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N° 2 / PRIMAVERA 2019 JACOBINITALIA.

IT
SCIOPERI!
N° 2 / PRIMAVERA 2019

Scioperi!
DA JACOBIN MAGAZINE
12 euro Verso le primarie Usa: What Bernie should do

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Diffida del tempo
in cui gli scioperi cessano
mentre i grandi proprietari
sono ancora vivi,
perché ogni piccolo
sciopero soffocato dimostra
che il passo è in atto.
John Steinbeck, Furore, 1939 SCIOPERI!
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Editoriale

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SOMMARIO

Se ci fermiamo

Ritorno E ai tuoi figli

20
al futuro chi ci pensa?
In Italia si sciopera sempre Lo sciopero femminista
di meno. Ma le nuove forme rompe il ricatto verso le donne
di sfruttamento impongono ed evidenzia il conflitto tra vita
strategie che riconnettano e sistema capitalistico
lavoratori e cittadini,
produzione e vita Sara R. Farris
Marie MoÏse
Francesco Massimo
Lorenzo Zamponi
Un femminismo
E l’8 marzo 31 per il 99%
28

spagnolo Cinzia Arruzza

bloccò il paese
Tithi Bhattacharya
Nancy Fraser

Inés Campillo Poza


Le periferie
42

Fuori del lavoro


46 34

dai cancelli in sciopero


David Broder Marta Fana
Giacomo Gabbuti Simone Fana

Se nulla può Scioperi


50

accadere tutto di tutto il mondo


è possibile Sciopero Sociale
Valerio Renzi
Marco Marrone Sciopero dell’alternanza
Giulia Biazzo
Sciopero bianco
Gaia Benzi
Sciopero del consumo
Guanluca Carmosino
Sciopero alla rovescia
Giulio Calella

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Libertà Questo è
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Uguaglianza il mio sciopero
Intersezionalità Wissal Houbabi
La coscienza di classe deve sfidare
le logiche razziste, l’antirazzismo
contestare il dominio del
patriarcato, e il femminismo
attaccare ogni sfruttamento
Francesca Coin
intervista Kimberlé Crenshaw

Lo sciopero
67

è delle donne 92 82 75 Il momento


cioè per tutti #MeToo
Assia Petricelli Selene Pascarella

con i fumetti di
Rita Petruccioli
C’è
Sarah Mazzetti del disagio
Sara Colaone
La Tram Simona Baldanzi

Sulle tracce Riot or Strike?


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della parola Le rivolte e le insurrezioni urbane


sciopero sono davvero lo strumento
rivendicativo per eccellenza
di questo momento storico?
Gaia Benzi
Kim Moody

Verso le primarie Usa: What Bernie should do


I socialisti Il socialista Nel grembo Con ogni
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118

132
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al Congresso e la liberale della vecchia mezzo


società necessario

Eric Blanc Shawn Gude David Broder Meagan Day

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Citoyens

Desk Sabrina Marchetti Marco Marrone


David Broder Francesco Massimo Selene Pascarella
Giulio Calella Marie Moïse Valerio Renzi
Salvatore Cannavò Assia Petricelli
Marta Fana Alberto Prunetti Illustratori
Giuliano Santoro Bruno Settis Frita
Lorenzo Zamponi Wu Ming 1 Manfredi Ciminale
Martoz
Redazione Creative director Pronostico
Elisa Albanesi Alessio Melandri
COPERTINA
Gaia Benzi
Luciop
Marco Bertorello Hanno collaborato
Wolf Bukowski Cinzia Arruzza Fumetti
Francesca Coin Simona Baldanzi Rita Petruccioli
Danilo Corradi Tithi Bhattacharya Sarah Mazzetti
Girolamo De Michele Giulia Biazzo Sara Colaone
Sara Farris Inés Campillo Poza La Tram
Simone Fana Gianluca Carmosino
Giacomo Gabbuti Nancy Fraser Web Master
Piero Maestri Wissal Houbabi Matteo Micalella

Jacobin Italia Direttore responsabile


Rivista trimestrale Salvatore Cannavò
n. 2 - primavera 2019
Chiuso in tipografia il 4 febbraio 2019
Autorizzazione del Tribunale di Roma
n. 173/2018 rilasciata il 25/10/2018 Stampa
Arti Grafiche La Moderna S.r.l.
Testata e articoli tradotti via Enrico Fermi, 13/17
da Jacobin Usa su licenza di 00012 Guidonia Montecelio (Roma)
Jacobin Foundation Ltd
388 Atlantic Avenue Distribuzione in libreria
Brooklyn NY 11217 Messaggerie Spa
United Staes
Abbonamenti (4 numeri)
Editore Digitale: 24 euro
Digitale + cartaceo: 36 euro
Spedizioni in paesi Ue: 20 euro
Spedizioni in paesi extra Ue: 35 euro
Edizioni Alegre società cooperativa
Circonvallazione Casilina, 72/74 Info
00176 Roma www.jacobinitalia.it
www.edizionialegre.it info@jacobinitalia.it

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LA TRUFFA MILIONARIA AI DANNI DEGLI ITALIANI
LE ALLEANZE CON PERSONAGGI IMPRESENTABILI AL SUD
LE TRAME OPACHE SULLO SCACCHIERE INTERNAZIONALE
TUTTA LA VERITÀ SUL PARTITO DI MATTEO SALVINI

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Se ci fermiamo
«E
oggi il 24 aprile 1970 / è giorno di sciopero: l’Ordine degli Scopini / è en-
trato nella storia; / bisogna essere contenti, come se gli angeli / fossero
scesi sulla terra». Le parole di Pier Paolo Pasolini dovevano accompa-
gnare le immagini di un documentario sulla mobilitazione degli spaz-
zini. Il filmato andò perduto, ci sono rimasti i versi che testimoniano
il benvenuto del poeta ad alcuni lavoratori nella grande epopea della
lotta di classe. Pasolini riconosce un elemento decisivo: attraverso lo
sciopero una massa di individui atomizzati diventa corpo collettivo. Si
costituisce come soggetto storico. Il che equivale a dire che prima di chiedersi se una lotta
abbia vinto dovremmo prendere atto che questa sia avvenuta, che un evento sia arrivato a
mutare l’equilibrio delle cose e cambiare la disposizione degli attori in campo.
Col primo numero di Jacobin Italia abbiamo proposto il tema introduttivo (forse spie-
tato, di certo non disarmato) su cosa significasse «vivere in paese senza sinistra». In que-
sto numero ci occupiamo dello sciopero, cioè di una delle pre-condizioni di un’azione
politica che non si limiti a raccogliere a valle le domande sociali o che non pensi, secondo
l’inquietante utopia liberale, di organizzare individui in quanto individui.
Uno sciopero è scontro (non esiste sciopero senza una controparte) ma al tempo stes-
so costruzione di alternativa e socializzazione. Purtroppo si sciopera di meno e peggio,
nel senso che è sempre più difficile danneggiare chi detiene il potere e farsi sentire. Ne
parlano Francesco Massimo e Lorenzo Zamponi, raccogliendo le voci dei soggetti di-
versi che in questi anni organizzano i lavoratori e le lavoratrici. Emerge, in diversi modi,
l’esigenza di allargare le forme della lotta sui luoghi di lavoro per eccellenza. Nell’era della
frammentazione produttiva e del dominio dello spettacolo, lo sciopero funziona quando
riesce a estendere il suo impatto materiale e simbolico al di fuori dei confini dati. A patto
che l’operaio massa maschio e bianco sia mai stato veramente il soggetto egemone (ne
dubitano David Broder e Giacomo Gabbuti), bisogna partire dalla presa di coscienza che
la produzione è andata oltre i confini della fabbrica.
N. 2 PRIMAVERA 2019

Ci servono scioperi di nuovo tipo. Ne sono convinte le femministe di Non Una di Meno
che hanno indetto lo sciopero femminista globale dell’8 marzo. «Pensiamo che uno scio-
pero, articolato in vari modi anche inediti, sia lo strumento più potente che consente la
sottrazione dal lavoro produttivo e riproduttivo», dicono nell’appello che lancia la giorna-
ta. Bisogna proiettarsi nel nuovo scenario riprendendo la sfida delle origini, testimoniata
dall’etimologia della parola sciopero in alcune lingue europee (ne scrive Gaia Benzi) e at-
traversata dalle tante modalità di scioperare, che passiamo in rassegna. Proprio del nodo
della riproduzione sociale, e di uno sciopero che coglie la sfida di sottrarsi dallo sfrutta-
mento e al tempo stesso rilanciare costituendosi come comunità in lotta che si prende
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cura di sé stessa oltre le gerarchie imposte e i ruoli dati, parlano Sara Farris e Marie Moïse.
Si tratta di rivendicare un femminismo per il 99%, che vada alla radice delle disuguaglian-
ze e dello sfruttamento dicono Cinzia Arruzza, Nancy Fraser e Tithi Bhattacharya nel
loro Manifesto di cui anticipiamo un brano. E bisogna calare le lotte di classe dentro la li-
nea del colore e dei conflitti di genere. Di questo Francesca Coin è andata a discutere con
Kimberlé Crenshaw, che ormai anni fa ha elaborato il concetto di intersezionalità. Dello
sciopero intersezionale fornisce una testimonianza Wissal Houbabi, donna, lavoratrice e
migrante di seconda generazione.
Dicevamo dell’aspetto simbolico: Selene Pascarella ripercorre le influenze del nuovo
movimento femminista sul linguaggio del principale agente di produzione di immagi-
nario dei nostri tempi: le serie tv. Come racconta Inés Campillo Poza l’anno scorso, in
Spagna, lo sciopero dell’8 marzo ha bloccato pezzi di paese e aperto uno spazio pubbli-
co alternativo all’ondata reazionaria. Ancora, nuove lotte si vanno diffondendo a partire
dai luoghi di lavoro sparsi sul territorio. Lo spiegano Marta e Simone Fana e lo scrive
Marco Marrone a proposito della lotta dei rider bolognesi, quei lavoratori che si muo-
vono con un piede dentro alla piattaforma digitale che li comanda e l’altro per strada a
consegnare pasti. Di uno sciopero che irrompe per le strade di una città, e che permette
a lavoratori e lavoratrici di guardarsi negli occhi parla il racconto di Simona Baldanzi.
Nell’inserto, curato e introdotto da Assia Petricelli, quattro tavole per quattro storie a
fumetti di scioperi al femminile. Il primo è narrato da Rita Petruccioli, è avvenuto l’8
marzo di oltre cent’anni fa e diede addirittura il via alla rivoluzione russa. Poi Sarah
Mazzetti racconta di quando le operaie dell’Essex misero in ginocchio la Ford, Sara Co-
laone di quelle della Valsusa che intrecciarono la loro lotta alla solidarietà di un terri-
torio ribelle e la Tram ripercorre lo sciopero delle donne argentine che ha inaugurato il
movimento globale Ni Una Menos.
Infine, un saggio di Kim Moody approfondisce il tema delle forme di lotta. Nell’era della
circolazione delle merci e dei capitali, lo sciopero assomiglia a una rivolta urbana? Moody
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

prende sul serio la suggestione, ragiona su come la produzione sia divenuta mobile e cala
questo scenario dentro una nuova generazione di scioperi sviluppatasi negli Stati uniti.
A proposito di Usa, la sezione della rivista dedicata alla nostra testata sorella si occupa
dell’altro corno del problema e affronta di petto il tema delle elezioni presidenziali. Cosa
succederebbe se davvero Bernie Sanders dovesse vincere nel 2020? La partita è aperta ma
difficile e piena di contraddizioni, in palio c’è la questione non scontata del rapporto tra
stato e trasformazione, tra istituzioni e lotte. Si propone in modalità inedite anche perché
proviene dalla parte del pianeta che alcuni non si sarebbero aspettati. È il bello della sto-
ria. E testimonia il fatto che gli angeli non smettono di scendere sulla terra.
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In Italia si sciopera sempre di meno. Manca la percezione del rapporto tra
le lotte e l’interesse comune. Ma le nuove forme di sfruttamento impongono
strategie che riconnettano lavoratori e cittadini, produzione e vita

Illustrazioni di
PRIMAVERA 2019
N. 2
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PROSPETTIVE
SCIOPERI!
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iffida del tempo in cui gli scioperi cessano mentre i grandi pro-
prietari sono ancora vivi – perché ogni piccolo sciopero soffoca-
to dimostra che il passo è in atto». Ci vuole la fiducia straordi-
naria nell’umanità e nella sua capacità di redenzione che aveva
John Steinbeck, per identificare, come nelle righe tratte da Furo-
Francesco Massimo re che aprono questo numero di Jacobin Italia, anche i momenti
Lorenzo Zamponi di bassa mobilitazione, anche le sconfitte, come pause disegnate
sul pentagramma dell’emancipazione collettiva.
Viviamo in un «tempo in cui gli scioperi cessano», oggi, in Italia? A giudicare dal dibat-
tito pubblico sembrerebbe di sì e di no, a fasi alterne e a seconda del punto di osservazio-
ne. A metà gennaio la Cgil ha messo in fila su Facebook tutti gli scioperi generali e le mani-
festazioni nazionali fatte dal 2010 in poi, per difendersi dalla nota critica «Perché protestate
ora e non lo facevate contro il Pd? Dov’eravate all’epoca della legge Fornero, del Jobs Act e
dell’articolo 18?», quotidianamente avanzata dal Movimento 5 Stelle da quando è arrivato
al governo. Una narrazione uguale e contraria arriva dall’opposizione: «I sindacati che face-
vano sciopero generale contro tutte le nostre manovre espansive devono essere ancora in
settimana bianca» ha scritto l’ex presidente del consiglio Matteo Renzi sul Foglio. Ognuno è
convinto che lo sciopero sia sempre e solo strumentale all’interesse di partito. La guerra ci-
vile simulata della politica italiana sembra basarsi su una messa in scena continua di vitti-
mismo e tribalismo. Niente è genuino, tutto è complotto. Non esistono interessi sociali le-
gittimi e loro espressioni politiche, ma solo cospirazioni e propaganda.

Lo sciopero di Schrödinger

Non c’è spazio, in questo reality, per il conflitto sociale. E in particolare per la sua capa-
cità di esprimere politica in maniera autonoma, di far irrompere la materialità di bisogni
e desideri, di portare in scena un punto di vista radicato nella vita concreta delle perso-
ne. Meglio rimuovere, o provare a integrare anche il conflitto nelle narrazioni dominanti.
Ma capire se e quanto si scioperi in Italia non è solo questione di propaganda di parti-
to. Nella primavera 2016, ai tempi della lotta (poi persa) contro
la riforma del lavoro in Francia, non c’era pagina Facebook più
o meno populista che non ripetesse la stessa domanda: «Perché Francesco Massimo,
in Italia non si sciopera come in Francia?». Pochi mesi prima, a romano, fa ricerca
PRIMAVERA 2019

settembre 2015, erano bastate due ore di assemblea sindaca- a Parigi. Legge e scrive
le dei lavoratori del Colosseo a far gridare allo scandalo. Pun- di lavoro, relazioni
tualmente, ogni anno, alla diffusione della relazione dell’Auto- industriali e movimenti
rità di garanzia sugli scioperi, si ripropongono gli stessi titoli: sociali.
Lorenzo Zamponi,
N. 2

ricercatore
in sociologia, si occupa
di movimenti sociali e
partecipazione politica.
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«Record di scioperi nei servizi pubblici: il primato è dell’Italia». Lo sciopero è come il gat-
to di Schrödinger, allo stesso tempo vivo e morto, finché non si apre la scatola.
Ma dal 2009 l’Italia non contribuisce più al dataset sugli scioperi dell’Organizzazione
internazionale del lavoro, dunque la scatola è difficile da aprire. Possiamo però provare a
capire se sono cambiate le cose rispetto al passato. L’Autorità di garanzia fornisce dati su-
gli scioperi proclamati, a prescindere dalle adesioni, a partire dal 2004, e la situazione è
pressoché stabile: circa 2.000 scioperi all’anno, di cui circa 300 di rilevanza nazionale. L’I-
stat conta le ore di sciopero fatte per ogni 1.000 ore lavorate da ogni dipendente di una
grande azienda: qui il calo, dalle oltre 30 ore all’anno dei primi anni 2000 alle meno di 15
del 2013, è evidente. Peccato che quasi l’80% dei lavoratori italiani sia impiegato in pic-
cole e medie imprese. Misure meno tradizionali consegnano un quadro più interessante.
L’analisi degli eventi di protesta condotta sulle pagine di Repubblica da Massimiliano An-
dretta dell’Università di Pisa ci mostra
che lo sciopero è ancora la forma di pro-
testa più frequente in Italia, dominando Una volta smontato l’argomento dell’eccezionalità ita-
la scena del conflitto sociale negli anni liana negativa, non si possono non fare i conti col declino
della crisi e dell’austerità. Secondo il oggettivo di uno strumento. Come ha scritto l’anno scor-
sondaggio condotto nel 2015 dal proget- so Doug Henwood su Jacobin, gli Stati uniti hanno visto
to di ricerca Livewhat, quasi il 30% de- nel 2017 solo 7 scioperi con oltre 1.000 aderenti: vent’anni
gli italiani aveva partecipato, nei cinque prima erano 29, quarant’anni prima erano quasi 300. Un
anni precedenti, almeno una volta a uno processo inevitabilmente legato alle dinamiche di trasfor-
sciopero: più che in qualsiasi altro pae- mazione della produzione e della forza lavoro a livello glo-
se coinvolto nell’indagine. E solo in Ita- bale, come spiega Kim Moody in questo stesso numero.
lia, tra i paesi analizzati, più di metà del L’esperienza dello sciopero non è uguale per tutti:
campione, almeno una volta nella vita, «Nell’industria lo sciopero è ancora uno strumento uti-
aveva scioperato. lizzato e che funziona – spiega Valentina Orazzini della
Fiom-Cgil, il più grande sindacato dei metalmeccanici –
Uno strumento in crisi Anche perché non esiste più la mediazione istituzionale.
E quindi a sbloccare il rinnovo del contratto sono state
Ancora una volta, insomma, il luogo le ore di sciopero fatte, costringendo le imprese a seder-
comune dell’Italia addormentata e ad- si al tavolo». Ma non è così dappertutto: «Ad esempio la
domesticata, in cui il conflitto è scom- cantieristica navale – continua Orazzini – ha il proble-
parso e ogni velleità di protesta è assor- ma degli appalti, e quindi una condizione di ricattabi-
bita nell’adorazione per il Renzi, Di Maio lità. Se dentro un cantiere con 1.000 persone, 900 lavo-
o Salvini di turno, non regge la prova dei rano per centinaia di microimprese, hai una capacità di
numeri. In Italia si sciopera: forse meno organizzazione minore». Il nesso tra precarietà e ricatta-
di un tempo, ma ancora più che altrove. bilità è al centro della crisi dello sciopero anche nell’a-
groindustria: «L’istituto dello sciopero – racconta Rober-
to Iovino della Flai, federazione Cgil dell’agroindustria
– è stato svuotato di fatto, da una parte per la precarietà
contrattuale, dall’altra per la liberalizzazione dei licen-
ziamenti. In questo modo si confina l’esercizio dello
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sciopero a una fetta di lavoratori tutelati, anche all’in-


terno della stessa azienda».
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La frammentazione del lavoro è più evidente nella gran-
de distribuzione: «Un metalmeccanico fa una riunione in
fabbrica e vede 200 persone – spiega Cristian Sesena del-
la Filcams-Cgil, sindacato di commercio e servizi –. Noi per
vedere 200 persone in un centro commerciale dobbiamo
fare 20 assemblee in due giorni, tra turni sfalsati, lavoratori
part-time, aziende diverse. Inoltre ormai hai una base di la-
voratori ricattabile, precaria, sottoposta a ripercussioni. Per
un part time involontario rinunciare alla giornata di lavoro
è un condizionamento che osta allo sciopero». Simile la vi-
cenda dei call center raccontata da Sergio Bellavita dell’U-
sb, confederazione sindacale di base: «Se l’azienda può tra-
sferire in un attimo tutte le chiamate in un altro centro di un
altro paese lo sciopero diventa poco efficace». Gianni Boet-
to dell’Adl-Cobas, sindacato di base particolarmente attivo
nella logistica, ha una lunga esperienza di conflitto sul lavo-
ro: «Rispetto agli anni Settanta oggi si sciopera meno – dice
–. È cambiata la composizione tecnica e politica della classe
operaia. Le cose sono cambiate con la ristrutturazione del
ciclo produttivo, con i processi di decentramento e decen- che ti fanno sentire parte di un’unica clas-
tralizzazione, con la parcellizzazione del lavoro». se, un altro è farlo da solo in una fabbrica.
L’impressione, però, è che dietro alla minore disponi- La percezione diffusa dei lavoratori è che lo
bilità allo sciopero ci sia anche la scarsa fiducia in questo sciopero non possa cambiare le cose. Il sen-
strumento, esito di un lungo addestramento alla sconfit- so di sconfitta è pesante e reale».
ta: «Il declino dello sciopero – aggiunge Bellavita – è legato Una scarsa motivazione dovuta alla
alla crisi delle soggettività sociali che hanno determinato il scarsa efficacia, a sua volta negata alla na-
conflitto. Un conto è scioperare nel momento in cui ci sono tura delle vertenze: «Ci troviamo quasi
delle battaglie sui grandi valori che attraversano il paese e sempre a fare lotte difensive – nota Luca
De Crescenzo dei Clash City Workers, col-
lettivo di inchiesta e battaglia sui temi del lavoro in varie città italiane – quando il padrone
sta minacciando di chiudere o delocalizzare. Se lui vuole interrompere la produzione, il
blocco della produzione gli fa poco danno. Tanto più che siamo in una fase di recessione».

La repressione e la delegittimazione

A essersi esaurita è l’idea che sul movimento operaio e sulle sue lotte sul posto di lavo-
ro riposasse un progetto di emancipazione generale dell’essere umano: liberare la fabbri-
ca dall’oppressione e da lì rivoluzionare la società. Le spalle dell’operaio massa, ancorché
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robuste, non potevano reggere da sole quella missione storica. «Lo sciopero è sempre più
bersaglio privilegiato dell’iniziativa neoliberale – sottolinea Francesco Raparelli delle Ca-
mere del Lavoro Autonomo e Precario di Roma, realtà di movimento che organizza pre-
cari e intermittenti – penso ad esempio alle proposte di legge di Ichino. In assenza di tute-
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la reale (articolo 18), con la prevalenza del lavoro precario, lo sciopero è sempre meno un
diritto facile da esercitare. Il ricatto spaventa e rende passivi». C’è poi l’altra faccia della
medaglia, cioè la repressione della libertà sindacale, che copre un panorama molto ampio
di azioni che pongono degli ostacoli all’organizzazione collettiva e alla libertà sindacale
sia fuori che dentro le aziende). Nelle grandi come nelle piccole imprese, chi aderisce al
sindacato “sbagliato”, quello non gradito al datore di lavoro, rischia di subire discrimina-
zioni. Per non parlare della violazione del diritto di informazione che la legge attribuisce
ai sindacati. Si tratta di una condotta antisindacale che contraddistingue in particolare al-
cune grandi multinazionali della “Nuova economia dei servizi”. Ryanair è stata condanna-
ta per aver rifiutato di incontrare le organizzazioni sindacali. Lo stesso ha cercato di fare
Amazon lo scorso anno, rifiutando per settimane di sedersi al tavolo delle trattative, fin-
ché il governo non è intervenuto per salvaguardare almeno le apparenze.
L’offensiva dei padroni è facilitata dall’estensione delle misure repressive contro lo
sciopero e l’azione collettiva. «La regolamentazione dei servizi essenziali – spiega Gian-
ni Boetto – ha reso molto difficile esercitare il diritto di sciopero in certi settori. E nel-
la logistica stiamo sperimentando la repressione: recentemente dei compagni del Si Co-
bas sono stati condannati a due anni e mezzo per un picchetto alla Dhl del 2017. Con le
norme introdotte nel ‘decreto sicurezza’ se fai un blocco stradale puoi prendere fino a sei
anni di galera. È chiaro che è un deterrente forte». Aggiunge De Crescenzo: «Chi colloca la
propria pratica sindacale nello stretto recinto delle regole antidemo-
cratiche sulla rappresentanza ha una serie, ridottissima, di strumen-
ti legali per praticare il conflitto. Ma chi si pone fuori da quel recin- DAGLI ANNI OTTANTA
to si ritrova a commettere reati, data la stretta repressiva degli ultimi È SALTATO IL NESSO
anni». Le proposte di regolamentazione, per quanto ammantate di TRA SCIOPERO
ragionevolezza vagamente qualunquista, riposano su un retroterra E INTERESSE COMUNE:
ideologico che andrebbe indagato. Dietro alla logica dei “servizi es- CIÒ APRE LA STRADA
senziali”, che ha imposto vincoli legislativi, o addirittura amministra- ALLA SUA LIMITAZIONE
tivi (si pensi a figure come quella del Garante degli scioperi) alla li- E DELEGITTIMAZIONE
bertà di sciopero, c’è il divorzio tra lavoratore e consumatore-utente,
tra sciopero e cittadinanza. Dagli anni Ottanta, con l’affermarsi di si-
gle sindacali autonome in molti settori, il blocco dei trasporti pubblici o quello degli scru-
tini scolastici vengono sempre più spesso interpretati come espressioni particolaristiche,
ignorando, come sottolineato da Aris Accornero, che si tratta di risposte conflittuali «all’i-
solamento che sentivano crescere intorno a sé i lavoratori» più che di egoismo di catego-
ria. Salta il nesso di identificazione in un interesse comune, e si apre la strada alla delegit-
timazione dello sciopero e, di conseguenza, alla sua graduale limitazione.

Oltre la ritualità, verso la cittadinanza

D’altra parte, nella storia del conflitto sul lavoro, le condizioni favorevoli e tutelate
sono state l’eccezione, non la norma. «Anche all’epoca del fordismo – ricorda De Cre-
scenzo – si diceva ‘Ora che c’è la catena di montaggio la gente non potrà più scioperare’.
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Dunque, non bisogna negare le difficoltà ma neanche assolutizzarle. Anzi, in una fase di
arretramento dovremmo provare a essere un elemento di tenuta, e non un amplificato-
re della sconfitta».
«La battaglia che con le Clap stiamo conducendo in questi anni, organizzando lavo-
ro precario come impoverito – aggiunge Raparelli – insiste proprio sulla riappropria-
zione dello sciopero e della lotta, indipendentemente dalle bandiere e dagli ‘interessi
di bottega’. Ovviamente è il movimento delle donne che, a livello globale, sta rendendo
possibile questo processo di rinnovamento dello sciopero». La sconfitta non è genera-
lizzata: «Ci sono settori dove invece lo sciopero ha oggi un’efficacia molto forte – rac-
conta Boetto –. Ad esempio la logistica. Negli ultimi anni nelle aziende che seguiamo
sono state fatte migliaia di scioperi, anche con vertenze molto dure, per settimane.
Una forza lavoro molto sfruttata, con una forte componente migrante, si rende conto
che ha un certo potere contrattuale. Lì lo sciopero ha ancora senso. In altri settori dove
potrebbe andare allo stesso modo: manca il processo organizzativo». Anche secondo
Bellavita «l’esperienza più interessante è quella della logistica. Il blocco delle merci in
un sistema che pretende la consegna immediata del prodotto comprato online per-
mette ai lavoratori di esercitare un potere enorme. Ad essere in crisi è lo sciopero ritua-
le. Una volta funzionava lo sciopero che già si predisponeva alla contrattazione, perché
c’erano dei margini. Oggi lo scontro è talmente violento che dovre-
sti mettere in campo una mobilitazione come ai primi del Nove-
IL VALORE È VINCOLATO cento, di settimane, se vuoi davvero modificare l’agenda politica.
AGLI ASPETTI SIMBOLICI: Perché non c’è una rappresentanza politica del lavoro, la situazio-
DIVENTA FONDAMENTALE ne è completamente diversa». Parole d’ordine simili a quelle rilan-
PORTARE LO SCIOPERO ciate dai Clash City Workers: «Se è morto lo sciopero rituale – con-
FUORI DAI LUOGHI tinua De Crescenzo – lunga vita allo sciopero conflittuale. Al di là
DI LAVORO E INTACCARE della singola vertenza lo sciopero serve ad accrescere la coscienza
IL MARCHIO DELL’AZIENDA dei lavoratori, su quello ci dovremmo concentrare. Il nostro ruo-
lo allora diventa quello di dare più risonanza e sostegno possibile
a questi scioperi, fargli strappare consenso attraverso il riconosci-
mento di una comunità di interessi anche da parte di chi è lontano o di chi addirittura
ne è danneggiato, come nel caso del trasporto pubblico».
Superare le ritualità riappropriandosi dello sciopero come tempo liberato e militante.
Il valore della protesta si basa sulla rottura della quotidianità, sull’uscita dalla routine ri-
cavando tempi e spazi di costruzione di una realtà diversa. In uno sciopero non si inter-
rompe solo la produzione per danneggiare la controparte, si interrompe anche il lavo-
ro per liberare temporaneamente il lavoratore e dargli la possibilità di parlare con i suoi
compagni, discutere, organizzarsi, vivere in un tempo e uno spazio diversi da quelli del-
la produzione. Ma qual è il confine tra produzione e vita, tra lavoratore e consumatore,
PRIMAVERA 2019

nel tempo del lavoro frammentato e digitalizzato? E come si sciopera, su questo confine?
Nell’epoca in cui il valore aggiunto di una produzione è strettamente legato alle compo-
nenti simboliche del marchio, diventa decisivo portare lo sciopero fuori dai posti di lavo-
ro e riuscire ad attaccare la reputazione aziendale. «Lo sciopero di 8 ore, intero turno, an-
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nunciato rischia di essere sempre meno produttivo – riporta Sesena –. Funzionano molto
di più gli scioperi a singhiozzo, anche di una sola ora, all’ora di punta, in un McDonald’s.
Accanto a questo stanno venendo fuori, in molte multinazionali, altri strumenti di lotta,
riguardanti la reputation aziendale. Le aziende sono più sensibili a un danno con la clien-
tela che a 8 ore di sciopero. Soprattutto quelle che coltivano un’apparenza socialmente re-
sponsabile, usano l’equo e solidale, si danno un’aria di buonismo per fidelizzare i clienti,
poi scaricandola su un peggioramento delle condizioni di lavoro. Ovviamente è uno stru-
mento non sostitutivo ma integrativo, nell’ambito di una strategia di conflitto».
Se cala il potere contrattuale dei lavoratori cresce quello dei consumatori, e le due
realtà sono separate solo da un velo ideologico. Stracciarlo e riunificarle diventa parte
fondamentale del lavoro sindacale e politico, non solo nei servizi ma anche nell’agricol-
tura e nell’industria: «C’è bisogno sempre di più – conferma Iovino – di legare sciopero e
cittadinanza, quindi sciopero non solo della produzione ma anche del consumo. Lega-
re con un elemento di solidarietà lavoro e cittadinanza è necessario. Questo è successo
alla Pernigotti e anche alla Perugina: con certe multinazionali funziona se allo sciope-
ro dei lavoratori corrisponde una campagna di sensibilizzazione della cittadinanza le-
gata al consumo. Mostrando che le aziende fanno profitto sulla pelle dei lavoratori dan-
neggi la loro reputazione. Anche nel primo sciopero dei braccianti migranti a Nardò nel
2011, il blocco della produzione ha funzionato perché c’era una forte denuncia pubbli-
ca sul ruolo dei caporali, che ha alzato
l’attenzione mediatica fino a convince-
re le istituzioni a intervenire». sfaldata. Negli anni della crisi ci sono stati diversi tentati-
vi di ricomposizione tra battaglie del lavoro e lotte per il
La sfida della ricomposizione cambiamento più generale: dallo “sciopero sociale” lancia-
to nel 2014 a partire da alcuni centri sociali alla “coalizio-
Se le catene del valore e della produ- ne sociale” proposta dalla Fiom l’anno successivo, fino alla
zione si scompongono e si diffondono, campagna della Cgil sui referendum abrogativi di alcune
la sfida diventa ricomporre la scissione norme del Jobs act e alla raccolta di firme promossa dall’U-
tra lavoratore e consumatore, tra scio- sb per il reddito. Per giungere alla sperimentazione dello
pero e cittadinanza. La consapevolezza sciopero femminista dell’8 marzo.
di un’enorme frammentazione sociale Se c’è bisogno di ricostruire la motivazione individuale
si accopagna a una conflittualità che, in dell’azione collettiva, la costruzione politica dello sciopero
forme manifeste o latenti, è diffusa nella diventa centrale: «Lo sciopero stesso – nota Orazzini – può
società. La debolezza sui luoghi di lavo- essere un elemento di ricomposizione, a seconda di come
ro riflette la loro scarsa centralità in una lo prepari. Il tema non è tanto indirlo, è costruirlo. Sono gli
società che guarda altrove. Conflitti ato- elementi di partecipazione democratica che tu hai nella co-
mizzati e isolati, privi di un processo di struzione dello sciopero. È lì che provi a intercettare anche
emancipazione generale in cui ricono- quelli con cui è più complicato parlare». Il paradosso dello
scersi, tendono ad avvizzire. Privo di ri- sciopero di Schrödinger sta nella sfida della ricomposizio-
ferimenti politici, il sindacato si è ritro- ne. Un processo politico che non può essere assolto esclusi-
vato a rappresentare da solo una classe vamente dallo sciopero e dall’azione sindacale, pena un lo-
nel frattempo a sua volta frammentata e goramento di questi strumenti. Emerge la necessità di una
ricomposizione politica, senza la quale le lotte continueran-
no ad apparire molteplici ma confinate, spontanee ma au-
toreferenziali. Anche a questo serve recuperare e innovare
lo sciopero: rompere l’ordine della produzione, restituire ca-
pacità di azione e consapevolezza a chi è sfruttato, ritrovare
SCIOPERI!

un senso di riconoscimento fra lotte e comunità, luoghi del


conflitto e spazi della cittadinanza.
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Partecipanti

24,3

21,3
22,1

6,8
2,3

2,2
9,2
3,5
8,1
a uno sciopero REGNO UNITO GERMANIA POLONIA

Percentuale di persone
che dichiarano di aver
preso parte a uno sciopero
nei periodi corrispondenti.
Fonte: sondaggio (18.368 rispondenti)
condotto nell’ambito del progetto

32,9
15,5
5,3
di ricerca europeo LIVEWHAT (2015)

FRANCIA
Nell’ultimo anno
48,9

49,4
54,8
26,2

28,2

13,7
11,5

31,1
8,5

Negli ultimi 5 anni

Una volta nella vita SPAGNA ITALIA GRECIA

3.000

Scioperi proclamati
2.500
per anno in Italia
2.000

1.500

1.000

500

2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011


PRIMAVERA 2019

3,5

3
Ore di sciopero per dipendente Ore di sciopero
su mille ore lavorate,
nelle grandi aziende italiane in media annuale,
2,5
nelle aziende con almeno
2 500 dipendenti.
N. 2

Fonte: Istat.
1,5

0,5

2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014
18

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Consenso nei 60
confronti di varie
forma di lotta 50
contro l’austerità
40
Percentuale di persone
che hanno dichiarato
di approvare da 6 in su (in una 30
scala da 0 a 10) le seguenti forme
d’azione in risposta all’austerità.
20
Fonte: sondaggio LIVEWHAT (2015).

Corteo
10
Sciopero

Acampada 0
Occupazioni, altro REGNO UNITO FRANCIA GERMANIA POLONIA ITALIA SPAGNA GRECIA

Numero totale
di scioperi e numero
di scioperi di rilevanza
nazionale proclamati
in Italia per anno.

Fonte: Commissione di
garanzia dell’attuazione
della legge sullo sciopero
nei servizi pubblici
essenziali.

Tutti

Rilevanza nazionale

2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018

40
Eventi di protesta per anno,
35 Forme di protesta raccolti su Repubblica

30 contro l’austerità in Italia da Massimiliano Andretta


(Università di Pisa) per il libro
25 Late Neoliberalism and its
Discontents in the Economic
20 Crisis (Palgrave, 2017).
15
Cortei
SCIOPERI!

10
Scioperi
5
Occupazioni, altro
0

2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015


19

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E ai tuoi
SCIOPERO FEMMINISTA

figli chi
ci pensa?
Questa è una delle formule usate
per ricattare le donne e costringerle
al lavoro di riproduzione sociale.
Al contrario, lo sciopero dell’8 marzo
rompe l’isolamento ed evidenzia
il conflitto tra vita
e sistema capitalistico
PRIMAVERA 2019

Illustrazioni di
20N. 2

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«S
i nosotras paramos, se para el mundo». Questo slogan del movi-
mento argentino condensa in poche parole il senso dello sciopero
della riproduzione sociale, che si svolge ormai da tre anni consecu-
tivi in occasione della giornata di mobilitazione femminista inter-
nazionale contro la violenza di genere dell’8 marzo. Tradotto: «Se ci
Sara R. Farris fermiamo noi donne, si ferma il mondo».
Marie MoÏse In questo dato risiede però un paradosso, una delle tensioni
principali che la pratica dello sciopero mira a far esplodere: è il
lavoro delle donne che consente la sopravvivenza e la riproduzione di quello stesso si-
stema che le sfrutta, violenta e uccide ogni giorno. La riproduzione sociale di per
sé non è un meccanismo dannoso. Con essa infatti si fa riferimento a tutte
quelle attività che consentono la riproduzione della vita e della forza la-
voro di giorno in giorno e da una generazione all’altra. Il problema
non è dunque la riproduzione in sé, ma il fatto che avviene nel
contesto del dominio capitalistico, ossia di un sistema di sfrut-
tamento e violenza di genere, razza e classe, le cui modalità
di riproduzione si basano a loro volta sullo sfruttamento
e la violenza

Il concetto di riproduzione sociale

Negli ultimi anni abbiamo assistito a una rina-


scita degli studi e dell’attivismo femminista che
prendono ispirazione da varie declinazioni dei
marxismi del Novecento e del primo decennio
del Ventunesimo secolo. Proprio il tema della
riproduzione sociale è al centro di questa rina-
scita. Che sia per la riscoperta della rivendica-
zione del “wage for housework” (il salario per il
lavoro domestico) o magari a causa della centrali-
tà assegnata nel contesto capitalistico al lavoro di cura o ripro- Sara R. Farris, Senior
duttivo in senso lato come complemento essenziale del lavoro Lecturer in sociologia
“produttivo”, le teorie e le pratiche femministe connesse alla ri- a Goldsmiths -
produzione sociale sono oggi centrali nel movimento femmini- University of London,
sta internazionale. è autrice di In the
Ma il concetto di riproduzione sociale anche all’interno delle name of women
impostazioni marxiste non viene analizzato in maniera univoca. right. The Rise of
Da una parte troviamo i femminismi che si richiamano alle po- Femonationalism
sizioni sostenute negli anni Settanta dai lavori pioneristici del- (Duke University Press,
le scrittrici e attiviste Selma James e Mariarosa Dalla Costa, che 2017).
considerano il lavoro riproduttivo come direttamente produtto- Marie Moïse, attivista,
re di valore nel senso marxiano del termine. Il lavoro quotidiano è dottoranda in
filosofia politica
all’Università di Padova
e Tolosa. Con Alberto
Prunetti ha tradotto
Donne, razza e
SCIOPERI!

classe di Angela Davis


(Alegre, 2018).
21

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delle donne in ambito domestico viene considerato diret-
tamente all’origine del plusvalore – ossia del profitto capi-
talistico – nella misura in cui tale lavoro riproduce la merce
forza-lavoro. In altre parole, secondo le femministe che se-
guono questa tradizione, il lavoro domestico non retribuito
delle donne (la preparazione dei pasti, la cura della casa, la
pulizia degli indumenti e cosí via) è quello che rende pos-
sibile la riproduzione su scala quotidiana della capacità del
lavoratore e della lavoratrice di partecipare al processo che
da origine al profitto capitalistico.
Le femministe che si ispirano al lavoro della teorica Lise
Vogel, invece, considerano il lavoro riproduttivo, sempre in
termini marxiani, come produttore diretto di valori d’uso e
perciò non di valore di scambio, o plusvalore. Secondo que-
sta posizione, il pasto caldo o la divisa da lavoro stirata non Il dibattito all’interno del movimento
sono, in senso stretto, merci in vendita sul mercato (valori femminista sembra avere posizioni più
di scambio) ma “oggetti” di consumo immediato che ser- fluide e ibride, animate sostanzialmente
vono al soddisfacimento di bisogni (valori d’uso). Cionon- dal tentativo di mettere in luce il gran-
dimeno, tale lavoro è essenziale per la riproduzione quo- de sottobosco del lavoro di cura non pa-
tidiana della forza-lavoro ed è al contempo la chiave per gato, o malpagato, delle donne, e le sue
comprendere storicamente la posizione subalterna delle ripercussioni sulle diseguaglianze di ge-
donne nell’epoca della produzione capitalistica. nere, razza e classe.
L’interrogativo se il lavoro riproduttivo sia o meno pro- Inoltre, i cambiamenti epocali che
duttore di plusvalore continua ad animare il dibattito teo- hanno investito la composizione del
rico femminista. Per esempio, studiose e attiviste come Sil- mercato del lavoro negli ultimi trent’an-
via Federici e Kathi Weeks, da una parte, e Cinzia Arruzza e ni nel cosiddetto mondo occidentale
Tithi Bhattacharya dall’altra, si richiamano rispettivamente – in particolare il declino del paradig-
alle due diverse tradizioni succitate. ma sociale fordista che si reggeva sulla
famiglia mononucleare dipendente dal
salario del breadwinner maschio, e l’in-
gresso in massa delle donne (bianche) nell’arena lavorativa extra-domestica – hanno
trasformato la percezione e in parte la stessa natura del lavoro di cura riproduttivo. Il la-
voro domestico salariato è divenuto realtà diffusa vista la crescita della domanda di colf,
badanti e babysitter, trainata soprattutto dall’aumento del lavoro femminile. A sua vol-
ta, la crescita e maggiore visibilità delle lavoratrici domestiche o badanti a pagamento, e
il fatto che si tratti per lo più di donne migranti, di colore e/o povere, ha fatto emergere
in maniera marcata le distinzioni e divisioni su cui il femminismo nero statunitense
insisteva già dalla fine dell’Ottocento: il colore della pelle e la classe sociale di apparte-
PRIMAVERA 2019

nenza dividono le donne più di quanto il genere le unisca. In questo senso, il problema
della riproduzione sociale non è solo quello del lavoro non retribuito, non valorizzato,
segregato e femminilizzato delle donne in ambito domestico: rirguarda anche il lavoro
sfruttato e razzializzato delle donne povere e migranti.
N. 2
22

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Femminismo liberale e femminismo anticapitalista

In questo riconoscimento si incunea la differenza tra una prassi femminista liberale e


una anticapitalista.
Il femminismo liberale riconosce senz’altro l’importanza del lavoro di cura non pagato
e si batte perché le donne si sottraggano al suo giogo ed entrino a far parte a pieno titolo
della forza lavoro salariata. Tuttavia, rimane silente rispetto al fenomeno sostituzionista
– ossia di fronte al fatto che quando le donne in carriera lavorano, ci sono altre donne che
prendono il loro posto a casa sottopagate – e non critica la natura stessa del sistema di
sfruttamento capitalistico.
Inoltre, gli sforzi delle femministe (liberali e non) per riconoscere il valore economi-
co del lavoro di cura e valorizzare il tempo speso soprattutto dalle donne in attività non
retribuite, ha contribuito in parte – sia pure in maniera involontaria – all’incremento dei
tassi di sfruttamento delle donne, soprattutto nei paesi poveri. Basti pensare al fenome-
no del microcredito in Bangladesh, o alle varie campagne della Nike per l’educazione
delle bambine nei villaggi poveri nei paesi in via di sviluppo, che hanno avuto l’effetto
di sottrarre molte donne al lavoro riproduttivo e rurale nei villaggi per farle diventare o
piccole imprenditrici ultra-indebitate, o lavoratrici salariate e super-sfruttate nelle me-
galopoli dei paesi dipendenti.
Il femminismo anticapitalista al contrario si batte non solo per
una maggiore parità di genere nella condivisione del lavoro di cura,
ma anche perché esso non diventi un ghetto per le donne di colore OGGI LA RESPONSABILITÀ
e povere, e perché il rapporto di sfruttamento più in generale ven- DI RIGENERARE IL LAVORO
ga abolito. In altre parole, non identifica la segregazione delle donne E LA VITA STESSA
nell’ambito domestico e nella sfera privata come causa essenziale, VIENE FEMMINILIZZATA
sebbene non unica, della subordinazione di genere nelle nostre so- E RAZZIALIZZATA :
cietà: la connette anche alle diseguaglianze di razza e allo sfrutta- CIOÈ PRIVATIZZATA
mento di classe mostrandone l’unità imprescindibile. Ciò implica
che nel sistema capitalistico la responsabilità di sostenere e rigene-
rare la forza lavoro e la vita stessa, anziché essere ripartita sulla società nella sua interez-
za, venga privatizzata, nello stesso momento in cui viene femminilizzata e razzializzata,
ovvero strutturalmente assegnata alle donne e specialmente a quelle non bianche e occi-
dentali, sul piano simbolico quanto materiale.
Tale privatizzazione significa che la responsabilità di sostenere la riproduzione sociale
risiede in uno spazio che da una parte può essere definito «più in qua del mercato», come
scrive l’economista Amaia Pérez Orzoco nel suo libro Subversión feminista de la economía
(Traficantes de sueños, 2014), ovvero organizzato attorno alle strutture della quotidianità
e dell’intimità, ma dall’altra parte anche in questi spazi sempre più spesso tale responsa-
bilità assume forme di mercato, quelle che nel primo numero di questa rivista abbiamo
definito «cura come business».
Dall’angolo visuale del femminismo anticapitalista perciò non si punta ad abolire le
pratiche di riproduzione sociale e di cura che sono essenziali per la perpetuazione stes-
SCIOPERI!
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sa della vita, ma a sottrarle alle logiche di
mercato. La riproduzione sociale in questa
prospettiva potrebbe essere intesa come la
somma di tutte quelle attività che ci per-
mettono di vivere collettivamente, nel senso
più pieno di questa parola. Ma una vita degna
di essere vissuta non può darsi entro un siste-
ma intrinsecamente contrario alla vita, o meglio
attaccato a questa per risucchiarla.

Cosa significa scioperare

La pratica dello sciopero riproduttivo fa da detona-


tore delle tensioni interne alle ambivalenze insite in
questo concetto. Il suo intento è quello di bloccare
le attività di riproduzione sociale e cosí di arresta-
re la riproduzione di un sistema in conflitto con
la vita. Ma bloccare la riproduzione sociale non
può significare fermare le attività che ci consen-
tono di preservare la vita stessa. Se così fosse,
lo sciopero riproduttivo rischierebbe di essere
inteso come un autogol, un atto di autodistru-
zione, uno sciopero contro sé stesse. Ma anche
come uno sciopero a danno delle persone di
cui ci si prende cura. Che sciopero è quello in cui
nessuno prepara da mangiare ai bambini e li porta a
scuola, nessuno sostiene le persone anziane, disabili o
inferme, in cui i ragazzi a scuola non ricevono alcuna edu-
cazione e i malati in ospedale l’assistenza di cui hanno necessità?
Non può essere questo lo sciopero femminista, ma questa immagine in termini ipote-
tici fa emergere il carattere ambivalente del lavoro di cura. La cura è la linfa delle nostre
relazioni sociali e personali, passa anche attraverso l’affetto, il sostegno emotivo, l’amore:
scioperare può apparire un controsenso. Lo è meno se consideriamo che le attività di
cura, o riproduzione sociale vengono di fatto imposte (più o meno esplicitamente o for-
zatamente) alle donne in un contesto che le considera vocazione di genere e non lavoro
come attività umana creativa a tutti gli effetti.
È per questo che se le donne scioperano dal lavoro riproduttivo non riusciamo a imma-
ginare nessun altro che possa svolgere quel lavoro. Se si fermano le donne, rischia veramen-
PRIMAVERA 2019

te di fermarsi il mondo. Se concepito come mera astensione dal lavoro di cura, lo sciopero
riproduttivo rischia quindi di non trovare adesione tra le donne, che pur trovandosi a
praticare la riproduzione sociale in una dimensione di coercizione socialmente leggit-
timata e di ripartizione ineguale del lavoro, al di là della volontà individuale non sono
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nelle condizioni di sottrarvisi, perché significherebbe sottrarsi alla responsabilità sociale
di preservare la vita, specialmente quella che dalla cura altrui dipende per sopravvivere.
Se lo sciopero riproduttivo viene concepito semplicemente come una scelta individua-
le, si trascurano le condizioni di isolamento in cui le donne si trovano a svolgere il lavoro
di cura e i rischi che comporta una sottrazione altrettanto individuale da quelle relazioni.
A ostacolare la partecipazione delle donne a uno sciopero così inteso, si aggiunge la co-
struzione ideologica che pervade ogni rapporto basato sulla coercizione più o meno espli-
cita, e che mira ad attribuire la responsabilità di quel rapporto a chi lo subisce, a maggior
ragione quando prova a sottrarvisi («Non puoi lasciarlo, ha bisogno di te», «E ai tuoi figli
poi chi ci pensa?»). Con queste premesse, il rischio è che uno sciopero della riproduzione
sociale risulti possibile solo per poche, ovvero per chi è nelle condizioni, strutturalmente
determinate dalla classe e dalla razza, di farsi sostituire in cambio di un compenso.
Per questo non va inteso come mera astensione dal lavoro di cura, ma come pratica
collettiva di interruzione della privatizzazione, femminilizzazione e razzializzazione di
quel lavoro. Significa arrestare il meccanismo di imposizione unilaterale della cura alle
donne, cosa ben diversa dall’arrestare ogni attività di cura tout court, specialmente quelle
da cui sono interamente dipendenti diverse vite.
A ben guardare invece, una parte della cura può anche arrestarsi del tutto: non muore
nessun adulto in salute se si ritrova a doversi preparare il pranzo o stirarsi le camicie, se
non avrà nessuno su cui sfogare la fru-
strazione della giornata di lavoro appe-
na conclusa, o eventualmente un corpo In secondo luogo quell’insieme di solitudini riscattate
a disposizione per soddisfare il proprio è qualcosa di più della loro somma. In quel modo di stare
desiderio sessuale. Per contro, chi non in relazione, già prende vita l’alternativa possibile di una
avrà messo il proprio corpo a disposi- dimensione collettiva, di un sistema di relazioni sociali
zione di queste necessità, si potrà per- che mentre mira a sovvertire le asimmetrie di potere esi-
mettere di dedicare la propria forza, al- stenti, già ne esperisce la sovversione al proprio interno,
meno per un giorno, alla lotta, ovvero a mettendo in pratica una nuova sostanza sociale. In questa
se stessa e alle proprie compagne. sostanza, la riproduzione della vita non può che essere di
Questa forma di sciopero assume il interesse collettivo, condiviso, socializzato. È la relazione
senso di una fuoriuscita dalla solitudi- reciproca e cooperativa la forma che si oppone all’asse-
ne e dall’isolamento in cui tale lavoro gnazione del lavoro di cura alle donne, e mentre vi si op-
viene svolto. Un atto di fuga, non indi- pone già si propone come alternativa concreta.
viduale ma collettivo, per due ragioni.
Innanzitutto la destinazione della corsa Le pratiche dello sciopero
è una giornata in cui si danno appunta-
mento tutte le fuggitive che avranno ab- Se le reti di donne da sempre consentono alle stesse
bandonato (a sé stesso) il sistema che le di far fronte al peso della riproduzione sociale imposta,
opprime. In quel giorno, migliaia di vite nuove sperimentazioni sono fiorite in questi anni di mo-
minacciate, ferite e sfruttate potranno vimento femminista trasformandosi in armi di conflitto.
specchiarsi l’una nell’altra, nel potersi In Argentina il primo sciopero femminista è stato lancia-
dire e sentirsi dire: “non sei sola”. to da Ni Una Menos nell’ottobre 2016, in risposta al brutale
stupro e omicidio della sedicenne Lucía Pérez. Nella rela-
zione inaugurata tra la questione della violenza e la pratica
dello sciopero, la mobilitazione ha ampliato il significato di
entrambi i concetti, intendendo la violenza non solo come
atto fisico contro le donne ma come categoria analitica più
SCIOPERI!

generale che descrive i vari modi in cui il sistema capitali-


stico soggioga le donne. Lo sciopero si è così esteso anche
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alla lotta per la legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg), intrecciando
la questione della giustizia riproduttiva alla lotta contro i femminicidi, la disparità salaria-
le, i tagli al welfare e così via. La strutturazione e diffusione sociale dello sciopero ha visto
impegnate decine di realtà di sostegno e accompagnamento autorganizzato all’Ivg. Per far
fronte agli alti rischi degli interventi clandestini (500 mila all’anno e centinaia di decessi) le
reti informali di attiviste socorristas collaborano con professionisti del settore sanitario per
assicurare e rivendicare l’accesso a un aborto sicuro, libero e gratuito.
L’8 marzo 2018, nello stato spagnolo, circa sei milioni di persone hanno aderito alle 24
ore di sciopero («uno sciopero – nelle parole del sindacato Cgt – per vivere, uno sciopero
per prenderci cura di noi»). Accanto allo sciopero dal lavoro salariato, della formazione e
dei consumi, il blocco ha riguardato anche il lavoro domestico e di cura non retribuito. A
questo scopo, nelle piazze della mobilitazione così come in diversi spazi sociali e associa-
tivi del territorio cittadino, sono stati allestiti e aperti sin dalle prime
ore del mattino gli “espacios de cuidados 8M”, spazi in cui gli uomini
UNO SCIOPERO CON UN che scioperavano in solidarietà si sono occupati dei bambini e delle
CARATTERE DAVVERO persone con necessità di cura, ma anche dei pasti e dei momenti di
RIPRODUTTIVO: MENTRE ricreazione, per sostenere le donne nella loro giornata di mobilita-
BLOCCA UN SISTEMA zione e portare il lavoro di cura al di fuori della dimensione familiare.
INEGUALE PROCUCE Da febbraio 2018 negli Stati uniti si è alzata un’ondata di sciope-
NUOVE FORME SOCIALI ri delle insegnanti, che dal West Virginia si è propagata in Oklahoma,
Arizona, Colorado, Kentucky, e North Carolina. A distanza di un anno,
l’onda è ancora alta: a gennaio 2019 a Los Angeles hanno scioperato an-
cora 30 mila lavoratrici della scuola. Partita dalla rivendicazione per un aumento dei salari,
la lotta ha intrecciato le condizioni di vita delle insegnanti con quelle degli studenti e delle
loro famiglie, soprattutto nelle zone più povere e segnate dal razzismo, nelle quali la scuola
è l’unico mezzo di accesso a un pasto caldo al giorno o all’assistenza sanitaria. Per questo, la
lotta per l’aumento dei salari si è affiancata alla battaglia contro i tagli ai servizi di ristorazio-
ne scolastica, e per l’assunzione di nuovo personale infermieristico e bibliotecario. In West
Virginia, durante le giornate di sciopero, le insegnanti hanno partecipato alla mobilitazione
spesso insieme ai propri figli e alle famiglie degli studenti, provvedendo in prima persona al
mantenimento del servizio di ristorazione. Come fa notare Bhattacharya in un articolo su re-
belnews.ie, il fatto che le insegnanti abbiano scioperato non solo per le proprie condizioni di
vita ma anche per quelle dei loro studenti, è da leggere attraverso le lenti della riproduzione
sociale: chi svolge ruoli di cura si occupa delle persone prima che dei profitti.
In Italia, per la costruzione dello sciopero dell’8 marzo 2019, il movimento Non una di
meno sperimenta le “Case dello sciopero”, ovvero spazi in cui ricevere tutte le informazio-
ni e il sostegno materiale allo sciopero riproduttivo, accanto agli spazi di cura condivisa,
alla didattica e alle mense popolari in piazza. Sono pratiche per lo sciopero riproduttivo
PRIMAVERA 2019

le casse di mutuo soccorso che restituiscono alle lavoratrici di cura salariate in sciopero
il corrispettivo in denaro della giornata di lavoro, e i collettivi sindacali che intervengono
in settori di lavoro in gran parte informale e precario come il sex work, l’assistenza alla
persona e i servizi di pulizia. Il lavoro di cura non si arresta con lo sciopero riproduttivo,
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ma è una nuova comunità di lotta a farsene carico. A renderlo possibile sono le reti di soli-
darietà e le relazioni di mutuo sostegno, in cui la responsabilità di preservare la vita viene
condivisa, anche al di là dei ruoli di genere.
Tutte e tutti possono partecipare alla fuga e farsi trovare nella piazza dello sciopero,
sottrarsi al sistema di sfruttamento e scioperare dal ruolo che si trovano quotidianamente
ad assumere, donne e uomini, razzializzati e non. E c’è spazio per chiunque abbia biso-
gno di cure per sopravvivere. Tutte e tutti, o meglio il 99%, contro quell’1% che da questo
sistema trae benefici e profitti.
È uno sciopero con un carattere ma anche uno scopo davvero riproduttivo: mentre in-
terrompe un sistema ineguale, produce forme sociali che vanno al di là di questo. Così la
cura si trasforma nella sostanza prima dello stare in relazione, nella sorgente comune di
sopravvivenza, nella matrice di un mondo che valga davvero la pena riprodurre.

SCIOPERI!
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E l’8 marzo
SCIOPERO FEMMINISTA

spagnolo
bloccò il paese
Nel 2018 lo sciopero delle donne ha coinvolto sei milioni
di lavoratrici e lavoratori di tutti i settori. Alcune grandi
fabbriche hanno interrotto la produzione e le televisioni
sono state costrette a modificare la programmazione

L
o sciopero delle donne dell’8 marzo 2018 rappresenta un evento
fondativo nella storia del femminismo in Spagna. Diversamente dal
solito, l’organizzazione di una giornata di sciopero dal lavoro non
arrivava dal movimento sindacale, ma dal movimento femminista.
L’appello alla mobilitazione, inoltre, si rivolgeva a tutte le donne, le
invitava a scioperare in contesti diversi, non solo nel lavoro e nello
Inés Campillo Poza studio, ma anche nella cura e nel consumo. Il movimento femmini-
sta proponeva una risignificazione dello sciopero includendovi tutte
le attività necessarie per la riproduzione sociale, indipendentemente dal fatto che fossero
retribuite. L’obiettivo era mostrare che «se ci fermiamo, si ferma il mondo». E così è stato.

Un successo insperato?

Sebbene non ci siano cifre certe sull’impatto dello sciopero del lavoro di 24 ore, circa
sei milioni di lavoratrici e lavoratori si sono uniti ai blocchi di due ore convocati dai
sindacati maggioritari, specialmente nei settori dell’istruzione, della sanità, della pub-
blica amministrazione e dei trasporti. Le fabbriche Seat e Ford
PRIMAVERA 2019

hanno interrotto la produzione e la programmazione televisi-


va è stata modificata. Perfino la regina Letizia ha fatto saltare Inés Campillo Poza,
la sua agenda di quel giorno. Ma se la vittoria di uno sciopero sociologa e femminista,
non si misura unicamente dai dati dell’adesione, bensì anche è professoressa
alla Universidad
N. 2

a Distancia di Madrid.
La traduzione è di
Lorenzo Zamponi.
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dall’impatto sull’opinione pubblica, il successo è stato inequivocabile. Le donne del
nostro paese si sono riprese le strade: ci sono stati caceroladas [proteste con pentole e
coperchi, ndt], picchetti, blocchi di strade e ferrovie, azioni, presidi e manifestazioni di
massa. Non si era mai visto niente di simile.
Nonostante le dimensioni della mobilitazione abbiano preso di sorpresa molti ana-
lisi e mezzi di comunicazione nazionali e internazionali, come ha segnalato la veterana
femminista Justa Montero «lo sciopero aveva già vinto» prima che iniziasse la giornata,
dato che l’appello era riuscito a mettere in marcia un processo di cambiamento che si
è esteso per mesi «come una macchia d’olio che sarebbe arrivata in ogni angolo» (Ctxt,
27/03/2018). Un processo di cambiamento avvenuto su un terreno reso già fertile dalla
potente ondata di mobilitazioni femministe che caratterizza la Spagna dal 2014.

L’ondata femminista

In quell’anno, dopo l’esaurimento del movimento 15-M e delle maree in difesa dei ser-
vizi pubblici, emergeva Podemos e la priorità pareva trasferirsi verso la sfera istituzionale.
Molti attivisti iniziarono a parlare di riflusso della mobilitazione sociale, ma in realtà il
femminismo ha continuato ad aumentare la propria capacità di mobilitazione.
Le principali battaglie di questa ondata femminista si sono concentrate sull’aborto (e
il diritto a decidere sul proprio corpo)
e le violenze di genere. Nel 2013-2014,
la campagna contro il progetto di legge taforma nel novembre 2015 è stata un grande successo.
sull’aborto del ministro Gallardón ha se- L’appello contava, per la prima volta nella storia del fem-
gnato un salto di qualità nelle mobilita- minismo spagnolo, sull’appoggio di tutti i sindacati e par-
zioni, come dimostra l’enorme manife- titi politici, compresi i conservatori Ciudadanos e Partido
stazione del Treno della Libertà o il fatto Popular. Già prima dell’irruzione del movimento interna-
che i cortei femministi di Madrid abbia- zionale #MeToo, il movimento 7-N e le mobilitazioni lega-
no abbandonato il loro tradizionale per- te al caso dello stupro di gruppo de “la Manada” sono riu-
corso minoritario riempiendo le princi- scite a inserire le violenze maschiliste nell’agenda politica
pali vie del centro cittadino. Le proteste del nostro paese e a portare in parlamento, alla fine del
hanno portato al ritiro del progetto di 2017, un Patto statale contro la violenza di genere.
legge e alle dimissioni del ministro. Il movimento femminista spagnolo si è unito alla con-
Alla fine del 2014 è nata la Piattafor- vocazione dello sciopero internazionale delle donne dell’8
ma 7-N contro le violenze maschiliste, il marzo 2017 e ha sperimentato per la prima volta la for-
cui obiettivo era riformare la legge sul- mula dello sciopero quadruplo (lavoro, studio, cura, con-
la violenza di genere affinché includes- sumo) che prevedeva blocchi del lavoro di sole due ore.
se la protezione contro ogni tipo di vio- L’appello chiamava in causa i sindacati, le uniche organiz-
lenza, compresa quella sessuale, anche zazioni che possono legalmente proclamare uno sciopero,
al di fuori dell’ambito della coppia e in- ed è stato necessario che un piccolo sindacato del settore
dipendentemente dalla presentazione di pubblico, la Intersindical, si unisse al movimento per con-
denunce. La Marcia Statale Contro le Vio- vocare formalmente l’astensione dal lavoro. Nonostante il
lenze Maschiliste organizzata dalla piat- poco tempo e la fretta, la mobilitazione ha riscosso un cer-
to successo, soprattutto nelle grandi città. Il giorno dopo,
le femministe hanno deciso di iniziare a lavorare per pre-
parare uno sciopero di 24 ore per l’anno seguente.
Il successo dello sciopero dell’8 marzo 2018 va conte-
stualizzato, pertanto, in questa ondata più ampia di irru-
SCIOPERI!

zione nello spazio pubblico, creazione di alleanze e co-


struzione di senso comune femminista nel nostro paese.
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Inoltre, il lungo periodo di organizzazione, la decentralizzazione delle azioni, i ne-
goziati con i sindacati e il crescente interesse dei media, hanno facilitato la diffusione
dei dibattiti e obbligato individui e organizzazioni politiche e sociali a schierarsi. Così lo
sciopero ha potuto contare sul sostegno inedito di alcuni membri della Chiesa cattolica.
Decine di associazioni di professioniste (giudici, ricercatrici, sportive, professioniste del
teatro, donne delle pulizie) hanno pubblicato manifesti di adesione, ma il processo dello
sciopero ha provocato anche la creazione di nuovi collettivi di donne che tenevano insie-
me le rivendicazioni generali dell’8 marzo con richieste specifiche dei diversi settori (gior-
naliste, accademiche, donne dell’industria editoriale, lavoratrici della sanità, maestre ed
educatrici, lavoratrici delle Ong, studentesse, ecc.). Senza dubbio, il gruppo più forte e
influente (e ancora attivo) è stato quello delle giornaliste, cosa che spiega sia il grande
interesse dei media sia l’influenza che ha avuto quella giornata sui palinsesti televisivi.
Lo sciopero dell’8 marzo 2018 ha ottenuto una vittoria ancora più sorprendente del
movimento femminista: quella di uscire dalla marginalità per interpellare le maggioran-
ze sociali, nonostante l’assenza di istituzionalizzazione, di strutture e risorse. In questo
percorso, il femminismo ha beneficiato sicuramente della crescente delusione per l’in-
capacità del Partito socialista (Psoe) e dei partiti del cambiamento di impedire un nuovo
governo conservatore nel 2016. In uno scenario politico spostato sempre più a destra,
segnato dalla crisi catalana e dal declino del Partido Popular, lo sciopero femminista ha
offerto uno dei pochi spazi di incontro per la gente del campo progressista.

Prospettive

L’8 marzo 2018 è diventato una pietra miliare del femminismo spagnolo. Non solo è
riuscito a mobilitare il paese, ma anche a provocare un cambio di posizione e discorso
nelle destre del Partido Popular e Ciudadanos.
Dopo il successo della mozione di sfiducia nei confronti del pre-
sidente del consiglio Rajoy in giugno, il nuovo primo ministro, il so-
IL MOVIMENTO cialista Pedro Sánchez, ha nominato un governo a maggioranza fem-
HA COINVOLTO LE minile e creato un Ministero dell’Uguaglianza. Da allora, le relazioni
MAGGIORANZE SOCIALI, tra il Psoe e Podemos sono migliorate, fino ad arrivare a un accordo
HA APERTO UNO SPAZIO sulla legge di bilancio 2019, le cui misure principali sono l’aumento
IN UNO SCENARIO del salario minimo, l’equiparazione del permesso di paternità a quel-
CHE SI SPOSTAVA lo di maternità, l’universalizzazione degli asili nido e la dotazione di
SEMPRE PIÙ A DESTRA bilancio per il Patto di stato contro la violenza di genere.
Nonostante queste circostante sembrino indicare una crescente
egemonia del femminismo nel nostro paese, la recente irruzione del
partito di ultra-destra Vox mette in rilievo la resistenza profonda di determinati settori
PRIMAVERA 2019

sociali all’avanzata dei diritti delle donne. L’8 marzo 2018 ha fissato l’asticella molto in alto
ma da allora il contesto politico si è radicalmente trasformato, anche con alcune divisioni
all’interno del femminismo sul tema della prostituzione o sul ruolo delle persone trans
nel movimento. Resta da vedere come il nuovo sciopero inciderà sul panorama attuale.
N. 2
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Un femminismo

SCIOPERO FEMMNISTA
per il 99%
Le donne che scioperano
parlano a tutti perché sanno
che la richiesta di uguaglianza
formale ed emancipazione non
prescinde dalla trasformazione
delle relazioni sociali nel
loro insieme. Un manifesto
programmatico

SCIOPERI!

Illustrazione di
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N
ella primavera del 2018 Sheryl Sandberg, direttrice operativa di
Facebook, ha informato il mondo che «staremmo decisamente
meglio se metà dei paesi e delle aziende fossero gestiti da donne
e metà delle case fossero gestite da uomini: non possiamo rite-
Cinzia Arruzza nerci soddisfatte fino a quando quest’obiettivo non sarà raggiun-
Tithi Bhattacharya to». Esponente di punta del femminismo delle donne in carriera,
Nancy Fraser Sandberg si era già fatta un nome (e un bel gruzzolo) esortando
le donne manager a «farsi avanti» nelle stanze dei consigli di am-
ministrazione. Da ex capo del personale di Larry Summers – Segretario al Tesoro degli
Stati uniti d’America, l’uomo che ha deregolamentato Wall Street – Sandberg non si è fatta
scrupoli a suggerire alle donne che la strada maestra verso l’uguaglianza di genere passa
attraverso il successo ottenuto con tenacia nel mondo degli affari.
Quella stessa primavera uno sciopero femminista militante ha paralizzato la Spagna. As-
sieme a cinque milioni di manifestanti le organizzatrici della huelga feminista, lo sciopero
femminista di 24 ore, hanno rivendicato una «società libera dall’oppressione sessista, dallo
sfruttamento e dalla violenza», invitando «alla ribellione e alla lotta contro l’alleanza tra
patriarcato e capitalismo che ci vuole obbedienti, sottomesse e silenziose». Mentre il sole
tramontava su Madrid e Barcellona, le organizzatrici dello sciopero dichiaravano al mondo:
«Incrociamo le braccia l’8 marzo e interrompiamo ogni attività produttiva e riproduttiva
[...]. Non accettiamo condizioni di lavoro peggiori di quelle degli uo-
mini, o di essere pagate meno degli uomini per lo stesso lavoro».
LA CREDIBILITÀ Queste due voci rappresentano due sentieri opposti, un bivio in cui
DELLE ÉLITES CROLLA si trova il movimento femminista. Da un lato, Sandberg e quelle della
E LA LORO PATINA sua sorta considerano il femminismo come l’ancella del capitalismo.
DI PROGRESSO PERDE Vogliono un mondo in cui uomini e donne della classe dominante con-
LUCENTEZZA: C’È SPAZIO dividano equamente il compito di gestire lo sfruttamento sul posto di
PER UN FEMMINISMO lavoro e l’oppressione nella società. Si tratta di una visione strabiliante
ANTICAPITALISTA di pari opportunità di dominio,
per cui si chiede alle persone co-
muni, in nome del femminismo, Cinzia Arruzza è docente di
di essere grate che sia una donna e non un uomo a filosofia alla New School for Social
mandare a rotoli il loro sindacato, a ordinare a un dro- Research. È coautrice di Storia
ne di uccidere i loro genitori o a rinchiudere i loro figli delle storie del femminismo
in una gabbia ai confini col Messico. In netto contrasto (Alegre, 2017).
col femminismo liberale di Sandberg, le organizzatrici Tithi Bhattacharya insegna studi
della huelga feminista chiedono la fine del capitalismo, globali alla Purdue University.
ossia di quel sistema che genera padroni, costruisce Ha curato Mapping Social
confini nazionali e produce droni per sorvegliarli. Reproduction Theory (Pluto
PRIMAVERA 2019

Di fronte a queste due visioni del femminismo ci Press, 2017).


troviamo davanti a una biforcazione e la nostra scelta Nancy Fraser insegna filosofia e
comporta conseguenze straordinarie per l’umanità. politica alla New School for Social
Un sentiero conduce a un pianeta devastato in cui la Research. Ha scritto Fortunes of
vita umana è così impoverita da diventare irriconosci- Feminism (Verso, 2013) e con Rahel
N. 2

bile, o forse addirittura da non essere più possibile. L’al- Jaeggi, Capitalism: A Conversation
in Critical Theory (Polity, 2018). A
vocal supporter of the International
Women’s Strike, she coined the
phrase ‘feminism for the 99%’.
Traduzione di Alberto Prunetti.
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tro sentiero porta a quel mondo che da sempre fa parte dei sogni più nobili dell’umanità:
un mondo giusto, in cui ricchezza e risorse naturali sono condivise da tutti, in cui libertà e
uguaglianza sono premesse, non aspirazioni.
Il contrasto non potrebbe essere più marcato. Ma quel che rende la scelta più difficile è il
fatto che non esistono vie intermedie. Dobbiamo questa carenza di alternative al neolibe-
rismo, una forma di capitalismo finanziario, altamente predatorio, che ha dominato il pia-
neta negli ultimi quarant’anni. Dopo aver avvelenato l’atmosfera, irriso ogni pretesa demo-
cratica, teso fino al punto di rottura le nostre società e degradato le condizioni di vita della
vasta maggioranza, questa forma di capitalismo ha alzato la posta in gioco per ogni lotta
sociale, trasformando ogni timido tentativo di conquistare riforme modeste in battaglie
all’ultimo sangue per la sopravvivenza. In queste condizioni, il tempo degli eterni indecisi è
scaduto e le femministe devono prendere una posizione. Continueremo a inseguire la “pari
opportunità di dominio” mentre il pianeta brucia? O riusciremo a immaginare la giustizia
di genere in forma anticapitalista, andando oltre l’attuale crisi, verso una nuova società?
Questo manifesto è una mappa del secondo sentiero, un itinerario che riteniamo neces-
sario e possibile. Si può concepire un femminismo anticapitalista oggi che la credibilità delle
élites politiche sta crollando ovunque. Tra le vittime contiamo non solo i partiti di centro-sini-
stra e di centro-destra che hanno promosso il neoliberismo, ormai disprezzate vestigia di un
tempo andato, ma anche gli alleati del femminismo delle élites che calcano le orme di Sand-
berg, la cui patina di “progresso” ha ormai
perso lucentezza. Il femminismo liberale
ha incontrato la sua Waterloo nelle ele- Scriviamo non per delineare un’utopia immaginaria, ma
zioni presidenziali statunitensi del 2016, per segnare la strada che deve essere percorsa per raggiun-
quando la candidatura di Hillary Clinton, gere una società equa. Ci proponiamo di spiegare perché
sostenuta da un forte battage pubblicita- le femministe dovrebbero prendere la strada degli scioperi
rio, non è riuscita a smuovere le elettrici. femministi, perché dobbiamo unire le forze con altri mo-
Per buone ragioni: Clinton incarnava il vimenti anticapitalisti e antisistema, perché il nostro mo-
profondo scollamento tra l’ascesa delle vimento deve diventare un femminismo per il 99%. Solo in
donne in carriera verso ruoli di prestigio e questo modo il femminismo può raccogliere le sfide della
i miglioramenti nelle vite della vasta mag- nostra epoca: collegandosi con i militanti antirazzisti, con
gioranza delle persone. gli ambientalisti, con gli attivisti per i diritti dei migranti e
La sconfitta di Clinton ci ha suonato la dei lavoratori. Rifiutando con decisione il dogma del “farsi
sveglia: ha esposto il fallimento del fem- avanti” e il femminismo dell’1%, il nostro femminismo può
minismo liberale e creato un’apertura per rappresentare una speranza per il resto del mondo.
sfidarlo da posizioni di sinistra. Nel vuoto Quel che ci fornisce oggi il coraggio di imbarcarci in
prodotto dal declino del liberismo, abbia- questo progetto è la nuova ondata di mobilitazioni del
mo l’opportunità di creare un altro fem- femminismo militante. Non si tratta del femminismo
minismo: un femminismo con una diffe- della donna in carriera che si è dimostrato un disastro
rente definizione di quel che è rilevante per le donne lavoratrici e ormai sta perdendo credibili-
da un punto di vista femminista, con un tà, né del “femminismo del microcredito” che pretende
differente orientamento di classe, con un di fornire “empowerment”alle donne del Sud del mondo
differente ethos, radicale e trasformativo. prestando loro minuscole somme di denaro. Quel che ci
Questo manifesto è il nostro tentativo dà speranza sono piuttosto gli scioperi femministi inter-
di promuovere un “altro” femminismo. nazionali del 2017 e del 2018. Sono questi scioperi – e i
movimenti sempre più coordinati in crescita attorno a
essi – che hanno prima ispirato e poi dato forma concre-
ta a un femminismo per il 99%.
SCIOPERI!

[tratto da Femminismo per il 99%.


Un manifesto, Laterza, 2019]
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SOGGETTI

Fuori
dai
cancelli
Se si analizza la composizione della forza lavoro
in Italia, anche nel periodo d’oro della fabbrica
fordista, il mito dell’operaio massa metalmeccanico
si ridimensiona. L’oppressione di classe attraversa
PRIMAVERA 2019

tutti gli spazi e le attività produttive


N. 2

Illustrazione di
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SCIOPERI!
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«R
imbomba la fabbrica di macchine e motori/Più forte il silenzio di
mille lavoratori». Le macchine ferme, i camion bloccati, gli operai
schierati nel picchetto. Quando ci si immagina uno sciopero, ven-
gono in mente le figure più classiche della fabbrica fordista. I giganti
dell’industria nazionale, i cuori battenti della produzione di massa
David Broder – si tratti delle iconiche Mirafiori o Pomigliano, degli stabilimenti
Giacomo Gabbuti Ilva o quelli Pirelli – bloccati dalla massa operaia. Una foto famosa
raffigura i proletari davanti ai cancelli, le braccia incrociate, in rap-
presentanza dell’intera Resistenza italiana. Negli Stati uniti, quando gli studenti vogliono
sottolineare la valenza generale delle loro lotte brandiscono lo slogan: «L’università è una
fabbrica!».
Ma non c’è più il futuro di una volta. L’Italia rimane la seconda potenza industriale nel
vecchio continente, eppure queste famose “fortezze della classe operaia” non esistono più.
Oggi Mirafiori, mitizzata per decenni anche per aver ospitato i primi scioperi operai contro
il regime fascista, impiega solo 5 mila dipendenti, contro i quasi 60 mila del 1980. E l’operaio
della fabbrica non esercita la stessa influenza sull’immaginario collettivo.
È facile lamentare il declino di un’Italia che non esiste più, e depositare i fiori sulla tomba
di una classe operaia defunta. Ma non è detto che i lavoratori delle grandi fabbriche rap-
presentassero da soli la totalità della classe, del soggetto antagonista; che fossero gli unici
depositari della stessa domanda di un’altra società. Il teorico dell’operaismo Mario Tronti
parlava della sparizione dei tratti specifici della fabbrica nel momento in cui la sua logica
produttiva e organizzativa si impadronisce dell’intera società. Oggi vediamo come un mon-
do mercificato (o almeno, l’Italia) ha superato il ruolo della fabbrica stessa.
La sparizione delle grandi fabbriche ha distrutto un riferimento simbolico per l’esistenza
(e l’auto-coscienza) di una classe. Nella cultura scientista e pro-
duttivista ottocentesca che permeava le grandi organizzazioni
socialiste della Seconda Internazionale, l’operaio industriale era David Broder è uno
un riferimento simbolico per una classe intera. Il leader social- storico e traduttore
democratico tedesco Eduard Bernstein teorizzava la possibilità inglese, redattore
di arrivare al socialismo attraverso la massificazione di un nu- europeo di Jacobin
mero sempre più grande di operai nelle fabbriche, mentre nelle Magazine.
PRIMAVERA 2019

opere di Karl Marx e di Friedrich Engels, la parola fabbrica invoca Giacomo Gabbuti
lo stadio più avanzato dello sviluppo capitalista, il suo punto di è dottorando
concentrazione e massificazione più impressionante. Allo stesso di storia economica
tempo, uno studio del modello della singola fabbrica con il suo all’Università di Oxford.
N. 2
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padrone e i suoi operai permetteva uno sguardo chiaro sui rapporti di classe generali nella
società intera, attraverso lo specifico luogo di produzione, in un modo molto più evidente
che nel caso di un artigiano o di un mezzadro.
Eppure anche ai loro tempi la stragrande maggioranza della classe non lavorava nelle
fabbriche. Del resto, per gran parte della storia non furono gli operai di quegli stabilimenti
i protagonisti del movimento operaio e socialista. Nel suo Making of the English Working
Class (la cui traduzione con Rivoluzione industriale e classe operaia, titolo dell’edizione in
lingua italiana, è quasi abusiva), lo storico marxista inglese Edward Palmer Thompson in-
siste sul fatto che la classe operaia si è formata attraverso un processo attivo, basato sulla
sua coscienza di sé, le sue organizzazioni e la sua visione parziale della società. Era nata
non nelle grandi fabbriche ma nei bassifondi e nelle botteghe: gli eroi della sua narrazione
sono sellai, calzolai, edili, anche mercanti. Una forza tutt’altro che omogenea, lontana dallo
stereotipo dell’operaio massa uniformato
dalla disciplina di fabbrica.
Se questo fu vero nella patria della ri- so del manifatturiero si svolgeva lontano dalle fabbriche,
voluzione industriale, figuriamoci in un molte volte in condizione di auto-impiego, o persino con
paese come l’Italia. Come ha ricostruito quel lavoro a domicilio che costituisce ancora ai giorni no-
lo storico Manfredi Alberti nel suo Senza stri l’ombra inquietante del Made in Italy, come ha raccon-
lavoro (Laterza, 2016), il nostro è un pae- tato un’inchiesta recente del New York Times.
se storicamente caratterizzato da disoc- Proprio dall’incertezza concettuale legata alla defini-
cupazione e sotto-occupazione. Quando zione di “industria” deriva, secondo lo storico economico
a cavallo del Novecento comincia l’indu- Stefano Fenoaltea, l’inaffidabilità del primo censimento in-
strializzazione, non ebbe come sfondo dustriale italiano del 1911. Mentre il contemporaneo cen-
enormi pozzi carboniferi o grandi stabi- simento della popolazione contava 4,3 milioni di persone
limenti siderurgici, ma impianti tessili, attive nell’«industria, arti e mestieri», in quello industriale,
spesso alimentati da energia idroelettri- escludendo coloro che lavoravano da soli o nella propria
ca, dove donne e bambini dalle mani sot- abitazione, erano impiegate appena 2,3 milioni di persone.
tili, che più del capofamiglia dovevano Non sono stati i “creativi” a portare l’arte di inventarsi un
contribuire a stabilizzare i redditi fami- lavoro in Italia: la forza lavoro da sempre comprende una
liari, costituivano una presenza prepon- schiera di lavoratori del terziario, dai negozianti ai venditori
derante. Allo scoppio della prima guerra ambulanti. Secondo i dati rielaborati da Paolo Sylos Labini
mondiale, le case automobilistiche ita- nel suo Saggio sulle classi sociali (Laterza, 1975), artigiani
liane erano ancora piccole officine che e negozianti, quasi il 20% della forza lavoro nel 1881, non
sfornavano prodotti di nicchia, spesso sarebbero scesi per un secolo sotto il 10%, per salire sopra
destinati all’esportazione, mentre il gros- il 15% dopo la guerra (anche per le politiche loro favorevoli
della Democrazia cristiana).
Solo la grande domanda provocata dalle commesse bel-
liche spinse il presidente della Fiat Giovanni Agnelli a pro-
gettare il Lingotto; ma anche nella parentesi fordista, il gi-
gantismo della fabbrica è stato un’eccezione, su uno sfondo
SCIOPERI!

di piccoli e piccolissimi stabilimenti. Non solo: quando, alla


fine del boom degli anni Cinquanta, gli occupati agrico-
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li vennero superati per la prima volta da quelli industriali,
questi erano già stati sopravanzati dagli addetti del terzia-
rio, come è possibile verificare dai dati assemblati da Clai-
re Giordano e Francesco Zollino di Banca d’Italia. Il picco
assoluto nell’industria si toccò alla fine degli anni Settanta,
con poco più di 7,5 milioni di addetti – circa il 35% della for-
za lavoro, contro l’oltre il 50% dei servizi. E la dimensione
delle aziende aveva già iniziato il declino di cui abbiamo già
parlato nel primo numero della rivista.
Anche quando si espandeva, la fabbrica contribuì a
produrre figure ibride come i cosiddetti “metalmezzadri”,
poco disposti a disperdere l’eredità di quella massa di co-
loni, mezzadri, affittuari, enfiteuti, piccolissimi proprieta-
ri, che popolavano le campagne accanto ai veri e propri la-
voratori “dipendenti” (stabili e giornalieri). Usando come
riferimento il censimento del 1901, dei circa 9,5 milioni di
occupati in agricoltura, poco meno di 4 milioni erano “di- dominante, fu l’esperienza di una, due
pendenti” (di cui 2,8 giornalieri), mentre 2,5 erano colti- generazioni al massimo.
vatori in proprio. Il resto era costituito da oltre 2 milioni di Non deve sorprendere che i protago-
mezzadri e quasi 700 mila affittuari – figure peraltro sot- nisti della nascita del movimento opera-
tostimate dalla pratica di considerare le loro mogli come io nel nostro paese non lavorassero nelle
“donne di casa”, come dimostrato da Giulia Mancini sul- fabbriche, e la figura del militante non
la Rivista di storia economica, nonostante partecipassero coincidesse solo con l’operaio maschio
al lavoro in modo tutt’altro che marginale. Fuori dal mito che bloccava la catena di montaggio. La
insomma, la preponderanza di una forma della classe – stessa terminologia “operaio” col tempo
quella del maschio adulto occupato nell’industria – scom- ha cambiato significato, proiettando l’i-
pare. Il lavoro nelle fabbriche, organizzato secondo il ciclo deologia presente sul passato. Lungi dal
fordista, non fu mai maggioritario; e anche dove fu pre- riferirsi ai soli blue collar, l’etimologia la-
tina si riferisce a chi compie un lavoro, di
qualunque natura. Come testimoniato
dal Vocabolario Etimologico di Ottorino Pianigiani (1907), nell’uso dell’epoca il termine si
riferiva ancora a chi esercitava «ogni sorta di lavoro manuale, senza precedente addestra-
mento o istruzione, come sono i facchini, gli scavatori, i carrettieri e simili». Nell’Ottocento
c’erano dunque Società operaie composte esclusivamente di artigiani, mentre la costitu-
zione della Federterra (1901) – l’unione sindacale contadina, tra i cui dirigenti spicca la figu-
ra di Argentina Altobelli – precede di qualche anno quella della Confederazione generale del
lavoro (1906). La lotta per fermare il capitalismo e lo sfruttamento, non passava necessaria-
mente dalle fabbriche, mentre la formazione di un contro-potere, di una classe, fu sempre
PRIMAVERA 2019

anche un processo politico.

Fondata sul lavoro

Sono state, dicevamo, le due guerre mondiali a dare alle fabbriche un ruolo così cen-
N. 2

trale; il nesso tra mobilitazione di massa, produzione di guerra e destino della Patria ha
“nazionalizzato” (anche quando non in senso letterale) i grandi siti di produzione, po-
nendoli al centro della comunità nazionale. Il Pci insisteva (contro ogni evidenza) a dire
che gli scioperi del marzo del 1943 fossero cominciati alla Fiat di Mirafiori. Inaugurata da
Mussolini nel 1939 ed esempio massimo, come ha ricostruito da ultimo Bruno Settis nel
suo Fordismi (il Mulino, 2016), di realizzazione dei principi fordisti in Italia, Mirafiori era
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centrale nel mito della “civiltà del lavoro” creato dal regime
fascista; collocarvi l’agitazione operaia voleva dire strappar-
gli una potente arma dalle mani. Ma proprio la guerra aveva
mostrato la fragilità del mito, e l’Italia riuscì nell’impresa ben
poco eroica di entrare nel conflitto ancor più impreparata che
nel 1915, mandando soldati al massacro, dall’Egitto alla Russia, con
scarpe di cartone e armamenti antidiluviani.
In quegli stessi anni, tuttavia, si era compiuta una svolta considerevo-
le nell’immaginario marxista. La “costruzione del socialismo” nell’Unione
sovietica, dove il primo stato operaio realizzava la sua rivoluzione industriale in pochi
anni, aveva impresso nei comunisti italiani (e non solo) l’idea secondo cui la crescita del-
le forze di produzione equivaleva a quello che il Marx dell’Ideologia tedesca definiva lo
«scrollarsi di dosso l’antica sozzura» ereditata dai rapporti di classe arretrati. I successi
dell’industrializzazione nell’Urss dimostravano la possibilità di un futuro alternativo. Già
in Marx era presente l’idea secondo cui lo sviluppo industriale gettasse le basi materiali
per il superamento del capitalismo. Ma il modello sovietico, nonché la strategia dei fronti
popolari interclassisti lanciata negli anni Trenta, potenziava una concezione del lavoro
industriale quale cuore non solo economico, ma anche morale, della rinascita italiana.
Se nel biennio rosso del 1919-20 gli operai avevano occupato le fabbriche per bloccare la
produzione, nel 1944 lo faranno per difendere il patrimonio indu-
striale italiano dai tentativi nazisti di trasferirlo in Germania.
È troppo facile liquidare l’ideologia del Pci, e della sinistra italia- SECONDO IL MITO
na nel suo insieme, come un culto della produzione di massa o di ALIMENTATO DAL PCI GLI
un singolo tipo di operai. Se questo mito attraversava la sua cultura, SCIOPERI DEL MARZO 1943
e anche le sue pubblicazioni dirette a braccianti o alle donne (re- ERANO COMINCIATI
lativamente meno presenti nelle grandi fabbriche), era allo scopo ALLA FIAT DI MIRAFIORI:
di insistere sull’esistenza di un alleato forte per quegli strati della NEL CUORE DELLA CIVILTÀ
classe che dubitavano della propria forza politica. Indubbiamente DEL LAVORO FASCISTA
le conquiste dei metalmeccanici avevano la capacità di catalizzare
l’attenzione, e contribuivano (tanto quanto le sconfitte) a “cambia-
re il vento” nelle relazioni industriali del nostro paese. Ma se queste avessero rappre-
sentato la totalità del movimento operaio italiano, la sua storia andrebbe del tutto cir-
coscritta al triangolo industriale.
Eppure, la storia del biennio rosso è fatta di occupazioni delle fabbriche, ma anche di
moti annonari e proteste contro il caro vita, nonché di scioperi dei braccianti, ma anche di
mezzadri e affittuari che soprattutto in Emilia e Toscana (dove 180 mila mezzadri parteci-
parono a uno sciopero regionale) pretendevano di rinegoziare e migliorare i loro contratti.
Secondo le statistiche rielaborate dallo storico dell’agricoltura Pablo Martinelli, nel 1919 e
1920 si ebbero rispettivamente 208 e 189 scioperi agrari, che coinvolsero 500 mila e poi oltre
un milione di persone. Non erano certo operai metalmeccanici i braccianti che ripresero a
SCIOPERI!

occupare i latifondi dopo la liberazione, come quelli massacrati a Portella della Ginestra nel
1947, proprio mentre tornavano a celebrare il primo maggio. Nello stesso anno, ottenevano
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per legge l’obbligo, imposto con lotte durissime, di assumere e impiegare un minimo di la-
voratori (il cosiddetto imponibile di mano d’opera).
Né mancò la classe in una città come Roma, dove anche per la precisa volontà delle classi
politiche liberali, lo sviluppo di «una soverchia aggregazione di operai», nelle parole di Quin-
tino Sella, fu limitato quasi esclusivamente agli edili – uno di loro era ad esempio Angelo “Si-
garo” Conti, voce e chitarra della Banda Bassotti recentemente scomparso. Non la fabbrica,
ma la sua stessa rabbia animava quei disoccupati che – prima del lancio del Piano del lavoro
nel 1949 – animarono gli “scioperi alla rovescia”. Secondo Aldo Venturelli, della borgata di
Pietralata, «quando noi c’avevamo qualcosa che non ce andava bene, tipo le strade che qua
erano piene de buche e non ci si poteva neanche camminare, facevamo lo sciopero alla rove-
scia. […] Noi della borgata prendevamo le pale e i picconi, andavamo per strada e allargava-
mo ancora di più le buche che già c’erano, così il Comune poi doveva veni’ per forza a ripara’
la strada». Di fronte alla proprietà assenteista o alle istituzioni negligen-
ti, si coltivavano le terre e realizzavano le opere pubbliche, dimostran-
1947: NEGLI SCONTRI do allo stesso tempo la loro necessità e la possibilità di combattere la
IN UNA BORGATA ROMANA disoccupazione. Le testimonianze dei dirigenti comunisti Aldo Natoli
MUORE GIUSEPPE TANAS. e Leo Canullo concordano nell’attribuire il primo sciopero di questo
RAPPRESENTA QUESTA tipo ai cittadini di Primavalle, un’altra delle “borgate ufficiali” romane
ETEROGENEITÀ: (ne parla Luciano Villani in Le borgate del fascismo, Ledizioni, 2012).
COMUNISTA, PARTIGIANO, Nel dicembre del 1947 le mobilitazioni portarono a violenti scontri con
BORGATARO E SARDO la polizia, nei quali perse la vita Giuseppe Tanas. Nella sua condizione
di iscritto al sindacato, comunista, partigiano, borgataro e sardo, Tanas
incarna l’estrema eterogeneità del proletariato urbano romano. In un
paese in cui era ancora viva l’eredità di Lombroso, e in cui l’italiano era ancora appannag-
gio di pochi studiati, la coesistenza nelle lotte e nelle organizzazioni operaie di quei quasi
9 milioni di italiani che, tra il 1955 e il 1971, si trasferirono da una regione all’altra, sembra
smentire quanti oggi attribuiscono all’omogeneità etnica o culturale la forza delle socialde-
mocrazie scandinave. Sempre a Primavalle, secondo la partigiana e parlamentare comunista
Marisa Rodano, nel 1950 le militanti dell’Unione donne italiane organizzarono i lavori di
sterro di una strada «già prevista nel Piano regolatore del 1931», raccogliendo le attrezzature
necessarie, e istituendo un centro di raccolta «ove affluiscono in commovente gara le offerte
PRIMAVERA 2019

di pane e di viveri dei commercianti e della popolazione».


Come ha ricostruito qualche mese fa sul manifesto Giuliano Santoro, citando proprio i
lavori di Villani, è soprattutto nelle lotte per il diritto all’abitare – dalle occupazioni, prima
simboliche e poi reali, all’auto-riduzione degli affitti – che, a Roma, non solo i movimenti,
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ma lo stesso Pci ha svolto l’attività probabilmente più incisiva nella ricomposizione della
classe, catturata nelle splendide foto di Tano D’Amico.
L’antropologo Stefano Portelli da anni lavora al caso di Nuova Ostia, salita agli onori della
cronaca per le gesta del clan Spada e l’ascesa di Casa Pound. Complesso abusivo rimasto
invenduto, Nuova Ostia fu occupata da 1.300 famiglie organizzate dal Pci. L’assegnazione
delle case non realizzò però la promessa di inclusione, disgregando le comunità di baracca-
ti. Se, come scrive Portelli, il “disastro” per le periferie non è l’“abbandono” ma il “disprezzo”
(con cui si scarica su di loro per esempio lo stigma di Mafia Capitale, che pure ha arricchito
settori assai poco popolari della città), è innegabile che la sinistra italiana, anziché piangere
la fine della fabbrica, avrebbe potuto presidiare le periferie, in cui non mancano né le con-
traddizioni reali su cui intervenire, né le “storie di successo” da cui trarre ispirazione.
Anche negli anni Sessanta, quando la fabbrica visse la sua breve stagione di protago-
nismo, la classe comprendeva le operaie
tessili, come quelle dei Cotonifici Valle
Susa intervistate da Aris Accornero du- sa: finita (e persa) la lotta di classe delle grandi fabbriche,
rante i durissimi scioperi del 1960-61. In la resistenza è rimasta frammentata, e scollegata da ogni
questo senso, le varie Mirafiori costitui- orizzonte per la società dell’avvenire, come ricostruito da
vano il collante ideologico per altre lot- Salvatore Cannavò e Lorenzo Zamponi sempre nello scor-
te, nel tentativo di superare la storica di- so numero di Jacobin Italia.
visione (espressa soprattutto durante il Altrove – dalla Francia alla Spagna passando per il mon-
fallimento del biennio rosso) tra gli ope- do anglosassone – la scomparsa del movimento operaio
rai nell’industria fordista e il resto del nella sua forma novecentesca ha riaffermato la centralità
paese. Le migrazioni di massa del dopo- dell’azione politica nella ricomposizione di un soggetto di
guerra hanno rinsaldato nell’esperienza classe. I nuovi movimenti europei non parlano più, come il
collettiva questo legame, provocando Pci, dello sviluppo inevitabile delle forze produttive, ma di
ciò che Marx chiamava la “sussunzione come creare forme di produzione che migliorino la vita del-
reale” – il disciplinamento della massa le persone, instaurando nel contempo un rapporto armo-
operaia e dell’organizzazione del lavoro nioso con l’ambiente. Se la difesa della dignità del lavoro si
stessa sotto il regime della fabbrica. An- fa sempre più dura, si rilancia elaborando e conquistando
che l’immaginario politico venne strut- nuove forme di diritti sociali. Purtroppo, in Italia, sembria-
turato da quel sistema e dai punti alti mo lontani da entrambe le cose. Ma se la nostra Repubblica
di lotta dell’operaio-massa. Ma la fine si fonda sul lavoro, questo non è mai stato solo quello svolto
di quel momento e la scomparsa delle nelle varie Fiat o Alfa degli anni Quaranta e Cinquanta. Il
figure di quell’epoca hanno poi prodot- dominio capitalista si estende alla società intera, e la resi-
to un vuoto nell’identità di classe stes- stenza è sempre stata altrettanto trasversale. Lo sciopero, la
lotta, l’immaginario di un ordine nuovo, non sono stati as-
semblati su una catena di montaggio fordista. Sono un’ere-
dità che viene da lontano, e rimangono attuali anche dopo
la morte, o il declino, di una particolare loro figura. Come
sempre nella storia del movimento operaio, quel che ci ser-
SCIOPERI!

ve è organizzazione e politica; da perdere abbiamo solo la


nostra impotenza.
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SOGGETTI

Nella nuova classe operaia


dei servizi, dalla logistica
al turismo, emergono e si
intensificano conflitti contro
forme di comando antiche
e moderne al tempo stesso
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T
ornare a ragionare di composizione del lavoro significa riconosce-
re quello che viene volutamente nascosto. Comporta indagare i
contorni delle lotte che insorgono nelle periferie del capitalismo,
nella filiera della logistica, della grande distribuzione, nell’infer-
no dei call center, negli anelli che collegano la produzione al con-
Marta Fana sumo. In questi interstizi emerge l’immagine di una nuova classe
Simone Fana lavoratrice, in cui i criteri etnici e di genere sconvolgono l’immagi-
nario tradizionale della classe operaia bianca, autoctona, maschi-
le. Una realtà che viene quotidianamente marginalizzata, frammentata, divisa, rimossa
nei luoghi di lavoro e nella società. Sono soprattutto i settori tradizionalmente classificati
come periferici, che acquisiscono oggi centralità nel processo di accumulazione e valo-
rizzazione del capitale, non sorprende, quindi, che siano i comparti dove si formano con
maggiore frequenza conflitti e in cui si assiste a risposte repressive. Senza la logistica, ad
esempio, l’assetto globale della produzione industriale rimarrebbe lettera morta, priva di
sbocchi nel mercato delle merci e dei servizi; lo stesso vale per il segmento che segue il
trasporto delle merci: il commercio al dettaglio.
I mall, i centri commerciali, assomigliano sempre più a nuove fabbriche fordiste in cui
segmenti apparentemente distinti sono allineati su un’unica catena di montaggio: dalle
pulizie alle casse, dalla sorveglianza ai magazzini. Ma è anche il settore in cui si manife-
stano chiaramente le trasformazioni nel contenuto e nell’organizzazione del lavoro dovu-
te all’applicazione di diversi tipi di tecnologia: la digitalizzazione e l’automazione. Senza
tuttavia produrre alcuna liberazione dal lavoro, al contrario svalutandolo ulteriormente
nella direzione dell’intensificazione dei tempi di lavoro o nel controllo di quelli di non
lavoro. Dalle casse automatiche costantemente sorvegliate da almeno un addetto, ormai
simile a una biglia di flipper che si muove tra clienti sempre sull’orlo di una crisi di nervi
davanti a un codice a barre, fino ad arrivare alla commessa che
dovrà ripetere migliaia di volte lo stesso gesto fisico per riporta-
re in ordine i prodotti sugli scaffali. Marta Fana,
In questa figura della nuova classe operaia dei servizi si con- PhD in Economics,
densano gli aspetti materiali e simbolici dello sfruttamento. si occupa di mercato
Processi di comando antichi e moderni, che si servono della del lavoro. Autrice
categoria della femminilizzazione – intesa come svuotamento di Non è lavoro
del contenuto fisico e ripetitivo delle mansioni lavorative – per è sfruttamento
mascherare il controllo classista sul lavoro. Mercificazione e og- (Laterza, 2017).
gettivazione della donna, alla quale viene richiesto di sorridere Simone Fana si occupa
di servizi per il lavoro
e per la formazione
professionale. Autore
di Tempo Rubato
(Imprimatur, 2018).
SCIOPERI!
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per nascondere la brutalità del gesto routinario, dei ritmi infernali che dispongono del
suo corpo, ormai trasformato in un’appendice della macchina, mero aspetto cosmetico
del gioco capitalistico.
Il ruolo della componente femminile diventa, al contrario, centrale proprio perché in
grado di mettere in crisi le rappresentazioni dominanti che finiscono per schiacciare il con-
flitto di genere nell’ambito separato della riproduzione sociale. Produzione e riproduzione
tornano a essere due dimensioni inscindibili delle nuove forme di conflitto: si lotta per mi-
gliorare la propria condizione lavorativa e per riconquistare potere nella società. Liberazio-
ne nel lavoro e dal lavoro, si sarebbe detto un tempo, come spazio necessario per ricostruire
l’unità dei meccanismi di comando e il campo di espressione delle forze antagoniste.

La vertenza ItalPizza

In questi interstizi che legano l’organizzazione della fabbrica moderna con le politiche
di controllo della forza lavoro, tra cui figurano le misure di restrizione del diritto di sciopero
(il riferimento è al decreto legge 113/2018 che reintroduce il reato di blocco stradale e alle
norme vessatorie contenute nel decreto sicurezza con la riduzione dei fondi per i titolari
di protezione internazionale) poste dal governo in carica, si colloca la vertenza ItalPizza,
azienda leader nel settore delle pizze surgelate e situata nel polmone
produttivo italiano alla periferia modenese. Protagoniste nove donne
IL RUOLO DELLA provenienti da angoli diversi del mondo. È novembre quando deci-
COMPONENTE FEMMINILE dono di ribellarsi a un’organizzazione del lavoro brutale, iscrivendosi
MOSTRA CHE PRODUZIONE al sindacato Si Cobas per rivendicare condizioni lavorative dignitose.
E RIPRODUZIONE SONO Le richieste sono minime: adeguamento delle condizioni contrattuali
DIMENSIONI INSCINDIBILI alla tipologia di mansioni svolte (le lavoratrici svolgevano attività di
DELLE NUOVE FORME farcitura e preparazione delle pizze inquadrabili nel contratto alimen-
DI CONFITTO NEL LAVORO tarista, ma l’azienda applicava il contratto Multiservizi per abbattere
il costo del lavoro), regolarizzazione dei turni di lavoro per bloccare la
pratica degli straordinari non pagati, restituzione dei contributi non
versati. Una scelta che non viene digerita dall’azienda ItalPizza che decide di sospenderle
fino al 20 gennaio. Atto unilaterale di un’impresa abituata a disporre dei lavoratori e delle
lavoratrici senza restrizioni, grazie a quel potere illimitato nell’organizzazione del lavoro
che si traduce nel ricorso alla pratica dell’appalto del ciclo produttivo attraverso l’interme-
diazione di due cooperative. La protesta delle donne, che aderiscono allo sciopero globa-
le dell’8 marzo, avvia la mobilitazione, con scioperi e presidi davanti allo stabilimento. Il
clima diventa incandescente: lo sciopero indetto da un piccolo gruppo di lavoratori trova
la risposta repressiva delle forze dell’ordine. Nel silenzio delle istituzioni politiche locali e
nazionali la mobilitazione non si ferma, coinvolgendo in pochi giorni nuovi lavoratori, sen-
PRIMAVERA 2019

sibilizzando una parte dell’opinione pubblica cittadina, diventando vertenza nazionale e


obbligando l’azienda a tornare sui propri passi. Si arriva a un accordo in prefettura che ri-
chiama l’azienda a riassumere le nove donne e verificare con le organizzazioni sindacali la
corretta applicazione dei contratti collettivi di categoria. Il richiamo non sortisce gli effetti
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sperati. L’azienda relega le nove donne riassunte alle mansioni di pulizia, fuori dal ciclo di
produzione e dall’ambito contrattuale previsto. Nulla pare cambiare anche in riferimento
alla gestione dei turni che vengono comunicati solo qualche ora prima del loro effettivo
svolgimento. Ma alla fine la lotta paga: tutte vengono reintegrate alle mansioni precedenti.
È sempre il sistema degli appalti e subappalti contro cui hanno puntato il dito lavora-
trici e lavoratori addetti alle pulizie dell’hotel di lusso Hyatt di Paris-Vendôme. L’ultima
riforma del lavoro, voluta per decreto dal presidente francese Emanuel Macron, ha infatti
escluso i lavoratori in appalto dal diritto di associazione sindacale e quindi di rivendica-
zione. Da qui sono partiti tre mesi di sciopero a oltranza con chiare richieste: internaliz-
zazione, aumenti salariali e rimborso dei costi del trasporto pubblico. Il 21 dicembre dello
scorso anno, il management dell’hotel di lusso ha dovuto cedere: sono state corrisposte
le rivendicazioni monetarie e contrattato il riconoscimento dell’azione sindacale per i la-
voratori e le lavoratrici in appalto. Una vittoria, seppur non totale, che ha incontrato la
solidarietà morale e finanziaria dei colleghi delle pulizie della Gare du Nord.
Dall’altro lato dell’oceano negli Stati uniti nuove mobilitazioni si susseguono riportan-
do al centro del dibattito pubblico le condizioni di lavoro di una classe lavoratrice sempre
più ampia e sfruttata, che prova a riprendersi lo stesso protagonismo sindacale e politico
di qualche decennio fa. Contro le narrazioni sulla fine del lavoro, la classe lavoratrice sta-
tunitense si è unita negli ultimi anni attorno a una rivendicazione comune: l’aumento
dei minimi salariali, unendo politicamente quel che il capitalismo continua a dividere.

Antidoti alle narrazioni dominanti

L’analisi della realtà rimane il migliore antidoto contro la falsa coscienza delle narra-
zioni dominanti che provano a dividere la classe lavoratrice lungo direttrici identitarie per
frammentare l’indivisibilità delle condizioni materiali e di sfruttamento che dai luoghi
di produzione si riversano lungo gli spazi sociali e di cittadinanza. Le lotte che concre-
tamente si svolgono non si limitano a svelare questo tentativo, a smascherare il suo por-
tato politico e ideologico, ma mostrano i nessi tra la dimensione oggettiva, morfologica
del capitalismo contemporaneo e il ruolo soggettivo delle forze in campo, tra struttura
dell’organizzazione del lavoro e conflitto. Donne e immigrati, soggettività espulse nel-
la frammentazione del ciclo di produzione e dalla sfera dei diritti sociali impongono un
nuovo ritmo alla ristrutturazione capitalistica. Un fatto non inedito nel corso della storia
del capitalismo. Come la forza lavoro che dal meridione si riversava nel triangolo indu-
striale rinfocolando il conflitto operaio negli anni Sessanta del secolo scorso, le nuove
figure operaie spiazzano il racconto accomodante delle classi dominanti, segnalando
un punto di crisi potenziale dell’attuale assetto sociale. Certo, diversamente dall’epoca
gloriosa del conflitto operaio, questo tempo sconta l’assenza di organizzazione politica.
La parola mancante, che è strumento pratico che ricompone una parte contro un’altra,
dividendo e tagliando il campo tra un “noi” e un “loro”. Si gioca molto se non tutto qui,
nella capacità di attraversare per salti e strappi questo passaggio, dalla fabbrica antica e
moderna sino al cuore delle istituzioni.
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SOGGETTI

Le lotte dei rider, i fattorini comandati da una piattaforma digitale, mescolano


strumenti tradizionali e pratiche innovative. Storia della Riders Union Bologna
e del suo sciopero al tempo della frammentazione sociale

Se nulla può
accadere,
tutto è
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possibile
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L
a vicenda dei rider, i lavoratori e le lavoratrici delle consegne a
domicilio la cui organizzazione è disciplinata da una piattaforma
digitale, e delle loro lotte dipanatesi nel corso dell’autunno si muo-
ve su di un doppio paradosso. Il primo è
quello più generale della sinistra politica
e sindacale, che ha raggiunto una condi- Marco Marrone,
Marco Marrone zione di afasia proprio nel momento in ricercatore in
cui il neoliberismo attraversava l’apice sociologia presso il
della sua crisi di consenso. Il secondo è quello che ha che fare Center for Humanities
con la capacità dei rider stessi di aprire in un contesto partico- and Social Change
larmente ostile all’autorganizzazione una finestra attraverso cui dell’Università Ca’
parlare a quella parte di lavoratori e lavoratrici, in crescita espo- Foscari di Venezia,
nenziale, esclusi dalle tutele salariali. Per comprendere come è tra i fondatori di
questo sia stato possibile, ma soprattutto quali indicazioni que- Riders Union Bologna.
sta lotta ci offre per il futuro, bisogna disporsi a uno sguardo dal
basso, assumendo fino in fondo la prospettiva dell’organizer.
Solo da questo punto di vista è possibile cogliere non solo le contraddizioni che si apro-
no alle frontiere dell’accumulazione capitalista, ma anche le opportunità che questa fase
storica offre alle lotte dei lavoratori.
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L’ascesa delle piattaforme digitali

L’esplosione delle piattaforme digitali non è avvenuta nel vuoto, né è il frutto di un


naturale sviluppo tecnologico. Essa affonda le sue radici in trasformazioni di più lunga
durata. È il trentennio neoliberista ad aver creato le condizioni politiche e sociali necessa-
rie allo sviluppo delle piattaforme. Non è un caso che la maggior parte di queste emerga a
seguito delle politiche neoliberiste di austerity, le quali hanno impresso nella società una
trasformazione delle condizioni materiali e soggettive che spingono sempre più individui
verso l’economia dei lavoretti, la cosiddetta gig economy.
Questa relazione spiega la tendenza delle piattaforme a sussumere, grazie agli strumenti
tecnologici, attività una volta marginali e condotte nell’informalità, come la consegna del
cibo, l’affitto di breve durata o il lavoro di cura. Un processo che pure potrebbe comportare
benefici ai lavoratori in questo settore, ma che, a causa della natura
estrattiva delle “leggi di produzione” delle piattaforme, fa sì che i la-
CONTRO L’ISOLAMENTO voratoti finiscano non solo per restare nella medesima condizione di
SI È PARTITI DAL DIALOGO povertà e insicurezza che caratterizza la dimensione informale, ma
NELLE CHAT DI GRUPPO subiscano anche una sollecitazione costante a intensificare la loro
E SI È ARRIVATI A USARE prestazioni e i rischi connessi. Si determina così un circolo vizioso che
STRUMENTI MUTUALISTICI vede i comportamenti organizzativi delle piattaforme incrementare
COME CICLOFFICINE gli stessi fattori che hanno prodotto l’esplosione dell’economia dei la-
E SPAZI SOCIALI voretti. È in questa tendenza che si articola la natura estrattiva delle
piattaforme che disegnano un modello di impresa basato su ingenti
finanziamenti volti a conquistare il mercato già prima di assicurarsi
una sostenibilità economica. Questa caratteristica, inoltre, rende le piattaforme dipendenti
dagli investimenti provenienti da alcuni tra i maggiori gruppi finanziari, tra cui Jp Morgan,
Deutsche Bank, ma anche la nostrana Intesa San Paolo. In un mercato a tendenza oligopo-
listica, ciò finisce per innescare la“guerra mondiale delle piattaforme”. In prima linea, sul
fronte di questa guerra che non hanno dichiarato, ci sono i rider, chiamati a pagare gli alti
costi sociali di questo modello di impresa.

Le strategie organizzative

Il confronto con questo scenario è il punto di partenza delle strategie organizzative della
Riders Union Bologna (Rub), perché sono proprio le tendenze di cui parlavamo poc’anzi a
causare il forte turn-over che caratterizza questo lavoro, la spinta verso l’individualizzazio-
ne della prestazione e anche il ruolo della componente simbolica volta a legittimare l’idea
del lavoretto. Così, mentre per aggirare gli ostacoli del turn-over è bastato organizzarsi at-
traverso lo strumento delle chat di gruppo, per riuscire a rompere il particolare isolamento
PRIMAVERA 2019

e l’effetto di una narrazione volta a scoraggiare la conflittualità, è stato necessario fornirsi di


strumenti di natura mutualistica. In un tale contesto, luoghi e strumenti come le cicloffici-
ne, il dopolavoro, i punti solidali, si sono rivelati preziosi perché in grado di costruire aggre-
gazione e solidarietà. A seguito dei primi scioperi dei rider dell’inverno del 2017 le aziende
hanno cominciato a prendere alcune contromisure. Dapprima hanno scelto di porsi come
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interlocutori e accettato di discutere di questioni fino ad allora negate. Poi hanno scelto la
pratica delle assunzioni selvagge, tentando di minare la solidarietà collettiva e sabotare la
possibilità dei lavoratori di organizzarsi. Ma gli strumenti mutualistici hanno consentito ai
rider di mettere in piedi un presidio in grado di durare nel tempo.

Reinventare lo sciopero

La difficoltà maggiore per la Rub è stata quella di riuscire a mettere in campo una stra-
tegia vertenziale efficace. A causa delle condizioni contrattuali cui vengono sottoposti,
i rider sono esclusi dagli strumenti tradizionali della tutela sindacale. Inoltre le “leggi
di produzione” che caratterizzano le piattaforme determinano un’asimmetria di potere
che rende difficile incidere sui comportamenti organizzativi. In altre parole, la strategia
vertenziale ha avuto la necessità di reinventare la pratica dello sciopero, reso inagibile
nella sua forma tradizionale proprio dal modo in cui le piattaforme funzionano. Pur sen-
za abbandonare l’obiettivo di praticare un’astensione collettiva che limitasse il più pos-
sibile l’operatività, il tentativo è stato quello di influenzare l’opinione pubblica più che
esercitare la capacità di mettere in crisi il ciclo di accumulazione delle piattaforme. Ciò è
avvenuto innanzitutto invocando la responsabilità politica di chi detiene le leve dell’am-
ministrazione delle infrastrutture cittadine all’interno delle quali le piattaforme operano.
È in questo senso che la Rub ha guardato alla città non semplicemente come agglomerato
di persone, ma come una rete di relazioni sociali e istituzionali da mobilitare per mettere
in crisi i giganti delle piattaforme.

Le lotte nel momento populista

Oltre che essere un’esperienza da cui trarre spunto per pensare allo sciopero nell’era della
“digitalizzazione del tutto”, dunque, l’esperienza della Rub è significativa del potenziale po-
litico e simbolico che tale pratica assume all’interno di quello che la filosofa Chantal Mouffe
definisce momento populista. Le lotte dei e delle rider non avrebbero potuto ottenere dei
risultati, seppure parziali, senza la capacità della Rub di riuscire a capitalizzare quei tratti
del momento populista che, a causa dell’assenza di un’alternativa politica, gonfiano spesso
il consenso delle destre. La centralità assunta dalla dimensione simbolica e la natura anta-
gonista del rapporto con le istituzioni, due tra gli elementi che caratterizzano il momento
populista, hanno consentito ai rider di diventare il simbolo del rifiuto della precarietà e
della povertà prodotta dal neoliberismo. Dopo la sentenza d’appello del tribunale del lavoro
di Torino, che ha riconosciuto la fattispecie della subordinazione del rapporto di lavoro di
cinque rider di Foodora, diventa sempre più urgente riuscire a ottenere un miglioramento
delle condizioni di lavoro e di vita per tutti e tutte. L’efficacia della lotta si misurerà dunque
sulla capacità di mobilitare quei lavoratori oggi esclusi dalle tutele salariali. Questo obiet-
tivo necessita dell’alleanza di tutte le energie che si oppongono alle tendenze estrattive del
capitalismo. Solo se ci sarà questa alleanza potremo dire che le lotte dei rider sono state una
scintilla in grado di far sì che, citando lo scrittore Mark Fisher, «in una situazione in cui nulla
può accadere, tutto di colpo torna possibile».
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DIZIONARIO

Illustrazioni di

Non esiste soltanto una forma


di lotta: se l’obiettivo è sempre
lo stesso, “far male al padrone”,
PRIMAVERA 2019

nella storia dei movimenti sociali


e dei conflitti nel mondo del lavoro
esistono diversi esempi di sciopero
e differenti modalità da adottare
in base a necessità e condizioni.
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Ve ne proponiamo cinque.
Alcune fanno parte
della storia sindacale,
altre sono sperimentazioni
proiettate verso il futuro
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Sciopero
sociale
L o sciopero sociale è lo sciopero che
trasforma in coalizione. È l’estensi
della mobilitazione dallo spazio del
one
si

lavoro a
quello della città e dei flussi. È il 2
novembre del 2011
quando migliaia di manifestanti bloc
cano il porto di
Oakland. Il movimento Occupy si
è diffuso in tutti gli
Stati uniti tra piazze e assemblee,
quando si pone il
problema di come mobilitare e far dello sciopero come pratica sociale
è sicu-

Valerio Renzi
incontrare lavo-
ratori, disoccupati, attivisti delle più ramente più semplice. Pensiamo
svariate cause alle mobi-
scegliendo per farlo lo spazio dell litazioni in Francia contro la Loi Trav
o sciopero. All’alba ail: le
il principale porto commerciale dell pratiche di mobilitazione sperime
a costa ovest è ntat e nel
paralizzato e lo sarà nuovamente movimento della Nuit Debout da
il 12 dicembre suc- migliaia
cessivo, mentre la mobilitazione non di giovani e giovanissimi, si sono
ha mai smesso incontra-
di invadere lo spazio della città calif te sull’estensione del conflitto sul
orniana. Le pra- terreno
tiche e l’allusione allo sciopero per della legislazione del lavoro con il
ottenere conflitto
elementi concreti di giu- sindacale più tradizionalmente inte
so.
stizia sociale lasceranno Da Oakland a Oaxaca lo Laddove l’arma dello sciopero è utili
zzata
a pieno e non solo come rituale, sim
i più duraturi segni di sciopero si estende a tutta la ulacro
di conflittualità, l’estensione sociale
quella stagione, con le città. Nel primo caso assume dello
lotte dei lavoratori di scio pero ai non garantiti diventa una
prima la forma del blocco possi-
Walmart e di altri grandi bilità più che concreta.
dei flussi e delle merci e poi
marchi per un salario mi- quello di alleanza sociale tra In Italia le possibilità di uno sciopero
nimo. Prima ancora, Oa- dive rsi, soci ale si sono manifestate il 14 novemb
categorie e soggetti re
xaca in Messico nel 2006, una lotta di del 2014 , quando la mobilitazione contro
nel secondo da il
Jobs Act è stata promossa con una
uno sciopero a oltranza settore si estende velocissi- giornata
degli insegnanti si era tra- di lotta da una coalizione compost
mamente a soggettività po- a da
sformato in insurrezione. dive rsissime tra loro . real tà sociali, organizzazioni studente
litiche sche
La protesta dei precari del- e sigle del sindacalismo di base. Per
Lo sciopero sociale connet- la pri-
la scuola contro il taglio dei ma volta i movimenti sociali non
te l’astensione dal lavoro si sono
limi tati ad alludere allo sciopero di chi
fondi era stata duramente dei lavoratori dipendenti e non
repressa, e agli insegnanti ha diritto a scioperare, ma si sono
contrattualizzati, alle lotte posti il
si unirono studenti, disoc- problema del come metterlo in prat
di precari e autonomi che ica.
cupati, altre categorie di la- re Sare bbe ora di riprendere il discorso.
del diritto a sciopera
voratori pubblici e non solo, sono privi. Coinvolge poi
e istanze sul pia-
sindacati e forze politiche e soggetti che portano avanti bisogni o
sociali. L’Assemblea popolare no della riproduzione e non solo della produzione, pensiam
azio ne di un reddito di base .
dei popoli di Oaxaca (Appo) all’accesso alla casa o alla rivendic non solo
labo rato rio dove
aveva occupato l’intera città Lo sciopero sociale diventa così un
ismo di classe, ma dove si
SCIOPERI!

e lo sciopero degli insegnanti si ricompone il puzzle dell’antagon


ilita zione.
era proseguito per oltre cin- inventano forme inedite di mob
icat o dall e forze sindacali in ma-
que mesi. Dove lo sciopero viene prat
re pubblico, l’estensione
niera potente, a cominciare dal setto
51

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Sciopero
dell’alternanza
L’ introduzione dell’alternanza scuo
voro, cioè dell’obbligo di fare espe
lavorative non retribuite per tutt
la-la-
rienze
i gli stu-
denti dell’ultimo triennio delle sup
eriori, a
partire dall’anno scolastico 2017
/2018, ha
dato l’opportunità per la sperime
ntazione di
una nuova forma di lotta. Sciopera
re è farsi zare il mondo della formazione
giustizia assieme, in una reazione in una
a catena,

Giulia Biazzo
per rifiutare il ricatto del legame subalternità netta al modello prec
marcio tra ario
mondo del sapere e sistema prod e sfruttato dell’odierno mercato
uttivo di del
sfruttamento, riportare l’immag lavoro.
inazione al Una forma di mobilitazione nata
potere e riconquistare il tempo rub dal
ato. basso: avevano incrociato le brac
A partire dall’elemento nuovo dell cia
a già il primo maggio 2017, a Nap
(non) categoria dello studente in oli, gli
alternanza stud enti in alternanza scuola-lavoro
scuola-lavoro, infatti, è nata l’esi
genza di chiamati a lavorare durante la fest
metterne in discussione le prospett a dei
ive, forti lavo ratori presso l’edificio monume
dell’idea che il collettivo, se orga n-
nizzato, può tale di Pio Monte della Misericordi
costruire curiosità e attivazione, a,
al fine di come del resto poche settimane
ripensare non solo il prima
sistema formativo ma i ragazzi del liceo Vittorio Emanue
le II
anche il mercato del la necessità di ricominciare di Napoli spediti a lavorare durante
- le
lavoro. a vedere la scuola come stru pause didattiche.
mento di ribaltamento dell ’e-
Nel limbo tra lo sta- Una battaglia continuata attraver
so
tus di studente e quel- sistente. Per fare ciò, servono più di cinquanta statuti dei diri
ilita zion e tti in al-
lo di lavoratore, senza nuove forme di mob ternanza autoprodotti e approva
e è stat o lo ti nelle
diritti e tutele e senza studentesca, com scuole. Un primo passo verso un
ripen-
scio pero alla rovescia lanciato sam ento dell’attivazione individuale
possibilità di decidere, in
è tornata, prepotente, dall’Unione degli Studenti il funzione del risveglio della collettiv
ità,
13 ottobre 2017 con lo slogan capace di contrapporsi al paradigm
a di
“È il nostro tempo”. individualismo, solitudine e asso
PRIMAVERA 2019

gget -
Nelle piazze è stata co- tamento che sta provando a plas
mar e
struita una grande provo- il modo di fare, di vivere e interpre
tare
cazione. Gli studenti hanno la scuola.
detto: “Se ci trattate da lavo -
ratori, ci prendiamo un di-
amo!” E
ritto che non abbiamo e scioperi
N. 2

to le brac cia per aste nersi


hanno incrocia
ento , in alcu ni casi insi eme
dallo sfruttam
ri lice nzia ti per esse re sost ituit i
ai lavorato
, den un-
dalla loro manodopera gratuita
do l’att acco ideo logi co al mon do
cian
azie nda liz-
dell’istruzione e l’obiettivo di
52

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Sciopero
bianco
C
scru-
onsiste nel rispetto pedissequo e
eppure
poloso di norme e regolamenti,
ti paesi,
lo sciopero bianco è illegale in mol
vegia. Altro-
tra cui Francia, Danimarca e Nor
ero del cosid-
ve è tollerato, e incluso nel nov
oltre allo scio-
detto sciopero articolato, che
dere lo scio pero a
pero bianco può compren
lo scio pero a gatto,
scacchiera, a singhiozzo,
ordi nari e così via: tut-
lo sciopero degli stra
ne dell ’atti vità lavo rativ a
te forme di ostruzio
, volt e più che a una vera e
parziali o limitate prendere la maggior parte dell’atti
vità pro-
ione del lavo ro a una sua di-
propria interruz duttiva.
urbo se non
sarticolazione. Un’attività di dist Ancora oggi lo sciopero bianco è
la for-
uttiv ità, ide-
proprio di sabotaggio della prod ma di lotta scel ta da vari e cate gori e di la-
rattu tto in que i con test i in cui il dirit- del
ale sop nti
ntit o o è soggetto a voratori, specialmente dai dipende
to di scio pero non è gara di Ali-
trasporto pubblico: è stato il caso
forti restrizioni. talia nel 2008, è successo ancora
nel 2017
sciope-
Per questo motivo la pratica dello a part eci-
o il fasci- con le Ferrovie e Atac, l’aziend
ro bianco ebbe molta fortuna sott pata del traporto pubblic o rom ano . Anc he
smo, nelle ondate di mo- se il più famoso resta que llo dei dog anie -
bilitazioni che fra il ‘42 e il plicabile: è una forma pero bian -
ri italiani del 1989: in uno scio
‘44 coinvolsero il triango- di ritorsione che fa pro- di scio-
pria, ribaltandone il co a singhiozzo misto a giornate
lo industriale italiano. Il pero vere e prop rie, arri varo no a bloccare
suo successo gli garantì ol- senso, la burocrazia ge- itali ane con
l’intero siste ma dell e fron tiere
tralpe il soprannome di neralmente utilizzata . Chie de-
percentu ali d’ad esio ne del 100%
sciopero italiano o all’i ta- dai pad roni per met tere istra-
ri- nel sacc o lavo vano una seria riforma dell’ammin
a, sebb ene non sia rato ri e la- ingerenze
lian
iva vora trici . Nell zione doganale che arginasse le
mas to affa tto prer ogat o scio pero protesta
bianco tutte le norme, i di Guardia di finanza e affini: una
nazionale – un po’ come contro la militarizzazione dell e fron tiere
le french fries o l’insala- codicilli e le clausole pre- sorr ider e.
che, a pensarla oggi, fa qua si
ta russa. senti nel contratto di la-
L’idea dello sciope- voro vengono scrupolo-
ro bianco in fond o è ab- sam ente rispettate, anche lì dove il risp
etto minuzioso
bastanza sem plic e e re- dell a norma è contrario al buon senso.
Questa forma di sciopero, oltre a
rallentare la produ-
zione, sottolinea l’enorme mole
di lavoro abitualmen-
te svolta al di fuori delle norme prev
iste nel proprio in-
carico ufficiale eppure data per scon
tata dai datori di
Gaia Benzi

lavoro. In alcuni settori uno scio


SCIOPERI!

pero bianco è in gra-


do addirittura di fermare complet
amente l’erogazio-
ne del servizio o l’attività produttiv
a: segno, questo, che
le mansioni extracontrattuali pos
sono arrivare a com-
53

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Sciopero
del consumo
Q
Institute ha
uando il Birmingham Civil Rights
del premio
deciso di revocare l’assegnazione
ale nera e mili-
«Fred Shuttlesworth» all’intellettu
le colp a a cari co di
tante Angela Davis ha posto qua
alla cam pag na Bds
quest’ultima il sostegno offerto
e sanz ioni , bds ita-
(Boicottaggio disinvestimento
ele. Evidentemen-
lia.org) per il boicottaggio di Isra
il boic otta ggio, malgrado
te uno strumento come
da un app ello della fragilis-
in questo caso sia nato
pale stin ese nel 2005 contro l’oc-
sima società civile sono di due tipi: le campagne di
boicottag-
in determinati
cupazione e l’apartheid israeliani, gio dei marchi che fann o cap o a imprese
discussione equi-
contesti è in grado di mettere in che non risp etta no la dign ità dei lavoratori
re e narr azio ni più di altre iniz iative.
libri di pote contro
di Adbusters o dell’ambiente (storiche quelle
Lo sanno bene, tra gli altri, quelli la Del Mon te, la Nes tlé, la Nike e quella
otor i del Buy Not hing Day , la Giornata del in corso
prom
oltre sess anta paesi, che denominata Abiti puliti, ancora
acqu isto diffu sa in tro le de-
non
stesso giorno del in diciassette paesi europei, con
viene festeggiata ogni anno nello localizzazioni nel tessile e nel calz aturiero)
Canada nel 1992
Black Friday. Adbusters nasce in e il cosiddetto «buycottagg io» (da  to buy,
blicità («rivista
come periodico di critica della pub acquistare), cioè indirizz are le pref erenze
per l’ambiente mentale», dei cittadini consum ator i vers o prod otti
recita il sottotitolo), per poi tito l’appello con cui è ali favo re-
che garantiscono clau sole soci
diffondersi in molti paesi nata la mobilitazione di così i circ uiti
voli ai produtto ri. Nas con o
con il magazine omonimo Occupy Wall Street, nel uppi
del commercio equo e solidale, i Gr
e ovunque con il sito adbu- settembre 2011. di acquist o solid ali, i me rcat i con tadi ni a
sters.org. Ogg i è una rete Qua lche ann o fa i baratto e
gran di med «chilometro zero», le giornate del
globale di artis ti e artis te, ia furo no
costretti a occuparsi di del Buy Nothing.
scrittori e «dissidenti Ha scritto il saggista catalano Gus
tavo
cult ural i» che ha sapu to un altro boic otta ggio e di mor te, il
Duch: «Di fronte alle economi
mostrare i nessi tra critica (parzialmente vinto), boicottaggio diventa un gest o d’am ore per
del capitalismo, anti- quello rimbalzato su
PRIMAVERA 2019

Facebook, grazie a un la vita».


consumismo e comuni-
cazione indipendente. gruppo di operaie, con le
Adbusters è stato uno dei pag ine «Boicotta Omsa», «Mai più Om
sa» e «A piedi nudi!
soggetti dai qua li è par- Io non compro Omsa e Golden Lady finc
hé non riassumo-
no». Decine di migliaia di donne
si impegnarono, e resero
N. 2

pubblica la loro scelta, a non acq


Gianluca Carmosino

uistare i marchi controlla-


ti dalla multinazionale delle calz
e, invaghita dei bassi costi
del lavoro in Serbia.
Del resto gli strumenti a disposiz
ione del movimento del
consumo critico, che ha ormai qua
rant’anni di storia alle
spalle ma che in fondo ha le sue
origini nelle prime pro-
teste dei lavoratori all’inizio dell
a rivoluzione industriale,
54

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Sciopero
alla rovescia
S e un operaio, per lottare per i prop
ti, si astiene dal lavoro, cosa può
disoccupato? È da questo quesito
ri dirit-
fare un
che già nel
primo dopoguerra, poi più compiut
amente
intorno agli anni Cinquanta, si svilu
ppano
nelle campagne e borgate italiane
forme di
mobilitazione definite “sciopero
alla rove- essere svenduta. Lo abbia-
scia”. Si tratta di proteste di tipo sind
acale

Giulio Calella
mo visto infine nelle espe-
attuate svolgendo un lavoro non
richiesto rienze delle fabbriche re-
se non addirittura vietato dall’imp
renditore. cuperate che, sull’esempio
Pratiche con l’obiettivo di riapprop
riarsi della ormai ventennale in Argen-
propria forza lavoro, magari iniziand
o a co- tina, si sono propagate in
struire un’opera di pubblica utilità
(manuten- Europa e in Italia: a Trezza-
zione delle strade, costruzione di
fognature, no sul naviglio nel 2013 un
ristrutturazione di case abbandona
te) per gruppo di lavoratori in cas-
poi pretendere dallo
sa integrazione per la chiu-
stato il riconoscimento arrestati per occupazione di sura della Maflow, azienda
e pagamento del lavoro suolo pubblico e resistenza di componentistica per auto,
svolto, oppure coltivan- a pubblico ufficiale e per ha occupato i capannoni e
do un terreno incolto difendersi citarono proprio continuato a lavorare ricon-
per poi chiedere al pro- il diritto e dovere al lavoro vertendo la produzione verso
prietario il salario corri- previsto dall’articolo 4 della il riciclo
spondente o la terra. di apparecchiature
Costituzione. elettroniche e mettendosi in
Lo sciopero alla rove- Di fronte all’impossi- rete con altre realtà per la
scia rimasto più a lungo bilità di scioperare non produzione e distribuzio-
nella memoria è quello solo per i disoccupati ma ne di generi alimentari
del 2 febbraio del 1956 anche per precari con finte “a sfruttam
raccontato dallo storico ento zero”.
partite iva, collaboratori E lavorando senza
attivista non violento occasionali o operai la cui padroni si può mostra-
Danilo Dolci nel libro Pro- fabbrica chiude o migra re al rovescio anche la
cesso all’articolo 4. A Parti- all’estero alla ricerca di società.
nico, provincia di Palermo, manodopera low cost,
un gruppo di braccianti lo sciopero alla rovescia
praticare dai ri-
guidati dallo stesso Dolci torna di attualità. Lo abbiamo visto
ando il sussidio di
iniziò a lavorare una strada cercatori non strutturati che, rivendic
di e assegnisti, hanno
lasciata all’incuria: furono disoccupazione anche per dottoran
ttività lavorativa e
mostrato in piazza che la loro è un’a
to nel mondo rurale
non solo formativa. Lo abbiamo rivis
SCIOPERI!

nze, dove un gruppo


nella Fattoria Mondeggi, vicino Fire
e auto gest isce da quattro
di agronomi e contadini occupa
fatto ria di prop rietà della
anni i 200 ettari agricoli della
gest ione disc utib ile, stava per
Provincia che, dopo anni di
55

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Libertà
CROCEVIA

Uguaglianza
Intersezionalità
La coscienza di classe deve sfidare le logiche razziste,
l’antirazzismo contestare il dominio del patriarcato,
e il femminismo attaccare ogni sfruttamento. Ecco perché
i conflitti devono mettersi al crocevia delle linee di potere

H
o incontrato Kimberlé Crenshaw all’Università Sorbona di Parigi
nel gennaio 2019, a una conferenza organizzata da Marta Dell’A-
quila e Eraldo Souza dos Santos per celebrare il trentesimo anni-
versario del concetto di intersezionalità. Kimberlé Crenshaw ha
sviluppato tale concetto nel 1989 nel suo articolo “De-marginizing
Francesca Coin
intervista the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of An-
Kimberlé Crenshaw ti-discrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politi-
cs”. In quell’occasione, il suo obiettivo era sfidare i limiti delle leggi
anti-discriminazione che consideravano il genere e la razza come categorie separate e
reciprocamente esclusive. Negli ultimi trent’anni, l’intersezionalità è diventata uno stru-
mento analitico essenziale per esplorare come molteplici strutture di oppressione pla-
smano la vulnerabilità individuale.
In questa intervista Crenshaw non ci offre soltanto un corso
intensivo sull’intersezionalità, concetto divenuto centrale nella
costruzione degli scioperi del movimento femminista globale Francesca Coin,
negli ultimi anni. Ci spiega anche perché un approccio inter- sociologa all’Università
sezionale è vitale per trasformare l’attuale situazione politica. Ca’ Foscari
PRIMAVERA 2019

In un maestoso esempio di sofisticazione teorica e semplicità, di Venezia, si occupa


Crenshaw usa la nozione di fallimento intersezionale per spie- di lavoro, moneta
gare l’elezione di Donald Trump. Non è semplicemente il risen- e diseguaglianze.
timento di una classe lavoratrice che si sente lasciata indietro Kimberlé Crenshaw
a spiegare il trionfo elettorale dell’estrema destra, sostiene. È insegna alla Ucla
N. 2

il risentimento della classe lavoratrice radicato nel diritto pa- di Los Angeles
triarcale e nella supremazia bianca, ciò che determina la sua e alla Columbia. Tra
i pionieri della teoria
critica della razza, ha
introdotto il concetto
Illustrazioni di di intersezionalità.
56

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SCIOPERI!
57

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vittoria. In questo senso, il trionfo dell’estrema destra in paesi come gli Stati uniti o l’I-
talia, che hanno una storia irrisolta di supremazia bianca e fascismo, può essere visto
come il risultato di una serie di fallimenti intersezionali – quando la coscienza di classe
non contesta le logiche del razzismo, quando l’anti-razzismo non contesta le logiche del
patriarcato, quando il femminismo non contesta le logiche del razzismo, finiscono loro
malgrado per rafforzarle.
Tra le più importanti studiose mondiali di teoria critica della razza, giurista alla Ucla
School of Law e alla Columbia Law School e instancabile attivista per i diritti civili, Kimberlé
Crenshaw era appena arrivata a Parigi quando ci siamo incontrate ed era chiaramente pro-
vata dal jet lag e dall’influenza. Desideriamo ringraziarla per la sua generosità di tempo, iro-
nia, lucidità e passione politica, e con lei Madeline Cameron Wardleworth, Julia Sharpe-Le-
vine, Marta Dell’Aquila, Eraldo Souza dos Santos per aver reso possibile questa intervista.

Oggi celebriamo il trentesimo anniversario dell’intersezionalità e vorrei tornare a


trent’anni fa, quando hai usato questo concetto per la prima volta. Puoi dirci come hai
sviluppato il concetto e qual era il suo scopo?

L’intersezionalità è una metafora che ho sviluppato per chiarire i modi in cui forme di di-
scriminazione distinte a volte si intrecciano e creano ostacoli che spesso non vengono com-
presi se confinati nella discriminazione razziale o di genere. Ho deciso
di scrivere un articolo per evidenziare in che modo le leggi anti-discri-
L’INTERSEZIONALITÀ minazione fossero inadeguate ad affrontare la discriminazione delle
È UNA METAFORA, donne nere. La ragione per cui in tribunale i giudici non erano in gra-
UNA CORNICE CHE do di capirlo è che la discriminazione razziale e quella di genere veni-
CONTIENE I MODI CON CUI vano considerate come categorie separate e mutualmente esclusive:
DIVERSE STRUTTURE DI si poteva essere oggetto dell’una o dell’altra, ma l’idea che si potesse
POTERE DISCRIMINANO E essere vittima di entrambe era in gran parte difficile da immaginare.
CREANO VULNERABILITÀ Era come se questi due tipi di discriminazione fossero binari paralle-
li che viaggiavano su linee rette senza incontrarsi mai. Volevo trovare
una metafora per cambiare il modo in cui le persone pensano la discri-
minazione e dire che in verità queste due linee non sono parallele ma curvano [ride]. Per
questo ho portato quel pensiero sino al punto in cui quelle categorie non erano più linea-
ri ma potevano intersecarsi. Da allora mi sono resa conto che si possono sempre elencare i
fatti, ma se non si può dare a chi ascolta una cornice in cui inserirli, i fatti non contano. L’in-
tersezionalità era una cornice capace di contenere al suo interno gli innumerevoli modi in
cui le donne di colore sono oggetto di discriminazione. Uno dei motivi per cui le ragioni del-
la loro discriminazione sono state a lungo ignorate, è che le cornici concettuali suggerivano
che il razzismo fosse qualcosa che accade a tutte le persone della stessa razza come la mi-
PRIMAVERA 2019

soginia è qualcosa che accade a tutte le persone dello stesso genere, ma non è detto sia così.
In alcuni dei casi di discriminazione lavorativa che stavo esaminando c’erano tipi di impie-
go per persone nere e tipi di impiego per le donne, ma i lavori per le persone nere erano per
uomini neri e i lavori femminili erano per donne bianche. Era il classico tipo di situazione
in cui hai due strutture di potere che si intersecano facendo subire alle donne nere un trat-
N. 2

tamento distinto rispetto agli uomini neri e alle donne bianche. Vedevamo questi fatti ma
non avevamo una cornice teorica in base alla quale mostrare e far capire ai giudici la discri-
minazione delle donne nere come sottogruppo. Per riuscirci dovevamo più o meno ricreare
la scena del delitto e mostrare come queste strutture di oppressione si intersecano con mo-
dalità uniche per persone che si trovavano in una posizione tale da sperimentare entram-
bi i tipi di discriminazione.
58

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Fai spesso riferimento al caso giudiziario della DeGraffenreid vs. General Motors in
cui un gruppo di dipendenti nere ha citato in giudizio la General Motors sostenendo che
le loro politiche occupazionali discriminavano le donne nere. In quel caso, il tribunale
ha respinto la richiesta in quanto non ha riconosciuto che le donne nere si trovassero ai
margini di categorie di discriminazione legalmente protette. Da allora, hai sottolineato
che l’importanza dell’intersezionalità non è solo nelle cause legali, ma anche nella retori-
ca, nella politica, nei movimenti sociali. Potresti dirci qualcosa di più al riguardo?

Il mio primo uso dell’intersezionalità era interno alla giurisprudenza, è stato fatto in un
momento e in un modo tale da essere riconoscibile a chi lavorava nel campo degli studi giu-
ridici. Potremmo dire che si trattava della prima generazione del concetto di interseziona-
lità. Dovrei anche dire che tale concetto nasceva all’intersezione tra il femminismo nero,
dato che ero una femminista nera, e la teoria giuridica critica, poiché facevo parte di un
movimento che interrogava i modi in cui il diritto formava e regolava ogni tipo di gerarchia
sociale. Piuttosto che vedere le leggi contro la discriminazione nelle loro funzioni intrinse-
camente liberatorie, guardavamo al diritto come parte costitutiva delle condizioni struttu-
rali che consentivano la discriminazione stessa, oltre che cercarne la soluzione. Entrambi
questi orientamenti intellettuali contribuivano a trasformare le donne nere in un luogo pri-
vilegiato di analisi, per identificare il modo in cui la legge cercava di naturalizzare quan-
to accadeva loro e per trasformarlo in un
problema sociale e legale. L’interseziona-
lità era la cornice che usavo per guardare legge strutturava la violenza e a cosa dovevamo fare noi in
all’insieme di questioni che si manifesta- quanto femministe per riscriverla e per rivelare l’influenza
vano insieme al graduale dispiegamen- del patriarcato. Al tempo, la violenza contro le donne non
to di movimenti femministi, antirazzisti era definita così, non c’era un oggetto, c’era solo una pato-
e poi queer negli anni Ottanta e Novanta. logia famigliare, strane cose che accadevano nelle famiglie
In quegli anni, la violenza contro le donne povere o di colore. In realtà accadevano anche alle famiglie
era un vero punto di riferimento per capi- del ceto medio seppur queste non fossero mai identificate
re in che modo il femminismo stesse in- come luoghi di violenza. Alcune parti del movimento fem-
contrando il diritto. Per certi versi, ci sta- minista e chi si occupava di questioni legali al suo interno,
va obbligando a pensare al modo in cui la stavano ragionando su cosa trascende tutte queste narra-
zioni, ed è la violenza contro le donne – fenomeno sistemi-
co, sociale, istituzionale e culturale. Questo accadeva nel-
lo stesso momento in cui il femminismo nero cominciava
a criticare il femminismo tradizionale per le sue dimensio-
ni solipsistiche. Io prendevo parte a questi dibattiti, crede-
vo che ci fosse qualcosa che si chiamava violenza contro le
donne e che avesse senso tentare di teorizzare il ruolo del
patriarcato al suo interno, ma allo stesso tempo capivo che
all’interno di quelle uguaglianze c’erano anche differenze:
differenze di vulnerabilità, differenze nell’accesso alle risor-
se, differenze nel modo in cui lo stato si preoccupava del-
la violenza o meno, differenze tra chi aveva il potere retori-
co di dire «Mi è accaduto questo e a qualcuno interessa» e
chi quel potere non ce l’aveva. In alcuni momenti navigare
l’uguaglianza e la differenza era davvero difficile e l’interse-
zionalità era un modo per inquadrare quale fosse la sfida. Il
SCIOPERI!

patriarcato creava le condizioni per la violenza e allo stesso


tempo una donna immigrata che si trovava ad affrontare la
59

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violenza di un partner su cui faceva affidamento per riceve-
re la green card – che negli Stati uniti è una condizione per
rimanere nel territorio nazionale – viveva una vulnerabilità
intersezionale, che da un lato la portava a condividere alcu-
ne vulnerabilità con le donne dell’élite ma dall’altro la espo-
neva a condizioni come la xenofobia o l’accesso linguistico
che sono il prodotto di altre strutture di potere. Così ho ini-
ziato a pensare che l’intersezionalità fosse utile non solo nel
quadro giuridico, ma anche per guardare al modo in cui le
strutture di potere hanno un impatto diverso su persone di-
verse. Anche se hanno in comune una stessa vulnerabilità
come nel caso della violenza contro le donne.

Quando Trump è stato eletto, hai scritto che la sua vit-


toria era il sintomo di un fallimento intersezionale. In quei
giorni, i media mainstream sostenevano che l’elezione di pito dei migranti e delle popolazioni di
Trump fosse una conseguenza delle perdite subite dalla colore. Che cosa intendi per fallimento
classe lavoratrice. La classe lavoratrice era stata lasciata intersezionale e qual è il ruolo del risen-
indietro e questa era la causa scatenante del risultato elet- timento bianco in tale fallimento?
torale. Il risentimento di classe da solo, tuttavia, non spie-
ga cosa è successo. In White Rage (Bloomsbury, 2016), Ca- Be’, questa è un’ottima domanda. Di-
rol Anderson guarda ai modi in cui ogni passo avanti dei rei che il fallimento intersezionale è la
movimenti afroamericani nella storia degli Stati uniti è conseguenza di una visione politica che
stato osteggiato dal risentimento bianco. In questo senso, vuole essere trasformativa ma non riesce
non si tratta semplicemente delle perdite della classe la- a interrogare pienamente i fondamen-
voratrice. È il modo in cui queste perdite hanno risvegliato ti della propria azione e diviene vulnera-
la percezione di un diritto acquisito bianco in base al qua- bile a contraddizioni politiche che ruba-
le la giustizia di classe poteva essere perseguita solo a sca- no al movimento la sua stessa capacità di
fare ciò che dichiara di voler fare. In que-
sto senso, abbiamo parlato di fallimento
intersezionale all’interno dei movimenti antirazzisti fondati sul patriarcato o all’interno del
femminismo fondato sulla supremazia razziale. Si potrebbe dire allo stesso modo che i fal-
limenti intersezionali riguardano una politica di classe che si fonda su confini nazionali, su
nozioni xenofobe di cosa sia la comunità o su stereotipi patriarcali rispetto a come dovreb-
be essere la famiglia. Come si presenta un movimento di classe che non include i lavorato-
ri migranti? Cosa succede quando la tua coscienza di classe si fonda su stereotipi naziona-
listi e xenofobi? Significa che si vedono nemici e minacce dove vi sono opportunità e che ci
sono cose che non si vedono, per esempio che ciò che realmente minaccia i lavoratori non
PRIMAVERA 2019

sono altri lavoratori ma una massiccia iniquità nella distribuzione della ricchezza e del po-
tere. Una coscienza di classe che non guarda in alto ma in basso è una ricetta per il fallimen-
to degli interessi della classe lavoratrice in tutto il mondo. È un problema enorme negli Stati
uniti e infatti uno degli argomenti usati per giustificare lo spostamento all’estrema destra è
che la classe lavoratrice sta rispondendo al fallimento della politica tradizionale e cercando
N. 2

un riconoscimento politico capace di evitare il continuo arretramento sociale ed economi-


co. Ma se questo spiegasse davvero la vittoria di Trump, le donne nere sarebbero le sue prin-
cipali sostenitrici perché socialmente ed economicamente hanno sempre subito le perdite
più significative! Se questa fosse davvero l’analisi, le persone che sostengono Trump sareb-
bero completamente diverse. E ciò basta per dire che questa articolazione della classe lavo-
ratrice è di per sé un fallimento intersezionale.
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Pensi che questo sia il motivo per cui stanno cercando di ridefinire l’intersezionalità
in termini di vittimismo? Voglio dire, sembra che l’estrema destra stia offrendo una defi-
nizione di intersezionalità purificata dalle strutture di oppressione che producono vul-
nerabilità – l’etero-patriarcato, il razzismo o la storia coloniale, per esempio. Poiché non
vedono alcuna struttura di oppressione, tali analisi riducono la nozione di interseziona-
lità a una politica identitaria – c’è persino un calcolatore on line che ha lo scopo di calco-
lare il tuo punteggio intersezionale per premiare i più oppressi. Immagino che sia questo
che intendi quando parli di definizioni di intersezionalità non-intersezionali, come quel-
la di Ben Shapiro. In Italia, un paese che non ha mai fatto i conti con la sua storia patriar-
cale, coloniale o fascista, mi sembra che l’intersezionalità sia spesso percepita come un
termine radical-chic, fastidioso, per molte persone, sino a configurarsi talvolta come una
specie di vero e proprio tradimento dei “veri” valori di classe, come se la classe lavoratri-
ce vera richiedesse la fedeltà a un immaginario identitario virile e bianco.

Ciò che mi affascina è il modo in cui l’accusa di vittimismo che muovono all’inter-
sezionalità non gli impedisca di usare il proprio vittimismo in modo legittimo. Di fat-
to quella della destra non è davvero una critica al vittimismo, è una critica contro chi
lo rivendica, e quindi fondamentalmente è una vera e propria presa del potere. Il mio
collega Luke Harris dice che ciò fa parte di un’azione più ampia contro i diritti civi-
li, che include i programmi di discriminazione positiva [affirmative
action] e le politiche di eguaglianza perché per loro tutto si riduce
a un problema di “diminuita sovra-rappresentazione” [diminished L’ELEZIONE DI TRUMP
over-representation]. Fondamentalmente gli uomini bianchi sono È DOVUTA AL FALLIMENTO
sovra-rappresentati in tutta la società. La sovra-rappresentazione è INTERSEZIONALE, A UN
spesso il prodotto di un potere illegittimo e l’intersezionalità offre ANTIRAZZISMO FONDATO
strumenti retorici, analitici e teorici per interrogare quella distri- SUL PATRIARCATO
buzione asimmetrica del potere. Il contraccolpo è che l’intersezio- O A LOTTE DI CLASSE CON
nalità viene percepita come ingiusta nei loro confronti. Quindi per PRESUPPOSTI XENOFOBI
loro è ingiusta anche una lieve e modesta diminuzione della loro
sovra-rappresentazione – non parliamo di togliere loro il potere o
di camminargli sulla testa, diciamo solo che la tremenda sovra-rappresentazione che
hanno nei luoghi di potere non coincide con la democrazia, non è equa. In questo caso,
il potere stesso di rivendicare lo status di vittima in modo così facile è un’illustrazione
plastica di che cosa significa essere nel gruppo dominante, del potere di essere maschio
e di essere bianco. Kate Manne, l’autrice di Down Girl: The Logic of Misogyny (Oxford
University Press, 2017), di cui sono una grande fan, ha una parola per tutto questo ed
è himpathy – l’empatia sproporzionata per gli autori maschili di molestie sessuali. Ne
ha parlato all’udienza di Kavanaugh [il giudice nominato da Trump alla corte suprema
che ha avuto un’accusa per stupro], e anche se molti hanno visto Christine Blasey Ford
come una legittima testimone di qualcosa che a molte persone sembra essere avvenu-
to, e nonostante Kavanaugh abbia mostrato una fondamentale mancanza di qualifica-
zione per essere un giudice e di non avere il temperamento che avrebbe dovuto avere,
c’è stata una reazione di himpathy nei confronti di un uomo bianco dell’élite che sta-
va perdendo ciò che aveva diritto di avere. L’empatia nei confronti dell’élite maschile
e bianca, a mio avviso, sta giocando un ruolo importante anche nel modo in cui que-
ste argomentazioni semplicistiche contro l’intersezionalità vengono assunte come ve-
rità evangeliche. Gli uomini bianchi dell’élite fanno sempre ragionamenti interseziona-
SCIOPERI!

li che non sono visti come tali, perché lo status quo inizia con loro – con la loro biografia
e la loro identità sociale. La neutralità inizia sempre dagli uomini bianchi. Così, quan-
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do affermano di aver perso qualcosa perché il loro diritto ad averla è il fondamento del-
lo status quo, la gente la vede come una perdita illegittima. Quando invece altre perso-
ne affermano di aver perso qualcosa, la domanda diventa: «Ma eri veramente sicura di
meritarlo»? Le persone di colore, le donne e i migranti non hanno lo stesso capitale re-
torico e sociale degli uomini bianchi. Quando gli uomini bianchi dicono che qualcosa
li danneggia, diviene subito un problema sociale. Quando invece persone di colore so-
stengono di essere state danneggiate da secoli di colonialismo, schiavitù e patriarcato
nessuno ci crede: questo è il potere!

La cosa che mi spaventa è che tanto è facile attivare l’empatia nei confronti di chi
esercita potere, quanto è facile attivare il pregiudizio contro chi non ne ha.

La critica all’intersezionalità di Ben Shapiro attiva il pregiudizio istantaneamente, lo


attiva banalmente dicendo «Ehi, questa retorica è contro di noi» e il pregiudizio si risve-
glia istantaneamente. Io lo chiamo “ebollizione lenta” perché è spuntato all’improvviso
ma è il risultato di una lunga evoluzione di cui fa parte tra le altre cose tutta la retori-
ca contro il “politicamente corretto”. L’intera lotta contro il “politicamente corretto” è di
fatto una lotta contro l’anti-razzismo, il femminismo e contro il discorso anti-colonia-
le. Quando sento persone di sinistra fare propria questa retorica mi chiedo: ti rendi con-
to che quello che stai facendo in realtà è dare legittimità al ripudio
di cose che ci hanno fatto male? Se ora la società converge sul fatto
ABBIAMO BISOGNO che la correttezza politica è una cosa negativa, quello che sostanzial-
DI PIÙ FORZA COLLETTIVA, mente hai perso è la capacità di ripudiare socialmente la schiavitù e
CIÒ ACCADE SE RIUSCIAMO il razzismo. Mostro spesso in classe un video sul movimento per i di-
A TESSERE TRA LORO ritti civili alla fine della segregazione, quando gli attivisti stavano cer-
CON PIÙ EFFICACIA cando di agevolare il processo di de-segregazione lasciando entrare i
LE NOSTRE DIVERSE neri come clienti nei ristoranti e per questo intervistano le camerie-
NARRAZIONI re. D’un tratto vedi queste belle donne bianche che diventano fero-
ci: «Viola i miei diritti civili, viola la mia libertà di dover servire quel-
le persone». Quindi la capacità di trasformare la giustizia sociale – di
genere, razziale, o economica – in un’offesa contro altre persone è precisamente la po-
sta in palio di questa lotta al “politicamente corretto” – non poterti insultare, non poterti
escludere e riempire di botte viola i miei diritti civili.

Vedi differenze tra gli Stati uniti e l’Europa, a questo proposito?

La somiglianza che più mi colpisce è la rimozione. In città come Atlanta si vedono


chiaramente le conseguenze di questa rimozione, in un paese che è in gran parte basato
PRIMAVERA 2019

sul furto – furto di lavoro, di terra, di sovranità, di vita, e queste sono cose che ovviamente
proiettano le loro conseguenze di generazione in generazione. Noi comprendiamo bene
le conseguenze di certi avvenimenti storici per le generazioni successive nelle cose che
vogliamo celebrare. L’eccezionalità americana, per esempio, è l’eredità dei padri fonda-
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tori che hanno creato questo grande paese, si dice, e noi celebriamo questa roba. I termi-
ni e le condizioni che hanno reso gli Stati uniti ciò che sono, tuttavia, non sono visti come
rilevanti, oggi. Il furto di terra, di lavoro e di vita non è il punto di partenza per riarticola-
re o ridistribuire le opportunità nella società americana. È interessante venire in Europa
e vedere che anche qui il passato coloniale europeo, il passato antidemocratico e fasci-
sta di alcuni paesi europei, sono interamente rimossi. In entrambi i continenti l’incapaci-
tà di portare la storia consapevolmente avanti è il principale problema del nostro tempo.
C’è un vuoto, una contraddizione ovunque tra il fatto che le condizioni materiali sono un
prodotto del colonialismo e della schiavitù ma la coscienza sociale non è in grado di in-
tegrare questa realtà. Credo che questo sia il movimento di giustizia sociale fondamenta-
le oggi, che deve colmare il divario tra l’origine storica delle disuguaglianze e la mancan-
za di mezzi retorici prontamente disponibili per affrontarle.

Il futuro, in questa situazione, come lo vedi?

Credo che le conseguenze del recente spostamento a destra di tutto il pianeta siano
profondamente inquietanti per tutti coloro che temono che la direzione in cui stiamo
andando dovrà peggiorare ancora prima di migliorare. Voglio pensare che questo inco-
raggi quello che io chiamerei il “partito dell’umanità” ad auto-interrogarsi realmente su
ciò che abbiamo perso e su ciò che non
abbiamo fatto in modo efficace per la-
sciare che questi insegnamenti diventi- mo a un bivio: non saremo in grado di convincere nessu-
no lezioni per il futuro. Ma sono anche no se non riusciamo a convincere noi stessi che la causa
profondamente consapevole della pos- di questa crisi non siamo noi. Se abbandoniamo i picco-
sibilità opposta, cioè che quel poco di li passi che abbiamo fatto per rendere la nostra società
trazione che il femminismo, l’antirazzi- più equa e capace di affrontare alcune delle eredità diffi-
smo e tutti i discorsi di liberazione han- cili che hanno rubato le opportunità e la nostra vita, al-
no in questo momento potrebbe essere lora non vedo come potremmo trovare una via d’uscita
sabotata dalla tendenza a indicare pro- da tutto questo. Siamo in un momento critico ed è fon-
prio i movimenti di liberazione come damentale all’interno dei movimenti progressisti trovare
cause dell’attuale fase invece di guar- modi per creare un’interfaccia molto più robusta ed effi-
dare a tutti i modi in cui neoliberismo cace. Le femministe non devono rinunciare al femmini-
e fascismo sono stati resi possibili. Sia- smo, gli antirazzisti non devono rinunciare all’antirazzi-
smo e le persone guidate dalla coscienza di classe non
devono rinunciarci, ma dobbiamo interrogarci sul modo
in cui le fondamenta dei nostri movimenti spesso costi-
tuiscono la negazione della rilevanza di tutti gli altri. Se
riusciamo a farlo, possiamo avere la capacità di articola-
re effettivamente una visione della fase attuale che ci aiu-
ti ad arrivare a un futuro degno delle vite che vogliamo
vivere. Se non lo facciamo non vedo davvero cosa possa
interrompere la tendenza che vediamo in tutto il mondo.
Rafforzare la distribuzione tradizionale del potere è fa-
cile, è come far rotolare una palla in discesa, ma non va
nella direzione di cui abbiamo bisogno. Abbiamo biso-
gno di più mobilitazione collettiva, di più forza collettiva
e ciò accade solo se siamo in grado di tessere più effica-
SCIOPERI!

cemente tra loro le nostre varie narrazioni sino a farle di-


ventare parte della nostra coscienza comune.
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Questo
CROCEVIA

è il mio
sciopero
«Parlo come donna, lavoratrice e figlia di migranti».
L’8 marzo visto da un’attivista di Non Una di Meno.
Una giornata che serve a costruire un «Noi» inclusivo,
adatto alle sfide e alle minacce dei nostri tempi

L
o sciopero femminista intersezionale mi permette di esprimere la
consapevolezza di ciò che sono: sciopero in quanto donna, perché
la violenza di genere colpisce con sempre più ferocia ed è il governo
stesso a fare da mandante; sciopero contro la strumentalizzazione
dei nostri corpi a fini razzisti; sciopero in quanto lavoratrice sottopa-
gata e sotto ricatto; ma sciopero anche in quanto figlia di migranti.
Wissal Houbabi Mio padre venne in Italia, partito dal Marocco negli anni Settanta.
Quante generazioni di italiani nativi sono nate dal suo arrivo? Oggi si
guarda intorno e mi dice: «Se avessi provato a migrare oggi non ce l’avrei mai fatta». Migrare
più che un diritto universale è un diritto occidentale, altrimenti è una Loro botta di culo. Sul-
la mia pelle ho vissuto le varie fasi di quei confini materiali e immateriali che genera l’acquisi-
zione dei documenti, e quindi, dei diritti. La legge sancisce un Noi
e un Loro interno con la Ius Sanguinis: si è cittadini italiani solo se
si è eredi dell’etnicità italiana e non dall’appartenenza al territorio. Wissal Houbabi è nata
Quando acquisisci la cittadinanza sei tra il Noi, ma solo sulla car- nel 1994 in Marocco
ta. Lo Ius Sanguinis è un dispositivo di controllo di cui il sangue è il e cresciuta in Italia.
simbolo, il simbolo della razza, da quella non puoi scappare. Studia lingue e
PRIMAVERA 2019

Io ero una di Loro nei luoghi di lavoro in cui dicevano «Diamo letterature straniere
precedenza agli italiani», ai controlli doganali ai limiti di circola- all’Università di
zione, nelle ultime parole a cui non sai rispondere: «Se non ti sta Trieste. Femminista
bene torna a casa tua». intersezionale, fa parte
di Non Una di Meno. È
N. 2

appassionata di cultura
hip hop e cultural
studies. Si esprime con
la scrittura, la poesia,
la calligrafia araba, il
disegno e la pittura.
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Ero una di Loro negli uffici della questura, nelle impronte digitali depositate per i rinno-
vi, ancora rinnovi, per integrarmi, integrarmi in cosa?
Ero una di Loro dopo tanti anni, perché da bambina ero solo bambina e tra bambini si gioca.
Sono venuta in Italia con mia madre con il ricongiungimento familiare che considera la
famiglia monoreddito come un nucleo unico e indissolubile. Le leggi che disciplinano la re-
golarizzazione dei e delle migranti non prendono in considerazione la violenza di genere,
non sono strumenti che permettono di sottrarsi alla subordinazione imposta da mariti e/o
padri se si parla, appunto, di dispositivi di controllo a nuclei familiari. I documenti vengono
così riconosciuti e successivamente rinnovati, scadono regolarmente e seguono scadenze
ben precise: contrattuali, scolastiche e così via, un circolo vizioso che costa caro e che spie-
ga come la stabilità in Italia sia dipendente da un’occupazione. Il ricatto economico nasce
da qui: per un nucleo familiare il rischio della disoccupazione può portare alla perdita stes-
sa della permanenza in questo paese o comunque si è destinati alla vita da immigrate e im-
migrati irregolari, con tutto ciò che ne consegue.

Chi crea il Noi e il Loro

La differenza tra Noi e Loro la sancisce la legge, non la percezione sociale che pure ine-
vitabilmente ne risente. Sono i documenti il principale fattore che differenzia le due parti.
Prima c’è stata la legge Bossi-Fini, che aveva come obiettivo quello di cancellare l’immi-
grazione clandestina: una norma che ha subordinato l’ingresso e la permanenza in Italia al
contratto di lavoro; ha introdotto l’espulsione immediata con accompagnamento alla fron-
tiera; ha dimezzato la durata dei permessi di soggiorno (da quattro a due anni) e ha aumen-
tato (da cinque a sei) gli anni per richiedere la carta di soggiorno.
La legge Minniti-Orlando ha introdotto forme istituzionali di discriminazione razzia-
le e, attraverso lo strumento del Daspo urbano, dichiarato guerra ai poveri anziché alla
povertà. Un sindaco, in collaborazione con il prefetto, può multare e poi stabilire un di-
vieto di accesso ad alcune aree della città per chi «ponga in essere condotte che limita-
no la libera accessibilità e fruizione» di infrastrutture di trasporto. Per i migranti che fan-
no ricorso contro un diniego alla protezione umanitaria, inoltre, c’è un grado di giudizio
in meno, giustificato dall’esigenza di accelerare le procedure per l’esame dei ricorsi sulle
domande d’asilo e quindi bastano colloqui videoregistrati, senza contraddittorio e senza
che il giudice possa rivolgere domande al richiedente asilo che ha presentato il ricorso.
Vengono inoltre istituiti i Centri di permanenza per i rimpatri – Cpr, in precedenza Cie e
prima ancora Cpt, istituiti nel 1998 dalla legge sull’immigrazione Turco-Napolitano – os-
sia strutture per immigrati in attesa di rimpatrio ma che di fatto agiscono come regimi di
privazione della libertà personale.
Infine, la legge sulla sicurezza dell’attuale ministro dell’interno Matteo Salvini. Secon-
do cui il mondo diventa più sicuro eliminando la protezione umanitaria, allungando da tre
a sei mesi il periodo di trattenimento per chi è privo di permesso di soggiorno, rendendo
più difficile rinnovare il permesso stesso e favorendo di conseguenza lo sfruttamento delle
migranti e dei migranti, e quindi di tutti i lavoratori, per via del ricatto attuato con la legge
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Bossi-Fini. Il decreto sicurezza, inoltre, elimina il sistema Sprar (Sistema di protezione per
rifugiati e richiedenti asilo) il cui approccio è l’accoglienza diffusa e integrata nel territorio.
Sono questi i principali dispositivi di controllo e contrasto all’immigrazione e all’inclu-
sione che non solo mettono a rischio la vita di migliaia di persone, aumentando esponen-
zialmente la ricattabilità economica, ma aumentano inevitabilmente discriminazioni e raz-
zismo sociale: «Ci rubano il lavoro», «Le case ater non agli stranieri», «Prima gli italiani»,
sono affermazioni sempre più comuni. La convinzione che purtroppo maturano sempre
più persone è che, se non ci fossero Loro, stareste tutti meglio. Ma in realtà gli stranieri sono
discriminati se sono poverissimi e la guerra gliela stanno facendo i poveri alimentati dalla
propaganda del governo, esasperati dalle proprie condizioni economiche e di precarietà.

Uno sciopero intersezionale

Le questioni di classe, di genere e di razza si intrecciano. I e le migranti economici non sono


più contemplati, si parla solo di «profughi veri» che devono chiedere «permesso, per favore e
grazie»: queste parole del ministro dell’interno Matteo Salvini alimentano una gerarchia sem-
pre più rigida, arbitraria e violenta. In questo clima di odio e disuguaglianze dobbiamo con-
centrarci su ciò che realmente ci divide: i diritti. Sono le leggi sempre più discriminatorie che
condizionano le nostre vite. Gli avvenimenti di cronaca sempre più violenti che lasciano sem-
pre più indifferenti hanno una radice comune: gli strumenti del pote-
re. Per questo occorre imbracciare le uniche armi che abbiamo a dispo-
SI PUÒ SCIOPERARE sizione, il mutualismo e lo sciopero, superando l’idea che quest’ultimo
DAL RAZZISMO, abbia a che fare solo con le condizioni lavorative. Si può scioperare dal
DALLO SFRUTTAMENTO, razzismo, dallo sfruttamento, dall’esclusione e dalle leggi che la regola-
DALL’ESCLUSIONE mentano. Un clima così violento fa sì che la lotta sia necessaria come la
E DALLE LEGGI nostra sopravvivenza. Un clima così violento non può passare alla sto-
CHE LA REGOLAMENTANO ria senza nessun tentativo di ribaltare il tavolo. Lo dobbiamo a noi stes-
si, a chi è costretto nella marginalità e alle morti nel Mediterraneo, che
da culla di civiltà si è trasformato nel suo cimitero.
Uno sciopero a cui richiamarsi fu fatto nel 2010, nell’esperienza del primo marzo, «Una
giornata senza di noi (migranti)», che dalla Francia si è diffuso in Italia, in Grecia e altri pa-
esi europei, dando vita a comitati e assemblee in varie città che si dichiaravano «stranieri
non dal punto di vista anagrafico, ma perché estranei al clima di razzismo che avvelena l’I-
talia del presente. Autoctoni e immigrati, uniti nella stessa battaglia di civiltà». Uno sciopero
dal lavoro (per chi ne ha le possibilità) ma non solo, dal consumo, dal silenzio. Uno sciope-
ro che coinvolga in primis chi vive sulla propria pelle l’odio e le discriminazioni, ma anche
chi non si riconosce in quel Noi passivamente complice. Uno sciopero che reinventi nuo-
vi strumenti di difesa e di attacco affinché possa essere realmente incisivo. Si può fare, dob-
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biamo rialzare la testa, dimostrare che viviamo in un paese che non è espressione di questo
governo o quello precedente, ma degli e delle studenti, dei braccianti sfruttati, delle badanti
sottopagate, degli e delle operaie nella logistica, di chi un lavoro non riesce ancora a trovar-
lo perché «si da precedenza agli italiani». Un Noi inclusivo e che guardi alla realtà di oggi.
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Lo sciopero
è delle
donne
cioè per tutti
Sapevate che da un 8 marzo nel 1917 partì
la Rivoluzione Russa? E che Non Una di Meno è
nato in Argentina? Conoscete la lotta delle operaie
in Valsusa? E lo sciopero epico nell’Essex
nel 1968? Quattro tavole a fumetti ci ricordano
che le donne indicano la via a tutti gli oppressi
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el 1987, un agile ma dirompente libretto firmato
da Alma Sabatini, Il sessismo nella lingua italia-
na, poneva una questione sulla quale da alcuni
anni dibattevano le femministe al di qua e al di là
dell’Oceano. Il tema è il seguente, ancora in grado
di arroventare il dibattito pubblico: l’uso del ma-
schile inteso come neutro e inclusivo anche del
Assia Petricelli genere femminile. Sabatini e le altre denunciava-
no con forza le insidie nascoste in una consuetu-
dine che sminuisce e invisibilizza le donne.
Chi oggi volesse provare a ricostruire una storia degli scioperi delle donne si
troverebbe di fronte a questo ostacolo: nella maggioranza dei casi le cronache
fanno riferimento all’iniziativa di «lavoratori» e «operai», rendendo invisibile la
presenza femminile. Eppure le donne ci sono sempre state – negli scioperi come
in tutti i grandi movimenti, dalla Rivoluzione francese alle primavere arabe – seb-
bene raramente i loro nomi siano passati alla storia. L’inserto a fumetti di questo
numero racconta alcune delle loro storie.
A cominciare da quella delle operaie del distretto di Vyborg, a Pietrogrado,
raccontate da Rita Petruccioli in L’avresti creduto?. Il 23 febbraio 1917, secon-
do il calendario giuliano allora in vigore in Russia, l’8 marzo, secondo quello
gregoriano, per prime incrociarono le braccia e scesero in strada per protestare
contro la guerra e per il pane. Da quello sciopero inaspettato prese avvio la rivo-
luzione che avrebbe portato alla caduta dello zar. Quell’anno, in quella data, si
celebrava la Giornata Internazionale della donna, nata negli Stati uniti nel 1908
e diffusasi in Europa nell’ambito del Congresso delle donne socialiste. La mani-
festazione univa le rivendicazioni salariali delle lavoratrici a istanze di carattere
politico, come il diritto al voto, e non aveva una data fissa. Soltanto nel 1921 la
Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste fissò l’8 marzo come
giornata ufficiale, in onore della storica ribellione delle donne russe. L’8 marzo,
dunque, nasce come giornata di lotta, e ricorda uno sciopero e l’inizio di una
rivoluzione. Con il passare del tempo la connotazione politica si è andata per-
dendo, così come la memoria delle origini. Si è affermato il falso storico che fa-
rebbe coincidere la “Festa delle donne” con l’anniversario di un evento tragico e
luttuoso: il rogo di centinaia di lavoratrici nella fabbrica
Cotton di New York.
L’attuale movimento femminista globale ha rian- Assia Petricelli
PRIMAVERA 2019

nodato i fili col passato, risignificando lo strumento è insegnante


principe della lotta della classe: lo sciopero. Col lavoro di lettere nei licei,
sempre più disperso e frammentato sembrava destina- sceneggiatrice
to alla soffitta. Invece, l’idea di uno sciopero di produ- e documentarista.
zione e riproduzione sociale si concretizza per la prima Il suo fumetto
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volta per iniziativa delle argentine di Ni una menos il Cattive ragazze


19 ottobre 2016, all’indomani del brutale femminicidio (Sinnos, 2014),
della giovanissima Lucía Pérez. È stato poi replicato realizzato con il
l’anno successivo in tutto il mondo, a cento anni esatti disegnatore Sergio
da quell’8 marzo 1917. Ce lo racconta a fumetti La Tram Riccardi, ha vinto
con il suo Mira como nos ponemos. il Premio Andersen.
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In questi cento anni sono state numerose le mobilitazioni con un protagoni-
smo femminile. Ne abbiamo scelte due. La celebre lotta delle operaie dello stabi-
limento Ford dell’Essex, nel 1968, portata sul grande schermo da Nigel Cole nel
film We want sex e qui illustrata con tratto deciso e giocoso da Sarah Mazzetti in
Dagenham 1968. In una realtà composta da 55 mila uomini e 187 donne, le addet-
te alla cucitura dei sedili per auto erano costrette a lavorare in condizioni proibiti-
ve oltre che private della qualifica di operaie specializzate che veniva riconosciuta
ai colleghi maschi. Per questo bloccarono a oltranza la produzione. L’agitazione
assunse un carattere generale con la rivendicazione della parità salariale per tutte
le lavoratrici inglesi. La Ford capitolò quando la causa delle operaie di Daghenam
si impose all’attenzione del governo laburista. Venne emanato l’Equal Pay Act,
che proibiva ogni discriminazione tra uomini e donne in termini di retribuzione
e condizioni di impiego.
In Italia la parità salariale fu raggiunta nel 1977. Ma la storia delle rivendica-
zioni delle lavoratrici italiane inizia decenni prima e conta numerose agitazioni
che meriterebbero di essere ricordate. Tra queste abbiamo scelto lo sciopero
al Cotonificio Valle Susa, raccontato da Sara Colaone in E lée la va in filanda.
In un distretto operaio periferico, dispersa in undici stabilimenti distaccati su
un territorio fatto di monti e campagne, operava una forza lavoro composta in
larga misura da donne scarsamente sindacalizzate. Diedero luogo a una mo-
bilitazione durata cinque mesi che sperimentò forme di protesta innovative e
dure, come lo sciopero a scacchiera, l’occupazione dei binari, i picchetti fuori
dagli stabilimenti. La lotta fu radicata, come testimoniano le casse di resistenza
organizzate non solo dai sindacati, ma anche da parrocchie e vari altri soggetti.
Sono quattro momenti storici narrati da quattro autrici diverse, per stile e
personalità artistica. Quattro storie e quattro matite accomunate da un elemen-
to. Mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a un profluvio di biografie di don-
ne, di individualità quasi sempre rappresentate come straordinarie, le tavole di
queste pagine raccontano la forza del collettivo, la potenza che esprimono le
donne quando mettono da parte le divisioni e le rivalità a cui la cultura patriar-
cale le ha educate fin da bambine, quando si riconoscono l’una nell’altra come
vittime di una stessa oppressione e alleate in un processo di liberazione.
Dalla Pietrogrado del 1917 fino ai nostri giorni le donne che lottano appaiono
come un “soggetto imprevisto”, subiscono un’iniziale sottovalutazione da parte
delle organizzazioni politiche e sindacali. Ecco ad esempio cosa scriveva Trot-
sky nella sua Storia della Rivoluzione Russa: «Il 23 febbraio era la ‘giornata in-
ternazionale della donna’. Nei circoli socialdemocratici si pensava di celebrare
questa giornata nelle forme abituali: riunioni, discorsi, manifestini. Ancora alla
vigilia, nessuno si sarebbe sognato che questa ‘Giornata della donna’ potesse
inaugurare la rivoluzione. Non una sola organizzazione aveva preconizzato uno
sciopero per quel giorno. Di più, un’organizzazione bolscevica tra le più com-
battive, il comitato del rione essenzialmente proletario di Vyborg, sconsigliava
qualsiasi sciopero». Le donne hanno dimostrato di porsi all’intersezione di varie
forme di lotta, includendo nella battaglia per i propri diritti quelle per i diritti di
altri oppressi. Con una provocazione, si potrebbe dire che se esiste un genere in
SCIOPERI!

grado di includere l’altro, la storia dimostra che questo è il genere femminile. E


che, quando lo sciopero è delle donne, allora è lo sciopero per tutti.
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Il momento

IMMAGINARIO
#MeToo
La sequenza è eloquente: mostra come alcune serie tv
utilizzino temi dei movimenti femministi per disinnescarli.
Ma c’è vita al di fuori dello schermo. E le narrazioni
non pacificate riescono a far passare il loro messaggio

«S
ono con te per abbattere il patriarcato». Abby, detta la rossa nel
circolo maschile dei furbetti della Casa bianca, guarda negli occhi
la sua migliore amica, la donna più potente del mondo, colei che
ha portato a un nuovo livello essere Mr. Wolf e risolvere problemi,
in due parole, Olivia Pope.
Olivia ha una missione, difendere la prima presidente degli
Selene Pascarella Stati uniti dal complotto testosteronico per abbatterla. Sarà una
battaglia suicida; è pronta, se deve, a compierla da sola. Ma Abby
aspira a un’altra idea di sorellanza. Il suo motto è insieme «Giù da una scogliera», gladia-
trici su tacco dodici, unitevi!
Tra tutti i momenti topici della tv legati alla congiuntura
sociopolitica, quello innescato dalla puntata numero quat- Selene Pascarella ha
tordici dell’ultima serie di Scandal incarna al meglio la defi- una laurea in Scienze
nizione di «Momento #Metoo». della comunicazione e
Si tratta di una svolta nella narrazione verticale di una una specializzazione
serie, cioè destinata a concludersi nell’arco di una puntata in narrazione seriale
o due, che strizza l’occhio al movimento per i diritti delle televisiva. Giornalista e
donne che ha detronizzato Harvey Weinstein e Kevin Spacey, criminologa, unisce la
guadagnandosi la palma di «Persona dell’anno» sulla coper- passione per il piccolo
tina del Time nel 2017. schermo a quella per la
cronaca. Ha scritto di serie
tv per Carta, Speechless,
Urbanfantasy.it e Horror.
it ed è autrice del libro
SCIOPERI!

Tabloid Inferno (Alegre


Quinto Tipo, 2016)
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irobi.
, sono Na
Professore . Quindi
fuori gioco
Berlino è n o io
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a partire in ci a il
o: com
al comand
to!
matriarca arta, di Alex Pina)
C a sa D iC
(La

Una marea impossibile da ignorare, che le major televisive hanno provato ad addome-
sticare in due fasi: prima, nel momento di massimo fulgore dell’hashtag, capitalizzando
il consenso del pubblico femminile, poi, quando il movimento ha superato lo status di
fenomeno social stagionale, tranquillizzando l’audience trasversale dei preoccupati dalla
deriva del cosiddetto «femminismo giustizialista».
Hanno avuto (tra gli altri) il loro momento #MeToo serie animate (I Griffin), commedie
graffianti e grottesche quali Shameless, medical drama come The Good Doctor e Grey’s
Anatomy, il telefilm spagnolo di culto La Casa De Papel e la serie nostrana L’amica geniale.
I primi sei episodi della quarta stagione di Unbreakable Kimmy Schmidt, a detta degli
autori, sono una riflessione sull’impatto delle silence breakers (come vengono definite le
donne che hanno denunciato molestie) nei luoghi di lavoro. Una dichiarazione d’intenti
che suona studiata per alzare le aspettative e quindi gli ascolti dello show.
C’è stato persino chi ha voluto rivendicare l’aderenza al «#MeToo
prima del #MeToo». Il produttore di Law & Order - Unità Vittime Spe-
LA SERIE DIETLAND ciali, Dick Wolf, ha sostenuto di aver anticipato il movimento con il
INCROCIA LA SFIDA suo poliziesco, incoraggiando le vittime a denunciare.
ALLL’OMOLOGAZIONE Sia l’attrice protagonista, Krysten Ritter, che gli autori del serial
DEI CORPI FEMMINILI Marvel Jessica Jones hanno sottolineato come la seconda stagione
CON LE AZIONI ARMATE dell’adattamento tv del fumetto, girata quando non era ancora esplo-
DI UN GRUPPO DI DONNE so il caso Weinstein, possa essere considerata un dialogo con le don-
ANTI-STUPRATORI ne che hanno dato vita al #MeToo.
Jessica, abusata da un villain con il potere di piegare la volontà
altrui, riprende a suon di pugni il controllo della propria vita. Non
v’è dubbio che la serie a lei intitolata offra spunti di riflessione sul tema dell’interiorizza-
zione della violenza patriarcale e del suo superamento. Eppure la scelta del committente
Netflix di mandarla in onda a partire dall’otto marzo e di affidare tutti gli episodi della
seconda serie a regie femminili ha offuscato la forza dirompente di questa eroina con
un’aura di pink washing.
Lasciando aperto un interrogativo: piuttosto che aprire un dibattito pubblico a partire
dalle dinamiche di potere e di abuso all’interno dei propri set, le case di produzione si
sono concentrate su operazioni di facciata per mettersi al riparo dal boicottaggio?
PRIMAVERA 2019

Il caso Netflix è esemplare in tale senso. Preoccupata di smaltire «l’effetto Spacey», ac-
cusato di molestie e rimosso dal cast di House Of Cards, ha imposto un rigido decalogo di
regole di condotta sul set. «Vogliamo che ogni produzione Netflix costituisca un ambien-
te lavorativo sicuro e rispettoso» ha dichiarato un portavoce. Quali sono queste regole?
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Vietato guardarsi negli occhi per più di cinque secondi, abbracciare senza permesso o
chiedere il numero di telefono se non dopo esplicita offerta.
Una soluzione che nella sua banalizzazione delle forze in campo riduce la questione a
pura formalità o ennesima «follia del politicamente corretto» offrendo tanto a chi la impone
senza convinzione che a chi la disattende una comoda via d’uscita. La questione della vio-
lenza di genere è grave ma non seria, perciò si può affrontare a colpi di grottesche stereotipie.
Nel mondo della televisione vige una regola: Show, don’t tell. Ovvero se devi racconta-
re una dinamica non descriverla, mettila in campo, fai in modo che viva sullo schermo.
E invece le narrazioni di riparazione in rosa, la risposta predominante all’interrogativo
sotteso dal mondo reale ai professionisti del racconto seriale, sono costruite intorno a
un’insuperabile dicotomia, o didascalica esaltazione del femminino o messa in ridicolo
delle istanze femministe.
Di fronte a movimenti che hanno superato il #MeToo con il #WeTogether, portando
avanti un piano di lotta antirazzista, internazionale e basato sul rifiuto dello sfruttamento
capitalistico, il settore di punta dell’industria culturale non è andato aldilà dell’agiografia
temporanea, ben presto scaduta nell’aperta ostilità.
La stagione conclusiva di House of Cards, portabandiera della buona coscienza di
Netflix nei confronti delle donne, sostituisce il personaggio di Kevin Spa-
cey, il gigionesco, perfido e vincente politico Frank Underwood, partito
so ’ bé ll? deputato e finito Presidente Usa con una scia di omicidi e intrighi, con la
vist’ come
- Lila, ma hai moglie Claire, interpretata da Robin Wright.
te!
So chin’e salu r
Ma noi solo pe
- Belli só bell… e ci
on ’ che arrivan’
chiss’ ce sta bu
illeccient?
tirano intr’a m tte,
pr en ne n’ Ada e noi zi
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tanto le dann n’ a te ? E se si
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E se domani pi ant? Non ho pau
ra di nessun
a una tutte qu o
piglian’ a una nel mondo d
ello spettaco
H o rifiutato un lo.
stanzo) rapporto co
a ge nial e, di Saverio Co H a rv n
(L’am ic ey Weinstei
di tre occasi n in non men
oni... Su cin o
que
(30 Rock, di
Tina Fey)
PRIMAVERA 2019
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E Claire in pochi episodi diventa la materializzazione degli incubi di certi editorialisti
nostrani preoccupati dalla castrazione del maschio e dall’imminente nascita di un matriar-
cato fondato sull’isteria. L’ultima sequenza consegna una serie dove ogni pessimo dialogo e
trito colpo di scena grida: «Sei stata tu a rovinarmi, col tuo #Metoo!» e una leader del mondo
libero con pancione che si bulla di aver concepito l’anticristo.
Un clima apocalittico anticipato in tempi non sospetti da Diet-
land, adattamento dall’omonimo romanzo da Marti Noxon per il
canale Amc. Qui la protagonista, Prugna, alle prese con lo stigma LA SERIE DIETLAND
che schiaccia ogni corpo femminile non omologato, incrocia la sua INCROCIA LA SFIDA
battaglia personale al sovrappeso con la guerra di un gruppo armato ALLL’OMOLOGAZIONE
femminista che colpisce i violentatori seriali di donne. Si parte dalla DEI CORPI FEMMINILI
messa in discussione in chiave ironica della cultura dello stupro, im- CON LE AZIONI ARMATE
posta anche a colpi di standard estetici, ma si scivola ben presto nella DI UN GRUPPO DI DONNE
parodia al servizio del più retrivo dei luoghi comuni: il femminismo ANTI-STUPRATORI
che si oppone al sistema sfocia nell’integralismo, mette a rischio la
società come la conosciamo (un auspicio, più che una minaccia, ça
va sans dire) per rivelarsi infine inadeguato all’obiettivo, velleitario e fallimentare.
Tra il 2018 e il 2019 sono state messe in cantiere due serie con l’obiettivo di raccontare
l’ascesa e gli “eccessi” del #MeToo. Ryan Murphy sta realizzando per Netflix l’antologica
Consent, dove in ogni episodio si affronta un caso diverso di molestie, compreso quello
che ha coinvolto Spacey.

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e ferocite
eToo si è spin con le folle in
Fo rs e il # M in o co m e ta li e finiscano
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- Io penso che at te r? i per le folle
- Come #Blac
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- Non ti seguo im prov vi sa m eo cc up az io ne che il #Bl
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King e Michel
ght, di Robert
(The Good Fi

SCIOPERI!
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Gli Amazon Studios hanno accolto un progetto rifiutato da Apple in quanto «controver-
so» in cui Whitney Cummings, di 2 Broke-Girls, e Lee Daniels, di Empire, raccontano le dina-
miche innescate all’interno dei college dalla discussione pubblica sulle violenze di genere.
Il momento #MeToo sta diventando un paradigma in uso nel lungo periodo per disin-
nescare le criticità sollevate attraverso narrazioni antagoniste e non convenzionali dai
movimenti femministi come Non Una Di Meno.
Per fortuna la partita per il controllo dell’immaginario televisivo non si svolge in un
unico campo. Dal basso, a opera delle donne che si vogliono soggetto e non oggetto dello
storytelling, molto si agita per bucare lo schermo. Le ancelle di Handmaid’s Tale con le
loro vesti rosse e il capo tutt’altro che chino sotto le alette bianche sono state protagoniste
di manifestazioni, presidi e flash mob in tutto il mondo, Italia compresa.
A dimostrazione che le rappresentazioni complesse e non pacificate prodotte per la
tv sanno portare il loro messaggio al di fuori di essa, dialogare (e scontrarsi anche) con
un’audience attiva e combattiva, alla ricerca non di chiavi di lettura usa e getta ma di im-
magini e parole capaci di smontare le narrazioni del potere, patriarcato incluso.
Le sex workers di The Deuce (Hbo), le lottatrici di wrestling di Glow (Netflix), le intelli-
genze artificiali in rivolta di Westworld (Hbo) sono altri esempi riusciti di fiction in grado
di rappresentare e rispecchiare un’agitazione femminile che si dichiara permanente.
Un’attitudine ribelle che le major tv possono edulcorare, demonizzare e ridicolizzare
con un unico effetto, il pubblico inizierà a cercare le sue narrazioni altrove.

solennemente
Promettiamo
la voce
di restituire ,
e ri do tte al silenzio
alle donn ra re
impa
di ascoltare e
og nu na de lle loro storie
da
da Rh imes)
omy, di Shon
(Grey’s Anat
PRIMAVERA 2019
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Feminist
La collana Feminist, per leggere la realtà e le questioni
di genere con un approccio femminista intersezionale

“Razzismo e sessimo frequentemente convergono


e la condizione delle donne lavoratrici bianche è spesso
legata allo status oppressivo delle donne di colore”
Angela Davis

w w w. e d i z i o n i a l e g r e . i t

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C’è
IL RACCONTO

del
disagio «Lo sciopero deve fa’ male sennò che sciopero è?»,
dice un lavoratore mentre i suoi colleghi si vedono,
si toccano, si riconoscono. Capisci che funziona quando
il problema di uno diventa il problema di tutti

I
l ritrovo è al bar, il Via vai a Calenzano. Da lì deve partire il corteo
per l’Osmannoro, l’area industriale appiccicata a Firenze, la zona
adiacente l’autostrada strategica per la logistica, da dove partono
i driver ogni giorno. Il loro quotidiano via vai è fatto di indirizzi
sui tablet, di carico e scarico pacchi, di
spunte, di bestemmie al traffico, di par-
Simona Baldanzi cheggi in terza fila. Simona Baldanzi è
Stamani sono lì al bar. Ognuno con la nata a Firenze e vive
divisa e il marchio. Il marchio dei corrieri. Ce l’hanno sul fur- nel Mugello. È autrice
gone, sul giubbetto, sul cappellino. Li distingui dai colori. Sono tra l’altro di Figlia di
PRIMAVERA 2019

rossi, arancioni, gialli e rossi, rossi e neri, bianchi e neri, marro- una vestaglia blu
ni. Li vorrebbero competitivi e concorrenti. Qua si mischiano: (prima edizione: Fazi,
il bar si riempie di colori che si muovono a chiazze. Qualcuno 2006), che ha vinto il
li guarda tintinnando il cucchiaino nella tazzina del caffè. No, Premio Miglior Esordio
di Fahrenheit Radio3
N. 2

Rai, di Il Mugello è
una trapunta di terra
(Laterza, 2014) e di
Maldifiume. Acqua,
passi e gente d’Arno
(Ediciclo, 2016).
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non sono squadre. In realtà il loro lavoro è molto individuale. Quando è che si ritrovano
così tutti insieme? Sembrano stupirsi anche loro. Si vedono, si riconoscono, si salutano
facendo baccano. Le strette degli abbracci o le pacche sulla schiena fanno un rumore
ovattato ma deciso sulle giacche tecniche. È il primo dei due giorni di sciopero proclamati
per il rinnovo del contratto scaduto da qualche anno. I due giorni indicati sui volantini,
affissi nelle bacheche in capannoni e magazzini, lasciati sul tergicristalli dei furgoni. I due
giorni scelti prima del ponte dei morti, che si allunga il disagio, che così si fa, come ha
detto Pasquale, lo sciopero deve fa’ male sennò che sciopero è. È il primo dei due giorni di
sciopero dove ti vedi, ti tocchi, ti riconosci e il problema di uno diventa il problema di tut-
ti, comincia con quel rumore lì, preciso. Colpi di affetto su giacche che vestono persone
che fanno lo stesso lavoro e vivono la stessa condizione.

Il piazzale antistante al bar si riempie di bandiere e striscioni. Gruppi di corrieri pro-


vano a tirarne su uno per misurare la tenuta delle aste. Sono lì nei pressi della polizia. Per
un attimo le divise si sovrappongono. Colori che si cancellano. Si illumina tutto. Il sole si
sta alzando e il cielo si fa sempre più azzurro schietto. Tante e tanti si aggirano a sistemare
stoffe, a togliere le pieghe, a srotolare. Sbocciano caratteri e frasi in un mormorio che si fa
folla. Aumentate i vostri profitti cancellando i nostri diritti. Se il pacco vuoi consegnato il
nostro contratto va rinnovato. Contro il logorio del city courier contratto nazionale subito.
Vogliamo il #contratto subito.

Arriva anche il furgone che deve aprire il corteo. Bandiere mixer e grosse casse forma-
no l’altare della contestazione. Ci sale su Leandro, sindacalista con quarant’anni di espe-
rienza. Di scioperi ne ha fatti un bel po’. Non è di quei sindacalisti stanchi che ti dicono
«Sono 30 anni che vengo in piazza, ora andateci voi». Come se la voglia di cambiare il
mondo avesse una scadenza, tipo lo yogurt. O che svanisse come una bibita gassata la-
sciata aperta. Ad alcuni succede. A Leandro no, non ancora. Prende il microfono, ci batte
sopra l’indice per vedere se funziona. Se suo padre avesse creduto nella professione del
dj, forse avrebbe vagato per le disco dance di mezza Europa. Invece quella era considera-
ta solo una bravata, un passatempo giovanile. C’era da portare a casa lo stipendio, altro
che occhiaie e a letto fino mezzogiorno. Ha trovato da lavorare in un supermercato dove
ha fatto il delegato per vent’anni e ora è funzionario nella categoria dei trasporti e della
logistica. Il fazzoletto rosso se lo è legato al collo come un cowboy. Il gilet rosso lo ha sopra
il giubbotto. Gli è toccato mettersi gli occhiali che da vicino comincia a vederci male. Lun-
ghi anni di speaker alla radio, di teatro e cabaret lo aiutano nello scandire bene la voce.
Risuona nel piazzale. «Sistemiamoci per benino che fra poco si parte». Tutti sembrano
muoversi a caso e invece si posizionano per formare un corpo unico, lungo e compatto.
Ci sono tanti giovani e tanti stranieri. Per molti è il primo sciopero. Lo vedi da una specie
di indugio rispettoso negli sguardi. Aspettano segnali.
«Su le mani!»
Scherza al microfono Leandro.
«Le lavoratrici e i lavoratori del trasporto merci sono qui e sono i più belli».
SCIOPERI!
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Parte subito Killing in the name dei Rage Against the
Machine. Dalle strade intorno continuano ad arrivare la-
«Sapete prima
voratrici e lavoratori e le auto rallentano tutte. che l’acqua
Leandro ha fatto decine di assemblee e ha sentito cre-
scere un entusiasmo nuovo. A tutti in camera del lavoro ri- cominci a bollire
peteva convinto «non sarà la solita manifestazione, cresce
col passaparola. Questo sciopero monta, lo sento. Questo
quel palpito
andrà bene». che ha?
Alcune ragazze delle cooperative si sbracciano verso
il furgone e urlano per farsi sentire. Chiedono di cosa c’è
È un sentimento
bisogno. Leandro indica un paio di ragazze che sul mar- di questa specie»
ciapiede stanno montando delle grosse scatole di cartone.
«Chiedete a quella coi capelli corti, è Daniela». (La battaglia, John Steinbeck)

Quando c’è da preparare uno sciopero al secondo pia-


no in Camera del lavoro si sente sempre una risata che
sembra un’eco dei gong. Che avrà da ridere? Daniela si
diverte a preparare cartelli, striscioni, a spillare e incolla-
re. Lo fa volentieri anche per lo sciopero di altri, di altre re?». Allora sì, che con quel pennarello
categorie. Scherza con tutti. «È l’unica catena di montag- ci aveva dato giù più forte. Le piacciono
gio che può metterti bene», dice. La sera prima del ritro- quei momenti lì, da vigilia. C’è l’attesa,
vo al Via vai aveva fatto tardi a preparare le lettere e a in- ci sono i pensieri. Un suo amico le ha
collarle sulle scatole. Su ogni scatola una grande lettera. detto, «non è vero niente che lo faccia-
La stampante aveva fatto i capricci e così, messi a letto i mo per i nostri figli, per i diritti e tutte
tre figlioli, si era chinata sul tavolo a riempire col penna- quelle stronzate. Lo facciamo per noi,
rello nero le lettere sbiadite. Sua mamma a cena le aveva perché ci piace». Forse tutti i torti non
mugugnato, «tanto prima o poi te le danno. Che si è mai li ha. La volta che si è resa conto che le
visto un’impiegata di banca che manifesta per un corrie- piaceva era a Milano, a una manifesta-
zione per il contratto del commercio.
Anche lì sua mamma, prima di partire
in pullman la mattina all’alba, le aveva rivolto la solita domanda: «O che si è mai visto
un’impiegata di banca che manifesta per una commessa?». Faceva freddo, non conosce-
va quasi nessuno eppure riconosceva odori, sguardi, gesti simili. Ebbe forte e nitida la
sensazione di non voler essere da nessun’altra parte, anche se era festa, anche se aveva
lasciato i piccini a letto e il vento le tagliava gli zigomi.

I pacchi sono venuti perfetti, composti e scocciati sul momento e non c’è rimasto
nessuno spazio bianco nelle lettere. Ogni scatolone è in fila sul marciapiede a comporre
PRIMAVERA 2019

il blocco: CONTRATTO NO UN PACCO


Leandro e Daniela danno indicazioni per tenere ciascuno uno scatolone. Quei pacchi
si posizionano in apertura al corteo proprio dietro al furgone. Fotografi e telecamere cer-
cano di inquadrare quella fila e la folla sempre più piena che si disegna dietro.
N. 2
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Dopo poco che il corteo è partito, un sacco di ragazzi in divisa fanno a gara a chiedere
di tenere un pacco-lettera. Fanno a turno. Ci sono e vogliono stare in prima fila.
La strada è conquistata dal lungo corteo e il traffico è bloccato su un senso di marcia.
«Siete bellissimi visti da qua». Urla al microfono Leandro.
I Clash dalle casse rimbombano. Una ragazza in divisa arriva correndo con le sue
scarpe antinfortunistiche. Ha capelli neri raccolti in una coda. I colleghi appena la ve-
dono la fischiano e le danno dei pizzicotti sulle guance. Altri legano le giacche intorno ai
fianchi e ballano. In fondo si vedono accendersi dei fumogeni gialli e poi rossi e arrivano
altri striscioni. Basta appalti. I diritti non si toccano. Non si sa come mai, sempre in culo
agli operai.
Fra le nuvole di fumo si vedono tre ragazzi con la divisa e gli occhiali da sole che
tirano su in alto un piccolo striscione. C’è del disagio. Si fermano compiacenti a farsi
fotografare e intervistare dai giornalisti. Avanzano spediti e conqui-
stano le prime file. I compagni più anziani con lo stesso colore del-
la divisa, gli tirano degli scappellotti, forse per il ritardo, forse per L’ORGOGLIO DI STARE
la scritta. Non si capisce più niente. Sembra una forca a scuola o INSIEME DALLA PERIFERIA
un piccolo rave. Le incazzature sono in tasca, sui volti si sorride. Ai PUZZOLENTE AL CENTRO
cancelli dei piazzali da cui si vedono tanti furgoni fermi, arriva del CITTÀ SI È GONFIATO:
fumo. Sono le grigliate improvvisate. Insieme ai dati altissimi sulle NON PIÙ ISOLATI
adesioni allo sciopero che si diffondono, alle foto sui social network DA UN SELFIE MA GRANDI
dall’Italia intera, inebria tutti. FOTO DI GRUPPO
Intanto anche i pacchi-lettere si sollevano in onde e balli. Le ra-
gazze delle cooperative cantano a squarciagola. Nella calca e nella
folla una di loro perde il cellulare. Leandro proverà a cercarlo. «Non stare a perdere tem-
po. Cosa vuoi che sia rispetto a questa giornata?».
Kozeta è al suo primo sciopero. A lavoro non si tira indietro quando c’è da aiutare col-
leghi e delegati. È giovane e saggia, ha il viso dolce, ma è una che non si piega.
Il giorno dopo il corteo si sposta in città, a Firenze. Gli striscioni, il disagio, le rivendi-
cazioni e i pacchi-lettera sono stati ricomposti sul Ponte alla Vittoria. Sole per due giorni
di fila è un lusso per chi lotta.

A un certo punto c’è tensione. Lo si vede dalla folla che si comprime. Un corriere prova
a passare col suo furgone. Lavoratrici e lavoratori lo fermano. Battono le mani sulla fian-
cata. Leandro teme il peggio e prova ad avvicinarsi velocemente. Sente degli applausi e
non capisce. Cosa succede? Il lavoratore ha mollato il furgone e si è unito a loro battezzato
da un po’ di caffè da un termos. L’orgoglio di stare insieme dalla periferia puzzolente al
centro città si è gonfiato: non più isolati selfie, ma grandi foto di gruppo, con sfondo il
bianco marmo del Duomo.

La firma del rinnovo del contratto c’è stata un mese dopo. Se non fosse bastato fer-
marsi per Halloween, c’era sempre il Natale. Poi glielo dovevano spiegare i padroni, ai
bambini la storia dei pacchi e del contratto.
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DIZIONARIO

Illustrazioni di Manfredi Ciminale

Sulle tracce
della
parola
sciopero
Che vuol dire oggi scioperare?
E cosa significava quando questa
pratica è nata? In che modo il
linguaggio che usiamo può aiutarci
PRIMAVERA 2019

a riflettere sulla storia delle azioni


politiche? Un viaggio etimologico
nell’Europa che lotta
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P
erché parlare oggi di etimologie? Che senso ha andare a cercare nei
meandri della storia linguistica il significato che le parole avevano
cento, duecento, trecento anni fa? Potrebbe sembrare un esercizio
ozioso, una curiosità da eruditi, ma non lo è.
Ne è passato di tempo da quando Isidoro di Siviglia vergava pa-
gine e pagine di pergamene con le Etymologiae della lingua latina,
Gaia Benzi andando a scartabellare accezioni, riscontri, incrociando fonti e
attestazioni. Uno sforzo improbo che oggi ci sembra superfluo, di-
sabituati come siamo a porre domande che non possano avere una risposta immediata.
Grazie a Google sappiamo tutto, e subito. Basta indirizzare l’algoritmo al meglio e il desi-
derio di conoscenza diventa niente più che un prurito da grattare.
Eppure non tutte le domande trovano risposta in un codice binario. Certo, capire da
dove viene un termine è in linea di massima abbastanza facile, ma non sempre il mero
dato genealogico basta a spiegarne il significato. E non vale nemmeno la pena cercare
un’origine al senso, da cui far scaturire le accezioni successive quasi fossero mere varia-
zioni sul tema, interpretazioni di una purezza primordiale. È solo attraverso la ricostru-
zione dei contesti mutevoli in cui la parola è stata utilizzata che possiamo sperare di far
luce, almeno in parte, sulla sua carica espressiva. Come dice Indiana Jones: «La X non
indica mai il punto in cui scavare».
In queste righe proviamo a scavare un po’ intorno alla X, seguendo le tracce lasciate
dalla parola sciopero in alcune lingue europee. Nei paesi mediterranei, dove la rivoluzio-
ne industriale è arrivata con calma, la parola “sciopero” era presente nelle pieghe di un
atteggiamento esistenziale, in una visione della vita priva di la-
voro che sembra già inglobarne gli aspetti riproduttivi. In Fran-
cia e Inghilterra, invece, dove la pratica dello sciopero moderno Gaia Benzi è attivista
è nata e si è sviluppata per la prima volta, la parola risulta più e ricercatrice di
legata al dato materiale, a luoghi o episodi specifici. letteratura italiana. Ha
Nelle parole che usiamo ci sono tanti significati, dei quali scritto per Micromega,
a volte non siamo consapevoli e che non sempre finiscono su Dinamopress,
Wikipedia. Ma la lingua ne porta le tracce, e può aiutarci a ria- CheFare e Nazione
dattarle al presente. Indiana.
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Sciopero
in italiano

S e dovessimo fare un’analisi di storia della lingua,


dovremmo cominciare dicendo che la parola
sciopero, come moltissime parole italiane, ha un’eti-
Insomma lo scioperato è un pericoloso sfac-
cendato, che anzi addirittura “impedisce alcuno
dall’accudire le sue faccende”: si vede che, come
mologia latina. Un’etimologia per la verità assai puli- le risate, anche gli scioperi sono contagiosi. Ep-
ta e lineare, davvero semplice e immediata: il prefis- pure nei vocabolari dell’Ottocento – quando gli
so “sci” sta per ex, mentre “opero” viene da operare, scioperi veri e propri iniziarono a prendere forma,
vale a dire “lavorare, produrre”. Dunque scioperare e da oltremanica arrivarono in Francia, e poi in
significa ex-operare, “uscire dal lavoro”, “smettere di Italia scavallando le Alpi – la scioperaggine è una
lavorare”, “lavorare al di fuori di”. qualità dell’anima, “il non far nulla, il perdimento
La linguistica dice questo, e lo dice corretta- di tempo”.
mente, ma di certo non lascia trapelare il disprez- Perder tempo che ha anche una sua connota-
zo, l’acredine e in buona sostanza l’onta sociale che zione nobile: per tornare al latino, è l’otium dello
questa “fuoriuscita dalla produttività imposta” si è studio, della vita campagnola e dell’attività fisica,
sempre portata dietro. “Sei uno scioperato !”, grida- contrapposto al negotium della città con i suoi tri-
vano i nostri nonni, e cioè sei un vagabondo, uno bunali e il clientelismo dilagante. È una predispo-
sfaticato, anzi meglio uno scansafatiche, uno che sizione ad affrontare una vita grama e a inventarsi
il lavoro lo evita in tutti i modi – perché lavorare, possibili vie di fuga, da cui risuona ancora l’eco di
come i nostri nonni sapevano bene, stanca. Se poi una novella boccacciana o di una pièce da Com-
lo sei in forma accrescitiva – ovverosia uno sciope- media dell’Arte in cui il povero Zanni vessato dai
rone – probabilmente sei anche un po’ “scimunito, padroni si ingegna in tutti i modi per metterli nel
merendone”, e così via. sacco e finalmente scioperare.
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Grève
in francese

S ciopero, in francese, si dice grève, che in italiano suona un po’


come “ghiaia, terriccio, bordo limaccioso di un fiume” – magari
la Senna, ai lati della quale si snodano gli argini e le piazze di Parigi.
Una di queste, l’odierna place de l’Hôtel-de-Ville, era un tempo pla-
ce de Grève, la piazza di ghiaia, per tanto tempo la più grande della
città. Sede dei mercati generali fino al 1135, per i parigini d’epoca
moderna fu soprattutto la piazza deputata alle esecuzioni capitali;
e proprio a place de Grève fece la sua comparsa per
la prima volta madame guillotine quando, il 25
aprile del 1792, troncò la testa a un ladro di nome
Nicolas Pelletier.
Ma place de Grève era anche il luogo dove si
radunavano gli operai sfaccendati, in attesa di
un impiego: da mercato generale era passato ad
essere, letteralmente, il mercato della manodo-
pera. Fino al 1850 entrer en grève significava cer-
carlo, un lavoro, attenderlo pazientemente se-
duti da una parte, in piazza, a non far niente. Già
da qualche anno, però, grève stava assumendo
altri significati. Non lavorare, questo era sicuro,
ma non perché il lavoro non c’è, bensì perché
non si vuole: dall’assenza di lavoro all’atto di ri-
fiuto del lavoro stesso. En grève non era più l’o-
peraio disoccupato, in passiva attesa e alla mer-
cé dei caporali, ma il padrone: mettre un patron
en grève, rendere lui quello senza niente da fare,
rifiutandosi di lavorare. I primi furono i taglia-
tori di pietre, che un lunedì mattina del 1805
incrociarono le braccia chiedendo un aumento
di salario, e molti altri ne seguirono.
Oggi la vecchia place de Grève vive soltanto
nella memoria letteraria, nelle pagine del Ros-
so e il Nero in cui un giovane Julien Sorel vaga
distrutto dall’amore per la bella Mathilde di-
scettando della tragica storia di Boniface de La
Mole. Per fortuna l’odierna Esplanade de la Li-
bération ospita ancora scioperi e manifesta-
zioni, tenendo viva l’antica tradizione.
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Huelga
in spagnolo

L a parola usata per “sciopero” in lingua spagno-


la è huelga, e come per l’italiano deriva da un
termine latino. Solo che in questo caso la strada è
do latina da cui deriva, follicare. Un respiro quasi
sempre di sollievo, di quando finalmente si stacca
e si torna a casa, si levano le scarpe e ci si butta sul
stata molto, molto più lunga: huelga è un sostan- letto. Un respiro che è un rantolo di soddisfazione,
tivo che a sua volta deriva dal verbo holgar – let- quasi un ansimare, che non indica malattia ma fe-
teralmente “riposarsi, stare senza far niente”, ma licità (l’ansimare di una risata convulsa) o piacere
anche “divertirsi, rallegrarsi”. Anche in spagnolo (l’ansimare del sesso). Chi sicuramente cercava
scioperare ha a che fare con l’ozio, cioè la cessa- sempre di holgar era Sancho Panza nel romanzo
zione della produttività lavorativa, ma non solo: fondativo della coscienza europea, il Quijote, dove
ha qualcosa dell’assenza totale di fatica, stress, la parola si incontra spessissimo con il significato
preoccupazioni, letteralmente di vacanza – di sé di scansar le fatiche, ma anche giacere carnalmente
dal mondo e del mondo dal sé. Solo che quando – e le due cose, in fondo, possono andare perfetta-
holgar si è affacciato alle coscienze le vacanze non mente d’accordo.
esistevano affatto, e men che mai le ferie; e se per Nella lingua che ha inventato i picari e le loro
fortuna si trovava un lavoro, quasi sempre era fati- mirabolanti disavventure, la parola sciopero resta
ca e sofferenza. dunque legata a un atto fisico, sensuale, e c’è da
Non sorprende allora che holgar sia etimolo- sperare che di questa allegria gioiosa resti ancora
gicamente connesso al respiro, nella parola tar- qualche traccia nell’odierno huelga.
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Strike
in inglese

D alle rive della Senna a quelle del Tamigi per il primo


strike della storia: lo sciopero dei marinai portuali
nella Londra del 1768.
Un anno significativo per l’Inghilterra, all’epoca
in pieno fermento industriale. Avevano aperto le
prime fabbriche, e i fiumi della nazione traspor-
tavano incessantemente carbone dalle miniere
alla capitale. Ogni mese frotte di individui si ri-
versavano in città dalle campagne in cerca di op-
portunità tra le ciminiere fumanti. Molti di loro si
erano specializzati nel nuovo business del carbone,
scaricandolo dalle chiatte che facevano su e giù per il
Tamigi, spesso in cambio del semplice vitto e alloggio. La
maggior parte di loro era composta da irlandesi, che dopo le
rivolte agrarie del 1762-63 si erano trasferiti altrove, non sen-
za però portarsi dietro le strategie e le tattiche usate dai con-
tadini fittavoli per contrastare le vessazioni dei proprietari
terrieri. La vita degli scaricatori di carbone era dura, ma certo
anche per gli altri operai della filiera c’era poco da scherzare:
dai minatori ai portuali, se la passavano male un po’ tutti.
Erano anni travagliati, ricchi di rivolte e sommovimenti.
I primi a protestare per paghe migliori furono i tessitori
di seta nel 1765. Quando tre anni dopo, nel mezzo di una
carestia alimentare, scoppiò la protesta dei lavoratori del
carbone, non si poteva dire non fosse nell’aria. Il gesto
dei marinai di ammainare (to strike) la vela di contro-
randa ebbe un grande successo, e fu ripetuto negli
anni successivi da molti in tutta l’isola, finendo col
dare il nome alla pratica stessa dello sciopero. E in
fondo non può stupire che siano stati proprio i
marinai a dettare il passo dei cambiamenti so-
ciali in un’isola come l’Inghilterra, che di navi
e marinai ha sempre vissuto e prosperato. Si
potrebbe quasi dire, esagerando forse un
po’, che uno sciopero è una forma diversa
e contemporanea di ammutinamento. In
questo caso non per un fantomatico teso-
ro alla Long John Silver, ma per una giusta
paga e sacrosanti diritti.
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IL SAGGIO

Riot
or
Strike?
Le rivolte e le insurrezioni urbane sono davvero
lo strumento rivendicativo per eccellenza di questo
momento storico? Un saggio mette in discussione
questa tesi. E si chiede se e in che modo esiste
un rapporto tra forme di lotta e cicli economici
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N
el suo libro vivace e coinvolgente dal titolo Riot. Strike. Riot [Ver-
so, 2016] Joshua Clover espone un ragionamento eccezionale (e
apertamente marxista) per sostenere la propria tesi: i lavoratori
dipendenti si trovano sempre meno alla base delle sollevazioni e
le rivolte stanno prendendo il posto degli scioperi come principale
espressione di ribellione sociale nel capitalismo frenetico dei no-
Kim Moody stri giorni. In questo libro c’è molto materiale interessante e ori-
ginale. Gran parte di quel che sostiene Clover a proposito delle
turbolenze del capitalismo contemporaneo, e di del suo rallentamento apparente, si
basa sul denaro, anche se si può dissentire da alcuni punti specifici dell’analisi. Inoltre
l’autore mira a una crescita nelle lotte sociali, una speranza che chiunque, nella sini-
stra, deve sicuramente coltivare.
Non c’è da meravigliarsi che quest’opera abbia suscitato attenzione e dibattiti in merito
alle nuove forme di protesta sociale – il movimento Occupy, le rivolte contro la brutalità poli-
ziesca nelle comunità afro-americane, le primavere arabe, e altre – che esigono una scrupo-
losa attenzione, a maggior ragione oggi alla luce di una poliedrica “resistenza” anti-Trump.
Allo stesso tempo ci sono seri problemi teorici ed empirici con la sua tesi centrale. Al
cuore della prospettiva presentata in Riot. Strike. Riot c’è la divisione della storia in perio-
di di circolazione (dal Medioevo fino all’era del mercantilismo), produzione (con l’avven-
to del capitalismo industriale) e di nuovo circolazione (quando il capitalismo raggiunge il
suo periodo di ripetute crisi e lenta crescita, a cominciare dagli anni Settanta).
A ciascuno di questi periodi dovrebbe corrispondere una forma preponderante di con-
flitto sociale coerente col modello economico in vigore, che si tratti di produzione o circo-
lazione: rivolte nella prima era di commercio o circolazione, scioperi con la crescita della
produzione industriale, ancora rivolte «con il regresso della produzione industriale nei
principali paesi capitalisti».
La prima cosa che si nota a proposito del capitalismo, per
come descritto in Riot. Strike. Riot, è ciò che manca. La lettu- Kim Moody,
ra che ne fa Clover è dualistica, monca, divisa tra «industria» e cofondatore della
«circolazione». A parte la finanza, manca tutto il settore privato rivista Labor Notes, è
dei «servizi», per non parlare del settore pubblico. autore di numerosi libri
In realtà «il regresso della produzione industriale» nelle sul movimento operaio
economie capitaliste sviluppate è un declino statistico pro- statunitense tra cui
porzionale alla produzione di merci in termini di Pil e occu- On New Terrain: How
pazione; un declino rispetto alla crescita dei «servizi», più che Capital Is Reshaping
the Battleground of
Class War (Haymarket
books, 2017). Questo
articolo è uscito su
Jacobinmag.com.
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La traduzione è di
Alberto Prunetti.
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un vero e proprio declino dell’output industriale. Questo ha continuato a crescere, anche
se molto lentamente, in molti paesi sviluppati, su scala globale e anche negli Stati uniti.
Il regresso dell’industria è dunque relativo e rappresenta solo una parte della storia
dei cambiamenti del capitalismo e della classe lavoratrice. La storia del capitalismo, in
effetti, è la storia del capitale che estende in continuazione la mano dello sfruttamento
su nuove aree di attività economica e sociale, come risulta dalle analisi dettagliate di Har-
ry Braverman. Ossia che la circolazione del capitale si estende sempre a nuovi settori di
produzione.
Quel che è cresciuto negli ultimi decenni non è la circolazione nel senso limitato della
finanza, come sottolinea Clover, ma il settore privato dei «servizi» che il capitale conti-
nua ad acquisire, in cui la finanza, le assicurazioni e i beni immobili rappresentano circa
un terzo del valore aggiunto. Gli altri che rappresentano i restanti due terzi e impiegano
più del 90% della forza-lavoro del settore privato dei servizi – sanità,
ristorazione, trasporti, comunicazione, viaggi, ospitalità, intratteni-
GLI SCIOPERI POSSONO mento, gestione rifiuti, servizi di utilità – a malapena trovano posto
RAPPRESENTARE nella ricostruzione di Clover, in cui il capitalismo appare svuotato e
LA FORMA PIÙ COMUNE diviso tra finanza e produzione di merci.
DELLA LOTTA DI CLASSE La difficoltà di questa visione del capitalismo e dei suoi sposta-
MA I LAVORATORI menti riguarda il fatto che gran parte delle industrie di servizi che
SVILUPPANO ANCHE ALTRE sono apparse negli ultimi cinquant’anni sono organizzate sulla base
TATTICHE E STRATEGIE capitalistica della produzione di valore (con l’eccezione dei settori
finanziario, legale, del business e di alcuni servizi professionali).
Questo significa assumere centinaia di migliaia, milioni di lavora-
tori, investire in quote crescenti di capitale fisso, pagare salari dal capitale variabile, cre-
are profitti dal plusvalore, tendere a concentrare i lavoratori sfruttati in grandi luoghi di
lavoro e produrre merci. In altre parole, tutto questo è parte della produzione capitalista.
Un capitalismo moderno privo di questa parte di produzione sarebbe davvero uno
strano mostro. Inoltre al pari dell’«industria» e per le stesse ragioni il settore dei servizi
ha visto molti conflitti di classe, sindacati, scioperi e altre forme di resistenza nella classe
lavoratrice nel corso degli ultimi anni fino ai giorni nostri (pensiamo agli insegnanti della
West Virginia).
Per la stessa ragione abbiamo assistito al declino dei sindacati là dove, nei servizi, erano
un tempo forti, e di scioperi là dove erano frequenti. In altre parole il problema ha a che
fare con la crisi sindacale più che con il calo degli iscritti in miniere, acciaierie e fabbriche.
Il tentativo di periodicizzare l’ultima fase del capitalismo secondo l’attività economica,
classificandola come una fase di «circolazione» in senso quantitativo, senza alcun riferi-
mento ai servizi produttivi, ci pone di fronte a dei dubbi. L’esclusione di più di metà del
valore aggiunto del Pil del settore dei servizi privati, che in gran parte rappresenta una
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produzione reale, assieme all’equazione tra produzione e industria, crea una rappresen-
tazione fuorviante del capitalismo contemporaneo, un’illusione ottica e statistica.
Tornando all’analisi di Clover c’è un problema di determinismo nel fare un’equazione
tra le caratteristiche economiche prevalenti di ogni periodo e la presunta risposta delle
classi subalterne. Non sorprende che questo collegamento causale alquanto schematico,
N. 2

con una caratterizzazione economica di un periodo storico associata a una singola tattica
principale, abbia ricevuto una buona dose di critiche.
Ad esempio Alberto Toscano su Viewpoint Magazine mette in discussione la tenden-
za di Clover a considerare inevitabile questa periodizzazione. Tanto più che gli scioperi
tendono ad avere alti e bassi, come le maree. Anche Toscano ammette che Ernest Mandel
era nel giusto quando sosteneva l’impossibilità «di stabilire ogni correlazione diretta tra
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gli alti e i bassi dell’intensità della lotta di classe, da un lato, e il ciclo degli affari o le “onde
lunghe”, i livelli occupazionali o la disoccupazione, dall’altro».
Nel capitalismo gli scioperi possono rappresentare la forma più comune dell’abituale
conflitto di classe (o di più rare sollevazioni radicali), tuttavia non tracciano inevitabil-
mente una traiettoria uniforme nei periodi di alta produttività. Al tempo stesso i lavo-
ratori hanno sviluppato molte altre tattiche e strategie, tra cui svariate forme di azione
politica, tattiche per i luoghi di lavoro meno specializzati, occupazioni, disobbedienza
civile di massa, a volte rivolte e occasionalmente anche il conflitto armato.
Toscano critica anche la combinazione, realizzata da Clover, «dell’opera di Robert
Brenner, di Giovanni Arrighi e di una teoria della crisi che si fonda teoreticamente sul
valore per fornire l’armatura logica e storica dell’impianto complessivo della propria teo-
ria». Affronterò più avanti questo contraddittoria combinazione.
Sviluppando una rappresentazione storica della rivolta come atto sociale di ribellione
e la teoria della sua emergenza come principale forma di lotta, Clover attinge a molte
correnti del marxismo e del più vasto pensiero di sinistra, dando alla propria narrazione
un certo carattere eclettico.
In primo luogo paga un breve omaggio all’analisi sulle origini del capitalismo nell’agri-
coltura inglese sviluppata da Robert Brenner e Ellen Meiksins Wood. Un’analisi importan-
te per l’enfasi sulla natura espansionistica del capitalismo. Scrive Wood:

Questo sistema era unico nel suo dipendere da un’espansione intensiva, distinta da
quella estensiva; nell’estrazione del valore del surplus creato nella produzione, che è
cosa diversa dal profitto nella sfera della circolazione; nella crescita economica basata
su un incremento di produttività e nella competizione all’interno di un mercato unico:
in altre parole, nel capitalismo.

Ovviamente questa è la visione che Marx aveva del sistema. Non è tuttavia su questa
base teoretica che Clover sviluppa la teoria dell’emergente centralità della rivolta fissan-
do la periodizzazione alla base della propria proposta. Si basa invece sul suo opposto, su
quello che Wood ha definito il «modello della commercializzazione», associato alle teorie
di Henri Pirenne, Fernand Braudel, Giovanni Arrighi e altri. In questa visione il capitali-
smo si estende «dall’Italia del xiii secolo fino all’Occidente dei nostri giorni», per usare
le parole di Braudel, e viene generato dall’espansione del commercio. Sia il tempo che lo
spazio pongono questa teoria in ulteriore contrasto con le tesi di Brenner e Wood.

«Circolazione» i: ritorno al futuro?

L’idea di Clover di dividere la storia in periodi di circolazione, industria o produzio-


ne, e poi dagli anni Settanta ancora circolazione, è presa in prestito da Il lungo xx se-
colo di Giovanni Arrighi. In quest’opera, e quindi anche in quella di Clover, la «formula
generale del capitale», D-M-D (ossia Denaro-Merce-Denaro), si divide in D-M nell’in-
dustria e nella produzione, e M-D nella fase finanziaria che designa quello che Arrighi,
ispirato da Henri Pirenne, vede come un ciclo ricorrente di finanza-industria-finanza,
a partire dal Medioevo.
L’opera storica di Arrighi, in tutto il suo acume, si basa sul «modello della commercia-
lizzazione» sviluppato in maniera pionieristica da Pirenne e criticato da Brenner e Wood
per la tesi secondo la quale il capitalismo si svilupperebbe dall’espansione dei traffici e del
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commercio. Nella prospettiva della commercializzazione la formula D-M-D si applica allo


stesso modo alla circolazione del capitale in praticamente tutti i sistemi economici.
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Almeno in quella forma, è un completo circuito del
capitale. Ma la circolazione, come Marx la definisce, ver-
rebbe meno nell’opera di Arrighi e Clover, con la separa-
zione della semplice formula D-M-D in distinte epoche
di sviluppo economico. In D-M di per sé non c’è alcuna
realizzazione del valore, alcuna espansione, neanche un
mero margine di profitto per il commerciante.
Inoltre in Marx la formula D-M-D è grossomodo un tano dalla produzione, verso la finanza
processo di scambio vincolato a una scadenza, non un e la speculazione. Ma in termini di flus-
processo in cui ogni metà rimane fissa per un’epoca, che si economici globali (ossia circolazio-
si tratti della circolazione nella pratica del mercante me- ne) lo scambio di merci è ancora molto
dievale di «comprare al fine di rivendere a un prezzo più più consistente dei servizi, per non par-
elevato», come scrive Marx, o del sistema dinamico di au- lare dei flussi finanziari.
to-espansione tipico del modo di produzione capitalista, Secondo uno studio del 2014 del
per rimanere più vicini all’epoca futura della circolazione. McKinsey Global Institute nel 2012 lo
La semplice formula generale D-M-D rappresenta una scambio di merci su scala mondiale va-
base sovraccaricata dalla costruzione di un’ambiziosa ar- leva 17,5 bilioni di dollari, pari all’80%
chitettura, edificata con sette secoli di storia economica. dei flussi economici globali, mentre i
Anche mettendo da parte i problemi derivati dall’uso e servizi pesavano solo per 4,2 bilioni di
dalla misura di D-M-D, davvero ci troviamo o stiamo per dollari. I flussi finanziari, che includo-
entrare in un’era di «circolazione» o di dominio finanziario, no gli investimenti diretti esteri (Fdi), i
in cui la produzione è diventata secondaria? La risposta è fondi di investimento a capitale proprio
no, nella misura in cui Clover tende a eguagliare la crescita e le obbligazioni, assieme ai depositi e
del settore finanziario, ossia l’epoca della finanziarizzazio- ai prestiti esteri, ammontano a solo 3,9
ne, con l’avvento di un nuovo periodo di circolazione. bilioni di dollari, ossia al 15% dei flussi
C’è un debito enorme in tutto il mondo e questo, as- economici mondiali. (Secondo l’Onu
sieme a tassi di profitto incerti, ha spostato i profitti lon- «finanza e assicurazioni» valgono assie-
me per l’11,4% dei servizi commerciali
di esportazione delle economie svilup-
pate nel 2013, e molto meno per le economie dei paesi in via di sviluppo). Dal 1980 al
2004 i flussi finanziari sono rimasti una piccola percentuale dei flussi economici globali
complessivi, in lieve crescita dal 2004 al 2007. Solo nel 2007 si sono avvicinati ai flussi
delle merci e solo per un anno, all’apice della speculazione immobiliare e finanziaria che
ha preceduto la Grande recessione, prima di cadere a terra. La finanziarizzazione, come
regime dominante del capitalismo, a quanto pare ha vissuto un’epoca davvero breve.
E le finanze, che sono sempre un aspetto necessario del capitalismo, non sono cre-
sciute più velocemente delle merci e dei servizi su scala mondiale, negli ultimi anni.
Il traffico globale di merci è cresciuto di circa l’undici per cento ogni anno dal 2002 al
PRIMAVERA 2019

2012, e quello dei servizi è cresciuto del 10%, mentre il flusso finanziario è cresciuto di
solo il sei per cento all’anno, in media.
Bisogna anche tenere presente che mentre gli investimenti diretti esteri (Fdi) sono
considerati parte dei flussi finanziari nel rapporto McKinsey, secondo l’Onu invece solo
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il venti per cento dello stock accumulato su scala globale di fondi di investimento esteri
va considerato come «finanza». Il che rappresenta una buona quota finanziaria, ma non
basta per definire la nostra epoca come quella del «capitale finanziario».
Nell’economia statunitense al picco della produzione negli anni Sessanta i profitti
delle società che si occupavano di finanza equivalevano a circa il quindici/sedici per
cento dei profitti globali delle aziende degli Stati uniti; raggiunsero circa il 20% alla fine
degli anni Ottanta per poi arrivare brevemente a un picco del 25% nel 2007, poco prima
della Grande recessione. Da allora sono scesi a una quota che sta tra il 20 e il 22%.
Mentre il livello dei profitti della finanza è evidentemente cresciuto nel tempo in
conseguenza dell’aumento del debito e delle turbolenze dei tassi di profitto, le società
non finanziarie ancora sono responsabili per il settantacinque/ottanta per cento dei
profitti totali. Si tratta di una crescita, certo, ma non segna né un dominio né una nuova
fase di circolazione staccata dalla produzione.
È anche obsoleto l’esempio di Clover secondo cui «i produttori statunitensi di auto-
mobili ottengono sempre più profitti non dalla produzione bensì finanziando acquisti
di consumo con linee di credito interne». La General Motor ha smantellato le sue linee
di credito nel 2006 e la Crhysler nel 2010, al fine di ridurre il debito e per concentrarsi
sulla produzione automobilistica. Solo la Ford conserva il suo programma di credito.
La General Electric ha fatto lo stesso per concentrarsi sulla produzione manifatturiera,
come parte di un movimento complessivo del capitale statunitense
volto ad allontanarsi dalla conglomerazione, per muoversi verso la
produzione nei principali settori merceologici attraverso procedu- VIVIAMO IN UN’ERA
re di fusione e acquisizione che si sono accelerate a metà anni No- CARATTERIZZATA
vanta. Come abbiamo visto sopra, in contrasto con quanto implica- DA CIRCOLAZIONE
to dalle tesi di Clover, troviamo produzione anche di beni materiali E DOMINIO DELLA FINANZA
a livelli più alti del passato in tutto l’Occidente, inclusa l’economia IN CUI LA PRODUZIONE
statunitense, nonostante un considerevole spostamento della pro- È DIVENTATA SECONDARIA?
duzione manifatturiera verso le zone delle economie dell’est e del LA RISPOSTA È NO
sud del pianeta.
Anche la forza lavoro manifatturiera statunitense, molto ridi-
mensionata, produce adesso quattro volte quel che produceva negli anni Sessanta e
due volte quanto produceva nei primi anni Ottanta, all’inizio dell’era neoliberale. Il
tentativo di Clover di costruire una base teoretica per una distinta era di circolazione
sotto il modo di produzione capitalista semplicemente non tiene, da un punto di vista
teoretico come da un punto di vista empirico.

«Circolazione» ii: produzione come movimento

Al tempo stesso nell’uso molteplice e flessibile che Clover fa del termine «circolazione»
c’è qualcosa di più di un semplice gioco di prestigio. Ad esempio è fuorviante la sua tesi per
cui la crescente forza lavoro assunta nel trasporto o nel magazzinaggio – in imprese come
Ups o nella logistica – apparterrebbe al regno della circolazione, secondo lo schema M-D,
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in opposizione alla produzione, perché questi lavoratori si limiterebbero a muovere cose.
Confondere i circuiti del capitale analizzati da Marx col movimento spaziale di mate-
riali e merci lungo le catene di rifornimento contemporanee, e con la logistica nel proces-
so della produzione, da un lato conduce alla fusione tra valore d’uso e valore di scambio,
dall’altro sembra un semplice gioco di parole. Sebbene vincolato a scadenze temporali
dalle forze della competizione, il processo produttivo non è qualcosa che avviene in un
tempo o in uno spazio specifico. La produzione di merci procede evidentemente attra-
verso catene di rifornimento che vanno dai materiali grezzi fino al parco macchine, attra-
verso parti intermedie e lavori in corso d’opera per arrivare finalmente al prodotto finito.
In questo processo ogni passo implica il movimento di valori d’uso materiali, che siano
vicini o lontani, considerati come input produttivi.
Il capitale circola attraverso questi processi produttivi non come una sfera separa-
ta, neanche al livello di catene di rifornimento globali, ma come
un aspetto essenziale della produzione. La circolazione di capitale
LA CIRCOLAZIONE NON È è fondamentale in questo processo produttivo. Dato che le mer-
UNA SFERA SEPARATA: ci devono cambiare ubicazione sia durante la produzione che per
LE MERCI DEVONO ESSERE raggiungere il mercato, Marx scrisse nei Grundrisse: «Il trasporto al
SPOSTATE SIA DURANTE mercato (condizione spaziale della circolazione) rientra nel processo
LA PRODUZIONE di produzione».
CHE PER RAGGIUNGERE Il movimento è lo stato naturale delle merci all’interno (e tra) ogni
IL MERCATO fase della produzione fino alla vendita finale e alla realizzazione del
plusvalore. Inoltre i treni, i camion, i container, i muletti, i magazzini, i
porti, i terminal, ecc., che questi lavoratori attivano per creare plusva-
lore sono parte del capitale fisso, proprio come l’equipaggiamento di una catena di mon-
taggio in uno stabilimento automobilistico. Si chiede Toscano: «Un porto dei giorni nostri
non è forse più una fabbrica (nell’essenza e nell’aspetto) che un mercato?».
Si può dire lo stesso di un magazzino o di un centro di distribuzione moderno, il cui nu-
mero negli Stati Uniti è cresciuto del 150% dalla fine degli anni Novanta. Infatti Marx è stato
chiaro sul fatto che anche gli elementi mobili del capitale fisso, come «una locomotiva, una
nave» e oggi un camion, sono capitale fisso, invariabile, nel processo produttivo, nel senso
che il loro valore è fissato come quello di una macchina immobile.
Al tempo stesso gran parte del capitale fisico implicato nel movimento dei materiali è
stazionario, così come gran parte degli operai (quelli che lavorano nei magazzini statuni-
tensi sono 843 mila). Scrive David Harvey: «La mobilità spaziale delle merci dipende dalla
creazione di una rete di trasporti che nello spazio risulta immobile».
Siano stazionari o in movimento, molti degli operai di questi lavori connessi al tra-
sporto delle merci producono plusvalore, come sostiene Marx nel secondo volume del
Capitale. Sono parte della produzione e ce ne sono molti di più adesso che venti anni fa
PRIMAVERA 2019

o giù di lì. E ovviamente tutti questi lavoratori che muovono beni strumentali, materiali
grezzi, semilavorati e prodotti finiti non si troverebbero di fronte un numero crescente di
posti di lavoro se non avessero da muovere nient’altro che asset finanziari digitalizzati.

La «sovrappopolazione»
N. 2

Clover usa la ben nota citazione da Marx sull’aumento della «sovrappopolazione» o sull’e-
sercito industriale di riserva e sulla pauperizzazione come «legge generale assoluta dell’ac-
cumulazione capitalista» per puntellare il suo stesso argomento secondo il quale questa
eccedenza di popolazione «è ricentrata dalla riorganizzazione economica dalla sfera della
produzione in quella della circolazione».
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Questo significa probabilmente che il «surplus di popolazione» o l’esercito industriale
di riserva sono ridotti a una legione di consumatori, anche se non «nel senso popolare del
termine», osserva Clover, dato che non hanno un salario da spendere. È difficile, a dirla
tutta, immaginare un gruppo sociale meno adatto a far parte del campo capitalista della
«circolazione» che, tutto sommato, richiede la spesa di denaro su una scala significativa.
Le razzie dei negozi che capitano spesso nelle rivolte non sostituiscono il consumo nel
sistema né lo danneggiano, e tanto meno di fatto intaccano in maniera significativa le gran-
di concentrazioni di capitale. Ad ogni modo l’esercito industriale di riserva esiste al di fuori
della circolazione del capitale fino a quando una sua parte viene trascinata in una qualche
forma di produzione.
Clover ha ragione sul fatto che ci sia stata una crescita dell’esercito industriale di riser-
va o un’eccedenza di popolazione negli ultimi due o tre decenni e in forma più accentuata
a partire dalla Grande recessione. Tuttavia la citazione dal Capitale utilizzata da lui e altri
sul ruolo dell’incremento di produttività nella creazione di un «surplus di popolazione»
non è il punto di arrivo dell’analisi di Marx attorno alle dinamiche di occupazione, disoc-
cupazione e accumulazione sotto il capitalismo.
Nel contraddittorio processo di auto-espansione dell’accumulazione di capitale (per tor-
nare a Brenner, Wood e a molti storici ed economisti marxisti) l’esercito industriale di riserva
serve da prerequisito necessario per l’espansione della produzione (anche se una consistente
porzione di questa popolazione rimane a
lungo inutilizzata, e una piccola parte an-
che in maniera permanente). Scrive Marx: a chi lavora part-time per ragioni economiche), mentre la
forza lavoro cresce attingendo braccia dall’esercito di ri-
Ma se una sovrappopolazione operaia serva.
è il prodotto necessario dell’accumulazio- Nonostante il ritmo lento della ripresa statunitense il
ne, ossia dello sviluppo della ricchezza su numero degli occupati nel settore privato della produzio-
base capitalistica, questa sovrappopola- ne e dei lavoratori non supervisionati è cresciuto da ot-
zione diventa, viceversa, la leva dell’accu- tantotto milioni e 673mila del settembre 2010 a centodue
mulazione capitalistica e addirittura una milioni e 463mila del settembre 2017.
delle condizioni d’esistenza del modo di Nel periodo neoliberista cominciato alla fine degli anni
produzione capitalistico. Settanta l’accelerata transizione del capitale da un’indu-
stria a un’altra, dalla produzione di merci alla produzione
Pertanto, mentre a partire dal 2009 di servizi nell’economia reale, ha preso la forma familiare
l’agonizzante ripresa procede lenta- del declino dell’occupazione manifatturiera: una sorta di
mente, la produzione aumenta comun- “muta”, di trasformazione dei lavori attraverso aumenti di
que silenziosamente e i tassi di disoc- produttività, razionalizzazione o rilocazione da un lato,
cupazione scendono fino al picco della dall’altro da un aumento di investimenti e di occupazione
misura U-6 rate per tutti i gruppi sociali in quelle che si possono definire le industrie dei servizi,
(l’etichetta U-6 indica le persone di- un cambiamento reso sostenibile in genere da bassi salari.
soccupate che cercano un’occupazione Alcuni di questi lavori dovevano incontrare la crescente
full-time assieme ai lavoratori già oc- domanda di riproduzione sociale, soprattutto nel settore
cupati per un numero ristretto di ore e privato degli Stati Uniti, altri hanno a che fare con la manu-
tenzione degli asset fissi del capitale, in perpetua espansio-
ne, altri si occupano di ripulire i disastri che il capitale pro-
duce, altri ancora hanno a che fare con la movimentazione
di materiali e merci: tutti sono conseguenza dell’attuale
accumulazione, anche a un ritmo più lento.
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Il veicolo per la transizione della manodopera da un


settore a un altro, come sosteneva Marx, è il turnover
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dell’esercito industriale di riserva. La mera crescita della
popolazione non basta a fornire manodopera per tutti
questi lavori, che possono essere eseguiti solo da un eser-
cito di riserva di adulti abili e disponibili, alcuni dei qua-
li negli anni recenti sono prelevati dall’esercito di riserva
globale grazie all’immigrazione.

Un esercito di riserva, non un corpo permanente Per i maschi, i cui tassi di partecipa-
zione alla forza lavoro sono diminuiti
Nonostante gli afroamericani e gli ispanoamericani co- in maniera significativa, nondimeno
stituiscano una percentuale sproporzionata dell’esercito di abbiamo diciassette milioni e 851 mila
riserva, la sovrappopolazione non rappresenta un corpo lavoratori che sono entrati nella for-
permanente di individui, come implicato invece dall’analisi za lavoro, mentre tredici milioni e 949
di Clover. Piuttosto, come abbiamo visto sopra, è una base mila ne sono usciti. Nello stesso periodo
potenziale ricorrente per un’ulteriore espansione, senza la quattro milioni e 947 mila afroamerica-
quale il capitale non può crescere. Il ciclo di sviluppo del ni sono entrati nella forza lavoro, men-
capitale, con «periodi di vitalità media, di produzione con tre due milioni e 712 mila ne sono usciti.
massimo impegno, di crisi e di stagnazione [...] ha per fon- Si noti che tra gli africani la proporzione
damento la continua costituzione di un esercito industriale tra chi entra e chi esce è più alta della
di riserva o di una popolazione eccedente». media: ovviamente questo accade non
Questo è chiaro nelle cifre di chi entra e di chi lascia perché i lavoratori neri sono benestan-
la forza lavoro. Tra il 2004 e il 2014 33 milioni e 880 mila ti, ma probabilmente perché hanno più
lavoratori sono entrati a far parte della forza lavoro civile necessità dei bianchi di cercare lavoro
statunitense, mentre venticinque milioni e 360 mila lavo- dato che hanno meno risorse su cui fare
ratori ne sono usciti. Pertanto la forza lavoro è cresciuta affidamento, e pertanto vengono carat-
di otto milioni e mezzo di lavoratori, dai 147 milioni e 401 terizzati come disoccupati piuttosto che
mila del 2004 ai 155 milioni e 922 mila del 2014, nonostan- «non nella forza lavoro».
te la Grande recessione. A dicembre del 2017 il tasso di di-
soccupazione ufficiale era per i neri del
6,6%e per i bianchi del 3,7, mentre la
proporzione dei lavoratori occupati e di quelli «non nella forza lavoro» era dell’1,6 % per
i bianchi e dell’1,5% per i neri. Quel che risulta chiaro da questi dati è che nel processo
di formazione dell’esercito di riserva o della «sovrappopolazione» c’è un vasto e costante
turnover, come indica lo stesso Marx. È anche chiaro che gli afroamericani e gli ispano-
americani che lasciano l’esercito di riserva inevitabilmente si trovano a gravitare nella
fascia dei lavori sottopagati.
Guardando a chi è assunto nel settore dell’economia di cui si è parlato sopra, ossia
quello in espansione dei «servizi», qualcos’altro diventa evidente: si tratta di lavori per-
PRIMAVERA 2019

lopiù con bassi salari realizzati, in maniera sproporzionata, da lavoratori afroamerica-


ni o ispanoamericani. Pertanto mentre i lavoratori di colore perdono i lavori ben pagati
nell’industria manifatturiera e si spostano nella disoccupazione o fuori dalla forza lavoro
per un certo periodo di tempo, a volte anche lungo, alcuni di loro o altri lavoratori come
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loro si sono spostati per impiegarsi in un settore in espansione di lavori a basso salario,
talvolta precari, spesso privi di prospettive.
In questo processo il capitale ha ricreato la gerarchia razziale di impiego che era sta-
ta in un certo modo modificata durante il periodo di crescita economica successivo alla
Seconda guerra mondiale, grazie alle conquiste dei diritti civili e agli alti livelli di sinda-
calizzazione. Se il surplus di popolazione è razzializzato, allora anche la forza lavoro è
razzializzata.
Questo è un punto fondamentale a proposito di gerarchia e conflitto sociale che non
appare in Riot. Strike. Riot. Il razzismo e la rabbia che produce tra le sue vittime non è in
prima istanza una questione di circolazione o consumo contro la produzione. Ha a che
fare piuttosto col posto di neri e ispanoamericani nel processo di accumulazione del ca-
pitale inteso in maniera complessiva, sia ai nostri giorni che in chiave storica.
Come ha dimostrato con considerevoli dettagli analitici ed empirici lo storico marxista
Howard Botwinick nella sua opera Persistent Inequalities, contrariamente all’idealizzazio-
ne della teoria neoclassica sul livellamento dei salari, la diversità dei salari e la loro gerar-
chizzazione all’interno della stessa classe lavoratrice sono il risultato della competizione
capitalistica e di un diversificato processo di accumulazione.
Le «persistenti ineguaglianze» create e riprodotte nel processo di competizione e ac-
cumulazione sono la base che soggiace alla gerarchia, razzializzata e connotata dal pun-
to di vista di genere, dell’occupazione lavorativa negli Stati uniti e altrove.
Mentre le radici dell’ineguaglianza razziale e di genere sono anteriori al
capitalismo, l’accumulazione capitalistica non di meno riproduce la ge- LE DISUGUAGLIANZE SONO
rarchia e l’ineguaglianza nell’occupazione e nelle entrate salariali anche LA BASE CHE SOGGIACE
all’interno della classe lavoratrice, e quindi si riflette nell’educazione, negli ALLA GERARCHIA
alloggi, ecc. RAZZIALIZZATA
In The Production of Difference David Roediger e Elizabeth Esch hanno E CONNOTATA DAL PUNTO
mostrato, in maniera specifica e su base storica, come il capitale razzializ- DI VISTA DEL GENERE
za questa gerarchia occupazionale diversificata – a volte con la collabora- DELLA FORZA LAVORO
zione della manodopera bianca – e come questa gerarchia venga interio-
rizzata come “normale” tra molti operai e manager bianchi.
Per cominciare a comprendere le condizioni che hanno prodotto il senso di ingiustizia
o la rabbia che spinge le vittime di queste disuguaglianze – siano occupate o disoccupa-
te – a ribellarsi, manifestare, scioperare, fare sit-in, occupare, resistere e opporsi in molti
modi, bisogna guardare al processo di accumulazione nel suo insieme, senza considerar-
lo semplicemente l’arena del consumo. Certo, il razzismo ha vita propria, ha una relativa
autonomia che lo fa valere in ogni aspetto dell’esistenza sociale, ma viene nondimeno co-
stantemente riprodotto e rafforzato nel processo stesso dell’accumulazione capitalistica.
Cosa dire allora della tesi centrale di Clover? La «rivolta» sta diventando davvero la for-
ma principale della lotta sociale? Nessuno mette in discussione il fatto che la forma con-
venzionale dello sciopero è in calo a partire dai primi anni Ottanta fino al picco negativo
dei nostri giorni e che rimarrà così nei paesi capitalisti sviluppati, anche tra gli operai
manifatturieri, per ragioni che sono state analizzate e dibattute frequentemente, molte
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delle quali hanno poco a che fare con il declino dell’occupazione dell’industria manifat-
turiera di per sé.
Ma ne deriva che questo periodo vede o vedrà l’emergere della rivolta come forma
principale di ribellione sociale? Al riguardo il determinismo di Clover che collega «circola-
zione» e rivolta si schianta contro il fatto che l’apice storico delle moderne rivolte e ribel-
lioni statunitensi, in gran parte con base afroamericana e urbana, si è avuto a metà degli
anni Sessanta, quando la produzione era ancora in forte espansione, la disoccupazione
era relativamente bassa e in diminuzione (sempre più alta per i neri, ma in diminuzione)
e molti di quelli che parteciparono alle rivolte, da Watts a Detroit fino a Newark, erano
operai occupati e sindacalizzati.
È emblematico di quel periodo che all’indomani della rivolta di Detroit del 1967 la
rivista radicale nera di Detroit Inner City Voice abbia dichiarato che nonostante «abbiamo
dato un calcio nel sedere alla struttura del potere bianco [...] stiamo
ancora lavorando, stiamo ancora lavorando troppo duramente, sia-
L’APICE DELLE RIVOLTE, mo pagati troppo poco, viviamo in case pessime, mandiamo i nostri
IN GRAN PARTE CON BASE bambini in scuole sotto gli standard minimi, paghiamo troppo cari i
AFROAMERICANA generi alimentari e siamo trattati come cani dalla polizia».
E URBANA, SI È AVUTO «Stiamo ancora lavorando» e tuttavia «viviamo in case pessi-
A METÀ ANNI SESSANTA, me», «trattati come cani dalla polizia», sebbene assunti, ovvia-
QUANDO LA PRODUZIONE mente con un salario inadeguato. Soltanto nella “lunga estate
ERA IN ESPANSIONE calda” di quell’anno ci furono 159 rivolte nelle città statunitensi.
I fattori economici giocarono un ruolo in queste sollevazioni e da
sola la disoccupazione non basta a spiegare queste rivolte, dato
che l’occupazione era relativamente alta e la risacca della deindustrializzazione an-
cora di là da venire.
Gli abusi sul posto di lavoro e le condizioni sociali in genere erano sufficienti a pro-
durre la rabbia che sta alla base delle rivolte. Molte erano scatenate da incidenti di raz-
zismo, compiuti di solito dalla polizia, ieri come oggi. Quella stessa rabbia si espresse
dopo l’omicidio del più famoso leader dell’America nera: in seguito all’assassinio di
Martin Luther King, nell’aprile del 1968, scoppiarono rivolte in più di un centinaio di
città degli Stati uniti.
La struttura complessiva del razzismo – nel lavoro, nel salario, negli alloggi, nell’edu-
cazione, nella disoccupazione e nella violenza della polizia – era e rimane alla base della
rabbia che provocò le insurrezioni seguite a pesanti provocazioni.
Clover ha ragione a considerare le rivolte degli anni Sessanta una transizione dalla fase
“legale” (ma anche provocatoria) del movimento per la liberazione dei neri verso una
fase più esplosiva, ma il suo tentativo di classificare gli anni Sessanta e i primi Settanta
come l’inizio di una transizione verso l’era della circolazione e pertanto delle rivolte non
PRIMAVERA 2019

è convincente.
È un errore analitico perché l’occupazione nel campo della produzione era ancora re-
lativamente elevata e sarebbe rimasta tale negli anni Settanta anche nel comparto mani-
fatturiero, nonostante il crollo del 1974-75; è un errore empirico perché il numero delle
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rivolte, in tutto il decennio e su base annuale, è diminuito dopo gli anni Sessanta per
almeno quarant’anni.
Da Watts a Baltimora, la traiettoria delle rivolte non procede in maniera lineare e nean-
che in forma irregolare, seguendo un arco, come sostiene Clover.
C’è stata una lunga pausa, negli Stati uniti come in tutto il mondo, fino al 2005, quando
le cose sono improvvisamente accelerate prima di decollare intorno al 2010-11 con le Pri-
mavere arabe. Considerando il crescente numero di rivolte urbane degli ultimi anni, non
c’è stato alcun altro periodo negli Stati uniti (e negli altri paesi sviluppati) che sia andato
tanto vicino al numero di rivolte urbane degli anni Sessanta e all’alto e crescente livello di
scioperi e di rivolte sindacali tipici di quell’epoca di brusche sollevazioni sociali.
Se dovessimo derivare una teoria dall’esperienza degli anni Sessanta e dei primi anni
Settanta potremmo sostenere probabilmente che le lotte e le sollevazioni sociali di lavo-
ratori, disoccupati, persone razzialmente oppresse e donne tendono a crescere e a cadere
più o meno simultaneamente, anche se non in maniera regolare.

La doppia rivolta di giovani e razzializzati

Nell’analisi di Clover la crescita e la convergenza di rivolte, occupazioni e altre azioni


nelle strade, nelle piazze e nelle autostrade dovranno (inevitabilmente?) culminare nel-
la comune, come società che trascende
il capitalismo, i rapporti salariali e il
consumo come fonte di profitto. Tutta- Ma il problema è più grande di questa comune idealiz-
via al contrario delle rivolte nelle strade zata. Ogni cambiamento delle relazioni sociali e dei siste-
e nelle piazze la comune secondo Clo- mi economici richiede l’agire umano.
ver «non è un posto» come la comune Se il nucleo di membri occupati della classe lavoratrice
di Parigi ma «una relazione sociale». non è più il principale candidato, quale forza sociale occu-
Non bisogna essere David Harvey per perà questo ruolo?
comprendere che, anche nell’era di in- Clover non ha dubbi sul fatto che la sovrappopolazio-
ternet, gli esseri umani e le loro società ne razzializzata sia in pole position come agente di cam-
sono radicati su coordinate spaziali e biamento nella nuova era della circolazione. La risposta
temporali anche se i loro luoghi si mol- completa, tuttavia, il culmine di questo discorso di 180
tiplicano, si espandono globalmente e i pagine, spesso prolisso ma ben scritto, si trova in questa
loro abitanti migrano da un luogo a un brano succinto:
altro. Il luogo è una dimensione essen-
ziale della condizione umana. La forma di questa doppia rivolta è abbastanza chiara.
Una rivolta scoppia quando i giovani scoprono che le stra-
de che un tempo promettevano un minimo di integrazione
formale garantita nell’economia sono oggi state pignorate.
Un’altra rivolta scaturisce dal surplus di popolazione raz-
zializzata e dalla violenza dell’amministrazione statale. Nel
primo caso i rivoltosi possiedono delle cambiali prive di va-
lidità. Nel secondo caso, i rivoltosi non hanno proprio nulla.

Clover riconosce le difficoltà di mettere assieme i due


elementi ma non è questo il problema più grosso. Il pro-
blema principale è che entrambi i partecipanti a questa
«doppia rivolta» possono per un certo periodo fermare la
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società in uno o più posti, giocando un ruolo nei più ampi


movimenti per il cambiamento sociale, ma nessun grup-
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po possiede molto potere sociale o capacità di resistenza sulla lunga distanza. La loro
stessa separazione dalla produzione evidenzia la loro relativa debolezza sociale.
Inoltre ancora oggi i giovani sono divisi per classi sociali e hanno quindi diverse aspi-
razioni e possibilità. Gli studenti laureati frustrati, con minori prospettive riguardo la
propria carriera accademica, o quelli che frequentano un master in Business, si trovano
nella stessa posizione dei giovani che hanno studiato di meno e ora sono intrappolati in
un lavoro da McDonald’s o peggio?
E quel che è più importante è il fatto che, anche unendo le forze, i giovani e la parte
attiva dell’esercito industriale di riserva rappresentano solo una minoranza del proleta-
riato nel suo complesso o anche solo del proletariato razzializzato, e nemmeno in quan-
to giovani, generalizzando, sono parte del proletariato o ne condividono l’esperienza.
Clover sta forse pensando a una vittoria rivoluzionaria o a una comune realizzata da
e per una minoranza? La sua è forse una versione urbana, da Primo
mondo, della teoria guerrigliera del «focolaio» elaborata da Régis
DI RECENTE I MOVIMENTI Debray negli anni Sessanta, ma scritta in forma più elaborata e sen-
STATUNITENSI HANNO za la disciplina centrale? E che dire della visione di un socialismo
MESSO IN PIEDI FORME dal basso, democratico e maggioritario, la cui forma politica venne
DI SCIOPERO POLITICO suggerita a Marx dalla comune di Parigi, radicata in un luogo ben
FUORI DALLO SPAZIO preciso?
DELLA CONTRATTAZIONE Quale ruolo ha nella prospettiva di Clover – se ne ha uno – il va-
COLLETTIVA sto numero di cento milioni e più di lavoratori assunti nel settore
privato della produzione o tra i lavoratori non supervisionati, le cui
mani impugnano le leve, a bassa o alta specializzazione tecnologi-
ca, della produzione, della distribuzione e dei servizi sociali, molti dei quali incastrati
in una realtà che vede un aumento intensivo del lavoro, salari stagnanti o in decrescita
e un futuro senza pensione?
Che dire dei sette milioni circa di lavoratori del settore pubblico ora sotto attacco,
che sono anche parte di un più ampio proletariato? Questo gruppo di persone appar-
tenenti alla classe lavoratrice, assieme ai loro colleghi e dipendenti, hanno visto le loro
cambiali diventare cartastraccia. E hanno sia i numeri che un gran potenziale di forza
in più rispetto all’esercito di riserva in eccesso e ai giovani disoccupati o sottoccupati,
messi assieme.
Potremmo anche chiederci: che dire della maggioranza bianca di quell’esercito di
riserva in eccesso? Fanno in qualche modo parte dello scenario (anzi, del «focolaio»),
assieme a quelli «che non fanno parte della forza lavoro»?
Guardando l’altro lato dell’equazione rivolta/comune, che dire della classe capita-
lista, dei suoi arrampicatori sociali, dei loro protettori militari? I ricchi si limitano a
imbarcarsi, coi militari al seguito, verso i loro paradisi fiscali per scambiarsi modelli
PRIMAVERA 2019

di marketing verticale come lo Schema Ponzi? Non ci sono qui né strategia né attori in
gioco, e nessuna forma di determinismo. La comune aspetta un attore sociale o attori
con sufficiente potere da crearla e un luogo sulla terra dove realizzare la sua costruzio-
ne materiale.
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In ultima analisi la periodizzazione di Clover non funziona. La sua economia bifor-
cata non rappresenta il vero capitalismo. Il suo uso della formula della circolazione di
Marx e lo schema teoretico che cerca di derivare da questa, non reggono a un’attenta
analisi. Il determinismo che informa tutta la sua teoria non riesce a portare a termine il
risultato che ha promesso.
È un peccato perché Clover è sulla pista giusta quando vede una crescita generale della
resistenza e dell’attivismo d’opposizione e di disturbo, da Seattle a Occupy a Ferguson ne-
gli Stati uniti, le Primavere arabe e altre forme di resistenza in giro per il mondo, per non
parlare di altri eventi realizzatisi dopo la pubblicazione del suo libro, come le mobilitazio-
ni anti-Trump che hanno seguito la sua elezione e che si sono protratte anche in seguito.
Le rivolte e le insurrezioni urbane di sicuro faranno parte di questa rinnovata onda-
ta di resistenza e di attivismo, perché le ragioni che le provocano e le alimentano non
scompariranno senza un profondo cambiamento sociale.
I recenti movimenti di opposizione, tuttavia, non si basano solo – neanche prima-
riamente – sulla «sovrappopolazione» e non è assolutamente inevitabile che saranno le
rivolte a dominare le molteplici forme di azione che già vediamo all’orizzonte, assieme
a quelle che ancora non sono comparse sulla scena.
Tra le varie forme di lotta Clover rimuove la svolta compiuta da vari movimenti statu-
nitensi proprio verso lo sciopero, stavolta realizzato fuori dallo spazio formale della con-
trattazione collettiva (e dalle statistiche governative) e pensato spesso in chiave politica.
Gli scioperi di massa dei lavoratori immigrati del 2006 e del 2016; lo sciopero delle donne
dell’8 marzo 2017 e 2018; i camionisti ispanoamericani nel porto di Los Angeles, senza
alcun accordo di contrattazione collettiva, che però hanno scioperato quindici volte negli
ultimi quattro anni; i tassisti di New York che hanno scioperato brevemente per protesta-
re contro il travel-ban di Trump contro i musulmani, come hanno fatto i dipendenti di
Google (anche se alla fine si è aggiunto il loro illuminato amministratore delegato); fino
all’uso saltuario dello sciopero negli ultimi sette anni dal movimento Fight for $15 tra i
lavoratori dei fast food, i Chicago Teachers Union e gli insegnanti del West Virginia.
È qualcosa di nuovo nella politica statunitense che merita attenzione e analisi. Per
essere precisi, tutti questi esempi rappresentano dei tentativi e non equivalgono allo
sciopero di massa analizzato da Rosa Luxemburg o allo sciopero generale propugnato
da Georges Sorel, discusso da Clover nel suo quinto capitolo. Ma come potrebbero que-
sti esempi non risuonare nei ghetti e nei quartieri degli Stati uniti e nei luoghi di lavoro
in cui si sgobba sotto pressione, per paghe più o meno basse?
L’epoca di turbolenze economiche descritta da Clover non sembra destinata a scom-
parire. L’enorme pressione sulla forza-lavoro in quasi tutti i settori è provocata da anni
di metodi di lean production, logistica just-in-time e dai recenti progressi nelle strategie
di sorveglianza, finalizzati alla standardizzazione totale e all’accelerazione del lavoro:
tutto questo indica la possibilità (non l’inevitabilità) di una rinascita di un’azione sul
posto di lavoro, che includa lo sciopero e che, speriamo, vada anche oltre.
In fin dei conti per la maggior parte «stiamo ancora lavorando, stiamo ancora lavo-
rando troppo duramente, siamo pagati troppo poco...». 
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Elizabeth Warren
Bernie Sanders
Kamala Harris
Alexandria Ocasio-Cortez

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DA JACOBIN MAGAZINE PRIMAVERA 2019 N. 2 106
WHAT
La strada che separa il socialista
Bernie Sanders dalla Casa

BERNIE
bianca nel 2020 è ancora lunga
e piena di ostacoli. Eppure
questa anomalia consente di

SHOULD
aprire alcuni scenari. Il primo
riguarda l’essenza stessa della
scommessa: una volta entrato

DO
nella stanza dei bottoni cosa
potrebbe e soprattutto dovrebbe
fare un presidente di sinistra?

Donald Trump
Hillary Clinton

SCIOPERI!
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P
uò un socialista diventare presidente degli Stati uniti d’Ameri-
ca? Ha senso, nel 2020, una nuova sfida di Bernie Sanders per la
Casa Bianca? E cosa dovrebbe e potrebbe fare una volta eletto? A
venti mesi dalle prossime elezioni presidenziali (previste per il 3
novembre 2020), inizia la gara delle primarie. Nel campo demo-
cratico c’è forte attesa per la selezione del candidato in grado di
battere Donald Trump dopo un solo mandato. A differenza di
quattro anni fa, quando Hillary Clinton era già la candidata in
pectore, a oggi non esiste un vero e proprio frontrunner. L’establishment liberal sem-
bra essere ancora frastornato dalla batosta del 2016, quando con Clinton fu sconfitto
un intero sistema di potere e consenso, quello del «neoliberismo progressista», per
usare la felice espressione di Nancy Fraser, che domina il centrosinistra americano da
oltre trent’anni.
Negli Usa tira un’aria nuova: non c’è candidato democratico, oggi, che non abbia
dichiarato il suo appoggio al progetto Medicare for all, cioè l’introduzione di un servi-
zio sanitario nazionale pubblico per tutti negli Stati uniti, che solo tre anni fa Hillary
Clinton definiva «un’idea che non passerà mai e poi mai». L’impressione, in generale, è
che l’elettorato democratico, negli anni della crisi economica, si sia significativamente
spostato a sinistra, e che nella fase di forte polarizzazione della presidenza Trump sia
impossibile competere senza una candidatura dalla forte carica populista.
Il Partito democratico non è ancora (e probabilmente non sarà mai) un partito di si-
nistra alla Sanders, ma non è più (almeno per ora) solo un partito centrista alla Clinton.
Anche se, come ha scritto sul Guardian il direttore di Jacobin Bhaskar Sunkara, «è pro-
babile che nel 2020 le grandi aziende scommetteranno sul Partito democratico forse più
di quanto hanno fatto nel 2016. In circostanze normali, il Partito democratico sarebbe il
loro secondo partito preferito. Con un Trump così imprevedibile in circolazione, diven-
ta spesso e volentieri il primo». L’establishment liberal, non volendo cedere a sinistra
sul piano della linea politica, prova a recuperare questa carica populista appellandosi a
candidati i cui tratti biografici (donne, minoranze etniche, giovani, personalità carisma-
tiche) possano permettere di raccontare una storia di insorgenza in grado di mobilitare
un elettorato giovanile sempre più insofferente. Candidati come Julian Castro, Kirsten
PRIMAVERA 2019

Gillibrand e soprattutto Kamala Harris e Cory Booker, in attesa della possibile discesa
in campo della giovane stella liberal Beto O’Rourke, rappresentano questo: il tentativo
di trovare un “nuovo Obama”, un candidato carismatico, innovativo ed entusiasmante,
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che sappia mobilitare elettorato giovanile, donne e minoranze etniche, restando ben
ancorato ai paletti ideologici del modello centrista. A spaventare l’establishment de-
mocratico è infatti il consenso crescente riscosso da Elizabeth Warren e Bernie Sanders,
due candidati anti-establishment che, per la prima volta in decenni, hanno possibilità
realistiche, per quanto minoritarie, di partecipare alla corsa per la Casa Bianca, e di
giocarsela per vincere.
È a cosa potrebbe davvero fare se fosse eletto il senatore del Vermont che Jacobin
Magazine dedica il tema del numero 32 della rivista, di cui traduciamo qui alcuni arti-
coli. La sua proposta politica suscita a sinistra aspettative ben più forti di quanto faccia
quella di Elizaberth Warren: come spiega l’articolo di Shawn Gude, la senatrice del Mas-
sachusetts è una delle voci più credibili a sinistra all’interno del Partito democratico,
avendo guidato storiche battaglie per la tutela dei consumatori e contro Wall Street, ma
resta una liberaldemocratica, concentrata più sull’attenta regolazione del mercato che
sulla limitazione del suo ruolo, e il suo liberalismo si porta dietro la convinzione che «gli
imprenditori possano essere illuminati, il capitalismo possa essere reso democratico, e
la potenza americana possa essere utilizzata a fini progressivi». Bernie Sanders, inve-
ce, promette cambiamenti profondi. Una presidenza socialista degli Stati uniti, spiega
Meagan Day, potrebbe fare la differenza attraverso l’emanazione di executive orders,
decreti presidenziali in grado di aggirare le prevedibili ostilità parlamentari, su temi
come clima, politica estera, giustizia penale, salario minimo, debito studentesco. Ma
conquistare il governo non equivale a prendere il potere, ricorda l’articolo di David Bro-
der: la storia della sinistra europea dell’ultimo secolo si svolge in gran parte sul crinale
di questa contraddizione, tra mobilitazione di classe e istituzionalizzazione nell’appa-
rato statale. In tempi di rinnovato interesse della sinistra per la conquista dello stato,
Broder ricorda due lezioni fondamentali della storia del Novecento: senza l’organizza-
zione e la mobilitazione di una radicata base sociale e senza la volontà di usare il potere
statale per cambiarne in profondità la natura e i meccanismi, ogni vittoria rischia di
essere effimera. Sulle lezioni storiche e le contraddizioni della politica parlamentare si
concentra anche Eric Blanc: attraverso la vicenda di Meyer London, deputato di New
York al congresso per il Partito socialista tra il 1915 e il 1932, Blanc segnala l’efficacia con
cui il Partito democratico tende storicamente a cooptare e neutralizzare le voci radicali,
e suggerisce la necessità di autonomia nell’organizzazione e nell’agenda politica per i
socialisti al congresso, a cominciare dalle nuove deputate Alexandria Ocasio-Cortez e
Rashida Tlaib.
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I socialisti
CAUCUS

al Congresso
Molto prima di Alexandria Ocasio-Cortez, la città di New
York elesse il deputato della classe operaia Meyer
London. Era il 1915 quando iniziò una lunga storia politica
che è piena di indicazioni utili ancora ai giorni nostri

Meyer London

Eugene Debs
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N. 2
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D
opo decenni di subordinazione bipartisan alle aziende degli Stati
uniti, l’elezione di Alexandria Ocasio-Cortez è una boccata d’aria
di cui si sentiva il bisogno. Prima ancora di assumere il manda-
to, Ocasio-Cortez ha già scatenato un’impennata di adesioni nei
Democratic Socialist of America (Dsa), ha ventilato l’idea di un
nuovo sub-caucus al Congresso [con il termine caucus, si intende
Eric Blanc sia una assemblea di partito che un raggruppamento di eletti], ha
promosso la disobbedienza civile nello staff di Nancy Pelosy e si
è opposta alla richiesta di Amazon di un nuovo quartier generale finanziato dal governo
nel Queens. Come ha scritto in un recente tweet in cui si dichiarava a favore del Green
New Deal e a garanzie per lavori nell’amministrazione federale, è giunto il momento che i
deputati eletti «spingano in avanti il limite di quel che è possibile».
In un contesto caratterizzato da profonda rabbia popolare contro lo status quo, sono
segni incoraggianti. Sia gli amici che gli avversari sono consapevoli che Ocasio-Cortez –
come Bernie Sanders, Rashida Tlaib, Julia Salazar e altri socialisti eletti di recente – posso-
no giocare un ruolo di rilievo, riportando in vita una sinistra working class negli Stati uniti.
Le possibilità politiche sono immense, come anche però le pressioni dall’alto. Le pres-
sioni dei moderati su Ocasio-Cortez aumenteranno in maniera significativa e non è chia-
ro quanto lei sia pronta a rompere con le norme, le politiche e le strutture del Partito
democratico. Insieme a mosse più ribelli, ha anche offerto un ramo d’olivo all’establi-
shment del partito, ad esempio offrendo il proprio sostegno alla candidatura di Nancy
Pelosi come speaker della Camera.
Il Partito democratico forse non è così abile a vincere le elezioni, ma se la cava be-
nissimo se c’è da cooptare movimenti sociali e figure radicali.
Per questo Bhaskar Sunkara, direttore di Jacobin, di recente ha
sostenuto che «per essere sicuri che i nuovi socialisti eletti non Eric Blanc si occupa di
finiscano come i democratici filocapitalisti, serve un caucus al storia del movimento
Congresso per i socialisti democratici». operaio e insegna
Per essere precisi, i socialisti eletti in che modo dovrebbero sociologia alla
comportarsi per essere diversi dai democratici progressisti o New York University.
moderati? Per rispondere a questa domanda, non c’è bisogno La traduzione
di ricorrere a congetture. Un secolo prima del sorprendente è di Alberto Prunetti.
shock elettorale di Ocasio-Cortez, un simile terremoto poli-
tico ha colpito il paese quando New York elesse il suo primo
socialista al Congresso: Meyer London, immigrato ebreo e leader della classe operaia.
Sebbene oggi i Democratici amino prendersi il merito delle riforme del New Deal, biso-
gna dire che gran parte di questi cambiamenti erano già stati promossi al Congresso da
questo deputato socialista di New York. I nuovi socialisti di oggi hanno molto da impa-
rare da questa storia dimenticata.

Un socialista al Congresso

Meyer London e Alexandria Ocasio-Cortez hanno tanto in comune, al di là di essere


membri socialisti del Congresso eletti a New York. Come Ocasio-Cortez, London veniva da
una famiglia di immigrati e fu eletto in un distretto composto in gran parte da immigrati
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di classe operaia. Mentre era al Congresso, dal 1915 al 1919 e poi dal 1921 al 1923, London
combatté con decisione contro la politica razzista del governo federale che fissava quote
per l’immigrazione di asiatici ed ebrei. Queste restrizioni, sosteneva, «violano il principio
fondamentale del socialismo, che proibisce il razzismo».
Come la sconfitta di Joe Crowley, personaggio interno al potere democratico, messa a
segno da Ocasio-Cortez anche la vittoria di London su Henry M. Goldfogle nel 1914 fu un
colpo diretto al cuore del Partito democratico, a New York e nel resto del paese. Fu anche
una potente ispirazione per i lavoratori, che in migliaia celebrarono la sua elezione, per
tutta la notte, nelle strade del Lower East Side. Pochi giorni dopo dodicimila persone si
stiparono nel Madison Square Garden per celebrare la vittoria. L’evento venne descritto
dal New York Times in questi termini:

Il meeting è stato movimentato e pieno di entusiasmo. Una vivace aria musicale ha fatto al-
zare in piedi la folla, esultante. Ogni acuto oratorio portava a un’interruzione fragorosa e quan-
do il deputato London è comparso per parlare la folla ha applaudito per almeno 15 minuti.

Sebbene London si trovasse alla sinistra del Congresso, in realtà faceva parte dell’ala meno
radicale del Socialist Party (Sp). Con solo una superficiale adesione al marxismo, London
credeva in una forma di transizione evoluzionista verso il socialismo ed esitò a opporsi
alla Prima guerra mondiale, al contrario di Eugene Debs, suo compagno di partito.
Semmai, la relativa moderazione di London ci viene in soccorso per farci capire quanto
le posizioni da lotta di classe che abbracciava fossero la norma tra tutti i socialisti, all’epo-
ca. Quel che lo rese diverso dai progressisti ufficiali non era una stravaganza personale ma
la sua lunga adesione al Sp e il suo impegno nel progetto politico di base del partito. Per
costruire un profilo politico che fosse differente da tutte le fazioni istituzionali, London
adottò tre massime socialiste che ancora oggi non hanno perso la loro rilevanza: dai forza
alla lotta di classe, promuovi il socialismo, resisti contro il Partito democratico.

Classe contro classe

I socialisti guardano al mondo in maniera diversa dai democratici moderati. Se i mo-


derati fondamentalmente vedono la politica come una questione che si distende su uno
spettro che va da sinistra a destra, per i socialisti la direzione giusta è il basso contro l’alto.
Ad esempio: gli operai contro i capi.
Questa divergenza si esprimeva anche nel campo dei fondi per la campagna elettorale.
Non sorprende che Meyer London non avesse finanziatori aziendali. Raggiunse la fama
politica principalmente mettendosi alla testa della “rivolta dei ventimila” del 1909-10,
uno sciopero generale esplosivo di operai immigrati del settore tessile. «Non possiamo fi-
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darci della pietà dei datori di lavoro», dichiarò a nome del comitato sindacale, «con nostro
dolore, ci siamo fidati di loro anche troppo a lungo».
Dopo il successo di quello sciopero, l’ascesa di London al Congresso dipese principalmen-
te da risorse fornite dai sindacati, dal Sp e da piccoli donatori. In confronto, oggi quasi ogni
membro del Congressional Progressive Caucus prende denaro da aziende. Da parte sua, la
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sedicente progressista Nancy Pelosi ha un patrimonio netto di 120 milioni: non solo riceve un
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cospicuo sostegno finanziario dalle imprese, ma in quanto proprietaria di un’azienda enolo-
gica non sindacalizzata, Pelosi alla lettera è una capitalista (come il suo marito milionario).
Il denaro non è tutto ma queste basi materiali danno forma alle politiche dei deputati
eletti. London è sempre stato chiaro sul fatto che cercava di rappresentare gli interessi
della classe operaia contro il capitale. A un raduno di massa di lavoratori dell’East Side,
spiegò: «Con la vostra assistenza, la vostra cooperazione e il vostro sostegno, cercherò di
lottare per i lavoratori di questa città, dello stato e della nazione». E al contrario di mol-
ti benintenzionati politici progressisti non ebbe mai paura di indicare i capitalisti come
origine dei problemi dei lavoratori. In risposta alle rivolte delle donne lavoratrici in con-
seguenza delle penurie alimentari del 1917, dichiarò:

Il popolo non può affidare la questione del pane, la questione della vita, ai governanti e ai servi
dei riccastri, responsabili dell’alto costo della vita. Chi, all’infuori delle masse operaie e del movi-
mento socialista, può essere incaricato degli interessi vitali del popolo, in tempi tanto difficili?

Sebbene London si mobilitò su un ampio spettro di tematiche – tra cui il sostegno per
il suffragio delle donne, la legislazione contro i linciaggi e l’autodeterminazione di Porto
Rico – la sua attenzione si concentrò sulle richieste più scottanti dei lavoratori. Durante la
sua campagna elettorale e dopo l’elezione, London denunciò regolarmente la mancanza
di case popolari a buon mercato, di salari sufficienti per campare, di una sanità pubblica e
un’assicurazione sociale. Sosteneva che questi punti fossero prese di posizione chiave che
distinguevano i socialisti dai politici rivali: «Quel che ascoltiamo duran-
te la campagna elettorale è rumore, solo rumore e nient’altro. Ogni can-
didato del vecchio partito cerca di competere con gli altri evitando di LONDON CONCENTRÒ
affrontare le questioni davvero vitali». LE FORZE SULL’OBIETTIVO
Un’analisi di classe ispirava anche la sobria valutazione di London DI ISTITUIRE UN SISTEMA
sui limiti di quel che si può realizzare attraverso mezzi meramente elet- SANITARIO NAZIONALE
torali, soprattutto in una legislatura dominata da politici filo-aziendali. E UN’ASSICURAZIONE
Il New York Call, un quotidiano socialista, descriveva la situazione in SOCIALE UNIVERSALE
questi termini: «Si trova letteralmente chiuso in una gabbia di persone
ostili, dove nessuno è ammesso, a parte i suoi nemici». In questo con-
testo London interpretò il suo ruolo soprattutto come volto ad accrescere la coscienza di
classe, sostenere le lotte dei lavoratori e diffondere le idee socialiste fuori dai corridoi del
potere. Subito dopo le elezioni del 1914 disse con fermezza ai suoi sostenitori:

Non mi aspetto di compiere miracoli al Congresso. Mi aspetto di consegnare un mesag-


gio… Compagni, non permettete a voi stessi di farvi ingannare da questa vittoria. Non diven-
tate meno attivi. Cominciate il lavoro di organizzazione in ogni distretto. Il nostro non è che
un piccolo inizio.

L’impegno a cambiare il dibattito politico nazionale e a costruire un potere di classe


si concretizzò nel principale disegno di legge di London, a cui lavorò dal 1914 in avanti:
spingere per una forma di assicurazione sociale universale, nella forma di un sistema sa-
nitario nazionale, una cassa a sostegno di disoccupati e disabili e un programma di lavori
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nelle opere pubbliche. Come osserva lo storico Gordon Golberg, «nonostante il rifiuto
della Camera ad appoggiare la sua proposta, London […] ha contribuito a lastricare la
strada delle riforme del New Deal».
Osteggiati dal Congresso, London e il Socialist Party proclamarono un giorno nazio-
nale d’azione per il 12 febbraio 1915 per ottenere l’assicurazione sociale. Di fronte a una
manifestazione di migliaia di persone in Union Square, London disse chiaramente che
l’organizzazione e la lotta di massa erano necessarie per obbligare lo stato a concedere
quell’ambizioso programma di riforme. «Se la classe operaia serra le proprie forze, può
costringere il governo ad agire su questi problemi». Quest’analisi è stata rivendicata due
decenni più tardi, quando uno sciopero generale senza precedenti,
guidato dai socialisti, obbligò un riluttante Roosvelt e il Partito de-
«SIAMO CAPITALISTI, mocratico a promulgare la “seconda” fase radicale del New Deal.
LE COSE FUNZIONANO Anche se la storia non si ripete alla stessa maniera, oggi gli inse-
COSÌ», HA RISPOSTO LA gnamenti di questa esperienza sono evidenti nella lotta per il Me-
SPEAKER DEL PARTITO dicare for All e il Green New Deal. Dato che entrambi costituiscono
DEMOCRATICO NANCY un attacco frontale al grande business, è altamente improbabile che
PELOSI A UNO STUDENTE la vittoria arrivi da manovre di corridoio nella commissione della
camera dei rappresentanti o da compromessi con leader comprati
dalle aziende come Pelosi, che ha respinto tutti i tentativi di far ap-
provare un progetto di assicurazione sanitaria quando già era presidente della camera
nel periodo dal 2007 al 2011. Per far vincere le richieste scottanti sostenute dai socialisti e
dagli onesti progressisti serve la lotta di classe, non i compromessi di classe.

Una visione socialista

Al contrario dei socialisti – e oggi di una vasta maggioranza di millennial – i Democrati-


ci moderati e progressisti sostengono apertamente il capitalismo. In un town hall meeting
della Cnn del 2017 è diventata famosa la risposta di Nancy Pelosi a un giovane studente
della New York University che suggeriva al Partito democratico di spostarsi a sinistra per
offrire «un più deciso contrasto alle politiche economiche di destra»: «Siamo capitalisti,
le cose funzionano così». Più di recente la senatrice democratica Elizabeth Warren ha di-
chiarato alla stessa maniera di essere «capitalista fino al midollo».
Al riguardo la posizione di Meyer London era inequivocabile. Il capitalismo, dichiarò
in un discorso al Congresso del 1916, è di per sé un sistema irrazionale e dispendioso, che
spreca miliardi per l’espansione militare mentre lascia morire di fame le persone:

Niente illustra in maniera più convincente il fallimento economico e morale del presente
sistema di proprietà, individuale o capitalistico, della scarsità di cibo nelle nostre città più
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ricche e nei periodi più prosperi nella storia del nostro paese […]. Non siamo mai stati tanto
ricchi e ci sono le rivolte per il pane! Questo è il capitalismo. Questo è il dominio del capitale
privato sulla società umana.

Per London, il socialismo è sostanzialmente volto a espandere la democrazia nell’are-


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na economica abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione: «Senza democrazia


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industriale non ci riterremo soddisfatti […]. Non avremo pace fino a quando il potere
capitalista sarà distrutto e i lavoratori saranno emancipati dalla schiavitù del salario».
Questa presa di posizione, spiegava, non significa invocare la violenza e nemmeno
sminuire la lotta per le riforme. Ottenere le riforme darebbe ai lavoratori la fiducia e l’or-
ganizzazione necessari per lottare prima o poi per una trasformazione sociale più sostan-
ziale. Infatti gran parte della mobilitazione pubblica di London e delle sue proposte legi-
slative si concentravano su questioni concrete. Ad esempio, London riuscì a far approvare
dal Congresso la prima legge che permetteva ai lavoratori di esigere le paghe loro dovute
da quelle aziende che avessero dichiarato fallimento. Una vittoria che ha fissato un pre-
cedente legale, tra altre cose, per l’attuale campagna dei lavoratori licenziati di Toy R’ Us
promossa da Alexandria Ocasio-Cortez.
Nonostante London di solito si concentrasse su lotte per riforme richieste con urgenza,
un’ampia visione di un futuro socialista era parte importante del suo sistema di valori e
della sua mobilitazione pubblica. Convincere le persone che un mondo migliore fosse
possibile non andava contro a una politica di riforme quotidiane e aveva benefici reali
nella lotte del presente.
Rifiutando il capitalismo, London riusciva con più facilità a convincere i lavoratori che
non avrebbero dovuto sopportare il loro destino per tutta la vita: lo status quo non era
né legittimo né inevitabile. Una stimolante visione di una società priva di classi aiutò il
Socialist Party a tesserare più di centomila membri e gli fornì le convinzioni politiche e
morali che animarono la loro instancabile opera nelle battaglie elettorali e sindacali. Al
raduno per la vittoria elettorale del 1916 London spiegò:

Non avete fatto questi sacrifici per me. Ognuno in questa campagna ha lavorato per l’idea-
le che sprona i socialisti a lavorare contro tremende avversità nella battaglia contro il capitali-
smo. Il socialismo è la voce dell’umanità, del futuro e del mondo. Avete un nobile e leale com-
pito. Non dovete neanche per un attimo vacillare ma dovete lottare, dovete sempre lottare.

La forza di questa dinamica si è resa di nuovo evidente durante le recenti campagne di


Sanders e Ocasio-Cortez. Il loro sostegno al socialismo democratico – nonostante siano
più socialdemocratici di London e delle prospettive del Socialist Party – ha fatto iscrivere
ai Dsa decine di migliaia di nuovi membri, inclusi i leader di base dello sciopero degli
insegnanti del West Virginia del 2018. Negli anni a seguire, continuare a usare l’arena elet-
torale per radicare l’influenza dei socialisti organizzati in sindacati e movimenti di massa
sarà essenziale per generare il potere sociale necessario a prevalere sul neoliberismo e,
alla fine, sul capitalismo stesso.

La trappola del Partito democratico

I moderati di sinistra e i progressisti mainstream considerano il Partito democratico


un’organizzazione aperta e neutrale che le “forze del bene” possono utilizzare. Al contra-
rio, London e il Socialist Party sostenevano che i lavoratori avessero bisogno di un loro
partito specifico perché il Partito democratico, nonostante la sua retorica populista, era
un’istituzione saldamente controllata dal grande business.
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Sebbene London collaborò con altri deputati e sostenne sempre ogni legge positiva,
che andasse a vantaggio dei lavoratori, non si trattenne dal dichiarare che gli altri partiti
«erano a servizio dei capitalisti contro la classe operaia».
Non era retorica priva di fondamento. Come nel caso della presidenza Obama, la prassi
empirica dell’amministrazione di Woodrow Wilson (1913-21) rivelava la vera fedeltà di
classe dei leader democratici. Erano sordi alle richieste dei lavoratori di riforme economi-
che e politiche e infatti furono proprio i democratici ad avere la responsabilità della scon-
fitta del lungo iter legislativo per un’assicurazione sociale universale, un disegno di legge
voluto da London. Rompendo con la retorica progressista e con le promesse fatte in cam-
pagna elettorale, i democratici si opposero anche alla modesta proposta di formare una
commissione per studiare i problemi della disoccupazione. London prese la parola alla
Camera per denunciare «l’ignoranza e la mancanza di trasparenza» di entrambi i partiti:

Quarantasette democratici traditori, troppo codardi da votare una misura socialista che
aveva la possibilità di passare, che l’avevano votata l’anno scorso ma si sono rifiutati di votarla
quest’anno: la più spregevole azione politica di cui un partito debba essere ritenuto colpevole.

E proprio come nel caso di Obama, quando le sue politiche economiche e il salvataggio
delle aziende hanno lastricato la strada alle elezioni di Trump, Wilson – «il male minore»
– portò nel 1920 all’elezione del repubblicano Warren Harding, ossia «il grande male».
London non rimase affatto stupito da questi sviluppi, dato che «il primato vergognoso»
del governo democratico aveva dimostrato la vacuità delle loro pro-
messe elettorali di sinistra.
LONDON RIFIUTÒ Forse ciò che distingue in maniera netta da un punto di vista po-
DI CANDIDARSI litico London da Ocasio-Cortez e da altri socialisti appena eletti è
NELLE LISTE DEL PARTITO proprio l’antagonismo verso il Partito democratico. Dopo aver rifiu-
DEMOCRATICO. tato, per una questione di principio, di correre al voto sulla lista di un
IL CHE GLI CONSENTÌ partito capitalista, London era stato un candidato socialista indipen-
MAGGIORE INDIPENDENZA dente dal 1896, prima di vincere finalmente nel 1914 su una lista del
DALLO STATUS QUO Socialist Party.
Rifiutare di correre su una lista del Partito democratico rese più
arduo il percorso elettorale di London ma una volta eletto gli fornì,
alla pari degli altri candidati del Socialist Party, maggiore indipendenza organizzativa e
politica dallo status quo.
London era assolutamente libero di dire quel che pensava e di combattere con co-
raggio per i lavoratori, dato che non dipendeva dalla macchina del Partito democratico
per i finanziamenti, per il sostegno degli attivisti e per le commissioni congressuali. E la
sua indipendenza non fu offuscata dalla necessità di sostenere i democratici mainstream
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(una regola che puntella lo status quo, come osserva Kim Moody, che la leadership de-
mocratica continua a esigere dalla sua ala progressista). London in campagna elettorale
appoggiò solo altri socialisti e, una volta al Congresso, si astenne dal votare il candidato
democratico per la presidenza della camera.
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Certo, la sua indipendenza aveva degli svantaggi. La classe egemone si rivolse a Lon-
don e al Socialist Party più col bastone che con la carota: gran parte del suo mandato
coincise con un giro di vite bellico contro il dissenso e il primo “terrore rosso”, quando un
vasto numero di radicali, in ogni angolo degli Stati uniti, vennero sottoposti a censura o
imprigionati o si videro privati dei diritti democratici fondamentali da parte dell’ammi-
nistrazione Wilson. Ansiosi di sconfiggere un candidato che non potevano controllare, i
Repubblicani e i Democratici fecero convergere le proprie forze su un candidato sicuro,
in modo da prevalere su London nel 1918. Quando nel 1920 questa manovra non bastò a
sconfiggerlo, i leader del partito nel 1922 modificarono la geografia dei distretti elettorali,
cancellando il distretto che l’aveva eletto.
Al contrario, oggi la ribellione elettorale socialista si è realizzata soprattutto all’interno
delle liste del Partito democratico. I socialisti organizzati erano una componente impor-
tante ma non decisiva della campagna di Ocasio-Cortez. Questa ambiguità politica ha
aiutato alcune figure di spicco del Partito democratico come Steny Hoyer, Minority Whip
della Camera, a minimizzare i legami socialisti di Ocasio-Cortez, sostenendo che in fondo
«lei è una democratica». L’apparato del partito, almeno per il momento, sembra più inte-
ressato a integrarla che a isolarla. Se ci riuscirà è un’altra faccenda e dipenderà non solo
dalle scelte di Ocasio-Cortez e del suo team, ma anche dalla pressione dal basso generata
dai movimenti di massa e dalle organizzazioni socialiste.
La natura istituzionale del Partito democratico lo rende impenetrabile a una conquista
da sinistra. Quindi prima o poi i lavoratori dovranno formare un loro partito. Ma non ci
sono risposte facili o semplici formule su come procedere nel nuovo contesto dei nostri
giorni. Considerando le relative debolezze del movimento socialista e i noti ostacoli all’e-
lezione di candidati provenienti da partiti terzi, aveva tatticamente senso per Ocasio-Cor-
tez, come Sanders prima di lei, correre su una lista elettorale del Partito democratico. Allo
stesso tempo, i deputati socialisti hanno bisogno della piena indipendenza dall’establish-
ment del partito per promuovere in maniera efficace gli interessi della classe lavoratrice.
Fare compromessi con leader come Nancy Pelosi e Chuck Schumer può sembrare prag-
matico ma è un sentiero scivoloso.
Seguire le regole del gioco ha portato troppi politici onesti a piegarsi e venire inclusi nella
macchina, finanziata dal business, del Partito democratico, il cui centrismo fallimentare ci
ha portati all’attuale incubo di Trump. Anche in termini di realpolitik, è controproducente
per i socialisti e per i veri progressisti compromettersi con la leadership di Pelosi e Schumer,
dato il supporto tremendamente basso di cui godono tra la vasta maggioranza degli statuni-
tensi. Per questioni pratiche e di principio, ha più senso continuare a rafforzare ed esporre
le contraddizioni tra i lavoratori e l’establishment del Partito democratico.
Come Meyer London un secolo fa, l’elezione di Ocasio-Cortez ha sollevato enormi
speranze e aspettative in milioni di persone. Per fortuna Ocasio-Cortez ha dimostrato
la propria volontà di rompere alcune regole dei democratici. Probabilmente sarà neces-
sario romperle tutte se vogliamo costruire un’alternativa credibile al trumpismo, soddi-
sfare le nostre richieste più urgenti e ricostruire un movimento di massa tra i lavoratori
negli Stati uniti. 
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Il socialista
CAUCUS

e la liberale
Bernie Sanders non viene considerato come l’unico
candidato anti-establishment. Accanto a lui c’è Elizabeth
Warren, senatrice del Massachusetts, che si limita a voler
correggere le storture e invocare la concordia tra le classi

E
lizabeth Warren capisce meglio di chiunque altro la differenza
tra lei e Bernie Sanders. Sanders «è un socialista», spiega Warren,
«mentre io credo nei mercati». Warren è una «capitalista fino al mi-
dollo», mentre Sanders è appunto un socialista democratico.
Cavilli a parte – di sicuro Warren non campa grazie alle rendi-
Shawn Gude te del capitale, e i mercati sono compatibili con il socialismo – la
senatrice del Massachusets ha ragione: lei e Sanders vengono da
tradizioni politiche differenti.
Di base Warren è una fan dei regolamenti, e crede che il ca-
pitalismo funzioni meglio con la libera competizione; Sanders
è un tribuno del popolo, consapevole dell’esistenza delle clas- Shawn Gude
si sociali, e ritiene il capitalismo fondamentalmente ingiusto. è associate editor
Warren interpreta le sue riforme più ambiziose come tentativi di Jacobin Magazine.
di rendere il capitalismo «responsabile»; Sanders preme per leg- La traduzione è di Gaia
gi come lo Stop Bezos Act e denuncia gli amministratori delega- Benzi.
ti per lo sfruttamento dei lavoratori. Warren desidera un clima
di armonioso accordo tra lavoratori e datori di lavoro; Sanders
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incoraggia i lavoratori a contrattaccare.


Anche le differenze in politica estera derivano dalle diverse tradizioni politiche cui fanno
riferimento. Nessuno dei due appoggia l’interventismo militare, ma il senatore del Vermont si
è dimostrato molto più propenso a criticare i crimini dell’imperialismo Usa – come nella fa-
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mosa dichiarazione in un dibattito del 2016 contro Hillary Clinton: «Henry Kissinger non è un
mio amico». Warren, pur disapprovando l’avventurismo stile Bush, vede il ruolo dell’America
sotto una luce molto più convenzionale: quest’anno, in un saggio per Foreign Affairs, ha so-
stenuto che dovremmo «promuovere la potenza americana e i suoi valori in tutto il mondo».
La tradizione politica di Warren si colloca alla sinistra del liberalismo middle-class;
Sanders, invece, fa riferimento al socialismo americano. Per metterla in termini più iconi-
ci, Warren è Louis Brandeis, Sanders è Eugene Debs.

Brandeis e Debs

Brandeis e Debs sono probabilmente svaniti dalla memoria collettiva, ma sono state
due figure centrali nella politica americana del Ventesimo secolo.
Noto ai più come «il difensore del popolo», Brandeis ha fatto l’avvocato dal 1878 al
1916, quando Woodrow Wilson lo scelse come primo giudice ebreo della Corte suprema.
Mente legale raffinata e appassionata nella difesa delle cause che prendeva a cuore, Bran-
deis disprezzava corruzione e monopoli, riteneva danneggiassero l’interesse pubblico.
Il suo bersaglio principale erano le grandi corporation e la finanza. La loro straordinaria
crescita, intuì Brandeis, non era il risultato di efficienza o di qualità superiore dei prodot-
ti. Erano semplicemente bravi a fare i prepotenti. Il loro comportamento monopolistico
travolgeva le aspirazioni dei semplici consumatori e lavoratori, lanciando sul mercato una
specie di incantesimo pestifero – una sorta di «maledizione della grandezza».

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Le disuguaglianze aumentarono ulteriormente, ed era sempre più difficile attuare una
forma di controllo popolare. «Dobbiamo fare una scelta», sostenne Brandeis in una delle
sue frasi più citate. «Possiamo avere la democrazia, o possiamo avere la ricchezza concen-
trata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe».
Eppure Brandeis non era un radicale. Acceso sostenitore della piccola impresa, pensa-
va alle riforme come strumenti di prevenzione contro il socialismo. «La legge che voglia-
mo rinforzare», scrisse Brandeis nel 1912 consigliando Woodrow Wilson, «è la legge della
competizione»: se le imprese avessero dovuto competere per accaparrarsi forza lavoro
e consumatori, se un set di regole chiare avesse limitato l’avidità di businessman senza
scrupoli, tutti avrebbero ricevuto un trattamento equo.
Brandeis diede corpo ai suoi ideali nel 1910, a New York, quando contribuì a organiz-
zare uno sciopero degli operai del settore tessile. Portando avanti la sua idea di «auto-go-
verno dell’industria», aiutò a istituire tre comitati con una rappresentanza di lavoratori
per gestire le dispute amministrazione-personale e supervisionare le condizioni di lavoro.
Brandeis, scrive la sua biografa Philippa Strum, pensava che «se le persone avessero espo-
sto con ragionevolezza il proprio punto di vista le une alle altre sarebbe stato possibile
raggiungere un accordo».
Debs, il membro più importante del Partito socialista d’America, la pensava in maniera
molto diversa sul capitalismo industriale. Il capitalismo aveva concentrato la ricchezza e il po-
tere nelle mani di pochi, la soluzione invece era creare un «commonwe-
alth cooperativo» in cui l’industria sarebbe stata controllata democrati-
EUGENE DEBS camente e i lavoratori avrebbero ricevuto i frutti pieni del loro lavoro. La
ERA SOCIALISTA solidarietà, e non la competizione, era la parola d’ordine di Debs.
E SINDACALISTA Il potere doveva essere strappato alla classe degli imprenditori at-
INDUSTRIALE, traverso il voto, gli scioperi e l’unità di classe. Nessun tipo di patteggia-
SI OPPOSE ALLA PRIMA mento equanime, nessuna forma di ragionamento pacato avrebbero
GUERRA MONDIALE potuto colmare il gap strutturale tra lavoratori, lavoratrici, e capitalisti.
E FINÌ IN CARCERE Debs arrivò a queste convinzioni tardi nella vita. Come giovane
sindacalista di Terre Haute, in Indiana, aveva spronato i suoi colleghi
ferrovieri alla sobrietà, a diventare impiegati modello, nella speranza
che un atteggiamento conciliante avrebbe fruttato delle ricompense. La prova della lotta di
classe fece a pezzi questa ricetta. Alla fine del secolo era diventato un socialista convinto e
un sindacalista industriale.
Quando Debs tuonava alla folla assorta – tutto accovacciato, la zucca pelata che spor-
geva in avanti, le mani che gesticolavano in fuori – parlava con l’autorevolezza di qualcu-
no che era stato perseguitato e imprigionato per aver guidato scioperi e predicato il van-
gelo democratico della working class. Ma fu un’arringa contro la prima guerra mondiale a
sbatterlo in galera per parecchio tempo.
PRIMAVERA 2019

Il Partito socialista si oppose sin da subito all’entrata in guerra degli Stati uniti: riteneva-
no la guerra un conflitto tra potenze imperialiste in competizione tra loro che facevano dei
lavoratori carne da macello. Debs, gettando una luce tra le ombre del militarismo, aveva
preso posizione contro la guerra nell’estate del 1918. Fresco di visita alla prigione locale
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dove erano rinchiusi tre pacifisti socialisti, si presentò davanti alla folla in un parco pubblico
di Canton, in Ohio, con un discorso che ironizzava sull’idea che la posta in palio della guerra
fosse la democrazia e stroncava i «rottami di Wall Street». Il governo lo arrestò subito.
Brandeis – consigliere fidato di Woodrow Wilson anche dopo la nomina alla corte su-
prema – si bevve la retorica presidenziale sul rendere il mondo un «posto sicuro per la
democrazia». Sostenne la guerra. Se l’internazionalismo aveva portato Debs a stare dalla
parte dei socialisti tedeschi che per decenni si erano opposti al militarismo del Kaiser,
l’internazionalismo di Brandeis lo aveva condotto a supportare la guerra di Wilson come
meccanismo di controllo dell’aggressività tedesca. Debs aveva stretto legami di solida-
rietà con le forze democratiche al di là dei confini; Brandeis credeva nel potere benevolo
dell’emergente stato americano.
Quando il caso di Debs arrivò sulla scrivania della Corte Suprema nel 1919, le fratture
generate dalla guerra erano ancora molto forti. Brandeis si unì agli altri giudici nel confer-
mare la pena del Detenuto Numero 9653.

Warren e Sanders

Per come la racconta lei, Elizabeth Warren è arrivata alle sue convinzioni politiche attra-
verso anni di studio delle leggi statunitensi sulla bancarotta, dopo esser stata cresciuta da
una famiglia working class in Oklahoma. Professoressa di legge, negli anni Ottanta e Novan-
ta Warren scoprì che un gran numero di statunitensi stava precipitando verso la bancarotta,
non in virtù di sperperi privati, ma per via di salari stagnanti e del comportamento rapace di
banche e società di credito. Anno dopo anno, indipendentemente dalle performance dell’e-
conomia, i grafici di Warren registravano tassi di fallimento sempre più alti.
Mentre faceva pressioni sui legislatori per una riforma progressiva della bancarotta, fu
testimone delle tattiche pesanti che i creditori mettevano in campo per fare a pezzi i loro
avversari. Warren, da sempre convinta sostenitrice del gioco pulito e della fedeltà ai fatti, era
sconvolta. «Ho passato più o meno vent’anni a sudare sopra ogni singolo dettaglio di una
lunga serie di studi accademici, agonizzando sulle dimensioni e sul significato statistico de-
gli esempi, per essere sicura che qualunque cosa scrivessi fosse giusta», ricorda Warren nel
suo libro del 2014, A Fighting Chance. «Le banche compilano un assegno, commissionano
uno studio che simpatizza per loro, e si comprano letteralmente i fatti».
Nel 2007 – qualche anno dopo una sua apparizione da Dr. Phil che l’aveva messa sotto
i riflettori – Warren pubblicava un articolo sul giornale Democracy chiedendo una «Com-
missione di Sicurezza sui Prodotti Finanziari». Come ispirata dal fantasma di Brandeis,
Warren sosteneva che una nuova agenzia avrebbe potuto passare indenne per l’enorme
montagna di legalese tributario e difendere i piccoli consumatori dagli imbrogli delle
grandi banche.
Questo genere di visione riformista le ha procurato anche alcuni incarichi politici. Il
capitalismo di Warren è un capitalismo regolamentato nel quale ciascuno gioca secondo
le regole, non importa a quale classe appartiene, e ne ottiene dei benefici. I lavoratori
lavorano sodo e ricevono una paga decente, i piccoli imprenditori lavorano sodo e com-
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petono in un mercato giusto, le corporation – felici di tener fede ai patti pagando tasse più
alte – fanno bellissimi profitti. Il sistema funziona a meraviglia, lontano dagli strepiti del
conflitto di classe, perché ciascuno riceve quanto gli spetta.«Perché il capitalismo funzio-
ni», scriveva Warren nel 2014, «abbiamo bisogno gli uni degli altri».
Per Bernie Sanders non c’è un sistema da aggiustare. Il sistema, per Sanders, sfrutta i
lavoratori e divora i loro sogni. Lo scorso luglio ha richiamato formalmente un Comune
che aveva assunto cinque lavoratori a salario minimo, specificando che il loro lavoro da
incubo era fatto di turni lunghi, paghe da fame, capi terribili. Inquadrando il problema
nella cornice più ampia «amministratori delegati vs lavoratori», Sanders si è scagliato
contro un sistema economico che tratta gli esseri umani come cose, «usa e getta». Spesso
ha usato il suo nutrito seguito sui social per dare risonanza ed esprimere solidarietà alle
lotte di lavoratori e lavoratrici.
Se il background da professoressa di legge di Warren ha contribuito a farla diventare
una liberale riformista, nel caso di Sanders sono state le prime esperienze ad alimentare
il suo socialismo democratico. Nato a Brooklyn da genitori immigrati della working class,
Sanders si unì alla Lega dei Giovani Socialisti (Young People’s Socialist League) negli anni
Sessanta, al college. L’organizzazione, come ha spiegato Sanders in un’intervista del 2016,
«mi aiutò a fare due più due». Povertà, guerra e razzismo erano tutte intorno a lui. Ma qual
era la causa? I Giovani Socialisti – la costola giovanile del vecchio Partito socialista di Debs
– davano la colpa all’ordine economico che accumulava vantaggi per chi era già all’apice
della società e metteva lavoratori e lavoratrici di tutte le razze gli uni contro le altre.
Dopo una serie di candidature fallite come terzo partito – e un periodo di lavoro come
produttore di materiale educativo, incluso un documentario elogiativo su Eugene Debs
– Sanders diventò finalmente sindaco di Burlington, in Vermont, nel 1981. Qui provò a
incrementare la partecipazione della working class locale e a promuovere la solidarietà
e la pace a livello internazionale. Visitò il Nicaragua rivoluzionario, convincendo il con-
siglio comunale ad avviare un gemellaggio con Puerto Cabezas (una città del Nicaragua
governata dai sandinisti), e portò Noam Chomsky nella sala del municipio a parlare della
politica estera statunitense. Il numero di sostenitori schizzò alle stelle.
L’ultimo libro di Sanders è la testimonianza di quanto poco si sia allontanato da quella
visione di solidarietà working class. Nel libro critica l’idea che gli Stati uniti debbano eser-
citare «una benevola egemonia globale», denunciando a livello nazionale una «politica
estera monocolore», e individua nella negligenza criminale di Trump dopo l’uragano che
ha devastato Porto Rico l’ultimo episodio di una «lunga storia di colonialismo e sfrut-
tamento». Fa anche una lista di crimini interventisti: il rovesciamento del Mohammad
Mossadegh nel 1953, il colpo di stato contro Salvador Allende nel 1973, il «supporto per i
regimi sanguinari di El Salvador e Guatemala» negli anni Ottanta. Le alternative oggi? Un
«movimento progressista globale» che riesca a sfidare le metastasi autoritarie.
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Invecem, quando Warren critica la politica estera statunitense cita aspetti assai più re-
centi. Dopo la caduta dell’Unione sovietica, scrive in un saggio su Foreign Affairs, gli Stati
uniti si sono impantanati in una «guerra senza fine» e «hanno cominciato a esportare un
tipo particolare di capitalismo» che favorisce le élite benestanti. Warren non è una guer-
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rafondaia, ma certo è convinta che uno stato forte possa portare prosperità nel mondo e
bilanciare l’influenza di Russia e Cina.
«Invece che separare il perseguimento di ideali progressisti dal mantenimento del do-
minio americano», ha sottolineato lo scrittore liberal Peter Beinart l’anno scorso, «Warren
prova – senza successo – a tenerli uniti».

Le differenze sono importanti

Sanders e Warren hanno entrambi posizioni apparentemente in contrasto con le loro


rispettive tradizioni politiche. Sanders vuole rompere con le grandi banche, non nazio-
nalizzarle; Warren ha introdotto una legge che potrebbe far nascere un produttore go-
vernativo di farmaci generici. Anche se alcune di queste differenze sono spiegabili (forse
Sanders proporrebbe politiche più radicali se il clima politico fosse favorevole, e Warren
maschera la sua legge sui farmaci generici con il linguaggio della competizione), nessuno
dei due segue la propria ideologia alla lettera.
E dunque perché anche solo cercare di inquadrare Sanders e Warren all’interno di una
tradizione politica? Non è forse l’esercizio ozioso di un accademico, il riflesso condiziona-
to di un tassonomista compulsivo?
La risposta breve è che le figure politiche e intellettuali sono molto di più che la sempli-
ce somma delle loro dichiarazioni. Hanno visioni del mondo diverse e
storicamente determinate che, una volta portate alla luce, possono do-
narci una comprensione migliore delle loro convinzioni di fondo e aiu- IL PRESIDENTE SANDERS
tarci a predire come potrebbero comportarsi in circostanze differenti. NON DOVREBBE LIMITARSI
Immaginate: il Presidente Sanders siede nell’Ufficio ovale mentre A OCCUPARE GLI SPAZI
le strade brulicano di persone che manifestano contro il riscalda- POLITICI: DOVREBBE
mento globale. Non sarà più la tassa sul carbone la mossa politica più AMPLIARLI. AD ESEMPIO
radicale: la nazionalizzazione delle compagnie di combustibili fossili INCORAGGIANDO
sarà ormai entrata nel dibattito pubblico. Ad ogni modo potremmo L’AZIONE DEI MOVIMENTI
aspettarci che Sanders non sia solo impegnato a occupare gli spazi
politici aperti, ma che sia propenso a intraprendere azioni volte ad
ampliare quegli stessi spazi, ad esempio girando il paese e incoraggiando i movimenti a
compiere ulteriori azioni. Il Presidente Warren sarebbe sicuramente favorevole a varare
leggi contro il cambiamento climatico, ma, viste le sue tendenze politiche, possiamo im-
maginare che sarebbe meno propensa a stimolare un movimento di massa.
Mentre Warren è una voce anti-corporation dai saldi principi in un partito che ancora
sguazza nel denaro di Wall Street – cosa fondamentale per qualsiasi movimento di sinistra
– la sua visione politica soffre degli stessi limiti di analisi e proposte che aveva Brandeis.
Malgrado tutta la loro competenza, il liberalismo middle-class di Brandeis e Warren soffre
di un idealismo secondo cui esistono datori di lavoro illuminati, i capitalisti possono di-
ventare democratici, e l’imperialismo statunitense può essere sfruttato per fini positivi.
La visione di Brandeis ottenne i maggiori consensi cento anni fa. Oggi non sarebbe
male se li ottenesse la visione del principale erede di Debs.
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Nel grembo
CAUCUS

della vecchia
societàEssere eletti non significa
conquistare il potere, diceva
Léon Blum. E gli sfruttati
possono difendere le loro
conquiste solo cambiando
la natura delle istituzioni
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«L
o giuro solennemente. . . ». Il 20 gennaio 2025 è stato un momento
di orgoglio per Bernie Sanders. A momenti la rielezione del sociali-
sta uscente non era sembrata così sicura: Hillary si era dimostrata
forte nella sua quarta corsa consecutiva per le primarie del Parti-
to democratico, e le pubblicità con ologrammi del Gop [il Grand
Old Party dei Repubblicani, ndt] che mostravano il giovane Bernie
David Broder mentre ballava su un tetto dell’Università di Chicago, per poco
non avevano ribaltato il risultato dell’Ohio. Ma alla fine è arrivato
al suo secondo insediamento.
Non c’è però l’entusiasmo di quattro anni prima: come notato dal mezzobusto della Fox,
Dave Rubin, la folla su Capitol Hill si è notevolmente assottigliata. Bernie ha portato a casa
alcune vittorie, dall’aver messo fine alla cauzione in contanti fino all’introduzione di un
salario minimo di 15 dollari. Ma nonostante fossero stati eletti in parlamento dozzine di
socialisti, l’opposizione bipartisan ha ostacolato sia la riforma sanitaria che i piani per la
cancellazione del debito studentesco.

Non è difficile immaginare che la presidenza di Bernie Sanders possa avere questo esito:
la storia di una speranza seguita da uno stallo. Nella sua corsa alle primarie del 2016 ha
sottolineato la necessità di uno scontro con gli interessi particolari e con i miliardari che
dominano la politica statunitense. Eppure le probabilità di vin-
cere una simile battaglia sono scoraggianti: i movimenti sociali
e dei lavoratori sono ancora deboli, e i loro alleati sono lungi dal David Broder è uno
far man bassa del Congresso. storico e traduttore
Un’eventuale amministrazione Sanders sarebbe destinata ad inglese. È il redattore
affrontare una seria opposizione da entrambi i partiti, così come europeo di Jacobin
dalle grandi imprese e dalla macchina statale. Oltretutto, Bernie Magazine.
non potrà far tutto da solo: se mai divenisse presidente, uno dei La traduzione è
principali effetti positivi sarebbe quello di creare lo spazio poli- di Leopoldo Calabria.
tico (e legislativo) in cui altre forze siano in grado di mobilitarsi.
Ciò è fondamentale se consideriamo quanto le istituzioni
americane siano antidemocratiche e quanto siano state pensate proprio per esserlo. An-
che al di là delle privazioni del diritto di voto o del ruolo dei finanziamenti elettorali privati
– molto più importante che in altri paesi occidentali – l’andamento dei cicli elettorali, il
ruolo politico della Corte Suprema e la natura stessa del Senato servono a consolidare il
potere costituito.
Certamente anche in Europa, le nuove forze di sinistra si troverebbero ad affrontare
enormi ostacoli nel caso in cui riuscissero a ottenere l’incarico di governo. Forze come
France Insoumise, Podemos o il Labour di Jeremy Corbyn rappresentano la speranza di
rompere con il neoliberismo. Eppure questi partiti ancora senza esperienza di governo
dovrebbero sicuramente affrontare delle battaglie con l’Unione europea, il rischio di fuga
di capitali all’estero e resistenze sia all’interno che all’esterno della macchina statale.
Come disse il primo ministro socialista francese Léon Blum, «vincere le elezioni» non
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equivale a «conquistare il potere». Le sue esperienze di presidente tra il 1936 e il 1938, in
cui fece importanti riforme poi immediatamente revocate dai suoi successori, come la set-
timana lavorativa di 40 ore, lo dimostrano. La recente esperienza di Syriza in Grecia ha
anche evidenziato come l’inerzia istituzionale possa semplicemente scavalcare la volontà
popolare nei momenti di crisi.
In effetti, la storia è piena di personalità di sinistra che ottengono una carica per poi in-
contrare ostacoli. Chi da sinistra si oppone alla centralità della politica elettorale può citare
una desolante serie di governi apparentemente socialisti che, invece di riformare o abolire
il capitalismo, ne sono stati “riformati” diventando semplici amministratori del sistema
esistente. Ciò sembra indicare il valore della mobilitazione al di fuori delle istituzioni, rele-
gando al massimo l’utilizzo del parlamento alla propaganda contro il sistema.
Tuttavia è tutt’altro che inevitabile che gli sforzi riformisti portino esclusivamente alla
delusione e alla smobilitazione. E se dopo decenni di trionfalismo
neoliberista, la sinistra radicale a livello internazionale è di nuovo in
IL PROGRAMMA grado di parlare di conquista del governo, non dobbiamo giungere
DI SANDERS RICHIEDE impreparati a questa battaglia. La rivoluzione potrebbe non essere
UNA RIFLESSIONE SULLA dietro l’angolo. Ma possiamo sperare di realizzare ciò che il program-
STRATEGIA DA SEGUIRE ma elettorale del Labour del 1983 definiva «un cambiamento fonda-
PER LOTTARE ANCHE mentale e irreversibile nell’equilibrio del potere e della ricchezza a
DENTRO LE ISTITUZIONI favore dei lavoratori e delle loro famiglie».
IN CASO DI VITTORIA La presidenza può essere usata non solo per attuare politiche par-
ticolari, ma anche per cambiare le basi stesse della politica. Come per
vecchie conquiste del Labour come il Servizio sanitario nazionale,
l’obiettivo è fare profonde riforme che durino al di là delle singole sconfitte elettorali. Ciò
richiede una prospettiva strategica in grado non solo di frenare il neoliberismo, ma di co-
struire la via per una trasformazione socialista a lungo termine della società.
Bernie Sanders non è certo un moderno erede dei riformisti di ispirazione marxista del
ventesimo secolo. Ancor più chiaramente, il Partito democratico non è e non è mai sta-
to niente di simile ai vecchi partiti di massa dei lavoratori. Eppure i discorsi del senatore
democratico-socialista sul conflitto, la mobilitazione contro l’1% che detiene ricchezze e
potere e la logica stessa delle sue scelte politiche, richiedono una riflessione su quale stra-
tegia potrebbe sopravvivere anche al di là di una sua amministrazione. E ciò implica prima
di tutto continuare la lotta anche all’interno dello stato.
Il cambiamento istituzionale non rispecchia sempre i cambiamenti sociali. I sorpren-
denti successi di Sanders e Corbyn, in una situazione di crisi del neoliberalismo ma anche
con livelli storicamente bassi di conflittualità sociale, hanno prodotto una rivitalizzazione
generale delle idee socialiste, contribuendo anche ad alimentare altri tipi di mobilitazione.
E nemmeno un tiepido riemergere dell’organizzazione “dal basso” fornisce soluzioni auto-
PRIMAVERA 2019

matiche per le battaglie che da intraprendere direttamente a livello statuale. Piuttosto, la


nuova sinistra sta scoprendo la necessità di cambiare lo stato stesso.

Contropotere
N. 2

I marxisti hanno sempre respinto l’idea, cara al pensiero liberal-democratico, secondo


cui lo stato sia un terreno neutrale da riempire con qualsiasi contenuto consentito attra-
verso le elezioni. Le origini storiche dello stato, dopo tutto, si trovano nell’appropriazione
violenta e privata del potere politico, a cui le forme di controllo democratico si sono ag-
giunte solo molto più tardi. Processi burocratici ben congegnati sono stati progettati per
incanalare e frustrare la volontà popolare mantenendo la stabilità istituzionale.
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Karl Marx non ha mai scritto di proprio pugno una teoria generale dello stato, tanto-
meno ha offerto una visione generale del cambiamento politico. A volte ha postulato la
possibilità di una transizione democratica al socialismo, facendo propria la visione diffusa
durante il movimento cartista britannico degli anni 1830-1840 che riteneva il suffragio uni-
versale e i parlamenti annuali richieste rivoluzionarie. Ma durante la rivoluzionaria Comu-
ne di Parigi del 1871 ha anche sottolineato la necessità per i lavoratori di fare qualcosa in
più che «impadronirsi della macchina statale così com’è».
Dopo la sanguinosa sconfitta della Comune, verso la fine del Diciannovesimo secolo la
principale forza organizzativa e intellettuale del socialismo europeo fu il Partito socialde-
mocratico tedesco (Spd). L’iniquo sistema di voto di classe (i voti dei lavoratori contavano
meno), la monarchia e un periodo di organizzazione quasi clandestina indirizzarono la
Spd verso la necessità di una “repubblica democratica”, cioè una rivoluzione per sostituire
lo stato imperiale tedesco.
Il fatto che la Spd sia stata effettivamente esclusa dagli incarichi pubblici, pur essendo
nel frattempo diventato il più grande partito in Germania, ha dato l’avvio alla costruzione
di un potente apparato al di fuori delle istituzioni statali. Come per il Partito Comunista
Italiano (Pci), forte di milioni di tesserati ma impossibilitato a entrare nel governo nazio-
nale nell’era della Guerra Fredda, la posizione strutturalmente subalterna ha costretto la
Spd a costruire un “paese all’interno del paese”, una vasta rete di cooperative, sindacati e
istituzioni per l’istruzione, la cultura e il tempo libero al di fuori dello stato.
Questo processo ha creato le basi di potere di una classe operaia in continua espan-
sione, alimentando l’idea che la crescita dell’industria avrebbe creato la massa necessaria
per creare finalmente una maggioranza
sociale. Ma questa prospettiva “evoluzio-
nista” spinse anche alcuni socialisti a po- vece le conquiste sociali erano già in atto nella formazione
stulare la possibilità di costruire gradual- delle contro-istituzioni.
mente la nuova società in grembo alla Nel famoso slogan del teorico tedesco, «Il movimento è
vecchia, avendo come approdo finale un tutto, l’obiettivo finale non è nulla» per lui, a quanto pare,
cambiamento a livello istituzionale. I se- la vera rivoluzione consiste negli amici fatti lungo la strada.
gnali di successo nel costruire potere dal Eppure, come ha duramente controbattuto Rosa Luxem-
basso portarono alla compiaciuta con- burg, ciò denota ingenuità sulla prospettiva che il capi-
vinzione di allentare le tensioni di classe. talismo si sarebbe semplicemente adeguato alla ragione
Ciò venne teorizzato in modo espli- superiore dell’armonia sociale. Nella lettura di Bernstein,
cito da Eduard Bernstein, uno dei pro- la politica istituzionale non era tanto una priorità quanto
tagonisti della Spd e protagonista del una cosa non problematica; infatti, fu il suo antagonista
“dibattito sul revisionismo” alla fine del Karl Kautsky a interrogarsi più seriamente sulle forme de-
secolo. Bernstein postulò la necessità mocratiche che avrebbe preso una riorganizzazione socia-
per i socialdemocratici di ripudiare la lista della società.
tradizione politica rivoluzionaria, insi- Quando lo stato tedesco entrò in guerra nel 1914, il pre-
stendo sul fatto che esempi del passato dominio della politica nazionale sul “contropotere” locale
come la rivoluzione francese avevano si affermò rapidamente. Parte della motivazione della Spd
prodotto il caos e la tirannia laddove in- di sostenere lo sforzo bellico risiedeva nella necessità di
evitare un nuovo ciclo di repressione che sarebbe scaturito
dall’opposizione alla guerra, con il rischio di distruggere
le istituzioni messe in piedi fino a quel momento. Lenin
replicò acidamente che il “socialismo” non risiedeva nei
circoli operai finora scampati al divieto statale, ma in pri-
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gione con i pochi socialisti che si erano schierati contro la


carneficina.
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Quello è stato un momento particolarmente traumatico
nella storia socialista. Luxemburg aveva messo in guardia
che riforma e rivoluzione non erano percorsi alternativi
per uno stesso obiettivo finale, ma diverse concezioni della
politica. Nei cinque anni successivi, la trasformazione del-
la Spd nel partito dominante della Repubblica di Weimar
(favorendo l’assassinio di Rosa Luxemburg) sembra con-
fermare tale lettura. Nonostante le riforme sociali sotto il ne di richieste istituzionali intermedie
suo mandato, la Spd tra le due guerre scartò ogni prospetti- come “l’assemblea costituente”, la forza
va di superamento del capitalismo, identificandosi in uno del regime fascista negò alle sue idee
stato fallito. qualsiasi prova immediata nella pratica.
Sulla scia della rivoluzione russa e della fallita rivoluzio- Questa, tuttavia, non era un’idea
ne tedesca, i comunisti ripudiarono così il nome “social- strettamente italiana. Altre esperienze
democratico”. Eppure da nessuna parte in Occidente si è del primo Novecento indicano l’intera-
materializzata la rivoluzione. Piuttosto, la linea dominante zione tra l’azione dal basso della clas-
del pensiero marxista quasi ovunque in Europa divenne il se operaia e il livello statale. Mostrano
tentativo di spiegare perché operare attraverso istituzioni quanto ridondante sia qualsiasi analisi
consolidate, piuttosto che costruirne all’esterno, fosse ne- che contrappone semplicemente la po-
cessario per raggiungere il socialismo. litica istituzionale al potere operaio e la
necessità di consolidare i principi di soli-
Fuori dallo stato, per lo stato darietà anche a livello istituzionale.
Prendiamo il caso della Working Men’s
Questa prospettiva fu particolarmente discussa negli Medical Aid Society di Tredegar, creata
scritti dal carcere del marxista italiano Antonio Gramsci, dai lavoratori dell’acciaio e del carbone
con la sua insistenza sul fatto che le strutture più comples- in una città del Galles del Sud nel 1890.
se dello stato e della società civile in Occidente richiedeva- Basandosi su precedenti iniziative filan-
no la costruzione di un’egemonia della classe lavoratrice su tropiche, l’ente mutualistico era finan-
vasti strati della società. Ma, nonostante la sua elaborazio- ziato e gestito dagli stessi lavoratori e al
tempo della seconda guerra mondiale
copriva fino al 95% della popolazione lo-
cale. Era l’illustrazione perfetta del potere del collettivismo e della solidarietà di classe, poi-
ché ciascuno si assumeva la responsabilità e l’orgoglio di prendersi cura della collettività.
Eppure questo schema aveva dei limiti evidenti. Perché i lavoratori dovevano pagare per
la propria assistenza sanitaria, anche se su base collettiva, piuttosto che ottenere che fosse
finanziata dalla fiscalità generale? Un’iniziativa veramente socialista non avrebbe dovuto
puntare a erodere il potere sociale del capitale? Infatti, nelle battaglie portate avanti dai cir-
coli laburisti nel periodo tra le due guerre, i principi del “localismo” divennero il principale
nemico da combattere. Piuttosto che voler finanziare e gestire i propri servizi, i lavoratori
PRIMAVERA 2019

avrebbero dovuto poter contare sull’assistenza sanitaria gratuita come un diritto garantito
dallo stato.
Fu un figlio di Tredegar, il laburista ministro della salute nel dopoguerra, Aneurin Be-
van, a diventare il principale artefice del Servizio sanitario nazionale. Nella sua dura batta-
glia contro le lobby di medici e dentisti, Bevan notoriamente avvisava: «Stiamo venendo a
N. 2

Tredegarizzarvi». Trasformare un servizio fornito da associazioni di beneficenza o da atti-


vità private in uno nazionalizzato portò la solidarietà dei lavoratori a un livello superiore.
L’assistenzialismo aveva senza dubbio i suoi critici da sinistra. Non solo lo si poteva ri-
tenere funzionale al capitale per avere una forza lavoro pacifica, istruita e sana, ma i limiti
sulla fornitura del servizio potevano anche avere un effetto “disciplinante”, ad esempio
attraverso le condizioni poste sui sussidi di disoccupazione. Tuttavia, la crescente preca-
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rietà e le basse aspettative di vita delle giovani generazioni hanno fatto sembrare la vecchia
socialdemocrazia un’età dell’oro: la domanda comune non è la speranza di andare oltre
l’assistenzialismo, ma di realizzare i suoi principi in modo più completo.

I “non rappresentati” aspirano ad essere rappresentati

Nell’attuale ondata di politica democratico-socialista, la vecchia condanna dell’azione


statale (“grigia”, “burocratica”) è in declino. In effetti, la richiesta di un rinnovato intervento
pubblico (anche se gli storici partiti socialdemocratici siano stati distrutti nella maggior
parte dei paesi) è un cambiamento significativo nel senso comune di sinistra degli ultimi
anni. La questione del maneggiare il potere statale sta di nuovo diventando un terreno
realistico di discussione per forze da tempo ridotte a un ruolo assolutamente marginale.
Dopo il tanto decantato fallimento del socialismo di stato (e della svolta neoliberale della
socialdemocrazia) all’inizio degli anni Novanta, le idee di mutuo aiuto e potere “dal basso”,
al di fuori dello stato, sono diventate la norma per vaste aree della sinistra. Il periodo tra il
movimento anti-globalizzazione a cavallo del millennio e Occupy Wall Street ha visto l’asce-
sa di un pensiero che rifiutova l’azione di stato a favore di idee incentrate sull’autogestione
della comunità, sugli spazi liberati e sul «cambiare il mondo senza prendere il potere».
Il defunto Mark Fisher notava come la convinzione nell’impossibilità di agire nello sta-
to fosse essa stessa un prodotto di quello che ha definito “realismo
capitalista”: ovvero, il rimanere intrappolati nella prospettiva ideolo-
gica fornita dal neoliberismo stesso. Nel caso britannico, le afferma- MARK FISHER NOTAVA
zioni secondo cui «il parlamento non ha mai cambiato nulla» sono COME LA CONVINZIONE
andate curiosamente di pari passo con battaglie politiche quasi in- CHE AGIRE DENTRO LO
teramente incentrate sulla difesa dei precedenti successi del Partito STATO FOSSE IMPOSSIBILE
laburista, ma attraverso proteste di piazza decentralizzate piuttosto DERIVASSE DA QUELLO
che tramite politiche parlamentari. CHE HA DEFINITO
Nonostante fosse una fase di riflusso per la sinistra, non era diffi- REALISMO CAPITALISTA
cile coinvolgere un numero sufficiente di persone per portare avanti
tali forme di mobilitazione. Un nucleo di attivisti può riprodurre se
stesso e persino degli spazi di autonomia all’interno del sistema capitalista ma far poco
per mettere in discussione le relazioni di potere nella società nel suo complesso. Il capitale
è capace di reintegrare le controculture isolate sotto forma di consumismo etico e verde.
La maggior parte della gente non ha il tempo, le risorse o l’energia per prendere parte alla
mobilitazione politica permanente. L’azione politica non è fine a se stessa. La mobilitazio-
ne permanente (o le “assemblee” basate sulla democrazia diretta) rischiano di non essere
capaci di offrire una prospettiva realistica e affidabile di cambiamento per la maggioranza:
divengono il parente povero dei diritti garantiti dallo stato.
Questa è forse una chiave per spiegare la recente ondata di esperimenti social-democra-
tici, che sono lontani dall’essere semplice emanazione del movimento Occupy o delle pro-
teste di piazza del 2011. In quei movimenti i precari e gli invisibili potevano riconoscere le
loro richieste comuni, ma anche la loro mancanza di potere strategico. Si sono fatti sentire
per settimane e mesi, ma hanno avuto difficoltà a imporre un reale cambiamento politico.
In effetti, partiti come Podemos e Syriza (e ancor più i movimenti di Sanders, Corbyn
o Mélenchon) sono emersi dopo che queste proteste “dal basso” erano già calate in modo
significativo. I non rappresentati non aspiravano a restare in piazza in modo permanente
ma ad essere... rappresentati. Tuttavia, l’improvvisa ascesa di questi nuovi partiti significa
SCIOPERI!

anche che li aspetta una prova del fuoco non appena dovessero trovarsi in situazioni per
cui non hanno una strategia.
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È fin troppo facile spiegare il fallimento del governo Syriza in Grecia come un caso di
“tradimento”. Eppure l’opposizione da sinistra al primo ministro Alexis Tsipras è stata no-
tevolmente limitata. Una popolazione affossata da anni di austerità non era nelle condi-
zioni per un nuovo ciclo di mobilitazione. In assenza di una strategia di rottura, i negoziati
con Bruxelles hanno semplicemente intrappolato i greci all’interno di una logica anti de-
mocratica con istituzioni in cui avevano poco peso. Syriza ha ottenuto un breve sostegno
di massa, dimostrando soltanto che la volontà popolare non era decisiva.

La lotta di classe della socialdemocrazia

La questione è come cambiare questa logica: i mezzi attraverso cui promettenti movi-
menti democratico-socialisti sono in grado di cambiare lo stato, piuttosto che essere osta-
colati o cooptati dalle strutture di potere esistenti nella società. Le mobilitazioni elettorali
consentono rapidi spostamenti nella narrazione politica dominante, e permettono alla si-
nistra di ottenere vittorie anche in assenza di movimenti più profondamente radicati. Il
problema, tuttavia, è che la discussione su come “il populismo di sinistra” possa raccogliere
una base elettorale, sul modello delle idee della filosofa Chantal Mouffe, raramente affronta
il tema di ciò che la sinistra dovrebbe fare dopo essere riuscita a insediarsi al governo.
Nel volatile contesto politico di oggi, che in effetti presenta opportunità storiche per vin-
cere le elezioni, è naturale che i socialisti siano più interessati a come
arrivare al potere che a come usarlo. Ma questo riflette un certo tipo
LA DISCUSSIONE SUL di “realismo capitalista”: perché mentre i marxisti dei decenni passati
«POPULISMO DI SINISTRA» si chiedevano come la politica istituzionale potesse portare a una fu-
RARAMENTE AFFRONTA tura società socialista immaginata come quasi certa, oggi è più facile
IL TEMA DI CIÒ considerare Bernie o Corbyn come una “interruzione” difensiva di una
CHE LA SINISTRA preponderante ondata reazionaria.
DOVREBBE FARE Possiamo sperare che a differenza dell’Obamacare, i piani per l’as-
UNA VOLTA AL GOVERNO sistenza sanitaria e l’istruzione di Bernie riescano a imporre un cam-
biamento duraturo nella politica degli Stati uniti: esempi pratici della
fattibilità e della necessità di un’azione pubblica e della collettivizza-
zione della cura. Abbiamo bisogno che i nostri diritti allo studio, alla salute e all’alloggio si-
ano una garanzia piuttosto che qualcosa per cui dobbiamo costantemente pagare o com-
battere. Se nessun avvicendamento nel potere e nella ricchezza è veramente “irreversibile”,
che almeno le nostre vittorie possano consolidarsi per decenni.
Parte della soluzione sta nello sviluppo di una cultura socialista in seno a partiti politici
che sopravvivono ai singoli leader. Nonostante tutti i fallimenti del governo laburista del
1945 (in particolare la sua gestione dell’Impero), fu possibile imporre un cambiamento
duraturo alla politica britannica, e oggi persino i Tories sono costretti a porre i loro stessi
PRIMAVERA 2019

attacchi contro il Ssn come una difesa della sua sostenibilità. Un servizio usato e amato da
milioni e milioni di persone, viene riconosciuto da tutti come un risultato della tradizione
laburista e rappresenta, allo stesso tempo, un collante che tiene unita l’idea socialista.
La domanda, quindi, è come rendere permanenti i nostri successi ed effimeri quelli
delle forze di classe ostili: come realizzare molti Ssn. Senza dubbio, le risposte a questo
N. 2

problema varieranno notevolmente da una società all’altra. Ma la via più ovvia sembra
risiedere nell’espansione dell’esistente esperienza riformista: vale a dire prendere gli esi-
stenti movimenti populisti di sinistra e democratico-socialisti e radicarli in reti più vaste di
organizzazione di partito, in grado di perpetuarsi.
Senza dubbio, la crescita dei Democratic Socialists of America (Dsa), l’elezione di giovani
di sinistra come Alexandria Ocasio-Cortez e la massiccia mobilitazione della gioventù ingle-
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se nel partito laburista stanno ponendo le basi di questo cambiamento nella pratica. Se l’or-
ganizzazione dei partiti e la formazione politica sono ancora in ritardo rispetto ai progressi
che i nostri movimenti stanno facendo nella politica nazionale, possiamo almeno vedere i
segni della formazione di un nuovo strato di attivisti, con esperienze e aspettative marcata-
mente diverse da quelle dell’estrema sinistra post-sessantottina. I cambiamenti ora in corso
avranno sicuramente effetti decennali sulla nostra comprensione di ciò che è possibile.

Riappropriarsi dello stato

Nell’attuale ondata di avanzata socialista, vediamo sia i vantaggi dell’azione elettorale


che i limiti imposti dalle istituzioni. Ma la situazione non è statica. Come dice il marxista
greco Nicos Poulantzas, lo stato è «soprattutto la condensazione di un rapporto di forze
definito dalla lotta». Con ciò intende lo stato come forza potenzialmente conservatrice
e al tempo stesso come campo di battaglia: un insieme di istituzioni che contengono il
“sedimento” delle lotte passate e una relazione sociale contesa tra interessi di classe rivali.
Per questa ragione, il cambiamento istituzionale è di per sé una dimensione fondamen-
tale della battaglia da combattere. Ciò è evidente nel caso francese, dove la strategia di
France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon è quella di conquistare la presidenza proprio
per abolire i poteri di questa istituzione e inaugurare una “Sesta Repubblica”. Se il suo mo-
vimento è ampiamente criticato in quanto leaderistico, la forte attenzione alle questioni
costituzionali mira proprio a dissipare il potere istituzionale in tutta la società francese,
imponendo ogni sorta di controllo popolare sul potere del capitale.
Alla falsa contrapposizione tra la mo-
bilitazione dal basso e le aspettative nel
leader provvidenziale, questo progetto previsto da France Insoumise); i sommovimenti contro il
propone una socialdemocrazia della monopolio dei media in Gran Bretagna e dei super-Pac negli
lotta di classe: la lotta per espandere il Stati uniti; l’introduzione di servizi di assistenza sanitaria e
potere delle persone della classe opera- di istruzione (ri)nazionalizzati possono seriamente limita-
ia all’interno della vita istituzionale. Nel re la presa del capitale sulla nostra immaginazione. Queste
1864 Karl Marx poté dichiarare che la azioni, insieme alle iniziative per sbloccare i sindacati e in-
prima legge limitativa dell’orario di la- vertire le restrizioni sulle libertà civili, possono, a loro volta,
voro rappresentava «la prima volta in cui preparare il terreno per una prospettiva più ampia di avan-
l’economia politica della classe media zamento del potere della classe operaia nella società.
ha dovuto soccombere chiaramente di Sarebbe ingenuo pensare che una futura presiden-
fronte all’economia politica della classe za Sanders potrebbe fare tutto questo per noi. Anche in
operaia». Il capitale si è saputo adattare assenza dei pericoli internazionali che hanno abbattuto
al cambiamento, eppure il rapporto di progetti riformisti dal Cile alla Grecia, sicuramente dovrà
forza e si è spostato a favore del lavoro. affrontare un’enorme opposizione, e i suoi stessi obiettivi
Non è difficile pensare a misure simili espliciti non propongono in realtà una riorganizzazione
che possano far avanzare il nostro pote- complessiva della società. Eppure la possibilità della sua
re oggi. Il radicamento costituzionale dei elezione, come nei casi inglesi e francesi, offre reali oppor-
diritti sociali e dei doveri ecologici (come tunità da sfruttare.
Non si tratta semplicemente di “rendicontare le azioni
dei leader”, come se fossero solo temporanei alleati per un
idealizzato movimento “reale” dal basso. Piuttosto, la lotta
consiste nell’usare il loro potere per fare cambiamenti che
vanno oltre le loro figure: imporre riforme che respingano
SCIOPERI!

il potere del capitale e garantiscano una base su cui i lavo-


ratori possano costruire le loro vite e le loro lotte.
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Con ogni mezzo
CAUCUS

necessario
Se Bernie Sanders nel 2020 dovesse essere eletto
presidente dovrebbe far ricorso a tutti gli strumenti
a sua disposizione per forzare gli equilibri istituzionali
e fare sponda con i movimenti sociali. Ecco alcuni esempi

B
ernie Sanders è il politico più popolare negli Stati uniti. Se dovesse
spuntarla nel campo delle primarie del Partito democratico, schi-
vando con successo gli attacchi delle élite del partito che non lo ri-
conoscono quale loro alleato, non c’è dubbio che potrebbe vincere la
presidenza nel 2020. È una prospettiva eccitante per quelli di noi che
credono, come disse una volta Sanders, che «questa è una guerra di
Meagan Day classe, e noi ci alzeremo a combatterla».
Ma un socialista democratico alla Casa Bianca è quanto di più
lontano dall’essere un proiettile d’argento. La Corte Suprema è già persa per i liberal, per
non parlare dei socialisti, per molti decenni a venire, e la mag-
gioranza del Congresso sarà probabilmente composta da una
combinazione di repubblicani conservatori proni all’austerità e Meagan Day è staff
democratici centristi più che disposti a incontrarli a metà stra- writer di Jacobin
da. Anche se il loro numero aumenta in modo esponenziale, i Magazine.
progressisti come Rashida Tlaib e Alexandria Ocasio-Cortez, La traduzione
che condividono l’agenda di giustizia economica e sociale di è di Leopoldo Calabria.
Bernie, sarebbero in minoranza sotto un’amministrazione San-
PRIMAVERA 2019

ders. Dovremmo avere sane riserve su ciò che un solo socialista


democratico potrebbe realizzare alla guida di uno stato capitalista. In questo contesto
politico, cosa potrebbe fare Sanders oltre a combattere e perdere, negoziare e concedere,
deludendo inevitabilmente?
Gli ordini esecutivi [provvedimenti firmati dal presidente che indirizzano le politiche ese-
N. 2

cutive delle agenzie del governo federale, ndt] sono potenti strumenti per i presidenti, che
spesso ne rilasciano centinaia sia di efficaci che di nefasti. Ci sono le alte vette della famosa
Proclamazione di Emancipazione di Lincoln, e c’è anche la recente direttiva di Trump che
consente a livello federale di aumentare il taglio di legname sulle terre pubbliche. Franklin D.
Roosevelt usò 3.522 ordini esecutivi per fare cose come creare l’Amministrazione dei Lavori
Civili, che ha dato lavoro ai disoccupati, e l’Amministrazione per l’Elettrificazione Rurale, che
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ha portato energia elettrica ai poveri delle aree rurali; inoltre ha usato un ordine esecutivo
per iniziare l’internamento degli americani giapponesi durante la seconda guerra mondiale.
Gli ordini esecutivi sono effimeri: possono essere cambiati di segno dal presidente suc-
cessivo, rovesciati dalla Corte Suprema, e in alcuni casi annullati dalla nuova legislazione. Per
ottenere un cambiamento duraturo, non possiamo fare affidamento sulle direttive di un sin-
golo politico. Abbiamo bisogno di un movimento di massa dal basso che possa inviare rap-
presentanti socialisti progressisti e democratici nello stato, mentre si moltiplicano le proteste,
gli scioperi e altre attività capaci di creare crisi al di fuori dello stato, a cui i legislatori siano
costretti a rispondere. Ma la costruzione di un simile movimento non esclude la concomitan-
za con un’azione esecutiva aggressiva. Se un ipotetico presidente Sanders dovesse emettere
centinaia o persino migliaia di ordini esecutivi destinati a frenare il potere dei capitalisti, sa-
rebbe un grande vantaggio per i movimenti extraparlamentari.
In primo luogo, ordini esecutivi ambiziosi possono far crescere l’immaginazione popolare
e aumentare le aspettative dei lavoratori. Le idee politiche che una volta sembravano irrea-
lizzabili possono essere immediatamente legittimate, così come la politica che le anima. In
secondo luogo, gli aggiustamenti effettuati dall’ordine esecutivo che attenuano il potere della
classe dirigente rendono più facile per i lavoratori organizzarsi e partecipare ad attività politi-
che volte al cambiamento di lungo termine.
La destra ha metabolizzato il fatto che drastici cambiamenti nella politica hanno un enor-
me potenziale per alterare l’equilibrio del potere. La raffica di ordini esecutivi reazionari di
Donald Trump è un esempio calzante. Dall’istituzione di un discriminatorio divieto di viag-
gio al progetto di costruzione del muro al confine, ha spostato gli obiettivi politici e stabilito
nuove e terrificanti norme nella politica americana, nonostante ne siano seguiti scontri nei
tribunali e al Congresso. Il presidente Bernie Sanders non riuscirebbe a tenere a bada i poteri
forti da solo, ma sarebbe obbligato a utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione, inclusi
gli ordini esecutivi. Ecco alcuni esempi del tipo di ordini esecutivi che potrebbe emettere una
volta in carica. Questa lista è tutt’altro che completa, si concentra su alcune aree chiave per
brevità, ma è la dimostrazione del potere di un singolo presidente di intervenire politicamen-
te e di creare nuove possibilità politiche – in questo caso per i molti, invece che per i pochi.

CLIMA

Per ordine esecutivo, un ipotetico presidente Bernie Sanders potrebbe fissare obiettivi aggres-
sivi di riduzione dei gas serra e di consumo di energia per tutto il governo federale, compre-
si i militari (il Dipartimento della Difesa degli Stati uniti è uno dei peggiori inquinatori del
mondo). Potrebbe indirizzare tutte le branche dell’esecutivo pertinenti – compreso l’Epa, il
Dipartimento degli Interni, il Corpo degli ingegneri dell’esercito, ecc. – a tener conto dell’im-
patto da gas serra di qualsiasi proposta infrastrutturale e dichiarare che qualsiasi progetto che
potenzialmente aggrava il cambiamento climatico va respinto.
«Questo porterà inevitabilmente a contenziosi», spiega Basav Sen, direttore del progetto
Climate Justice presso l’Institute for Policy Studies (Ips). «Le corti finiranno per consentire
ad alcuni di questi progetti di andare avanti, ma questa è una tattica di temporeggiamento
molto importante, e crea un argine perché l’industria dovrà combattere battaglie legali contro
il governo federale per ogni pezzo di infrastruttura dannosa che si cerca di costruire. Alcuni
saranno bloccati e tutti saranno notevolmente rallentati, affossando il capitale e rendendo
più difficile la costruzione di nuove infrastrutture per i combustibili fossili».
Sanders potrebbe anche emettere un ordine esecutivo che indirizzi le agenzie federali a
SCIOPERI!

rendere conto sull’equità dell’impatto ambientale di tutti i progetti di infrastrutture proposti,


aggiunge Sen, e quindi respingere quelli che provocano danni sproporzionati alle comunità
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di colore e ai poveri. Potrebbe anche emettere un ordine esecutivo per il ricongiungimento
con l’Accordo sul clima di Parigi. «L’accordo di Parigi è in buona sostanza difettoso», afferma
Sen. «I suoi obiettivi non sono abbastanza ambiziosi ed è del tutto volontario. Ma detto que-
sto, è ancora importante per noi essere parte della comunità globale di nazioni responsabili, e
impegnarci veramente in questo processo e contribuire nel modo in cui possiamo all’azione
globale per il clima».
Un presidente Sanders potrebbe istituire una task force inter-agenzie per definire i para-
metri di un New Deal Verde. Potrebbe anche fermare tutte le vendite di concessioni per l’estra-
zione di carbone, petrolio e gas, l’estrazione di uranio e altre forme di sfruttamento minerario
e del suolo federale. Infine, potrebbe impedire a qualsiasi azienda rea negli ultimi dieci anni
di violazioni ambientali di ottenere contratti federali. Presi insieme, questi ordini esecutivi
spingerebbero la politica climatica americana in una direzione decisamente più sostenibile,
rendendo più difficile per le imprese degradare il pianeta a scopo di lucro.

POLITICA ESTERA

Gli Stati uniti hanno la presenza militare a più ampio raggio nella storia del mondo. Per
ordine esecutivo, il presidente Bernie Sanders potrebbe «ritirare le truppe dai paesi di tutto il
mondo in cui sono schierate», dice Phyllis Bennis, direttore del New Internationalism Project
dell’Ips, compresi i luoghi in cui stanno «effettuando assassinii e altre cosiddette azioni anti-
terrorismo che violano il diritto internazionale e che non ci rendono più sicuri così come non
rendono più sicure le persone di altri paesi».
Sanders potrebbe emettere un ordine esecutivo che dichiara la chiusura ufficiale della «Kill
List», una banca dati di individui che il Pentagono ha contrassegnato per la cattura o l’eli-
minazione. Potrebbe anche terminare tutte le campagne segrete di bombardamento tramite
ordine esecutivo. «Solo nel 2017, i civili uccisi da bombe sganciate dalla coalizione a guida
Usa in Iraq e in Siria potrebbero essere addirittura 6.000», afferma Ben-
nis. «È orribile. I bombardamenti segreti non sono chiaramente segreti
SANDERS POTREBBE per le persone che vengono bombardate» e tuttavia si verificano costan-
COMINCIARE temente, sprecando denaro per distruggere vite umane. Come coman-
CANCELLANDO dante in capo, Sanders potrebbe terminarli unilateralmente.
LA KILL LIST, IL DATABASE Il presidente Sanders potrebbe emettere un ordine esecutivo che ri-
DEI SOGGETTI stabilisca la legittimità della Risoluzione dei Poteri di Guerra, che richie-
CHE IL PENTAGONO de il consenso del Congresso per entrare in guerra. I presidenti hanno
VORREBBE ELIMINARE violato questa legge per decenni. Dopo l’11 settembre, la prima volta
che si è manifestato pienamente il potere del Congresso di intralciare i
guerrafondai del governo è stata l’anno scorso, quando lo stesso Sanders
ha invocato la Risoluzione dei Poteri di Guerra in un disegno di legge per porre fine al soste-
PRIMAVERA 2019

gno degli Stati uniti all’intervento saudita in Yemen. Sanders potrebbe emettere un ordine
esecutivo che stabilisca una politica di abrogazione di qualsiasi intervento militare non auto-
rizzato dal Congresso, affermando pubblicamente i principi anti-guerra e pro-democratici a
motivazione della sua stessa conformità con la Risoluzione dei Poteri di Guerra.
Tramite ordine esecutivo, Sanders potrebbe dichiarare che nessun individuo che ha la-
N. 2

vorato per una società appaltatrice della difesa può essere nominato in un’agenzia federale.
L’emissione di un ordine esecutivo in tal senso «avrebbe l’effetto di ridefinire pubblicamente
quali sono gli interessi americani», afferma Bennis. «Gli interessi del Pentagono riflettono gli
interessi delle corporation statunitensi o del popolo statunitense?».
Mentre il potere di spesa in quanto tale appartiene al Congresso, Sanders potrebbe stabi-
lire una commissione allo scopo di condurre una revisione da cima a fondo del budget mili-
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tare degli Stati uniti, con l’obiettivo di ridimensionarlo radicalmente. Il presidente Trump ha
recentemente ordinato a una task force di identificare eccessi nel servizio postale degli Stati
uniti – perché non crearne una per valutare l’esercito più sproporzionato e distruttivo che il
mondo abbia mai visto?
Infine, il Pentagono ha attualmente un programma per fornire equipaggiamento militare
gratuito o a basso costo alle forze dell’ordine statunitensi. «È così che ti ritrovi un veicolo blin-
dato per le strade di Ferguson dopo che Mike Brown è stato ucciso», dice Bennis. «E quanto
fornito, è stato utilizzato». Il presidente Bernie Sanders potrebbe emettere un ordine esecuti-
vo che interrompe questo programma, vanificando i tentativi di militarizzare la polizia nazio-
nale e portare la guerra nelle strade americane.

GIUSTIZIA PENALE

La struttura del sistema di giustizia penale pone alcune sfide uniche per il ramo esecutivo,
poiché la maggior parte della sua attività si svolge sotto la giurisdizione statale e locale. Tuttavia,
un presidente Bernie Sanders potrebbe minare le fondamenta della detenzione di massa attra-
verso determinati ordini esecutivi, e potrebbe usarne altri per inviare un messaggio potente.
Sanders potrebbe emettere un ordine esecutivo che imponga al Dipartimento di giustizia di ab-
bandonare le pene minime obbligatorie nei procedimenti federali e di perseguire soluzioni non
carcerarie per le trasgressioni minime. Il presidente ha anche il potere di concedere clemenza
ai prigionieri federali tramite ordine esecutivo: il presidente Jimmy Carter ha graziato tutti i
renitenti alla leva dopo la guerra del Vietnam, e Obama ha amnistiato centinaia di detenuti per
droga nei suoi ultimi giorni di mandato.
Le commutazioni di Obama si applicava-
no selettivamente ai detenuti che avevano re e punire i trafficanti di droga», dice Kara Gotsch, Direttore
completato dieci anni di condanna e che delle Iniziative Strategiche presso The Sentencing Project. «Al
si erano comportati bene in prigione. San- contrario vogliamo che i soldi vengano ridestinati. Vogliamo
ders potrebbe completare il lavoro perdo- prendere un miliardo di dollari e investire in un programma
nando ogni trasgressore per droga incarce- di intervento che cerchi di incanalare le persone con distur-
rato a livello federale e condannato in base bi da uso di sostanze verso il trattamento, un approccio che
ai draconiani requisiti della War on Drugs, punti alla salute delle comunità. C’è così tanto che può esse-
indipendentemente da quanta pena ab- re fatto a livello amministrativo per ridefinire le strategie su
biano scontato o dal fatto che abbia otte- come affrontiamo il crimine».
nuto una qualificazione Ged o un posto di Sanders potrebbe emettere un ordine esecutivo che in-
lavoro – criteri che erano importanti per dirizzi tutte le agenzie a porre fine alla pratica della confisca
l’amministrazione Obama. dei beni civili, vale a dire l’espropriazione delle proprietà di
Allo stesso modo, mentre i presidenti qualcuno solo per il sospetto che abbia commesso un crimi-
non possono decidere in merito all’entità ne. Il procuratore generale di Obama, Eric Holder, ha posto
dei fondi, possono stabilire le priorità per dei limiti alla confisca dei beni civili, ma sono stati respinti.
il modo in cui tali fondi vengono utilizzati Sanders potrebbe dichiarare la fine immediata della pratica
all’interno delle agenzie. «Il Dipartimento in tutte le agenzie, dalla Dea e dall’Fbi al Dipartimento per la
di Giustizia può dichiarare di non voler sicurezza interna. Per ordine esecutivo, Obama ha «eliminato
spendere un miliardo di dollari che altri- la casella», intendendo la casella di spunta che costringe i can-
menti andrebbero all’Agenzia sulle droghe didati a lavori federali a rivelare i loro precedenti penali. Tru-
per l’applicazione della legge per persegui- mp non ha ancora annullato l’ordine, ma è probabile che lo
consideri prima o poi. Se lo fa, Sanders può riemettere l’ordine
con una clausola aggiuntiva: vietare la casella anche a coloro
SCIOPERI!

che detengono appalti federali, dato che hanno un numero di


dipendenti quasi uguale a quello dei lavoratori federali diretti.
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Infine, Sanders potrebbe lanciarsi in alcune mosse ardi-
te con ordini esecutivi nel tentativo di aprire un nuovo ter-
reno intorno a questioni di giustizia penale. Ad esempio,
l’anno scorso Sanders ha presentato un disegno di legge al
Senato per trattenere i fondi federali anti-crimine alle città di essi sono in codici postali con massi-
che utilizzano il sistema di rilascio su cauzione. Mentre il fi- mo una filiale bancaria. Il presidente Ber-
nanziamento è principalmente giurisdizione del Congresso, nie Sanders potrebbe emettere un ordine
un ordine esecutivo potrebbe essere un gesto potente per esecutivo che autorizzi l’ufficio postale a
legittimare il movimento che vuole la fine del meccanismo iniziare a offrire servizi bancari pubblici,
di libertà su cauzione. Nel 2017, Trump ha emesso un ordi- assicurando che nessuno venga escluso
ne analogo che ha spogliato le sanctuary cities [le città che dai tradizionali servizi finanziari. Oltre a
non applicano o riducono la portata delle leggi che limitano evitare semplicemente alcuni quartieri, le
i diritti degli immigrati senza documenti, ndt] dall’ammissi- banche attuano anche prestiti discrimi-
bilità di sovvenzioni federali. Sebbene sia stato rapidamente natori. Sebbene non siano più autorizzati
dichiarato incostituzionale dai tribunali, ha avuto un forte a negare prestiti agli afro-americani per
impatto sul clima politico, intensificando il sentimento an- motivi razziali, per esempio, possono ese-
ti-immigrati e rafforzando l’idea che gli immigrati privi di guire complessi algoritmi di valutazione
documenti mettono in pericolo i cittadini americani. del rischio che perpetuano pregiudizi raz-
Se Sanders dovesse provare la stessa tattica per la libertà ziali e di altro tipo, nascondendosi dietro
su cauzione, potrebbe essere sconfitto – ma metterebbe l’in- i numeri quando l’equità delle loro politi-
giustizia del sistema di cauzione in contanti sotto i riflettori che di prestito viene messa in discussio-
nazionali, rafforzando gli sforzi per approvare un disegno di ne. Sanders potrebbe emettere un ordine
legge come il suo No Money Bail Act al Congresso. esecutivo che imponga a tutte le agenzie
di vigilanza finanziaria di dare priorità a
ECONOMIA documentare e combattere la discrimina-
zione nei prestiti, non solo riaffermando lo
Gli Stati uniti sono pieni di deserti bancari, luoghi sia urba- spirito del Fair Lending Act, ma lasciando
ni che rurali dove le banche hanno deciso che non è redditizio anche una traccia cartacea di diversi ri-
operare. Questo costringe le persone a rivolgersi a varie tipo- sultati e potenziali violatori aziendali. La
logie di usurai e a operazioni di incasso di assegni, spenden- Regola Volcker, che proibisce alle banche
do in media il dieci percento del loro reddito in commissioni di usare i soldi dei depositanti per il tipo
esorbitanti che i servizi finanziari «alternativi» fanno pagare. di speculazione rischiosa che ha portato
C’è una soluzione alla nostra portata a questo problema: la al crollo economico del 2008, ha reso Wall
legge federale richiede già che il servizio postale degli Stati Street furiosa. Sotto Trump, i controllori
uniti abbia un ufficio per ogni codice postale, e il 60 percento federali delle banche sono stati messi al la-
voro nella riscrittura della regola per dare
più libertà ai banchieri. Bernie Sanders po-
trebbe emettere un ordine esecutivo che indichi a tutte queste agenzie – la Fed, la Sec e la Fdic –
PRIMAVERA 2019

di lasciare intatta la regola Volcker. E mentre ci lavora, potrebbe emettere un ordine che vieti la
nomina di banchieri, avvocati e lobbisti di Wall Street nelle agenzie incaricate di supervisionare
il settore finanziario – qualcosa che Obama ha ripetutamente fatto.
Nel 2014, Obama ha emesso un ordine esecutivo che fissa il salario minimo per impiegati
e appaltatori federali a 10,10 dollari l’ora – quattro dollari in meno di quello che gli analisti
N. 2

del Mit hanno determinato costituisca un salario di sussistenza nel 2013. Sanders potrebbe
emettere un ordine esecutivo che corregga il problema, istituendo una task force per deter-
minare il vero salario di sussistenza negli Stati uniti e stabilendo di conseguenza il minimo
del governo federale. Infine, potrebbe emettere un ordine esecutivo che stabilisca nuove
priorità tra le agenzie federali che amministrano programmi sociali. Lo scorso aprile Trump
ha emesso un ordine in cui dichiarava che «molti dei programmi progettati per aiutare le
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famiglie hanno invece ritardato l’indipendenza economica, perpetuato la povertà e inde-
bolito i legami familiari» e ha incaricato le agenzie di aderire ai cosiddetti «Principi della
mobilità economica»: inasprendo i requisiti di idoneità al lavoro, riservando benefici solo
ai più poveri (le valutazioni sulle condizioni economiche), riducendo «sprechi dispendiosi,
consolidando o eliminando programmi federali che sono duplicati o inefficaci» (austerità)
e autorizzando il settore privato a intervenire per risolvere i problemi attualmente delegati
al governo federale (privatizzazione).
Sanders potrebbe immediatamente ribaltare questo ordine ed emetterne uno suo,
istruendo le agenzie ovunque possibile a operare secondo «principi di eguaglianza eco-
nomica», come la progettazione di programmi universali invece di insistere sulle valu-
tazioni sulle condizioni economiche, de-mercificazione invece di privatizzazione e ridi-
stribuzione invece di austerità.

BONUS: ANNULLAMENTO DEL DEBITO STUDENTESCO

Gli americani detengono più di 1.500 miliardi di dollari in debiti studenteschi. Ciò impe-
disce a decine di milioni di persone di acquistare case e mettere su famiglia e le trattiene
in lavori che non vogliono, spesso più di uno alla volta, costretti a districarsi per effettuare
pagamenti prima che gli interessi vadano fuori controllo. Cosa potrebbe fare un presidente
Bernie Sanders per affrontare questa crisi tramite ordine esecutivo? Per
prima cosa, potrebbe emettere un ordine esecutivo che indirizzi il suo
Segretario all’Istruzione a cancellare tutti i debiti contratti con istituti BISOGNEREBBE MINARE
fraudolenti a scopo di lucro. LE FONDAMENTA DELLA
Durante il mandato di Obama, gli attivisti hanno fatto pressioni sul DETENZIONE DI MASSA
suo segretario all’istruzione, Arne Duncan, per cancellare tutto il debito ELIMINANDO LA PENA
a carico federale degli studenti che hanno conseguito lauree in istituti MINIMA OBBLIGATORIA
a scopo di lucro fraudolenti come il Corinthian e l’Itt. Ma Duncan si è E CAMBIANDO LA POLITICA
tirato indietro. Secondo Ann Larson di The Debt Collective, una delle SULLE DROGHE
motivazioni che ha fornito era che il Dipartimento per l’istruzione non
aveva il mandato per una mossa così drastica, dal momento che i suoi
leader non sono eletti. Un ordine esecutivo di Obama avrebbe minato questo fondamento
logico, ma non si è mai materializzato. Ma questa sarebbe ancora solo una goccia nel mare.
Che dire degli studenti laureati in università no profit che stanno faticando a trovare stabilità a
causa del peso del loro debito studentesco? Nel 2015, il 70 per cento degli studenti universitari
si è laureato in istituti no profit contraendo un debito studentesco.
Larson sostiene che il presidente Bernie Sanders potrebbe anche fare qualcosa a riguar-
do. «Quando al Congresso fu dato il potere di emettere e raccogliere prestiti per gli studenti
nel 1958, il Dipartimento per l’Istruzione ricevette dal Congresso anche il potere cosiddetto di
“compromesso e risoluzione”, che consente di rinunciare al diritto di incassare», dice Larson.
«E poi l’Higher Education Act del 1965 ha consolidato questo potere nelle mani del Segreta-
rio all’Istruzione». Sanders potrebbe emettere un ordine esecutivo che ordini al suo Segretario
dell’Istruzione di cancellare immediatamente tutti i debiti dei prestiti agli studenti per i quali
il governo federale è creditore, che consiste nella maggior parte del debito degli studenti negli
Stati uniti. L’ordine esecutivo potrebbe anche indirizzare il Dipartimento di Educazione a as-
sumere tutto il debito dei mutuatari che devono denaro ai creditori privati, e annullare anche
quello, riducendo il carico dei prestiti agli studenti americani da 1.500 miliardi di dollari a zero.
Secondo le stime degli economisti, la cancellazione immediata di tutti i debiti studente-
SCIOPERI!

schi fornirebbe un grosso guadagno all’economia americana, riducendo la disoccupazione di


circa lo 0,3% e aumentando il Pil di quasi mille miliardi di dollari nel prossimo decennio.
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Bereoru menihilin iu co ad pribus con Etra ma, nonfex nium
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viliciteatia confectur quo etoricavere aves vit? Bitante, ad
confent. Git, caelientiam in su me clum diescierit demus;
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