermo restando il fatto che l’impostazione an-
tropologica data all’intero documento consentiva di fondare gli argomenti specifici trattati
su un chiaro riferimento comune: la visione cristiana dell’uomo.
Durante la discussione in aula, comunque, non mancarono degli interventi tali da en-
trare nel merito dei fondamenti antropologici del documento e della dimensione comunio-
nale dell’essere dell’uomo, anche con accenti critici. Primo fra tutti, il Card. J. Döpfner,
parlando a nome di 91 Padri di lingua tedesca e scandinavi, rimarcò la necessità di esporre
più adeguatamente l’antropologia cristiana, «che qui è attesa come fondamento di tutto lo
schema» (AS IV/II, 33 [TdA]). E. Schick, sostenendo che l’antropologia cristiana proposta
dallo schema appare oggettivamente carente, proponeva una fondazione più marcatamente
biblica della dottrina conciliare sull’uomo, accentuando la dimensione comunitaria dell’uo-
mo creato ad immagine di Dio secondo il libro della Genesi (cfr. AS IV/II, 636-639).
20 T.IV, 11: AS IV/I, 443.
La comunità degli uomini 129
L’uomo, mentre si eleva sulla realtà materiale, è simile a ogni uomo, e senza re-
lazioni con gli altri non può né vivere né impiegare le sue doti; cosicché la vita
sociale non è un peso a lui sovraggiunto accidentalmente, ma è necessaria con-
seguenza della sua natura più profonda: la relazione con i compiti reciproci
degli altri, il colloquio con i fratelli eleva l’uomo, in quanto può corrispondere
a tutte le sue capacità e alla sua vocazione24 [...]. La persona umana, dunque,
essendo creata ad immagine di Dio uno e trino, come può non avere in sé
un’impronta di Lui25? E infatti, se l’uomo è in terra la sola creatura che Dio
abbia voluto per se stessa, egli pure da se stesso si rapporta agli altri, cosicché
è solo donandosi che può trovare se stesso26.
tavia i nn. 35-36 condensano in poche battute tutto il significato della so-
cietà umana e della comunità ecclesiale nel piano salvifico di Dio29.
In questi due numeri, la vita sociale umana è dichiaratamente e diretta-
mente letta alla luce della rivelazione, secondo cui
Dio, che ha cura paterna di tutti, ha voluto che gli uomini formassero una sola
famiglia e si trattassero tra loro con animo di fratelli. Tutti infatti sono creati
ad immagine di Dio, e nati da un unico principio, sono chiamati a un solo e
medesimo fine, partecipando fin d’ora alla vita della Ss. Trinità e ricevendo da
Essa le forze per la salvezza comune30.
matica Lumen Gentium e nel Decreto sul compito pastorale dei Vescovi nella Chiesa, così co-
me nel Decreto sull’apostolato dei laici. In caso contrario si manifesterebbe un certo regres-
so, rispetto all’antropolgia esposta nei suddetti documenti conciliari» (AS IV/II, 911
[TdA]). In un documento annesso a queste «osservazioni», gli stessi Padri suggerivano, a
proposito del capitolo sulla vocazione della persona umana, «che il testo reimpostato bibli-
camente si ripartisse in tre sezioni: 1) l’uomo quale è uscito dalle mani di Dio, con i suoi do-
ni meravigliosi; 2) l’uomo così come è stato reso dal peccato, senza senso e senza speranza;
3) l’uomo come è stato rigenerato da Cristo, nell’ordine e nell’intimità divina ritrovata» (AS
IV/II, 916 [TdA]). A proposito del capitolo sulla comunità degli uomini, «ciò che davvero
sorprende è che i “fondamenti teologici” tratti dalla Bibbia (nn. 35-36) arrivano alla fine di
queste indicazioni pratiche, mentre avrebbero dovuto aver posto con i “principi fondamen-
tali” e compenetrarli [...]. I fondamenti teologici (biblici) potrebbero essere sviluppati così:
1) Vocazione sociale dell’uomo: la salvezza biblica è collettiva. Dio sceglie un popolo per-
ché riceva e viva il suo messaggio. Gesù riprende e porta a compimento questo popolo in
un Popolo nuovo che è la Chiesa; 2) vocazione universale [...]; 3) uguaglianza di tutti gli uo-
mini in questa destinazione superiore [...]; 4) esercizio di questa solidarietà sociale, un tem-
po nel peccato e ora nella grazia [...]; 5) equilibrio tra i diritti/doveri dell’individuo e quelli
della società» (AS IV/II, 917-918 [TdA]).
29 I nn. 35-36 del T.IV (AS IV/I, 458-459) richiamano indirettamente l’esposizione più
estesa contenuta nei nn. 2-3 dell’annesso I del T.III (AS III/V, 147-149). La riduzione in sin-
tesi dell’esposizione teologica, come si è già mostrato, rispondeva alle intenzioni program-
matiche espressamente specificate per questo documento. Inoltre, la scelta di eliminare gli
allegati presenti nel T.III comportava la necessità di ridistribuire nel nuovo testo la materia
in essi contenuta, ma secondo i criteri propri del testo, non più degli allegati. Poiché il tema
dell’annesso I si ritrova nel capitolo II del T.IV, sia pur con le evidenti risistemazioni della
materia e dello stile, sapendo che l’estesa esposizione teologica dei nn. 2-3 dell’annesso non
poteva essere interamente conservata per la volontà di sintetizzare, allora è opportuno con-
frontare con questi paragrafi le succinte espressioni di T.IV, 35-36.
30 La fraternità universale degli uomini, che provengono da Dio quale unica origine, è
per alcuni Padri il principio da cui partire per parlare a tutti indistintamente. Così ad esem-
pio A. Fernandez: «Risulterebbe più chiaro, più approfondito e più valido insistere su quel
sommo principio e primo fondamento che deve istruire e dirigere tutte le coscienze degli
uomini e tutte le società del genere umano, ossia: che tutti gli uomini, di qualsiasi condizio-
ne, luogo e tempo e di tutte le nazioni, formano nel mondo una sola vera famiglia o società
universale. Questa universale società del genere umano o comunità naturale di tutti gli uo-
mini del mondo è dimostrata benissimo dall’unità originale della creazione proveniente da
132 Antropologia di comunione
I principi cardine sono dunque: l’unità della famiglia umana per la co-
mune origine da Dio e la comune vocazione alla vita divina; la comunità
come destinataria della rivelazione; la necessità della comunità in ordine al-
la salvezza; il fondamento cristologico della comunità umana, costituita
nella sua pienezza quale corpo di Cristo.
Questi principi rappresentano uno sviluppo chiarificatore delle inten-
zioni espresse fin dal proemio, già citato, del «Testo di Zurigo», ma non an-
cora sistematizzate. Ricordando che la «Relatio» presentata a margine del
capitolo II del «Testo di Ariccia» avvisava della volontà di puntualizzare le
dimensioni sociali dell’antropologia, la migliore definizione di questi prin-
cipi rispetto ai testi precedenti lascia intendere che proprio su di essi può
essere impostata un’antropologia cristiana della vita sociale.
L’acquisizione forse più significativa che emerge dalla definizione di
questi principi, è la finalità chiaramente salvifica ed escatologica della vita
sociale e della dimensione comunitaria dell’uomo. Pur puntando lo sguar-
do sulla situazione contemporanea della società umana e sui suoi problemi,
il testo induce a non arrestare ogni attenzione alla dimensione contingente.
Il motivo è proprio di natura antropologica. La verità dell’essere dell’uomo
non si risolve tra le coordinate spazio-temporali, per cui quando il Concilio
vuole parlare all’uomo dell’uomo sente il dovere di riferire ogni sua affer-
mazione al destino ultimo, alla sublime vocazione alla quale la creatura fat-
ta ad immagine di Dio è chiamata. Di conseguenza, la verità sulla socialità e
comunionalità umana deve essere rapportata a questa verità fondamentale
dell’essere dell’uomo. Emerge la funzionalità della dimensione comunio-
Dio, dalla medesima natura umana specifica e dall’unica comune finalità [...]. Tale unità di
tutto il genere umano in una sola famiglia e la fraternità che da essa scaturisce appaiono più
chiare, forti e sublimi dalla elevazione della natura umana all’ordine soprananturale in Cri-
sto Redentore» (AS IV/II, 498-499 [TdA]). S. Soares de Resende chiese addirittura che il
Concilio si potesse concludere con una definizione solenne della fraternità universale degli
uomini (cfr. AS IV/II, 645). La dichiarazione della fraternità umana come culmine del se-
condo capitolo fu richiesta per iscritto anche dal Card. Zoungrana (cfr. AS IV/II, 682).
31 T.IV, 35: AS IV/I, 458 (TdA).
32 T.IV, 36: AS IV/I, 458-459 (TdA).
La comunità degli uomini 133
Il moltiplicarsi dei mutui rapporti tra gli uomini costituisce uno degli aspetti
più importanti del mondo di oggi, al cui sviluppo molto conferisce il progresso
tecnico contemporaneo. Tuttavia il fraterno colloquio tra gli uomini non si
completa in tale progresso, ma più profondamente nella comunità delle perso-
ne che esige un reciproco rispetto della loro piena dignità spirituale. La rivela-
zione cristiana dà grande aiuto alla promozione di questa comunione tra perso-
ne, e nello stesso tempo ci guida a un approfondimento delle leggi che regolano
la vita sociale, scritte dal Creatore nella natura spirituale e morale dell’uomo.
Siccome documenti recenti del magistero della chiesa hanno esposto più dif-
fusamente la dottrina cristiana sulla società umana, il concilio ricorda solo al-
cune verità più importanti e ne espone i fondamenti alla luce della rivelazione.
E poi insiste su certe conseguenze che sono particolarmente importanti per il
nostro tempo (GS 23).
33 Cfr. «Relatio generalis» (T.V): AS IV/VI, 561; «Relatio generalis» (T.VI): AS IV/VII,
610.
134 Antropologia di comunione
Dio, che ha cura paterna di tutti, ha voluto che gli uomini formassero una sola
famiglia e si trattassero tra loro con animo di fratelli. Tutti, infatti, creati a im-
magine di Dio, “che da un solo uomo ha prodotto l’intero genere umano affin-
ché popolasse tutta la terra” (At 17,26), sono chiamati all’unico e medesimo fi-
ne, cioè a Dio stesso.
Poiché l’intero capitolo sulla comunità degli uomini fu redatto solo nel
«Testo di Ariccia», il confronto sinottico tra GS 24 e gli articoli paralleli
che l’hanno preceduto può spingersi solo fino a quel documento. Tuttavia
già il «Testo di Zurigo» presenta in ordine sparso alcune delle idee che in
seguito sarebbero state raccolte e ordinate in GS 24 sotto il titolo di «L’in-
dole comunitaria dell’umana vocazione nel piano di Dio».
3.2.1 «Che gli uomini formassero una sola famiglia» (GS 24,1)
Dio, che ha cura paterna di tutti, ha voluto che gli uomini formassero una sola
famiglia e si trattassero tra loro con animo di fratelli.
credenti e non a tutti gli uomini indistintamente. Analoghe riserve per il secondo termine.
Da qui la formula impiegata, che evita la difficoltà» (P. HAUBTMANN, «La communauté hu-
maine», 266 [TdA]).
40 L’idea era stata espressa dal Concilio anche nella dichiarazione Nostra Aetate, per
fondare l’affermazione di un’unica comunità composta da tutti i popoli: «Infatti tutti i po-
poli costituiscono una sola comunità; hanno una sola origine, poiché Dio ha fatto abitare
l’intero genere umano su tutta la faccia della terra; essi hanno anche un solo fine ultimo,
Dio, la cui provvidenza, testimonianza di bontà e disegno di salvezza si estendono a tutti,
finché gli eletti saranno riuniti nella città santa, che la gloria di Dio illuminerà e dove i po-
poli cammineranno nella sua luce» (NA 1).
41 Citando GS 25,2; 12,4; 49,1, E. Chiavacci nota che l’espressione «unam familiam»
«non è [...] vagamente indicativa di una qualche solidarietà: occorre tener presente che la
famiglia è la forma più spontanea e più stretta di socialità e di reciproca responsabilità [...].
In tutto il documento – e in luoghi diversi – la famiglia viene presentata come la società in
cui il vincolo reciproco è sul piano morale più stretto. Ne deriva che l’eterno disegno di Dio
considera gli uomini come membri di una stessa società, e perciò li chiama a considerare
ciascuno il bene dell’altro come bene proprio» (E. CHIAVACCI, La Costituzione, 99).
138 Antropologia di comunione
42 «L’oggetto di questo passo è l’unica famiglia di tutti gli uomini, che unisce la relazio-
ne fondamentale verticale della cura paterna di Dio con quella orizzontale dell’unità degli
uomini in comunione fraterna. La frase seguente giustifica il parallelismo tra la suddetta di-
stinzione tra la cura paterna e la vocazione della comunità con la naturale unità della comu-
nità di tutti gli uomini nella creazione e anche della soprannaturale finalità divina di tutte le
persone» (F. BECHINA, Die Kirche als «Familie Gottes». Die Stellung dieses Konzeptes im
Zweiten Vatikanischen Konzil und in den Byschofssynoden von 1974 bis 1994 im Hinblick
auf eine «Famila-Dei-Ekklesiologie», AnGr, 272, Roma 1998, 220 [TdA]).
43 Approfondendo le affermazioni testuali di GS 24 – che con un po’ di fatica deve rin-
viare al termine del capitolo il riferimento cristologico delle proprie affermazioni – T. Goffi
si spinge a ricordare che «questa vocazione comunitaria d’origine e di termine viene ulte-
riormente arricchita per la elevazione all’ordine soprannaturale dell’uomo. Iddio ha conce-
pito e creato tutti gli esseri nel Verbo [...]. Tutti gli esseri sono chiamati a vivere sotto un sol
Capo, il Cristo risuscitato e glorioso, onde in Lui partecipare alla conoscenza di Dio, che è
la vita beata [...]. Per il Cristo, fra gli uomini, si è instaurata la più totale comunità di desti-
no, quella della salvezza, la più elevata comunità di speranza, quella del Regno di Dio. Il
Cristo è diventato come un nuovo capostipite della famiglia umana» (T. GOFFI, «La comu-
nità degli uomini», in La Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. In-
troduzione storico-dottrinale. Testo latino e traduzione italiana. Esposizione e commento, To-
rino-Leumann 19683, 515).
44 Con questo senso, «famiglia» è spesso il termine preferito nella costituzione pastora-
le per indicare o l’intero genere umano o la comunione dei figli di Dio. In tutto il documen-
to, con questi significati, il termine ricorre 29 volte (cfr. GS 1; 2; 3; 24; 26; 29; 32; 33; 38; 40;
42; 43; 45; 50; 56; 57; 63; 74; 75; 86; 92). La precisazione è utile, visto che il termine famiglia
è il più indicato per esprimere la profondità del legame di comunione che unisce gli uomini
tra di loro.
La comunità degli uomini 139
nione tra gli uomini non solo ha origine in Dio, ma in Dio sussiste e in Dio
si compie pienamente, nella misura in cui gli uomini vivono in conformità
all’immagine di Dio e perseguono, nella legge dell’amore, la comune voca-
zione che è in Dio stesso.
Il concetto di comunione proposto dalla GS al mondo contemporaneo è
dunque, da una parte, fortemente ancorato all’esperienza, grazie all’impo-
stazione stessa del documento e agli ampi riferimenti all’attuale condizione
storica diffusi in tutto il testo; ma soprattutto, dall’altra parte, è tale da im-
mettere l’esperienza umana nell’orizzonte divino, nel quale la comunione
trova origine, ragione di esistenza e di sussistenza, pienezza escatologica.
Corrispondendo a questa vocazione nella carità, gli uomini sempre di più per-
vengono alla libertà45.
Spinto dall’esempio e dall’insegnamento di Cristo, in mezzo alle società uma-
ne, l’uomo potrà portare a pieno compimento il suo essere personale: la testi-
monianza della fede in un certo modo potrà anticipare il Regno nel quale cia-
scuno, in fraterna comunione con tutti gli uomini, godrà della perfetta libertà
nella pienezza dell’amore46.
È nostro dovere fare in modo che la comunità terrena concordi sempre più
con la dignità dell’uomo e l’intenzione del Creatore. Così facendo, il genere
umano realizza la consacrazione del mondo a Dio, e con ciò si adopera affin-
ché si manifesti sempre più perfettamente l’immagine di quella comunità uni-
versale, in cui ciascuno potrà accedere nella carità alla vera libertà47.
Nel corso di questa vita terrena l’uomo deve dimostrare la sua fedeltà verso
Dio e il suo amore ai fratelli [...]. Poiché i pensieri di Dio verso l’uomo sono
pervasi dall’amore, per il quale ha costituito il suo Figlio Salvatore del mondo,
i figli adottivi con ogni cura devono dunque rivestire la sollecitudine del Padre
verso tutti gli uomini anche tra le cose della terra. La carità non solo deve fiori-
re sulla terra, ma anche nelle stesse attività e relazioni terrene48.
La carità è dunque la massima legge del Vangelo e la virtù per la convivenza
umana, che vivifica e rafforza tutte le altre leggi e virtù (cfr. Mt 22,34-40). Oc-
corre che tutte le cose nella vita privata e sociale siano condotte sempre più at-
traverso questo grande comandamento49.
Per quale motivo il comandamento della carità non è stato indicato di-
rettamente dal «Testo di Zurigo» come via per raggiungere il fine stesso
dell’uomo e quindi la pienezza del suo essere? Semplicemente perché, co-
me si è già osservato, il «Testo di Zurigo» non ha ancora in animo di siste-
matizzare un’antropologia cristiana. Essendo interessato più sempli-
cemente alla vita dell’uomo contemporaneo, anche il riferimento alla carità
è finalizzato ad indicare all’uomo la via dell’adempimento storico delle
proprie responsabilità personali e sociali.
È il «Testo di Ariccia» che concepisce la costituzione pastorale come una
risposta alla domanda «chi è l’uomo?» e quindi come antropologia cristiana.
Di conseguenza solo a partire da questo documento ci si può aspettare che la
legge della carità sia concepita come regola dell’antropologia cristiana.
Il riferimento più esplicito del «Testo di Ariccia» al comandamento
della carità (lo stesso che costituisce il primo passo parallelo di GS 24,2) è
nell’articolo 16, dedicato all’indole sociale dell’uomo. Conformemente alla
finalità data al documento, la socialità è concepita in chiave antropologica
e non solo morale: «La vita sociale non è un peso a lui sovraggiunto acci-
dentalmente, ma è necessaria conseguenza della sua natura più profonda».
In questo contesto si afferma:
52 «La visione cristiana della società va molto oltre la mera accoglienza di alcune norme
positive di convivenza, sanzionate da una pubblica autorità e richieste per il mantenimento
dell’ordine civile. L’ideale della vita comunitaria non è solo il rispetto dell’uomo, fondato
sull’assenza di qualsiasi motivo che giustifichi alcuna forma di discriminazione fondamenta-
le, ma l’amore positivo per l’uomo, fino al punto che l’uomo non può raggiungere la pro-
pria pienezza se non nella consegna sincera di sé agli altri» (J.M. SETIÉN, La comunidad hu-
mana», in HERRERA ORIA, Comentarios, 231 [TdA]).
53 Cfr. T.V, 24: AS IV/VI, 446-447.
54 «Non c’è nessuna difficoltà a comprendere che, poiché l’uomo è creato da Dio, deve
disporsi a cercare l’amore e la comunione con Lui; l’amore di Dio è il primo precetto della
legge, non il frutto di un’imposizione dall’esterno, ma la formulazione normativa dell’inti-
mo ordinamento dell’uomo verso Dio. Potrebbe sembrare più strano che in una visione
teocentrica dell’esistenza umana si faccia dell’amore per il prossimo il primo e il più grande
comandamento. Ma non si può comunque ignorare questa fondamentale affermazione per
la soluzione cristiana della problematica suscitata dall’inserimento dell’uomo nella comu-
nità» (J.M. SETIÉN, «La comunidad humana», 229 [TdA]).
55 «L’unità degli uomini non è soltanto qualche cosa di “dato”, ma deve essere anche qual-
che cosa di “cercato”: da una parte si impone agli uomini per l’unità di origine e di destino fina-
le e di natura (l’uomo ad immagine di Dio), dall’altra parte gli uomini sono chiamati a rendere
“personale” (quindi cosciente e voluta) quest’unità. L’essere sociale degli uomini deve aprirsi
all’agire sociale» (D. TETTAMANZI, «La comunità degli uomini», in Commento alla Costituzione
pastorale su: La Chiesa nel mondo contemporaneo «Gaudium et Spes», Quaderni di orientamen-
to pastorale, 10, Milano 1967, 202). Cfr. anche K. RAHNER, «Über die Einheit von Nächsten-
und Gottesliebe», in ID., Schriften zur Theologie, VI, 277-298.
142 Antropologia di comunione
3.2.3 «Perché tutti siano uno, come anche noi siamo uno» (GS 24,3)
In queste cose, la fede cristiana ci presenta orizzonti del tutto nuovi, impervi
alla nostra ragione. Infatti ci insegna che Dio, pur essendo Uno, sussite in tre
Persone, ognuna delle quali vive così rapportata alle altre che da questa stessa
relazione è costituita. Allora la persona umana, essendo creata ad immagine di
Dio uno e trino, come può non avere in sé un’impronta di Lui? E infatti, se
l’uomo è in terra la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa, egli pure
da se stesso si rapporta agli altri, cosicché è solo donandosi che può trovare se
stesso56.
56 T.IV, 16: AS IV/I, 445-446 (TdA). A questo testo si riferisce P. Haubtmann, quando,
commentando GS 24,3, nota che «in una lettura precedente, accettata dalla Commissione
plenaria mista, ci si spingeva ben più lontano. Invece di paragonare l’unione delle tre perso-
ne all’unione dei credenti nella fede, si ricollegava la natura sociale di ogni personalità uma-
na al mistero stesso della Santa Trinità» (P. HAUBTMANN, «La communauté humaine», 267
[TdA]).
57 T.V, 24: AS IV/VI, 447 (TdA).
58 T.V, «Relatio ad n. 24»: AS IV/VI, 453 (TdA).
La comunità degli uomini 143
59 «La somiglianza dell’uomo a Dio non fonda una comunità solo perché tutti gli indi-
vidui sono creati ad immagine di Dio, ma perché l’umanità, moltitudine in unità, è un’im-
magine, anche se imperfetta, dell’unico Dio in tre persone» (O. SEMMELROTH, «The Com-
munity of Mankind», 167 [TdA]).
60 A. Weber amplia le premesse di questa affermazione conciliare, per renderla più evi-
dente: «Gesù ha voluto che i suoi fratelli qui in terra fossero uniti tra loro con un legame si-
mile a quello col quale Egli stesso è unito al Padre nel seno della Trinità per l’identità della
natura divina. Ma siccome l’unità intratrinitaria si manifesta nel mutuo donarsi e ricevere
delle Persone divine, in quanto il Padre si esprime nel Figlio che Gli è uguale, la similitudi-
ne tra questa unità e l’unità fraterna dei figli di Dio rivela che l’uomo non può ritrovarsi pie-
namente se non attraverso il sincero dono di sé» (A. WEBER, A. RAUSCHER, «La comunità
degli uomini», 291).
61 Può essere qui utile, come puntualizzazione, il riferimento a una conclusione di J. Zi-
zioulas: «Il mistero dell’essere personale risiede nel fatto che qui alterità e comunione non
sono in contraddizione ma coincidono. La verità come comunione non conduce al dissol-
versi della diversità degli esseri in un vasto oceano di essere, ma all’affermazione dell’alte-
rità in e attraverso l’amore» (J. ZIZIOULAS, Being as Communion, 106 [TdA]; cfr. P. MC PAR-
144 Antropologia di comunione
TLAN, The Eucharist makes the Church. Henri de Lubac and John Zizioulas in dialogue, Edin-
burgh 1993, 139-140).
62 «Anche se nel testo la “famiglia” viene caratterizzata esplicitamente solo come “una”
e l’articolo parla fondamentalmente dell’unità nel mondo di tutti gli uomini nella loro co-
munitarietà secondo l’origine, la destinazione e la crescente interdipendenza, sembra che in
GS 24,4, attraverso la descritta relazione, con “famiglia” s’intenda una comunità umana
frutto della grazia, vale a dire una famiglia di Dio come chiesa, così che il brano si può usare
come fondamento per il concetto di famiglia di Dio» (F. BECHINA, Die Kirche als «Familie
Gottes», 221 [TdA]).
63 Tale definizione deriva direttamente dal precedente magistero di Giovanni XXIII:
«Principio fondamentale in tale concezione è... che i singoli esseri umani sono e devono es-
sere il fondamento, il fine e i soggetti di tutte le istituzioni in cui si esprime e si attua la vita
sociale: i singoli esseri umani visti in quello che sono e che devono essere secondo la loro
natura intrinsecamente sociale, e nel piano provvidenziale della loro elevazione all’ordine
soprannaturale» (MM 203: AAS 53 [1961] 453; trad. italiana in http://www.vatican.-
va/holy_father/john_xxiii/encyclicals/documents/hf_j-xxiii_enc_15051961_ ma-
ter_it.html, dell’08.05.2006). Cfr. anche PIO XII, Radiomessaggio natalizio ai popoli del
mondo intero, 24 dicembre 1942: AAS 35 (1943) 12.
64 Cfr. E. CHIAVACCI, La Costituzione, 103.
La comunità degli uomini 145
65 «L’uomo è sociale sia come individualità che come personalità. In quanto individuo,
per il molteplice condizionamento materiale, l’uomo si palesa indigente dal piano economi-
co fino a quello delle sue attività più nobili [...]. In quanto, poi, persona dotata di spiritua-
lità, l’uomo è aperto socialmente al colloquio e alla comunione, all’amore e all’azione coor-
dinata: sa accogliere i valori altrui e sa comunicare i propri» (T. GOFFI, «La comunità degli
uomini», 521).
146 Antropologia di comunione
Là dove l’ordine delle cose è turbato dalle conseguenze del peccato, l’uomo,
dalla nascita incline al male, trova nuovi incitamenti al peccato, che non pos-
sono esser vinti senza grandi sforzi e senza l’aiuto della grazia (GS 25,3).
5.1 Il concetto di bene comune nella definizione del rapporto tra persona
e società (cfr. GS 26)
67 La definizione di «bene comune» proposta dalla GS riprende gli enunciati delle en-
cicliche sociali di Giovanni XXIII: cfr. MM 51; PT 35.
148 Antropologia di comunione
68 La seconda parte della costituzione pastorale così riprende la definizione di bene co-
mune: «Il bene comune si concreta nell’insieme di quelle condizioni della vita sociale, con
le quali gli uomini, la famiglia e le associazioni possono ottenere il conseguimento più pieno
e più spedito della propria perfezione» (GS 74,3).
69 «Il forte rilievo dato alla unificazione di tutti gli uomini, sì che tutti formino una sola
famiglia, e alla loro responsabilità di fronte al bene comune universale dell’umanità, rappre-
senta indubbiamente uno dei tratti più salienti della Costituzione pastorale. Essa continua
così nella direzione già intravista dalla Mater et Magistra e dalla Pacem in terris» (A. WEBER,
A. RAUSCHER, «La comunità degli uomini», 302).
70 «Il bene comune è, nella tradizione del pensiero sociale cristiano a cui il Concilio
espressamente si è richiamato, il termine con cui si indica il fine della società» (E. CHIAVAC-
CI, La Costituzione, 106); cfr. anche D. TETTAMANZI, «La comunità degli uomini», 208.
La comunità degli uomini 149
per manifestare la persistenza dei disegni di Dio e la reale possibilità di attuarli, nonostante
l’ostacolo del peccato, in ragione della redenzione da Lui operata» (J.M. SETIÉN, «La comu-
nidad humana», 254 [TdA]).
73 «Tutti gli esseri umani sono fondamentalmente uguali sotto due aspetti. Sono creati
da Dio come persone con un’anima razionale ad immagine di Dio. Inoltre sono intrinseca-
mente affini perché posseggono la stessa natura e la stessa origine. Per di più, sono tutti re-
denti da Cristo e così hanno la stessa vocazione soprannaturale alla salvezza eterna. In ra-
gione di questa fondamentale uguaglianza, tutte le differenze [...] in realtà non sono impor-
tanti» (O. SEMMELROTH, «The Community of Mankind», 175 [TdA]).
Capitolo quarto
1.1 «Il Verbo incarnato e l’unità con gli uomini» nel «Testo di Ariccia»
Nel capitolo del «Testo di Ariccia» sulla comunità degli uomini, l’espo-
sizione conclusiva più direttamente dottrinale e cristologica è distinta in
due numeri: la riflessione su «Il Verbo incarnato e l’unità con gli uomini»
(n. 36) è infatti preceduta e introdotta dal n. 35, «I fondamenti teologici
della vita sociale».
Il n. 352, nel suo punto di arrivo, è decisivo come premessa ermeneuti-
camente fondamentale per studiare il successivo testo cristologico. Viene
ripresa l’affermazione circa la volontà creatrice di Dio di riunire gli uomini
in una sola famiglia, argomentandola con lo sviluppo trinitario dello stesso
concetto di immagine di Dio: in comunione di origine e di fine a cui sono
chiamati, essi «partecipano già ora alla vita della SS. Trinità e da Essa rice-
vono le forze per la salvezza comune» (TdA). La comunione nella salvezza
inferita da questo testo diviene così la premessa, affermata in modo assolu-
to e necessario, della riflessione cristologica in merito alla comunità uma-
na: «Di certo nessuno è salvato da solo o solo per se stesso»3 (TdA).
Lo stesso Verbo incarnato volle entrare in unità con gli uomini. Nato da don-
na, dalla stirpe di Davide secondo la carne, santificò le relazioni umane, innan-
zitutto quelle familiari, dalle quali traggono origine quelle sociali6.
Primogenito tra molti fratelli, tra tutti coloro che lo accolgono con la fede, do-
po la sua morte e resurrezione ha istituito attraverso il dono del suo Spirito
una nuova comunione fraterna, nel suo proprio Corpo, nel quale tutti, quasi
fossero membri gli uni degli altri, si prestassero servizi reciproci, secondo i do-
ni diversi loro concessi7.
8 «Sono richiamati alla mente i tratti dell’esistenza umana come ci sono trasmessi da Cristo
(nn. 27-36), e come si ritrovano in Cristo stesso, nel quale si fonda qualunque cosa abbia legitti-
mamente il nome di solidarietà umana» («Relatio generalis»: AS IV/I, 556 [TdA]).
9 T. Gertler, riscontrando la pregnanza cristologica dei fondamenti del concetto di «soli-
darietà», si spinge anche oltre nell’intuizione delle motivazioni che hanno indotto a scegliere
«solidarietas» piuttosto che «coniunctio»: «Con il termine “solidarietà” viene impiegato un
concetto che ha un grosso significato nel movimento dei lavoratori, ma che per questo è so-
vraccaricato, così che “solidarietà” anche in seguito si riferisce al senso di appartenenza comu-
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 155
Come Dio creò gli uomini non perché vivessero individualisticamente ma de-
stinati a formare l’unione sociale, così a lui anche “piacque... santificare e sal-
vare gli uomini non a uno a uno, escluso ogni mutuo legame, ma di costituirli
in popolo, che lo conoscesse nella verità e santamente lo servisse». Sin dall’ini-
zio della storia della salvezza, egli stesso elesse uomini, non soltanto come in-
dividui ma come membri di una certa nazione. Infatti questi eletti, Dio, mani-
festando il suo disegno, chiamò «suo popolo» (Es 3,7-12) con il quale poi
portò a compimento il patto sul Sinai15.
ne e allo stare insieme in una classe, e certo con una punta di lotta di classe. Qui “solidarietà”
è intesa in un senso molto ampio. Come appartenenza comune, deriva dalla comune umanità.
Questa trova il suo specifico compimento in Cristo, colui che ristabilisce l’unità del genere
umano con Dio e tra di noi [...]. Forse non si può escludere, tra i motivi dell’inserimento di
questo concetto, anche l’esperienza del socialcattolicesimo francese e del movimento dei preti
operai, specie se si considera quale grossa parte hanno avuto i francesi e i belgi nella stesura
della “Gaudium et Spes”. Così il concetto di “solidarietà” mantiene una certa lucentezza. Es-
so ha relazione con la questione sociale non interamente perduta, anche quando viene amplia-
ta e cambiata [...]. Nel Testo 4 c’era una specifica unità dedicata alla “Comunione fraterna da
edificare in povertà di spirito” (n. 57). Nel testo definitivo, nella sezione da 27 a 29 e 32, c’è
ancora qualcosa che rimane» (T. GERTLER, Jesus Christus. Die Antwort der Kirche auf die Frage
nach dem Menschsein. Eine Untersuchung zu Funktion und Inhalt der Christologie im ersten
Teil der Pastoralkonstitution «Gaudium et Spes» des Zweiten Vatikanischen Konzils, Erfurter
theologische Studien, 52, Leipzig 1986, 161 [TdA]).
10 T.V, 32, p. 37, ln. 7-14: AS IV/VI, 451.
11 T.V, 32, p. 37, ln. 24-25: AS IV/VI, 451.
12 T.V, 32, p. 37, ln. 25-26: AS IV/VI, 451.
13 T.V, 32, p. 37, ln. 26-28: AS IV/VI, 451.
14 T.V, 32, p. 37, ln. 34-36: AS IV/VI, 451.
15 T.V, 32: AS IV/VI, 451 [TdA].
156 Antropologia di comunione
Quanto alla struttura del testo conclusivo del capitolo II tra il «Testo di
Ariccia» ed il «Textus recognitus» c’è da registrare una modifica del prin-
cipio di organizzazione delle idee esposte. Il n. 36 del «Testo di Ariccia»
aveva uno sviluppo più marcatamente cronologico: le tappe della vita di
Cristo come manifestazione della sua volontà di «entrare in unità con gli
uomini»16. Il n. 32 del «Textus recognitus», invece, appare più interessato
a scoprire nell’agire di Gesù l’insito valore di rivelazione e di grazia. Nel
«Textus denuo recognitus», poi approvato, l’ulteriore riferimento alla mor-
te di Gesù, commentata dalla pericope giovannea «Nessuno ha maggior
amore di chi sacrifica la propria vita per i suoi amici” (Gv 15,13)» (cfr. GS
32,3) contribuisce a riprendere un certo ordine cronologico, integrato però
con lo sviluppo più tematico introdotto dal «Textus recognitus»17.
L’organizzazione delle idee, in ogni caso, procede in un profondo senso
unitario. La chiave di volta dell’articolo è l’introduzione esplicita dell’ope-
ra di Gesù Cristo come perfezione e compimento della comunità umana
(GS 32,2), ma questo riferimento non è compiuto in sé se è separato dal re-
sto del n. 32. L’idea portante che guida lo sviluppo dell’articolo è dunque il
mistero di Cristo considerato nella sua globalità e unitarietà: si parte dalla
sua preparazione veterotestamentaria (GS 32,1), per procedere attraverso
l’incarnazione (32,2), la vita pubblica, l’insegnamento, la morte e risurre-
zione, il mandato apostolico (32,2-3), il dono pasquale dello Spirito, la co-
stituzione della Chiesa (32,4), la definitività escatologica (32,5). Né il teno-
re verbale, né la disposizione della materia trattata indicano un punto cul-
minante dell’articolo, o un aspetto del mistero di Cristo attorno al quale
possa essere maggiormente incentrato il tema della comunità umana.
Come Dio creò gli uomini non perché vivessero individualisticamente ma desti-
nati a formare l’unione sociale, così a lui anche “piacque... santificare e salvare gli
uomini non a uno a uno, escluso ogni mutuo legame, ma di costituirli in un popo-
lo, che lo conoscesse nella verità e santamente lo servisse”. Sin dall’inizio della sto-
ria della salvezza, egli stesso elesse uomini, non soltanto come individui ma come
membri di una certa comunità. Infatti questi eletti, Dio, manifestando il suo dise-
gno, chiamò “suo popolo” (Es 3,7-12) con il quale poi strinse il patto sul Sinai18.
18 Iniziando ora l’analisi di GS 32, è rilevante segnalare che molti commentatori trascura-
no di soffermarsi su questo testo con la dovuta attenzione, tendendo spesso a risolvere frettolo-
samente l’articolo come un coronamento cristologico a contenuti già sufficientemente svilup-
pati e ad argomentazioni già concluse (cfr. ad esempio P. HAUBTMANN, «La communauté hu-
maine», 276-277; E. CHIAVACCI, La Costituzione, 132-133; J.M. SETIÉN, «La comunidad huma-
na», 264-266). Solo alcuni vi si soffermano adeguatamente, in particolare T. GERTLER, Jesus Ch-
ristus, 159-179: nel suo insieme, quest’opera analizza i testi della GS in una prospettiva marca-
tamente cristologica, con l’intento cioè di trarne in modo sistematico la cristologia soggiacente.
Il caso estremo è un commento che, dopo aver analizzato GS 23-31, così si esprime: «Il Conci-
lio avrebbe ben potuto concludere qui le risposte alle domande che erano state formulate; tut-
tavia corona la propria esposizione sull’indole comunitaria della vocazione umana con una pre-
ziosa sintesi dell’intervento di Dio, nella costituzione solidale della natura umana, nella elezio-
ne... di un popolo suo... il cui capo è lo stesso Unigenito di Dio, fatto Uomo: Cristo» (F. GAGO,
«Vocación comunitaria del hombre. Comentarios a los puntos 23-32», in Esquema XIII, Ma-
drid 1967, 109-110). È un’interpretazione che contrasta fortemente con lo schema proprio del-
la GS, per la quale Cristo non è il coronamento o la sintesi di risposte già fondate e chiarite, ma
la sola risposta possibile alla domanda sull’uomo e alle domande dell’uomo.
19 Cfr. T.IV, 35: AS IV/I, 458 (TdA).
20 M. Baudoux aveva rilevato che «l’affermazione del tema comunitario è manifestata
più pienamente nell’elezione stessa del popolo, tanto nel Vecchio come nel Nuovo Testa-
158 Antropologia di comunione
sità, per chi legge GS 32, di scorgere l’intenzione antropologica sottesa nel
riferimento alla storia del popolo di Dio. Da questo punto di vista, la storia
sacra a cui GS 32 fa riferimento per cenni (cfr. anche nn. 12-13; 22) può es-
sere letta come «antropologia esperienziale e rivelata», cioè come la storia
in cui Dio manifesta all’uomo la verità sull’uomo.
Chiarita questa indicazione ermeneutica, ne consegue che per rintrac-
ciare l’antropologia di GS 32 non si può cercare solo delle affermazioni
dottrinali esplicitamente formulate, ma occorre risalire al significato salvifi-
co che i redattori vogliono far emergere dalle citazioni scritturistiche.
Una prima affermazione sull’uomo che può essere letta nell’impianto
biblico di GS 32 riguarda il legame tra effettiva dimensione comunitaria
della storia umana e relativo disegno salvifico di Dio. In altri termini, GS
32 mostra che sia nella creazione che nell’elezione del popolo, è evidente
che Dio chiama gli uomini alla comunione. Ora il nodo da sciogliere è il se-
guente: si può passare dalla constatazione storica che gli uomini sono chia-
mati alla comunitarietà di essere e di vita all’affermazione che la co-
munione non è solo una contingenza storica, ma appartiene all’essenza del-
l’uomo, così come egli è creato e salvato?
Riguardo alla creazione la questione è in realtà presto risolta: se di fat-
to, come afferma GS 32,1, Dio ha voluto creare gli uomini «non perché vi-
vessero individualisticamente ma destinati a formare l’unione sociale» e se
è la volontà di Dio che fa l’essenza dell’uomo, la constatazione che di fatto
la creazione è avvenuta così equivale a dire che così l’uomo è, nella sua es-
senza. Per comprendere meglio questo passaggio, inoltre, è opportuno ri-
ferirsi a GS 24, più centrato sulla teologia della creazione e al quale GS 32
sembra implicitamente collegarsi: «Dio [...] ha voluto che gli uomini for-
massero una sola famiglia [...]. Tutti, infatti, creati a immagine di Dio, “che
da un solo uomo ha prodotto l’intero genere umano affinché popolasse
tutta la terra” (At 17, 26), sono chiamati all’unico e medesimo fine, cioè a
Dio stesso».
mento, cosicché qui ci si sarebbe aspettata una trattazione più ampia. Nell’ottima spiegazio-
ne della vita sociale i riferimenti generali alle Scritture sono appena sufficienti» (AS IV/II,
375 [TdA]); E. Schick, dopo aver sostenuto che l’antropologia cristiana emersa dallo sche-
ma di Ariccia era obiettivamente deficitaria e non convincente, aveva suggerito che «occor-
re desumere un’integrale visione dell’uomo come la Rivelazione la contempla per mezzo di
una ricapitolazione sistematica, anche se breve, dei detti scritturistici di carattere antropo-
logico» (AS IV/II, 636 [TdA]). Lo stesso vescovo era stato poi più esplicito nelle sue consi-
derazioni scritte, precisando che «l’idea di uomo, che rinveniamo nella Sacra Scrittura, sca-
turisce dalla vita del Popolo eletto con Dio, derivata dalla realtà soprannaturale. In essa è
delineato il nuovo Israele. Le esperienze storiche del popolo eletto offrono la possibilità di
distinguere tra la creazione in quanto tale e le conseguenze del peccato. L’uomo non può
mai essere separato né da Dio né dagli uomini, ma deve essere concepito solo a partire dal
contesto della storia universale degli uomini con Dio» (AS IV/II, 638 [TdA]).
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 159
scita del popolo eletto che fonda la dimensione comunitaria dell’uomo nel-
la storia della salvezza, ma viceversa è il piano di Dio sulla comunione uma-
na che fa nascere Israele, affinché attraverso il popolo di Dio, di cui Israele
è inizio e figura, ogni uomo viva la sua comunione con Dio e con gli altri25.
Indicativa in tal senso è anche la scelta operata nel «Textus denuo reco-
gnitus» di sostituire, su richiesta di tre Padri, «nazione» («gens») con «co-
munità» («communitas»; era stato proposto come sostituto anche il termi-
ne «familia»): la motivazione afferita dai Padri era l’opportunità di non
usare un termine che ha un senso etnico («nazione») per indicare un’unio-
ne molto più intima e corrispondente alla natura stessa dell’uomo26.
GS 32,1, dunque, sembra indicare che la costituzione di un popolo, di
una comunità, nella quale gli uomini possano essere salvati, non è solo una
possibilità storica che si è poi attuata di fatto. La connessione, emersa dal
primo capoverso, tra intrinseca dimensione sociale della creazione dell’uo-
mo ed elezione del popolo dell’alleanza per la salvezza di ogni uomo lascia
intendere che il popolo non è una semplice concretizzazione storica della
socialità umana, ma, secondo il disegno di Dio, ne specifica la natura.
Si scorge comunque una significativa differenza tra la dimensione so-
ciale della creazione e la realtà comunitaria della salvezza. Infatti, nella
creazione, l’individuo personale precede sul piano ontologico l’unione so-
ciale, anche se vi è intrinsecamente ordinato. La creazione dell’uomo non
necessita infatti la previa costituzione della società. Sul piano soteriolo-
gico, invece, secondo il disegno di Dio, la santificazione e la salvezza sono
rivolte alla persona umana, ma non si realizzano senza la comunità, prima
o al di fuori di essa. La costituzione del popolo precede la salvezza del sin-
golo. Se la dimensione sociale è già essenziale nell’essere personale creato
ad immagine di Dio, che comunque esiste previamente alla società, pur
non potendo realizzarsi pienamente senza di essa, ancor di più la dimen-
sione comunitaria è, ordinariamente, condizione per la stessa attuazione
della salvezza.
le persone della Trinità, che si comunicano vicendevolmente nell’unità della natura divina»
(D. TETTAMANZI, «La comunità degli uomini», 222).
25 «L’aspetto collettivo e comunitario della storia della salvezza veramente si esprime in
modo adeguato attraverso la nozione di “popolo di Dio”. Questo popolo è in cammino ver-
so un termine fissato da Dio; è nel mondo come il sacramento della salvezza offerto all’uma-
nità intera. Poiché Dio vuole la salvezza solidale di tutti gli uomini, ha posto nel mondo il
suo Popolo, qual causa in sé sufficiente per condurre a termine effettivamente questa sua
volontà» (T. GOFFI, «La comunità degli uomini», 572).
26 Cfr. «Relatio ad n. 32»: AS IV/VII, 418. Il testo riporta la critica sollevata da alcuni
Padri, secondo cui «nazione» («gens») «ha un senso etico (“sensum ethicum habet”)». È
verosimile che il termine «ethicum» sia un refuso, che sta per «ethnicum» (“etnico”, non
“etico”).
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 161
27 «Così si può dire che il capitolo sul Popolo di Dio trovi il suo contesto nella Costitu-
zione pastorale, mentre la Costituzione pastorale trova il suo fondamento dottrinale, il suo
“progetto”, nel capitolo sul Popolo di Dio» (M.D. CHENU, «Un Peuple messianique. Consti-
tution de l’Eglise, chap. 2, n. 9», NRTh 89 (1967) 181 [TdA]).
28 Cfr. T.prior: AS II/I, 215-281
162 Antropologia di comunione
29 La proposta del Card. Suenens è riferita per esteso da F. Geremia, che cita fonti dat-
tiloscritte provenienti dalla stessa segreteria della Commissione di coordinamento (cfr. F.
GEREMIA, I primi due capitoli della «Lumen gentium». Genesi ed elaborazione del testo conci-
liare, Dissertationes ad lauream in Pontificia Facultate Theologica Marianum, 16, Roma
1971, 62-63). Quando riprese la discussione in aula del testo (seconda sessione conciliare),
la proposta del card. Suenens fu riportata in calce al testo ufficiale, rimasto ancora suddivi-
so in quattro capitoli (cfr. Card. M. BROWNE, «Relatio»: AS II/I, 339).
30 Ampio risalto è stato dato generalmente allo spostamento del capitolo sul popolo di
Dio prima del capitolo dedicato alla gerarchia. Qualcuno ha evocato anche una «rivoluzio-
ne copernicana» nell’ecclesiologia conciliare (cfr. C. MOELLER, «Storia della struttura e del-
le idee della Lumen Gentium», in J.M. MILLER, ed., La Teologia dopo il Vaticano II. Appunti
dottrinali e prospettive per il futuro in un’interpretazione ecumenica, Brescia 1967, 159). La
Relatio generalis che accompagnava la presentazione in aula del T.em., dopo aver spiegato
che «con “Popolo di Dio” qui non si intende il gregge dei fedeli, contraddistinto dalla Ge-
rarchia, ma dell’intera unità di tutti coloro, Pastori e fedeli, che appartengono alla Chiesa»,
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 163
vifico dell’Eterno Padre») e 3 («La missione del Figlio») del precedente ca-
pitolo I e 22-26 del precedente capitolo III («Il Popolo di Dio e in specie i
Laici»), invitando tuttavia a ripensarli e ampliarli in relazione alla nuova
struttura del testo e alla più precisa connotazione del concetto di popolo di
Dio da quel momento accolta31. Quanto alla struttura secondo la quale or-
ganizzare le idee del capitolo II, le proposte furono numerose, ognuna con
una sua logica corrispondente ad una precisa concezione teologica del po-
polo di Dio32; prevalse alla fine l’idea di sviluppare le caratteristiche essen-
ziali del popolo di Dio nella storia: l’origine divina e la definizione del po-
polo nella nuova alleanza (n. 9), il suo essere sacerdotale (nn. 10-11), il sen-
sus fidei (n. 12), l’universalità (n. 13), i fedeli cattolici (n. 14), le relazioni
della Chiesa con i non cattolici e i non cristiani (nn. 15 e 16), la missiona-
rietà (n. 17).
Ora tenendo presenti queste informazioni sul contesto e le finalità asse-
gnati dai Padri e dai redattori al cap. II, è più agevole provare a interpreta-
re il senso della sua pericope iniziale, appunto LG 9,1. Il capitolo su «Il Po-
polo di Dio» deve chiarire l’idea dell’attuazione della comunione nel cam-
mino storico della Chiesa, avendo il capitolo precedente («Il mistero della
Chiesa») già precisato i fondamenti teologici e la finalità della comunione
fornisce queste ragioni circa la collocazione del capitolo sul popolo di Dio immediatamente
dopo il capitolo I sul mistero della Chiesa (si noti che, circa il capitolo sul popolo di Dio, si
sottolinea innanzitutto non il suo essere posto dopo il capitolo sulla gerarchia, ma la sua
nuova posizione immediatamente dopo il capitolo sul mistero della Chiesa):
«1. La trattazione sul “Popolo di Dio” riguarda in realtà il mistero stesso della Chiesa,
in sé considerato. Questo argomento, di cui appare evidente il fondamento biblico, non
può essere separato da una basilare dichiarazione sull’intima natura e finalità della Chiesa
[…].
2. …inoltre Pastori e fedeli appartengono a un unico Popolo. Questo Popolo e la sua
salvezza sono voluti come fine nel pensiero di Dio, mentre la Gerarchia è concepita come
un mezzo per tale fine. Il Popolo deve essere considerato dapprima nella sua totalità […].
3. …Una migliore struttura richiede… che dapprima si tratti del popolo stesso e di tut-
te le persone in esso, e solo dopo delle diverse categorie […].
4. Si ottiene una più consona distribuzione della materia se nel Capitolo I si tratta del
mistero della Chiesa in tutta la sua ampiezza, dall’inizio della creazione nel pensiero di Dio
fino al suo compimento celeste. In seguito nel Capitolo II si prosegue trattando lo stesso
mistero dal punto di vista storico...
5. Si ottiene un contesto più idoneo per esporre l’unità della Chiesa nell’universale di-
versità, vale a dire tra clero, religiosi e laici tendenti ad unico fine...
6. Si stabilisce più correttamente la prospettiva per parlare di cattolici, cristiani non
cattolici e di tutti gli uomini... e in particolare per sviluppare la dottrina sulle missioni, fino
a pervenire al termine escatologico del perfetto compimento» («Relatio generalis»: AS III/I,
209-210 [TdA]).
31 Cfr. «Emendationes»: AS II/I, 325-326.
32 Cfr. la sintesi riportata da F. GEREMIA, I primi due capitoli, 95-97.
164 Antropologia di comunione
33 «Indicare e situare la storicità della Chiesa» è la prima finalità che Y. Congar attri-
buisce al cap. II della LG. Questa finalità «era stata indicata anzitutto (cap. I) come collega-
ta alle sue cause divine e anzi, attraverso le missioni delle divine Persone, al mistero di Dio
stesso… Il cap. II “De Populo Dei” riprende l’argomento… e pone la Chiesa nella sua sto-
ricità: “In historiam hominum intrat”. Una delle intenzioni del capitolo, formalmente
espressa nella relatio, è quella di mostrare la Chiesa che costruisce se stessa nella storia uma-
na. Il n. 9 traccia a grandi linee questa entrata nella storia» (Y. CONGAR, «Il popolo di Dio»,
in J.M. MILLER, La teologia, 249). Congar si riferisce alla «Relatio de Populo Dei (cap. II)»,
pronunciata da G. Garrone a proposito del T.em. (cfr. AS III/I, 500): «Sia mostrata la Chie-
sa nel tempo, che cammina verso il suo fine beato, appunto nella sua condizione storica, che
presenta molti aspetti suoi specifici» (TdA).
34 «…Piacque infatti al Padre che i redenti, in modo perfetto nella nuova ed eterna al-
leanza, fossero da santificare al suo cospetto non semplicemente come singoli, senza rela-
zioni e legami, ma fossero chiamati da una moltitudine...» (T.prim., 1: AS I/IV, 12 [TdA]).
35 «Coloro che sono santificati non solo separatamente, senza alcun legame tra loro,
ma nel popolo di Dio [TdA]» (T.prior, 2: AS II/I, 216).
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 165
Rm 1,4], affinché, nato secondo la carne dal popolo eletto, redimesse tutti
con la sua morte e costituisse i suoi fratelli in figli del Padre»36): come de-
stinatari della sua opera non sono considerati solo i «redenti», ma «om-
nes», tutti gli uomini.
Il «Textus emendatus» specifica che il popolo è chiamato a conoscere
Dio nella verità e a servirlo santamente. L’aggiunta è decisamente rilevante:
è chiaro che la conoscenza nella verità e il santo servizio sono possibilità e
responsabilità di ogni singola persona. Il popolo non è un unico individuo
che conosce e serve santamente. Tuttavia, precisando il popolo come sog-
getto partner di Dio, il testo vuole intendere che è all’interno del popolo,
come membro del popolo, che ogni singolo può pienamente conoscere e
servire il Signore e quindi essere salvato e santificato. Mentre il «Textus
prior» si limitava ad evocare il popolo di Dio in funzione della santificazio-
ne dei singoli, il «Textus emendatus», divenuto poi definitivo, fa del popo-
lo un vero soggetto di comunione, nel quale ogni uomo può pervenire alla
piena relazione di conoscenza e di servizio verso Dio.
Ritornando ora alla premessa con cui il paragrafo esordisce («È gradito
a Dio chiunque lo teme e pratica la giustizia [cf. At 10,35], a qualunque
tempo e nazione egli appartenga»), si può comprendere come essa sia di
grande ausilio alla comprensione del popolo di Dio nel progetto divino. Il
riferimento ad At 10,35 contenuto nella premessa specifica che l’inseri-
mento nel popolo di Dio non è condizione assoluta perché un uomo sia ac-
cetto a Dio (per questo occorre che lo tema e pratichi la giustizia), ma è
funzionale a un dono ancora più grande, anch’esso offerto ad ogni uomo di
ogni tempo e nazione: non solo essere accetto a Dio, ma essere in piena re-
lazione di conoscenza vera e di santo servizio con Dio stesso ed in comu-
nione con gli altri uomini (in un popolo appunto).
Il popolo di Dio, così come è precisato in LG 9,1, è dunque la via di co-
munione che il Signore ha tracciato per ogni uomo. Sua caratteristica è l’u-
niversalità, perché universale è la volontà salvifica e santificatrice che Dio
vuole attuare attraverso di esso. Il carattere di universalità, inoltre, svincola
il concetto ecclesiale di «popolo» dalla sua connotazione sociale di «nazio-
ne», «etnia», che disturberebbe la retta comprensione della Chiesa. Anzi,
proprio gli elementi tipici del significato profano di popolo, la socialità e la
storicità, sono assunti nel concetto di «popolo di Dio» in un senso teologa-
le, sono cioè compresi nel loro fondante rapporto con Dio: la socialità pro-
36 T.prior, 2: AS II/I, 216. Questa pericope non è stata conservata sino al testo definiti-
vo, ma se ne rinvengono tracce in LG 2 (vocazione universale alla fratellanza in Cristo, se-
condo la citazione di Rm 8,29) e in LG 9,2 (universalità dell’opera della redenzione). «[Tut-
ti] sono costituiti figli del Padre» è sostituito in LG 2 da «conformi all’immagine del Figlio
suo».
166 Antropologia di comunione
che si interessa alla comunità umana nel suo insieme. Considerato questo,
sembra che il parallelismo sopra riscontrato sia ridotto a semplice accosta-
mento.
Tuttavia si può riconoscere che le differenze di finalità e contesto sono
più di struttura che di contenuto e quindi non tali da impedire che il paral-
lelismo tra i testi sia più che esteriore. Si cominci a considerare il posto che
LG 9 e GS 32 hanno nei rispettivi capitoli. Poiché LG 9 appare come un
esordio, ci si aspetta che detti delle premesse, fissi dei limiti, orienti lo svi-
luppo successivo; GS 32 invece, essendo una conclusione, dovrebbe tirare
le somme, precisare dei risultati, fare la sintesi. Ma non si dimentichi la di-
versità di impostazione tra la costituzione dogmatica e la costituzione pa-
storale. La prima muove da principi dottrinali e li sviluppa; la seconda, in-
vece, attraverso uno schema più induttivo risale dall’esperienza ai principi,
che vengono esplicitati cristologicamente alla fine. Quindi il contesto di
LG 9 (inizio del capitolo) e quello di GS 32 (fine del capitolo) sono tra loro
più simili di quel che sembri: entrambi i testi hanno a che fare con i princi-
pi, i fondamenti del loro discorso.
Si passi ora ad esaminare i contenuti specifici dei due paragrafi. La LG
vuole parlare della Chiesa principalmente ai membri della Chiesa stessa e
impiega la nozione di popolo di Dio come categoria chiave per indicarne la
natura ma anche per mostrarne il carattere universale, l’apertura all’uma-
nità intera, chiamata a formare un unico popolo39. La GS similmente vuole
parlare dell’umanità a tutti gli uomini e impiega il concetto di comunità
per svelarne il carattere unitario ma anche per manifestare la comunità ra-
dunata in Cristo come il luogo in cui l’umanità intera può trovare la via del-
la sua piena realizzazione40. I contenuti di entrambi i testi intendono così
manifestare l’indole comunionale del popolo di Dio: la LG la considera
punto di partenza, la GS termine di arrivo.
La LG, in fondo, parte dalla precomprensione dell’idea di popolo di
Dio e risponde alla domanda sul suo senso, sulla sua finalità: perché il po-
39 «Cristo istituì questo nuovo patto cioè la nuova alleanza nel suo sangue (cfr.. 1 Cor
11,25), chiamando la folla dai Giudei e dalle nazioni, perché si fondesse in unità non secon-
do la carne, ma nello Spirito, e costituisse il nuovo popolo di Dio. Infatti i credenti in Cristo
[...] costituiscono “una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa, un popolo
tratto in salvo... Quello che un tempo non era neppure popolo, ora invece è popolo di Dio”
(1 Pt 2,9-10)» (LG 9,1).
40 «...Perché il genere umano diventasse la famiglia di Dio, nella quale la pienezza della
legge fosse l’amore» (GS 32,3). «Primogenito tra molti fratelli, tra tutti coloro che lo accol-
gono con la fede e con la carità, dopo la sua morte e resurrezione ha istituito attraverso il
dono del suo Spirito una nuova comunione fraterna, in quel suo corpo, che è la chiesa, nel
quale tutti, membri tra di loro, si prestassero servizi reciproci, secondo i doni diversi loro
concessi» (GS 32,4).
168 Antropologia di comunione
polo di Dio? Conduce così alla risposta: il popolo di Dio è via e luogo di
comunione tra Dio e l’uomo, tra l’uomo e Dio e quindi degli uomini tra di
loro. La GS svolge il procedimento inverso. Il punto di partenza è l’espe-
rienza e la manifestazione del carattere comunitario dell’essere umano e la
domanda è: in che modo Dio realizza la piena comunione tra Sé e gli uomi-
ni e degli uomini tra di loro? Il popolo di Dio, cioè la comunione a cui tutti
gli uomini sono chiamati nel corpo di Cristo, entra nella risposta: la comu-
nità umana può essere realizzata nella comunione ecclesiale.
Nella LG si parte dalla comunione ecclesiale che è aperta all’umanità
intera; nella GS si parte dalla comunità umana che si può realizzare nella
comunione ecclesiale.
L’esito del parallelismo tra GS 32 e LG 9 è dunque la straordinaria con-
vergenza a cui tendono prospetticamente la comunione ecclesiale e la pie-
na comunione umana: la prima si apre alla seconda e questa si inserisce in
essa.
Quale dunque l’apporto di LG 9 all’ermeneutica di GS 32? Senza dub-
bio il parallelismo dei due testi, pur salvaguardando i rispettivi oggetti for-
mali, consente di ampliare la comprensione dei concetti da essi impiegati.
Grazie a LG 9, è più chiaro che la comunione ecclesiale non è semplice-
mente in funzione del conseguimento della piena comunità degli uomini di
cui parla GS 32. La comunione ecclesiale è molto di più che il punto di ar-
rivo a cui tende la comunità degli uomini, perché aggiunge qualcosa di ra-
dicalmente nuovo rispetto a quanto può trovarsi già scritto nel piano divi-
no consegnato agli uomini nella creazione e nell’inizio della storia della sal-
vezza. Infatti, anche se il compimento della natura umana voluta da Dio ri-
chiede di per sé la comunione, la comunione ecclesiale segue l’ingresso nel-
la storia del totalmente nuovo: è comunione in Cristo, comunione nel suo
corpo, qualcosa di assolutamente imprevedibile nelle esigenze di realizza-
zione insite nella natura umana.
GS 32 segue uno schema lineare, che muove dal piano di Dio in ordine
alla comunione umana e procede attraverso la sua realizzazione in Cristo,
nel suo corpo, verso la consumazione escatologica. È forse possibile intra-
vedere in questo schema un rischio di «evoluzionismo» comunionale (la
comunione ecclesiale come tappa finale di un processo prevedibile a par-
tire dalla natura comunionale umana)? Sicuramente il quesito non si pone
neanche grazie al legame con LG 9, che permette di intersecare questo
schema lineare con la linea inversa, in cui il popolo di Dio non è punto di
arrivo, ma di partenza, e in cui la comunione umana è data come dono che
si raggiunge alla fine dello schema, non come esigenza presupposta all’ini-
zio. L’intersezione di queste due linee avviene in Cristo: in lui il popolo di
Dio si costituisce e si apre all’umanità intera; in Lui l’umanità può trovare
la pienezza della comunione. È Cristo dunque il centro e il culmine del te-
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 169
Il testo che precede questa dichiarazione tende quindi ad essa per pre-
pararla (non solo il testo di GS 32,1, ma tutto il capitolo II, in quanto è
strutturato come progressivo avvicinamento al vertice cristologico delle
questioni di ordine sociale); il testo che segue in GS 32,2-5 le si rivolge per
spiegarla: essa è dunque il vertice della parabola descritta dallo sviluppo
delle idee di GS 3241 e, di conseguenza, dell’intero capitolo II42.
Se dunque l’affermazione secondo cui l’opera di Gesù Cristo perfeziona e
compie il carattere comunitario della realtà umana è il vertice del capitolo II,
allora si può sostenere che l’antropologia di comunione della GS è fondata e
orientata cristologicamente: la dichiarazione culminante riguardo la comunità
umana contenuta nel capitolo è una dichiarazione su Cristo. La struttura del
capitolo II è così una testimonianza dell’esplicita tesi di GS 22 secondo cui so-
lamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo.
Può sembrare strano tuttavia che questa frase, pur essendo da conside-
rare come il vertice di GS 32, mancasse nel corrispondente n. 36 del «Testo
di Ariccia», che però già delineava in modo sostanziale il contenuto e la
struttura del testo definitivo43. O il n. 36 del «Testo di Ariccia» mancava
del suo punto culminante, oppure GS 32 ha aggiunto qualcosa di so-
stanzialmente nuovo rispetto a quel testo da cui è partito.
La sezione cristologica del capitolo II del «Testo di Ariccia» (n. 36) svi-
luppava nel primo capoverso la vicenda storica di Cristo in ordine cro-
nologico, ponendo in risalto alcuni aspetti della vita terrena di Cristo che mo-
41 Che il posto occupato da questa frase nel contesto del n. 32 sia proprio quello diret-
tamente studiato dai redattori, è confermato dal rifiuto dell’obiezione di un Padre, che ave-
va chiesto di spostare la proposizione alla fine, «poiché appare come un’interruzione della
dottrina esposta in questo numero» (cfr. T.VI, «Relatio ad num. 32»: AS IV/VII, 418
[TdA]).
42 Quanto al posto ricoperto nella struttura del capitolo II, la frase «Tale indole comu-
nitaria è perfezionata e compiuta dall’opera di Gesù Cristo» è in parallelo con l’altra famosa
espressione del n. 22, «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il
mistero dell’uomo». Infatti, anche questa frase, nell’economia del capitolo a cui appartiene,
è formulata come enunciazione di una tesi che risponde a tutta la problematica antropologi-
ca esposta negli articoli precedenti (GS 12-21) e che è argomentata e chiarita nel testo suc-
cessivo (GS 22,1-6).
Queste due frasi sono così i vertici della materia esposta nei rispettivi capitoli o anche,
per così dire, gli «slogan» che sintetizzano le idee contenute in quegli stessi capitoli.
Anche in riferimento all’ordine logico dei rispettivi contenuti esiste un parallelismo tra
GS 22 e 32: «C’è un certo parallelismo tra GS 22 e GS 32: Cristo pienezza della Rivelazione,
che rivela l’amore del Padre e la sublimità della vocazione dell’uomo, manifestando l’uomo
all’uomo stesso, anche attraverso gli aspetti sociali. In entrambi i numeri si parla degli aspet-
ti inclusi nella Rivelazione di Cristo: il mistero del Padre e del suo amore e la pienezza della
vocazione dell’uomo, ma nel n. 22... la vocazione piena dell’uomo si dischiude a partire dal
mistero del Padre» (M.C. APARICIO VALLS, La Plenitud, 127, [TdA]).
43 Cfr. T.IV, 35-36: AS IV/II, 458-459.
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 171
strano la sua volontà di inserirsi «in unità con gli uomini». L’esordio del n. 36
(«Lo stesso Verbo incarnato volle entrare in unità con gli uomini») costituiva
dunque contemporaneamente il suo punto di partenza cronologico (l’ingres-
so del Verbo nella storia) e la dichiarazione della prima tesi da dimostrare.
Il secondo capoverso conduceva al compimento della volontà salvifica
del Verbo divino: la sua incarnazione non consente solo la sua solidarietà
col genere umano, ma soprattutto, come primogenito tra molti fratelli, gli
permette di istituire nel suo corpo, per il dono del suo Spirito, «una nuova
comunione fraterna» tra coloro che lo accolgono nella fede. La di-
chiarazione della volontà del Verbo di entrare «in unità con gli uomini» e
la «nuova comunione fraterna» che egli istituisce sono l’apporto specifico
offerto dall’articolo conclusivo del capitolo «La comunità degli uomini». È
tuttavia la nuova comunione degli uomini nel corpo di Cristo che appare
come l’esito più definitivo a cui i redattori volevano ricondurre l’intero ca-
pitolo II: questo principio infatti consente di elevare la comprensione della
comunione umana da insieme di relazioni tra soggetti del tutto indipen-
denti a unità sussistente tra le membra dell’unico corpo, unità costituita
non su un fondamento semplicemente umano, ma teandrico.
Circa l’introduzione nel «Textus recognitus» della frase «Tale indole
comunitaria è perfezionata e compiuta dall’opera di Cristo Gesù» come
«titolo» della sezione corrispondente al n. 36 del «Testo di Ariccia», la
«Relatio» non fornisce spiegazioni. S’intuisce tuttavia che questa aggiunta
sintetizza, chiarifica e apporta nuovi contributi rispetto alla formulazione
del testo precedente.
«Perfezionare e compiere il carattere comunitario della realtà umana»
è infatti un’espressione che può indicare adeguatamente l’intera opera del
Verbo incarnato verso la comunità umana, che palesa l’intervento salvifico
di Cristo come dono libero e radicalmente nuovo, che aggiunge infine il ri-
ferimento alla necessità di costante unione a Cristo per permanere e cre-
scere nella comunione umana.
La proposizione «Tale indole comunitaria è perfezionata e compiuta
dall’opera di Cristo Gesù» è densa di significato per la formulazione di
un’antropologia di comunione.
Il termine a cui è rivolta l’opera di Cristo, ciò che egli «perfeziona» e «por-
ta a compimento», è l’«indole comunitaria» («indoles communitaria»); non
viene detto la «comunità». Ciò significa che si fa attenzione a non limitare la
destinazione dell’azione salvifica di Cristo alla comunità già costituita quale
«insieme degli uomini», ma si annota che l’opera di Cristo giunge più in
profondità, fino al carattere, alla dimensione comunitaria dell’essere personale
dell’uomo e della stessa storia salvifica. Vale a dire che l’azione di salvezza
compiuta da Cristo attinge l’intima ontologia dell’uomo, non soltanto la sua
realizzazione storica, anche se ci si interessa direttamente solo alla sua dimen-
172 Antropologia di comunione
realtà trasfigurata», «affinché emerga meglio quella novità del mondo che è propria del
compimento futuro» (Cfr. T.VI, «Relatio ad num. 32»: AS IV/VII, 418 [TdA]).
45 T. Gertler segnala che mentre nel n. 36 del «Testo di Ariccia» l’accento è posto sul-
l’ingresso del Verbo nella comunità umana, in GS 32 esso cade sulla partecipazione alla co-
munità. La prima soluzione è in conformità allo sviluppo cronologico del testo, la seconda è
un’articolazione più tematica (cfr. T. GERTLER, Jesus Christus, 165).
174 Antropologia di comunione
46 Di fatto alcuni Padri hanno inteso proprio in questo senso i riferimenti alle nozze di
Cana e alla visita a Zaccheo, sollevando di conseguenza alcune critiche. A. Devoto osservò
che «non sembra opportuno che si faccia una menzione troppo prolissa: “Alle nozze di Ca-
na... In casa di Zaccheo...”» (AS IV/II, 711 [TdA]); J.W. Gran fu più risoluto nel sostenere
che «“Fu presente alle nozze di Cana” è superfluo e anche un po’ risibile come dimostrazio-
ne della vera unione del Verbo con l’uomo. “Entrò nella casa di Zaccheo” deve essere can-
cellato in quanto troppo particolare» (AS IV/II, 742 [TdA]).
47 Si ricorda che la ricerca della brevità nel testo del n. 32 è sostenuta in T.V, «Relatio
ad num. 32»: AS IV/VI, 456.
48 Questo riferimento, aggiunto nel «Textus recognitus», era stato esplicitamente ri-
chiesto dai Vescovi algerini (cfr. AS IV/II, 934). Poi, per evitare l’idea di una sottomissione
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 175
la preghiera di Gesù per l’unità dei suoi discepoli; il sacrificio fino alla mor-
te di croce49; il mandato affidato agli apostoli di predicare il Vangelo, per
consentire all’intero genere umano di divenire la famiglia di Dio.
L’insieme di questi quadri della vita di Gesù ha dunque il compito di
dispiegare il senso della tesi: «Lo stesso Verbo incarnato volle essere parte-
cipe della convivenza umana». Nasce tuttavia un interrogativo: sembra che
l’elencazione delle vicende terrene del Verbo incarnato lasci intendere la
«convivenza» («consortio») col genere umano come una sorta di «solida-
rietà morale»: Cristo sarebbe solidale con gli uomini per aver condiviso la
loro vita ordinaria, per aver fatto le cose che gli uomini fanno. Questa in-
terpretazione, pur se non esaurisse le intenzioni dei redattori, sarebbe giu-
stificabile leggendo il «Testo di Ariccia». Ma a partire dal «Textus recogni-
tus», la premessa secondo cui l’opera di Gesù Cristo «perfeziona e com-
pie» l’indole comunitaria dell’uomo, chiarifica che la solidarietà del Verbo
incarnato, concretamente descritta subito dopo, è di ordine storico-salvifi-
co (il Verbo ha assunto l’intera realtà umana per elevarla e santificarla) e,
quindi, di ordine ontologico (per salvare l’uomo, il Verbo si è fatto uomo:
non ha solo accompagnato solidalmente l’esistenza degli uomini, ma ha
vissuto personalmente da uomo l’esistenza degli uomini).
La solidarietà con gli uomini è dunque prima di tutto una solidarietà di
essere, che diviene solidarietà di agire50; il tutto secondo un fine di sal-
vezza. Se ci fosse bisogno di rassicurarsi che proprio questa è l’interpreta-
zione della solidarietà secondo la GS, basterebbe riferirsi al n. 22, che svi-
luppa in parallelo lo stesso schema essere-agire riferito all’incarnazione e
alla solidarietà del Verbo: «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in
certo modo a ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con
mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo.
Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto si-
mile a noi fuorché nel peccato». Lo stesso schema persegue tuttavia nei
due testi due finalità diverse ma complementari: GS 22 spiega il frutto del-
l’incarnazione del Verbo sull’uomo quale individuo («Si è unito in certo
subita da Gesù e non da lui consapevolmente accolta, tre Padri formularono altrettante
proposte di correzione, sostanzialmente accolte con l’aggiunta dell’avverbio «volontaria-
mente» nel «Textus denuo recognitus». Fu quindi respinta l’obiezione di un Padre che pro-
poneva di cancellare l’intero inciso, «poiché Cristo non era soggetto a tutte le leggi» (cfr.
T.VI, «Relatio ad num. 32»: AS IV/VII, 419 [TdA]).
49 Sorprende il fatto che l’assenza di questo fondamentale riferimento fu lamentata e
riparata solo dopo la stesura del «Textus recognitus» (cfr. AS IV/VII, 419).
50 D. Tettamanzi indica la solidarietà di Cristo nella sua vita e nella sua opera come
«espressione» e «testimonianza» del suo legame con gli uomini, nella cui comunità è
profondamente inserito ed alla cui vita è pienamente partecipe grazie al mistero dell’incar-
nazione, che «segna il momento centrale dell’unificazione del genere umano» (cfr. D. TET-
TAMANZI, “La comunità”, 223).
176 Antropologia di comunione
51 «Anche l’aspetto evangelico è un po’ più sviluppato» (T.V, «Relatio ad num. 32»: AS
IV/VI, 456).
52 Come già osservato, gli interventi di alcuni Padri avevano richiesto la definizione o
un pronunciamento circa la fratellanza universale: cfr. nota n. 30 del cap. 3°, pp. 131-132.
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 177
53 Nel «Textus recognitus» questo passaggio suonava: «Pregò affinché tutti i suoi discepo-
li fossero un cuor solo e un’anima sola» (T.V, 32: AS IV/VI, 452, [TdA]). La «Relatio ad num.
32» del T.VI testimonia solo che la modifica avvenne su richiesta di un Padre (cfr. AS IV/VII,
419). Il testo finale rende meglio l’idea dell’unità di essere, oltre che di intenti: è la chiamata ad
un’unità ontologica prima che solidale. Inoltre il riferimento alla preghiera di Gesù è più fedele
al testo evangelico di Gv 17,22-23 di quanto non lo fosse il «Textus recognitus».
54 Occorrerebbe a questo proposito un opportuno approfondimento per mostrare co-
me l’unità tra i figli di Dio si possa compiere a similitudine dell’unità tra le persone divine.
È utilissimo a tal proposito il commento teologico di C. Di Bruno al Vangelo di Giovanni:
«Gesù vuole che tra i suoi discepoli regni la stessa unità che c’è tra Lui e il Padre. Il Padre è
in Lui, Lui è nel Padre, il discepolo deve essere nell’altro discepolo e viceversa. È possibile
ottenere questa unità, è possibile realizzare questa cosa sola?
L’unità che è in Cristo e nel Padre, non è solo unità di essenza e di carità, ma è soprat-
tutto unità di volontà e quindi di Parola. Tutta la volontà del Padre, manifestata ed espressa
attraverso la Parola, è nel Figlio, e tutta la volontà del Figlio, manifestata e compiuta, è nel
Padre sotto forma di purissima obbedienza. In questo scambio di volontà, interamente la
volontà del Padre è nel Figlio, interamente la volontà del Figlio è nel Padre.
L’uomo non ha una sua propria volontà da comunicare all’altro uomo; egli ha solo la
Parola di Dio da comunicare e quindi è necessario che tutta la Parola di Dio sia in lui e per
lui nell’altro, attraverso la sua obbedienza di servizio, che è fatto in nome di Dio, ma sempre
a favore del fratello. Quando questo avviene, si compie la cosa sola; cosa sola sempre da co-
struire e da edificare, poiché è sempre facile uscire dalla Parola, rompendo l’unità che solo
nella Parola si costruisce e nella Parola diviene permanente, perenne.
Quando c’è questo scambio di obbedienza alla Parola che diviene servizio di carità e di
amore verso l’altro, verso tutti indistintamente, l’altro vede la fede trasformata in carità e
178 Antropologia di comunione
«Anzi egli stesso si offrì per tutti fino alla morte, redentore di tutti.
“Nessuno ha maggior amore di chi sacrifica la propria vita per i suoi amici”
(Gv 15,13)». Questa frase fu inserita dai redattori nel «Textus denuo reco-
gnitus», accogliendo la richiesta avanzata da tre Padri con la motivazione:
«Infatti l’evento primordiale della solidarietà di Cristo non è altro che la
passione e la morte di Cristo»55. Ci si può comunque chiedere: la passione
e la morte sono l’«evento primordiale» della solidarietà di Cristo nel senso
che costituiscono l’espressione più alta della kenosi del Verbo, del suo ina-
bissarsi nella vicenda umana, o perché la passione e la morte sono, costitui-
scono in se stesse, la solidarietà di Cristo? Prescindendo dalla passione e
morte, la solidarietà di Cristo soltanto non sarebbe sufficientemente rap-
presentata o proprio non sarebbe piena solidarietà?
Per rispondere, è giusto sottolineare che la morte di Cristo è la sua pie-
na conformità al suo stesso insegnamento: «Nessuno ha maggior amore di
chi sacrifica la propria vita per i suoi amici». Ma questo ancora non basta.
La morte di Cristo non ha solo il valore di rivelazione del suo amore, ma è
l’offerta che il Redentore del mondo fa di se stesso. L’offerta che Cristo fa
di sé produce realmente per l’uomo e offre l’amore che manifesta: la condi-
scendenza, la solidarietà del Figlio di Dio raggiunge il suo vertice proprio
nell’atto di donarsi in sacrificio di vita eterna. La solidarietà di Cristo,
quindi, non è solo l’aver assunto la condizione umana, l’aver vissuto la vita
di ogni uomo, ma l’aver donato se stesso perché ogni uomo possa rinascere
nella vita nuova: è solidarietà quella di Dio che assume la vita umana, ma
ancor di più lo è quella di Dio che assumendo la vita umana dona all’uomo
la vita divina. Non può essere compresa la solidarietà divina se non si con-
sidera il mistero dell’incarnazione in intima unità col mistero pasquale56.
crede nel Dio amore, nel Dio carità, crede in Cristo, carità crocifissa per amore dei suoi fra-
telli, in obbedienza alla Volontà del Padre» (C. DI BRUNO, Nel Seno del Padre. Vangelo se-
condo Giovanni: Riflessioni teologico-sapienziali, in www. movimentoapostoli-
co.it/giovanni/index.htm dell’08.05.2006, 393).
55 Cfr. T.VI, «Relatio ad num. 32»: AS IV/VII, 419.
56 È significativo il contributo di T. Gertler a questo passo di GS 32: «Dunque non si
tratta solo della solidarietà nel senso dell’ingresso e della partecipazione alla comunità uma-
na, ma anche e soprattutto della solidarietà nel senso della sostituzione. C’è dunque il con-
cetto della sostituzione, che viene espresso in effetti in questa seconda frase. In esso l’aspet-
to sociale della redenzione diviene il più significativo. Il concetto biblico della sostituzione,
che non si deve intendere in senso magico, ma etico-personale su uno sfondo storico-teolo-
gico, presuppone infatti una comprensione sociale [...]. Il concetto della sostituzione, che
inizia nel Vecchio Testamento ed è collegato con il concetto della elezione, si compie in Cri-
sto Gesù» (T. GERTLER, Jesus Christus, 172-173[TdA]). T. Gertler prosegue richiamando J.
Ratzinger: «Con il battesimo (al Giordano e con la proclamazione di Figlio prediletto), Ge-
sù è entrato nella missione di servo di Dio, tutto il suo essere è diventato l’essere per gli altri,
che perciò può arrivare al compimento solo nel battesimo di morte (Mc 10,38; Lc 12,50),
nel quale si compie la condivisione della sorte dell’uomo mortale. Ciò che all’inizio dell’o-
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 179
pera di Gesù viene annunciato come parola dello Spirito, lo riprendono alla fine le sue pa-
role nell’ultima cena, in cui Egli pone tutta la sua vita terrena, come dice Isaia, al servizio
“dei molti”, da cui si rende comprensibile il concetto di sostituzione vicaria (Mc 14,32par.;
cfr. Mc 10,45)» (J. RATZINGER, «Stellvertretung», in H. FRIES, ed., Handbuch theologischer
Grundbegriffe, München 1963, 568 [TdA]).
57 Cfr. T.IV, 36: AS IV/II, 458-459.
58 Cfr. T.V, 32: AS IV/VI, 451.
180 Antropologia di comunione
sulla missione provenienti da Cristo. Secondo, la realtà che genera la questione di un mon-
do in trasformazione, consolidata teologicamente nella volontà creatrice di Dio, fu la vo-
lontà dell’unico Dio sull’unica famiglia (GS 24,1) [...]. Terzo, il concetto essenziale per il se-
condo capitolo, che cioè attraverso l’unione con Dio diventa possibile l’amore tra gli uomi-
ni» (T. GERTLER, Jesus Christus, 170-171 [TdA]).
Sul tema teologico della «famiglia di Dio», cfr. F. BECHINA, Die Kirche als «Familie
Gottes».
63 Può essere utile a questo punto una breve digressione per rimarcare un plausibile e
opportuno suggerimento proposto da F. Bechina, il quale nota lo sviluppo in parallelo di
GS 24 e 32: «Si deve riconoscere ciò che nel n. 32 è in parallelismo con il n. 24: nell’intero
182 Antropologia di comunione
numero lo sviluppo storico-salvifico; nel §1: il rinvio alla creazione; nel §2: attraverso la for-
ma verbale voluit [“volle”] viene ricordato un evento storico-salvifico, la volontà di Dio at-
tuata (l’incarnazione come nuova creazione è in parallelo alla creazione nel n. 24); un richia-
mo all’amore del Padre divino come vocazione (24 §1); nel §3: l’affermazione che la familia
humana [famiglia umana] può divenire familia Dei [famiglia di Dio] è in parallelo con la di-
chiarazione che gli uomini possono diventare una sola famiglia (24 §1); la menzione della
fratellanza e del comandamento della carità (24 §1 e 2); il riferimento a Gv 17; in §4: qui
Eum fide ac caritate recipiunt [coloro che lo accolgono con la fede e la carità] è in parallelo
con filiorum Dei in veritate et caritate [figli di Dio nella verità e nella carità] (24 §3)» (F. BE-
CHINA, Die Kirche als «Familie Gottes», 222, nota 132, [TdA]).
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 183
chiamati alla partecipazione (ad partecipandam) della vita divina [...]. In secondo luogo la
Costituzione sulla Chiesa afferma che la communio, la quale è il fine dell’intera storia di sal-
vezza, è realizzata storicamente in modo del tutto singolare in Gesù Cristo (LG 2s) [...]. In-
fine la terza affermazione: ciò che in Gesù Cristo è avvenuto una volta per tutte, lo continua
(LG 48), cioè lo attua dall’interno e lo diffonde universalmente (AG 4) lo Spirito Santo, il
quale abita nella Chiesa e nel cuore dei fedeli (LG 4). Secondo il Concilio quella comunione
che si realizza attraverso lo Spirito sta alla base della comunione ecclesiale. È lo Spirito,
quindi, che unifica la Chiesa “in communione et ministratione” (LG 4; AG 4). In virtù dello
Spirito la Chiesa è unità-comunione con Dio e dei suoi membri tra di loro.
«Riassumendo possiamo dire che secondo il Concilio il mistero della Chiesa sta nel fatto
che nello Spirito e mediante Cristo noi abbiamo accesso al Padre e così veniamo resi parteci-
pi della natura divina. La communio della Chiesa è prefigurata, resa possibile e supportata
dalla communio trinitaria: in definitiva, come il Concilio afferma ricordando il vescovo marti-
re Cipriano, essa è partecipazione alla stessa communio trinitaria (LG 4; UR 2). La Chiesa è,
per così dire, l’icona della comunione trinitaria che esiste tra Padre, Figlio e Spirito Santo»
(W. KASPER, «La Chiesa come comunione. Riflessioni sull’idea ecclesiologica di fondo del
Concilio Vaticano II», in ID., Teologia e Chiesa, BTCon, 60, Brescia 1989, 287-288).
L’importante contributo offerto dal commento di W. Kasper consiste nell’aver colto il
mistero della Chiesa non solo come comunione, ma come comunione fondata sulla comu-
nione trinitaria. Il mistero di comunione della Chiesa nel mistero di comunione della Tri-
nità, nel quale si ritrova lo stesso mistero dell’uomo chiamato a partecipare della vita divina:
il presente capitolo svilupperà questa indicazione.
66 «La Costituzione De Ecclesia comincia non con una definizione, ma con l’afferma-
zione di un fatto della “storia” (della storia sacra, evidentemente). Per la fede, l’economia di
salvezza voluta da Dio è alla base stessa della Chiesa, e chiunque voglia descrivere il suo svi-
luppo dovrebbe iniziare dal fondamento…» (G. PHILIPS, «La Chiesa: mistero e sacramen-
to», in MILLER, La teologia, 236).
67 A proposito della struttura profondamente unitaria di LG 2-4, si noti che questi tre
articoli hanno costituito un’unità tematica sin dalla prima revisione in aula del documento
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 185
preparatorio, con l’obiettivo di radicare in senso trinitario il mistero della Chiesa. Cfr.
T.prim., 1-2: AS I/IV, 12-13; T.prior, 2-4: AS II/I, 216-217; T.em., 2-4: ASIII/I, 159-161.
186 Antropologia di comunione
68 Si perdoni qui la parafrasi di un noto schema di pensiero, usato da K. Rahner nel de-
finire teologicamente la natura come la condizione che l’uomo avrebbe se gli si sottraesse
ciò che appartiene all’ordine della grazia (cfr. K. RAHNER, «Rapporto tra natura e grazia», in
ID., Saggi di antropologia soprannaturale, Roma 1965, 69).
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 187
Il Padre ha mandato il suo Figlio, nel quale ci aveva eletti prima della creazio-
ne del mondo e predestinati alla filiazione adottiva: aveva infatti deciso di rica-
pitolare in lui tutte le cose (cf. Ef 1,4-5 e 10). Per compiere la volontà del Pa-
dre, Cristo è venuto e ha inaugurato sulla terra il regno dei cieli, rivelandocene
il mistero, e con la sua obbedienza ha operato la nostra redenzione (LG 3).
L’elezione degli uomini alla partecipazione della vita divina viene ora spe-
cificata più direttamente nel suo compimento cristologico, quale è voluto da
Dio sin dall’eternità e quale si realizza storicamente nella missione del Figlio74.
stituisce la realtà intima del regno. L’uomo può quindi realizzare il proprio
essere di comunione nel regno per la mediazione ecclesiale75.
La natura sacramentale della Chiesa in Cristo, precisata in LG 1, viene
così esplicata attraverso la categoria del regno, il cui inizio e la cui crescita
sono il frutto stesso del sacrificio di Cristo. La natura comunionale della
Chiesa trova la sua motivazione più profonda nell’essere dono agli uomini
del sacrificio di Cristo, che elevato sulla croce tutti attira a sé. Così resta
sempre Cristo il soggetto che compie l’arcano disegno del Padre, ma la sua
opera passa in modo sacramentale per la sua Chiesa.
Ogni volta che si celebra sull’altare il sacrificio della croce col quale «Cristo
nostra pasqua è stato immolato» (1Cor 5,7), si compie l’opera della nostra re-
denzione. E nello stesso tempo col sacramento del pane eucaristico viene rap-
presentata e realizzata l’unità dei fedeli che costituiscono in Cristo un solo
corpo (cf. 1Cor 10,17) (LG 3).
ne») e conduce all’opera dell’unità dei fedeli («Col sacramento del pane euca-
ristico viene rappresentata e realizzata l’unità dei fedeli che costituiscono in
Cristo un solo corpo»).
In quanto l’Eucaristia dona ai fedeli il rinnovamento, vale a dire l’attualiz-
zazione, dell’unico e autentico sacrificio della croce e in quanto consente al
cristiano di partecipare attivamente e coscientemente all’alleanza, essa è via
insostituibile di realizzazione per l’uomo della verità antropologica a cui è
chiamato in Cristo, verità che Cristo ha compiuto nella redenzione e ha do-
nato sacramentalmente. In altri termini, la reale partecipazione dell’uomo
alla vita divina, che quale disegno eterno del Padre è la verità piena dell’es-
sere dell’uomo, è stata resa possibile dall’opera redentrice di Cristo; il cri-
stiano, che per il Battesimo è stato inserito nel mistero di Cristo e ha rice-
vuto gli effetti del suo sacrificio, nell’Eucaristia può partecipare sacramen-
talmente ma attivamente all’alleanza: in questo modo il cristiano, fatto
nuova creatura, figlio di Dio e corpo di Cristo nel Battesimo, nell’Eucari-
stia si fa una cosa sola con Cristo, vive la comunione con Lui. Sacramental-
mente si compie così la partecipazione alla vita divina, si compie la verità
dell’essere dell’uomo.
Così, in quanto effettua l’unità dei fedeli in Cristo, l’Eucaristia, non è
semplicemente una tappa, ma è posta al momento stesso in cui il piano di
Dio è finalmente compiuto. Infatti, la continuità del piano di Dio sfocia
proprio nella costituzione del corpo di Cristo e, in esso, nella comunione
dei fedeli con Dio e tra di loro. Il testo di LG 2 era partito dalla verità di
principio concernente l’arcano disegno di Dio; ora si vede in che modo
Dio ha attuato la sua volontà di elevare gli uomini alla partecipazione della
sua vita divina: ciò avviene precisamente tramite l’inserimento dei fedeli in
un solo corpo di Cristo. In quel corpo la vita divina raggiunge tutti i mem-
bri uniti a Cristo e li costituisce nella pienezza della comunione. L’Eucari-
stia è precisamente ciò che rappresenta e alimenta l’unità dei fedeli che il
Battesimo ha fatto un corpo solo76. L’uomo è pienamente uomo quando,
per la via della mediazione sacramentale della Chiesa, è inserito in Cristo e
accoglie così la vita divina di cui il Padre lo rende partecipe.
«A questa unione con Cristo luce del mondo sono chiamati tutti gli uo-
mini: da lui siamo, per lui viviamo, verso di lui tendiamo» (LG 3).
Poiché in gioco è il conseguimento della pienezza di essere, in vista del-
la quale gli uomini sono stati fatti, allora è chiaro che tutti gli uomini sono
chiamati all’unione con Cristo. La missione, per la quale il regno inaugu-
rato da Cristo può raggiungere tutti gli uomini, fa parte della volontà eter-
na di Dio (cfr. anche Mt 28,18-20; Mc 16,15-16).
Il testo non si occupa direttamente delle modalità per le quali gli appar-
tenenti ad altre tradizioni religiose possano accedere in Cristo al dono divi-
no della elevazione. Preoccupazione di LG è mostrare l’unicità del compito
che a questo riguardo ha la Chiesa. Siccome la Chiesa è, quale corpo di Cri-
sto, la via voluta dal Padre perché gli uomini accedano al conseguimento
della loro pienezza di essere, allora la missione è necessaria affinché tutti gli
uomini possano rispondere alla chiamata di unione con Cristo77.
Primogenito tra molti fratelli, tra tutti coloro che lo accolgono con la fede e
con la carità, dopo la sua morte e resurrezione ha istituito attraverso il dono
del suo Spirito una nuova comunione fraterna, in quel suo corpo, che è la
77 LG 4, che con LG 2-3 forma un’unità tematica strutturata in senso trinitario, sarà
esaminato in seguito, in riferimento all’accenno pneumatologico contenuto in GS 32,4.
194 Antropologia di comunione
chiesa, nel quale tutti, membri tra di loro, si prestassero servizi reciproci, se-
condo i doni diversi loro concessi.
78 Cfr. T.IV, 36: AS IV/II, 458-459, ln. 26-29; T.V, 32: AS IV/VI, 452, ln. 29-33; T.VI,
32: AS IV/VII, 257, ln. 35-39.
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 195
in Cristo e attingere alla sua fonte. Si attua così l’arcano disegno di Dio di
elevare gli uomini «alla partecipazione della sua vita divina» (cfr. LG 2): la
comunione fraterna che ora deve sussistere tra gli uomini non è una rela-
zione immanente, ma è la partecipazione per grazia alla relazione divina
che lega il Padre e il Figlio80.
«…Tra tutti coloro che lo accolgono con la fede e con la carità...»: il
dono che proviene dalla grazia non agisce automaticamente, ma richiede la
libertà umana. Questa precisazione sottolinea il peso della responsabilità
umana nel collaborare all’opera di Cristo, per realizzare storicamente la co-
munione che Egli vuole estendere ad ogni uomo81.
«…Dopo la sua morte e resurrezione...»: questo inciso fu aggiunto nel
«Textus recognitus», senza che la «Relatio» fornisse una motivazione82. Il
riferimento alla morte e risurrezione, formulato come complemento di
tempo, potrebbe apparire una semplice annotazione cronologica, inserita
per precisare un’affermazione già compiuta in sé.
In realtà se si passa all’ermeneutica teologica della frase ci si rende con-
to che il n. 36 del «Testo di Ariccia», proprio l’articolo cristologico, pur ri-
ferendosi al dono dello Spirito da parte di Cristo e all’istituzione di una
80 Nel commento al passaggio di GS 32 sul tema della fratellanza, può essere consentita
una breve deviazione per considerare un opportuno suggerimento di S. Pié i Ninot, che per-
mette di cogliere un collegamento della visione conciliare sulla comunione umana alla defini-
zione della persona umana. Chiedendosi perché la GS, indirizzata al rapporto Chiesa-mon-
do, possa orientare una sintesi antropologica, Pié i Ninot ricorda che l’apertura della costitu-
zione pastorale all’«aggiornamento» spingeva a confrontarsi con «il tema forse più rappre-
sentativo della modernità…, il tema della soggettività libera e autocosciente della persona
umana». «Incontriamo qui – prosegue Pié i Ninot – un segno decisivo dell’“aggiornamento”
che il Concilio si prefigge, palesato inoltre nella scelta dei tre temi programmatici: libertà (GS
17), uguaglianza (GS 29) e fratellanza (GS 32), collocati nello sfondo della dimensione comu-
nitaria della persona (GS 24-26)» (S. PIÉ I NINOT, «La constitución pastoral “Gaudium et
Spes”. Sus grandes temas y trayectoria en el postconcilio español», Salm. 35 (1988) 120-121
[TdA]). Viene così suggerito il legame tra uguaglianza-fraternità-libertà e persona quale sog-
getto libero e autocosciente. Tale considerazione è utile per ricordare che la fraternità non ri-
guarda solo la sfera delle relazioni esterne della persona umana con l’altro da sé, ma la stessa
realizzazione intima della persona, che, in quanto soggetto libero e autocosciente, non attua
pienamente se stessa se non in relazione con l’altro soggetto.
Nello schema della costituzione, tuttavia, non è questa l’unica apertura al tema della
soggettività libera e autocosciente tipica dell’uomo, che può essere colta soprattutto come
frutto dell’essere ad immagine e somiglianza di Dio (tema introdotto da GS 12) e come pos-
sibilità data all’uomo di aprirsi responsabilmente alla redenzione e alla pienezza della pro-
pria vita e del proprio essere in Cristo (GS 22; 32; 38-39; 45).
81 Nel «Testo di Ariccia» si leggeva soltanto: «Tra coloro che lo accolgono con la fede».
L’aggiunta «e con la carità» proviene probabilmente dall’osservazione di C. De Provenchè-
res, che chiese di rafforzare l’idea secondo cui «si tratta della fede salvifica» e propose di
scrivere «con la fede viva» o «l’accolgono con la fede e la carità»: cfr. AS IV/II, 707 (TdA).
82 Cfr. T.IV, 36: AS IV/II, 458, ln. 26; T.V, 32: AS IV/VI, 452, ln. 30.
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 197
nuova comunione fraterna nel suo corpo, non presentava alcun esplicito ri-
ferimento alla sua morte e risurrezione. Si presume dunque che i redattori
del «Textus recognitus», più che fornire un’indicazione cronologica, ab-
biano voluto precisare il mistero pasquale di Cristo come il «prius», il fon-
damento, la condizione di possibilità del dono dello Spirito e della nuova
comunione nel corpo di Cristo83.
«...Attraverso il dono del suo Spirito...»: il dono dello Spirito di Cristo
è oggetto diretto del paragrafo sin dalla sua prima formulazione nel «Testo
di Ariccia»: Cristo ha istituito una nuova comunione fraterna nel suo corpo
attraverso il dono dello Spirito.
Questa constatazione permette di riconoscere la rilevanza del riferi-
mento allo Spirito nel contesto dell’affermazione sulla nuova comunione
fraterna: non si tratta solo di un inciso esplicativo, ma di un dato essen-
ziale, che rientra nell’oggetto specifico della dichiarazione. L’estrema bre-
vità del riferimento allo Spirito in relazione alla nuova comunione fraterna
istituita da Cristo non deve dunque far pensare automaticamente a una
certa superficialità della pneumatologia della GS.
Il riferimento all’opera dello Spirito è facilmente commentato, dal pun-
to di vista ecclesiologico, per dare risalto alla dimensione spirituale della
Chiesa, rispetto o accanto a quella giuridica o sociologica84. Non sembra
così riduttiva la citazione del dono dello Spirito in GS 32,4. La pericope
conciliare non parla dello Spirito in riferimento ad una dimensione parti-
colare della Chiesa, sia essa visibile o spirituale, ma della sua realtà più inti-
ma e profonda, che ne costituisce lo specifico: l’essere nuova comunione
fraterna in Cristo. La nuova comunione fraterna che Cristo ha istituito at-
traverso il dono del suo Spirito precede e fonda ogni ulteriore connotato
della Chiesa, sia sul piano visibile che su quello spirituale, due aspetti che
non sono affatto da contrapporre, ma da intendere in reciproca ed intima
compenetrazione.
Non può sfuggire l’implicito parallelismo che intercorre, in merito alla
menzione dello Spirito di Cristo, tra GS 32,4 e GS 22,4. Nell’articolo con-
clusivo del capitolo sulla dignità della persona umana, veniva posta in ri-
salto l’opera dello Spirito sul cristiano, per cui egli diviene capace di adem-
piere la legge nuova dell’amore e in virtù del quale tutto l’uomo viene inte-
riormente rinnovato; inoltre, procede il testo conciliare citando Rm 8,11,
lo Spirito che ha risuscitato Gesù da morte darà vita anche ai nostri corpi
83 T. Gertler lascia intendere che questa modifica si ricollega ad un criterio più genera-
le adottato nel T.V, vale a dire «l’inserimento del mistero pasquale in quasi tutti i testi cristo-
logicamente rilevanti» (T. GERTLER, Jesus Christus, 175 [TdA]).
84 «Viene sottolineato, contro le precedenti restrizioni, che la Chiesa è opera dello Spi-
rito, una realtà non solo giuridica e sociologica, ma anche spirituale» (T. GERTLER, Jesus Ch-
ristus, 175 [TdA]).
198 Antropologia di comunione
mortali (cfr. GS 22,4). Ora, si può notare che in GS 32,4 viene descritta la
stessa opera dello Spirito dopo la morte e risurrezione di Cristo, ma in rife-
rimento non più al singolo cristiano quanto alla comunità: la capacità di
adempiere la legge dell’amore permette di vivere la comunione fraterna
istituita da Cristo; il rinnovamento di tutto l’uomo coincide con la novità
della stessa comunione fraterna.
Il raffronto dei due testi permette di non considerare separatamente un
intervento dello Spirito in favore della persona umana e un altro, sia pur
analogo, a beneficio della comunità. Il dono dello Spirito da parte di Cristo
è il medesimo e la sua opera è unitaria: non è concepibile una nuova frater-
na comunione se non nell’atto stesso del rinnovamento interiore dell’uomo,
né è pensabile un cambiamento prodotto da Cristo nel cristiano che non ge-
neri anche un sostanziale mutamento di essere e di vita nella comunità.
«...In quel suo corpo, che è la chiesa...»: la nuova comunione è instau-
rata da Cristo nel suo corpo. Anche questa precisazione risale al «Testo di
Ariccia» come dato essenziale e non come complemento ad un’affermazio-
ne più sostanziale85. Anzi, dalla costruzione dell’intera pericope di GS
32,4, si può dire che questa è interamente proprio un’affermazione sul cor-
po di Cristo, come «luogo» in cui è resa possibile la piena attuazione della
dimensione comunionale dell’essere dell’uomo.
Nel «Textus denuo recognitus» fu precisato che il corpo di Cristo è la
Chiesa86. La sottolineatura non è di poco conto, se si pensa che nell’intero
capitolo sulla comunità degli uomini, fatta eccezione per un’espressione del
n. 23 che si riferisce al magistero, il termine «Chiesa» non compariva
Ariccia» e il «Textus recognitus»: invece di dire che nel corpo di Cristo gli
uomini «fossero quasi membri gli uni degli altri», si preferì definire che gli
uomini sono «tutti reciprocamente membra» di quel Corpo90.
90 Cfr. T.IV, 36: AS IV/II, 458; T.V, 32: AS IV/VI, 452. La modifica fu chiesta da M.
Wehr: «Nel rigo 29, cancellando le parole “fossero quasi membri gli uni degli altri”, il testo
sia mutato all’incirca così: “... cioè nel suo Corpo, nel quale tutti sono reciprocamente mem-
bra e, secondo doni diversi concessi ai singoli, devono prestarsi servizi reciproci”. Motivo:
1. Le parole “quasi fossero” devono essere cancellate, poiché nel Corpo di Cristo tutti sono
realmente membra gli uni degli altri e i concetti teologici non sono mere metafore, ma sono
impiegati analogicamente. 2. Il testo, così modificato, fluisce più chiaramente» (AS IV/II,
872 [TdA]). Le richieste di M. Wehr furono recepite nelle considerazioni proposte per
iscritto dalla Conferenza dei vescovi di lingua tedesca e della Scandinavia (cfr. AS IV/II,
904-905) e coincidono in parte con la considerazione firmata da 23 Padri africani, secondo i
quali dire «quasi fossero membra gli uni degli altri», «significa attenuare la verità dommati-
ca» (cfr. AS IV/II, 895 [TdA]).
91 «Tutta l’economia della salvezza è delineata in quest’ultima frase densa e sintetica,
evocatrice delle missioni teologiche del Figlio e dello Spirito Santo, che procede dal Padre e
viene a comunicare la vita della Trinità alla Chiesa, per indirizzarla mediante il Figlio, nello
Spirito, verso il Padre. Tutto il movimento ecclesiale parte dal Padre e ritorna verso di lui,
per il Figlio, al soffio dello Spirito Santo» (M. PHILIPON, «La Santissima Trinità e la Chie-
sa», in G. BARAÚNA, ed., La Chiesa del Vaticano II. Studi e commenti intorno alla Costituzio-
ne dogmatica «Lumen Gentium», Firenze 1965, 334).
92 «La missione del Figlio culmina nell’invio dello Spirito: Egli rende possibile per Cri-
sto l’accesso al Padre. Come il Padre per il Figlio viene all’uomo nello Spirito, così l’uomo
nello Spirito per il Figlio può ormai accedere al Padre: il movimento di discesa consente un
movimento di ascesa, in un circuito di unità, la cui fase eterna è la Trinità, la cui fase tempo-
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 201
Infatti, per mezzo dello Spirito «il Padre dà la vita agli uomini morti a
causa del peccato, in attesa di far risorgere in Cristo i loro corpi mortali»;
lo stesso Spirito «inabita nella Chiesa e nel cuore dei fedeli come in un
tempio»; «in essi prega e attesta la loro condizione di figli adottivi»; «guida
la chiesa verso la verità tutta intera» e «la unifica nella comunione e nel ser-
vizio»; «con la forza del Vangelo fa ringiovanire la chiesa, la rinnova conti-
nuamente e la conduce all’unione perfetta col suo Sposo» (cfr. LG 4). Que-
st’opera dello Spirito si sintetizza tutta nell’essere dono all’uomo, per ina-
bitazione, di ciò che è proprio dell’intimo della vita trinitaria: la vita, la fi-
gliolanza, la verità, la comunione. Ricevendo tutto ciò come dono, l’uomo
è condotto all’interno di questa intimità trinitaria.
Come conseguenza, l’originario disegno del Padre di rendere l’uomo
partecipe della sua vita divina, per l’opera dello Spirito si dispiega in tutta
la sua pienezza salvifica e ricreatrice: la partecipazione alla vita divina non
è per l’uomo la sola accoglienza di un dono; il piano di Dio non prevede
semplicemente di dare qualcosa di divino all’uomo, ma di fare dell’uomo
un essere elevato alla partecipazione alla vita divina, inserendolo nelle re-
lazioni eterne della Persone divine.
«Così la Chiesa intera appare come “il popolo radunato dall’unità del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”»93: il riferimento a San Cipriano94
condensa nel legame della Chiesa dalla Trinità (Ecclesia de Trinitate) l’esito
ecclesiologico del prologo trinitario della LG95. Poiché tuttavia la Chiesa,
rale è la Chiesa» (B. FORTE, La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa, comunio-
ne e missione, Simbolica ecclesiale: una teologia come storia, 5, Cinisello Balsamo 1995, 70).
93 La versione italiana adottata in questo lavoro preferisce in realtà tradurre «il popolo
radunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Ma la locuzione di S. Ci-
priano parla di popolo radunato «de unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti». Con la prepo-
sizione “de” S. Cipriano intende collegare i concetti di comunione trinitaria e di unità eccle-
siale in un rapporto di fonte e conseguenza.
94 LG 4 cita CIPRIANO, De dominica oratione, 23: PL 4,553; G. Philips interpreta la lo-
cuzione di San Cipriano («De unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti plebs adunata») come
l’evocazione simultanea, per l’uso della preposizione «de», «dell’idea di imitazione e quella
di partecipazione: è “a partire” da questa unità fra Ipostasi divine che si prolunga “l’unifica-
zione” del popolo: unificandosi, questo partecipa a un’altra Unità; tanto che per san Cipria-
no l’unità della Chiesa non è più intellegibile senza quella della Trinità» (G. PHILIPS, La
Chiesa e il suo mistero, 87). La stessa idea è espressa anche in C. MOELLER, «Storia», 154 e
in J. RIGAL, L’ecclésiologie de communion. Son évolution historique et ses fondements, Cogi-
tatio Fidei, 202, Paris 1997, 66.
Insieme a San Cipriano, LG 4 menziona anche AGOSTINO, Sermones 71,20,33: PL
38,463s; GIOVANNI DAMASCENO, Adv. Icon., 12: PG 96,1358D.
95 «La Chiesa, quale è presentata nel capitolo primo della Lumen Gentium, viene dalla
Trinità, è strutturata ad immagine della Trinità e va verso il compimento trinitario della sto-
ria. Venendo dall’alto, “oriens ex alto” come il suo Signore (Lc 1,78), plasmata dall’alto e in
cammino verso l’alto, in quanto è il “Regnum Dei praesens in mysterio”, la Chiesa è nella
202 Antropologia di comunione
come è stato mostrato nel commento a LG 296, entra nel disegno eterno di
Dio in vista del compimento dell’essere dell’uomo in Cristo, il legame
Chiesa-Trinità deve essere considerato anche come relazione nella quale
l’uomo, in Cristo, è inserito nella vita trinitaria. In altri termini, il rapporto
fontale della Chiesa dalla Trinità è l’esito della volontà eterna di Dio di far
scaturire l’essere proprio dell’uomo dalla vita trinitaria, di ammettere l’uo-
mo nella comunione tra le Persone divine: questa comunione avviene in
Cristo attraverso la Chiesa. È nella Chiesa che Dio vuole realizzare la co-
stitutiva chiamata dell’uomo alla partecipazione della vita divina; nella
Chiesa l’uomo può realizzare il suo essere. Ma nella Chiesa, l’uomo realizza
in Cristo il suo essere come essere di comunione: comunione con le Perso-
ne divine, comunione con il genere umano.
Si può dunque approfondire GS 32,4 riconoscendo che il corpo di Cri-
sto, nel quale, attraverso lo Spirito Santo, è istituita una nuova fraterna co-
munione tra gli uomini, è il luogo in cui si realizza non solo la comunione
interumana, ma la comunione tra Dio e gli uomini; o meglio, la comunione
tra gli uomini sussiste nella comunione con Dio, in Cristo, per lo Spirito
Santo.
storia, eppure non è riducibile alle coordinate della storia, del visibile e del disponibile [...].
L’unità della Chiesa viene così approfondita in una triplice direzione: in rapporto all’origine
dalla Trinità, in rapporto alla comunione, che fa della Chiesa l’icona vivente della Trinità, ed
in rapporto alla Patria trinitaria, che è il compimento delle promesse di Dio e perciò il rag-
giungimento dell’universo assunto e ricapitolato nell’adorabile mistero trinitario. La Trinità
è l’origine, la forma e la patria dell’unità ecclesiale, la sorgente da cui questa nasce, l’icona
cui essa si ispira e la meta verso cui essa va nel cammino del tempo» (B. FORTE, La Chiesa
della Trinità, 67-68).
96 Cfr. pp. 187-189.
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 203
4.3.1 La redazione di LG 7
La categoria ecclesiologica di «corpo mistico di Cristo», assunta dal-
l’enciclica «Mystici Corporis» del 1943, aveva dominato la scena durante i
due decenni precedenti il Concilio97.
Tale nozione era stata quindi recepita dal primo schema conciliare del
documento sulla Chiesa (1962) come punto di partenza e fondamento del-
l’ecclesiologia. Lo scopo della nozione di «corpo mistico» di Cristo era
esprimere la realtà teandrica della Chiesa, ponendo in primo piano la sua
realtà «corporale», sociale, strutturale e spiegandone anche l’inscindibile
legame con la dimensione «mistica», spirituale98.
L’esposizione della dottrina del corpo mistico nello schema del 1962
seguiva in buona parte lo sviluppo logico utilizzato dalla MC: 1) primato
della nozione di «corpo» rispetto alle varie immagini della Chiesa; 2) ruolo
del Battesimo e dell’Eucaristia in ordine all’incorporazione di ogni mem-
bro nella Chiesa; 3) sviluppo teologico della nozione ecclesiologica di «cor-
po»; 4) dimensione cristologica (Cristo capo del corpo) e pneumatologica
(lo Spirito vincolo di unità); 5) santità della Chiesa e realtà del peccato tra
le sue membra; 6) non contrapposizione tra dimensione gerarchica e di-
97 «La “Mistici Corporis” avrebbe potuto benissimo suscitare l’impressione che la no-
zione di “corpo di Cristo” a partire dal Vaticano I fosse andata guadagnando il predominio
dell’ecclesiologia e in quel momento venisse adottata definitivamente dal Magistero. Per va-
lutare adeguatamente questa Enciclica senza dubbio conviene considerare che in essa si
compendiano e si articolano con precisione quelle esperienze e conoscenze della Chiesa su
se stessa, che avevano richiesto molti anni per maturare e che nella “Mystici Corporis” si
manifesta con somma chiarezza il superamento di un concetto riduttivo, giuridico, sociolo-
gico e istituzionale della Chiesa, eredità inevitabile di una Teologia dominata dall’apologeti-
ca e dalla controversia» (A. ANTÓN, «Hacia una síntesis de las nociones “cuerpo de Cristo”
y “pueblo de Dios” en la eclesiología», EE 44 (1969) 167 [TdA]).
98 «Tra tutte queste figure, per l’elemento sociale manifestato in esso insieme a quello
mistico, tiene il primo posto la figura del corpo, che Paolo impiegò pensando a Cristo: “Egli
è il capo del Corpo che è la Chiesa” (Col. 1, 18)» (T.prim., 4: AS I/IV, 14 [TdA]).
204 Antropologia di comunione
99 Cfr. PIO XII, Lettera enciclica Mystici Corporis (29 giugno 1943): AAS 35 (1943)
200-242; cfr. T.prim., 4-7: AS I/IV, 14-15.
100 Cfr. T.prior, 5: AS II/I, 217-218.
101 Cfr. AS III/I, 173. Cfr. anche la «Relatio» letta da P. Charue: AS III/I, 180.
102 Cfr. T.em., 7: AS III/I, 164-167.
103 Cfr. G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, 100; F. GEREMIA, I primi due capitoli,
125-126. Riferendosi a questa struttura bipartita, rimasta immutata in LG 7, un altro com-
mentatore sottolinea che «tale distinzione non significa però né una contrapposizione, né
una semplice giustapposizione dei contenuti teologici [...] che vengono invece sviluppati
con coerenza sistematica, senza confondere le due prospettive, né riducendole l’una all’al-
tra. In questo senso si può parlare di un perfezionamento rispetto all’uso, a volte indistinto,
delle citazioni paoline operato dalla “Mystici Corporis”» (S. ALBERTO, «Corpus Suum mysti-
ce constituit» [LG 7]. La Chiesa Corpo Mistico di Cristo nel Primo Capitolo della «Lumen
Gentium», Eichstätter Studien, 137, Regensburg 1996, 543).
104 Cfr. F. GEREMIA, I primi due capitoli, 28-29.
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 205
gico che per quantità della materia, il vertice del primo capitolo, «La natu-
ra della Chiesa militante» e appariva come compimento del disegno divino
(n. 1), realizzato attraverso il Figlio (n. 2), prefigurato da Israele e rivelato
nel Nuovo Testamento con diverse immagini (n. 3)105.
La discussione in aula sullo schema del 1962, pur concentrando l’atten-
zione sulla realtà cristo-pneumatologica del corpo di Cristo, orientò versò
una differente visione della natura della Chiesa. Si privilegiò la nozione bi-
blico-patristica di mistero-sacramento come categoria ecclesiologica fon-
damentale106. Di conseguenza lo schema del 1963 riservava ancora una
particolare attenzione alla nozione di corpo di Cristo, ma inquadrandolo
nel contesto del mistero trinitario da cui scaturisce l’intima natura della
Chiesa. Di fatto, pur perdendo l’assoluta centralità nella definizione di
Chiesa, la categoria di «corpo di Cristo» risultò nel nuovo schema note-
volmente arricchita dal punto di vista teologico, in quanto meglio radicata
in prospettiva trinitaria e sacramentale107. Inoltre rimase sempre in primo
piano rispetto alle numerose immagini bibliche riferite alla Chiesa di cui il
documento dà conto108.
La stessa prospettiva permase nello schema del 1964109. Tuttavia, nell’e-
conomia globale del documento acquistò decisiva rilevanza un’altra nozio-
ne ecclesiologica, destinata a catalizzare attorno a sé la sistemazione dell’ec-
clesiologia: si tratta della nozione classica di «popolo di Dio», a cui fu dedi-
cato l’intero capitolo II, presentata come il fondamento comune da cui sca-
turisce ogni successiva distinzione di funzione e ministero nella Chiesa110.
La struttura della costituzione, così come fu delineata dallo schema del
1964, rimase immutata nel testo definitivo. Ora si tratta dunque di com-
prendere se in questo schema la nozione di «corpo di Cristo» abbia perdu-
to rilevanza o centralità a vantaggio della categoria di «popolo di Dio» op-
pure se il suo contesto nella Lumen Gentium continui a garantirle un po-
sto di primo piano nell’impianto conciliare dell’ecclesiologia.
Per comprendere il grado di rilevanza della nozione di «corpo di Cri-
sto» nella Lumen Gentium si può partire da una domanda: questa nozione
è stata sostituita o adombrata dalla categoria di «popolo di Dio», oppure
ciascuna di esse ha un significato così specifico da risultare complementare
e non alternativa alle altre?
Il confronto tra le prime redazioni del documento ed il testo definitivo,
non mostra una svalutazione dottrinale della nozione di «corpo di Cristo», ma
solo una riduzione quantitativa dello spazio assegnatole nell’economia del pri-
mo capitolo. Si scelse infatti di non ripetere lo schema argomentativo della MC
per fondare le affermazioni sull’argomento, ma semplicemente di rimandare
all’Enciclica per questo scopo. Questa affermazione è giustificata da commen-
tari specifici e non necessita quindi di ulteriori indagini in questa sede111.
La constatazione che il concetto di «corpo mistico» non perde rilevanza
quanto a significato teologico è un passo decisivo per un confronto con la no-
zione di «popolo di Dio» che emerge nell’ecclesiologia della Lumen Gen-
tium: viene operata una scelta tra due nozioni, senza che una escluda l’altra, in
base agli aspetti dell’ecclesiologia che si preferisce porre in risalto112. Questa
Anche Y. Congar propendeva nello stesso periodo per non considerare «popolo di
Dio» e «corpo di Cristo» come due categorie semplicemente giustapposte: «S. Paolo non si
è limitato ad aggiungere l’attributo di “Corpo di Cristo” al concetto di “Popolo di Dio”
quale lo aveva ricevuto dal giudaismo. Egli ha introdotto l’idea di Corpo di Cristo partendo
dal concetto essenziale che usava per parlare della Chiesa. Era necessario per chiarire ciò
che il Popolo di Dio era divenuto dopo l’Incarnazione, Pasqua, e la Pentecoste. Esso era ve-
ramente Corpo di Cristo; solo così possiede la sua adeguata espressione cristologica» (Y.
CONGAR, «La Chiesa come popolo di Dio», Conc(I) I [1969/1] 43).
Degna di rilievo è infine la sintetica formulazione di J. Ratzinger, secondo cui si potreb-
be «definire la Chiesa come popolo di Dio in forza del corpo di Cristo. Il fatto di essere popo-
lo di Dio, è cosa che ha in comune con il popolo dell’Antica Alleanza; ma il suo esserlo nel
corpo di Cristo, questa è per così dire la sua differenza specifica quale nuovo popolo, que-
sto caratterizza il suo modo particolare di esistenza e di unità» (J. RATZINGER, Il nuovo popo-
lo di Dio. Questioni ecclesiologiche, BTCon, 7, Brescia 1971, 107).
113 Riecheggiano le equilibrate parole di H. de Lubac: «Dal carattere misterico della
Chiesa, noi abbiamo tratto fin qui una prima conseguenza: nessuna immagine o nozione rie-
sce a descriverla senza essere debitamente corretta, e la molteplicità delle immagini e delle
nozioni che la Scrittura ci offre deve essere mostrata interamente proprio a tal fine, come la
tradizione non ha mancato di fare... [Il mistero della Chiesa] non può essere afferrato in un
modo semplice e diretto... Esso riveste l’aspetto di un paradosso, che può esprimersi solo
attraverso una seri di antitesi...» (H. DE LUBAC, Paradoxe et Mystère de l’Eglise, Paris 1967,
47-48 [TdA]).
114 «In realtà non si trattava di opporre due espressioni che erano invece com-
plementari. Infatti ci si avvide subito che il mistero della Chiesa era tanto ricco e complesso
che non era possibile “definirlo”, cioè racchiuderlo in una sola espressione, fosse quella di
Corpo mistico o quella di popolo di Dio; bisognava coglierlo da molti lati, ricorrendo a più
immagini bibliche, come aveva fatto il Nuovo Testamento. Si trattava, per designare la
Chiesa, di scegliere l’immagine più completa e usata sia dalla Scrittura, sia dai Padri, sia dal-
la liturgia, senza però che tale scelta significasse esclusione di altre immagini, in particolare
208 Antropologia di comunione
quella di Corpo mistico, usata tanto frequentemente da san Paolo. Il Concilio risolse il pro-
blema, trattando del Corpo mistico nel capitolo I consacrato al mistero della Chiesa, nella
convinzione che quest’immagine fosse la più adeguata a designare la Chiesa nel suo mistero,
particolarmente nella sua santità, senza però considerarla, come aveva fatto la Mystici Cor-
poris, come una definizione vera e propria. Ma ritenne che, per designare la Chiesa nella sua
condizione storica e pellegrinante, e quindi anche peccatrice, fosse più adatto il termine di
“popolo di Dio”» («Dalla teologia del “corpo mistico” all’ecclesiologia del “popolo di
Dio”», in «Civiltà Cattolica» 136 [1985/1], 210).
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 209
Primogenito tra molti fratelli [A], Il Figlio di Dio ha redento gli uomi-
tra tutti coloro che lo accolgono ni, assumendo la loro natura e vin-
con la fede e con la carità, dopo la cendo la loro morte con la sua morte
sua morte e resurrezione [B] ha isti- e risurrezione [B], e li ha trasformati
tuito attraverso il dono del suo Spi- in creature nuove [...]. Ha convocato
rito [C] una nuova comunione fra- i suoi fratelli [A] da tutte le parti e ne
terna, in quel suo corpo [D], che è la ha fatto il suo mistico corpo [D], co-
chiesa... municando loro il suo Spirito [C].
115 «C’è quindi una dipendenza di tutti, e non solo in ordine all’agire ma anche in ordi-
ne all’essere, da Cristo Gesù, e conseguentemente una interdipendenza dei singoli membri
fra loro. Una stessa vita partecipata da tutti, sia pure in diverso grado, unisce la Chiesa… La
vita di Cristo partecipata: questo il principio della nuova comunione con Dio, nella nuova
comunione tra gli uomini. La sua vita diventa la vita della Chiesa» (F. FRANCESCHI, «La Chie-
sa, mistero e comunità», in F. FRANCESCHI, S. BOVO, ed., La Chiesa popolo di Dio. Genesi, in-
troduzione, commento, testo della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, Roma 1966, 97).
210 Antropologia di comunione
116 «Cosicché [“ita”] noi tutti siamo fatti membra di quel Corpo (cfr. 1 Cor 12, 27), e
membri gli uni degli altri». Con la congiunzione «ita», viene posta dalla Costituzione una
chiara relazione di causalità del divenire «membra del Corpo» con il fondamento cristologi-
co-pneumatologico sviluppato in precedenza. Incorporati in Cristo per la fede e il Battesi-
mo, veniamo sempre più uniti a Lui nella comunione del suo Corpo. L’avvenimento sacra-
mentale fonda (Battesimo) e perfeziona (Eucaristia) l’appartenenza a Cristo e alla Chiesa,
Suo Corpo, e in Lui la comunione tra i cristiani» (S. ALBERTO, «Corpus Suum mystice consti-
tuit», 552).
117 Cfr. P. CERVERA BARRANCO, La incorporación en la Iglesia madiante el bautismo y la
profesión de fe según el Concilio Vaticano II, Tesi Gregoriana. Serie Teologia, 44, Roma
1998, 207-211.
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 211
«Il Figlio di Dio ha redento gli uomini, assumendo la loro natura e vincendo la
loro morte con la sua morte e risurrezione, e li ha trasformati in creature nuo-
ve (cf. Gal 6,15; 2Cor 5,17). Ha convocato i suoi fratelli da tutte le parti e ne
ha fatto il suo mistico corpo, comunicando loro il suo Spirito» (LG 7,1).
118 «L’attenta formulazione della frase non autorizza nessuna unilateralità che separi e
assolutizzi in un’indistinta soteriologia le conseguenze dell’Incarnazione dalla totalità del-
l’opera redentrice di Cristo. È nella sua morte e risurrezione che Cristo vince la morte, redi-
me l’uomo e lo trasforma in una nuova creatura. La novità ontologica della vita nuova in
Cristo si compie dunque non soltanto nella inclusione della natura umana, ferita dal pecca-
to originale (cf. LG 2), nel mistero del Verbo incarnato, ma nella reale partecipazione (sa-
cramentale) all’avvenimento di grazia della morte e risurrezione di Cristo [...]. L’essere nuo-
va creatura accade nella comunicazione del suo Spirito» (S. ALBERTO, «Corpus Suum mysti-
ce constituit», 545).
212 Antropologia di comunione
119Con ciò non si vuole intendere il corpo di Cristo come una realtà chiusa e delimita-
ta: soltanto non è possibile affrontare qui la questione dei suoi «confini». È per questo utile
rimandare ad una considerazione proposta da G. Pozzo proprio in sede di commento a LG
7: «La centratura cristologica del concetto biblico di “corpo di Cristo”, nel presupposto
della teologia pasquale della risurrezione, rende possibile superare quella prospettiva fuor-
viante che considera la categoria di “corpo” come elemento di chiusura e di delimitazione,
per riportare il discorso in un’ottica di apertura e di unione. Infatti il concetto di “corpo di
Cristo”, così illustrato, è un concetto pneumatologico, che pone in contatto l’ecclesiologia
non solo con la cristologia, ma altresì con la dottrina sullo Spirito Santo. In tale contesto si
rivela che la problematica dell’appartenenza alla Chiesa deve ripensarsi sulla base del pre-
supposto del “corpo della risurrezione”, e non nella prospettiva di un corpo inteso fisicisti-
camente e staticamente» (G. POZZO, Lumen Gentium. Costituzione dogmatica sulla Chiesa,
Casale M. 1988, 50).
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 213
Scelse perciò la stirpe di Israele perché fosse il popolo che gli appartiene; con
esso ha stretto alleanza, lo ha progressivamente istruito, lungo la sua storia gli
ha rivelato se stesso e il disegno della sua volontà, e lo ha consacrato per sé.
Tutto questo però non era che preparazione e figura di quella alleanza nuova e
perfetta che avrebbe concluso in Cristo, e di quella rivelazione piena che sareb-
be stata trasmessa dal Verbo stesso di Dio fattosi uomo [...]. Questa alleanza
nuova l’ha istituita Cristo: il nuovo patto nel suo sangue (cf 1Cor 11,25). Egli
chiama gli uomini dai giudei e dai pagani, per formare di essi un’unità che non
è più secondo la carne ma nello Spirito, cioè il nuovo popolo di Dio (LG 9,1).
120 Per la storia della redazione di LG 9, cfr. pp. 161-165. Qui di seguito verranno ri-
portati in nota i dati significativi relativi alla storia della redazione delle pericopi citate. Si ri-
corda che tutta la sezione di LG 9,1-2 fu aggiunta ex novo nel T.em.
121 «La Commissione ha valutato che il modo di esporre di questo paragrafo del Textus
prior, soprattuto nella sua prima frase, sia troppo scolastico, e ha ritenuto che il testo possa
iniziare in modo appropriato con l’affermazione della Nuova alleanza e del nuovo Popolo,
senza un’ulteriore introduzione. Il Nuovo Popolo non semplicemente succede al Popolo
antico, ma lo porta a compimento secondo le promesse dei profeti, e con il pegno dello Spi-
rito Santo il nuovo Popolo fin d’ora lecitamente attende il compimento escatologico»
(T.em., «Relatio de n. 9»: AS III/I, 193 [TdA]).
È dunque il concetto di alleanza il riferimento scelto per mostrare il legame tra l’antico e il
nuovo popolo di Dio. «Il ricco simbolismo dell’alleanza in Israele è mantenuto come fonte del-
la comprensione del significato biblico della Chiesa. L’alleanza suggerisce un popolo consacra-
to, consegnato al servizio del Regno all’interno di una struttura escatologica. L’alleanza poggia
sulla forza della promessa di Dio di portare tutto a un pieno compimento futuro. La Chiesa è il
Popolo che Dio ha fatto per se stesso...» (J.F. RUSSELL, «“The People of God” in Vatican II’s
Lumen Gentium. An Essay on Text and Context», Anton. 70 [1995] 209 [TdA]).
214 Antropologia di comunione
essi il suo popolo. L’alleanza è così la singolare relazione che pone in essere
il soggetto stesso con cui Dio stringe il suo patto: il popolo viene costituito
ontologicamente nel momento stesso in cui è costituita la sua relazione di
alleanza con Dio122.
Si osservi che a questo punto il termine delle azioni salvifiche di Dio e il
soggetto che risponde a queste azioni è il popolo in quanto tale, non i sin-
goli uomini: con il popolo Dio stringe l’alleanza, per il popolo Dio attua
nella storia una lenta opera di formazione, rivelazione e santificazione; è il
popolo che, in risposta, deve riconoscere e servire Dio. Si deduce che i sin-
goli uomini possono ottenere la salvezza, cioè il fine prioritario per cui Dio
ha dato inizio a quest’opera, solo se inseriti vitalmente in questo popolo
che è il solo partner dell’alleanza con Dio.
Tuttavia – afferma ancora LG 9 – l’alleanza che nel Sinai costituisce il
popolo di Dio è solo preparazione e figura della nuova ed eterna alleanza
in Cristo, che costituisce il nuovo popolo. L’alleanza sul Sinai aveva come
soggetti Dio e il popolo. Era il popolo, posto in essere dalla relazione stessa
di partner di Dio, che ne riceveva i benefici. La nuova alleanza, invece, po-
ne in essere il corpo di Cristo123.
Il Verbo di Dio, infatti, assume nella sua Persona la natura umana e
nella sua Persona stabilisce la nuova ed eterna alleanza con Dio attraverso
la sua morte e risurrezione. In lui, tutta l’umanità assunta entra nella rela-
zione di nuova alleanza con Dio. In tal modo anche la nuova alleanza crea
dagli uomini un soggetto nuovo: nel momento in cui gli uomini, in Cristo,
entrano nella nuova relazione con Dio sono costituiti nuovo popolo di Dio.
122 Commentando il significato di «popolo di Dio» nella LG, J. Rigal osserva: «Nella
Bibbia, l’elezione è il maggior tratto distintivo del Popolo di Dio. Il legame tra Jahvé e il suo
popolo non scaturisce da una necessità di natura, ma appartiene all’ordine della storia sa-
cra, al piano salvifico [...]. È la scelta di Dio che fa d’Israele un “popolo”, al di là di tutti gli
elementi sociologici che lo costituiscono. L’Alleanza non solo si rivolge al popolo, ma lo
crea, storicamente e religiosamente. L’elezione da parte di Dio non è posteriore alla sua fon-
dazione» (J. RIGAL, L’ecclésiologie, 132 [TdA]).
123 P. Daem, commentando il T.prior, chiedeva una maggiore ampiezza nell’esposizione
della novità del popolo di Dio costituito sull’Alleanza in Cristo e ne suggeriva le principali idee
da trattare: nel capitolo sul popolo di Dio «occorre mostrare più ampiamente che nel cristiane-
simo tutte le cose sono fatte nuove, anche se il Giudaismo preparò Cristo e custodì profezie su
Cristo. Il Popolo di Dio del Nuovo Testamento è una nuova creazione. Ha ricevuto tutto l’an-
nunzio della salvezza e ha dedicato a Dio un nuovo culto. È stato unito al suo capo risuscitato e
dallo Spirito è guidato e santificato. Vive in una comunità soprananturale, che è la Chiesa. Si
compie l’economia della pienezza di grazia. Il Padre “ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio di-
letto” (Col 1,13)» (AS II/III, 188, [TdA]). Infatti il T.prior si limitava ad accennare all’argo-
mento in nota (cfr. T.prior, cap. I, nota 4: AS II/I, 223). La proposta fu accolta dalla Commis-
sione dottrinale, così come indicato nella «Relatio de n. 9» del T.em.: «È stato isitituito nella
novità della definitiva alleanza con il Popolo di Dio in Cristo, dopo la preparazione veterotesta-
mentaria, come dalla proposizione E/977» (AS III/I, 193 [TdA]).
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 215
Questo popolo messianico ha per capo Cristo «consegnato per i nostri peccati,
risuscitato per la nostra giustificazione» (Rm 4,25), che regna glorioso in cielo
dopo aver ottenuto il nome che è al di sopra di ogni altro nome. Lo statuto di
questo popolo è la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali, come
in un tempio, inabita lo Spirito di Dio. La sua legge è il nuovo comandamento di
amare come ci ha amati Cristo (cf. Gv 13,34). Il suo fine è il regno di Dio, inizia-
to sulla terra da Dio stesso, ma destinato a dilatarsi sempre più, per essere porta-
to a compimento alla fine dei secoli, quando apparirà il Cristo vita nostra (cfr.
Col 3,4); allora «anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della cor-
ruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio» (Rm 8,21) (LG 9,2).
124 Cfr. T.em., «Relatio de n. 9»: AS III/I, 193. La richiesta a cui la «Relatio» fa riferi-
mento esplicito (E/585) proveniva da P. Jenny: «Ritengo che nello schema si debba chiarire
meglio in che modo sia compiuto quel nuovo popolo, in particolare come l’umanità sia la
stessa ma sia nuova in Cristo, [...] cosicché tutti gli uomini in lui e per lui siano fatti membri
216 Antropologia di comunione
della divina famiglia. In che modo questa umanità muova è riformata o piuttosto creata da
Cristo? Senz’altro per il mistero della croce e della resurrezione, che chiamiamo mistero pa-
squale» (AS II/II, 73-74 [TdA]).
125 Cfr. T.em., «Relatio ad n. 9»: AS III/I, 193. Richiesta di P. Marty (E/993): cfr. AS
II/III, 507-508.
126 La considerazione del messianismo di Cristo «permette di riconoscere meglio la Chie-
sa come “frutto di salvezza” e, allo stesso tempo, come “strumento di salvezza”. Due concetti
propri della nozione di Popolo di Dio. Come frutto di salvezza, innanzitutto. La Chiesa, il nuo-
vo Popolo di Dio, è una comunità ben definita, frutto della comunione in Cristo Messia, della
sua grazia capitale [...]. E in secondo luogo, la Chiesa è anche strumento di salvezza. Cristo – ca-
po [testa, NdT] del Popolo di Dio – impiega la variegata attività dei membri del suo popolo
per applicare i frutti della Redenzione all’umanità intera. In tal modo, si costituisce essenzial-
mente in un popolo missionario, messianico. Il T.em. rifletterà finalmente questo ricco caratte-
re messianico del Popolo di Dio” (J. PEROMARTA BELLO, «La noción “Pueblo de Dios” en el
textus emendatus y en el textus definitivus. Estudio del n° 9 de la constitución dogmática “Lu-
men Gentium”», in FACULTAD DE TEOLOGIA - UNIVERSIDAD DE NAVARRA, Excerpta e disserta-
tionibus in Sacra Theologia, XXX, 1997, 112 [TdA]). Cfr. anche M. MIDALI, «Il Popolo di
Dio», in La Costituzione dogmatica sulla Chiesa, 387-388.
127 In riferimento a questa pericope conciliare, G. Philips nota che essa è interamente
cristologica: «La novità è Cristo stesso. La Testa del popolo messianico, il suo modo di vita,
la sua legge, il fine che persegue, tutto questo si ricapitola in senso letterale nel Cristo» (G.
PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, 125).
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 217
Come già Israele secondo la carne in cammino nel deserto veniva chiamato
Chiesa di Dio (cf. 2 Esd 13,1; Nm 20,4; Dt 23,1ss.), così pure il nuovo Israele
che avanza nel tempo presente alla ricerca della città futura e stabile (cf. Eb
13,14), si chiama chiesa di Cristo (cf. Mt 16,18): Cristo infatti l’ha acquistata
col suo sangue (cf. At 20,28), l’ha riempita del suo Spirito e rifornita di mezzi
appropriati per la sua unità visibile e sociale. Dio ha convocato l’assemblea di
coloro che credono e guardano a Gesù autore della salvezza e principio di
unità e di pace, e ne ha fatto la sua chiesa, perché sia per tutti e per ciascuno il
sacramento visibile di questa unità salvifica (LG 9,3).
218 Antropologia di comunione
128 Così la «Relatio» al T.em. spiega il termine di «sacramento» riferito alla Chiesa: «La
Chiesa è anche definita “sacramento di unità”, ovviamente in senso largo, che è spiegato co-
me “strumento di redenzione” nello stesso numero 9, p. 22 [in realtà p. 29, NdT], rigo 8.
Gli antichi Padri applicavano il termine “sacramento” (mistero) tanto a Cristo quanto alla
Chiesa» (AS III/I, 194 [TdA]).
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 219
4.5 Complementi in GS 38
Il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, fattosi carne lui stes-
so e venuto ad abitare sulla terra degli uomini, entrò nella storia del mondo
come l’uomo perfetto, assumendo questa e ricapitolandola in sé. Egli ci rivela
«che Dio è carità» (1 Gv 4, 8) e insieme ci insegna che la legge fondamentale
della umana perfezione, e perciò anche della trasformazione del mondo, è il
nuovo comandamento della carità. Coloro, pertanto, che credono alla carità
divina, sono da lui resi certi che è aperta a tutti gli uomini la strada della carità
e che gli sforzi intesi a realizzare la fraternità universale non sono vani. [...]
Con la sua risurrezione costituito Signore, egli, il Cristo cui è stato dato ogni
potere in cielo e in terra, tuttora opera nel cuore degli uomini con la virtù del
suo Spirito, non solo suscitando il desiderio del mondo futuro, ma per ciò
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 221
130 L’attività umana rientra esplicitamente nel contesto del mistero di Cristo. Si tratta
di una tematizzazione non chiarita dalle prime redazioni della costituzione, ma richiesta
direttamente nel corso della sua stesura. Non potendo ripercorrere l’evoluzione di questo
testo, che viene qui accostato solo come complemento, ci si può riferire alla ricostruzione
proposta da A. Auer: «Le affermazioni del Testo 3 riguardo l’integrazione del concetto di
attività umana nel mistero di Cristo non apparivano abbastanza esplicite. Era stato deciso
di parlare a più ampio raggio dell’opera della redenzione – dall’incarnazione al suo com-
pimento. È quanto fu fatto nel Testo 4, ma non abbastanza lucidamente. Si attendeva una
nuova versione che prendesse in conto tutto questo: la santificazione del mondo e della
sua storia attraverso l’incarnazione del Verbo; la legge fondamentale dell’amore e il suo
legame con il lavoro quotidiano; il potere salvifico della risurrezione; l’autorità di Cristo;
l’attività dello Spirito Santo; la contemplazione e la rinuncia al mondo; l’aspetto liturgico,
la celebrazione del giorno del Signore. Questi auspici furono realizzati a grandi linee nel
Testo 5, dove il paragrafo esprime sia l’opera di Cristo che le norme dell’agire umano»
(A. AUER, «Man’s Activity throughout the World», in VORGRIMLER, Commentary, 196
[TdA]).
131 «Il contenuto di questo numero obbedisce ad una redazione dell’ultima ora, pur
avvicinandosi ad alcuni paragrafi del testo preparato ad Ariccia. L’intenzione fondamentale
dei redattori è far vedere come il mistero di Cristo, esposto nel primo capitolo di questa pri-
ma parte, influisca nell’attività umana e misuri le norme che in essa occorre rispettare”
(J.M. GUIX FERRERES, «La actividad humana en el mundo», in A. Herrera Oria, Comenta-
rios, 313 [TdA]).
132 «Nella luce del mistero pasquale, tutte le forme dell’attività umana nell’universo
appaiono come un’unione con Gesù Cristo, morto e risorto: secondo lo schema paolino
(cfr. Col 1,15-23), quest’attività è “in Cristo”, poiché è una progressiva assimilazione al-
l’“uomo perfetto” Gesù Cristo; si realizza “per Cristo”, poiché si svolge per opera di Cristo,
vivo e operante nell’umanità; essa infine tende “verso Cristo”, perché promuove la “ricapi-
tolazione di tutto” in Cristo» (M. FLICK, «L’attività umana nell’universo», in La Costituzio-
ne pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Introduzione storico-dottrinale. Testo la-
tino e traduzione italiana. Esposizione e commento, Torino-Leumann 19683, 622).
222 Antropologia di comunione
l’ingresso del Verbo nella storia, Cristo uomo perfetto, la nuova legge della
carità, la fraternità universale.
In questo senso, letto in continuità a GS 32, GS 38 favorisce una defini-
zione più chiara del rapporto tra opera di Cristo e dello Spirito e opera
umana nella realizzazione della fratellanza universale: il perno di questo
rapporto è la legge della carità. La comunione fraterna, introdotta da GS
32,4 come dono dello Spirito che si realizza nel corpo di Cristo, è spiegata
da GS 38,1 anche come esito degli sforzi umani indirizzati dalla legge della
carità.
La vocazione e la costituzione della fratellanza universale è quindi ope-
ra di Cristo, attuata attraverso il suo sacrificio e il dono dello Spirito nella
costituzione del suo corpo. Ma quest’opera richiede anche la responsabi-
lità dell’uomo e la sua attività, sostenute da Cristo che agisce nel cuore de-
gli uomini con la virtù del suo Spirito.
La visione antropologica della costituzione pastorale abbraccia così in
modo più esplicito la sfera dell’agire dell’uomo, dopo avere approfondito
il rinnovamento cristico del suo essere. Ma non si tratta solo di un agire che
segue l’essere. Il testo parla infatti di un agire che è tale da perfezionare
l’essere. I primi due capitoli hanno già acquisito la novità dell’essere del-
l’uomo creato in Cristo uomo nuovo; ora si accenna alla perfezione di que-
sto essere. Cristo, uomo perfetto, indica all’uomo nuovo la legge «dell’u-
mana perfezione»133. Si delinea così la responsabilità dell’uomo nel parte-
cipare all’opera di Cristo: la legge della carità è legge dell’umana per-
fezione134. Essa non è demandata alle sole forze dell’uomo, ma è comunque
a lui affidata, affinché viva e realizzi perfettamente in Cristo e con la virtù
del suo Spirito quella novità di essere in cui è stato redento.
Questa solidarietà dovrà sempre essere accresciuta, fino a quel giorno in cui
sarà consumata, e in cui gli uomini, salvati dalla grazia, renderanno gloria per-
fetta a Dio, come famiglia da Dio e da Cristo fratello amata.
133 Si noti che in questo articolo, in cui si parla dell’attività umana come via per la per-
fezione dell’uomo e la trasformazione del mondo, la categoria di «Uomo perfetto», già esa-
minata in riferimento a GS 22, è la più idonea per ricondurre a Cristo l’origine, la possibilità
e il termine di questa stessa attività.
134 «Gesù ha rivelato l’uomo vero e proprio e con ciò la legge fondamentale del pro-
gresso umano. Egli rivela che Dio, origine di ogni creatura, è carità, e perciò la legge fonda-
mentale della carità è la legge fondamentale della perfezione umana e quindi anche della
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 223
trasformazione del mondo» (P. SMULDERS, «L’attività umana nel mondo», in B. BARAÚNA,
La Chiesa nel mondo di oggi, 323).
135 Cfr. A. WEBER, A. RAUSCHER, «La comunità degli uomini», 292; E. CHIAVACCI, La
Costituzione, 133; T. GOFFI, «La comunità degli uomini», 578; P. HAUBTMANN, «La com-
munauté humaine», 277; J.M. SETIÉN, «La comunidad humana», 266; D. TETTAMANZI, «La
comunità degli uomini», 225; O. SEMMELROTH, «The Community of Mankind», 181. Solo
T. Gertler si dedica ad un esame attento della frase: cfr. T. GERTLER, Jesus Christus, 177-179.
136 «In tal modo i cristiani, alla luce della fede, possono interpretare e comprendere
più chiaramente l’attuale evoluzione del mondo ed essere del tutto preparati dalla grazia a
donare un valido contributo per aiutare i fratelli» (T.IV, 36: AS IV/II, 459 [TdA]).
137 «Nella vita eterna gli uomini che vedranno Dio faccia a faccia, entreranno anche
nella stessa gioia del loro Signore» (T.IV, 35: AS IV/II, 458 [TdA]).
138 L’osservazione di G. Haddad alla pericope non era riferita al suo contenuto escatologi-
co, ma all’appello che essa rivolgeva ai soli cristiani, infrangendo così l’impegno preso dalla co-
stituzione pastorale di parlare a tutti gli uomini (cfr. AS IV/II, 751). I vescovi tedeschi, invece si
riferirono proprio all’escatologia del testo, lamentando la mancanza di una «teologia della si-
tuazione escatologica» (cfr. AS IV/II, 32). H. Volk chiese di precisare che il mondo è destinato
a un fine soprannaturale che non è possibile conseguire né mediante l’evoluzione, né attraverso
la storia (cfr. AS IV/II, 407). Sulla stessa linea, G. De Vet intese chiarire che il compimento del
mondo è opera di Dio e non solo frutto dell’impegno umano (cfr. AS IV/II, 710). C’è da notare
comunque che la «Relatio» al n. 32 del «Textus recognitus» trascurò di dare ragione dell’inseri-
mento della nuova frase conclusiva dell’articolo, per cui manca una conferma ufficiale della ri-
sposta data dai redattori a queste osservazioni dei Padri (cfr. AS IV/VI, 456).
224 Antropologia di comunione
139 Cfr. l’interpretazione del pronome relativo «quae» proposta da T. Gertler: «La pri-
ma parola “quae solidarietas” riporta al titolo del capitolo. Con la parola “solidarietà” non
si intende semplicemente, come si potrebbe credere a causa del pronome relativo “quae”, la
solidarietà nel Corpo di Cristo. Qui si intende la disposizione spirituale alla responsabilità e
la disponibilità all’aiuto che proviene anche dalla tensione del mondo all’unità» (T. GER-
TLER, Jesus Christus, 178 [TdA]).
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 225
140 «Inoltre si rafforza più che nel Testo 4 la differenza escatologica tra il “già” della co-
munione possibile e il “non ancora” del compimento» (T. GERTLER, Jesus Christus, 179
[TdA]).
226 Antropologia di comunione
5.2 Complementi in GS 39
141 In questo senso GS 39 parla di un progresso terreno che, benché sia distinto dallo
sviluppo del regno di Cristo, «ha un significato se riferito a questo regno» (cfr. F. HOUTART,
«Proposte per un futuro sviluppo dottrinale», in MILLER, La teologia, 696).
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 227
5.3 Complementi in GS 45
142 «(Cristo), principio, centro e fine dell’universo e della storia umana [...] è stato po-
sto al centro di questa storia come nuovo principio dell’esistenza, per mezzo del quale la
creazione può realizzare il suo senso ultimo e giungere così al suo compimento, e tutto il
ruolo (munus) della Chiesa è di servire a questo disegno» (Y. CONGAR, «Le rôle de l’Église
dans le monde de ce temps», in Y. CONGAR, M. PEUCHMAURD, L’Eglise, II, 326-327 [TdA]).
228 Antropologia di comunione
tologica della famiglia umana, il capitolo quarto, nel suo finale (GS 45,2),
in un certo modo estende il principio di comunione oltre i limiti della crea-
zione dell’uomo, per abbracciare in Cristo l’intero universo creato, se-
condo il senso espresso dalle parole «ricapitolare tutte le cose in Cristo».
Viene inoltre meglio chiarita la centralità di Cristo riguardo la consu-
mazione finale dell’uomo e della storia: Cristo non è solo colui che porta a
compimento la storia umana nel suo regno eterno, ma è lui stesso il futuro
eterno dell’uomo. E non solo: se questo è vero, se cioè la pienezza escato-
logica dell’uomo e dell’umanità è comunione con Cristo, allora tale pie-
nezza non è interamente rimandata al «dopo», perché Cristo non è solo al-
la fine. Poiché già l’oggi della storia è segnato dalla salvezza compiuta in
Cristo, allora Cristo è «centro» e non solo «fine» della storia e inoltre l’uo-
mo, nella comunione con Cristo, è già inserito nel pienezza escatologica,
anche se non ancora perfettamente compiuta.
Di conseguenza, anche la stessa concezione della Chiesa ne risulta arric-
chita: il suo «munus» è infatti la possibilità data all’uomo e alla storia di con-
seguire in Cristo la propria compiutezza escatologica. La prospettiva esca-
tologica, in altri termini, rafforza l’idea dell’intima connessione tra missione
della Chiesa e realizzazione cristica della pienezza antropologica143.
143 «Egli come essere creato è stato fatto perfetto da Dio, ma incompiuto. Gli è stata
donata la perfezione da realizzare, da raggiungere. Solo in questa perfezione è il compimen-
to della sua natura, solo in questa perfezione l’uomo diviene, si fa uomo secondo il disegno
di Dio. Se creato perfetto, ma incompiuto egli è obbligato, se vuole essere se stesso, ad ini-
ziare un vero cammino di santità al fine di raggiungere la perfezione cui è stato chiamato da
Dio nell’atto stesso della sua creazione. Se questo non lo fa, l’uomo sarà semplicemente ab-
bozzato, ma non compiuto, ha iniziato il cammino della sua umanità, ma non l’ha portato a
compimento» (C. DI BRUNO, Lettera agli Efesini, 63).
«A questo deve provvedere la Chiesa, cui è stata demandata la missione di portare e di
condurre ogni uomo a Cristo, perché in Cristo, per Cristo e con Cristo compia la vocazione,
realizzi il suo essere, diventi l’uomo voluto e pensato da Dio fin dall’eternità. In Cristo il
compimento avviene solo per redenzione, ma la redenzione suppone la predicazione di Cri-
sto, ma anche l’accoglienza di Cristo. Non c’è redenzione, se manca la predicazione di Cri-
sto, non c’è redenzione se non avviene l’accoglienza di Cristo, se non si diviene con Lui un
solo mistero e una sola vita» (C. DI BRUNO, Lettera agli Efesini, 65-66).
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio Vaticano II 229
2 Cfr. p. 47.
3 Cfr. p. 46.
Conclusione l’Antropologia di comunione 233
che l’uomo non può realizzare se stesso se non nella fedele e autentica rela-
zione con Dio, la relazione di conoscenza e di amore, la relazione di comu-
nione.
In questa luce, la GS permette di rileggere tutta la teologia dell’immagi-
ne di Dio, che essa implicitamente presuppone, e di spiegare l’essere ad
immagine di Dio come essere di comunione.
Dio è inteso così come fonte perenne dell’esistenza e della sussistenza
dell’uomo fatto a sua immagine: se l’essere dell’uomo come immagine di
Dio scaturisce dall’atto creativo di Dio stesso, la realizzazione piena di que-
sta immagine e di questo essere è anche affidata alla responsabilità dell’uo-
mo di permanere nella vitale relazione col suo Signore.
«Antropologia di comunione» significa quindi in primo luogo che per
realizzare il suo essere l’uomo ha bisogno della comunione con Dio, ov-
viamente adempiuta nella relazione con gli altri uomini.
to e figlio adottivo in Cristo. Questa causa finale dice il criterio della realiz-
zazione dell’essere dell’uomo.
Il pensiero di Dio, la sua «scelta» dell’uomo quale santo e figlio adot-
tivo, è il primo momento, eterno, del suo donarsi all’esterno di sé. Pen-
sando l’uomo, Dio «inaugura» quel movimento d’amore per il quale dal
suo interno esce all’esterno un qualcosa di divino (il progetto, il pensiero
stesso) che entra, come causa finale, nella costituzione ontologica della
creatura umana.
Quando questo pensiero divino si realizza storicamente nella plasma-
zione del fango, il fango stesso, «dall’interno» dell’essere di Dio, riceve, ol-
tre che la sua causa finale, anche la fonte della sua sussistenza: l’immagine
divina. Uscita dal «cuore» di Dio e impressa nel fango, l’immagine è il divi-
no nell’uomo.
Tuttavia, quest’opera di progetto e di prima creazione secondo «l’im-
magine» che «esce» da Dio è un’opera pensata e realizzata in Cristo: «in lui
ci ha scelti» (cfr. Ef 1,4); «egli è l’immagine del Dio invisibile» (cfr. Col
1,15). È un’opera che esce da Dio, perché è opera di creazione; ma è un’o-
pera che rimane anche in Dio, perché la sua realizzazione piena e perfetta,
che avviene al momento dell’incarnazione, è solo nel Verbo, che è Dio ed è
in Dio. Poiché inoltre è compiuta nel Verbo, l’opera di creazione è già in sé
opera di salvezza.
Ne consegue che quando, nella pienezza dei tempi, avviene l’incarnazione
del Verbo, la sua kenosi da una parte realizza pienamente l’opera di Dio sul-
l’uomo all’esterno, perché finalmente il mistero della creazione è compiuto
nella figliolanza adottiva dell’uomo in Cristo; dall’altra parte l’assunzione del-
la natura umana in un certo modo porta l’uomo in Dio, al suo «interno», nella
partecipazione della vita divina e della comunione trinitaria.
Per il compimento cristologico dell’opera di creazione e di salvezza,
l’uomo vive con Cristo in Dio: il suo essere non può più essere definito
esaustivamente in base a un qualcosa di divino che possiede in sé come im-
magine. Un «qualcosa» di divino fa l’uomo «ad immagine di Dio», ma la
partecipazione della vita divina lo fa «figlio di Dio». Proprio per essere fi-
glio, l’uomo è stato creato (cfr. Ef 1,5), non per essere e rimanere sempli-
cemente ad immagine di Dio.
Per essere figlio non basta che l’uomo possieda qualcosa di divino che
lo faccia ad immagine di Dio, ma occorre che sia inserito in una relazione
filiale col Padre, e quindi che sia conformato all’Immagine di Dio che è il
Figlio suo. Infatti, l’unica relazione filiale col Padre è quella dell’Unigenito.
Se è volontà divina che l’uomo sia figlio, ciò può avvenire solo nel Figlio
Unigenito: ciò avviene nell’incarnazione.
Di conseguenza, mentre l’antropologia creaturale implicava un qualco-
sa di Dio nell’uomo (ad immagine), l’antropologia che consideri la pienez-
Conclusione l’Antropologia di comunione 237
in questo suo scambio d’amore col Padre. Da questo momento l’uomo non
può più essere concepito al di fuori di questa relazione d’amore.
Inserito in questa relazione d’amore Padre-Figlio, l’uomo cambia sta-
tuto ontologico. La redenzione operata da Cristo è sì liberazione dal pecca-
to e dalle sue conseguenze di morte, ma non è semplice ritorno all’origine.
Redento, l’uomo è elevato alla partecipazione della vita divina. La parteci-
pazione alla vita divina si connota come partecipazione all’altissima dignità
di figliolanza divina e allo scambio eterno d’amore che sussiste tra Padre e
Figlio. Lo statuto di creatura diventa lo statuto di figlio.
Un ulteriore passaggio circa lo statuto ontologico dell’uomo è dato dal-
la riflessione sul ruolo dello Spirito Santo nel mistero di comunione intra-
trinitaria nel quale l’uomo è inserito per volontà divina.
Secondo il modello pericoretico, utilizzato dalla teologia per intendere
le relazioni intratrinitarie, lo Spirito Santo è l’Amore Eterno che relaziona
il Padre e il Figlio, Amore che è Persona. Questo modello mostra la rela-
zione Padre-Figlio non come un rapporto chiuso Io-Tu, ma la apre al dialo-
go e al dono che il Noi divino estende fuori di sé: la Persona dello Spirito
Santo è il Dono della Comunione, dell’Amore e della Vita, Dono che sgor-
ga dalla relazione tra il Padre e il Figlio, da cui lo Spirito procede.
Applicando questo modello alla dimensione intratrinitaria della
categoria di immagine, si svela pienamente l’apertura storico-economica
del rapporto Padre-Figlio. Infatti, se l’uomo realizza il suo essere ad imma-
gine di Dio in quanto inserito in Cristo, Immagine di Dio, si comprende
ora come avviene questo inserimento vitale ed essenziale: esso avviene per
il dono dello Spirito Santo.
In altri termini: nella sua esistenza terrena, Cristo, quale Immagine di Dio,
rivela Dio dichiarando storicamente la sua eterna relazione filiale col Padre. A
questa sua personalissima relazione, egli ammette gli uomini, a ciascuno dei
quali «in certo modo» (cfr. GS 22) egli si è unito per il mistero dell’incarnazio-
ne. Avendo assunto la natura umana con un’unione ipostatica, il Figlio si è
unito «in certo modo» ad ogni uomo; ogni uomo così, «in certo modo», è uni-
to a Cristo nella sua comunione personale con Dio, e partecipa dello scambio
d’Amore tra Padre e Figlio sussistente in eterno.
Il dono dello Spirito realizza questo mistero nell’uomo: per il dono del-
lo Spirito, l’uomo è inserito nel corpo di Cristo e quindi nella natura uma-
na di Cristo che è ormai per sempre presso il Padre. Mostrando l’Amore
che lo unisce al Padre, Cristo è così anche immagine dell’Amore divino
esteso all’uomo. Lo Spirito Santo, Amore Eterno del Padre e del Figlio, ef-
fuso sull’uomo, consente «in certo modo» all’uomo di partecipare alla co-
munione eterna che lega le Persone divine.
Il dono dello Spirito compie dunque la categoria cristologica di imma-
gine: Cristo dona, per lo Spirito, quell’Amore Eterno che rende visibile. Lo
Conclusione l’Antropologia di comunione 239
Le stesse relazioni umane, dunque, sono inserite nel mistero della vita
trinitaria. L’uomo redento deve vivere il suo rapporto con l’altro sul mo-
dello della comunione trinitaria nella quale abita in Cristo. Il rapporto di
figliolanza che lega Cristo al Padre, unisce l’uomo al Padre in Cristo e lega
l’uomo all’uomo in una comunione che è estensione dell’amore del Padre
che abita nel suo figlio adottivo.
Il luogo della sussistenza di queste relazioni di comunione non può es-
sere che la Persona di Cristo. In lui il Padre ama l’uomo, in lui l’uomo può
avere accesso all’amore del Padre. In lui l’uomo è inserito nella vita trini-
taria, in lui la pericoresi divina eleva la relazionalità umana. In lui gli uo-
mini si ritrovano nella comunione dei figli dell’unico Padre. La comunione
è una necessaria conseguenza della figliolanza in Cristo.
5 Cfr. p. 230.
242 Antropologia di comunione
comunione fraterna tra tutti coloro che lo accolgono con la fede e la carità»
(GS 32,4): l’uomo è sempre pensato in una realtà di comunione, da un gra-
do di preparazione fino ad una realtà nuova di pienezza e compimento.
Questo dunque il rapporto tra persona e comunità che ne scaturisce:
nell’ordine della creazione quanto nell’ordine della redenzione, l’uomo non
è concepito individualisticamente: sussiste in quanto persona, ma vive e rea-
lizza la propria santificazione e salvezza, quindi la propria autentica pienez-
za, solo nella comunità, che finalmente è indicata come comunione in Cristo
(GS 32,4), in vista della propria consumazione escatologica (GS 32,5).
L’uomo è un essere personale, che non può essere risolto nella comu-
nità, la cui individualità non può essere smarrita nella collettività, ma che
tuttavia necessita in modo imprescindibile della comunità in Cristo per
realizzare la vocazione in Cristo nella quale è stato creato e redento. In
questo senso non l’uomo è posto in essere a servizio o in funzione della co-
munità, ma è la comunità voluta e pensata in vista della persona. Tuttavia la
comunità non può essere concepita come un mero strumento a dispo-
sizione dell’uomo, bensì come il contesto vitale nel quale egli è chiamato
ad inserirsi responsabilmente e nel quale conseguire la propria pienezza.
con l’altro uomo, visto che «famiglia di Dio» non è un concetto che spiega
la relazione individuale del singolo con Dio, ma il rinnovamento di tutto il
genere umano, per il quale la pienezza della legge sia l’amore (cfr. GS 32,3).
È ovvio che «famiglia di Dio» è innanzitutto un concetto cristologico: è
in Cristo che ogni uomo può essere partecipe della sua relazione di figlio-
lanza col Padre. Anche attraverso la via del concetto di «famiglia di Dio»,
si giunge a considerare in piena luce Cristo come pienezza dell’uomo. An-
zi, è opportuno ricordare che l’affermazione a sfondo trinitario dell’uomo,
figlio col Figlio, che esclama nello Spirito: «Abba, Padre!» è proprio l’esito
culminante del fondamentale articolo GS 22, dedicato a mostrare in Cristo
la vera luce e la pienezza dell’essere dell’uomo. La pienezza cristologica
dell’essere dell’uomo è realizzata proprio nell’inserimento dell’uomo nella
famiglia di Dio, quale figlio col Figlio.
per la quale ogni uomo può conseguire in Cristo la propria novità, la pie-
nezza del proprio essere.
GS 32,4 specifica inoltre la connotazione propriamente ecclesiale del
corpo di Cristo. Si può dunque pensare l’inserimento vivo nella Chiesa
stessa, in quanto corpo di Cristo, come accesso offerto ad ogni uomo alla
pienezza del proprio essere in Cristo. Non si può pensare ad un uomo già
pienamente realizzato in sé al quale venga poi offerto il dono creativo e re-
dentivo di Cristo, tramite l’inserimento nel suo corpo che è la Chiesa.
Non si tratta qui del problema della relazione con Cristo e la Chiesa da
parte di ogni uomo di buona volontà, ma della comprensione dello stretto
legame che, attraverso la cristologia, unisce la teologia sull’uomo alla teo-
logia sulla Chiesa. L’inserimento vivo nella Chiesa è via di conseguimento
in Cristo della propria pienezza antropologica. L’antropologia e l’ecclesio-
logia sono strettamente collegate nell’atto di spiegare l’opera di Cristo sul-
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dell’Agorà, 1, Padova 1988, 17-38.
SEMERARO, M., «Le immagini della Chiesa (Lumen Gentium 6)», Lat. 54 (1988)
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SEMMELROTH, O., «La Chiesa, nuovo popolo di Dio», in BARAÚNA, G., ed., La
Chiesa del Vaticano II. Studi e commenti intorno alla Costituzione dogmatica
«Lumen Gentium», Firenze 1965, 439-452.
264 Antropologia di comunione
AGOSTINO: 48, 49, 54, 66, 70, 99, 201 CIPRIANO: 184, 201
AGUILAR SCHREIBER: 46 COLOMBO: 206
ALBERTO: 204, 206, 210, 211 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNA-
ALETTI: 98 ZIONALE: 113
ALSZEGHY: 45, 48, 50, 53, 55, 58, 63, 64 CONGAR: 41, 164, 207, 227
ALVAREZ BOLADO: 64, 65 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA
ANTÓN: 203, 206 DELLA FEDE: 113, 115
APARICIO VALLS: 117, 170 CORDERO: 87
ARAMBURU: 129 CROUZEL: 41
ATANASIO: 54, 55, 99
ATENAGORA: 99 DAEM: 214
AUER: 221 DAMASO I: 57
BACHELET: 41 DE LA SOUJEOLE: 183
BADRÉ: 129 DELHAYE: 19, 33, 38, 39, 64, 75, 90
BALTHASAR: 48, 49 DE LUBAC: 67, 144, 207
BARAÚNA: 41 DE LUCA: 86
BAUDOUX: 157 DE PROVENCHÈRES: 152, 196
BEA: 126 DE RIEDMATTEN: 19, 20, 123
BECHINA: 138, 144, 181, 182, 199 DE VET: 223
BÉJOT: 126 DEVOTO: 152, 174
BELDA: 83, 90 DI BRUNO: 96, 101, 177, 178, 228
BENEDETTO XII: 57 DIONISIO ROMANO: 99
BLONDEL: 67 DÖPFNER: 128
BRECHTER: 41
BROWNE: 152, 162 ERHUEH: 46
Presentazione 7
Introduzione 11
Abbreviazioni e sigle 15
Capitolo primo
Il fondamento cristologico della solidarietà umana e della comu-
nione ecclesiale nell’iter storico della costituzione pastorale
Gaudium et Spes 19
Capitolo secondo
La dignità della persona umana 41
Capitolo terzo
La comunità degli uomini 119
Capitolo quarto
GS 32, fulcro dell’antropologia di comunione del Concilio
Vaticano II 151
Conclusione 231
Bibliografia 247
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