OLTRE LA GIUSTIZIA: LA VITA BUONA (AMORE E DIRITTO –
COMUNITA’ E SOCIETA’): AGNES HELLER
A. Heller, Oltre la giustizia, Il Mulino, Bologna 1990
ID., Etica generale, Il Mulino, Bologna 1994 ID., Filosofia morale, Il Mulino, Bologna 1997 ID., La bellezza della persona, Diabasis, Reggio Emilia 2009, ID., Per un’antropologia della modernità, Rosenberg & Sellier, Torino 2009 Giovanna Costanzo, Agnes Heller. Costruire il bene. Una teoria etico-politica della giustizia, Edizioni Studium, Roma 2007
Ora vediamo il tema dell’etica e della libertà.
Oltre la giustizia: la vita buona – A. Heller filosofa ungherese e discepola di Lukacs ha scritto molte cose in patria e una volta arrivata in America, dopo varie peripezie umane e accademiche, ha scritto questo saggio : “Oltre la giustizia” Fondamentale è l’interesse per un’etica non formale dei valori, per un’etica dinamica attenta ad un tempo all’individuo e alla comunità. In precedenza si era interessata di una “LA TEORIA DEI BISOGNI RADICALI”. Ora il suo impegno è volto all’eticità, alla moralità e alla persona in quanto individuo. Per cominciare questo avvicinamento alla filosofa è opportuna una piccola deviazione sulla condizione umana ascoltando M. E de la Montaigne. Un passaggio di MONTAIGNE nei suoi saggi suona così: «altri modellano l’uomo io lo racconto, ne rappresento uno particolare molto malformato, che, se dovessi modellarlo di nuovo, farei molto diversamente da quello che è. Ma ormai è fatto. Ora i segni della mia pittura non hanno deviazioni sebbene si mutino e siano variati. Il mondo non è che una continua altalena. Tutte le cose vanno su e giù, senza posa: le rocce del Caucaso, le piramidi di Egitto, e per il movimento e per il loro. La stessa costanza non è altro che un movimento più languido. Io non posso fermare il mio soggetto. Esso va ondeggiante e tremolante, per una naturale ebbrezza. Io lo prendo in quel punto, com’esso è, nell’istante in cui mi interesso di lui. Non dipingo l’essere, ma descrivo il passaggio; non un passaggio da un’età ad un’altra, o, come dice il popolo, di sette in sette anni, ma di giorno in giorno, di minuto in minuto. Bisogna che adatti la storia al momento. Potrei, da un momento all’altro, cambiare non solo per caso, ma anche per intenzione. E’ una registrazione di diversi mutevoli accidenti e di immaginazioni irresolute, e, quando capita, contrarie: o che sia diverso io stesso, o che colga i soggetti in altre circostanze e per altre considerazioni. Tant’è che io mi contraddico molto, per avventura, ma la verità, come diceva Decade, non la contraddico mai. Se la mia anima potesse fermarsi, non farei prova di me, mi risolverei: essa è sempre a scuola, in prova». Montaigne parla di un uomo che si matura e si scopre nel tempo senza essere vincolato ad modello al quale ci si debba attenere o avvicinare. L’uomo è una realtà che continua a cambiare. Se così non fosse noi potremmo riportarlo al suo fondamento originario e immutabile: risolveremmo questo flusso di esperienze nel suo fondamento ultimo. Noi invece ci misuriamo con un essere che continua cambiare. Dobbiamo limitarci a raccontarlo così come ci si manifesta di momento in momento. Dire questo, è come dire che il tempo caratterizza l’uomo. Un tempo si pensava che l’uomo avesse un’essenza intemporale e che nel suo divenire non facesse altro che realizzare questa essenza. No, non c’è nessuna essenza. L’uomo costruisce la sua immagine costruisce giorno per giorno: è l’esistenza il luogo nel quale si decide il profilo dell’uomo. E’ la libertà a decidere di momento in momento il grado di realtà possibile ed effettivo. La libertà poi può consistere nel riferirsi a un valore, a un ideale che può essere quel bene che supera l’essere in dignità e potenza. La libertà è però anche un aderire a questo bene nel tempo, nella varietà della condizioni in cui si offre ed è quindi avvolto dalle mie valutazioni, dal mio particolare giudizio. La libertà è l’orizzonte, il quadro, mentre il libero arbitrio è il fuoco, la conduzione particolare dettata dalla vita quotidiana, dalla condizione umana che posso chiamare più precisamente libero arbitrio. La guida a questa phronesis , a questo giudizio è Socrate. SOCRATE non possiede la verità, ma la cerca e questa è la via della libertà che si trasforma il libero arbitrio. L’intelligenza entra in contatto con la volontà e deve misurarsi con la contraddizione logica che però apre la contingenza storica e la libertà individuale: non faccio il bene che voglio e faccio il male che non voglio. In questo caso però non sono determinato dal destino o dalla cieca necessità, ma tragicamente confrontato con forze che mi sfidano senza annullarmi. Il medioevo aveva già distinto la libertà assoluta riferita al bene sommo e il libero arbitrio, legato alle decisioni contingenti. Siamo liberi nei confronti del bene, appunto perché non lo conosciamo in maniera assoluta. La libertà consiste nell’oscillazione della decisone tra ciò che è proposto e ciò che è riconosciuto dal singolo che vive in stretta relazione con l’istituzione e con la tradizione. Pensare all’individuo come all’unico metro di misura delle cose, all’unico criterio per la definizione della libertà è irrealistico. L’uomo deve avere una regola, una bussola, però non ci deve essere nulla che lo condiziona in ultima istanza. Se decido tutto a monte in termine di valori ideali, nego ogni possibilità di realizzazione del valore dell’individuo, nego l’importanza del discernimento. Ho una coscienza individuale che deve essere libera di determinarsi e di determinare se stessa come persona libera. L’albero della vita è un’indicazione assoluta e ineludibile, l’albero della conoscenza del bene e del male è però il margine che l’uomo inteso nella sua individualità si può ritagliare e riservare. In questo su libertà e libero arbitrio emergono due prospettive: • Quella che ci riporta all’appartenenza, • Quella che la oltrepassa riconoscendo l’individualità come ultima anche se non unica istanza. La libertà può essere valutata a monte sui valori di riferimento, sulla possibilità non fare il bene che voglio e di fare il male che non voglio. La libertà consiste nel percepire che nelle scelte io decido di me stesso come persona libera. Se io prendo delle decisioni ho bisogno di una libertà di movimento. L’uomo non ha un valore che lo possa definire dall’esterno, dal di sopra o contro di lui, ma si definisce di momento in momento, di istante in istante. È possibile quindi decidere grandi valori senza soffocare il libero arbitrio. La libertà non può fare a meno della concretezza dell’esistenza storica. In passato ci sono state società stratificate, ci sono stati movimenti dominanti e tutti i gruppi su questo orizzonte erano condizionati, rispetto ad una cultura omogenea e autoritaria. Noi viviamo in una società invece che non è più omogenea, ma complessa e fatta da tanti corpi che procedono ognuno per conto proprio, sono slegati uno dall’altro, niente costringe nessuno a piegare la testa all’altro, la prospettiva della società moderna è complessa, funzionale e assumo questo atteggiamento perché mi conviene, non perchè è giusto, mi realizza ed è buono. La società ha aumentato il pluralismo, l’individualismo, ognuno cerca la sua strada. Non esiste nessun uomo ideale o essenziale, non esiste più la possibilità di evocare o imporre un bene e un male metafisici, ma solo la possibilità di raccontare di momento in momento una società complessa dove l’individuo si è sviluppato contestualmente, si decide anche in modo libero e anche discutibile, mentre tutto il discorso dei valori fondamentali, assoluti è retrocesso ad ideale immutabile, irrealistico e in un certo qual modo è diventato opzionale. Come custode di certi valori, l’individuo ha una grande importanza, e può riferirsi a norme fondamentali. Adesso la libertà è il discernimento che uno fa, che non preclude e non esclude il confronto con la società, ma la relega solo in seconda posizione. Mentre prima i valori assoluti e universali erano in prima posizione, ora lo sono condizionati al riconoscimento della prospettiva individuale. La libertà è riferita al bene inteso non come istanza generale e totalizzante sostitutiva della singolarità, ma un bene in cui decido di me stesso nella più assoluta libertà. Agnes Heller nasce a Budapest in un orizzonte culturale e politico comunista, da una famiglia ebraica. Viene allontanata dall’Ungheria, va ad insegnare in Australia, poi approda in AMERICA. La sua vita è un crogiolo di lingue, di trazioni e di prospettive. Scopre in america da apolide una cultura se non proprio libera, tollerante. L’importanza dell’esistenza individuale può essere affermata come il valore irrinunciabile della propria soggettività. Riesprime qui il suo concetto esistenziale di libertà attraverso una formulazione platonica: cosa significa libertà? Libertà è non fare il male pur potendolo fare. La libertà non è soltanto fare il bene o non fare il male in base ad un comandamento imposto dall’alto, in riferimento ad un valore assoluto cogente, ma è proprio non fare il male nella situazione data, nella contingenza libera pur potendolo fare. Io mi trovo così misurato con la mia esistenza, e mi oriento con un mio specifico e originale discernimento: riesco a decidere senza costrizioni di non fare il male pur potendolo fare. Questo è libertà: valore ultimo, senza essere l’unica istanza di riferimento (c’è anche la morale/etica). Questo è un punto d’arrivo. Quando pensa nell’orizzonte marxista l’unica morale è quella oggettiva, quella della specie umana, del proletariato. Non è prevista la libertà come possibilità individuale, ma l’apparizione del male come anomalia del funzionamento che per questo deve con energia essere riformato. La libertà è una debolezza e un rischio; la scelta personale è rimossa. Il desiderio di poter scegliere individualmente è una pericolosa scelta borghese. Quando va in AMERICA la Heller scopre invece che pluralismo di prospettive, la scelta individuale è il bene primario e l’istanza ultima. Quindi le stesse prospettive individualistiche estreme, è un ritorno alla ricerca di un fondamento, l’antropologia e la morale due prospettive condotte affiancandole. Etica è la massima espressione dell’antropologia, prima ancora della sua determinazione culturale e religiosa e in ultima istanza è la storia e la peripezia della libertà. L’uomo decide di se stesso come persona libera. L’etica coincide con la libertà cercata e la libertà è il cuore dell’antropologia. L’uomo lo si può definire come essere che conosce e vuole, un essere che intende e si emoziona. Talvolta le emozioni precedono e oltrepassano il pensiero, concorrendo alla scelta libera dell’uomo che scopre il fondo di se stesso. Che cos’è la coscienza? Tema fondamentale della libertà è dunque la decisione di se stessi come persone libere. Provenendo da a un oriente marxista e autoritario in cui le leggi erano solo oggettive, si giunge alla scoperta di un valore occidentale dell’esistenza individuale, che istituisce la verifica della libertà personale come peculiarità dell’antropologia. Nel libro “Etica generale” A Heller descrive lo sviluppo dell’etica in occidente. Nell’altro Filosofia morale si misura come le situazioni storiche e le appartenenza culturali e tradizionali, dove il discernimento o il giudizio appare come possibile. Il bene viene riferito alla vita intsa nel suo orizzonte contingente e prende quindi forma la persona intesa nella sua individualità peculiare e originaria. Ultima fatica doveva essere uno studio sulla morale intesa come formazione e terapia. Nell’ “Etica generale” la prima forma della morale esaminata è quella della vergogna. Max Scheler distingue il PUDORE dalla VERGOGNA. IL PUDORE è una difesa dell’individuo contro ogni intrusione non rispettosa e non autorizzata dell’altro. Il pudore diventa rossore, resistenza ad un’invadenza sperimentata e segnalata, espressione del desiderio di custodire l’integrità e l’identità. La VERGOGNA è la rinuncia anche alla resistenza legittima per tutelare un bene superiore gravemente minacciato: il bene della vita. Le forme tradizionali della morale autoritaria in una società omogenea si esprimono e si impongono con la vergogna. La vergogna è un sentimento innato che la società sfrutta per impedirmi comportamenti liberi avvertiti come una minaccia all’ordine collettivo. La morale della vergogna è imposta dall’esterno e non tiene conto del consenso soggettivo. Con la tragedia greca nasce il conflitto tra due morali e la coscienza individuale pretende di arbitrare la questione e di avere l’ultima parola. Un conto è il sapere pubblico, un conto è il sentire che nasce dalla mia individualità. La ragione pratica si distingue da quella teorica. Il bene pubblico si distingue e può configgere con quello individuale. La saggezza individuale è dunque importante per la determinazione di beni non assoluti o necessari, ma collegati in ultima istanza alla scelta individuale. Se il senso della morale è quello della coscienza, esiste una regola esterna insindacabile che chiamo eticità e una regola interna mediata che chiamo moralità. La relazione pratica dell’individuo con le regole è all’origine della determinazione della condotta giusta. C’è una continua dialettica tra la morale oggettiva e la morale soggettiva, tra l’istanza culturale e la ricerca interiore. La modernità vede nella coscienza una possibilità di giudizio intersoggettivo, in cui la soggettività gioca un ruolo determinante anche se non esclusivo. Appunto per questo processo storico e sociale i valori non vengono imposti ma concordati. Il soggetto di diritto è dunque l’individuo e noi viviamo in un tempo in cui la soggettività è importante, al punto da avallare un rifiuto tendenziale delle etiche sostanzialistiche e pubbliche. In questa cultura la soggettività può avere una dimensione più ricca, più forte. Noi abbiamo bisogno però di tutte e due le prospettive. Tentativo di uscire da questa nicchia per arrivare ad un riconoscimento intersoggettivo, per cui non c’è qualcuno che mi impone i valori, ma sono condivisi. L’individuo si pone al secondo posto rispetto al collettivo, prima mi appartengo, mi identifico e poi mi distinguo. Nella società individualistica, il mio rapporto con Dio e la morale lo decido io. La società moderna, funzionale, non pretende di dire questo è il fondamento, niente costringe a mettersi a confronto con altre prospettive, è la libertà dell’individuo radicale. Questa è la prospettiva con cui si misura A. Heller, In AMERICA trova questa società complessa che tende a difendere la libertà ripiegandosi in nicchie a sfondo religioso, neofilosofico. Sono prospettive deboli, in prevale la tutela dell’individualismo piuttosto che la promozione in campo aperto dell’esistenza individuale. Il tema della singolarità come scelta esistenziale, alla quale bisogna attrezzarsi, è il tema del confronto tra l’opinione e la verità che può nascere solo dal confronto sul bene. In una società libera bisogna interessarsi anche degli ultimi e dare la possibilità a tutti di rimettersi in gioco. Il fatto che siamo tutti uguali renderà la giustizia più vera e certamente più costruttiva del diritto che è l’e4spressione del più forte e spesso solo dell’utile. Da sempre A. Heller coltiva ammirazione e interesse per ARISTOTELE, che non ha mai pensato che l’etica fosse una scienza epistemica e neppure un sapere assoluto, ma che potesse essere espressione di una phronesis, cioè invenzione contestualmente regolata piuttosto che norma espressiva di una legge imposta da orizzonti immutabili. Questo è il lascito aristotelico che funziona da stimolo per il pluralismo di una società libera e che va collegato col rinforzo proveniente dalla scelta individuale. La MORALE ha come valore fondamentale l’individuo il soggetto, non come valore unico, se la coscienza individuale è il VALORE ULTIMO, non può essere il valore unico, deve confrontarsi con altri valori. La vita buona è oltre il diritto e anche la giustizia, perché promuove l’individuo nella sua singolarità, nella sua istanza di libertà, (in questo caso recupera la prospettiva da cui inizialmente era partita). Perché “Oltre la giustizia”? Perché la giustizia spesso è formale e l’uguaglianza che ne risulta è di conseguenza imposta. La vita buona è invece qualcosa che va oltre il formalismo e se ne intende del bene nella sua peculiare concretezza. Questa capacità di vedere il bene nella contingenza, determina il ruolo dell’individuo che può ridimensionare l’enfasi della società. Qualcuno pensa alla società come al luogo privilegiato della comunicazione: questa è una prospettiva importante che non potrò mai cancellare l’individualità se la società deve articolarsi anche come vivente e storica comunità. Questo è il cammino della Heller, dove piuttosto importante è il concetto di persona, modificato da queste scelte. La persona dice apertura, se queste relazioni troppo rigide si arriva a soffocare l’individualità. Parlando di persona ha veicolato un modello rigido, quindi preferisco parlare di individualità della persona. PASCAL riferendosi alla “persona” evidenzia due istanze: quella dell’io odioso, che determina una esasperata ricerca della singolarità, fino al punto di mettersi in competizione o in conflitto con gli altri, e quella dell’io relazionale in cui l’IO eccentrico, aperto è capace e bisognoso di relazione con gli altri. A. Heller ha conosciuto e si è confrontata col pensiero di Hannah Arendt. E’ uscito nel 2004 un libro scritto da due psico-analisti M. Benasayag e G. Schmidt intitolato: “L’epoca delle passioni tristi”, Feltrinelli, Milano. Le passioni spesso sono tristi perché la soggettività, l’individualità è soffocata dall’oggettività o è incapace di oltrepassarsi. Spesso il senso dell’esistenza custodito all’interno delle religioni o delle tradizioni viene dimenticato o rimosso e ci si interessa dell’esistenza approntando delle tecniche dei mezzi senza aver di mira il fine possibile o condiviso. Si sviluppano tecniche sofisticate incapaci di interpretare un senso ultimo o penultimo. I due psico-analisti parlano di operazioni tentate sullo stesso uomo, senza cura della convergenza sullo stesso valore o senza esclusione di incompatibilità o conflitti. Il vero problema è questo: la scienza contemporanea è astratta e non si disinteressa dell’uomo concreto, ma ne affronta in modo astratto solo alcuni tratti specifici. Il problema ermeneutica o quello del senso viene delegati o addossati con un atteggiamento svalutante alla religione. D’altra parte chi spesso compie queste operazioni si interessa solo indirettamente dei problemi del senso dell’esistenza dal punto di vista psicologico, psichiatrico. Questi problemi però non nascono dalla psicologia, ma da altre fonti e solo in questi ambiti possono essere riconosciuti e verificati. Questo è un effetto sia della presunzione della scienza che è astratta sia un effetto della società che resta anonima e in quanto tale non è in grado di dare una risposta ad un problema che nasce ad un livello trascendente, comunitario e individuale. Evita il discorso dell’individuo, si ferma a generalizzazioni di tipo scientifico, interessanti, ma non arriva mai in fondo, in questo uomo che ha problemi a livello esistenziale individuale. Chi diventa operatore a livello sociale, disattende il mondo a livello individuale e si dimentica che questo uomo che vive un profondo disagio sociale di fatto, sta rifugiandosi nel mondo delle emozioni. Io esisto perché sono, perché provo piacere. Emozioni come cura, indicano scollamento tra il contesto pubblico e quello privato. Io desidero che l’altro diventi mio complice. Un disadattamento che non può essere curato dagli psichiatri, l’unica cura è quella di persone singolari, che ti danno testimonianza. Esistenza singolare con valori universali, se questo non avviene, si è condannati a vivere un epoca di passioni tristi. La tristezza consiste nell’impossibilità di una chiusura narcisistica, in modo individualistico e nel misurare tutto in termini di convenienza. Se questo capita il passato diventa dominante.
Approfondienti su Hannah Arendt
Il pensiero di Arendt Poco incline alle posizioni conservatrici e più vicina alle forme di spontaneismo dell'esperienza rivoluzionaria dei Consigli, teorizzata da Rosa Luxemburg, non legata da simpatia a Leo Strauss, ma neppure ai Francofortesi, estranea al problema del potere e attiva nella difesa dei diritti civili e delle minoranze, fu Hannah Arendt (1906-1975), ebrea, nata nei pressi di Hannover, studentessa tra il 1924 e il 1929 nell'università di Marburgo, dove fu allieva di Heidegger, con il quale ebbe anche una relazione sentimentale. Arrestata nel 1933, fuggì a Praga, poi a Ginevra e a Parigi e successivamente, nel 1941, a New York. Dopo la guerra poté riallacciare i suoi rapporti con K. Jaspers, mentre incontrò difficoltà con M. Heidegger anche per il persistente silenzio di quest'ultimo sulla propria adesione al nazismo. Nel 1960 seguì a Gerusalemme, come corrispondente di un giornale, il processo al nazista Eichmann, che le apparve un uomo mediocre, incapace di distinguere tra bene e male: da ciò trasse la conclusione della "banalità" del male, che non ha di per sé profondità, e attribuì una parte di responsabilità del genocidio alle stesse vittime del nazismo, ma questo sollevò nei suoi confronti accuse di antisionismo. Intanto, a partire dal 1956 aveva cominciato a insegnare all'università di Berkeley, per passare poi a quella di Chicago, tra il 1963 e il 1967, e infine alla "New School for Social Research" di New York, dal 1967 sino alla morte. La prima opera significativa della Arendt, pubblicata negli Stati Uniti, è " Le origini del totalitarismo " (1951). Caratteristica saliente del totalitarismo è non tanto una concezione filosofica, quanto l'esistenza di campi di concentramento: nessun governo totalitario, infatti, può sussistere senza terrore e il terrore non può essere edificato e mantenuto senza tali campi, nei quali gli individui sono ridotti a entità superflue. Per questo aspetto, esistono, secondo la Arendt, profonde analogie tra nazismo e stalinismo, entrambi diversi dalla democrazia proprio per l'assenza di ogni salvaguardia delle libertà civili. L'esperienza della rivoluzione in Ungheria, nel 1956, rafforza la sua convinzione che l'unica alternativa al totalitarismo nell'età moderna è nel sistema dei Consigli, che nascono spontanei, senza organizzazione, in nome della libertà, nel corso dei moti rivoluzionari. Intanto, lo studio di Marx e del problema del lavoro la conduce ad interrogarsi sul tema dell'equilibrio delle attività umane: nasce di qui il volume " La condizione umana " (1959), noto anche col titolo " Vita activa ". Ispirandosi all'etica aristotelica, Arendt individua tre componenti nella vita attiva degli uomini: sono tre attività, il lavoro, la fabbricazione, o produzione di oggetti, e l'azione (in greco, "praxis"), le quali si connettono alle condizioni generali dell'esistenza umana, ossia al nascere e al morire, al rapporto con gli altri e alla permanenza sulla terra. Il lavoro assicura la sopravvivenza non solo individuale, ma della specie umana, mentre la fabbricazione produce un mondo sulla terra. Mentre è possibile lavorare e produrre anche in solitudine, non è possibile agire se non in relazione almeno ad un'altra persona, ossia, in generale, ad una pluralità di individui. Questo vuol dire che lavoro e fabbricazione non realizzano qualità specificamente umane, dal momento che anche un animale può lavorare e una divinità artefice potrebbe produrre. Specificamente umano è, invece, l'agire insieme, che costituisce l'ambito della politica e presuppone il linguaggio come mezzo essenziale per il rapporto tra una pluralità di individui. Ciò stabilisce una distinzione tra la sfera pubblica, corrispondente alla polis dei greci, e la sfera privata, corrispondente all'oikos dei greci: quest'ultima è il regno della necessità, caratterizzato dalle attività economiche del lavoro e della produzione necessarie per sopravvivere, mentre la politica è il regno della libertà, dell'emergenza del nuovo. Tutte queste attività, infatti, sono radicate nella natalità, in quanto hanno il compito di preparare e conservare il mondo per i nuovi venuti, ma più di tutte lo è l'agire come capacità di dar luogo a qualcosa di integralmente nuovo. I rapporti tra queste attività, che sono le costanti dell'esperienza umana, variano storicamente. Nel mondo moderno, il lavoro ha assunto una posizione di primato rispetto all'agire, prioritario presso i greci, e al fabbricare, dominante nell'immagine cristiana di un Dio creatore. Questo mutamento ha indebolito la distinzione tra pubblico e privato e ha generato una nuova sfera, quella del sociale, che viene ad assumere le funzioni prima pertinenti all'oikos e alla polis. I risultati sono, da un lato, una nazione amministrata burocraticamente come se si trattasse di un'unica famiglia e un generale conformismo e, dall'altro, una riduzione della partecipazione politica attiva e la trasformazione della sfera privata in intimità puramente individuale. L'integrazione armonica delle varie attività, con l'attribuzione del primato all'agire e, quindi, alla politica, si è invece realizzata, ad avviso di Arendt, nella polis, ma già i filosofi greci avevano minato questo modello, nel momento in cui, a partire da Platone, avevano spezzato la connessione tra la prassi e il discorso, che caratterizza la politica, e subordinato la politica alla loro attività, intesa come teoria, ossia attività contemplativa. In questa situazione, la politica veniva concepita come un ambito che deve essere disciplinato da regole che nascono nella sfera superiore della teoria e sono accessibili soltanto ad una saggezza superiore. Da questa impostazione sono nate, in età moderna, le filosofie della storia e le teorie, come quella hegeliana, che trasformano le nozioni di mezzo e di fine in categorie politiche e interpretano la storia come un processo necessario, finendo in tal modo per giustificare le pratiche totalitarie del XX secolo e sollevando dalla responsabilità di giudicare gli eventi storici. In opposizione a ciò occorre, secondo Arendt, una nuova scienza politica, che torni a porre al centro l'azione, interpretata come inizio di qualcosa di nuovo e di imprevedibile, non fabbricabile ne dall'uomo ne da Dio. Infatti, quando un'azione si perverte in una specie di fabbricazione, si può generare il male e la distruzione degli uomini, proprio come per fare una frittata occorre rompere le uova. In questa prospettiva, nello scritto " Sulla rivoluzione " (1963), la Arendt individua il conflitto essenziale dell'epoca moderna non tra diversi sistemi economici o tra classi, ma tra libertà e autoritarismo; da parte sua, ella si schiera dal lato delle associazioni che nascono spontaneamente, soprattutto nelle situazioni rivoluzionarie, ma rifiuta la definizione della politica come lotta per il potere e le giustificazioni della violenza, fornite da Marx, Sorel e Sartre, in quanto confondono tra loro azione, fabbricazione e processi naturali: ai suoi occhi, la non violenza è essenziale al movimento per la pace e la disobbedienza civile è lo strumento per la difesa dei diritti civili. L'ultima opera, rimasta incompiuta, " La vita della mente ", pubblicata postuma nel 1978, è presentata da Arendt come " un trattato del buon governo mentale ": essa descrive le attività dello spirito, ossia il pensare, il volere e il giudicare, cercando di mostrare la necessità di un controllo e di un equilibrio reciproco fra esse. Il pensare è diverso dal conoscere, che ha un oggetto e un fine: esso, invece, non ha un oggetto, ma si riferisce solo a sé e produce significati, non la verità, che è piuttosto prodotta dal consenso. Il pensare consente di affrontare i fenomeni direttamente, senza alcun sistema preconcetto, e quindi prepara il terreno al giudizio, che rappresenta la vera attività politica della mente. Anche il volere è costitutivo della sfera politica, in quanto mira a produrre un riconoscimento reciproco tra gli individui. In questo senso, la Arendt critica Heidegger per aver rifiutato il volere a favore del pensiero, concepito come forma di azione: ciò equivale, infatti, a rifiutare la politica. Condizione dell'armonia fra le tre attività è la libertà interna di ciascuna. Anche in Germania, nel dopoguerra, ridiventa essenziale il problema del tipo di sapere e di razionalità che deve sovrintendere all'agire individuale e collettivo. Presupposto diffuso è che il modello non possa essere offerto dalle scienze naturali, ne dalle scienze sociali che si costruiscono in conformità ad esse. In questo orizzonte ha luogo, dall'inizio degli anni Sessanta, quella che è stata denominata riabilitazione della filosofia pratica, ossia del diritto, dell'etica e della politica, alla quale hanno contribuito vari autori, tra i quali Gadamer e Joachim Ritter (1903-1974), allievo di Heidegger e di Cassirer.