Escolar Documentos
Profissional Documentos
Cultura Documentos
ESTRATTO
da
THOMAS MORE E LA SUA UTOPIA
Studi e ricerche
Studi e Testi
• 51 •
Comitato scientifico
Michael J. B. Allen - Simonetta Bassi - Andrea Battistini - Giuseppe Cambiano -
Michele Ciliberto - Brian P. Copenhaver - Mariarosa Cortesi - Massimo Ferretti -
Massimo Firpo - Mariano Giaquinta - Tullio Gregory - James Hankins - Fabrizio
Meroi - Filippo Mignini - Vittoria Perrone Compagni - Gregorio Piaia - Adriano
Prosperi - Elisabetta Scapparone - Loris Sturlese
— III —
Leo S. Olschki Editore
MMXVIII
Tutti i diritti riservati
PRIMA PARTE
SECONDA PARTE
— V —
SOMMARIO
— VI —
Guido Boffi
— 137 —
GUIDO BOFFI
1 Voluminosità cresciuta già con la ristampa di Utopia apparsa a Parigi nel 1517, di fatto
una seconda edizione per l’aggiunta dell’epistola redatta da uno dei padri dell’umanesimo giu-
ridico: Guillaume Budé saluta l’inglese Thomas Lupset, in T. More, Utopia, testo latino, versione
italiana, introduzione e note di L. Firpo, Vicenza 1978, pp. 264-277.
2 Mi sembra notevole l’interpretazione di Carlo Ginzburg, che non si ferma a constatare
il «carattere lucianesco» dell’Utopia di Moro (oltre che dell’Elogio alla follia erasmiano), in defi-
nitiva già «scontato da tempo» nella letteratura critica, facendovi leva piuttosto per una rico-
struzione genetica dell’opera: «Moro, come si sa, cominciò con lo scrivere quello che sarebbe
diventato il secondo libro, cioè la descrizione di Utopia; successivamente aggiunse il primo
libro, la descrizione dell’Inghilterra. Mi pare che in questo caso post hoc e propter hoc coincidano.
I paradossi di Luciano devono aver fatto balenare a Moro un campo di possibilità che modificò
il suo progetto iniziale. Ipotesi stravaganti puramente immaginarie lo spinsero a guardare la
realtà da un punto di vista insolito, a porre alla realtà domande oblique» (C. Ginzburg, Il vec-
chio e il nuovo mondo visti da Utopia, in Id., Nessun’isola è un’isola. Quattro sguardi sulla letteratura
inglese, Milano 2002, p. 44).
3 Strumento indispensabile per uno quadro storico-analitico: G. Marc’hadour, L’univers
de Thomas More. Chronologie critique de More, Érasme et leur époque (1477-1536), Dessins de R. Joly,
Paris 1963; cfr. inoltre S. Rossi, Profilo dell’umanesimo enriciano. Erasmo e Thomas More, in Id.,
Ricerche sull’Umanesimo e sul Rinascimento in Inghilterra, Milano 1969, pp. 26-63, in particolare,
su More e Utopia, pp. 53-63. Erasmo, che nel 1509, appena tornato sofferente dal suo soggiorno
italiano, aveva redatto i primi otto capitoli del Moriae encomium (elogio della follia, ma anche
di More) nell’abitazione londinese dell’amico, infine gli dedicò l’apologo dell’opera rielaborata
nei due anni successivi. Nel 1516 prestò poi tutta la propria cura al testo di Utopia concepito da
More l’anno precedente a Bruges, durante le pause dei negoziati cui questi aveva preso parte.
Contribuì a fargli raggiungere la forma conclusiva destinata a restare matrice di un genere
anche letterario. Fu grazie ai vasti tramiti personali ed epistolari di Erasmo che il nome di
More, semisconosciuto al momento della pubblicazione del suo capolavoro, iniziò a circolare
nell’ambiente umanistico d’Europa.
— 138 —
CECI N’EST PAS UNE UTOPIE
— 139 —
GUIDO BOFFI
racconto così romanzesco [talis fabulæ] mi sarei forse astenuto da un’invenzione [fictione] adatta
a insinuare un po’ più dolcemente la verità negli animi, quasi spalmandola di miele» (More,
Utopia, cit., p. 281). Da rimarcare che precisamente la fictio funge da innesco della carica politica
del testo e che ciò venga espresso nei modi paradossali e divertenti dell’irrealtà, con un periodo
ipotetico che dissimula l’intenzione di scrivere de republica.
6 Beninteso, l’Utopiæ Insulæ Figura dà nome a cose che qui, assai più di quanto non ac-
cada con ogni mappa, sono invisibili. Infatti, generalmente esse restano bensì invisibili come
prelinguistiche dietro i segni cartografici che le indicano, e tuttavia le si ritiene effettivamente
localizzabili al modo indicato per rilevamento di un’esperienza diretta precedente – quasi sem-
pre altrui. Al contrario, in questo caso sono puri invisibilia nella mancanza di qualsiasi rilievo e
patto analogico-mimetico con la realtà.
7 Hythlodaeus, riporta il cartiglio su cui poggiano i piedi della sua figura. A decifrazione,
vale la nota di Firpo: «“Raffaele” è il nome dell’angelo (in ebraico “Dio guarisce”), che secondo
il Libro di Tobia risana i sofferenti e restituisce la vista ai ciechi. Il cognome “Itlodeo” [...] del nar-
ratore dell’avventura utopica è composto dalle parole greche ὔϑλος (cicaleccio, burla, fandonia)
e δάιος (distributore): suona quindi scherzosamente come “Spacciafrottole”» (More, Utopia,
cit., p. 299, nota non numerata riferita alla p. 5 del testo). Nel significato complessivo fornito
da cognome e nome, per dir così: ‘spacciafrottole che guarisce, che rende la vista’, Raffaele
Itlodeo può ben mascherare More stesso, dargli voce.
— 140 —
CECI N’EST PAS UNE UTOPIE
— 141 —
GUIDO BOFFI
3. Una delle opinioni più diffuse nelle riletture di Utopia e nella ripre-
sa generale della questione è che il suo disegno sia quello di uno spazio
senza luogo e senza tempo. Si tratterebbe perciò di uno spazio ‘eu-topi-
co’ ed ‘eu-cronico’. In fine tempo felice di un luogo retto da ottime leggi,
dove sia stato bandito ogni tipo di conflittualità sociale.14 Il nesso effettivo
e sodale di More con Erasmo darebbe a tale disegno lo sfondo dell’univer-
salismo cristiano. Il che fa di quell’utopia null’altro se non una secolarizza-
12 Cfr. supra, nota 3. Osserva Ginzburg: «Un mito o una fabula (la definizione usata da
Moro stesso per l’Utopia) ispirata alle argomentazioni fittizie di Luciano finì con l’esercitare,
analogamente alle fictiones del diritto, una presa concettuale sulla realtà» (Ginzburg, Il vecchio
e il nuovo mondo visti da Utopia, cit., p. 41). In nota Ginzburg rinvia a quanto aveva già scritto
a proposito della fictio giuridica nel suo Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Milano
1998, pp. 40-81.
13 Utopia «proponeva all’Europa colta un nucleo di serie e coraggiose critiche alle strutture
vigenti dell’aggregato politico-sociale e insieme un radicale progetto di riforma della convivenza
umana ispirato agli ideali della famiglia patriarcale, della sana fatica educatrice, della cultura dif-
fusa, della comunanza dei beni materiali, in vista di una vita semplice, sobria, serena, in armonia
con la felice spontaneità della natura» (L. Firpo, Introduzione, in More, Utopia, cit., p. xv).
14 Del resto è l’indicazione fornita dai Sei versi sull’isola di Utopia del poeta laureato Anemolio,
nipote di Itlodeo per parte di sorella: «Gli antichi mi chiamarono Utopia per il mio isolamento;
adesso sono emula della repubblica di Platone, e forse la supero (infatti ciò che quella a parole
ha tratteggiato, io sola lo attuo con le persone, i beni, le ottime leggi), sicché a buon diritto
merito di esser chiamata Eutopia» (ivi, p. 249).
— 142 —
CECI N’EST PAS UNE UTOPIE
15 Si pensi a Brave New World, di Aldous Huxley: che il romanzo si svolga nel segno nega-
tivo della distopia non muta la sostanza del discorso – almeno dal punto di vista in cui lo sto
conducendo.
16 Se ne può avere un’idea complessiva inventariando per esempio già soltanto i saggi
raccolti nel ricco volume Utopia. Storia e teoria di un’esperienza filosofica e politica, a cura di C. Al-
tini, Bologna 2013.
17 C. Schmitt, Glossarium. Aufzeichnungen der Jahre 1947-1951, hrsg. von E. von Medem,
Berlin 1991; trad. it. Glossario, a cura di P. Dal Santo, Milano 2001, p. 66.
18 Ivi, trad. it. cit., p. 133 (corsivo mio).
— 143 —
GUIDO BOFFI
— 144 —
CECI N’EST PAS UNE UTOPIE
4. Sappiamo che topos è per i greci ciò che per i latini diverrà il locus, così
in retorica come in geografia, da cui in tutta evidenza il lemma italiano che
ne conserva la semantica concettuale oltre che letteraria. Il luogo è sem-
pre qualificato dall’alito di un genius che l’ha fatto proprio. Identifica una
determinazione e non un’altra. È una delimitata-determinata porzione di
spazio.24 Spatium deriva da stadion, l’unità di misura greca della lunghezza,
delle distanze: uniformato dallo stadion, ogni intervallo metrico è quantita-
tivamente uguale e omogeneo all’altro. Nessuna meraviglia se si verificano
spazi standardizzati, equivalenti – standardizzazione ed equivalenza che in-
vece costituiscono la vera e propria negazione del luogo, non-luoghi.25 Lo
spazio non implica di per sé un luogo – se non in quanto divenga spazio
vissuto, cioè appunto localizzato da e per un corpo. Il luogo, al contrario,
esplica spazio, sotto forma di sua emergenza ecologico-sociale, qualitativa,
abitativa, lavorativa. La località differenzia con esperienze, posizionamenti
sociali, soglie di accesso alle risorse ambientali ed invenzioni l’omogeneità
dello spazio. È raggrinzamento caratteristico della sua curvatura lineare.
Schmitt dunque si sbaglia. Senza poter prescindere dall’uno piuttosto
che dall’altro, la mentalità utopica ha bisogno di tutt’e due, spazio e luogo.
O meglio, li produce entrambi per metterli in tensione. Esprime una meta-
morfosi singolare: il divenire-spazio del luogo, che resta luogo. Il quale dive-
nire, lungi dal coincidere con un impetus ‘innocente’, spontaneo, esige una
vera e propria instructio mentis. Si badi, nell’opera di More uomo e mondo
devono diventare Utopiani: ma per giungere a esserlo non possono che for-
marsi, istruirsi, assumere una competenza linguistica e pure pratica. Non
a caso nell’edizione di Lovanio, sulla pagina successiva a quella riportante
la mappa intitolata Utopiæ Insulæ Figura, un’altra tabula contiene l’alfabeto
utopiano (e a seguire Quattro versi in lingua locale utopiana, con corrispon-
24 «Luogo [...] è una parte della superficie terrestre che non equivale a nessun’altra, che
non può essere scambiata con nessun’altra senza che tutto cambi [...]. Nello spazio invece ogni
parte può essere sostituita da un’altra senza che nulla venga alterato» (F. Farinelli, Geografia.
Un’introduzione ai modelli del mondo, Torino 2003, p. 11).
25 In tal senso la nota presentazione antropologica di M. Augé, Non-lieux. Introduction à
une anthropologie de la surmodernité, Paris 1992; trad. it. Nonluoghi. Introduzione a una antropologia
della surmodernità, Milano 1996.
— 145 —
GUIDO BOFFI
— 146 —
CECI N’EST PAS UNE UTOPIE
— 147 —
GUIDO BOFFI
28 Qui non c’è spazio per farlo ma varrebbe la pena completare la riflessione su tale aspet-
to dell’utopia valorizzando la nuova edizione del saggio originariamente scritto negli anni
Settanta dall’architetto e urbanista Yona Friedman: Utopies réalisables, Paris 1975, nouvelle éd.
Paris 2000; trad. it. di S. Spero, Utopie realizzabili, Macerata 2003. A latere, ma con un ruolo
altrettanto primario per pensare la complessità etnico-culturale delle nostre città, sarebbe da
riconsiderare la fungente realizzabilità dell’utopia immaginata su scala planetaria da Constant,
il suo approccio interdisciplinare all’urbanismo unitario, la tensione costruttiva alla «città per
l’homo ludens», il progetto ‘New Babylon’ (1956) per il campo nomade dei sinti piemontesi ad
Alba. In merito, cfr. almeno F. Careri, Constant. New Babylon, una città nomade, Torino 2001.
— 148 —
CECI N’EST PAS UNE UTOPIE
6. Di tali dispositivi votati alla messa alla prova e alla sola realizzabilità
siamo orfani ormai da molti decenni. L’orizzonte delle idee (forse anche
‘teorie’ è diventata una parola grossa), compreso quello non utopico bensì
ideologico della globalizzazione, si è sgonfiato appiattendosi sempre più
negli ultimi anni in cui prolifera un’abbondante, eterogenea retorica (o fe-
roce propaganda) sui confini della realtà (‘reale’, ‘aumentata’, ‘virtuale’) e
circa la scena emozionale del suo riassorbimento in post-reality e post-truth.
S’è disegnata così una curva di discesa che sembra trascinare con la propria
immagine anche quella dei pochi o tanti focolai di altri mondi possibili.
Appartiene a questa dinamica discendente il fatto che ogni affabulazione
filosofica ‘alta’, seppure non astratta ma impegnata nello sforzo di leggere
la realtà dell’epoca, oggi sembri doversi iscrivere per forza di cose nel registro
delle procedure fallimentari.
Se utopia potesse o dovesse coincidere con l’originario disegno geogra-
fico e politico pienamente umanistico dipinto da More-Holbein (De optimo
reipublicae statu), quello cioè di una comunità-località ottima perché giusta,
impiantata nell’essere e nel bene comuni, nel lavoro cooperativo e parte-
cipativo riconosciuto, nella garanzia delle libertà civili individuali, allora
si dovrà constatare che nulla e nessuno ha più la forza – magari nemme-
no l’intenzione critica – di elevare a tale altezza il tiro dell’immaginario,
— 149 —
GUIDO BOFFI
prima ancora che lo statuto della realtà. Nulla e nessuno, in alcuna ma-
niera. Il Novecento ha praticato in vari modi, e quasi tutti terribili, lo spe-
gnimento delle tensioni costitutive di utopia problematicamente garanti
della sua pensabilità. Certo, le rappresentazioni utopiche novecentesche
hanno mostrato ben altro tenore rispetto a quello umanistico originario.
Mentre le utopie primomoderne intesero armonizzare presente e futuro,
potere politico e sapere, umanismo e razionalità scientifica, persuase di po-
ter giungere-evolvere all’«ottima forma di Stato» della loro conciliazione a
venire, quelle contemporanee, all’opposto, si sono quasi sempre levate sul
conflitto delle polarità e la contrapposizione violenta allo stato presente del
fine futuro, cui avrebbe potuto introdurre soltanto una radicale soluzione
di continuità. Per esempio, controcanto allo Schmitt prima menzionato, in
colui che ha pensato l’utopia con ogni probabilità più di ogni altro filosofo
del Novecento, Ernst Bloch.
L’utopia blochiana designa il novum e insieme l’eschaton. È emancipazio-
ne-liberazione politica non più che redenzione concreta della temporalità.
Esodo a tutt’altro futuro rispetto a quello che conseguirebbe dallo sviluppo
progressivo del passato denso di lotte e di sconfitte impartite dai sopraffat-
tori. È futuro possibile, atteso e sperato ma indeducibile, che dev’essere. A
tale tempo liberato del Regno utopico conducono il millenarismo cristia-
no, le diverse prassi storiche della libertà, il processo rivoluzionario guidato
dalla classe operaia, la cui lotta segna l’inizio della nuova epoca. L’utopia
è già qui: incessante agire e muoversi immanenti, antagonismo di un pro-
cesso aperto però non ancora compiuto. È tendenza messianica fondamen-
tale della-nella storia, meglio, di ciò che della-nella storia è traumatico e
inaccettabile,29 non più di quanto non sia fermento concreto della-nella
materia. Il novum è altresì l’ultimum. È possibile obiettivo-reale contenuto
nel grembo del presente: un’ontologia del non-essere-ancora ne esplora i
segni, le inquietudini, la materia, le anticipazioni. Una vasta enciclopedia
utopica nutre, infatti, l’assolutizzazione del «principio speranza» blochiano,
che orienta il non-divenuto del passato all’arco del divenire: experimentun
mundi.
Di fronte a un percorso di intensificazione radicale e visionaria che
spinse Bloch dallo spiritualismo ribelle, con accenti misticheggianti, dell’età
29 Così in E. Bloch, Geist der Utopie, München-Leipzig 1918; nuova ed. rielaborata, Berlin
19232; trad. it. Spirito dell’utopia, [nuova ed. rielaborata della seconda stesura del 1923] a cura
di V. Bertolino e F. Coppellotti, Firenze 1980; Id., Thomas Münzer als Theologe der Revolution,
München 1921; trad. it. Thomas Münzer teologo della rivoluzione, a cura di S. Zecchi, trad. di
S. Krasnovsky e S. Zecchi, Milano 1980; ma anche Id., Erbschaft dieser Zeit, Zürich 1935; trad.
it. Eredità di questo tempo, trad. e cura di L. Boella, Milano-Udine 2015.
— 150 —
CECI N’EST PAS UNE UTOPIE
— 151 —
GUIDO BOFFI
31 Mi riferisco allo studio di riferimento K. Mannheim, Ideologie und Utopie, Bonn 1929
[trad. it. Ideologia e utopia, introduzione di A. Santucci, Bologna 1957], che tanto aveva animato
le discussioni degli anni Sessanta-Settanta.
32 G. Botero, Della ragion di Stato, a cura di P. Benedittini e R. Descendre, introduzione
di R. Descendre, Torino 2016, p. 11.
— 152 —
CECI N’EST PAS UNE UTOPIE
tezza l’effettiva discontinuità. More trattava ancora «de optimo rei publicæ
statu»: è sulla determinazione del genitivo che cade l’accento, a dire, entro
il clima umanistico di provenienza, il bene comune nelle cose e la sua am-
ministrazione, al pari che nell’Institutio dell’erasmiana respublica. Il sostan-
tivo ‘Stato’, con Botero, ricorrente da solo per la prima volta in un titolo
conduce invece a ben altro. Appunto, al dominium privato, esercitato anche
con violenza, la cui genealogia si sviluppa non a caso contestualmente alla
crescita delle potenze signorili nell’Italia del Quattrocento.33 Nella prima
opera dedicata alla sua idea – anzi, a inventarne il concetto tramite una fic
tio juris analoga alla fictio di More –, ‘ragion di Stato’ non possiede affatto il
successivo significato derogatorio rispetto agli ordinamenti etico-giuridici
che i detentori di turno del potere sovrano praticheranno al fine di giustifi-
care ogni abuso tramite sedicenti interessi superiori. Però, come ho detto,
fa segno a un’epoca, quella umanistica, che è appena tramontata mentre
sorge il dies/deus terribilis dello Stato. La sempre più complessa macchina
statuale avrà un proprio funzionamento territoriale sopra i popoli, quel co-
mando sovrano che con un latinismo giuridico, ma anche con la messa alla
prova di un pensiero ‘militante e militare’, il Machiavelli aveva già chiamato
imperio. Come pure possiederà altrettanto potente non solo una pulsione a
mantenersi in esistenza – quasi il conatus spinoziano per il quale ogni cosa è
spinta essenzialmente ed attualmente in suo esse perseverare – ma anche una
scienza della propria conservazione.
Ora, i punti di distinzione tra Utopia e Ragion di Stato potrebbero essere
moltiplicati senza dover escogitare a tale scopo chissà quali ardui pensie-
ri: qui però m’interessa trovare velocemente, dopo ciò che divide, il punto
dell’unione. A dividere potrebbe essere stata una pregiudiziale storiografi-
ca precisa, la quale sino ad oggi, fra altre eventuali cause da ignorare in
questa sede, ha impedito alla letteratura critica di avviare tale raffronto: il
presupposto che fra umanesimo civile ed età degli Stati detti moderni sia
occorsa una frattura. Ciò tuttavia è falso sul piano storico e comporta un
errore su quello metodologico. Una tale ipotesi interpretativa toglierebbe
alla respublica umanistica (per tacere degli assetti politici medievali) l’attitu-
dine a riflettere sugli equilibri politici interni e degli ‘affari esteri’ al fine di
fondare-conservare-ampliare il proprio regime. Toglierebbe, infine, a utopia
il vettore sicuritario del suo pensiero antinomico: come se solo dalla politica
dei rapporti di forza tra le potenze in gioco potesse venire l’ottima forma
di vita sociale, senza alcuna preoccupazione di fissarla una volta raggiunta
— 153 —
GUIDO BOFFI
o creatasi da sé, anche soltanto, a dirla con Foucault, per modellamento sul
pastoralato cristiano. Ma – come ho cercato di esporre – se utopia ha da
essere, allora occorrono sia politica delle potenze sia (ottima) forma-Stato.
— 154 —
CECI N’EST PAS UNE UTOPIE
rales di Parigi, questa conferenza, rivedendola parzialmente e titolandola Des espaces autres.
Soltanto nel 1984, l’anno stesso della morte, ne autorizzò la pubblicazione nella rivista «Ar-
chitectures. Mouvements. Continuité», V, 1984, pp. 46-49; trad. it. Eterotopie, in Archivio Fou-
cault. Interventi, colloqui, interviste, 3 voll., Milano 1996-98, III, 1978-1985. Estetica dell’esistenza,
etica, politica, a cura di A. Pandolfi, pp. 307-316; successivamente anche: Spazi altri [trad. it. di
P. Tripodi], in Id., Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di S. Vaccaro, Milano-Udine 2011,
pp. 19-32.
37 Foucault, Utopie Eterotopie, cit., p. 12.
38 «L’anima funziona nel mio corpo in un modo ben mirabile. Essa vi alloggia, certo, ma
sa anche sfuggirne: se ne fugge per vedere le cose attraverso la finestra dei miei occhi, se ne
fugge per sognare mentre dormo, per sopravvivere quando muoio» (ivi, p. 34).
39 Foucault mai così prossimo a quel Merleau-Ponty da cui si era presto allontanato, pen-
so in particolare alla Phénoménologie de la perception, anche se qui uso ‘carne’ per la vicinanza al
grande tema ‘ultracorporeo’ de Le visible et l’invisible. Per ‘saggiare’ la distanza tra i due autori:
J. Revel, Foucault avec Merleau-Ponty. Ontologie politique, présentisme et histoire, Paris 2015.
— 155 —
GUIDO BOFFI
Il corpo è il punto zero del mondo; laddove le vie e gli spazi si incrociano, il
corpo non è da nessuna parte: è al centro del mondo questo piccolo nucleo uto-
pico a partire dal quale sogno, parlo, procedo, immagino, percepisco le cose al
loro posto e anche le nego attraverso il potere infinito delle utopie che immagino.
Il mio corpo è come la Città del Sole, non ha luogo, ma è da lui che nascono e si
irradiano tutti i luoghi possibili, reali o utopici.40
— 156 —
FINITO DI STAMPARE
PER CONTO DI LEO S. OLSCHKI EDITORE
PRESSO ABC TIPOGRAFIA • CALENZANO (FI)
NEL MESE DI DICEMBRE 2017
ISSN 0394-4400