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RISORGIMENTO INSANGUINATO - Eccidi e inganni dell'Unità d'Italia

Di Antonella Randazzo

07 agosto 2007

Esistono retoriche e simbologie assai efficaci a catturare l'animo umano. Fra queste, la retorica delle guerre
patriottiche e nazionalistiche, che si basa sul racconto di eventi storici che suscitano orgoglio, commozione e
senso di trascendenza morale. Per ottenere questo risultato, le autorità si mostrano disposte anche a
mistificare gravemente i fatti, creando falsi eroi e false imprese eroiche. E' il caso degli eventi che portarono
all'Unità d'Italia, passati alla Storia come "Risorgimento italiano". A scuola ci hanno raccontato che all'epoca
gli italiani elaborarono diversi piani ideologici per raggiungere la tanto desiderata unità nazionale, e che
personaggi illustri, come Giuseppe Garibaldi, Nino Bixio, Camillo Benso di Cavour e Vittorio Emanuele II,
in perfetta sintonia con ciò che gli italiani volevano, operarono per unire il paese dopo secoli di dominazione
straniera. Il periodo risorgimentale emerge dunque come un momento storico ricco di idee che infervorarono
gli animi degli italiani, che praticamente all'unanimità desiderarono porsi sotto l'autorevole potere dei
Savoia. Tutto questo è molto commovente e lusinghiero, peccato che sia frutto di una mistificazione degli
eventi reali.
In realtà l'Unità d'Italia fu un evento voluto "dall'alto", ossia dalle autorità dei paesi egemoni (Inghilterra e
Francia), e i Savoia non guardarono tanto all'interesse e alla volontà della popolazione quanto ai vantaggi
personali e a quelli dell'élite a cui appartenevano.
Anche all'epoca dei fatti c'erano molte persone che nutrivano dubbi sull'idea che Cavour o Vittorio Emanuele
II avessero a cuore le genti del meridione d'Italia. Si raccontava che Cavour, che non era mai stato nel sud
Italia, avesse riferito in Parlamento "non solo di aver fino allora creduto che in Sicilia si parlasse arabo ma
che di quest’isola ben poco egli conosceva, essendogli invece più familiare la storia dell’Inghilterra". (1)
Anche Bixio non aveva mostrato molta considerazione per la Sicilia, quando aveva scritto alla moglie: "(La
Sicilia) è un paese che bisognerebbe distruggere, e mandarli in Africa a farsi civili".(2)
Di certo, sia Cavour che Vittorio Emanuele II non avevano alcun interesse a migliorare le condizioni del sud
Italia, mentre ne avevano parecchio a difendere gli interessi dei proprietari terrieri e dell'oligarchia
dominante. Lo stesso Cavour apparteneva alla ricca classe nobiliare terriera piemontese.
L'Inghilterra iniziò ad imporre il suo potere nel Mediterraneo in seguito alle guerre napoleoniche, e aveva
l'obiettivo di accrescere il suo dominio. I Borbone non si erano sempre mostrati completamente sottomessi
alle autorità inglesi, e desideravano concludere accordi con l'Impero Russo, che voleva avere una base navale
nel Mediterraneo. Anche la Francia mirava ad accrescere il proprio potere sull'Italia, creando un protettorato
sullo Stato Pontificio e mettendo un principe francese nelle Due Sicilie.
Le due potenze decisero dunque di appoggiare il progetto dell'Unità d'Italia sotto il potere Sabaudo, seppure
con obiettivi diversi o contrastanti.
A partire dal 1848, la Gran Bretagna dette ingenti prestiti ai Savoia, per intraprendere le guerre di
unificazione nazionale. In quel periodo gli inglesi parlavano della famiglia borbonica in modo assai
sprezzante. Ferdinando II (morto nel 1859) e Francesco II venivano descritti come tiranni dalla propaganda
britannica, allo stesso modo in cui gli Usa descrissero Saddam Hussein nella propaganda precedente
all’invasione dell’Iraq. L’intenzione di spodestarli risultava sempre più chiara. A tale scopo gli inglesi
corruppero alcuni dei generali borbonici, come il generale Francesco Landi. Nel maggio del 1863, Lord
Henry Lennox dirà alla Camera dei Lords che in realtà era stata l’Inghilterra a realizzare l’Unità d’Italia, più
che Garibaldi.
Il piano Risorgimentale fu preparato con precisione e accuratezza, nulla fu lasciato al caso. Per meglio
coordinare gli uomini coinvolti furono utilizzate le logge massoniche. Lo storico Salvatore Lupo sostiene che
"durante la cospirazione risorgimentale esisteva una rete clandestina ispirata alla massoneria".(3) Le logge
massoniche coinvolsero tutti i maggiori protagonisti dell’Unità d’Italia, compreso Garibaldi.
Le logge si occuparono anche di organizzare la propaganda per coinvolgere quante più persone possibile,
convincendo a credere che il potere sabaudo sarebbe stato rispettoso dell'identità nazionale e dei diritti di
tutti i cittadini.
Iniziarono a circolare idee propagandistiche sul nazionalismo dei popoli e sulla libertà dallo straniero, che
praticava un "dispotismo oppressivo" attraverso i governi imposti dall'Austria e dai Borbone.
Il concetto politico di "nazione", elaborato nel secolo precedente, era assai efficace perché toccava corde
emotive molto profonde, e induceva a credere che attraverso lotte armate si potesse conquistare la libertà. In
tal modo si istigavano le masse alla sollevazione, controllando dall'alto l'esito e orientando i popoli verso
idee "liberali". L'inganno consisteva nel far credere di lottare per la libertà, mentre in realtà si trattava di
seguire chi avrebbe imposto un nuovo sistema di potere.
Nonostante la massiccia propaganda fatta tramite pubblicazioni, giornali e opuscoli, moltissime persone
rimasero diffidenti e altre avversarono apertamente il processo di unificazione dell'Italia. Specie in alcune
regioni, come la Campania, la Calabria e la Sicilia, si ebbe una guerra aperta contro il nuovo potere, che durò
oltre dieci anni e si concluse con la capitolazione del popolo e una serie innumerevole di violenze e massacri,
ad oggi non chiariti o insabbiati.
Il Regno Sabaudo, come altri, si era fortemente indebitato coi Rothschild e altre famiglie di banchieri, e tale
debito lo poneva in posizione di debolezza verso la volontà del gruppo che deteneva il potere finanziario. In
altre parole, i Savoia dovevano dar conto a chi aveva nelle mani la gestione delle risorse finanziarie. Agendo
in totale armonia con l'interesse di questi personaggi la casa Savoia avrebbe avuto ulteriori prestiti e
vantaggi, al contrario, se avesse sfidato tale oligarchia non avrebbe potuto estendere il proprio potere
sull'Italia, essendo privata dell'appoggio finanziario e militare.
Prima dell'Unità d'Italia la situazione economico-finanziaria dei Savoia versava in gravi, condizioni, e
l'occupazione dell'intera penisola avrebbe permesso loro di mettere le mani sulle banche e sulle ricchezze
delle regioni occupate.
Il nord Italia, al contrario di ciò che viene detto su molti libri di Storia, prima dell'Unità d'Italia aveva risorse
assai modeste. In Piemonte c'erano soltanto poche Casse di risparmio e i Monti di Pietà e il commercio era
assai modesto. In Lombardia non c'era nessuna banca di emissione e le esigue attività commerciali si
valevano della banca austriaca. Se non vi fosse stata l'occupazione del sud e il successivo sfruttamento
coloniale, probabilmente, non sarebbero sorte le grandi industrie del nord, create da famiglie appartenenti
all'élite dominante.
Il paese, dopo l'Unità, sarà reso disomogeneo e diseguale. L’unificazione politica avrebbe costretto
l’industria del sud a rinunciare ad ogni protezionismo, indebolendosi e avvantaggiando lo sviluppo di quella
del nord. Il sistema economico era strutturato in modo da far soccombere il più debole, come ebbe ad
osservare il 25 maggio del 1861, il deputato Giuseppe Polsinelli, industriale nel settore laniero, durante una
seduta in Parlamento: "La Francia e l’Inghilterra predicano il libero scambio, dopo aver avuto per secoli una
copertura grandissima, e la Francia anche la proibizione. Esse dicono a noi: facciamo liberamente il
commercio, apriteci il vostro mercato. Ma questa, o signori, è la lotta di un gigante con un bambino".
L'11 maggio del 1860 i Mille sbarcarono a Marsala, favoriti dalle navi della flotta inglese "Intrepid" e
"H.M.S. Argus", ormeggiate nel porto di Marsala (la flotta borbonica non avrebbe mai attaccato gli inglesi).
Fra i Mille c'erano diversi delinquenti comuni. Garibaldi aveva scritto: "Francesco Crispi arruola chiunque:
ladri, assassini e criminali di ogni sorta". (4)
Lo stesso Garibaldi, prima di diventare "l'eroe dei due mondi" era considerato un criminale, avendo praticato
il traffico di schiavi e il saccheggio mediante la "guerra di corsa" per conto degli inglesi. Nell'America del
sud era stato arrestato e condannato per aver rubato cavalli. Gli stessi Savoia non lo stimavano granché. In
una lettera inviata a Cavour, Vittorio Emanuele II, dopo lo storico "incontro di Teano", si lamentava del
comportamento di Garibaldi: "Come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda
Garibaldi, sebbene - siatene certo - questo personaggio non è affatto così docile né così onesto come lo si
dipinge, e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l'affare di Capua, e il
male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l'infame furto di tutto il denaro dell'erario, è da
attribuirsi interamente a lui, che s'è circondato di canaglie, ne ha seguito i cattivi consigli e ha piombato
questo infelice paese in una situazione spaventosa". (5)
L'ammiraglio piemontese Carlo Pellion Di Persano ebbe dagli inglesi l'incarico di corrompere ufficiali e
politici borbonici. Egli arrivò a Napoli prima dei garibaldini, per corrompere gli ufficiali borbonici offrendo
somme ingenti di denaro. Questo spiega il motivo per cui molti generali dell'esercito borbonico si rifiutarono
di combattere.
I Borbone, che avevano un esercito di almeno 25.000 uomini, inviarono in Sicilia soltanto 2.500 uomini,
probabilmente con l'ordine di non combattere. Le grandi vittorie garibaldine contro l'esercito borbonico
sarebbero dunque un'invenzione. Gli sconfitti, come ricorda Gigi Di Fiore nel suo libro "I vinti del
Risorgimento", furono in realtà i contadini e i pastori pugliesi, siciliani, napoletani, calabresi, abbruzzesi,
campani e molisani.
Dell'impresa dei Mille non si conosce tutto poiché i documenti che accompagnavano la spedizione andarono
distrutti. Nel febbraio del 1861 Ippolito Nievo, che era stato responsabile amministrativo dei Mille, fu
incaricato di recuperare tutta la documentazione amministrativa per portarla a Torino. Stranamente, il mese
successivo, la nave su cui si trovavano i documenti affondò, e non venne recuperato né il relitto, né i morti e
i loro beni. In tal modo rimasero sepolti nel mare documenti riguardanti l'impresa dei garibaldini.
Ciò che sappiamo per certo è che i Mille commisero massacri, soprusi, saccheggi e violenze, in seguito ai
quali si formò una vera e propria resistenza popolare, capeggiata da ex garibaldini o da contadini, come
Carmine Crocco, Nicola Summa e Domenico Romano, che liberarono molti paesi, prima di essere sconfitti.
L'impresa militare dei Mille fu diretta soprattutto contro la popolazione, con lo scopo di sottometterla al
nuovo potere. Garibaldi, nel 1864, sarà accolto con onore dalla regina d'Inghilterra e dal ministro Henry John
Palmerston. In quell'incontro egli ringraziò le autorità inglesi per l'appoggio dato alla spedizione dei Mille.
I garibaldini combatterono contro contadini e pastori, che non erano fervidi sostenitori del potere borbonico.
I contadini non volevano riportare sul trono i Borbone, ma volevano le terre e la libertà. Cipriano La Gala, un
capobanda, ad un avvocato inviato dai Borboni disse: "Tu hai studiato, sei avvocato, e credi che noi
fatichiamo per Francesco II?"
La reazione piemontese alla resistenza fu feroce: interi paesi furono distrutti a cannonate e molti dissidenti
furono catturati e fucilati, anche quelli che non avevano imbracciato le armi.
Le popolazioni venivano terrorizzate con distruzioni, saccheggi, stupri e ogni genere di violenza. Ad
esempio, il 14 agosto del 1861, a Pontelandolfo e Casalduni si ebbero incendi di case, saccheggi, violenze e
stupri. Oltre cento persone morirono, alcune delle quali furono decapitate per poter esporre le teste mozzate
come deterrente alla resistenza. Le persone che commisero questi crimini sono le stesse celebrate come eroi e
il cui nome è ricordato nelle nostre vie e piazze.
Nell'estate del 1860, scoppiarono tumulti nelle zone della Sicilia più povere: Ragalbuto, Polizzi, Tusa,
Biancavilla, Racalmuto, Nicosia, Cesarò, Randazzo, Maletto, Petralia, Resuttano, Castelnuovo,
Montemaggiore, Capace, Castiglione, Collesano, Centuripe, Mirto, Caronia, Alcara li Fusi, Nissoria, Cerami
e Mistretta. Erano tutti paesi costretti da tempo a subire le angherie dei mafiosi e a vivere nella più totale
miseria. Ora chiedevano giustizia e libertà, e si mostravano disposti a combattere per riavere le loro terre.
I contadini siciliani volevano le terre che erano state loro sottratte attraverso "donazioni" che la Chiesa o i
Borbone avevano fatto ad aristocratici locali o stranieri (soprattutto inglesi). Nell'agosto del 1860 Nino Bixio
represse nel sangue le proteste a Biancavilla, Cesarò, Randazzo, Maletto e Bronte. In quest'ultima località si
trascinava da molti anni una situazione drammatica: l'intero paese era stato occupato dai parenti di Nelson, in
seguito alla concessione di un feudo da parte del re Borbone all'ammiraglio Nelson. Era sorta la ducea di
Bronte, che pretendeva tasse altissime e costringeva la popolazione a vivere in totale miseria.
Impropriamente, si definirono i contadini brontesi "comunisti", ma in realtà essi volevano semplicemente
una parte delle terre usurpate, e non avevano intenti ideologici.
Con l'avvento di Garibaldi, i contadini siciliani si erano illusi di poter avere quella libertà che chiedevano.
Con un decreto, Garibaldi abolì la tassa sul macinato e ogni altra tassa imposta dal potere precedente. Il 2
giugno 1860 emanò norme per la divisione delle terre dei demani comunali, assegnandone una quota ai
combattenti garibaldini o ai loro eredi, se caduti. Con queste riforme Garibaldi accrebbe la sua popolarità, e
accese le speranze dei siciliani, che però ben presto dovettero accorgersi che le riforme erano state soltanto
un atto propagandistico, poiché le tasse da pagare erano quelle di prima e la redistribuzione delle terre non
era avvenuta.
A Bronte i contadini avevano fatto ricorso alla giustizia, sostenuti dall'avvocato Nicola Lombardo, ma tutte
le cause intentate contro gli usurpatori delle loro terre erano fallite. L'unica strada rimasta era quella della
sollevazione.
La repressione di Bronte fu feroce, gli insorti furono massacrati durante i tumulti o arrestati e fucilati in
seguito. Furono fucilate almeno cento persone, che in nome dei principi propugnati dallo stesso Garibaldi si
erano riappropriate di alcune terre usurpate dai parenti di Nelson.
La responsabilità del massacro di Bronte sarà attribuita a Nino Bixio, che in una serie di lettere documentò
gli eventi che portarono al fatto criminale. Ad esempio, in una di queste, scritta il 7 agosto 1860 e inviata al
maggiore Giuseppe Dezza, dice di aver messo le "unghie addosso a uno dei capi". Si raccontò anche
l'episodio del garzone che chiese il permesso di portare due uova all'avvocato Lombardo, che si trovava in
carcere, a cui Bixio disse cinicamente: "altro che uova, domani avrà due palle in fronte!". Lombardo sarà
fucilato insieme ad altre quattro persone, accusate di aver organizzato la rivolta a Bronte.
Bixio aveva in realtà obbedito al diktat "Italia e Vittorio Emanuele" che veniva indicato in tutti i decreti
come formula che conferiva poteri pressoché assoluti al fine di imporre l'occupazione in vista
dell'unificazione dell'Italia. Nell'art. 1 del decreto del 17 maggio 1860 si legge: "Durante la guerra, il
giudizio dei reati...", tale decreto avrà efficacia anche dopo la "sconfitta" dell'esercito borbonico. Da ciò si
inferisce che l'occupazione delle terre veniva considerata uno stato di guerra, e le popolazioni "ribelli"
dovevano essere trattate come combattenti in guerra. Tutti coloro che si ribellarono al potere sabaudo furono
trucidati, repressi, oppure fucilati dopo un processo sommario nei Tribunali di guerra. In altre parole, il
popolo italiano fu considerato come un nemico in guerra, e non come compartecipe ai fatti unitari. Nelle
sollevazioni, il popolo faceva richieste economiche precise, e la repressione scattava affinché queste richieste
venissero ritirate, in quanto non c'era alcuna intenzione da parte dei Savoia di rispettare la sovranità popolare
o di rendere più equa la situazione economica dell'Italia.
I massacri della popolazione e le condanne a morte venivano attuati in nome del re (che soltanto con la legge
17 marzo 1861 n. 4671 diventerà ufficialmente re D'Italia), sulla base del decreto 17 maggio 1860 n. 84, da
cui si legge "Le sentenze, le decisioni e gli atti pubblici saranno intestati: In nome di Vittorio Emanuele Re
d'Italia".
Dietro le scene c'era il Console inglese, John Goodwin, che faceva continue pressioni affinché Garibaldi e
l'allora Ministro dell'Interno Francesco Crispi tutelassero a tutti i costi gli interessi agricolo-patrimoniali dei
Nelson. Nelle lettere, Goodwin invita a punire l’avvocato Nicola Lombardo: "arrestare l’autore di tale
assassinio onde essere giudicato dall’autorità competente e condannato. (6)
I nobili inglesi avevano molti interessi in Sicilia, e permettere ai contadini di appropriarsi di alcune terre da
loro occupate significava scatenare una catena di eventi che avrebbe indotto il popolo ad appropriarsi anche
di altri beni usurpati da famiglie inglesi, come le miniere.
I fatti di Bronte furono considerati di poco conto e posti sotto silenzio dalla storiografia ufficiale, soprattutto
per il grande prestigio che avvolgeva il mito di Garibaldi e dei Mille. I fatti furono in parte chiariti soltanto
da uno studioso di Bronte, il professor Benedetto Radice, che pubblicò nell'Archivio Storico per la Sicilia
Orientale, nel 1910, una monografia dedicata a Nino Bixio a Bronte (1910, Archivio Storico Siciliano).(7)
Dopo questo scritto, molti sapevano dell'eccidio, ma nessuno storico considerò questo e altri fatti per
modificare l'interpretazione del Risorgimento italiano.
Secondo Gramsci i fatti di Bronte avevano una valenza politica nazionale: "Fu il dramma di una parte della
sinistra impegnata a decidere in Sicilia il nodo dell’egemonia politica del nuovo Stato, ovvero se dovesse
essere governato dalla sinistra o dalla destra. Bixio a Bronte reprime i suoi stessi compagni: l’avvocato
Lombardo era dalla parte di Bixio".(8)
Si trattò dunque della scelta di istituire uno Stato autoritario e repressivo, volto ad impedire ogni progresso
economico e politico. Spiega Antonino Radice: "Contro i diritti primari della gente siciliana Garibaldi scelse
quelli impropri dei cittadini inglesi, che furono anteposti così alle genti della zona etnea... La plebe... non
vedeva in Garibaldi solo il liberatore dalla tirannide borbonica, ma il liberatore della più dura tirannide, la
miseria".(9)
La dura repressione dei brontesi doveva fungere da deterrente per quei comuni, come Castiglione di Sicilia,
Linguaglossa, Adrano e Centuripe, che si stavano sollevando.
Nell'ottobre del 1985, il Comune di Bronte pose un monumento alla memoria delle vittime del potere
sabaudo. Sulla targa del monumento si legge: "Ad perpetuam rei memoriam che nell'agosto 1860 di cittadini
brontesi donò la vita in olocausto - Amministrazione Comunale - 10 ottobre 1985". Ciò nonostante, a pochi
metri è rimasta una strada dedicata a Bixio, segno che la Storia del nostro paese non è stata ad oggi
compiutamente chiarita e demistificata. I presunti eroi, nonostante l'accertamento dei fatti, non sono ancora
stati declassati a criminali, e ancora oggi molte strade e piazze portano i loro nomi.
La resistenza antipiemontese fu molto forte anche in Campania, dove furono massacrate almeno 150.000
persone, completamente cancellate dalla memoria storica italiana. Nel napoletano, quasi ogni famiglia ebbe
un morto per la resistenza antiunitaria. Migliaia di persone, notabili, artigiani, commercianti e preti, furono
arrestate soltanto perché non favorevoli all'unificazione. Racconta lo studioso Antonio Ciano:

"Le carceri dei piemontesi erano simili a lager. I prigionieri non potevano scrivere né ricevere visite dei
parenti o di avvocati, non potevano leggere libri né giornali. Gente onesta, preti, uomini di cultura, militari,
avvocati, medici, commercianti, operai, contadini, bambini figli di partigiani o solo nipoti di secondo e terzo
grado di manutengoli erano tenuti assieme ad assassini, ladri e malfattori. Le celle erano zeppe, non c'era
spazio nemmeno per dormire ed i pidocchi e le zecche imperavano sui corpi nudi del popolo meridionale. Il
fetore si alzava dalle carceri; si sentivano urla, a volte i prigionieri esasperati si impiccavano; a volte
venivano presi e fucilati per far posto ai nuovi venuti. I carcerieri erano delinquenti e camorristi assoldati dal
regime piemontese per premiarli della loro servitù... Il Mezzogiorno d'Italia era diventato il luogo dove si
ritornò a sperimentare la tortura, l'incatenamento; il Sud era diventato un inferno dove anche preti e bambini
venivano immolati alla causa della patria. I Savoia furono i maggiori responsabili... fecero subito
rimpiangere i Borbone: ruberie dappertutto, assassinii, fucilazioni, debiti nei Comuni, nelle Province, nello
Stato... distrussero in poco tempo l'economia del Meridione".(10)

Alla fine del 1861, i registri ufficiali notificarono l'uccisione di 1826 persone e l'arresto di 4096. Ma erano
escluse dal conteggio le persone uccise o arrestate in numerosi tumulti avvenuti a Benevento, a Caserta e in
numerose altre località. L'allora ministro della guerra Alessandro Della Rovere, disse in Parlamento che
80.000 uomini dell'ex armata napoletana, erano stati imprigionati in varie località italiane perché non si
erano sottomessi al potere piemontese. C'erano anche migliaia di profughi dei paesi saccheggiati e distrutti.
Si scatenò una furia repressiva immane contro chi non si piegava al nuovo potere, e spesso venivano arrestati
i parenti dei resistenti, anche se non c'entravano nulla. La caccia al "brigante" era fatta senza alcuna regola né
alcun rispetto dei diritti fondamentali. Il 12 febbraio del 1862 il colonnello della guardia nazionale di
Cosenza, Pietro Fumel, emise un bando per distruggere il brigantaggio, le cui parole fanno intendere il livello
di crudeltà scatenato:
"Io sottoscritto, avendo avuto la missione di distruggere il brigantaggio, prometto una ricompensa di cento
lire per ogni brigante, vivo o morto, che mi sarà portato. Questa ricompensa sarà data ad ogni brigante che
ucciderà un suo camerata; gli sarà inoltre risparmiata la vita. Coloro che in onta degli ordini, dessero rifugio
o qualunque altro mezzo di sussistenza o di aiuto ai briganti, o vedendoli o conoscendo il luogo ove si
trovano nascosti, non ne informassero le truppe e la civile e militare autorità, verranno immediatamente
fucilati ... Tutte le capanne di campagna che non sono abitate dovranno essere, nello spazio di tre giorni,
scoperchiate e i loro ingressi murati... È proibito di trasportare pane o altra specie di provvigione oltre le
abitazioni dei Comuni, e chiunque disubbidirà a questo ordine sarà considerato come complice dei
briganti".(11)
Per la repressione furono stanziate sempre più risorse. Nell'agosto del 1862 fu approvata una legge che
permetteva una “spesa straordinaria” di lire 23.494.500 per l’acquisto e la fabbricazione di 676.000 fucili da
destinarsi alle guardie nazionali che sarebbero state mandate nelle zone in cui c'era brigantaggio. I soldati
inviati nel sud aumentarono da 22.000 (1861) a 120.000 (1863).
Il brigantaggio esisteva anche prima dell'Unità d'Italia. Nell'Italia dell'Ottocento, ben prima del
Risorgimento, esistevano zone in cui gli abitanti si mostravano sempre meno disposti ad accettare un potere
iniquo imposto dai nobili locali e stranieri. Le lotte contro il sistema feudale non erano certo una novità,
tuttavia, a metà dell'Ottocento il popolo iniziava ad essere più disposto a rischiare per cambiare le cose.
Il brigantaggio fu utilizzato per reagire al nuovo sistema di potere, che si stava svelando peggiore persino del
precedente. Per aggiungere la beffa al danno, l'oligarchia di potere fece in modo da confondere "mafia" con
"brigantaggio", nascondendo che si trattava di fenomeni assai diversi: il primo voluto dall'alto per la difesa
dei beni sottratti al popolo, il secondo come organizzazione di lotta contro il potere.
La confusione dei termini permetteva di criminalizzare gli oppositori, proprio come oggi avviene col termine
"terrorista", utilizzato alla stessa stregua per indicare sia la resistenza nei paesi occupati che coloro che
organizzano attentati contro i popoli. Il criminalizzare i contadini aveva lo scopo di giustificare le repressioni
e scoraggiare il sostegno. Nonostante la propaganda, molti sapevano che i "briganti" erano coloro che
rivendicavano la libertà e lottavano per una vita meno misera. Scriveva nel 1863 il poeta e scrittore
Francesco Saverio Sipari:

"Chi sono i Briganti? Lo dirò io, nato e cresciuto tra essi. Il contadino non ha casa, non ha campo, non ha
vigna, non ha prato, non ha bosco, non ha armento; non possiede che un metro di terra in comune al
camposanto. Non ha letto, non ha vesti, non ha cibo d'uomo, non ha farmachi. Tutto gli è stato rapito dal
prete al giaciglio di morte o dal ladroneccio feudale o dall'usura del proprietario o dall'imposta del comune e
dello stato... il brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata: le avversioni del clero, e dei
caldeggiatori il caduto dominio, e tutto il numeroso elenco delle volute cause originarie di questa piaga
sociale sono scuse secondarie e occasionali, che ne abusano e la fanno perdurare. Si facciano i contadini
proprietari. Non è cosa così difficile, ruinosa, anarchica e socialista come ne ha la parvenza. Una buona legge
sul censimento, a piccoli lotti dei beni della Cassa ecclesiastica e demanio pubblico ad esclusivo vantaggio
dei contadini nullatenenti, e il fucile scappa di mano al brigante... Date una moggiata al contadino e si farà
scannare per voi, e difenderà la sua terra contro tutte le orde straniere e barbariche dell'Austro-Francia".(12)

Il brigantaggio diventò uno degli argomenti principali del Parlamento italiano. Il deputato Giuseppe Ferrari,
nel novembre del 1862, riferì in Parlamento: “Potete chiamarli briganti ma combattono sotto la loro bandiera
nazionale; ma i padri di questi briganti hanno riportato per due volte i Borboni sul trono di Napoli… Che
cos'è in definitiva il brigantaggio?… È possibile, come il governo vuol far credere che 1.500 uomini
comandati da due o tre vagabondi possano tener testa a un intero regno, sorretto da un esercito di 120.000
regolari? Perché questi 1.500 devono essere semidei, eroi! Ho visto una città di 5000 abitanti completamente
distrutta [Pontelandolfo]. Da chi? Non dai briganti”.
Il 29 aprile 1862 lo stesso deputato disse che “intere famiglie sono arrestate senza il minimo pretesto; che vi
sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una
nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno è fucilato. Questa si chiama guerra
barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so
più come esprimermi.” (13)

La "lotta al brigantaggio" si trasformò in una vera e propria guerra dell’esercito sabaudo contro il popolo.
Racconta lo studioso Aldo De Jaco:

"Col terrore i generali piemontesi cercavano di spezzare la solidarietà dei "cafoni" (contadini nda) con i
briganti. Ma il terrore non è stata mai arma sufficiente e valida per isolare i combattenti dalla popolazione
che li sostiene; così le fucilazioni non liquidarono ma aumentarono la solidarietà popolare per le vittime. La
leggenda che faceva dei briganti tanti eroi popolari, paladini e unica speranza dei miseri contro i prepotenti e
ricchi, trovava così mille riprove e questa fama assumeva subito due volti opposti: il volto del giustiziere
implacabile, per i pastori e le plebi, quello della belva feroce per i benestanti". (14)

Durante la guerra contro il brigantaggio, se da un lato i francesi e gli inglesi si ergevano a giudici
dell’operato del governo italiano, dall’altro utilizzavano le difficoltà nel sud per rafforzare lo stereotipo
dell’italiano ribelle e mafioso, dando inizio alla tendenza a confondere la ribellione contro il potere con
l’organizzazione mafiosa. I fatti di cronaca che riguardavano i briganti suscitarono grande attenzione da parte
dei giornali inglesi e francesi. Questi giornali (ad esempio il "Times",) accosteranno spesso, erroneamente, il
brigantaggio alla mafia. L’approccio con cui gli inglesi e i francesi tendevano a trattare il problema del
brigantaggio aveva una forte impronta razzista, e valutava il fenomeno come un'involuzione dovuta alla
inciviltà dei siciliani. Anche altri europei manifestavano un forte razzismo verso i siciliani. Secondo il
filosofo Joseph Widmann era evidente che il popolo siciliano fosse ancora primitivo, e aveva donne "megere
e scimmiesche".(15) Omologare le lotte dei contadini per la terra con la mafia e la delinquenza significava
anche impedire che i contadini dei loro paesi ne seguissero l'esempio. Il razzismo verso l'Italia agevolava il
far apparire quelle lotte come dovute alla "barbarie" e all'incapacità di comprendere i moderni principi
"liberali". In realtà, era proprio da quei principi che il popolo aveva tratto la forza morale e politica per
concepire come possibile un progresso economico e civile.
Anche il duca Alexander Nelson Hood (16) , accostò i briganti ai mafiosi, e attribuì loro gli stessi metodi
criminogeni e gli stessi obiettivi. I giornali e la letteratura dell’epoca creeranno e consolideranno lo
stereotipo della mafia come frutto popolare dovuto alla povertà e al degrado, e il brigantaggio come
fenomeno ad essa legato. Ma tali stereotipi occultavano che il popolo siciliano aveva lottato invano e
pacificamente per uscire dalla miseria e dal degrado, ma aveva ricevuto soltanto cannonate. Inoltre, tale
immagine della mafia ignorava che essa nasce per il controllo del territorio e per la tutela di interessi privati,
e che veniva organizzata e utilizzata dall’élite al potere, locale e straniera. I contadini siciliani erano vittime
della mafia, e per loro essa non era affatto vantaggiosa. Paradossalmente, oltre ad essere vittime del controllo
criminale mafioso, venivano spacciati anche per responsabili della mafia, come se le due cose potessero
coesistere nelle stesse persone.

Il 21 ottobre 1860, come nelle migliori tradizioni "democratiche", si svolse la votazione per l'annessione
della Sicilia al Piemonte. Con la collaborazione della mafia, venne creato un clima intimidatorio. Su una
popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono soltanto 432.720 cittadini (il 18%). Dei votanti, 432.053
votarono "Sì" e 667 "No". Il ministro Henry Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, nel suo rapporto al
governo scrisse: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono
costretti a votare per questa".
E un altro ministro inglese, John Russel, comunicò: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo
valore". (17)
I Plebisciti-burla si svolsero anche nelle altre regioni. Si trattava di un metodo per far passare l'Unità d'Italia
come voluta dal popolo, mentre in realtà non era così, ma questo doveva apparire.
In Campania le votazioni erano controllate dai camorristi, che bastonavano quelli che votavano "No", e
qualcuno morì misteriosamente. Camorristi, piemontesi e garibaldini votarono diverse volte per accrescere la
quantità di votanti per il "Si". Cesare Cantù spiegò come si svolsero a Napoli le operazioni di voto:
"Il plebiscito giunge fino al ridicolo, poiché oltre a chiamare tutti a votare sopra un soggetto dove la più parte
erano incompetenti, senza tampoco accertare l'identità delle persone e fin votando i soldati, si deponevano in
urne distinte i SI e i NO, che lo rendeva manifesto il voto; e fischi, e colpi e coltellate a chi lo desse
contrario. Un villano gridò: Viva Francesco II! E fu ucciso all'istante".(18)

In Toscana votò soltanto il 19% della popolazione. Come nelle altre regioni, votarono soprattutto gli
appartenenti alla classe ricca o benestante. In Veneto venne dato l'ordine alle autorità di "assicurare S. E. che
della medesima non mancherà di adoperarsi affinché la votazione abbia a riuscire di unanime accordo pella
dedica a S.M. il Re Vittorio Emanuele II".(19) I votanti veneti furono meno di 650.000 (641.000 votarono
"Si" e 69 "No") su una popolazione di 2.500.000 di abitanti, (votarono il 26%). Gli aventi diritto al voto
erano soltanto i maschi che avevano compiuto 21 anni.
Le operazioni di voto non erano segrete, come racconta Silvio Eupani:
"Le autorità comunali avevano preparato e distribuito dei biglietti col Si e col No di colore diverso; inoltre,
ogni elettore, presentandosi ai componenti del seggio, pronunciava il proprio nome e consegnava il biglietto
al presidente che lo depositava nell'urna".(20)
Anche in Veneto si ebbero diverse rivolte e manifestazioni antiunitarie, ad esempio a Thiene, a S. Germano a
Cavarzere al Cadore e a Legnago, fatti completamente occultati dalla storiografia ufficiale, che racconta di
un consenso unanime. In alcune zone del Veneto furono create persino filastrocche antiunitarie. Alcuni versi
recitavano: "Co le teste dei taliani zogaremo le borele (bocce) e Vittorio Manuele metaremo par balin". Una
canzone diceva: "Vegnerà Vitorio Manuele se patirà nà stissa de coele - l vegnarà con mostaci e barbeta se
patirà 'na fame maledeta e più avanti - Se dura il furor dei monumenti un monumento avrà Quintino Sella
che con un tratto di saggezza rara la polenta ci ha resa assai più cara".
I veneti, come i meridionali, capivano che il nuovo potere li avrebbe saccheggiati e affamarli.
La conseguenza dell'annessione del Veneto fu una massiccia emigrazione dei veneti, costretti a cercare
fortuna in America, soprattutto nell'America Latina, dove molti finirono a lavorare nei campi al posto degli
schiavi liberati. La valanga migratoria dei contadini del sud si avrà diversi anni dopo rispetto a quella veneta,
perché i meridionali non avevano nemmeno il denaro per pagare il viaggio e dovevano prima racimolarlo.
Nei primi anni del Regno d'Italia i siciliani subirono un enorme saccheggio, le casse della regione furono
svuotate e persino i beni demaniali ed ecclesiastici furono venduti. Alcuni studiosi ci forniscono
un'immagine del sud preunitario ben diversa da quella fornita dai libri scolastici. Ad esempio, lo storico
Nicola Zitara spiega: "(Il sud borbonico era) Un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni.
Essendo, a quel tempo, gli scambi con l'estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni
mediterranee il paese meridionale era il più avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di
trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza
straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento d'industrie, le quali,
erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e con una capacità di proiettarsi sul
mercato internazionale limitata, come, d'altra parte, tutta l'industria italiana del tempo (e dei successivi cento
anni)... Il Paese era pago di sé, alieno da ogni forma di espansionismo territoriale e coloniale. La sua
evoluzione economica era lenta, ma sicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche e
preferiva misurare la crescita in relazione all'occupazione delle classi popolari. Nel sistema napoletano, la
borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali erano ottusamente sacrificati,
come nel Regno sardo, ma era una classe al servizio dell'economia nazionale".(21)

Con l'occupazione delle regioni italiane, i Savoia si impadronirono di notevoli risorse, mettendo le mani
anche sull'oro delle Banche e sui beni ecclesiastici. Spiega Zitara: "Senza il saccheggio del risparmio storico
del paese borbonico, l'Italia sabauda non avrebbe avuto un avvenire. Sulla stessa risorsa faceva
assegnamento la Banca Nazionale degli Stati Sardi. La montagna di denaro circolante al Sud avrebbe fornito
cinquecento milioni di monete d'oro e d'argento, una massa imponente da destinare a riserva, su cui la banca
d'emissione sarda - che in quel momento ne aveva soltanto per cento milioni... per i piemontesi, il saccheggio
del Sud era l'unica risposta a portata di mano, per tentare di superare i guai in cui s'erano messi".(22)

Con la Legge Pica (legge marziale), approvata nell'agosto del 1863, si dava mano libera "per la repressione
del brigantaggio nel Meridione". Seguì una repressione crudele e sanguinosissima, che si rivolse anche
contro donne, bambini e vecchi. La dissidenza veniva criminalizzata e trattata con estrema ferocia.
Nell'agosto del 1863 venne mandato in Sicilia il Generale Giuseppe Gaetano Govone, che non esiterà a
reprimere nel sangue la popolazione, torturando e uccidendo. Govone aveva organizzato i primi servizi
segreti italiani nel 1859, poco prima della Seconda guerra d'Indipendenza, e dopo l'Unità diventò ministro
della Guerra. Egli aveva avuto un ruolo importante nel processo di unificazione dell'Italia, avendo svolto
incarichi miiltari e di spionaggio. Nel settembre del 1870 sarà destituito dal dicastero della Guerra perché
improvvisamente dichiarato "pazzo". Nel gennaio del 1872 verrà trovato misteriosamente morto. Il giorno
successivo alla morte di Govone, qualcuno trafugò molti documenti che riguardavano i fatti che portarono
all'Unità d'Italia e la repressione del brigantaggio. Alcuni storici presumono che le carte sparite si riferissero
precisamente alle operazioni di repressione del brigantaggio supportate da truppe inglesi. Di certo, con
Govone spariranno definitivamente tutte quelle informazioni segrete sul connubio fra politica italiana,
sistema di potere, affari e legami internazionali.
Nel 1892 si formarono i "Fasci dei Lavoratori Siciliani", come ulteriore tentativo di permettere ad una terra
martoriata di risolvere i suoi problemi. L'organizzazione era pacifica, e chiedeva soprattutto la spartizione
delle terre demaniali o incolte e la diminuzione delle tasse. La risposta del governo italiano sarà feroce: verrà
decretato lo stato di assedio e verranno mandati 40.000 soldati al comando del Generale Morra di Lavriano.
Per distruggere i Fasci saranno uccise migliaia di persone.

Ufficialmente, dal 1861 al 1865, fu registrata l'uccisione di 5212 "briganti", ma nei documenti ufficiali non si
registravano i morti nelle carceri e gli eccidi avvenuti durante le sollevazioni.
Migliaia di persone furono deportate nei campi di prigionia, che erano assai simili ai lager. Molte persone
imprigionate non conoscevano nemmeno l'accusa a loro rivolta ma sapevano che tutti i loro beni sarebbero
stati confiscati. Spesso il motivo dell'arresto era proprio il saccheggio dei loro possedimenti. Le condizioni di
vita nelle carceri erano così dure che soltanto pochi sopravvivevano, e i morti non venivano registrati, in
modo tale da non avere tracce di ciò che era avvenuto. Altre migliaia di persone furono condannate al
confino nelle isole, a Ponza, a Gorgonia, Capraia, Giglio, all'Elba e in Sardegna. La vita nelle carceri era
durissima, come alcuni Atti Parlamentari e diversi carteggi parlamentari dell'epoca attestano. Ad esempio, in
un discorso in Parlamento, il duca di Maddaloni Francesco Proto Carafa disse:

"Ma che dico di un governo che strappa dal seno delle famiglie tanti vecchi generali, tanti onorati ufficiali
solo per il sospetto che nutrissero amore per il loro Re sventurato, e rilegagli a vivere nelle fortezze di
Alessandria ed in altre inospitali terre del Piemonte…Sono essi trattati peggio che i galeotti. Perché il
governo piemontese abbia a spiegar loro tanto lusso di crudeltà? Perché abbia a torturare con la fame e con
l'inerzia e la prigione uomini nati in Italia come noi?"

Lo stesso parlamentare denunciò l'impoverimento e il saccheggio del Sud:

"La loro smania di subito impiantare nelle province napoletane quanto più si poteva delle istituzioni del
Piemonte, senza neppure discettare se fossero o no opportune fece nascere sin dal principio della
dominazione piemontese il concetto e la voce "piemontizzare". Intere famiglie veggonsi accattar l'elemosina;
diminuito, anzi annullato, il commercio; serrati i privati opifici. E frattanto tutto si fa venir dal Piemonte,
persino le cassette della posta, la carta per i dicasteri e per le pubbliche amministrazioni. Non vi ha faccenda
nella quale un onest'uomo possa buscarsi alcun ducato che non si chiami un piemontese a disbrigarla. A'
mercanti del Piemonte dannosi le forniture più lucrose: burocratici di Piemonte occupano tutti i pubblici
uffizi, gente spesso ben più corrotta degli antichi burocratici napolitani. Anche a fabbricare le ferrovie si
mandano operai piemontesi i quali oltraggiosamente pagansi il doppio che i napoletani. A facchini della
dogana, a carcerieri, a birri vengono uomini di Piemonte. Questa è invasione non unione, non annessione!
Questo è voler sfruttare la nostra terra di conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province
meridionali come il Cortes ed il Pizzarro facevano nel Perù e nel Messico, come gli inglesi nei regni del
Bengala".(23)

Anche molti studiosi e intellettuali si opposero all'Unità d'Italia. Scriveva lo storico Giacinto De Sivo:

"Chi adunque nel reame vuole l'unità? Non la nobiltà, non il clero, non gli scienziati, non le milizie, non gli
artigiani, non i contadini, e non i commercianti. Voglionla i contrabbandieri, i galeotti, i camorristi, ed
uomini oziosi, lanciati per errore o per bisogno o per ambizione nel caos delle sette. Questi han preso le cime
degli uffizii, questi strepitano, scrivono, spauriscono, pugnalano, fucilano, e si chiamano popolo e nazione.
Ma il popolo del regno non vuole l'Italia una".(24)

Nonostante le numerose denunce dei crimini dell'esercito sabaudo da parte di parlamentari e di intellettuali le
persecuzioni non cessarono. Nel 1862, a Pantelleria furono inviate tre colonne militari, fu istituita la legge
marziale, e le truppe setacciarono in lungo e in largo l'intera isola per uccidere i resistenti. I "ribelli" furono
trovati in una caverna che si trovava in cima alla Montagna Grande a 848 metri si altezza. Prima di essere
uccisi, furono costretti a sfilare nelle strade, sotto la bandiera e al suono di un tamburo. Al loro passaggio
molte persone piangevano. Le somme che i Savoia spesero per l’operazione furono pagate dagli stessi
cittadini di Pantelleria.
Alla fine del 1862, una relazione della Camera documentava che 15.665 persone erano state fucilate, 1.740
imprigionate e 960 uccise in combattimento. Si registrava l'esistenza di almeno 400 gruppi di combattenti
antiunitari.
Nel 1866 in Sicilia si ebbero diverse sommosse. Palermo fu posta sotto controllo dopo un lungo assedio da
parte di migliaia di soldati piemontesi. Oltre ai duemila morti causati dalle cannonate, si ebbero in tutta la
Sicilia, nel giro di circa una settimana, 65.000 morti per il colera, scoppiato inizialmente fra le truppe
piemontesi. Diventarono sistematiche la pratica della tortura e le ritorsioni sulla popolazione inerme, con
stragi di interi villaggi e la distruzione dei raccolti per affamare i paesi dove si trovava la resistenza.
Gli ufficiali dell'esercito sabaudo ritenevano che il popolo del sud fosse inferiore, e non esitavano a
massacrare, come se avessero a che fare con animali e non con esseri umani. Nell'agosto del 1861 così
scriveva il colonnello Gaetano Negri al padre, dopo l'eccidio di Pontelandolfo:

"Carissimo papà, Le notizie delle province continuano a non essere molto liete. Probabilmente anche i
giornali nostri avranno parlato degli orrori di Pontelandolfo. Gli abitanti di questo villaggio commisero il più
nero tradimento e degli atti di mostruosa barbarie; ma la punizione che gli venne inflitta, quantunque
meritata, non fu per questo meno barbara. Un battaglione di bersaglieri entrò nel paese, uccise quanti vi
erano rimasti, saccheggiò tutte le case, e poi mise il fuoco al villaggio intero, che venne completamente
distrutto. La stessa sorte toccò a Casalduni, i cui abitanti si erano uniti a quelli di Pontelandolfo. Sembra che
gli aizza tori della insurrezione di questi due paesi fossero i preti; in tutte, le province, e specialmente nei
villaggi della montagna, i preti ci odiano a morte, e, abusando infamemente della loro posizione, spingono
gli abitanti al brigantaggio e alla rivolta. Se invece dei briganti che, per la massima parte, son mossi dalla
miseria e dalla superstizione, si fucilassero tutti i curati (del Napoletano, ben inteso!), il castigo sarebbe più
giustamente inflitto, e i risultati più sicuri e più pronti".(25)

Si calcola che la "lotta al brigantaggio" si sia conclusa con 54 paesi rasi al suolo e 1 milione di morti. Le
autorità cercarono di insabbiare tali crimini facendo sparire numerosi documenti.
I Savoia cercarono anche di beffare il popolo facendogli credere il contrario di ciò che era. Nonostante si
commettessero crimini efferati pur di occupare tutta la penisola, nei proclami il re sosteneva di rispettare la
volontà popolare. In uno di questi si legge:

"Popoli dell'Italia meridionale! Le mie truppe avanzano tra voi per riaffermare l'ordine. Non vengo a imporvi
la mia volontà, ma a far rispettare la vostra, che voi potete liberamente manifestare. La provvidenza che
protegge il giusto ispirerà il voto che deporrete nelle urne. Qualunque sia la gravità degli eventi, attendo
tranquillo il giudizio dell'Europa civile, e quello della storia, perché ho conoscenza di compiere doveri di re e
di Italiano. In Europa la mia politica non sarà inutile a conciliare il progresso dei popoli con la stabilità della
monarchia.
"In Italia so che chiudo l'era delle rivoluzioni". Vittorio Emanuele".(26)

Il 27 gennaio 1861 si svolsero le prime elezioni per il Parlamento "italiano". La legge elettorale piemontese
dava diritto di voto soltanto agli uomini alfabetizzati che avevano compiuto 25 anni e pagavano alcune
imposte. Su circa 24 milioni di abitanti, gli aventi diritto al voto erano soltanto 418.850, e coloro che si
recarono alle urne furono 239.853, meno dell'1% di tutta la popolazione.
Massimo D'Azeglio disse: "Queste Camere rappresentano l'Italia così come io rappresento il Gran Sultano
turco".
I candidati proposti erano tutti filopiemontesi e molti avevano preso parte attiva ai fatti risorgimentali. Ciò
nonostante, alcuni di essi denunciarono i crimini che avvenivano nel sud Italia, impressionati dalla ferocia
repressiva dell'esercito sabaudo.
Nel giro di pochi anni, in molte zone della penisola la disoccupazione diventò un fenomeno comune. Nel
1865, quasi tutte le fabbriche del meridione erano fallite, e le tasse erano aumentate dell’87%, per pagare le
guerre risorgimentali e per sviluppare l'industria del nord. L’agricoltura meridionale finanziava le nuove
industrie del Piemonte e della Lombardia, che erano proprietà di famiglie appartenenti all'oligarchia
dominante.
Il nuovo Stato attuò saccheggi, devastò l'economia del sud, non restituì la terra ai poveri e impose nuove
tasse, che costrinsero milioni di persone ad emigrare.
Nel 1864 il ministro Minghetti impose tasse anche sui beni di primaria necessità. Nella legge n. 1862 del 30
luglio 1864 si permetteva ai comuni di imporre dazi sul consumo di bevande ed alimenti. Saranno imposti
dazi anche sulla pasta, sulle farine, sui cereali e sul vino col risultato che le classi povere si trovarono in
grosse difficoltà, costrette a diminuire i consumi di beni di primaria necessità, sprofondando al limite della
possibilità di sopravvivenza. Come se non bastasse fu introdotta la naia obbligatoria, che sottraeva braccia
all'agricoltura. I progetti del Regno d'Italia stavano guardando con simpatia la partenza di soldati verso
l'Africa alla conquista di colonie. Le proteste da parte della povera gente furono tante, basti pensare alle
sollevazioni che si verificarono a Milano, come a Napoli, per difendere il minimo diritto a sfamarsi.
L'episodio più celebre è quello del maggio 1898, quando davanti allo stabilimento della Pirelli un dipendente
distribuì volantini che spiegavano la necessità di dare più diritti ai lavoratori. L'operaio venne arrestato e
questo sollevò proteste e disordini. Alcuni operai seguirono il compagno arrestato fino in caserma, ma giunti
lì vicino la polizia fece fuoco senza pietà sulla folla uccidendo una persona e ferendone cinque. Milano
diventò una città sotto assedio. Sarà chiamato a risolvere il problema il generale Fiorenzo Bava Beccaris che
opterà per i cannoni: prese a cannonate diverse strade affollate uccidendo 80 persone e ferendone 450. Il re
Umberto I poco tempo dopo lo premierà con una medaglia al valore (l'anarchico che lo ucciderà nel 1900
dichiarerà di aver vendicato quelle vittime). Questo bastava a capire che i governi italiani non avevano come
priorità il combattere la povertà e la fame che attanagliavano gli italiani, anzi, nel giro di pochi anni la
pressione fiscale arrivò a raddoppiarsi costringendo molti italiani ad espatriare.
Le aspirazioni autonomiste e indipendentiste di alcune regioni italiane non scompariranno mai, ma soltanto
all'inizio degli anni Novanta dello scorso secolo si diffonderanno le "Leghe". Tali formazioni, nonostante
facessero leva sul federalismo e sulla sovranità popolare, si inseriranno perfettamente nel sistema partitico,
acquisendone tutte le caratteristiche, compresa la priorità di accrescere potere rispetto all'appoggiare le
rivendicazioni popolari, come emerse anche dal caso della nuova base Usa a Vicenza. Da ciò si potrebbe
inferire che tale fenomeno fosse dovuto principalmente all'esigenza di cooptare dall'alto il crescente
malcontento, aggravato dai processi di "globalizzazione", che indebolirono le istanze del Welfare e le
imprese piccole e medie, su cui poggia l'economia di molte regioni italiane.

Il Risorgimento dunque, così come lo si studia sui libri di scuola è un falso storico, elaborato ad oc per
insabbiare ciò che le autorità Sabaude fecero nelle regioni italiane, con la complicità delle autorità dei paesi
egemoni. Gli eroi e i geni diplomatici tanto esaltati, altro non sarebbero che personaggi sottomessi al sistema
di potere dell'oligarchia dominante. La Storia del nostro meridione è ad oggi palesemente mistificata, e
nessun libro scolastico spiega in modo chiaro e approfondito quali sono le vere cause del sottosviluppo
economico del sud. Pur di non dare spiegazioni si è fatto ricorso al pregiudizio e allo stereotipo che mostra il
cittadino meridionale come poco amante del lavoro e poco rispettoso delle istituzioni. Le autorità Sabaude,
negli anni successivi all'unificazione, descrivevano i meridionali come contadini con usanze barbare e
primitive, oppure come una massa di delinquenti e criminali. Si affermò lo stereotipo del meridionale da
civilizzare. Ad esempio, un libro pubblicato nel 1898 dal titolo "L’Italia barbara contemporanea",
considerava il sud come "una grande colonia da civilizzare”, in cui si dovevano raggiungere "due obiettivi
fondamentali: combattere la miope superbia regionale; irrobustire il culto dell’Unità fondata sul dogma di
adattare tutte le regioni in un unico modello amministrativo [con] una gestione autoritaria a sud e liberale nel
centro/nord" .(27)

I fatti qui raccontati sono soltanto una minima parte di quello che si potrebbe raccontare. Molti eccidi sono
stati completamente insabbiati con la distruzione dei documenti, e alcuni archivi Sabaudi non sono ad oggi
accessibili.
Gli eventi qui trattati non appartengono soltanto al passato. La popolazione del sud Italia porta ad oggi le
conseguenze di ciò che avvenne, e l'Italia intera continua a soffrire per un sistema politico orientato soltanto
a difendere gli interessi del potere dominante.
Ad oggi, si preferisce denigrare i meridionali piuttosto che capire qual'è la vera realtà. Fino a qualche tempo
fa qualcuno sosteneva che i meridionali non avevano il "senso dello Stato". Ma cosa significa ciò alla luce
dei fatti storici? Significa non avere affezione per istituzioni che si spacciano per rappresentanti della
collettività ma che in realtà agiscono in modo iniquo utilizzando anche la mafia per tenere sottomessa la
popolazione. Soccombere a un tale assetto significherebbe morire "dentro", e questo non è nello spirito vitale
della cultura del sud.
I nostri libri di Storia citano diverse "liberazioni", ma alla luce dei fatti risulta che il popolo italiano non si è
ancora liberato dalle catene del potere, che oggi risulta nascosto e mistificato, ma non per questo meno
oppressivo e nocivo.

Copyright 2007 - all rights reserved.

BIBLIOGRAFIA

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Zitara Nicola, "Il proletariato esterno. Mezzogiorno d'Italia e le sue classi", Jaca Book, Milano 1977.
Zitara Nicola, "Negare la negazione", La Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria 2001.

NOTE

1) Macry Paolo, "Così il Sud condannò l’Unità", Corriere della Sera, 23 Gennaio 2002.
2) Macry Paolo, "Così il Sud condannò l’Unità", Corriere della Sera, 23 Gennaio 2002.
3) Lupo Salvatore, "Storia della mafia", Donzelli Editore, Roma 1996, p. 59.
4)www.brigantaggio.net/brigantaggio/Storia/Meridionale/Q37_Mafia.PDF+inglesi+terre+sicilia+contadini&
hl=it&ct=clnk&cd=5&gl=it&ie=UTF-8
5) Smith Denis Mack, "Garibaldi, una grande vita in breve", Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1993, p.
285.
6) Radice Antonio, "Risorgimento perduto", De Martinis & C., Catania 1995.
7) Sciascia Leonardo, "Nino Bixio a Bronte", Edizioni Salvatore Sciascia, Caltanissetta, 1963.
8) Giarrizzo Giuseppe, "La Sicilia moderna dal Vespro al nostro tempo", Edumond Le Monnier, Firenze
2004.
9) Radice Antonino, "Risorgimento perduto: origini antiche del malessere nazionale", De Martinis, Catania
1995.
10) Ciano Antonio, "I Savoia e il massacro del Sud", Grandmelò, Roma 1996.
11) http://cronologia.leonardo.it/storia/a1862f.htm
12) Cit. Croce Benedetto, "Storia del Regno di Napoli", Laterza, Bari, 1966, pp.337-339.
13) http://www.ilportaledelsud.org/mono_ressa_4_4.htm#_ftn26
14) De Jaco Aldo, "Il brigantaggio meridionale, Cronaca inedita dell'Unità d'Italia", Editori Riuniti, Roma,
1969
15) http://www.leinchieste.com/viaggiatori_e_mafia.htm
16) Nelson Hood Alexander, Sicilian Study, George Allen & Unwin, London 1915.
17) www.duesiciliegioiosa.org
18) Cesare Cantù, "Storia Universale", Unione Tipografica Editrice, Torino 1886.
19) Circolare del Commissario del re per la Provincia di Belluno datata 5 ottobre 1866.
20) Eupani Silvio, "Epopea di Malo: da Quarto dei Mille al Pasubio, al fiume Don", 1971.
21) Zitara Nicola, "Il proletariato esterno. Mezzogiorno d'Italia e le sue classi", Jaca Book, Milano 1977.
22) Zitara Nicola, op. cit.
23) Atto parlamentare n. 234 del 20 novembre 1861.
24) De Sivo Giacinto, "I Napolitani al cospetto delle nazioni civili" (1860), Borzi, Roma 1967.
25) www.duesicilie.org/OLDSITE/comunicati/Casalduni.html - 14k
26) Alianello Carlo, "La conquista del sud", Rusconi, Milano 1972.
27) Servidio Aldo, "L'imbroglio Nazionale", Alfredo Guida Editore, Napoli 2000, p. 163.

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