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COLLANA DELLA LIBERA UNIVERSITÀ MEDITERRANEA

“JEAN MONNET”
Serie Giuridica
I

MARCELLO MARIA FRACANZANI

ANALOGIA
E
INTERPRETAZIONE
ESTENSIVA
NELL’ORDINAMENTO
GIURIDICO

MILANO 2003

1
A Ponfolo ed ai suoi fratelli

2
3
INDICE – SOMMARIO

PREMESSA: IL PROBLEMA
p.1
SEGUE: IL TEMA
p.3

1. INQUADRAMENTO DEL TEMA NEL PROBLEMA


DELL’INTERPRETAZIONE

1.1. Ermeneutica come metodo generale delle scienze dello spirito:


spunti e critiche dall’impostazione bettiana utili per l’approccio
contemporaneo al tema

1.1.1. Positivismo e dogmatica in tema di interpretazione. Dogmatica come parte


integrante dell’interpretazione giuridica e oggettività fondata sulla dogmatica
nell’impostazione di Betti. Categorie dogmatiche e giuridiche come creazioni dello spirito
p.7

1.1.2. Impostazione ermeneutica come Methodenlehre; l’”astrazione metodica” di


Betti; critica al “circolo del comprendere come circolo metodico, anziché ontologico”.
Analisi della possibilità del superamento della critica mettendo tra parentesi il problema
metodologico-ontologico. Indagine su una concezione al tempo stesso metodica e ultra-
metodica .p.19

1.1.3. Necessità della concretizzazione ermeneutica. L’ermeneutica come teoria


descrittiva o normativa dell’interpretazione. Valutazione soggettiva e razionalizzazione
del processo di decisione p.24

1.1.4. L’ interpres come mediatore (interpretium). C’è una neutralità ermeneutica? Il


confronto con Betti. La verità e l’interpretazione. Esistenza di una verità nella e della
interpretazione. Efficacia storica/esattezza di una interpretazione: valore pedagogico e
anticipatorio della legge p.28

1.1.5. L’interpretazione evolutiva nell’impostazione bettiana: spunti e precisazioni


. p.34

1.2. Interpretazione-ricerca e interpretazione-risultato: sulla bontà della


distinzione nella prospettiva dell’esperienza giuridica

1.2.1. Rapporto tra norma e testo. Chi fa l’interpretazione? Qual è la funzione


dell’interpretazione? Teoria normativistica come riduzione all’analisi del linguaggio.

4
Interpretazione come conoscenza mediante i concetti e interpretazione come
apprezzamento assiologico. Interpretazione del diritto, interpretazione della legge e
interpretazione dell’interpretazione. Interpretazione in funzione normativa e
interpretazione giuridica. Diritto in potenza e diritto latente: valutazione di queste
categorie p.38

1.3. Contenuti della ricerca interpretativa

1.3.1. Criteri discretivi della ricerca interpretativa: l’individuazione degli interessi in


conflitto; del bene giuridico tutelato. Superamento di queste impostazioni (anche in campo
penalistico) p.45

1.3.2. Circolo di reciprocità tra vigore dell’ordine giuridico e processo interpretativo.


Norma e uso della norma. Interpretazione abrogante come strumento per ricostruire
l’ordine assiologico nel sistema. Comunità dell’interpretazione giuridica/comunità
giuridica. Norma giuridica come pre-giudizio sociale condiviso p.50

1.4. Il conflitto delle interpretazioni: una difficoltà del positivismo non


risolubile con l’antipositivismo

1.4.1. Il conflitto delle interpretazioni. Il problema della coerenza ermeneutica: ragioni


del problema. Le norme plurivoche o di significato ambiguo vanno interpretate in modo
conforme al sistema. I significati assurdi: ragioni e modalità dell’esclusione.
L’applicazione retroattiva p.55

1.4.2. Una soluzione giurisprudenziale: la norma giuridica al momento stesso della


sua entrata in vigore si oggettivizza estraniandosi dai fatti contingenti e dalle vicende che
hanno preceduto la sua emanazione (che conservano il valore di ausilio esegetico); va
interpretata facendo riferimento alla situazione esistente al momento della sua
applicazione. La norma, nella sua autonomia comprende tutte quelle situazioni anche non
prevedibili verificatesi successivamente che si inquadrino nella sua ratio e nella lettera
della disposizione. In tale operazione non opera l’analogia né l’interpretazione estensiva
perchè la nuova fattispecie rientra direttamente nella previsione della norma, considerata
nel suo significato letterale e logico p.60

2. LA NECESSITÀ DI UNA DISTINZIONE TRA INTERPRETAZIONE


ESTENSIVA E ANALOGIA COME SOLUZIONE AL PROBLEMA DELLE
LACUNE

2.1. Le lacune dell’ordinamento: sulla fisiologica imprecisione della


legge

5
2.1.1. Il rapporto tra l’interpretazione e le lacune. Premessa: indagine sulla realtà
normativa. Norma come cornice (Kelsen) e norma come realtà spirituale (Betti). I tipi e i
nomina: tipica come topica giurisprudenziale p.64

2.1.2. Ordinamenti giuridici chiusi e aperti: è ancora attuale questa distinzione? Ogni
sistema è normativamente chiuso e cognitivamente aperto. Completezza e autosufficienza
p.70

2.1.3. Le lacune: esistono o sono create dall’interprete? Le lacune pensabili. Il “diritto


controverso” di Betti: lacune della legge o insufficienza dell’interprete? Lacune:
lacunosità generica e specifica, lacune statiche e dinamiche, lacune originarie ed
evolutive, lacune metodologiche, lacune operative, lacune politiche e ideologiche, lacune
proprie e improprie. Lacune anche dei principi p.75

2.2. In claris non fit interpretatio: (in) attualità di un broccardo

2.2.1. Pretesa chiarezza di un testo. Il “caso deciso” e il “caso dubbio”. Come


stabilire quando non esistono dubbi sul contenuto di una norma? Dubbio diagnostico e
dubbio assiologico (Betti). La chiarezza come risultato e non come presupposto (Betti). In
claris vel non, semper fit interpretatio (Perlingieri) p.83

2.3. Mezzi per colmare le lacune secondo prassi

2.3.1. Ipotesi volontaristica. Volontà presunta del legislatore: velleitarietà


dell’impostazione in termini volontaristici p.90

2.3.2. Ipotesi logicistica; diversità di struttura logica e di natura giuridica


(impostazione del problema e rinvio) p.95

2.3.3. Analogia e ricorso ai principi non valgono a escludere l’incompletezza


dell’ordinamento giuridico. Necessità di soffermarsi sulla funzione, prima che sulla
struttura di interpretazione estensiva e analogia. Funzione dell’analogia è colmare le
lacune? Equivoco: definire l’analogia per la sua funzione e non per la sua essenza p.98

3. TENTATIVI DI DISTINGUERE INTERPRETAZIONE ESTENSIVA E


ANALOGIA IN BASE ALLA FUNZIONE: IL PROBLEMA DELLA
DICHIARATIVITÀ - CREATIVITÀ

3.1. Interpretazione e linguaggio: continuità e differenze

3.1.1. L’interpretazione estensiva tenderebbe ad allargare l’area di significanza dei


termini senza superare il limite della zona di incertezza.; l’analogia consentirebbe di
applicare una norma a una fattispecie non prevista uscendo dalla norma. (Rinvio).

6
Necessità logica dell’interpretazione estensiva, non similitudine di rapporti. Superamento
tramite concezione della struttura aperta del linguaggio e ragionamento di “tipo
analogico” del giudice p.102

3.2. Interpretazione e creazione: fisiologia e patologia ermeneutica

3.2.1. Insostenibilità di una distinzione qualitativa tra integrazione e interpretazione


sulla base dell’antitesi creatività/dichiaratività. Analogia e interpretazione estensiva come
processo sostanzialmente unitario. Impossibilità di stabilire un confine tra integrazione e
interpretazione naturale e fondamentale p.106

3.2.2. Da Carnelutti a Betti sulla distinzione auto-etero integrazione; ricorso ai


principi e auto (o etero?) integrazione. Autopoiesi formale e materiale. L’adeguazione
dell’intendere di Betti. La chiarificazione, l’adattamento. La norma si adegua
automaticamente alle condizioni storiche evolvendosi con esse: si modifica il contenuto
della norma. Inoltre il mutare dei rapporti sociali reagisce sull’originaria ratio iuris
(Betti) p.113

3.2.3. Attualità nella giurisprudenza sulla dichiaratività-creatività. Il problema della


“falsa applicazione” delle norme. La Corte costituzionale e la sua vocazione
paralegislativa nel rapporto integrazione-creazione-interpretazione. La nomofilachia
come diretta espressione del principio di uguaglianza (uniforme interpretazione della
legge). Libera ricerca del diritto. Law in action, law in public action. Tesi: possibilità di
intendere l’interpretazione estensiva e l’analogia come raccordo tra statute law e common
law p.119

3.2.4. L’eccedenza assiologica delle norme e il consenso sociale alla base del rapporto
tra interpretazione estensiva e analogia. Negazione di una neutralità assiologica; rifiuto
dell’applicazione del diritto come pura sussunzione. Norma come rappresentazione e
come valutazione secondo criteri assiologici di plausibilità e ragionevolezza in Betti.
Spazio nelle norme per gli orizzonti di attese collettive e il consenso sociale p.127

4. L’ATTUALE DISCIPLINA DELLA INTERPRETAZIONE DELLA


LEGGE: L’ARTICOLO 12 DELLE PRELEGGI

4.1. I precedenti storici dell’articolo 12: soluzioni giurisprudenziali,


legislative ed esperienze straniere

4.1.1. Intensio ed extensio; leges, auctoritates e rationes; argumentum a similibus;


Codice Giustinianeo; Regie Costituzioni piemontesi; Codice estense 1771; Dispaccio di
Ferdinando IV di Napoli 1774; Tribunal de Cassation; Référé législatif; Art. 4 Codice
Napoleone; artt. 14 e 15 Statuto albertino; artt. 6 e 7 cc. austriaco; artt. 3 codice 1865;
art. 22 leggi Città del Vaticano; art. 9 n. 1 Codice civile portoghese; art. 1 cc. svizzero;
art. 2 disposizioni di attuazione c.c. svizzero p.132

7
4.2. Analisi dell’attuale articolo 12

4.2.1. Riferibilità dell’art. 12 all’interpretazione della legge ovvero all’applicazione


dei giudici. Richiamo dell’interpretazione in funzione normativa di Betti. Esistenza o meno
di un senso ”proprio” delle parole. L’intenzione del legislatore (rinvio). Significato della
“precisa disposizione di legge”; problema dei combinati disposti. I casi e i tempi
“considerati” dell’art. 14 p.141

4.2.2. Possibilità di concepire il capoverso dell’art. 12, in quanto prescrive l’analogia,


come teoreticamente superfluo e irrilevante; come contenente tutti i criteri ermeneutici
della legge: sia l’interpretazione estensiva che l’interpretazione analogica. L’art. 14 come
non dettante alcun criterio di esegesi legislativa. L’interpretazione assiologica come
superamento dell’interpretazione letterale e criterio base di ogni interpretazione p.149

4.3. La ricerca e la distinzione sulla base della ratio legis

4.3.1. Valore dei lavori preparatori e dei progetti di riforma nell’interpretazione. Il


convincimento interpretativo. Art. 12 e ricorso ai principi costituzionalizzati: possibilità di
una doppia fonte interpretativa. Intenzione del legislatore e ratio legis. Problema della
ratio legis come un doppione della norma. Ratio come scopo e come fondamento.
Differenza tra razionalità della norma e sentimento di giustizia. Ratio legis e ragion
sufficiente della esistenza e della verità della norma. Scopo della norma e ratio legis.
L’elemento della ratio nella giurisprudenza p.153

5. LE SOLUZIONI AL PROBLEMA DELLA DISTINZIONE

5.1. Premessa logica: ragionamento per analogia nella logica in generale


e nel diritto in particolare

5.1.1. L’analogia nella riflessione teologica e filosofica. L’analogia nella logica: le


proposizioni. Ragionamento sottinteso: induttivo, deduttivo, sussuntivo. Ragionamento per
analogia come di probabilità (storicamente condizionato), non di certezza. Critica alla
completa equiparazione tra analogia nella logica generale e nella logica giuridica.
Esistenza di un termine medio che non è nella legge ma è nel diritto, come un giudizio di
valore, non logico in senso stretto p.163

5.1.2. Segue. Analogia come argomento a contrario: indeducibilità di una regola a


contrariis da una norma eccezionale. Analogia e paradigma, proiezione e proporzionalità.
Fondamento logico e politico dell’analogia. Ipotizzabilità della eguaglianza e della
giustizia distributiva come fondamento dell’analogia e della interpretazione estensiva
p.179

5.2. L’analogia legis e l’interpretazione estensiva

8
5.2.1. Distinzioni tradizionali: qualitativa e quantitativa, particolare e generale
(ragionamento a sineddoche). Distinguibilità in base al presupposto, agli effetti, alla
funzione (Betti e Bobbio). Impossibilità di distinguere una interpretazione ordinaria e una
analogica posto che il criterio di ragionamento è quello analogico p.184

5.2.2. Il senso della norma e la necessità normativa. Relazione tra norma e teleologia,
validità e fini. Norma come Sollen e ammissibilità o meno di un discorso analogico che
prescinda da un atto di posizione. Sollen e Sein: la cd. legge di Hume e le critiche alle
interpretazioni che ne sono discese. Il problema dell’efficacia. Applicabilità o meno dei
principi di non contraddizione e inferenza alla struttura normativa. La ragionevolezza
come condizione del volere normativo p.191

5.3. Sulla necessità di una norma autorizzatrice

5.3.1. Ipotizzabilità della tesi negativa sul condizionamento del legittimo impiego
dell’analogia all’esistenza di una norma che lo prescriva. Posizione di Betti. L’analogia e
il contenuto delle norme. La previsione di norme sull’interpretazione all’interno di altre
norme (gli “altri casi simili”). Consuetudine e analogia. Ipotizzabilità di un ordinamento
giuridico senza norma di autorizzazione al ricorso analogico. Il problema
dell’ordinamento giuridico internazionale. Tra virtualità e realtà p.198

5.4. I limiti dell’analogia legis

5.4.1. Fondamento politico, logico, giuridico del divieto di analogia in rapporto alle
norme penali e eccezionali. Estensibilità e valore del divieto. Posizioni della dottrina sui
limiti della norma penale. Il concetto di norma eccezionale. Fluidità del rapporto storico
tra regola ed eccezione (le eccezioni sono progressivamente diventate regole). Esistenza o
meno di altri limiti oltre quelli dell’art. 14. Norme eccezionali e principio di eguaglianza:
l’articolo 14 disp. prel. in rapporto all’art. 3 Costituzione. Il problema dei privilegi legali
nel credito. p.206

6. L’ANALOGIA IURIS E I PRINCIPI GENERALI

6.1. Analogia legis e analogia iuris

6.1.1. Il problema dell’esistenza o meno di una scala gerarchica tra i criteri di


interpretazione (interpretazione estensiva, analogia legis, analogia iuris). Critica alla
distinzione qualitativa o sulla base dell’esistenza di un rapporto particolare-particolare
(analogia legis) o particolare-generale (analogia iuris). Negazione della distinzione
analogia legis-analogia iuris sulla base del fatto che metterebbero capo a un principio
comune (norma inespressa) di ampiezza diversa. Ipotizzabilità di una coincidenza tra
analogia legis e principi p.222

6.2. I principi generali dell’ordinamento: tra norme e fonti di norme.

9
6.2.1. Concetto di principio. Posizione di Betti: i principi generali non si identificano
con norme inespresse, ma sono somme valutazioni normative. Eccedenza assiologica dei
principi generali. Il diritto naturale vigente. Principi comuni e principi fondamentali;
rapporto con i principi costituzionali. Principi di civiltà giuridica e della vita comunitaria.
Analogia e criterio degli interessi. Insostenibilità della distinzione interpretazione
estensiva/analogia sulla base della ricerca e applicazione di un “principio” giuridico
p.229

7. NUOVE PROSPETTIVE SUL RAPPORTO TRA INTERPRETAZIONE


ESTENSIVA E ANALOGIA

7.1. Dalla discrezionalità alla fuzzy logic applicata al pensiero giuridico

7.1.1. Le clausole generali e gli standards valutativi come tentativo di superare la


distinzione. L’uso dei cd. concetti-valvola. Avvicinamento al sistema di common law
tramite la categoria della discrezionalità interpretativa. La core-penumbra theory già
anticipata da Betti. Principi della logica a più valori. Ipotizzabilità di un sistema giuridico
“sfumato”. Sostenibilità dell’intendere analogia e interpretazione estensiva come
applicazioni fuzzy p.240

7.2. Ipotesi ricostruttive e prospettive operative

7.2.1. Lettura usuale e lettura “capovolta” dell’articolo 12 disp. prel. La norma come
risposta ad un problema percepito dal legislatore. La norma come attuazione di un
principio (costituzionale o non) dell’ordinamento. Tèlos o scopo della norma; ratio o
ragion d’essere della norma. Segue: il problema del criterio che rende ragione
dell’ordine. Problema analogo, scopo analogo ed interpretazione analogica della norma.
La norma eccezionale come compressione di un principio dell’ordinamento.
Compressione del principio e costituzionalità della norma eccezionale. L’estensione della
norma eccezionale. Il problema del favor della norma eccezionale. Concorrenza di
principi e concorrenza di norme attuative di principi concorrenti. p.249

Indice della giurisprudenza


p.268
Indice della bibliografia
p.272

10
PREMESSA: IL PROBLEMA

“Un altro libro sull’analogia”, dirà con soppesata espressione


di malcelato sospetto il teorico accademico: è un tema obsoleto,
ormai superato dalle nuove frontiere aperte dai recenti studi
sull’ermeneutica….
“Ancora un libro sull’analogia”, esclamerà il pratico del
diritto, con tono di ironico compatimento: già quante eleganti
costruzioni -in stile tedesco o americano- si sono succedute, nessuna
delle quali “spendibile” in tribunale, senza attirarsi gli ilari e salaci
commenti dei colleghi, la noia del giudice, correndo il rischio –
magari- di compromettere addirittura la causa con astrusità sterili e
vanitose….
Critiche forse in parte fondate. Occorre allora rendere ragione
della scelta di questo tema, muovendo dall’esperienza giuridica –
com’è buona norma- rilevando una di quelle aporie di cui è
disseminata la quotidiana vita del diritto, ma alle quali ormai non
prestiamo più caso o, tutt’al più, diventano materia per puntuta
quanto vacua critica al caffè del tribunale.
Due sentenze, relative a due fattispecie identiche nei fatti,
sussunte nella stesso articolo di legge, dalla medesima corte penale
d’appello. Due i ricorsi per cassazione, con due sentenze diverse:
l’una cassa, ritenendo che il giudice abbia operato un’inammissibile
interpretazione analogica in malam partem della norma
incriminatrice speciale, l’altra (successiva!) conferma il giudizio di
secondo grado, peritandosi di confutare le argomentazioni del
ricorrente, motivando trattarsi di un’interpretazione estensiva,
pienamente legittima anche per le norme incriminatici speciali.
Come rispondere a colui che, per aver commesso fatto
identico, vede attraverso le porte della prigione ormai
definitivamente chiuse, l’altro ricorrente che assapora l’aria libera?
È evidente che o analogia ed estensione sono la stessa cosa, ed
allora entrambi dovranno uscire; oppure analogia non equivale ad
estensione ed allora entrambi usciranno (analogia) o entrambi

11
resteranno in carcere (estensione); ma sicuramente non sarà
possibile che uno vi resti e l’altro no. Di fronte a tale risultato del
massimo organo giurisdizionale, quindi, è del tutto fuori luogo
l’atteggiamento di sufficienza del teorico come il sarcasmo del
pratico; ed occorre riprendere, con molta umiltà, le fila di un
dibattito che ha prodotto risultati di indiscusso valore scientifico,
seppur sembra essersi arenato nelle secche del disinteresse, in parte
per causa propria, in parte per nuove mode che hanno distratto i
cultori della nostra disciplina.
Secondo uno stile che condividiamo, mosso invero da onestà
intellettuale, conviene anticipare fin d’ora e con la massima
chiarezza, le tesi che ci proponiamo di dimostrare nelle pagine che
seguono. E cioè:
-a) non ostante la maggior parte dei contributi scientifici a
cavaliere dell’ultima guerra si ingegni di dimostrare l’equivalenza
dei due termini, a nostro parere il gius positivista si contrattice
quando equipara l’analogia all’inteprpretazione estensiva,
vanificando il disposto degli articoli 12 e 14 delle disposizioni sulla
legge in generale;
-b) sotto diverso profilo, il teorico generale compie un
inammissbile salto logico quando equipara analogia ed estensione,
tratto in inganno dal procedere della conoscenza per identità e
differenza, che impregna di un vago “sapore analogico” anche
l’interpretazione estensiva.
Infine, si cercherà di non limitarsi alla pars destruens (ché già
molti screditano la disciplina agli occhi dei colleghi con interventi
demolitori senza rischiare la proposta alternativa) proponendo i
criteri di individuazione dei limiti dell’estensione e dei limiti
all’analogia.
E per far questo, si diceva, occorre riprendere le fila di un
dibattito ampio ed articolato, ricercando un punto fermo, un solido
aggancio, la tonalità in chiave da cui dipanare quelle che –si vedrà-
non pretendono di essere altro che variazioni su temi noti. Questo
punto fermo riteniamo di aver individuato nell’opera di Emilio
Betti, sia perché egli stesso ha voluto edificare la sua posizione in
confronto dialettico con chi l’ha preceduto, sia perché è l’ultimo

12
autore con cui tutti i successivi abbiano dovuto in qualche modo
misurarsi, vedendo riconosciuta la profondità del suo pensiero
anche dalla tanto blasonata dottrina giuridica tedesca. Nell’opera di
Betti, allora, sia per i risultati, ma soprattutto per il metodo (alla
luce del principio di identità e differenza, non contraddizione e
terzo escluso) si è creduto di trovare un esempio che si collochi fra
teoria e prassi.

13
SEGUE: IL TEMA

Il problema della disparità di trattamento tra i due imputati,


rappresentato nelle pagine che precedono, potrebbe essere ritenuto
di facile soluzione affermando che analogia ed interpretazione
estensiva in realtà coincidono: la nostra indagine si fermerebbe qui.
Ed è questa, invero, la conclusione cui è pervenuta la maggior parte
dei contributi in materia,1 come si vedrà in prosieguo. Sennonché la
tesi dell’equiparazione fra i due canoni ermeneutici nasconde una
petizione di principio, sia esaminandola sotto un profilo
squisitamente di diritto positivo, sia sotto un più ampio profilo
logico. Guardiamo il primo.
L’articolo 12 della preleggi, dopo l’indicazione di alcuni
canoni ermeneutici (lettera, contesto, intenzione del legislatore)
tratta della analogia nelle due varianti di analogia legis ed analogia
juris; lasciando ad un momento successivo il giudicare sulla bontà
della partizione, consideriamo come l’articolo ambisca contenere i
criteri ordinari per l’interpretazione della legge: in questo senso,
esso può ben dirsi norma generale, cioè il disposto per
l’interpretazione delle leggi, dei regolamenti e delle altre fonti di
provenienza unilaterale pubblica.2 All’opposto, il successivo
articolo 14 tratta dell’estensione per limitare l’applicazione delle
norme penali e “quelle che fanno eccezione a regole generali o ad
altre leggi” solo ai casi ed ai tempi in esse considerati. Sorvolando
ancora sulle difficoltà di individuare “i casi ed i tempi”, osserviamo
che l’articolo 14 si pone in contrasto con l’articolo 12, limitandolo e
stabilendo il criterio interpretativo per le norme eccezionali, criterio

1
Più che superato, anche accogliendo la più rassicurante tesi
dell’equiparazione tra estensione ed analogia, il problema è solo spostato e
diviene più stridente, dovendosi rendere conto della diversità di interpretazioni
pur in presenza di un procedimento interpretativo identico.
2
Distinguendosi dalla plurilaterale pubblica / privata (contratti collettivi
nel rapporto di impiego ex d.lgs. n. 165/01), dagli atti unilaterali e dagli atti
plurilaterali di diritto privato.

14
che potrebbe essere o meno identico a quello dell’articolo 12:
ancora non lo sappiamo. Leggiamo però che esso consente la piena
estensione della norma eccezionale, in tutta la sua portata, ma non
ne autorizza la vigenza per i casi non specificamente considerati: si
estenderà alle diverse specificazioni o specializzazioni dei casi
indicati, ma non potrà essere invocata per casi diversi.3 Si può in
ogni caso dire che l’articolo 14 fa eccezione alle regole generali
sull’interpretazione, dettate dall’articolo 12; ed esso stesso, proprio
per questo, è norma eccezionale. Infatti, l’articolo 14 fa “eccezione
a regole generali” e “ad altre leggi”, cioè alle regole interpretative
dettate dall’articolo 12. Ora, chi professa l’equiparazione tra
analogia ed estensione, deve dedurre che l’art. 14 dove parla di
estensione (per l’equazione posta) intende anche l’analogia.
Tuttavia, ritenere che la norma, ove dice estensione dice anche
analogia, costituisce evidentemente un’interpretazione estensiva
dell’articolo 14, norma eccezionale. Ma, se è interpretazione
estensiva, allora è anche interpretazione analogica dell’articolo 14,
proprio in virtù dell’equiparazione fra i due termini che si è assunta.
In questo modo, però, avremo interpretato estensivamente, ovvero
analogicamente, l’articolo 14, cioè una norma eccezionale, anzi la
norma eccezionale che vieta l’analogia per le norme eccezionali. In
altri termini, se l’articolo 12 vuole disciplinare l’interpretazione in
generale, e contiene tra i suoi canoni l’analogia, e se l’articolo 14 fa
eccezione alla regola generale, trattando dell’estensione, ne
consegue che l’equiparazione di analogia ed estensione comporta
(per il principio di non contraddizione e del terzo escluso) un
interpretazione estensiva dell’articolo 14; ma, poiché analogia ed
estensione sono state identificate, l’interpretazione estensiva
dell’articolo 14 comporta altresì un interpretazione analogica

3
Esempio scolastico è il principio di consunzione o di specialità tanto
utilizzato nel diritto penale: l’articolo 624 c.p. si applicherà in tutte le sue
innumerevoli manifestazioni, caratterizzate da una serie di elementi accidentali,
fino a che la presenza di un elemento qualificato non integri una fattispecie
propria, per esempio la violenza privata che unita al furto integra la rapina. Su
questa base è costruita tutta la dogmatica del reato complesso e del reato
composto.

15
dell’articolo 14, cioè l’applicazione dell’articolo 12, norma
generale, all’articolo 14, norma eccezionale, anzi norma eccezionale
(poiché limita la portata dell’articolo 12) che regola
l’interpretazione delle norme eccezionali. Si sarebbe cioè
interpretato l’articolo 14 secondo i canoni dell’articolo 12: una
norma eccezionale con i criteri previsti per le norme generali. In
estrema sintesi, chi propone l’equiparazione, legge nel riferimento
dell’articolo 14 ai “casi e tempi in esse considerati” anche i “casi
analoghi”; in questo modo interpreta (quanto meno) estensivamente
l’articolo 14, ma l’interpretazione estensiva (per la tesi da egli
stesso sostenuta) è anche interpretazione analogica, quindi sta
interpretando analogicamente la norma eccezionale che vieta
l’analogia nelle norme eccezionali.
L’equiparazione di estensione ed analogia passa attraverso la
vanificazione dell’articolo 14, che dovrebbe ritenersi superfluo,
contro lo stesso brocardo che consiglia di leggere i disposti magis ut
valeant quam ut pereant. E contro i criteri di stampo positivista che
impongono la coerenza e l’esaustività del sistema.
Seguendo la procedura della dimostrazione ad absurdum è
così emersa una conseguenza contraddittoria dell’equiparazione tra
i due termini di indagine che ne dimostra l’insostenibilità.
Una seconda ragione di distinzione può essere qui solo
indicata, pervadendo l’intero volume e costituendone –forse- la tesi
fondamentale. Il procedimento ermeneutico dell’estensione (nelle
diverse varianti sviluppate), al pari di ogni procedimento
conoscitivo euristico, sconta quella che possiamo chiamare l’ipoteca
analogica.
Ha trovato sempre più corpo nella storia del pensiero
l’intuizione, ormai risalente a ventiquattro secoli, che vuole la
nostra mente procedere per genus proximum et differentiam
specificam, secondo la concisa formula scolastica.4 Semplificando

4
Il procedimento, tramandato nella più compiuta sistemazione aristotelica
(Top., I, 8, 103 b 15), si deve all’intuizione di PLATONE, chiarissima in Soph., 251
B in Tutte le opere, a cura di G. Reale (traduzione di Claudio Mazzarelli),
Milano, 1991, p. 294. Ulteriore riferimento si trova in PLATONE, Resp. VII, 534,
E), in Tutte le opere, a cura di G. Reale (traduzione di Roberto Radice), Milano,

16
sommamente si può dire che, come per una sorta di calcolo binario
ante litteram, noi ci avviciniamo all’oggetto da conoscere
ponendolo in rapporto con ciò che di più simile ci è noto,
ricercandone i caratteri “comuni” con il già noto, quindi ne
individuiamo i caratteri “diversi” che ne costituiscono le peculiarità.
Se questo è stato ritenuto il paradigma di ogni forma di conoscenza,
senza dubbio è anche la struttura del procedere dell’analogia.
Chiaramente percepibile è l’assonanza dell’analogia giuridica con il
processo della conoscenza. Anticipando, possiamo già dire che “c’è
un po’ di analogia” anche nell’interpretazione estensiva: questa è
l’ipoteca analogica. Tuttavia, è bene avvisare fin d’ora che non si
deve confondere il procedimento conoscitivo per identità e
differenza5 con il procedimento ermeneutico dell’interpretazione
analogica: in tal modo, se così fosse, “tutto” sarebbe analogia, non
solo l’interpretazione estensiva. Il metodo interpretativo
dell’argomentum a simile porta forte in sé la traccia del
procedimento per identità e differenza, ma non lo esaurisce: si tratta
in fondo di comparare due casi, in base ad un metron previamente
definito, per vedere se sono analoghi. Anche l’interpretazione
estensiva compara la fattispecie descritta dalla legge ed il caso

1991, p. 1256. Tuttavia, se nella Repubblica si giunge al ruolo privilegiato della


dialettica, attraverso l’esame delle altre discipline (ginnastica, musica,
matematica, astronomia) che formano il cittadino ed il reggitore della polis in
particolare, Platone rende nel Politico la più efficace definizione del
procedimento dialettico, ove dichiara “si dovrebbe, non appena si sia avvertita la
comunanza di molte cose fra loro, non distaccarsene, prima che siano viste in essa
tutte le differenze, almeno tutte quelle che si fondano sulle Idee; e, d’altra parte,
quando vi siano diversità di molti tipi in molte cose, non dovrebbe essere
possibile sentirsi sconcertati, e desistere, prima di aver stretto tutte quante le cose
affini all’interno di un’unica uguaglianza, e di averle rinchiuse nell’essenza di un
determinato genere.” Così PLATONE, Pol., 285 A – B) in op. cit., p.344, nella
traduzione di Claudio Mazzarelli. Per il significato “oggettivo”, contro le
“tentazioni soggettive” di questa “buona regola”, cfr. F. GENTILE, Intelligenza
politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984, specialmente p. 44 e ss.
5
Utilizzerò nel prosieguo questa dicitura per indicare il procedimento
conoscitivo sommariamente descritto, sia perché ormai largamente diffusa, sia
preferendola all’originaria dicitura di “diverso” e “comune” per le ragioni che
saranno esposte infra al § 5.1.1.

17
concreto, ricercando fin dove può giungere la previsione (di lettera,
di ratio, di evoluzione) contenuta nel testo di legge. Credo, però che
l’analogia giuridica non esaurisca il procedimento conoscitivo
fondamentale proprio in forza della preventiva fissazione del
criterio: questa preventiva operazione di limitazione dell’indagine
trasforma la tensione filosofica del “comune” e “diverso” nella
tecnica dell’analogia, nel mezzo per un fine che è il procedimento
interpretativo.
Tuttavia, per quanto la distinzione fin’ora possa essere stata
riconosciuta in negativo, almeno come impossibilità di (o
contraddittorietà della) equiparazione, non si è ancora ben tracciata
la differenza specifica che consenta una definizione in positivo di
analogia ed estensione, Occorre cioè (tentare di) trovare il criterio
per dire dove comincia l’una e dove finisce l’altra.
E per far questo conviene partire dal genere prossimo che
apparenta interpretazione analogica ed interpretazione estensiva,
affrontando subito lo spinosissimo problema se l’ermeneutica sia
questione di metodo o se attenga all’essenza, se appartenga alla
metodologia o all’ontologia, scegliendo come campioni delle
diverse posizioni in lizza rispettivamente Emilio Betti ed Hans
Georg Gadamer, nella loro garbata polemica sulla natura
dell’interpretazione.

18
8. INQUADRAMENTO DEL TEMA NEL
PROBLEMA DELL’INTERPRETAZIONE

8.1. Ermeneutica come metodo generale delle


scienze dello spirito: spunti e critiche dall’impostazione
bettiana utili per l’approccio contemporaneo al tema

8.1.1. Positivismo e dogmatica in tema di interpretazione.


Dogmatica come parte integrante dell’interpretazione giuridica e
oggettività fondata sulla dogmatica nell’impostazione di Betti.
Categorie dogmatiche e giuridiche come creazioni dello spirito

Per poter condurre efficacemente la riflessione sul tema del


rapporto tra l’interpretazione estensiva e l’analogia è
imprescindibile aprire lo sguardo sul terreno entro cui il problema
affonda le sue radici, e quindi collocare il discorso all’interno della
più vasta questione dell’interpretazione. In questo senso può
condividersi l’affermazione che in realtà “ogni scienza include una
componente ermeneutica”6 e ha “molto di illusorio anche il concetto
6
M. BRETONE, Il paradosso di una polemica, in Quaderni fiorentini n. 7,
Milano, 1978, p. 115. Il passo di Bretone trae spunto dalla riflessione a proposito
della cd. polemica Betti-Gadamer - sulla quale vedi infra - in tema di relazione tra
verità e metodo. La “scoperta” che anche in ambito eminentemente scientifico,
che dovrebbe a rigore essere deputato ad espellere, in nome dell’obiettività,
qualunque tensione interpretativa, è presente, al contrario, una componente
ermeneutica gioca a favore dell’intendere l’ermeneutica come “metodica
generale”. Non esiste, dice Bretone, nemmeno una scienza puramente “tecnica”,
perché le implicazioni ontologiche rimandano alla sua componente ermeneutica.
Di qui la necessità di approfondire preliminarmente, ai fini del presente lavoro, la
questione dell’interpretazione.

19
“tecnico” di scienza, se non se ne scoprono le implicazioni
ontologiche”.7 Donde una preliminare questione di metodo. Infatti a
partire dalla fine dell’Ottocento, riprendendo distinzioni già di età
classica, accanto a filosofie che consideravano lo “spirito” da un
punto di vista prevalentemente etico, si avvalorò l’idea che dello
spirito fondava un complesso di scienze, dette appunto
Geistwissenschaften. Fu soprattutto Dilthey,8 che pochi sanno
essere stato ispiratore di molte delle teorie di Betti, a diffondere il
concetto di scienze dello spirito come “l’insieme delle scienze
aventi per oggetto la realtà storico-sociale”. Caratteristica delle
scienze dello spirito è, in questa impostazione, il carattere storico
del procedere - sono infatti dette anche scienze storiche - in quanto
l’originalità dello spirito genera “prodotti” irripetibili, e perciò
“storici”. Com’è noto, contrapposte alle scienze dello spirito si sono
sovente catalogate le “scienze della natura”,9presentate,
contrariamente alle prime, come un complesso compatto e
omogeneo, apoditticamente certe.10 La fiducia, di matrice
ottocentesca, nella scienza come sola attività teoretica seria11 ha
7
Scrive JEAN GRONDIN in L’universalité de l’hermenéutique selon Emilio
Betti, in G. BENEDETTI (a cura di) L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti,
Milano, 1994, p.113: “Le titre allemand, “Doctrine générale de l’interprétation
comme méthodologie des sciences humaines”, souligne bien l’intention
diltheyenne”.
8
W. DILTHEY, Einleitung in die Geistwissenschaften, in Schriften, II ed., I,
Leipzig 1921, p. 5.
9
Anche sulla falsariga delle distinzioni tra fisiologia e psicologia. Per
diverse considerazioni su queste classificazioni, cfr. U. SCARPELLI, Semanitica,
morale, diritto, Torino, 1969, nonché, più decisamente, IDEM, Le argomentazioni
dei giudici, in IDEM, L’etica senza verità, Bologna, 1982, cui vuol far eco A.
PINTORE, il diritto senza verità, Torino, 1996.
10
Non interessa in questa sede sollevare la distinzione. Per ulteriori
approfondimenti cfr. A. RAVÀ, La classificazione delle scienze, Roma, 1904; più
recentemente T. SERRA, Il disagio del diritto, Milano, 1995.
11
Cfr. G. MORRA, voce Spirito (Scienze dello) in Enciclopedia filosofica
(1957), vol. VII, Roma, 1979, p. 1030. Programmatico lo scritto di G.
RADBRUCH, Einführung in die Rechtswissenschaft, Leipzig, 1919. Ma è una
tendenza che permane, anzi cui vieppiù si aggrappano i “non scienziati” (come i
giuristi), proprio quando gli scienziati ne prendono le distanze. Cfr. F. MODUGNO,
Appunti dalle lezioni di teoria dell’interpretazione, Padova, 1998. Per un

20
spesso così spinto verso la ricerca di “scientificità” anche le scienze
dello spirito, non dissipando, tuttavia, tutti gli equivoci su che cosa
siano, effettivamente, le scienze dello spirito e sulla legittimità di
procedere in esse con metodo scientifico. Ma questo è un problema
più ampio.
La “monumentale”12 opera di Emilio Betti è senza dubbio
paradigma di una necessità sistematica là dove inquadra anche le
istanze più strettamente “tecniche” connesse all’interpretare
giuridico dentro un sistema di Teoria generale dell’interpretazione,
spostando, in certo qual modo, il baricentro delle argomentazioni da
un taglio più strettamente tecnico, o meccanico-giuridico, ad un
amplissimo respiro teoretico.13 “La nostra meta è una teoria
generale ermeneutica che, pur animata dalla fiducia nello spirito,
vuol restare sul terreno fenomenologico della scienza (bei den
Sachen selbst) senza ascriversi a nessun particolare sistema
filosofico”,14 scrive Betti. Non filosofica, dunque, ma forse si deve
ritenere non ideologica.15 Scientifica, poi, non tanto come sinonimo

panorama spagnolo della monarchia restaurata, J.J. MORESO, La indeterminación


del Derecho y la interpretación de la Consitución, Madrid, 1997, ma più
profondamente, J BMS., VALLET DE GOYTISOLO, En torno de las relaciónes
constituciónales, in Annales de la Fundación Francisco Elías de Tejada, VII,
2001, p. 17 e ss.
12
Questa la definizione di N. ABBAGNANO, in Storia della filosofia, IV, La
filosofia contemporanea, Torino, 1991, p.577 e ripresa, tra gli altri, da G.
BENEDETTI, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 19.
13
Cfr. M. GENTILE, Breve trattato di filosofia, Padova, 1974, p. 38. “La
problematicità”, scrive Gentile, “è un atteggiamento teoretico, cioè appartiene al
sapere in quanto tale, e ne costituisce la stessa condizione”. E più oltre “La
problematicità appartiene [...] come carattere costitutivo a tutte le forme del
sapere, sia a quella filosofica sia a quella scientifica[...]”. Ed è questa
consapevolezza critica che consente a Betti di elevarsi dalle angustie del dibattito.
14
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I,
Prefazione p. IX.
15
Laddove l’ideologia simula la filosofia applicando solo una parte del
movimento dialettico, il momento del “comune”, ed orientandosi a mantenere il
potere acquisito, collocandosi specularmene alla struttura dell’utopia, plasmata
sul solo momento del “diverso” e funzionale all’acquisto del potere, come ha
messo elegantemente in evidenza, ricostruendole le radici storiche e le matrici

21
di procedimento convenzionale operativo, quanto di procedimento
rigoroso, riproducibile ed insegnabile, secondo la definizione usuale
nei primi decenni del Novecento.16 Certo, si legge un’aspirazione
alla purezza, di stampo kelseniano, ad una inconsapevole ricerca di
avalutatività, propria della tèkne.
Questa teoria, secondo il progetto bettiano, “dovrebbe studiare
il problema epistemologico dell’intendere [...] il processo
interpretativo (come processo gnoseologico), e soprattutto la
metodologia ermeneutica, approfondendo i tratti comuni e quelli
differenziali,17 che il metodo ermeneutico assume nelle scienze
dello spirito”.18 Sarà dunque la categoria dell’interpretazione a
fungere da Leitmotiv di ogni trattazione se, come si è anticipato, si
assume che “ogni scienza include una componente ermeneutica”.
Anche il problema dell’interpretazione estensiva e dell’analogia,
cioè, e di una loro possibile o impossibile differenziazione, non si
potrà risolvere se non partendo da una riflessione su che cosa sia
l’interpretare, su questa “componente ermeneutica”. La scelta di
questa o quella impostazione ermeneutica, poi, varrà a reggere la
costruzione messa a tema, e l’opera bettiana, di cui si è fatta la
scelta preliminare, costituirà l’impalcatura - per proseguire nella
metafora - tramite cui raggiungere la cima.

teoretiche F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984,


p. 187.
16
Cfr. A. RAVÀ, La classificazione delle scienze, Roma, 1904, p.47 e 112.
Cfr. altresì A. SCHOPENHAUER, Die Welt als Wille und Vorstellung, vol. II, cap.
XXXVIII (supplementi al Lib. III, sulla storia), III ed., 1859, nella traduzione
italiana di P. Savi – Lopez e G. De Lorenzo, Vol. II, Bari, 1930, p. 537 e ss. Sul
punto rinvio al ponderoso saggio di P. BELLINAZZI, Conoscenza, morale e diritto:
il futuro della metafisica in Leibniz, Kant e Schopenhauer, Pisa, 1990, p. 440 e ss.
Cfr. altresì, recentemente, C. T OMMASI, Riflessioni sul pensiero etico e politico di
Arthur Schopenhauer, in Il Pensiero Politico, 1996, I, p. 41 e ss.
17
Sarà dunque il procedimento per identità e differenza, e il principio di
non contraddizione a caratterizzare l’indagine.
18
E. BETTI, Teoria generale, cit., p. XVIII. Giova qui solo sottolineare,
per quanto si dirà in prosieguo, l’inconsapevole tralatizia assegnazione dello
studio del fenomeno giuridico alle “scienze dello spirito”, categoria vaga e
mutevole, spesso aggregata solo in quanto contrapposta alle “scienze della
natura”. Cfr. altresì supra nota 16.

22
Ermeneutica e scienze dello spirito si rivela, perciò, il
binomio di partenza: binomio che subito si trova quasi travolto dalla
necessità di una scelta, si potrebbe dire sistematica, tra la
collocazione, in ottica positivista oppure eminentemente dogmatica,
del tema cruciale sotteso a tutta la riflessione, e cioè quello
dell’oggettività dell’interpretazione medesima. Rifuggita la
tentazione soggettivista, là dove confina pericolosamente con
l’arbitrio, il problema fondamentale che si pone ogni ermeneuta è
proprio quello della tensione obiettiva, e a maggior ragione il
giurista-interprete, costantemente pressato dall’istanza egalitarista
come conditio sine qua non di ogni costruzione autenticamente e
ordinatamente giuridica.19
“A differenza di Betti che voleva fondare l’oggettività
dell’interpretazione sulla dogmatica, il positivismo voleva
raggiungerla distruggendo la dogmatica”, sostiene Pier Giuseppe
Monateri.20 Emerge subito, tuttavia, la necessità di distinguere tra
due possibili significati del termine “dogmatica”. Da un lato
dogmatica come un’intelaiatura, un insieme di pure convenzioni,
così come emerge nella stessa impostazione positivista. Dall’altro,
al contrario, la dogmatica come la possibilità di una costruzione e
un ordinamento legittimo di concetti, un’impalcatura che si si
edifica di concetto in concetto, ma sui dati raccolti dall’esperienza,
così come nell’impostazione di Betti. Una dogmatica, in questo
secondo senso, che è una “rappresentazione della realtà”, tramite
cui, davvero, si può raggiungere l’obiettività, contrariamente
all’impostazione dogmatica dei positivisti che, ponendosi come
pura convenzionalità, paradossalmente potrebbe diventare
19
Si vuole qui dire che proprio perché la legge deve essere “uguale per
tutti” perché si possa autenticamente collocare in un “sistema” giuridico ordinato,
fuori da ogni arbitrio, almeno, se non da ogni incertezza, è necessario postulare la
necessità quanto meno di una tensione verso l’obiettività, sia questa più o meno
realizzabile. Obiettività che, però, non può essere meramente “tecnica”, avulsa da
un giudizio di valore, ma al contrario potrà realizzarsi solo entro una
impostazione che tenga conto delle istanze assiologiche.
20
Così P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, par.
29. Di diverso avviso, almeno nel rapporto tra sicenza del diritto e positivismo
giuridico, U. SCARPELLI, Cos’è il positivismo giuridico, Milano, 1965.

23
soggettivista. Solo con i chiarimenti fatti si può vedere, allora, se e
in che limiti anche Betti sia un dogmatico.
Preliminarmente, si impone la scelta tra fondazione dogmatica
- nel senso di rappresentazione della realtà, di costruzione
concettuale raccolta dall’esperienza, come detto, e non di mera
costruzione a tavolino - o positivista; e non è, questo, mero
esercizio speculativo: la scelta qualifica la genesi, la struttura e le
prospettive concettuali e applicative della materia.
Betti non chiarisce mai fino in fondo che cosa siano queste
“scienze dello spirito”, né ritiene di giustificare esplicitamente la
collocazione del diritto tra le scienze dello spirito. Si può notare,
tuttavia, come la catalogazione del diritto in tale categoria, in ogni
caso, evidenzi una implicita negazione della natura meramente
tecnica del diritto. Le leggi del diritto, cioè, non sono come le leggi
naturali (come potrebbero essere quelle fisiche) essendo leggi che
sottendono a esigenze etiche, prima fra tutte la convivenza. Se ne
deduce fin da subito, perciò, l’impossibilità di collocare il diritto
come si collocherebbe una norma tecnica, e la necessità, al
contrario, di darne un fondamento assiologico, che è quanto si verrà
sostenendo. In limine osserviamo come Betti (al pari di Ravà) sia
prigioniero del dibattito tedesco sulla classificazione.
Fatta con Betti la scelta per l’ermeneutica come “metodica
generale delle scienze dello spirito” ne segue, quasi
spontaneamente, l’adesione ad un’idea di dogmatica - nel senso di
rappresentazione del reale, come detto - quale “parte integrante
dell’interpretazione giuridica”.21Questa implicazione discende
dall’aderire a un concetto di interpretazione come processo
“dialettico”22 in cui la soggettività dell’interprete convive con

21
Cfr. E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (Teoria
generale e dogmatica), (1949), II ed. a cura di G. Crifò, Milano, 1971, p.105.
22
Cfr. P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, p. 602.
Il termine dialettico viene qui usato dall’autore in senso (inconsapevolmente)
idealistico, secondo il movimento triadico comune a Fiche, Schelling ed Hegel,
sviluppato sul sistema del criticismo kantiano, contrapponendo la soggettività
dell’inpterprete all’oggettività del dato. La stessa tematizzazione di una verità
data, necessarimante diversa dalla percezione del soggetto conoscente (noumeno /

24
l’aspirazione oggettiva della norma. Da questa convivenza e dal
fatto che il diritto è attività pratica, non puramente convenzionale,
in cui è imprescindibile il momento valutativo, consegue che la
soluzione al problema dell’interpretazione giuridica non può essere
né tecnica né meramente logica, ma deve essere, perciò, dogmatica,
nel senso che si preciserà subito.
Si crea, in questo modo, un sistema superiore alle visioni
particolari, una sorta di comunione tra il pensiero dell’interprete e il
pensiero veicolo del contenuto ontologico dell’oggetto
dell’interpretazione, nel nostro caso della norma.23
Dogmatica, dunque, in quanto rappresentazione della realtà,
come reazione al pericolo formalistico (e in quanto tale in certo qual
modo anti-ermeneutico) del positivismo, soprattutto di ispirazione
kelseniana, e come fondamento dell’oggettività quale “canone
ermeneutico”.
Dogmatica sì, ma quale dogmatica?
La dogmatica di Betti si caratterizza per una “compiuta ed
elaborata sistematica di principi, di metodi e di canoni” 24 e per la
scelta della metodica come strumento di verificazione oggettiva.25
La contrapposizione con l’”ontologia ermeneutica”di Gadamer (che
poi dette origine alla famosa polemica Betti-Gadamer) si coglie,
tuttavia, laddove il discorso esclusivamente ontologico va alla
ricerca dell’essenza della volontà del legislatore ma, essendo

fenomeno), pone una seria ipoteca sulla possibilità di risolvere in unità il


problema dell’interpretazione.
23
Addirittura anche la stessa Teoria generale dell’interpretazione viene
concepita come “adatta ad educare nei giovani l’abito della tolleranza e il senso
del rispetto per le opinioni altrui”, così E. BETTI, Le categorie civilistiche
dell’interpretazione,in Riv it. sc. giur., 1948, p.4.
24
Così J. BLEICHER, Contemporary hermeneutics : hermeneutics as
method, philosophy and critique, London, 1980 (nell’ottima tr. it. a cura di
Stefano Sabattini, Bologna, 1986), citato anche da G. BENEDETTI in Una
testimonianza sulla teoria ermeneutica di Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I,
791.
25
Cfr. G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di
Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, p. 792.

25
un’indagine sull’essere “compiuta dal di fuori”,26 questa volontà
risulta, poi, interpretata in innumerevoli modi tutti “scientificamente
legittimi” ma inevitabilmente diversi e quindi sospetti di essere
soggettivi.
Inserendo questa impostazione dentro la problematica
interpretativa in discussione ne viene fuori la necessità di una scelta
ermeneutica per la dogmatica nel senso di rappresentazione della
realtà come precisato sopra - quanto meno in chiave anti-
formalistica, là dove si sottolinea l’affondare dell’impostazione
dogmatica in un discorso teoretico - e in questa di una metodica
generale. Ma anche di non prescindere dal momento assiologico sul
quale, solo, è possibile ricondurre ad unità ciascuna delle
multiformi interpretazioni tutte intente ad accedere ad un unico
significato ontologico. Analogia e interpretazione estensiva,
dunque, come discorso sulle scelte del legislatore e della
giurisprudenza.
Si rifugge, dunque, la strada esclusivamente “ontologica”.
L’intento è quello di conferire all’interpretazione una validità non
meramente soggettiva e la necessità, conseguente, è perciò di
approfondire la riflessione sulle procedure27 attraverso le quali è
possibile sottoporre a controllo le conoscenze raggiunte.28 Ma per
questa impostazione è necessario prendere le distanze da una
ermeneutica ontologica, scegliendo un tipo di avvicinamento alla
realtà completamente diverso dalla “conoscenza oggettiva” cui
l’impostazione rigettata sembra cedere.29

26
Cfr. G. SANTINELLO, voce Ontico in Enciclopedia filosofica (1957), vol.
VI, Roma, 1979, p. 101.
27
Si intravvede la distinzione tra teoria e teoremi, fra speculazione ed il
metodo speculativo. Cfr. U. VOLLI, Manuale di semiotica, Bari – Roma, 2000.
28
Cfr. F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito
ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano,
1994, p. 28.
29
F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito
ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano,
1994, p. 28. Cfr. altresì le sempre lucidissime pagine di L. PALADIN, Le fonti del
diritto italiano, Bologna, 1996; nonché F. ANCORA, La corte costituzionale e il

26
Il tentativo, tuttavia, di rendere possibile all’interprete
l’espressione di preferenze ermeneutiche “oggettivamente” e non
soggettivamente motivate30 passa necessariamente per la
“generalità” di un’ermeneutica e per l’ordine “cognitivo” che la
sostiene. “Le rôle d’une herméneutique générale est d’en éclairer les
fondements et d’en distinguer les types afin de définir les conditions
d’une interprétation qui soit objective. Le dénominateur commun de
toute interprétation est d’ordre cognitif”, scrive Jean Grondin. 31 La
cognitività diventa dunque cifra e condizione dell’applicatio nel
senso che si enfatizza, con Betti, la fase “ricognitiva” di ogni
interpretazione; tuttavia, per evitare di scivolare in una applicazione
sottratta a qualsiasi possibilità di controllo, si accetta una
identificazione e definizione preventiva delle grandezze tra cui la
mediazione interpretativa è chiamata ad operare.32
Tutto ciò, trasposto dentro la questione - tecnica ma non solo
tecnica - del difficile rapporto tra l’interpretazione estensiva e
l’analogia, messa a tema, ha un grande rilievo. Significa, infatti,
rifiutare di assumere il testo normativo da interpretare come
qualcosa di plastico, mutevole al mutare dell’applicazione e
soggettivamente estensibile. Significa, pertanto, obiettare, a chi
accusa la coincidenza di interpretazione estensiva e analogia come
fonte di soggettivismo, che ciò che si attua nell’interpretazione - in
quanto tale, estensiva o non estensiva - è proprio, in prima fase, una
“ri-cognizione” della realtà. Su questa base anche l’analogia entra

potere legislativo, in Giur. cost., 1987, I, 3825; infine, preciso nella distinzione,
G. TARELLO, Diritto, enunciati, usi, Bologna, 1974.
30
F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito
ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano,
1994, p. 30.
31
Cfr. J. GRONDIN in L’universalité de l’hermenéutique selon Emilio Betti,
in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 115.
32
Cfr. F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito
ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano,
1994, p. 28 p. 31. Si intende qui sottolineare che solo tramite le categorie
teoretiche di una costruzione generale, è possibile accedere alla interpretazione
come conoscenza, che proprio per questa “predefinizione” si caratterizza per una
ri-conoscenza, una fase, appunto ri-cognitiva.

27
nel processo interpretativo come rappresentativo del reale e perde di
significato distinguerla dall’interpretazione estensiva. A patto, però,
di attingere a quella “preventiva definizione delle grandezze” cui si
faceva cenno e tramite cui viene ad affacciarsi l’impostazione
dogmatica così come la si è indicata.
A questo punto, però, viene da chiedersi: la scelta tra i metodi
interpretativi avviene sulla base di considerazioni meramente
logiche o tecniche capaci di imporsi universalmente, o deve
avvenire sulla base di giudizi di valore?33 È concepibile uscire dai
limiti del “pregiudizio dell’automatismo logico” e da quello della
“riduzione in termini di rigorosa e soltanto formale coerenza”?34
Con Betti concordo sulla necessità di fondare, tramite una
dogmatica coerente, le valutazioni più adatte a giustificare la
comprensione del reale35 a partire proprio dall’”attualità”
dell’intendere, che discende dall’impostazione di una dogmatica
come “rappresentazione della realtà”. Addirittura Betti parla di
“drammatizzazione”, insita nell’interpretazione, che è un affondare
nella dimensione dell’agire con la consapevolezza e l’obiettivo,
però, di “valutare alla stregua di criteri assiologici il risultato
epistemologico”. Rinviando il discorso eminentemente assiologico36
è imprescindibile, tuttavia, la riflessione sulla connotazione
“spirituale” del processo interpretativo che ne esce, sulla ricerca di
questo “reale” tramite un continuo “rinnovamento ermeneutico”.37

33
Cfr. L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica,
Padova, 1953, p. 13.
34
L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova,
1953, p.13. Cfr. per la positiva, recentemente L. J. WINTGENS, Coherence of the
Law, in ARPS, 1993, p. 483 – 519.
35
P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ., 1987, p. 603.
36
Cfr. §. 3.2.4. Per le aspettative che un’ottica incentrata (solo) sui valori
può suscitare (spesso deludendole), cfr. il frizzante contributo di P.A. CAPOTOSTI,
Tanto tuonò …, ma non piovve, in Giur. cost., 1990, p. 2622.
37
“Così come il rinnovamento dell’ermeneutica divenne una questione di
esistenza per la teologia protestante sulla base del principio della prevalenza della
scrittura sul magistero della Chiesa.”, così F. W IEACKER, in Dalla storia del
diritto alla teoria dell’interpretazione. (il pensiero filosofico-giuridico di Emilio
Betti), in Riv. dir. civ., 1970, I, 305. Non si dimentichi che Betti vive e scrive

28
È l’istanza dell’”interiorità” che qui si viene ad affacciare, e
l’intendere l’interpretazione come attività, appunto, complessa che
non può non fare appello allo spirito. È anche la valorizzazione
dell’interprete, con la sua “spiritualità”, come mediatore e
attualizzatore: questi è dotato di un suo “spirito vivente e
pensante”38 e ha di fronte, nella norma, una “spiritualità che si è
oggettivata in forme rappresentative”.39 Egli deve, allora, fare
proprio la mediazione di quelle forme rappresentative: in esse la
spiritualità che vi si è, diremmo così, oggettivata si contrappone - o
meglio giustappone - al soggetto interpretante come “qualcosa di
altro e indipendente da esso, come una oggettività irremovibile”.40
Acquista un significato, in quest’ottica, parlare di “circolarità dello
spirito con lo Spirito e della interpretazione nello Spirito”.41
Porre l’accento sulle categorie dogmatiche e giuridiche come
creazioni dello spirito può, malgrado ciò, rivelarsi rischiosamente
vicino ad un rincorrere un “paradiso dei concetti” (Begriffshimmel)
alla Jhering e uno scivolone in una sorta di “esoterismo giuridico”
che è davvero, come lo definì Hegel, lo stratagemma del tiranno

immerso nella cultura tedesca, culla del protestantesimo e delle sue istanze
ermeneutiche.
38
E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur.
umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319 ss, ove leggo un riferimento al magistero di
Gioele Solari, in particolare a G. SOLARI, Filosofia del diritto privato. Storicismo
e diritto privato, Torino, 1940.
39
E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur.
umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319 ss. Per il simbolo come rappresentanza
dell'assente, il rinvio d’obbligo è ancora una volta alla quasi coeva opera di cfr. E.
CASSIRER, Filosofia delle forme simboliche, trad. it. Firenze, 1967.
40
E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur.
umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319 ss. È da sottolineare il rischio di spaccatura
scheptica tra soggetto ed oggetto che l’espressione dell’autore camerte può
avanzare. Per quanto diremmo in prosueguo, crediamo emerga forte l’eredità
gentiliana della distinzione tra “pensiero pensante” e “pensiero pensato”,
distinzione idealistica, che (almeno in quella prospettiva) trova sempre dunque
componimento.
41
G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di Emilio
Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, 797.

29
Dionigi, che aveva appeso le tavole della legge troppo alte per
essere lette. Da questa critica ci si dovrà ben guardare.
Tuttavia anche rincorrendo l’oggettività attraverso
l’impostazione dogmatica, al di là di ogni connotazione “spirituale”,
si può rischiare di ritrovarsi di fronte a una struttura a contenuto
tautologico. Potrebbe, cioè, obiettarsi che cercare di sostenere
l’oggettività dell’interpretazione appellandosi al fatto che la norma
è rappresentazione della realtà, significherebbe sostenere una
struttura normativa perfettamente adatta alla struttura reale proprio
perché aprioristicamente determinata come combaciante.42 Allo
stesso modo allacciare troppo saldamente le categorie dogmatiche e
giuridiche al gancio dello spirito potrebbe rivelarsi un apriorismo.
“Se avessimo accesso direttamente alla natura in sé, avremmo
accesso anche alla norma in sé”, scrive Monateri. 43 A patto,
ovviamente, che la norma appartenga a questa “natura”. “Ma questo
accesso ci è dato? Se la logica diventa natura, e la natura Spirito, lo
Spirito ha ovviamente accesso alla natura [...]. Ma questa visione
delle cose annulla in realtà ogni residuo di una possibile visione
oggettivistica del mondo.[...] Le categorie dogmatiche e giuridiche
sono creazioni dello Spirito, e noi possiamo pretendere che esse
siano oggettive, solo se sosteniamo che il nostro mondo è un
prodotto del nostro spirito. [...] È chiaro che contrabbandiamo,
allora, per oggettive le nostre visioni soggettive e tacciamo di
soggettivista chi non condivida le nostre opinioni”.44
Condividendo e ponendo come premessa le critiche ai limiti
tanto del dogmatismo metodologico quanto dell’esoterismo
ermeneutico preme, prima di procedere, analizzare la categoria

42
Cfr. P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, p. 603.
43
P.G. MONATERI, ivi.
44
P.G. MONATERI, ivi. È fin troppo evidente la reazione all’anti
relavitismo. La tesi dell’autore, perso prova troppo: egli muove però dalla falsa
alternativa tra soggettività / oggettività, invero incomunicabili se si esclude, come
sembra fare Monateri, la possibilità che il soggetto ri-coinosca l’oggettività,
meglio l’ordine in cui è inserito e che questo riconoscimento in comune con altri
sia il momento giuridico per eccellenza, nella definizione celsina del diritto, come
ars boni et aequi e come suum cuique tribuere.

30
bettiana dell’”atteggiamento di carattere emotivo”,45 e perciò
metateoretico di cui l’interprete deve appropriarsi per conseguire il
giusto esito interpretativo.
Betti li definirà “atteggiamenti metateoretici preliminari al
processo interpretativo”.46 Atteggiamenti che certo non entrano
nella struttura teoretica del procedimento ermeneutico, come spiega
lo stesso Betti,47 ma semmai servono ad agevolare e predisporre
“l’adeguazione” dell’intendere. È il sich einfühlen
(l’immedesimarsi) che induce l’interprete, in una sorta di empatia o
fusione affettiva eteropatica, a identificarsi con lo spirito che gli
parla attraverso l’oggettivazione.48 Con il rischio, come pure si è
osservato, che questo evocare lo spirito della legge possa diventare
un espediente per salvare, insieme, l’avalutatività e la fecondità
dell’interpretazione. Ma è anche vero che, al di là delle categorie
bettiane un po’ romantiche “dell’interesse ad intendere,
dell’attenzione dell’abnegazione di sè, dell’apertura mentale”49
questi presupposti dell’intendere aprono la strada ad
un’interpretazione che è un “farsi” con l’interprete, non è solo un
descrivere.
Questo credo conferisca una straordinaria “fluidità” al
processo interpretativo, anche e proprio là ove se ne postula il
canone dell’oggettività, e rende sostenibile la teorizzazione di un

45
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 269 e
ss. Si osservi che ne L’interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p.
100 e ss., Betti indicherà come ”emozionali” anche gli elementi valutativi e
assiologici, immanenti alla norma stessa da interpretare. Su questo si veda infra.
46
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, , p. 269.
47
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 276.
48
E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, in Riv. it. sc.
giur., 1948, p 41 e ss. Ripresa in questo senso anche da G. BENEDETTI, in
L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 778.
49
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 270. Si tratta di
formule che tradiscono l’anelito alla comprensione, alla ricerca dell’equilibrio, se
si vuole, alla ricerca di giustizia. Che richiede, però, quella classica attitudine
all’autonomia (cioè capacità di darsi delle regole e rispettarle) che lo stesso Betti
epidermicamente percepisce impura incrostazione giusnaturalistica, imepedendosi
così il “salto di qualità” per elevare lo studio dell’ermeneutica a filosofia.

31
interpretare dai confini “sfumati”,50 ma non per questo incerti, dove
anche l’analogia, proprio perché addiviene ad un adattamento della
norma alle situazioni di fatto,51 si inserisce nel pieno dell’attività
interpretativa.

50
Per le nuove prospettive “a logica sfumata” cfr. § 7.1.1.
51
Così E. BETTI,, L’interpretazione della legge e degli atti giuridici
(Teoria generale e dogmatica), (1949), II ed., a cura di G. Crifò, Milano, 1971,
cap. XI.

32
8.1.2. Impostazione ermeneutica come Methodenlehre;
l’”astrazione metodica” di Betti; critica al “circolo del
comprendere come circolo metodico, anziché ontologico”. Analisi
della possibilità del superamento della critica mettendo tra
parentesi il problema metodologico-ontologico. Indagine su una
concezione al tempo stesso metodica e ultra-metodica

“Sensus non est inferendus sed efferendus”, ripete ad oltranza


Betti52 rifacendosi ad un antico brocardo. Questo è non solo il
segnale di una scelta a favore di una interpretazione volta a ritrovare
le “valutazioni immanenti e latenti nella legge”,53 ma è anche il
primo dei canoni ermeneutici attinenti all’oggetto: la dichiarazione
programmatica di far fronte alla seduzione soggettiva.54 Emerge in
questo modo come una simile impostazione ermeneutica sia
fortemente caratterizzata dal punto di vista metodologico:
“l’interpretazione si può caratterizzare come l’azione il cui evento
utile è l’intendere”, scrive Betti,55 capovolgendo l’ordine logico
delle tesi56 in merito a un intendere preliminare, che sarebbe

52
Grondin dirà “répeté partout Betti”, cfr. J. GRONDIN in L’universalité de
l’hermenéutique selon Emilio Betti, in G. BENEDETTI (a cura di) L’ermeneutica
giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 123.
53
E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 31. Per
questi aspetti vedi infra § 1.2.
54
E. BETTI, op ult. cit. p. 10 ss.
55
E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur.
umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319-344.
56
Già di Heidegger, condivisa da Bultmann e Gadamer. Cfr. M.
HEIDEGGER, Sein und Zeit, 14. Auflage, Tübingen, 1977, p. 143; G. GADAMER,
L’art de comprendre, tome I, Paris, tr. franc. 1982, pp. 54 ss; R. BULTMANN, È
possibile un’esegesi priva di presupposti? in Credere e comprendere, trad. it. di
A. Rizzi, Brescia, 1977, p. 803. Come si dice nel testo, qui vediamo la radice
della teoria della precomprensione sviluppata da J. ESSER, Vorverstandnis und
Methodenwahl in der Rechtsfindung: Rationalitatsgrundlagen richterlicher

33
presupposto dell’attività interpretativa, cioè di quello che troverà
fortuna come “precomprensione”. Il “senso” di cui si tratta, quello
delle norme, non dovrebbe, cioè, essere surrettiziamente e
indebitamente introdotto, ma si dovrebbe, invece, estrapolare,
estrarre, dalla forma rappresentativa.57
Senza dimenticare la “circolarità” del comprendere, se si
volessero applicare le categorie dell’azione e dell’evento, come fa
Betti,58 l’intendere risulterebbe non tanto un’azione, un prius, bensì
un evento.
A prima vista potrebbe sembrare una concezione statica,
invece, al contrario, questa impostazione è sì metodologica, tuttavia
- a maggior ragione per questo - estremamente dinamica, specie là
dove concepisce un “ordine giuridico” non come un fatto fisico,
privo di vitalità e incapace di modificarsi, rinnovarsi, evolversi
bensì, piuttosto, come “una totalità spirituale, che si sviluppa e si fa,
ma proprio per opera assidua di interpretazione e di applicazione.”59
È il dinamismo dato da quella che Betti chiama l’”efficienza
evolutiva” dell’interpretazione.60

Entscheidungspraxis, Kronberg, 1975, i cui lavori sono stati introdotti e divulgati


in Italia soprattutto da Giuseppe Zaccaria.
57
E. BETTI,, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 14.
58
E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur.
umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319 e ss.
59
E. BETTI, Interpretazione della legge e sua efficienza evolutiva, in Scritti
giuridici in onore di Mario Cavalieri, Milano, 1959, p. 547.
60
E. BETTI, L’efficienza evolutiva dell’interpretazione, in Diritto, metodo,
Ermeneutica, a cura di G. Crifò, Milano, 1991, p. 547. Questo farsi
dell’interpretazione partecipa, ma non esaurisce (almeno così ci sembra)
l’ordinatio, cioè l’operazione di mettere ordine tra le norme, in base ad un
criterio, operazione il cui prodotto è l’ordinatum, il risultato (provvisorio) del
porre ordine tra le norme. I due termini latini che sciolgono l’ambiguità
dell’italiano “ordinamento”, costituiscono le chiavi di lettura proposte da F.
GENTILE, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, II ed. ampliata, Padova,
2001.

34
A questo punto, però, se il nodo cruciale è quello di
vivificare,61 attualizzare una virtualità del sistema stesso62 a partire
dall’einfühlen dell’interprete, è corretto spostare la teorizzazione da
un piano fenomenologico a un piano meramente metodologico? Su
questa dicotomia, in realtà più apparente che reale, si sono accese le
polemiche non solo tra l’impostazione bettiana e quella
gadameriana, ma proprio su questo filone si è sviluppata molta
dell’anti-metodica capeggiata dalla Freie Rechtsfindung.
Per la verità fin dall’antichità la parola hermeneìa, che
designava l’attività di chi profetizzava e pronunciava i messaggi
sacri, sottolineava un manifestare all’esterno, un dispiegare
linguisticamente, un “esprimere che presuppone un interpretare.”63
Fin dall’origine, dunque, il comprendere interpretando si
caratterizzava per la circolarità dell’impostazione: la realtà
interpella l’ermeneuta che interpreta e fa emergere, esprime, la
realtà. Non deve stupire, pertanto, l’equivoco, smascherato da Betti,
di chi ha preteso capovolgere il rapporto genetico tra interpretare e
comprendere confondendo l’uso ambivalente della parola intendere:
da un lato per indicare la conoscenza, ottenuta mediante attività
interpretativa, del contenuto di una oggettivazione dello spirito
altrui, dall’altro per indicare la conoscenza in sé.64 Il problema
metodologico, di fronte a questo dato fenomenologico, si è posto e
si pone solo se ci si ostina a intendere il problema interpretativo
esclusivamente come un problema connesso ad un procedere, e
quindi a un metodo. Solo così si può spiegare il rifiuto della
Methodenlehre di Betti e l’accusa di avere erroneamente collocato il
“circolo del comprendere” entro un’impostazione metodica anziché
61
C. COSSIO, in El derecho en el derecho judicial, 1945, p. 117, citato da
Betti, dirà: ”Se trata de un conocimiento por comprension, [...] ; el interprete deve
vivenciar esa conducta y elegir la ley aplicable”.
62
E. BETTI, cit, p. 548. Per la pregnanza inabito giuridico del termine
virtualità, cfr. le acute osservazioni di F. GENTILE, Ordinamento giuridico tra
virtualità e realtà, II ed. ampliata, Padova, 2001.
63
G. ZACCARIA, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria contemporanea,
in Riv. dir. civ. 1989, I, 326.
64
L. MENGONI, La polemica di Betti contro Gadamer, in Quaderni
fiorentini n. 7, 1978, p. 130.

35
ontologica.65 Ma là dove ci si rifà ad una “astrazione metodica”66 si
produce un mutamento di prospettiva, capace di subordinare le
preoccupazioni di metodo al momento della ricognizione
interpretativa e normativa.
Tradurre tutto ciò sul piano pratico non è men gravido di
conseguenze. Ammettere o negare un’interpretazione in quanto
estensione della norma può essere inteso, infatti, come un compiere
implicitamente un’operazione interpretativa per stabilire “quanto
significato” vi è nella norma in sè e quanto vi è di estensione.
L’obiezione secondo cui in questo modo si verrebbe ad affacciare
una precomprensione, una pre-interpretazione rimarrebbe, allora,
ineludibile se non staccandola da un piano strettamente
metodologico.
È la norma in sè, ci si chiede, a contenere “ontologicamente”
il significato dato dall’estensione, o questo significato è raggiunto
solo metodologicamente, partendo, per così dire, da un concetto-
base e allargandolo a seconda della “natura delle cose”,
“dell’attualità dell’intendere” o di qualsiasi altro criterio?
A questo punto viene da chiedersi se sia possibile superare
l’ostacolo teoretico dell’ontologia-metodologia ermeneutica
mettendo tra parentesi lo stesso nodo problematico. Probabilmente è
possibile ove la presunta “svolta ontologica o metodologica”67 è,
come si diceva, più apparente che reale, se si ammette, cioè, una
loro possibile coesistenza. A condizione di preservarsi da
quell’errore tipico del metodologismo dato dalla presunzione di
fornire dei canoni e dei criteri direttivi anteriormente e
indipendentemente dal concreto procedimento interpretativo,68 e a
patto di riconoscere il valore, per contro, del metodo, come via
65
Così G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tübingen (1960), III ed.,
1972, tr. It. (sulla II ed., 1965) a cura di G. Vattimo, Milano, 1983, p. 439.
66
E. BETTI, L’ermeneutica storica e la storicità dell’intendere, in Annali
della Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bari, XVI (1962), p. 27 e ss.
67
F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito
ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano,
1994, p. 28.
68
G. ZACCARIA, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria contemporanea,
in Riv. dir. civ. 1989, I, 331.

36
sicura in grado di rendere ragione di sé69 contro ogni soggettivismo,
sempre che il metodo stesso possa ritenersi fondato, cioè non
falsificabile.70
Non si supera il metodo - forse anche a cagione della
necessità di non rinunciare a una tensione all’oggettività
dell’interpretazione - e quindi difficilmente si può sostenere la
conciliabilità di metodica e ultra-metodica. Tuttavia in quest’ottica
è consentito avvalersi di uno strumentario che - se non si può
definire al tempo stesso metodico e ultra-metodico - si può
azzardare metodologico e ontologico attraverso cui procedere nella
tensione verso una - non più Naiver71 - obiettività.
L’analogia, in questa concezione, non è più solo un problema
logico, ma si inquadra, metodologicamente e ontologicamente,
dentro il problema ermeneutico. Si può, allora, insinuare un
superamento del metodo solo intendendosi sul fatto che si va a
parare contro la spiccata vocazione dell’ermeneutica a risolversi in
etica72 e ci si appella al contenuto assiologico delle norme da
interpretare. Quello etico, in questo modo, si può ipotizzare come il
terreno di incontro ultra-metodico tra un’impostazione metodica e
un’anti-metodica73 o meglio, il Leitmotiv cui ontologica e
metodologia ermeneutica si riconducono.

69
Cfr. G. BENEDETTI, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano,
1994, p. 797.
70
Secondo il procedere per identità e differenza, come suggerisce il
principio di non contraddizione e del terzo escluso di cui si è detto al § 5.1.1.
71
Così G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tübingen (1960), III ed.,
1972, tr. It. (sulla II ed., 1965) a cura di G. Vattimo, p 439.
72
G. VATTIMO, Etica della comunicazione o etica dell’interpretazione? in
Aut Aut, 225, 1988, p. 1 ss. È tuttavia da sottolineare che nell’impostazione di
Vattimo l’istanza etica è giustificata come un evento di destino di “costituzione
nichilista”, come “pensiero dell’epoca della fine della metafisica”, là dove in
Betti l’istanza etica emerge come catarsi dell’interprete. Per le possibilità,
tutt’altro che crepuscolari, di essere terreno d’incontro che tale riconduzione
all’etica propone mi sento di condividere quest’ultima impostazione.
73
Cfr. G. BENEDETTI, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano,
1994, p. 797.

37
8.1.3. Necessità della concretizzazione ermeneutica.
L’ermeneutica come teoria descrittiva o normativa
dell’interpretazione. Valutazione soggettiva e razionalizzazione del
processo di decisione.

Definiti i limiti e le possibilità meramente metodologiche,


presa posizione relativamente a una certa impostazione e
concezione dogmatica, rimane davanti all’interprete, ciò nonostante,
la domanda che prende in considerazione le decisioni valutative dei
giudici e cerca una risposta capace di far collimare tutte le ipotesi -
pur sempre astratte - di partenza con i risultati - concreti - derivanti
dall’applicazione normativa.
È sotto gli occhi di chiunque la “insopprimibile distanza”74 tra
l’universalità della norma e la particolarità di ogni caso concreto:
diventa però un problema - dogmatico, metodologico e
fenomenologico al contempo - porre mano alla concretizzazione del
diritto,75 “lavorare” il diritto stesso se lo si vede, con Adolf Merkl,76
come un “semilavorato” che diventa “prodotto finito” solo con la
fase applicativa.
Qual è l’obiettivo del linguaggio giuridico? È un “dire per
operare” o un “dire per comprendere”? Con Esser77 ritengo che
l’obiettivo stia nella trasmissione di modelli decisionali e di
74
G. ZACCARIA, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria contemporanea,
in Riv dir civ., 1989, I, p. 334.
75
Così K. ENGISCH, Die Idee der Konkretisierung im Recht und
Rechtswissenschaft unserer Zeit, Heidelberg, 1968. Per un approfondimento sulle
problematiche che affondano nella Konkretisierung tedesca e al suo rapporto con
la creatività si rinvia al § 3.2.
76
A. ABIGNENTE, Adolf Merkl: la costruzione a gradi dell’ordinamento
giuridico, in Riv. dir. civ. 1987, I, 621-654.
77
Cfr. J. ESSER, Vorverstaendnis und Methodenwahl in der Rechtsfindung.
Rationalitaetsgrundlagen richtlicher Entscheidungspraxis, Frankfurt a.M., 1972,
p.133.

38
indicazioni relative all’azione, ma credo che sia fondamentale
l’obiettivo di trasmissione di valori, pur tenendo presente che
quest’intento viene filtrato attraverso una veste tecnica
dogmatizzata e sistematica dell’ordinamento. Si potrebbe allora dire
che il diritto è strumento di “comunicazione”.78 Si aprono qui, oltre
alle problematiche connesse agli (inevitabili?) conflitti
interpretativi79 e alla frizione tra un modo di intendere
l’ermeneutica come teoria meramente descrittiva oppure normativa
dell’interpretazione,80 anche gli spazi lasciati aperti dalla querelle
positivista-antipositivista già emersa sul terreno della dogmatica.
Il maggiore punto di attrito, da questo punto di vista, lo crea
l’impostazione kelseniana,81 là dove postula l’espulsione dei giudizi
di valore dalla rigorosa e geometrica teoria interpretativa lasciando
tra parentesi ogni vincolo metodologico. “A Kelsen interessa il
soggetto che interpreta, non il modo di interpretare”.82 Se si pone
l’accento sul soggetto interprete glissando il tema delle modalità
interpretative si viene sì operando una “rimozione”83 del ruolo che
l’interprete esplica nello stesso processo di individuazione del
diritto, ma questa esclusione non è certo metodologicamente
irrilevante.
Non è il caso di soffermarsi troppo ampiamente qui sulla
validità o meno dell’assunto di una “precedenza della domanda”

78
Cfr. F. GENTILE, L’ordinamento giuridico. Tra virtualità e realtà, II ed.,
integrata da tre codicilli, Padova, 2001.
79
Per i quali si veda infra, § 1.4.
80
Per la quale si veda infra, § 3.2.
81
H. KELSEN, La dottrina pura del diritto, trad. it. di M.G.Losano, Torino,
1966, pp. 92-110.
82
G. ZACCARIA, L’apportodell’ermeneutica cit., p. 340.
83
G. ZACCARIA, L’apporto cit., p. 340. Per questa via, infatti,
l’interpretazione di chi “rappresenta” l’autorità costituita, cioè di chi ha il potere
giuridico di interpretare, è di per sé sempre corretta. Della costruzione
dell’giusfilosofo di Praga si trova (forse inconsapevole) traccia in E. BINDI, Un
caso di bilanciamento (mascherato) tra esigenze di efficacia della giustizia e
principi costituzionali relativi alle garanzie giurisdizionali in Giur cost., 1998, p.
900 e ss.

39
nella struttura speculativa dell’esperienza,84 che trasposto in chiave
normativa conduce all’intima connessione tra la comprensione
giuridica e il contesto dell’azione. Certo è che i rapporti tra
fattispecie concreta e astratta non possono non sollevare la
questione sulla sufficienza o meno dei canoni ermeneutici
tradizionali nel vincolare a precisi criteri di razionalità la prassi
della concretizzazione del diritto.
Il “buco nero”di qualunque impostazione giuridica è dunque
ancora una volta quello dell’oggettività interpretativa, “luogo” in
cui si entra ma non si riesce più ad uscire e che sembra inghiottire
qualsiasi, anche contrastante, tentativo di teorizzazione.85
Arrovellarsi sulla descrittività o normatività di qualunque
ermeneutica, perciò, potrebbe rivelarsi un pericoloso avvicinamento
al “buco nero” dell’oggettività, capace di lasciare un vuoto
concettuale là dove tenta di incasellare nella “fisica giuridica” di un
positivismo esasperato quella che è l’anti-fisica della “circolarità
spirituale” di cui si è discorso.86
Poste queste chiarificazioni si può anche approdare alla
concezione bettiana che individua una tripartizione, a seconda della
funzione, in interpretazione meramente conoscitiva o ricognitiva,
riproduttiva o rappresentativa, o normativa.87 Concezione che, data

84
G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tübingen (1960), III ed., 1972,
tr. It. (sulla II ed., ivi, 1965) a cura di G. Vattimo, Milano, 1983, p 283 ss.
85
Secondo i recenti studi di astrofisica sui cd. “buchi neri” questi
sarebbero “luoghi” in cui non si può dimostrare la validità delle leggi fisiche
vigenti. Sarebbero, pertanto, dei luoghi in cui può esistere una anti-fisica, dove i
concetti di materia, tempo, spazio assumono connotazioni anche molto diverse da
quelle fisicamente conosciute. Date queste caratteristiche l’”ingresso” nel “buco
nero” segna un punto di non ritorno all’universo fisico. Cfr. C. LUCCHIN,
Introduzione alla cosmologia, Bologna, 1996, p. 266 ss.
86
È l’antimateria del positivismo di cui parla U. PAGALLO, Alle fonti del
diritto. Mito, scienza, filosofia, Torino, 2002.
87
E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 33 ss. Per
quanto verremo a dire, occorre segnalare subito la perplessità di
un’interpretazione cognitiva diversa da quella rappresentativa, anzi di
un’interpetazione che non sia rappresentativa: altro invece è vedere se la
rappresentazione sia “icona”, immagine fedele alla sua natura di immagine,
ovvero “fantasma”, immagine che tradisce la sua funzione, ponendosi come

40
la impostazione di dogmatica come rappresentazione della realtà,
come drammatizzazione, assurge a criterio e metodo, è operativa
proprio perché è descrittiva. Aggiungendo subito, però che non si
deve confondere l’interpretazione con la qualificazione giuridica.
“Cade in tale equivoco chi identifica l’interpretazione giuridica con
la valutazione del fatto in termini di astrattezza legislativa e crede
che gli elementi interpretativi consistano negli indici di regolarità
fissati nella previsione legislativa. In realtà l’interpretazione di atti
anche rilevanti per il diritto coglie l’atto nella sua concreta
individualità, nel suo contenuto di spirito e di pensiero e nel senso
che ha nell’ambiente sociale, spoglio ancora di ogni qualificazione
giuridica definitiva”.88 È possibile, allora, su queste basi, sostenere
la razionalizzabilità del processo di decisione dentro le valutazioni
soggettive dell’interprete ma lontano da ogni soggettivismo,
portando anzi proprio dentro la norma il “modo vissuto”89
dell’interprete.

immagine concorrente, ma priva di realtà. Per la coppia “icona” / “fantasma” e


per la sua radice platonica, mi permetto di rinviare al mio Il problema della
rappresentanza nella dottrina dello Stato, Padova, 2000.
88
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 100. Il
problema della qualificazione dell’atto ad un archetipo normativamente previsto
guida le sempre acute osservazioni di F. G. SCOCA, La teoria del provvedimento
dalla sua formazione alla legge sul procedimento, in Dir. amm., 1995, p. 1-55.
89
E. BETTI, ibidem. Sarebbe insomma l’esperienza dell’interprete a
vificare la norma, sicché una più maturata sapientia, per applicazione di scientia e
vissuta experientia, porterebbe l’interprete a rendere nuova e diversa
interpretazione dello stesso testo, in ragione di un mutamento “soggettivo”, non
“oggettivo”. Ma vi si legge anche l’anelito all’apertura all’esperienza giuridica, al
farsi del diritto nella controversia, cioè nel momento dialettico del
riconoscimento, su cui rinvio ancora una volta a F. GENTILE , La controversia alla
radice dell’esperienza giuridica, in AA. VV., Soggetti e norme. Individuo e
società, Napoli, 1987, p. 151 e ss.

41
8.1.4. L’ interpres come mediatore (interpretium). C’è una
neutralità ermeneutica? Il confronto con Betti. La verità e
l’interpretazione. Esistenza di una verità nella e della
interpretazione. Efficacia storica/esattezza di una interpretazione:
valore pedagogico e anticipatorio della legge.

Si è già accennato alla connotazione “mediatica” che


caratterizzò il ruolo degli ermeneuti all’origine del termine. Anche
il temine interpres, non di meno, rimanda al ruolo dell’interprete
come “mediatore“, riferendosi alla figura dell’inter-pretium. Già
linguisticamente, dunque, l’accento è posto sulla soggettività
dell’interprete e, verrebbe da dire, anche sulla terzietà di questi
rispetto da un lato alla norma, dall’altra alla realtà.
Lo stesso Betti spinge molto in senso kantiano sottolineando
la necessità di mantenere la consapevolezza della parte che ha il
soggetto nel processo conoscitivo delle scienze dello spirito.90 Tra i
canoni ermeneutici che l’autore individua c’è, in primissimo piano,
quello dell’”attualità dell’intendere”, con una costante attenzione a
quella “vivificazione“ del diritto91 che non può che essere
sviluppata tramite l’interprete (tramite il tramite, pertanto).92

90
E. BETTI, Diritto romano e dogmatica odierna, in Arch. giur., 1928,
p.129 ss.
91
Scrive Luis RECASENS SICHES, riprodotto da Betti, in N. filos. de la
interpret. del derecho, 1956, p. 138, 219: “La norma general al proyectarse sobre
una conducta singular, pasa por el proceso de ser individualizada, de ser
concretada respecto de ese comportamiento singular, de ser interpretada en
cuanto al sentido e al alcance que deba tener para eso caso singular. El risultado
de ese proceso es lo que constituye el revivir actual de la norma, el cumplimiento
de esta en un caso particular.”
92
Cfr. L. RECASENS SICHES, cit., p. 219: “Por lo tanto el cumplimiento de
una norma general en cada caso particular no consiste en un reproducir la norma
general, sino en un adaptar la pauta general por ella señalada a cada caso singular,

42
La mediazione avviene non solo tra il tempo dell’interprete e
quello del legislatore (e da cui discendono tutte le discussioni
intorno alla ricerca della ratio, del “senso della legge”, della “natura
delle cose”, della mens auctoris, e così via), ma anche tra la
soggettività dell’interprete e l’oggettività della norma, tra l’esigenza
di certezza e l’efficienza evolutiva dell’atto normativo. L’interprete,
cioè, si trova di fronte alla norma con tutta la sua soggettività,
quindi con tutte le sue categorie, i suoi condizionamenti, di cui non
può, tuttavia, sbarazzarsi per fare posto a una vagheggiata
neutralità. Dacchè sarebbe “spogliarsi della propria soggettività”,
aspirazione del tutto assurda dato che, come dice Betti, egli
“perderebbe gli occhi per vedere”.93 Si trova anche, però, di fronte
alla necessità di non fare della propria soggettività un soggettivismo
che sfocerebbe nell’arbitrio e quindi, in nome della certezza, viene a
dover conciliare l’oggettività interpretativa con la soggettività
connessa all’essere l’operazione ermeneutica cosa altra da una mera
operazione aritmetica o contabile. È il canone dell’adeguazione
dell’intendere o della corrispondenza o consonanza ermeneutica,
per cui l’interprete deve “sforzarsi di mettere la propria vivente
attualità in intima adesione e armonia con l’incitamento che gli
perviene dall’oggetto”.94
Per la verità è stato sottolineato come l’applicazione, nei fatti,
prevalga di gran lunga sulla mediazione95 e la strumentalità
dell’interpretazione in funzione normativa -che va oltre, in certo
qual modo, il semplice interpretare per conoscere- ne esce alquanto

consiste en cumplir de modo concreto en la conducta singular el sentido


formulado en términos genéricos y abstractos por la norma general”.
93
E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 25. È il
tema su cui ci si è congedati dal capitolo che precede e che, come si vede,
costituisce preoccupazione ricorrente in tutta l’opera del nosto, in reazione agli
scritti coevi, p. es,. quello di R. SACCO, Il concetto di interpretazione del diritto,
Torino, 1947.
94
E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 25.
95
Cfr. F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito
ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano,
1994, p. 28.

43
subordinata, al di là dei meritori intenti, all’efficacia strettamente
applicativa.
Servirebbe un’interpretazione “aderente al vero” se poi non
avesse alcuna efficacia applicativa?
Il diritto, non di meno, comprende una natura applicativa,
altrimenti diritto non sarebbe, riducendosi a pura speculazione.
Secondo l’insegnamento della tripartizione aristotelica, lo studio del
diritto e dello Stato non è né scienza, né tecnica, ma un arte (come
la strategia, l’arte militare), partecipando della teoresi, ma non
riducendosi a questa in un librarsi estetizzante, appartenendo alla
creta del produrre, senza retarne invischiato, sospeso cioè tra cielo e
terra, come la linea dell’orizzonte dell’Alighieri. Credo, però, che
per uscire dall’alternativa tra oggettività e soggettività
dell’interpretazione e nell’interpretazione ricorrere al criterio degli
interessi in gioco, alla ricerca - di natura applicativa - del senso
della norma come tutela di questo o quell’interesse non tolga né dal
soggettivismo - dato che chi riuscisse a far prevalere il proprio
interesse potrebbe ottenere un’interpretazione favorevole - né da
un’inguaribile conflittualità interpretativa data dalla necessità di
stabilire, comunque, un criterio per dare la prevalenza a questo o
quell’interesse.
È il criterio del télos, è la necessità di fondare
l’interpretazione sui valori96 che può far uscire dall’alternativa e
può costituire terreno di confronto fuori da ogni soggettivismo.
Tuttavia il problema della verità della interpretazione e della
ricerca della verità nella interpretazione, cruciale e lacerante, si
scontra pur sempre, proprio in virtù di questa sua natura
“meccanica” con l’efficacia, per l’interprete, di porsi la domanda
sulla efficacia applicativa. Ossia, quando l’interprete si accinge ad
interpretare una norma deve interrogarsi sull’interpretazione più
rispondente al vero in termini di risultato, o in termini di metodo, o
ancora deve rinunciare a questo ennesimo “buco nero” e badare solo
all’efficienza evolutiva della sua interpretazione?

96
L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova,
1953, p.14 ss.

44
Il problema di una neutralità ermeneutica, capace di accedere
alla verità (normativa) come dis-velamento di ciò che già in sé è
dato è un modo scorretto di porsi di fronte all’impasse della
certezza dell’interpretazione. Collegare con tanta sicurezza certezza
e verità, a parte l’inevitabile irraggiungibilità di una conoscenza
piena di tutta la verità a causa della inguaribile parzialità
dell’approccio conoscitivo,97 può far perdere di vista l’impostazione
ermeneutica prescelta di un “farsi” dell’oggetto d’interpretazione -
la norma - tramite l’interpretare medesimo.
È da condividersi allora l’opinione di Cavalla che sostiene
come “il problema della logica (conoscere quali siano le condizioni
che rendono un discorso rigoroso)” non si risolva “esibendo una
logica (sistema di criteri per connettere in modo necessario una
serie di proposizioni) che, in se stessa, è sempre e solo strumento
per accertare, e non per produrre la verità”. 98 Rincorrere la verità
per amore di certezza taglia, però, fuori quei fatti giuridicamente
rilevanti ma inevitabilmente sottoposti a “senescenza assiologica”, o
quanto meno metamorfosi evolutiva: si pensi, ad esempio, al
concetto di “buon costume”. Non solo: rende pure stridente
l’applicazione di criteri interpretativi logici, quale il modello
analogico, a quegli stessi fatti attinenti la vita giuridica difficilmente
comprimibili entro strutture fermamente logiche.
È chiara, dunque, la necessità di ricorrere a tutta la “potenza
assiologica del diritto”99 e di instaurare giudizi di valore come
testata d’angolo di qualunque costruzione interpretativa.
Nell’analisi di Betti è costante la preoccupazione relativa alla
“questione della verità”, che rimanda al problema del comprendere
nell’interpretare. Tuttavia vi è in Betti una sorta di sfasatura tra la
97
Sembra sottintendersi infatti che oggetto di conoscenza non sia mai la
totalità dei fenomeni, ma solo una parte. Anche per il tradimento filosofico che
muta l’anelito alla verità con la ricerca della certezza, individuato nell’opera
sistematizzante dell’Aquinate, cfr. il denso saggio di Francesco Cavalla di cui alla
nota seguente.
98
F. CAVALLA, La verità dimenticata. Attualità dei presocratici dopo la
secolarizzazione, Padova, 1996, p. 110.
99
L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova,
1953, p.17.

45
posizione critica, sostenitrice di una interpretazione mirata ad
attingere nelle forme rappresentative i valori,100 e quella
strettamente metodologica che, postulando il canone dell’astrazione
metodica, implica una certa indifferenza alla verità dei testi con cui
si ha a che fare.101 È lo stesso Betti che scrive come si debba
cominciare a tenere distinta dal positivismo giuridico l’esigenza di
“neutralità ermeneutica” che vieta all’interprete, giudice o giurista
teorico, di risalire ad istanze metagiuridiche, etiche, religiose,
sociali o economiche, secondo preferenze sue personali, e
gl’impone di attenersi alle valutazioni normative che determinano la
disciplina positiva dei rapporti e sono immanenti all’ordine
giuridico di cui si tratta”.102 Tuttavia poco oltre aggiunge che
“l’esigenza di neutralità non significa che qui sia richiesta
all’interprete una supina rassegnazione o una sorta di cecità morale,
ma essa è in tanto affermata in quanto si presuppone che proprio
negli organi dell’interpretazione, siccome esponenti della coscienza
sociale, sia viva e vivace la consapevolezza della tradizione e con
essa la sensibilità delle sue basi morali”.103
Le teorie positivistiche del diritto vorrebbero, dunque,
espellere le istanze etiche dal diritto e ridurre l’interpretazione
giuridica a una mera analisi del linguaggio legislativo. Al più la
“verità” sarebbe ritrovata nella pura conformità delle regole a “certi
principi etici accolti come criteri di valutazione di una società
storicamente determinata”.104 Questo, tuttavia, oltre a ridurre
fortemente le potenzialità e la creatività dell’interpretazione
condurrebbe a una insopprimibile staticità del sistema.
Ma le norme, come sottolinea Betti, non sono ”pure
enunciazioni di giudizi tendenti a comunicare un sapere circa la
sintesi di un soggetto e di un predicato, ma sono strumenti ad un

100
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p.291
ss.
101
L. MENGONI, La polemica di Betti contro Gadamer, in Quaderni
fiorentini n. 7, 1978, p. 128.
102
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 795.
103
E. BETTI, op.ult. cit. p. 796.
104
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 796.

46
fine di convivenza sociale”. Inserire i giudizi di valore
nell’interpretazione giuridica, dunque, significa fare del giurista un
uomo che si pone fondamenti etici e li immette nel sistema con
l’attualità della sua interpretazione, o, meglio, li emette dal sistema
con il suo intendere.
L’impostazione di Betti in merito alla esattezza
dell’interpretazione procede sicura dentro il canone dell’oggettività:
”I caratteri che contraddistinguono l’interpretazione anche in
funzione integrativa e ne fanno risaltare l’antitesi con la
discrezionalità sono: l’univocità, che conduce a riconoscere esatta,
almeno teoricamente, una sola soluzione (in quel dato momento
storico e in quella data situazione di fatto); quindi la prevedibilità e
la rigorosa controllabilità del risultato, assicurate, almeno in teoria,
dal fatto che in essa sono escluse valutazioni di mera
opportunità”.105 Avvicinare così tanto l’efficacia storica con
l’esattezza di un’interpretazione può, tuttavia, rivelarsi pericoloso là
dove ci si aggroviglia nel trasporre questa concezione dentro la
necessaria imperatività delle norme. Si rischierebbe di essere
fraintesi passando per sostenitori di una legalità solo se
storicamente efficiente. Non solo. Si rischia di passare sotto silenzio
la problematica connessa al cosiddetto valore “profetico e
pedagogico” della legge, là dove accade che le proposizioni
normative siano più evolute del sentire sociale o che il sistema di
legalità faccia insorgere nuovi bisogni o nuovi conflitti di interesse
cui la norma inconsapevolmente risponde. È la critica del brocardo
“quod non est in lege nec in iure”, caro all’impostazione
tradizionale, che tuttavia riceve dalle considerazioni fatte, anche con
Betti, un profondo scossone.
105
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, (Teoria
generale e dogmatica), (1949) II ed. a cura di Giuliano Crifò, Milano, 1971, p.
68. La prudenza nell’escludere con sicurezza le valutazioni di opportunità
dall’interpretazione salva l’autore camerte da un astrazione che porterebbe la sua
argomentazione fuori dalla realtà. Che poi ogni interpretazione abbia in sé
componenti di opportunità riteniamo sia momento fisiologico del carattere
politico che pervade anche il momento giuridico (costituendone anzi la genesi),
necessaria anche per scegliere tra più possibili interpretazioni, tutte
scientificamente legittime.

47
8.1.5. L’interpretazione evolutiva nell’impostazione
bettiana: spunti e precisazioni.

Prima di procedere oltre sul tema sarà opportuno approfondire


un aspetto del problema dell’interpretazione messo in luce dalla
maggior parte degli autori, ma alla cui soluzione raramente si è
giunti con sicurezza e uniformità. Si tratta dell’interpretazione
evolutiva che spesso è ritenuta confinare con l’analogia, sicché la
definizione di quella è preliminare alla corretta individuazione di
questa.
Sovente dottrina e giurisprudenza si sono prodotte in una
pletora di partizioni a riguardo dell’interpretazione e, in particolare,
si è da tempo delineato il concetto di interpretazione evolutiva, per
evidenziare il carattere di attualità e di attualizzazione della norma
cui l’opera dell’interprete dà luogo. Ci si è, cioè, rifugiati nell’idea
dell’”evolutività” dell’interpretazione per sottolineare la vitalità
delle stesse norme grazie proprio all’apporto ermeneutico, la loro
capacità di adattamento al mutare delle situazioni sociali e anche
dell’ethos, e per fuggire alla critica di ancorare il significato dei
precetti ad una ormai desueta letteralità.
Perciò, senza rinunciare all’idea di certezza che sempre ha
assillato dottrina e giurisprudenza, individuare nella capacità
evolutiva dell’interpretazione la possibilità - sottoposta ad un rigido
controllo di disciplina - di adeguare ad un presente in continuo
mutamento anche norme poste in un passato non recentissimo ha
dato, quanto meno, l’illusione che l’ermeneuta potesse soccorrere
“l’impossibile Sisifo”106 del legislatore, costretto, altrimenti, ad una

106
L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano,
1975, p. 240 e ss.

48
frenetica attività di produzione legislativa nella rincorsa costante per
rimettersi al passo con i tempi.107
Può esservi una nuova valutazione degli interessi in conflitto?
Betti parla108 di nomogenesi per riferirsi al modo in cui in
origine la norma fu pensata e alla valutazione e coordinazione degli
interessi in gioco attuata dal legislatore ai tempi della emanazione
normativa e, per contro, di eterogenesi degli scopi per sottolineare
proprio il ruolo - da questo punto di vita innovatore, e quindi
evolutivo - dell’interprete di ricercare sì, nell’interpretare la norma,
la valutazione originaria e immanente ad essa, ma anche di
analizzare se questa abbia maturato un esito ulteriore, rinvenibile
anche attraverso il coordinamento con altre norme del sistema e
anche da dati extragiuridici.
Sarebbe, in questo modo attuata la nuova valutazione,
evolutiva, degli interessi in conflitto. Tuttavia l’autore camerte si
sofferma ad analizzare un aspetto a questo consequenziale: è
legittima questa interpretazione evolutiva?
Rispondendo alla critica di Romano,109 Betti sottolinea come
l’interpretazione evolutiva non sia, come sovente la dottrina aveva
affermato, un particolare metodo o criterio ermeneutico, ma un
carattere della stessa interpretazione giuridica che necessita di
essere integrata e arricchita quanto più la formula si allontana nel
tempo dalla presente attualità, come del resto sottolinea avvenire
per ogni linguaggio.

107
Cfr. §. 2.1.3.
108
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, (Teoria
generale e dogmatica), (1949) II ed. a cura di Giuliano Crifò, Milano, 1971, p.
112 e ss.
109
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 125 e
ss; E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 833 e ss. La
posizione di Santi Romano rispecchia il momento dell’evoluzione del diritto
pubblico ed è conseguenza della teoria istituzionalistica, come recupero di quel
fattore storico che – paradossalmente- proprio la Germania dell’Ottocento, patria
dello storicismo, aveva finito col tradire. Cfr. S. ROMANO, Interpretazione
evolutiva, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947 (rist. 1983), p.
120 – 125.

49
D’altro canto il fatto che l’ordinamento sia visto come
qualcosa non di prestabilito ma di dinamicamente in costruzione,
una “comunione di vivente spiritualità”110 fa sì che si renda
necessaria questa opera di “assidua interpretazione”, cosicché
l’efficienza evolutiva si dia come semplicemente un risultato
consequenziale, magari inconsapevole, del processo ermeneutica.111
Ciò che, tuttavia, in tutta questa impostazione non può non
lasciare perplessi è il fatto che lo stesso Betti, nonostante la
teutonica meticolosità delle argomentazioni, sembra riporre una
fiducia fin troppo marcata nell’interprete e nella sue capacità di
raggiungere un’oggettività non scientifica, ma per riconoscimento
del significato -del ruolo- della norma in ragione del posto che
occupa all’interno dell’ordinamento.
Come si raggiunge, per Betti, la congruenza tra la realtà
mutevole e la certezza del diritto?
Mediante una “efficiente collaborazione dell’interprete”,112
precisa nella sua Teoria. Ma questa collaborazione efficiente mi
sembra, senza cadere in una sorta di pessimismo giuridico, dimostri
una punta di ingenuità, se non altro per questo costante confidare
nella ragionevolezza dell’interprete: il che non può non lasciare
qualche dubbio, a prescindere dal carattere soggettivo della
“ragionevolezza”.
Del resto l’opera dell’interprete, che giustifica
un’interpretazione “di comodo” con l’aderenza alle mutate esigenze
sociali, o meglio che fa un uso “politico” del concetto di evoluzione
normativa e che, lungi dal dare una nuova interpretazione ad una
norma vecchia apre la via alla creazione, per via ermeneutica, di una
norma nuova113 non è poi così lontana dall’esperienza giuridica
contemporanea.

110
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 836.
111
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 125 e
ss.
112
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 834.
113
Cfr. D. RUBINO, La valutazione degli interessi nell’interpretazione
della legge, in Foro it. 1949, IV, p. 12.

50
Ma allora tanto vale porre già come rischio immanente ad
ogni interpretazione quello di un certo grado di arbitrarietà, specie
se introdotta per via di analogia o di estensione, e chiarire che
postulare un legislatore e un ermeneuta “ragionevoli”114 null’altro
significa che autorizzare la legittimità delle loro valutazioni.
Premesso ciò, dunque, assume un significato più netto il
compito che Betti affida alla giurisprudenza: quello di organo della
coscienza sociale che, senza per questo cadere nella confusione tra i
poteri giudiziario e legislativo, è il termometro, con le sue decisioni,
di una “sensibilità per l’etica del diritto e per le esigenze sociali”.115
Dichiarare che la forza di espansione assiologica, e quindi
evolutiva, sia attribuita alle norme, e in particolare ai principi
immanenti ai vari ordinamenti,116 più che ad una attività in senso
stretto dell’interprete sembra, in realtà, nascondere una sorta di
fiducia nelle capacità “intuitive” dell’interprete che vale la pena di
mettere in luce, se non altro per evidenziare i pericoli cui
l’impostazione bettiana può dare adito.
Allo stesso modo, se pur si nega il ritorno al diritto naturale
come elemento sussidiario e finale di interpretazione in grado di
assicurare l’aderenza delle norme al sentire sociale, pare che
l’insistenza sulle “valutazioni immanenti e latenti nella legge” e
sull’opera di “rinvenimento” del diritto fra il coacervo della legge,
da parte dell’interprete, presenti gli stessi motivi di perplessità che
fecero respingere l’idea di diritto naturale tout court.
Solo l’idea di una legalità costituzionale, con dei valori
codificati e condivisi, a cui riferire un giudizio ultimo di legittimità
può, allora, forse salvare dall’impasse e sollevare dall’impressione
dell’arbitrarietà di qualunque interpretazione: resta comunque
sottolineato, e converrà tenerlo presente nei prossimi capitoli, che la
libertà dell’interprete non potrebbe essere soppressa né arginata
nemmeno se vigesse il più stretto formalismo e si rincorresse la
lettera della legge. Libertà dell’interprete in cui, del resto, si gioca, a
114
Cfr. anche L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto
giurisprudenziale, Milano, 1975, p. 314.
115
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 864.
116
E. BETTI, op. loc. ult. cit.

51
ben guardare, la stessa libertà del diritto. Ma di tutte queste
tematiche si avrà modo di condurre, nel prosieguo del lavoro una
più approfondita analisi.

52
8.2. Interpretazione-ricerca e interpretazione-
risultato: sulla bontà della distinzione nella prospettiva
dell’esperienza giuridica

8.2.1. Rapporto tra norma e testo. Chi fa l’interpretazione?


Qual è la funzione dell’interpretazione? Teoria normativistica come
riduzione all’analisi del linguaggio. Interpretazione come
conoscenza mediante i concetti e interpretazione come
apprezzamento assiologico. Interpretazione del diritto,
interpretazione della legge e interpretazione dell’interpretazione.
Interpretazione in funzione normativa e interpretazione giuridica.
Diritto in potenza e diritto latente: valutazione di queste categorie.

Se lo strumento interpretante è il milieu dell’interprete, come


postula il canone dell’attualità dell’intendere, e non il linguaggio o
il lessico del testo stesso, ci si chiede117 se il processo volto alla
comprensione possa, tuttavia, essere semplificato, sulla scorta del
canone dell’autonomia ermeneutica dell’oggetto, a una mera
riproduzione del testo, a una “rinascita” del testo stesso
ricostruendone la genesi, a un procedimento che porta l’interprete a
“penetrare e trasferirsi nello spirito che gli parla”.118 È il problema
del rapporto tra la norma e il testo, che riproduce, in forma
moderna, la relazione cui il brocardo “quod non est in lege nec in
iure” tentava di dare una risposta.
Il canone dell’autonomia ermeneutica, o dell’immanenza del
criterio ermeneutico, tuttavia, non deve essere frainteso. Esso,
117
L. MENGONI, La polemica di Betti contro Gadamer, in Quaderni
fiorentini n. 7, 1978, p. 138.
118
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p 24.
Felicissima immagine, feconda di implicazioni, sui cui rinvio, per l’assonanza a
V. CRISAFULLI, Questione in tema di interpretazione della Corte costituzionale
nei rapporti con l’interpretazione giudiziaria, in Giur cost., 1956, p. 929 e ss.

53
infatti, postula che la norma deve essere intesa secondo “una sua
interiore necessità, coerenza e razionalità”119 e quindi non secondo
la sua idoneità a “servire a questo o a quello scopo estrinseco” e in
quanto tale “eteronomo”.120
Al di là delle tradizionali considerazioni sulla validità e
opportunità, nonché verità, di una interpretazione con i caratteri
della letteralità, in prospettiva realistica si osserva come sia difficile
postulare l’esistenza “dietro” le leggi di una volontà univoca e
determinata delle norme giuridiche.121 La non coincidenza della
norma e del testo non solo pone la questione, dunque, della
letteralità, ma pone in seria crisi anche la concezione
dell’applicazione giudiziale come di un sillogismo. Dato, infatti,
che il giudice non è più, in questa impostazione, chiamato a ricavare
una conclusione logica da premesse già precostituite, ma si trova
alle prese con la stessa predisposizione delle “premesse”, a
“creare”122 lo iure proprio nel momento in cui si accinge a
ricostruire la lege, l’interprete stesso si troverà ad essere
“costitutivamente incluso in questo processo di integrazione del
significato normativo del dato giuridico”.123
La constatata distanza tra la norma e il testo interroga su chi,
effettivamente, faccia l’interpretazione, su chi, cioè, concretamente
si trovi a gestire questa sorta di “discrasia giuridica”. Chi fa
l’interpretazione? Nonostante la manualistica richiami
costantemente le partizioni tradizionali che vedono giustapposte
l’interpretazione dottrinale, giudiziale, autentica,124 ritengo che il

119
E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 14.
120
E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 14. Qui
vale la pena di segnalare come il termine “eteronomo” intenda l’uso della norma
per fini diversi da quelli per i quali era stato posto, in sostanza “l’abuso del
diritto”.
121
G. ZACCARIA, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria contemporanea,
cit., p. 337.
122
Per la dialettica integrazione-creazione dell’interpretazione si veda
infra al § 3.
123
G. ZACCARIA, L’apporto cit., p. 346.
124
Tra gli altri A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, 32 ed., Padova,
1991, p. 36; F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, Padova, 1993, p. 79 e ss.;

54
problema sia dato in primo luogo dal modo di intendere la stessa
interpretazione, come risultato oppure come ricerca. È l’obiettivo
che qualifica l’interprete? L’approdo alla “verità”
dell’interpretazione, con questa impostazione, si fa più rarefatto,
anche perché nuovamente si vedono contrapposte una concezione
dell’oggetto interpretando - la norma - o come contenuto da dis-
velare, come risultato da raggiungere, già prestabilito, oppure come
un “farsi” tramite l’interprete della norma medesima, come ricerca
da condurre.
Anche nella configurazione di Betti l’interpretazione presenta
un doppio aspetto, quello di “apprezzamento” e quello ricognitivo,
tuttavia è fuorviante mettere in relazione queste categorie con le
figure di interpretazione-ricerca e interpretazione-risultato.125 Il
canone della autonomia ermeneutica, o della immanenza del criterio
ermeneutico impone che la norma debba essere “apprezzata alla
stregua immanente dell’esigenza cui [essa] doveva rispondere”126
all’atto della creazione. Non solo; altrimenti, infatti, si rischierebbe
di ricadere nella staticità o nella mera ricostruzione storica. Vi può
essere, nell’interpretazione, anche una nuova valutazione degli
interessi in conflitto tanto che la ricognizione interpretativa viene a
mutarsi gradualmente man mano che la norma assicura, accanto al
suo “scopo” primigenio, il raggiungimento di esiti ulteriori.
È quella che Betti definisce, con linguaggio ricavato dalla
psicologia, l’eterogenesi degli scopi. Questo non solo implica una
ricognizione e un apprezzamento assiologico tramite la soggettività
(non il soggettivismo) dell’interprete, ma anche il superamento
della distinzione tra ricerca e risultato nell’interpretazione. E in
particolare si legittima anche il procedimento analogico, che
rinviene aliunde, mediante, appunto, eterogenesi, scopi immanenti
ad altre norme, come procedimento normalmente - o, meglio,
teleologicamente - interpretativo.

F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale - parte generale, XI ed., Milano, 1989,


p. 75 ss.
125
R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, in Riv. trim. dir.
proc. civ., 1951, p. 758.
126
E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 11 ss.

55
Credo, a questo punto, che per rispondere alla questione sulla
soggettività interpretativa non si possa che affondare la riflessione
sulla funzione - in termini di télos o di convenzione -
dell’interpretazione.127
“L’interpretazione non ha, in sé, nessuna funzione”, sostiene
Sacco,128 “semmai alcuni atti del processo interpretativo hanno,
come funzione, (o meglio, come normale, logica conseguenza)
ulteriori atti del processo interpretativo [...]. Tutt’al più si può
parlare di funzione dell’interpretazione per indicarne, invece, il
contenuto”.129 Betti avrebbe glissato sull’equivoco solo perché,
almeno secondo Sacco,130 avrebbe parlato di interpretazione
attribuendole caratteri propri della sola applicazione.131
L’affermazione è forte, laddove risuonano ancora come convincenti
le partizioni, a volte fin troppo geometriche, rese da Betti, quasi
pedante nell’insistere per delineare i caratteri di quella che cataloga
come interpretazione in funzione normativa. La confusione tra
questa funzione dell’”intendere per agire” e la concretizzazione, tra
interpretazione e applicazione può sussistere solo ove si confondano
l’efficacia vincolante, normativa, appunto, della legge con l’oggetto
- la norma, appunto.132 La condotta pratica da informare al criterio
che si desume dalla norma non coincide con l’attività interpretativa.
Se così fosse, infatti, non vi sarebbe interpretazione al di fuori di
quella che desse luogo ad un comportamento da parte degli
interessati, escludendo in questo modo qualunque interpretazione,
come quella scientifica, diversa da quella giudiziale.133

127
Per un approfondimento della possibilità di ricostruire di volta in volta
una diversa struttura di un istituto a seconda delle funzioni che si intende
affidargli cfr., si vis, M. M. FRACANZANI, Il problema della rappresentanza nella
dottrina dello Stato, Padova, 2000.
128
R. SACCO, cit., p. 760.
129
R. SACCO, ibidem. Per questa distinzione e sulla sua bontà, cfr. S.
PUGLIATTI, Grammatica e diritto, Milano, 1978.
130
R. SACCO, cit., p. 761
131
Malgrado le dichiarazioni d’intenti nettamente contrarie. Cfr. E. BETTI,
Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 11.
132
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 809.
133
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 99.

56
Chiarito l’equivoco dato dalla negazione di ogni funzione
all’interpretazione, da quella forma di “nichilismo funzionale
interpretativo” di Sacco, è possibile recuperare nella sua
impostazione l’idea che, mettendo per un attimo tra parentesi la
funzione dell’interpretazione, pone l’accento su quell’”in sé”
dell’interpretazione, e in esso riconosce un dato di ricerca e
significato assiologico. Anche a prescindere dalla funzione,
pertanto, si può recuperare l’apprezzamento assiologico come
dimensione del processo interpretativo, senza rifugiarsi nel
“paradiso dei concetti” ma senza, nemmeno, perdere di vista il fatto
che la norma non esiste per esistere, ma sempre in funzione
strumentale a un qualche scopo.
Respinta con Betti la tesi normativistica, che “riduce
l’interpretazione giuridica ad un’analisi del linguaggio legislativo”
perché dimentica, come detto, che “le norme non sono pure
enunciazioni di giudizi tendenti a comunicare un sapere circa la
sintesi di un soggetto e un predicato, ma sono strumenti ad un fine
di convivenza sociale”,134 è importante, dunque, recuperare la
conoscenza mediante i concetti e i giudizi di valore come cifra del
processo interpretativo.
È possibile la convivenza, entro la medesima costruzione, di
una teorizzazione dell’interpretazione come conoscenza mediante i
concetti e allo stesso tempo come apprezzamento assiologico?135
Sostenere questo significa avvalorare la ricerca, nella norma, di
quello “spirito” - l’esprit des lois, verrebbe da dire - ad essa
immanente, significa riconoscere che il concetto normativo non è
neutro, ma ha in sè una forte connotazione di valore e aprire la
ricerca interpretativa alla ricerca dei fini normativi.
Credo che riconoscere la soggettività dell’interprete come
mediatore, ma non per questo come passivo esecutore, accettarne

134
E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 797.
Convivenza intesa non come mera coesistenza degli arbitri al modo di Kant, bensì
come comunicazione, riconoscimento delle ragioni di ciascuno, espressione della
capacità di darsi delle regole e rispettarle.
135
R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, cit., p. 748-766.

57
concettualmente questa natura “anfibia”, sia implicitamente un
ammettere la realizzabilità di questa convivenza.
Alla luce di quanto detto la distinzione tra interpretazione del
diritto e interpretazione della legge sembra venirsi ad insinuare tra
le maglie di un’antitesi giuspositivismo-giusnaturalismo latente, e
rimane pur sempre scoperto il fianco della scelta di fondo sottesa
alla “interpretazione dell’interpretazione”.136
Come interpretare l’interpretazione “ottenuta” o il processo di
“ricerca” interpretativa? Alla luce di quali valori e in quale chiave
metodologica?
Il processo potrebbe andare all’infinito se non si facesse, con
Betti, la scelta137 per l’”eccedenza assiologica”138 delle norme. Al di
là della lettera, infatti, vi è una sovrabbondanza di valore, un
giudizio che va al di là del testo, immanente alla norma, una
valutazione, che non è mero giudizio logico, illuminante la norma
medesima. Senza, tuttavia, abbandonare la concezione evolutiva e
dinamica di un “diritto in fieri” che “si fa” - con procedimento non
avalutativo - con l’interprete e per il tramite di questi.
Se si ragiona in termini meramente “riproduttivi” si cade
nell’”appiattimento di prospettiva” delineato da Betti: “Questa
concezione [anti-evoluzionistica] implica il presupposto che nelle
norme di un ordinamento sia cristallizzata una volontà espressa dal
“legislatore” una volta per sempre, che l’interprete sia chiamato non
già a sviluppare, ma a riprodurre. La volontà del giudice viene
collocata sul medesimo piano della volontà dell’amministratore”.139
Al contrario gli “apprezzamenti interpretativi”, sul cui reale
significato, peraltro, non tutti sono concordi,140 mirano a ritrovare
“valutazioni normative della legge anche colà dove esse siano

136
G. AMENTA, Interpretazione e fonti del diritto nell’ottica
dell’ermeneutica antropologica, in Giur. it., 1987, IV, 520.
137
Sulla quale si veda infra § 3.2.4.
138
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 822.
139
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., §. 11.
140
Vedi contra R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, cit.,
p. 760.

58
rimaste latenti o meno appariscenti, senza manifestarsi in modo
esplicito in “precise disposizioni””.141
Si apre qui la categoria del “diritto latente” che è vista come
paradigmatica della ricerca interpretativa. Addirittura si parla di
“immanenza” nella legge di valutazioni che, mentre formano la
ratio iuris di norme già formulate, possano servire di “base o di
addentellato” da cui ricavare e rendere esplicite le pluricitate
“massime di decisione”.142
Riemerge, dunque, surrettiziamente, la tentazione
dell’oggettività dell’interpretazione e la soluzione data dal brocardo
“sensus non est inferendus sed efferendus”. La fase “ricognitiva”
che Betti143 enfatizza molto come primo momento
dell’interpretazione non nega, ma rappresenta la condizione della
fase applicativa144 e trova qui la sua giustificazione a patto, però, di
rimanere solo una partizione funzionale ad un processo che è
unitario e che, comunque, non può essere avulso da un giudizio.
La categoria del “diritto latente” è efficace anche perché pone
in rilievo che la legge di uno Stato non raccoglie tutto il diritto,
poiché questo in “massima parte rimane latente nel seno della
società”.145 Tuttavia, pur nel suo rigore metodologico, essa richiama
tutte le ambiguità di un concetto di interpretazione più vicino al dis-
velamento che al dinamismo interpretativo. Per questa via, ad ogni
modo, Betti arriva anche a superare questa storica dicotomia e
allargando gli spunti offerti dalla sua teoria può essere utile, oggi,
assumere la categoria del “diritto in potenza” che meglio si accorda,
tra l’altro, alla moderna idea della struttura aperta del linguaggio e
sottolinea, allo stesso tempo, - bettianamente - che è l’ambiente
interpretativo a determinare abbondantemente gli esiti
141
E. BETTI, op. ult. loc. cit.
142
Tra gli altri E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit.,
p. 31.
143
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 343-389.
144
Cfr. F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito
ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano,
1994, p. 31.
145
D. SIMONCELLI, Le presenti difficoltà della scienza del diritto civile, p
423, citato da P. GROSSI, Interpretazione ed esegesi, Riv. dir. civ., 1989, p. 211.

59
dell’interpretazione, fornendone i principali elementi di quella
“potenzialità” che la definizione fornisce. È il contesto che fa il
testo146 (o i contesti i testi)?147 O si deve concludere che sia la cena
del giudice Holmes?148

146
N. IRTI, Testo e contesto : una lettura dell'art. 1362 Codice civile,
Padova, 1996.
147
U. PAGALLO, Testi e contesti dell'ordinamento giuridico : sei studi di
teoria generale del diritto, (1998) III ed., Padova, 2001.
148
Com’è noto, il giudice Holmes, esponente del realismo giuridico
americano (detto anche realismo giuridico ingenuo), affermava con piena serietà
ed altrettale intenzione dissacrante, che la decisione della sentenza dipende in
larga parte da che cosa il giudice ha avuto per cena la sera prima. Sostanzialmente
a questa posizione si rifanno le posizioni scettiche di chi ritiene che
l’interpretazione della legge sia puro arbitrio, paragonabile alla teoria dei giochi.
Per una documentata ricostruzione, cfr. E. DICIOTTI, Interpretazione della legge e
discorso razionale, Torino, 1999; IDEM, Verità e certezza nell’interpretazione
della legge,ivi, 1999.

60
8.3. Contenuti della ricerca interpretativa

8.3.1. Criteri discretivi della ricerca interpretativa:


l’individuazione degli interessi in conflitto; del bene giuridico
tutelato. Superamento di queste impostazioni (anche in campo
penalistico).

“Betti subisce inizialmente il fascino delle geometriche


teorizzazioni kelseniane ma se ne allontana ben presto nella
convinzione - che diverrà l’asse portante del suo pensiero - della
centralità della nozione di interesse per tutta la vita del diritto”.149
In effetti la manualistica giuridica150 si è sempre soffermata
sulla centralità e propedeuticità di ogni riflessione del concetto di
interesse, come individuazione di quel quid capace di giustificare le
stesse proposizioni normative e la loro positività alla luce di un
qualche “oggetto” da tutelare.
È nota la contrapposizione tra la scuola della “giurisprudenza
degli interessi” e quella della “giurisprudenza dei concetti” che ha
animato il dibattito giuridico tedesco ed internazionale: un
approfondimento porterebbe troppo lontani dal tema, tuttavia è
interessante notare come alla radice di queste divergenti prese di
posizione ci fosse ancora una volta l’interrogativo sul nucleo
centrale del fenomeno normativo e quindi, di conseguenza, di
quello interpretativo.
Che cosa si ha di mira quando si interpreta? La risposta al
quesito ha notevoli implicazioni pratiche per i fini che ci siamo
proposti. Se si cerca una distinzione tra interpretazione estensiva e
149
F. RICCOBONO, Emilio Betti e la “malattia kelseniana”, in
L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, cit., p. 160.
150
L’elenco potrebbe riguardare la maggior parte delle trattazioni
istituzionali soprattutto in ambito penalistico. Per tutte, F. ANTOLISEI, Manuale di
diritto penale - parte generale, XI ed., Milano, 1989, p.145 e ss.; G. FIANDACA-
E. MUSCO, Diritto penale, Bologna, 1993, capitolo I.

61
analogia, come si è tradizionalmente fatto, sulla base degli obiettivi
che nell’applicazione dell’una e dell’altra l’interprete si propone -
nell’una la ricerca del senso proprio della norma, nell’altra il risalire
ad una ratio comune con il caso simile - ci si deve previamente
interrogare su quale sia l’obiettivo di ogni interpretazione, sia
questa estensiva o analogica.
Com’è noto, la dottrina e la giurisprudenza penale si sono
cimentate nella estrapolazione, dal coacervo concettuale, del criterio
del “bene giuridico tutelato” visto, addirittura, come il luogo
d’incontro tra politica criminale e dogmatica penalistica,151 e come
contrassegno del limite152 alle funzioni del diritto in campo penale.
Non sono mancate, tuttavia, le critiche ad un’eccessiva fiducia in
questo criterio interpretativo: bastino le considerazioni sulla
oggettiva difficoltà ad individuare i confini e la concretezza di
codesto “bene giuridico”, la rischiosa tracimazione del concetto,
puranche individuato, entro il télos della norma, con relativa
confusione tra bene tutelato e scopo, o ratio, della norma.153
Difficilmente superabile appare, in questa impostazione, anche
quella critica che oppone e contesta la viziosità di un ragionamento
volto a cercare il quid normativo per stabilire un qualunque criterio
d’interpretazione: questo procedimento richiederebbe - si contesta -
una interpretazione preliminare alla stessa interpretazione per
individuare, in un circolo vizioso, appunto, il criterio interpretativo
medesimo.154
Giustapposta alla teoria del “bene giuridico” sta, anche fuori
dalla teorizzazione penalistica, il pensiero di chi individua nel
nucleo normativo una “valutazione degli interessi in conflitto”.155

151
Così D. PULITANÒ, Politica criminale, in Diritto penale in
trasformazione, Milano, 1985, p. 32.
152
C. ROXIN, Strafrechtliche Grundlagenprobleme, Berlin, 1973, p. 43.
153
F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, XI ed,
Milano, p. 159.
154
F. ANTOLISEI, Manuale cit., p. 81.
155
D. RUBINO, La valutazione degli interessi nell’interpretazione della
legge, in Foro it., 1949, IV, p. 4 ss.

62
Contrariamente al metodo totalizzante della “giurisprudenza
degli interessi” e alla presunta autosufficienza interpretativa di
questo criterio propugnata da tale scuola di pensiero, Rubino indica
la valutazione degli interessi in conflitto come criterio integrativo
per l’interpretazione della legge cui ricorrere solo in caso di dubbi
sul contenuto di una norma o di lacune anche nei principi generali
cui normalmente si dovrebbe far ricorso.156 A parte le insidie
connesse al concetto di dubbio157 e le considerazioni sulla
prospettabilità di lacune nei principi,158 Rubino inserisce il suo
criterio degli interessi entro l’interpretazione sistematica,
raccomandando nell’opera di interpretazione, la considerazione di
tutto il sistema e delle esigenze che esso comporta. Addirittura
rende l’immagine plastica di un interprete “ostetrico del diritto”159
che recupera le categorie del diritto latente160 da “trovare” nel
sistema.
La critica di Betti a questa impostazione è puntuale. “La
presenza e l’importanza del momento teleologico o si ammette o si
nega; ma se si ammette, non si può senza incoerenza riconoscere
legittimo secundum eventum il criterio della valutazione
comparativa degli interessi: legittimo, quando il suo controllo porti
a correggere il risultato del c.d. “criterio logico”; non più legittimo,
o comunque inopportuno, quando viceversa porti a confermarlo”.161
156
D. RUBINO, cit., p. 6.
157
Insidie pericolosissime, specialmente in prospettiva giuridica ed ancora
più secondo protocolli giuspositivisti, che fanno della chiarezza, esaustività e non
eterointegrabilità i propri alfieri. Per questi aspetti, cfr. § 2.1., ma fin da subito P.
PERLINGIERI, L’interpretazione della legge come sistematica ed assiologica. Il
broccardo “in claris non fit interpretatio”, il ruolo dell’art. 12 disp. prel. c.c. e la
nuova scuola dell’esegesi” in Rass. dir. civ., 1985, p. 990 – 1017.
158
Sulla quale cfr. § 2.1.3.
159
D. RUBINO, op. ult. cit., p.6. L’immgine efficace, non deve trarre in
inganno per l’assonanza socratica dell’arte maieutica. Qui, ci sembra di
intravedere un operazione costitutiva contrabbandata per attività puramente
dichiarativa, un momento assertorio anziché il responsabile procedimento di
crescita ed apprendimento nella consapevolezza della provvisorietà problematica
del risultato.
160
Vedi supra § 1.2.1.
161
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 284.

63
Si rifiuta, cioè, l’accoglimento del criterio degli interessi solo colà
dove la legge non è “chiara”, per recuperare, quindi, solo
sussidiariamente il criterio teleologico. L’interpretazione teleologica
potrebbe sembrare adatta a fare luce su eccessi non coglibili col
solo criterio logico. Tuttavia per verificare quando il risultato debba
essere aggiustato, corretto e quando la logica basti a se stessa è
indispensabile il vaglio critico e il controllo del criterio teleologico
in ogni caso.162
Ma il momento teleologico è, per Betti, “immanente al
sistema”,163 tanto che anche lo stesso argomentare per analogia ha
per l’autore carattere essenzialmente teleologico.164 Allora già da
qui si potrebbe dire come, ameno in apparenza, le categorie
dell’interpretazione estensiva e dell’analogia non trovino ragione di
distinzione, facendo entrambe riferimento ad un unico processo -
teleologico - ermeneutico. È l’ipoteca del procedimento per identità
e differenza che pervede sia il procedimento analogico, sia il
procedimento estensivo e che rischia, con una perdita di
consapevolezza, di farli confondere. Ma si tratta di un profilo
epistemico su cui si dovrà tornare.
Poste queste premesse il criterio che Betti adotta è quello di
“razionalità teleologica”,165 che vede come protagonista un
apprezzamento rispondente alle esigenze assiologiche di una
valutazione normativa, e postula il raffronto tra la norma e il
162
E. BETTI, ibidem. Per questa prospettiva di metodo, rinvio a H. M.
PAWLOWSKI, Einfürung in die juristische Methodenlehre, II ed., Heidelberg,
2000, specialmente p. 197 (della prima ed., 1986, segnalo la tr. it. Milano, 1993 a
cura di S. Mazzamuto e L. Navarra).
163
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 285.
164
E. BETTI, op. cit., p. 285. Vi è dunque quella primogenitura del criterio
teleologico che sosterremo alla fine di questo lavoro, unita però, e guidata,
dall’attenzione al contesto, in un movimento sincretistico che troverà fortuna e
che ancora oggi sembra tenere la posizione dominate in diverse forme di
equilibrio tra la pretesa oggettività autoevidente del testo e le correnti
irrazionalistiche del “gioco” del/nel diritto. Rinvio allo scritto di B. PASTORE,
Identità del testo, interpretazione letterale e contestualismo nella prospettiva
ermeneutical, in V. Velluzzi (a cura di), Significato letterale e interpretazione del
diritto, Torino, 2000, p. 137 – 166.
165
E. BETTI, op. cit., p. 287.

64
problema pratico, ma anche tra il mezzo prescelto e l’adeguatezza
allo scopo.
Nella critica di Heck166 il giudice si troverebbe dinanzi alla
totalità degli interessi protetti dalla legge e ne sarebbe vincolato.
Tuttavia se si discostasse dalla valutazione degli interessi alla cui
integrale ricostruzione è tenuto giungerebbe a frustrare il “senso
della legge”. Come far combaciare questa “totalità valutativa” con il
mutare degli interessi via via insorgenti? Lo stesso interesse alla
composizione degli interessi in conflitto si presenta, come ben
sottolinea Betti,167 come un interesse pubblico, “del tutto sociale”.
Si aprirebbero, qui, le indagini sul fondamento etico, o meno, dello
Stato. Chi stabilisce, infatti, la priorità di questo medesimo
interesse?
Il ragionamento rischia di diventare asfittico se ci si ostina
nelle categorie fin qui enunciate.
Già Hans Welzel168 ha sostenuto da tempo, in contrasto con la
dottrina dominante, che il compito primario del diritto (penale)
consiste nel formare gli atteggiamenti etico-sociali dei cittadini, al
fine di favorirne la disponibilità psicologica a rispettare le leggi.169
Lo stesso Betti, poi, più volte ha enunciato l’eccedenza assiologica
delle norme170 e la valutatività - non di interessi, ma di valori171 -
dell’interpretazione ad esse connessa.
Credo pertanto che non ci sia via d’uscita al problema se non
recuperando, questa dimensione teleologica e assiologia,172 fuori da

166
P. HECK, Gesetzesauslegung und Interessenjurisprudenz, Tübingen,
1914, parr. 19-20.
167
E. BETTI, cit., p. 290.
168
H. WELZEL, Strafrecht, 1969, Berlin, p. 4 ss., cui si deve aggiungere C.
ROXIN C., Grundlagen, der Aufbau der Verbrechenslehre, München, 1997.
169
G. FIANDACA- E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. 38.
170
E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 822.
171
Sottolinea L. MENGONI, La polemica di Betti contro Gadamer, in
Quaderni fiorentini n. 7, 1978, p.127, che Betti pensa di fornire alla sua “teoria
generale dell’interpretazione” una base filosofica più aggiornata radicandola nella
filosofia dei valori.
172
Cfr. la felice intuizione L. CAIANI, I giudizi di valore
nell’interpretazione giuridica, Padova, 1953.

65
ogni finzione giustificativa e superando, così, le impostazioni
precedentemente delineate in merito a possibili criteri discretivi
della ricerca interpretativa.

66
8.3.2. Circolo di reciprocità tra vigore dell’ordine giuridico
e processo interpretativo. Norma e uso della norma. Interpretazione
abrogante come strumento per ricostruire l’ordine assiologico nel
sistema. Comunità dell’interpretazione giuridica/comunità
giuridica. Norma giuridica come pre-giudizio sociale condiviso.

Sovente Betti torna sul “circolo di reciprocità”, sulla continua


correlazione che intercorre tra il vigore dell’ordine giuridico, ma
anche morale, ecc., da cui si desume la “massima dell’azione”, e il
processo interpretativo “che se ne fa in senso integrativo e
complementare”.173
Interpretare, dunque, significa “tornare a conoscere” - ri-
conoscere - la norma non tanto come una “oggettivazione di
pensiero in sè conchiusa”,174 ma per “integrarla e realizzarla nella
vita di relazione”.175 È interessante notare come Betti sottolinei che
la funzione di tale interpretazione normativa sia di sviluppare
direttive per un’azione pratica o un’”opzione”176 - sempre offerta a
chi è chiamato ad agire - tra più possibilità. In questo modo
l’interpretazione viene a mantenere continuamente vivo il diritto, e
in perenne efficienza nella vita di una società. È quello che già
Bobbio177 aveva delineato come compito dell’interpretazione
normativa: l’intendere nella formula di legge la continuità dello

173
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 802. Per
pressoché analoghe considerazioni come termine di un cammino affatto diverso,
cfr. gli scritti raccolti da J. RAZ, Ethics in the Public Domain, Oxford, 1994.
174
E. BETTI, op. cit., p. 803.
175
E. BETTI, ibidem.
176
E. BETTI, op. cit., p. 803 nota I-a.
177
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., Torino, 1938, p.
136.

67
spirito, il risvegliare l’atto spirituale che era in essa sopito,
l’immetterlo un’altra volta rinnovato nella vita dello spirito”.178
La circolarità, pertanto, deriva dalla continua osmosi tra
società e legge attraverso l’interpretazione, tra attualità e
intelligenza della formula, in una continua opera di vivificazione e
reciproca influenza.
Da tutto ciò, a parte le considerazioni sull’”operante
concatenazione produttiva” di matrice diltheyana,179 si evince la
sottolineatura su un interpretare che non è più soltanto un tornare a
conoscere una proposizione normativa, ma è anche un integrarla e
soprattutto realizzarla nel vivere sociale.180
Se, tuttavia, la costruzione e la proposta di un modello di
diritto nasce da una considerazione dell’attualità del comportamento
di tutti i consociati, non tanto di coloro che l’hanno posto, si delinea
una relazione stretta tra l’”uso” della norma nella prassi
comportamentale e lo stesso concetto di norma.181 È citato da molti
autori, compreso lo stesso Betti, l’esempio del codice civile tedesco
immesso nel sistema giuridico giapponese,182 con tutti gli
adattamenti e le difficoltà derivanti non solo dalla recezione di
norme e di principi “nuovi”, ma anche dal rendere “conformi allo
spirito del sistema” le nuove regole. A quali norme implicite fare
riferimento? A quelle tedesche, immanenti nella ”legge” o a quelle
giapponesi, immanenti nel “diritto”?
178
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. 136 Questo, per
Bobbio, differenzia l’interprete dal legislatore.
179
Sulla quale si veda §. 3.
180
G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di Emilio
Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, 786.
181
A. CATANIA, Ermeneutica e definizione del diritto, in Riv. dir. civ.,
1990, II, 122.
182
Non va sottaciuto che già nel 1873 l’imperatore Mutsuhito chiamò il
professor Boissonade in qualità di esperto presso il Ministero di giustizia per
fargli elaborare un progetto di codice civile sul modello napoleonico. Nonostante
la bocciatura parlamentare esso esercitò un notevole influsso sulla più diffusa
prassi arbitrale nipponica. Successivamente, nel 1898, fu adottato un codice
fortemente influenzato dai progetti preliminari del BGB tedesco, con indiretta
vicinanza, pertanto al modello francese. Cfr. altresì, A. GARCÌA FIGUEROA,
Principios y positivismo jurìdico, Madrid, 1998.

68
“Un procedere ermeneutico non è più caratterizzato dal
linguaggio culto e metaforico della tradizione, ma si scioglie nel
linguaggio comune e ordinario dei consociati che si imbattono o, da
un altro punto di vista, combattono con la comprensione, recezione,
riformulazione delle regole e quindi del mondo normativo, ove
naturalmente la tradizione si miscela e diremmo quasi annega nella
quotidianità”.183
Ma che cosa distingue, allora, l’esistenza - imperativa - di una
norma? Questo emergere di una quotidianità diremmo così
”normativa”, capace se non di dettar legge almeno di dettare diritto
è anche un implicito colpire alle fondamenta le costruzioni del
positivismo.
Distinguere le norme giuridiche dalle abitudini e norme
sociali può essere utile per uscire dalla “sfera rarefatta del
formalismo dei concetti verso il mondo empirico degli
atteggiamenti normativi”184 e questo sia per valorizzare una certa
esigenza di kelseniana “effettività” della norma, sia per sottolineare
un certo elemento “deontico” immanente alla norma.
Prima di procedere oltre è interessante accennare al valore
della interpretazione cd. abrogante.185 È consentita una abrogazione
per via d’interpretazione? Non ci si riferisce, qui, alle sentenze,
evidentemente legittime, della Corte costituzionale. Ci si riferisce,
al contrario, alla ordinaria interpretazione che, mediante un
processo di progressiva espulsione dal sistema degli elementi
normativi contrastanti con un “sentire sociale” interpretato come
diffuso, di fatto espunge, abrogandoli, norme se non principi.
Verrebbe da dire che questo genere di interpretazione
potrebbe essere considerato uno strumento per ricostruire l’ordine
assiologico nel sistema. Non mi soffermerò sulla presunta

183
A. CATANIA, Ermeneutica e definizione del diritto, cit., p. 122.
184
L.A. HART, Il concetto di diritto, tr. it. e cura di M.A. Cattaneo, Torino,
1965, p. 67.
185
P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica ed
assiologica. Il broccardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 disp.
prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, in Rassegna dir. civile, 1985, p. 1005.

69
vocazione paralegislativa di questo o quell’organo giudicante.186
Tuttavia non può non fare riflettere come parte della creatività
interpretativa si giochi non solo sul piano positivo
dell’interpretazione, ma anche su quello “negativo”
dell’abrogazione interpretativa.
L’insieme di tutte queste “interpretazioni”, o meglio
possibilità interpretative, può dare origine a quella che è stata
definita “comunità dell’interpretazione giuridica”187 in cui vengono
a raccogliersi e unificarsi i modi di pensare tramandati dalla cultura
giuridica e in cui lo stesso giudice-interprete è parte attiva. Questa
comunità sarebbe il superamento della stessa “comunità giuridica” o
legal community poiché lo stesso testo giuridico verrebbe inserito
non solo nell’ordinamento, ma anche nel processo interpretativo;
significativa, per tutte, l’esperienza della recezione in Giappone del
BGB tedesco.
Questa impostazione, per la verità molto più vicina al sistema
anglosassone di common law che non alla nostra tradizione
giuridica, o meglio alla nostra consapevolezza ermeneutica, lascia
intuire almeno due ordini di problemi. Da un lato l’oscillazione tra
la tentazione di una totale desoggettivizzazione della prassi
interpretativa e l’inglobamento della soggettività dell’interprete
entro la categoria ermeneutica. Dall’altro l’apertura alla
concettualizzazione delle norme giuridiche come pre-giudizi sociali
condivisi,188 come (pre-)giudizi di valore sulla vita sociale
formalizzati nei testi normativi e sostenuti dall’imperatività ma
anche - almeno fino all’interpretazione abrogante - da un’abitudine
sociale appunto “condivisa”.

186
Cfr. §. 3.2.3.
187
G. ZACCARIA, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria contemporanea,
in Riv. dir. civ. 1989, I, p. 347. Più recentemente ha ricostruito la genesi di questo
concetto, analizzando l’opera della più attenta dottrina nord americana, E.
PARIOTTI, Individuo, comunità, diritti: tra liberalismo, comunitarismo ed
ermeneutica, Torino, 1997, poi riprese in IDEM, La comunità interpretativa
nell'applicazione del diritto, Torino, 2000.
188
A. CATANIA, Ermeneutica e definizione del diritto, cit., p. 126.

70
Su questa linea alcuni autori, come McIntyre,189 hanno
addirittura sviluppato teorie volte a sostenere una concezione
comunitaria dell’etica, secondo cui non solo i criteri delle scelte
morali individuali ma anche la stessa legittimità dell’ordine politico
e sociale troverebbero fondamento nella cultura morale di una
comunità. Addirittura, sostiene lo scozzese, i fondamenti delle leggi
vanno ricercati nell’ethos, nelle tradizioni e nelle relazioni
interindividuali che costituiscono una comunità, poiché solo così
sarà possibile restituire razionalità e intelligibilità ai vincoli che la
vita comunitaria impone. Ed è verso tali fondamenti che
l’interpretazione si deve dirigere.
Come ognuno può vedere, tuttavia, nonostante il fascino di
questa impostazione dell’ermeneutica giuridica, è in agguato lo
scivolone non solo in un “paradiso giuridico”, per parafrasare
Jhering, ma anche un allontanamento dalla possibilità di giustificare
- se non con un fallimento della cd. comunità interpretativa? - il
dato empirico di un’altissima conflittualità interpretativa.
Ed è in questa direzione che dobbiamo ora rivolgerci.
189
A. McINTYRE, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, 1981, II ed. riv.,
1984. L’autore scozzese trova le sue radici teoretiche in un più ampio movimento
di rinascita della filosofia pratica, in reazione agli esiti totalitari della prima metà
del secolo passato, che annovera nella scuola anche Leo Strauss e Hannah Arendt,
come poi Hans Georg Gadamer, Joakim Ritter, Alasdair MacIntyre, appunto,
Hans Jonas e, con tendenze kantiane, Martin Riedel e Karl Heinz Ilting. Un
aspetto particolare della filosofia pratica aristotelica costituisce la linea portante
della speculazione di Hannah Arendt, che fa del comunicare il fondamento di
tutta la propria opera: il giudicare nel conoscere ed il comunicare nel giudicare
saranno le coordinate del suo agire politicamente. Per questi aspetti, rinviamo T.
SERRA, L’autonomia del politico, Teramo, 1984, fra i primi saggi italiani
sull’argomento. Altresì, L. BOELLA, Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare
politicamente, Milano, 1995, p. 136; nonché, L. BAZZICALUPO, Hannah Arendt.
La storia per la politica, Napoli, 1996, p. 254. L’osservazione risulta interessante
per il prosieguo della nostra ricerca, giacché riconoscendo nel comunicare
l’essenza dell’arte della pòlis (anzi la caratteristica stessa dell’uomo), fonda
necessariamente il diritto (anche) sull’alterità, profilo peculiare della struttura
emeneutica. Per questi aspetti cfr. E. BERTI, Aristotele nel Novecento, Bari, 1992,
specialmente p. 194 e ss. Cfr. anche P.J. OPITZ, Politische Wissenschaft als
Ordnungswissenschaft. Anmerkungen zum Problem der Normativität im Werke
Eric Voegelins, in Der Staat, 1991, p. 349 e ss.

71
8.4. Il conflitto delle interpretazioni: una difficoltà
del positivismo non risolubile con l’antipositivismo

8.4.1. Il conflitto delle interpretazioni. Il problema della


coerenza ermeneutica: ragioni dell’esistenza della problematica. Le
norme plurivoche o di significato ambiguo vanno interpretate in
modo conforme al sistema. I significati assurdi: ragioni e modalità
dell’esclusione. L’applicazione retroattiva.

Se i canoni interpretativi sono correttamente applicati da che


cosa deriva il “conflitto delle interpretazioni”? E se quello stesso
“ambiente” che influenza l’interprete rende, con il suo “spirito”,
l’univocità della norma, come spiegare tutte le interpretazioni
empiricamente divergenti?
Si pone la domanda Sacco190 che prosegue, poi, negando la
rilevanza di uno “spirito” della legge correlativo all’ambiente come
oggetto di interpretazione, e ammettendolo, semmai, come parte
dell’interprete e facente parte di questi.
Nell’analisi di Betti,191 al contrario, si distingue tra possibili
conflitti di norme -dove si segnala il prevalere dei criteri tradizionali
come “lex posterior derogat legi priori”- e incongruenze che
rendono necessario un adattamento per via d’interpretazione in base
al punto di vista della società contemporanea.
È evidente come il terreno su cui ci si muove sia costituito
dalle pericolose sabbie mobili del soggettivismo interpretativo che
dà adito ad una potenzialmente altissima “conflittualità
interpretativa”.

190
R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, in Riv. trim. dir.
proc. civ. 1951, p. 754.
191
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 120
ss.

72
Il problema affonda le sue radici da un lato in quello della
verità dell’interpretazione e nell’interpretazione,192 dall’altro in
quello della coerenza ermeneutica. Infatti la problematicità della
coesistenza di interpretazioni divergenti della stessa norma deriva
dall’avere postulato la necessaria coerenza del “sistema”, in ordine
al raggiungimento del “mito” dell’oggettività e della certezza
ermeneutica e all’interno di quella tradizionale partizione
dell’interpretazione detta, appunto, sistematica. Sono numerose le
pronunce giurisprudenziali che postulano la necessità di riferirsi al
“sistema” e, in nome del mantenimento alla “conformità” a questo,
ispirano criteri interpretativi. Interessante, a questo proposito, è una
sentenza del T.A.R. Sicilia del 1994 che stabilisce come compito
fondamentale del giudice “consista [...] nell’individuare di volta in
volta il significato che la norma viene ad assumere nell’attuale
contesto storico, tenendo conto dell’evoluzione complessiva del
sistema quale risulta dalla successione normativa, delle
interpretazioni date dalla norma stessa, nonché delle eventuali
mutate esigenze cui quella norma debba necessariamente essere
adeguata nell’intento della conservazione di una sua utilità
ordinamentale, in relazione ad istanze socio-economiche la cui
rilevanza si sia manifestata nell’ordinamento e che in esso abbia
trovato adeguato compimento”. 193
La sentenza si ispira, chiaramente, ad un ampio concetto di
interpretazione evolutiva e, potremmo dire, di law in contest,
soprattutto laddove parla di attualità di contesto storico e di
significato dinamicamente in movimento con il mutare delle
situazioni. È di rilievo la partizione che la sentenza fa rispetto agli
elementi capaci di determinare il modificarsi del significato
normativo e che l’interprete è tenuto a ricercare. Da un lato la
successione normativa, cioè l’interpretazione sistematica deve
andare di pari passo con quella evolutiva, costituendone, anzi,

192
Per cui si rinvia a quanto detto supra § 1.1.4., oltre all’icastico studio di
A. M. POGGI, “A ciascuno il suo”, in Giur. cost., 1987, 1731 e ss.
193
T.A.R. Sicilia sez. II, 4.10.1994 n. 888 in Repertorio Giustizia civile,
1995, con sottolineature nostre. Cfr. altresì, F. GENTILE, Ordinamento giuridico.
Tra virtualità e realtà, III ed. ampliata, Padova, 2000.

73
alimento; dall’altro le interpretazioni date della norma stessa. Si
apre qui uno spazio di notevole avvicinamento ai sistemi di common
law poiché si riconosce che, tramite l’interpretazione, si viene a
creare una sfera - significante, oltre che significativa - di diritto
giurisprudenziale.
Peculiare è l’osservazione che la sentenza fa, poi, di un terzo
elemento capace di influire sul modificarsi del significato delle
norme: si tratta delle mutate esigenze cui la norma deve
necessariamente essere adeguata. Questa ammissione, per la verità,
potrebbe dare adito a un soggettivismo esasperato delle
interpretazioni, quando non ad un arbitrio, perché rischierebbe di
avallare una interpretazione strumentale a questo o quell’obiettivo
operativo dell’interprete, decisamente fuori da ogni possibilità, non
solo di oggettività, ma anche di giustizia. Così non è se si tiene
presente la precisazione in merito alla “conservazione dell’utilità
ordinamentale” che la norma interpretata deve mantenere, il che
significa che non sono autorizzate interpretazioni che facciano
uscire la norma dal sistema di utilità per cui era stata posta. Non
solo. Se si tengono presenti le osservazioni fatte sull’oggettività
della norma e la soggettività dell’interprete e sull’attualità
dell’intendere si evita il rischio annunciato.
Anche il Consiglio di Stato si pronuncia a favore di
un’interpretazione conforme ad un significato “il più possibile
coerente con le disposizioni risultanti dal complesso normativo
globale in cui la norma da interpretare si trova collocata”. 194 È
questa una conferma del carattere sistematico che l’interpretazione
deve assumere, anche se l’incertezza che quell’ “il più possibile
coerente” denota non può non lasciare perplessi. È chiaro, infatti,
che questa regola può rivelarsi utile nel confronto tra più

194
Cons. Stato, VI sez. 89/717. Sul punto, cfr. F. DELFINO, Omissioni
legislative e Corte costituzionale (delle sentenze costituzionali c.d. creative), in
AA. VV. Studi in onore di G. Chiarelli, II, Milano, 1974, p. 911 e ss., nonché M.
LUCIANI, Lo spazio della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, in AA. VV.,
Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale.
Riferimenti comparatistici, Atti del sminario di studi tenuto a Palazzo della
Consulta il 13 e 14 ottobre 1992, Milano, 1994, p. 245 e ss.

74
interpretazioni possibili, tuttavia sarà ben difficile stabilire solo con
questo parametro la maggiore o minore vicinanza alla coerenza del
sistema.
È sempre il Consiglio di Stato, in adunanza plenaria, poi, a
stabilire che “norme plurivoche o di significato ambiguo vanno
interpretate in modo conforme al sistema”.195
In che cosa consista questa coerenza del sistema, tuttavia, è
ben lungi dall’essere un dato acquisito, poiché è empiricamente
molto facile riscontrare non solo contrasti giurisprudenziali, ma
anche legislativi. Credo però che se non si rincorre il fantasma della
geometria giuridica e si tengono presenti le considerazioni fatte in
merito al “farsi” dell’interpretazione anche attraverso, e non solo
mediante, l’interprete, le incongruenze sistematiche si rivelino non
più che apparenti entro una concezione dinamica - non per questo
caotica - dell’ordinamento. Come si vedrà meglio al capitolo 7,
concependo un sistema a logica “sfumata” anche le contraddizioni
sono accettate, purché la probabilità del loro accadimento si possa
ricondurre alle logiche del sistema. Di più, il problema della
coerenza del sistema è dovuto dalla difficoltà di ordinare l’insieme
di norme, elevandole a “sistema”, operazione che richiede un
criterio ordinatore, in forza del quale “disporre” ogni norma “al suo
posto”; ma questo criterio ordinatore, il mètron dei classici, non può
essere trovato nel diritto positivo, anzi –come diremo- richiede
quell’attitudine all’ordine che è caratteristica propria dell’uomo.
L’interprete alle prese con la coerenza sistemica non può non
trovarsi di fronte al problema dei cosiddetti “significati assurdi”:
con quali criteri li escluderà, e perchè deciderà di escluderli?
L’assurdità di un significato, o di una interpretazione potrebbe
essere individuata nella contrarietà al senso “usuale”: sarebbe
immediata, tuttavia, non solo la reazione al soggettivismo implicito
in questa impostazione, ma anche la constatazione che la
coincidenza della verità - posto che la si individui -
dell’interpretazione con il suo essere conforme all’”usuale” può

195
Cons. Stato, ad. plenaria, 16.12.1983, n. 27 in Riv. amm. R.. I., 1984,
262.

75
venire stabilito in termini di probabilità, non già di necessità
logica.196
Credo, allora, che sia corretto ricondurre l’assurdità o meno di
un significato e di una interpretazione nell’ambito della ratio
giuridica e rinviare al paragrafo 4.3 la trattazione.
Prima di analizzare la soluzione giurisprudenziale in materia
di coerenza sistemica è bene soffermarsi, tuttavia, sul problema
della cosiddetta “applicazione retroattiva”.
Chi, come Betti, asserisce la presenza di un momento logico
della norma, consistente nell’enunciazione di un “apprezzamento
interpretativo”197 si trova poi a dover fare i conti con l’applicazione
retroattiva -là dove consentito, ovviamente - delle norme e a dover
giustificare la singolarità delle norme interpretative nell’ottica di
coerenza e autosufficienza ermeneutica del sistema. Come far
convivere questi opposti?
Probabilmente questo è un falso problema, essendo sì una
questione interpretativa,198 ma più fittizia che reale. La norma

196
R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, cit., p. 755. Più
ampiamente, sul problema temporale degli effetti, tra interpretazione e
declaratoria di incostituzionalità, l’ottima monografia di M. E. D’AMICO,
Giudizio sulle legge ed efficacia temporale delle decisioni di incostituzionalità,
Milano, 1993.
197
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 95.
Peraltro si veda anche: M. CARTABIA, Portata e limiti della retroattività delle
sentenze della Corte costituzionale che incidono sugli status giuridici della
persona. In margine ad alcune recenti sentenze della Corte di cassazione in
materia di cittadinanza, in Giur. cost., 1996, p. 3260 e ss. Per un profilo
comparatistico, cfr. A. A. CERVATI, Incostituzionalità delle leggi ed efficacia
delle sentenze delle Corti costituzionali austriaca, tedesca ed italiana, in AA.
VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con
firerimento alle esperienze straniere, Atti del seminario di studi tenuto al Palazzo
della Consulta il 23 e 24 novembre 1988, Milano, 1989, p. 125 e ss.
198
“La retroattività è una questione interpretativa”, asserisce E. CROSA in I
diritti di libertà e la Costituzione, Giur. it., 1948, II, 131. Quarant’anni dopo, ed a
Corte costituzionale pienamente operante (anche con fantasia), può essere
interessante comparare la posizione dell’illustra costituzionalista con il salace
scritto di P. CARNEVALE, La pronuncia di incostituzionalità “ad
effettoparzialmente retroattivo” del regime della perequazione automatica per le

76
interpretativa, che si sovrappone a quella interpretanda, riceve,
infatti, un orientamento retroattivo - anche se sarà comunque valida
per l’avvenire - tale per cui l’intento interpretativo non viene altro
che a camuffare quello creativo così che quella che doveva essere
una “interpretazione”, una ricognizione retroattiva non è altro che
una positiva nuova creazione normativa.

pensioni dei magistrati: ancora una declaratoria di illegittimità costituzionale


con efficacia “temporalmente circoscritta”, in Giur. it, 1989, I, 1, 761 e ss.

77
8.4.2. Una soluzione giurisprudenziale: la norma giuridica
al momento stesso della sua entrata in vigore si oggettivizza
estraniandosi dai fatti contingenti e dalle vicende che hanno
preceduto la sua emanazione (che conservano il valore di ausilio
esegetico); va interpretata facendo riferimento alla situazione
esistente al momento della sua applicazione. La norma, nella sua
autonomia comprende tutte quelle situazioni anche non prevedibili
verificatesi successivamente che si inquadrino nella sua ratio e
nella lettera della disposizione. In tale operazione non opera
l’analogia né l’interpretazione estensiva perchè la nuova fattispecie
rientra direttamente nella previsione della norma, considerata nel
suo significato letterale e logico.

Contrariamente all’opinione di Kelsen, Gorla e Sacco, nel suo


“manifesto ermeneutico” del 1948 Betti enuncia il carattere
specificativo e integrativo del precetto da interpretare che
costituisce l’interpretazione medesima.199 Essa crea una
“complementarietà concorrente, un circolo di continua e reciproca
rispondenza fra il vigore della legge e il processo interpretativo”.
Lo stesso processo conoscitivo è visto assumere carattere
triadico: “in primo luogo lo spirito vivente e pensante
dell’interprete; quindi una spiritualità che si è oggettivata in forme
rappresentative; infine la mediazione di quelle forme
199
E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 39.
Leggiamo nel manifesto il momento della frattura con la “tradizione” fiorita
nell’Ottocento francese e ben rappresentata dall’espresisone di Demante: “C’est
la volonté du législateur, qui constitue la loi. L’esprit du législateur est, pour
nous, une guide si sûr, que nous souvent le faire prevaloir sur ses termes...”
spirito che deve consistere “dans l’ensemble de disposition qui composent la
même loi, ou même dans la comparaison d’une loi avec une autre, ou egard à la
plus ou moins grande analogie des matières”. A. DEMANTE, Cour anlytique de
Code Civil, Paris, 1849, p. 13-14, cit. da M. A. CATTANEO, Illuminismo e
codificazione, Milano, 1966, p. 148

78
rappresentative nelle quali la spiritualità, che si è oggettivata, sta di
contro al soggetto interpretante come qualcosa di altro e
indipendente da esso, come una oggettività irremovibile”.200
Di vago sapore bettiano, allora, parrebbe definirsi la sentenza
della Cassazione penale del 1982201 in materia di radiotelevisione.
La questione oggetto della pronuncia riguardava la estensibilità o
meno della legislazione - penale - sull’obbligo di registrazione e
indicazione del direttore responsabile anche alle trasmissioni
televisive private, così come esplicitamente previsto per quelle
pubbliche, non ancora esistenti al tempo dell’emanazione della
legge.
La sentenza si rivela interessante perché, in motivazione, fa
riferimento esplicito a un “fondamentale principio ermeneutico”,
quello che vede la norma giuridica, al momento stesso della sua

200
E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur.
umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319-344. Facilmente riconoscibili, per assonanza, i
debiti hegeliani di Betti, non disgiunti –ad onor del vero- da una rimeditazione
personale dell’attualismo gentialiano nella contrapposizione tra pensiero pensante
e pensiero pensato, inteso come spirito obbiettivato, derivatagli tramite Adolfo
Ravà, maestro anche di Carlo Esposito: Orbene, su queste basi lo studioso italiano
può sostenere “che si ha un fenomeno sociale tutte le volte che due o più psichi
umane entrano in relazione tra loro. È evidente che questa relazione non si può
porre che per mezzo di fenomeni fisici, ma questi sono in tal caso espressione di
un fatto psichico: sono azioni, cioè movimenti (fatto fisico) determinati da
volontà (fatto psichico). Le azioni sono dunque i fatti sociali per eccellenza. E i
prodotti di queste azioni (linguaggio, leggi, istituzioni), se anche distaccati da
ogni psiche e viventi per sé, pure conservano l’impronta dello spirito umano che
li ha prodotti, e in tanto noi ce ne possiamo servire, in quanto sentiamo risonare in
noi la stessa vibrazione psichica che ha dato loro la vita. Qui è profonda la veduta
di Hegel, che li chiamò spirito obiettivato. Così A. RAVÀ, La classificazione delle
scienze e le discipline sociali, Roma, 1904, p. 131.
201
Cassazione penale, sez. V, 12.10.1982 in Giust. penale 1983, II, 633.
Peraltro, su quello che si dira in conclusione di questo lavoro, in ordine ai
“doveri” del legislatore ed ai suoi limiti come ausilio all’interpretazione, cfr. I.
MASSA PINTO, La discrezionalità politica del legislatore tra tutela costituzionale
del contenuto essenziale e tutela ordinaria caso per caso dei diritti nella più
recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1998, p. 1309 e
ss.

79
entrata in vigore, oggettivizzarsi, “estraniandosi dai fatti contingenti
e dalle vicende che hanno preceduto la sua emanazione”.
Questo significa che, aderendo a tale canone, è la norma
stessa a rendersi oggettiva, senza bisogno che sia l’interpretazione a
farlo. Non può non rimbalzare, qui, l’eco di quella “spiritualità
oggettivata” di Betti alla quale si faceva cenno sopra.
C’è anche una presa di posizione forte là dove quasi si nega
all’interprete di risalire alla genesi normativa per vincolarlo
all’attualità, probabilmente la stessa “attualità dell’intendere”
bettiana, anche se questa cesura tra il tempo dell’emanazione e
quello dell’applicazione, segnata dalla sentenza, sembra rinnegare
quel “farsi” dell’interpretazione di cui si è parlato.
Interessante è l’analisi nella quale prosegue la sentenza: “in
tale operazione [l’oggettivizzarsi della norma] non opera l’analogia,
né la (pur legittima) interpretazione estensiva perché la nuova
fattispecie rientra direttamente nella previsione della norma,
considerata nel suo significato letterale e logico”. Così, nel caso di
specie, l’obbligo di registrazione viene “esteso”, dalle emittenti
pubbliche a quelle - allora inesistenti - private, non per via di
interpretazione analogica e nemmeno estensiva, ma proprio perché
l’attualità, cioè la compresenza di entrambi i tipi di proprietà delle
emittenti, è entrata nell’imperativo stesso della norma, addirittura
nella sua letteralità e logicità.
Le condizioni di emanazione di questa pronuncia giudiziale
del 1982, “l’attualità” del giudicare, si potrebbe parafrasare,
evidenziano l’esigenza di un certo controllo politico in un settore
come quello radiotelevisivo privato allora agli albori. Sorge quanto
meno il sospetto che si sia azzardata una teorizzazione funzionale
agli scopi della sentenza, superando, tra l’altro, con essa il
catenaccio della non estensibilità analogica delle norme penali.
Tuttavia il principio che ne scaturisce non può che rivelarsi di
estremo interesse a chi con la sentenza si viene a confrontare.
Significativo è il fatto che l’approdo in Cassazione fosse stato
generato da un ricorso del Procuratore generale (di Palermo) contro
una precedente sentenza, evidentemente contraria, che aveva
ritenuto “non equivalenti le finalità delle informazioni di Stato

80
istituzionalmente obiettive a quelle delle emittenti private”,
affermando che l’interpretazione letterale e logico-sistematica della
legge regolatrice in questione conducevano ad opposte conclusioni.
Già nel ricorso del Procuratore generale, dunque, vi è
un’argomentazione agganciata alla necessità di inserire
l’interpretazione entro la costruzione logico-sistematica.
Per dirimere il conflitto la Cassazione si appella alla ratio
della normativa - ed è lì che ogni conflitto dovrà andare a parare -
con un’accezione, però, nuova data, come detto, da una sorta di
“inglobamento” entro l’area di significanza della stessa norma dei
nuovi significati scaturenti dall’attualità applicativa.
Al di là della strumentalità della soluzione, e del rischio di uso
strumentale cui questa teorizzazione può dar luogo è di notevole
rilievo questa annunciata espulsione dal problema interpretativo sia
del discorso sull’estensione, sia di quello sull’analogia. Non serve
più parlarne, e nemmeno, quindi, cercarne una distinzione, sembra
dire la sentenza, perché i significati cui si vorrebbe accedere per
estensione o per analogia stanno già nella norma.
I fatti contingenti, che non sono meri accessori ma, al
contrario, potrebbero, secondo un’altra impostazione, essere
elementi essenziali per la ricostruzione del senso della norma, sono
schiacciati dall’oggettivizzarsi della norma. Il che sembra voler dire
che la norma sopravvive e si cristallizza come impianto, ma il suo
spirito si evolve e adatta via via che la norma viene applicata.
Paradossalmente, perciò, a ben guardare proprio nel culmine
dell’oggettività, come è questo “oggettivizzarsi” della norma,
sembra rivelarsi e dischiudersi all’interprete la massima estensione
della creatività.

81
9. LA NECESSITÀ DI UNA DISTINZIONE TRA
INTERPRETAZIONE ESTENSIVA E ANALOGIA COME
SOLUZIONE AL PROBLEMA DELLE LACUNE

9.1. Le lacune dell’ordinamento: sulla fisiologica


imprecisione della legge

9.1.1. Il rapporto tra l’interpretazione e le lacune.


Premessa: indagine sulla realtà normativa. Norma come cornice
(Kelsen) e norma come realtà spirituale (Betti). I tipi e i nomina:
tipica come topica giurisprudenziale.

Prima di addentrarsi nell’analisi di quelle teorie che vedono


contrapposte -per distinguere tra analogia ed estensione- la funzione
integrativa ovvero dichiarativa dell’interpretazione, è opportuno
chiarire la matrice profonda delle questioni che stanno alla base di
tali specificazioni.
I fenomeni dell’estensione o dell’analogia interpretativa,
nascono da un lato dall’intrinseca necessità interpretativa, contro
ogni letteralità -come detto- delle proposizioni normative.
Dall’altro, tuttavia, essi trovano ragione di sé nella incapacità delle
regole previste di coprire tutte le necessità di disciplina che la vita
giuridica comporta. Può essere efficace, allora, affermare che la
teoria dell’interpretazione è il rovescio della teoria delle lacune, o
meglio, parafrasando, che la teoria delle lacune - e con essa quella
che involve l’analogia e l’interpretazione estensiva - non si può che
intendere come l’altra faccia della teoria dell’interpretazione.
A questo punto, tuttavia, prima di procedere oltre nell’analisi
del fenomeno, occorre richiamare la natura degli strumenti che si è
deciso di utilizzare per accostarsi ad esso andando ad indagare sulla
scelta di campo operata in merito all’evento normativo.

82
Il problema delle lacune, e quindi anche quello interpretativo,
si collocano come risposta - problematica - a quello che è stato
definito come il “duplice postulato del legalismo”202 e che si
202
L. LOMBARDI VALLAURI, Corso di filosofia del diritto, Padova, 1981,
p. 29, che così distilla l’insegnamento soprattutto della Scuola dell’esegesi. A ben
vedere, però all’esaustività (“tutto il diritto è nella legge e non v’è non-diritto
nella legge”), tiene necessariamente seguito il principio di non eterointegrabilità,
cioè l’impossibilità di “completare” il diritto legale con materiale extralegale:
“non vi è diritto se non attraverso la legge”. Intendo con il termine tradizione, qui,
come in seguito, riferirmi alla “tradizione codicistica”, che si afferma a partire
dalla promulgazione del codice Napoleone e il conseguente affermarsi dell’école
de l’exégèse. È qust’ultima una dottrina fortemente giuspositivistica, che crea
quasi un culto legalistico del codice, portando alla sopravvalutazione del testo:
come se tutto il diritto coincidesse con il dettato normativo del codice, e la
perfetta conoscenza di quest’ultimo fosse la condizione necessaria e sufficiente di
una sua esatta applicazione. Il credo di questo indirizzo scientifico -che produce
giuristi del calibro di P. Merlin, A. Duranton, C. Demolombe, A. Demante- si
riassume nella “boutade” dell’esegeta J. Bugnet: “Io non conosco il diritto civile,
io insegno il codice Napoleone”. La Scuola dell’Esegesi fa emergere una
concezione volontaristica della legge come diretto comando del legislatore ai
cittadini eguali tra di loro e segna altresì la nascita del giuspositivismo moderno,
basato sul dogma della completezza dell’ordinamento giuridico. Questo viene
infatti ora concepito come sistema chiuso, provvisto della capacità interna di
produrre la soluzione di qualsiasi caso concreto, senza necessità di far riferimento
ad altre fonti di produzione normativa, cui il codice stesso non faccia
espressamente rinvio. E’ questo il caso, tra l’altro, del diritto naturale: mancando
infatti un espresso rinvio nel codice, gli esegeti tralasciano del tutto ogni
riferimento al diritto naturale e sostengono il principio della pura dichiaratività
dell’interpretazione, la quale ha dunque soltanto il compito di spiegare il
significato del testo senza spingersi ad esaminare alcun elemento ulteriore.
L’attività interpretativa viene così concepita come un sistema di operazioni
logiche basate su tre presupposti: l’interprete non deve far riferimento ad alcun
elemento extra-testuale; non deve creare, ma soltanto ritrovare la norma entro i
confini di un sistema non eterointegrabile; il sistema contiene tutti gli elementi
necessari per condurre tramite deduzioni logiche alla soluzione di qualsiasi caso.
Il principio secondo il quale, in mancanza di una norma espressa, esiste
comunque una norma implicita, produce quindi la notevole conseguenza di
privare in pratica il giudice della possibilità di rifarsi al diritto naturale; possibilità
che invece J.E.M. PORTALIS, nel Discours préliminaire sur le projet de Code civil
(in IDEM, Discours, rapports et travaux inedits sur le code civil / par Jean-
Etienne-Marie Portalis, Paris, 1844) aveva ritenuto necessaria in ragione della
fatale incompletezza normativa anche di un codice sistematicamente completo.

83
sostanzia nelle due massime “la legge è tutto diritto” e “la legge è
tutta diritto”, ossia “non c’è diritto al di fuori della legge” e “non c’è
non-diritto all’interno della legge”. Legalismo che nasce, appunto,
dall’aver considerato in modo eccessivamente “geometrico” il
fenomeno normativo.
Del resto, infatti, prevedere e predisporre all’interno del
sistema giuridico una serie di rimedi - come l’interpretazione
estensiva o l’analogia - al problema delle lacune può essere inteso
come un’implicita ammissione del fatto che le lacune esistono,
contro uno dei postulati del positivismo. Prevedere già
nell’ordinamento giuridico dei rimedi alle lacune, cioè, è anche
negare uno dei pilastri dell’ordinamento stesso dato dalla
completezza del medesimo.
Se però si apre uno “spazio vuoto” tra diritto e legge perché,
contrariamente ai due postulati appena enunciati, si teorizza
l’insufficienza delle leggi, delle fattispecie astratte, a coprire tutte le
fattispecie concrete, allora il problema della completezza o meno
dell’ordinamento giuridico, e delle eventuali lacune, si può anche
ridurre a quello dell’astrattezza della norma.203
La scoperta di questo “spazio vuoto” dato dall’intrinseca
impossibilità delle proposizioni normative di regolamentare
dettagliatamente tutte le possibili situazioni concrete significa,
pertanto, spostare il problema. Da un’impostazione che privilegia
l’analisi della completezza dell’ordinamento, e quindi si interroga
sulla “quantità” (sufficiente o insufficiente) si potrebbe dire, di leggi
atte a disciplinare la realtà ci si rivolge verso un’impostazione che

Secondo gli esegeti, dunque, il sistema delle fonti presupposto dall’art. 4 del
codice Napoleone impone che il giudice -qualora la norma che regola la
fattispecie su cui è chiamato a giudicare non gli appaia chiara e sufficiente- faccia
ricorso anzitutto all’interpretazione letterale; quindi all’analogia; infine ai principi
generali dell’ordinamento. Cfr. S. GASPARINI, Illuminismo e codificazione,
Padova, 1991, p. 92. Si veda altresì sull’argomento la lucida ricostruzione di G.
TARELLO, voce Scuola dell’Esegesi, in Novissimo Digesto Italiano, Torino, 1969,
p. 819 ss.
203
Cfr. T. ASCARELLI, Il problema delle lacune e l’art. 3. disp. prel. nel
diritto privato. (Appunto critico), Estratto da Archivio Giuridico, vol XCIV, Fasc.
2, p. 12.

84
guarda alla norma in sé e, constatandone l’astrattezza, si interroga
sulla capacità di qualunque norma, anche la più dettagliata, di
regolare, proprio perché necessariamente astratta, tutte le
multiformi fattispecie concrete.
Il problema è, dunque, dell’ordinamento che è incompleto o
della norma giuridica che per sua natura è astratta?204
“Non può dirsi che è logicamente pensabile un diritto senza
lacune, appunto perché è nella natura stessa della legge di essere
astratta (cioè lacunosa)”, scrive Ascarelli,205 e aggiunge che le
lacune della legge risultano colmate dall’interpretazione “del caso
concreto attraverso la sentenza” la quale ”si risolve in una
valutazione giuridica del caso singolo e non di una classe di casi
(come la legge) sì che attraverso di essa ogni possibile lacuna riesce
eliminata”.206
È l’interpretazione, pertanto, in questa impostazione, che
colma, nell’applicazione concreta, lo spazio vuoto tra la legge e il
diritto.
Interpretazione sì, ma quale? Quella estensiva o quella
analogica?
Il fatto che si sia constatata la necessità interpretativa sempre
e comunque della norma e che sia l’interpretazione estensiva che
quella analogica si pongano come strumenti per colmare proprio
questo “vuoto” tra legge e diritto può già far abbozzare l’idea che,
di fatto, non abbia senso la distinzione tra questi due meccanismi
interpretativi. Il che, però, non deve affrettare la conclusione che
sarà più avanti affrontata: l’identità di scopo non deve far
superficialmente concludere per l’identità di oggetto.207
204
Imposta così il problema T. ASCARELLI, cit., p. 12. Sulla prospettiva
autenticamente filosofica di questo autore, che mai ebbe a dirsi tale, cfr. lo
stimolante volume di F. CASA, Tullio Ascarelli. Dell’interpretazione giuridica tra
positivismo e idealismo, Napoli, 1999.
205
T. ASCARELLI, cit., p. 15.
206
T. ASCARELLI, cit., p. 20. Indicativa sul punto la posizione dei
contemporanei, per cui ex multis, rinviamo infra alla nota 559.
207
L’identità di scopo non equivale ad identità di oggetto: essenza e
funzione restano ben distinte. Cfr. W. P. ALSTON, Filosofia del linguaggio,
(1964), tr. it. Bologna, 1971.

85
Tutto sembrerebbe logico se a turbare l’ordine così teorizzato
non facessero capolino i “buchi neri” della generalità,
dell’imperatività e della necessaria certezza delle norme. La
completezza ritrovata attraverso l’interpretazione giudiziale è
sufficiente a colmare anche il vuoto di generalità, di imperatività e
di certezza che l’aver “trovato” la “legge del caso singolo” può
generare? Come conciliare le diverse concretizzazioni, capaci di
colmare la medesima lacuna in modi tanto differenti quante sono le
applicazioni giudiziali?
Non si ritornerà sui problemi affrontati al capitolo 1. È il caso,
invece, di accennare a due diversi modi di intendere la norma che
illustrino non solo un diverso oggetto d’interpretazione, ma anche
una diversa impostazione ermeneutica.
“Fra la parola e il significato della legge vi è sempre una
distanza che dev’essere colmata con la viva attività del nostro
spirito.[...] La legge può parlare solo mediante concetti generali e
astratti, i quali non sono altro che imperfetti tentativi di
rappresentare una massa di fenomeni non delimitata né delimitabile
con precisione. [...] insomma, la parola della legge è sempre
soltanto una cornice, spesso assai manchevole, nell’ambito della
quale il giurista deve cercare liberamente la decisione: la scienza del
diritto deve contribuire per l’appunto a che tale cornice sia
rettamente riempita”.208 Sono parole di Ernst Zitelmann riportate da
Betti nel suo discorso di commemorazione del giurista tedesco.209
Riecheggiano le parole di Kelsen, la sua concezione geometrica cui
l’immagine della norma-cornice non può non rinviare, seppure
l’assonanza non comporti identità di impostazione.
La giustapposizione dell’idea di norma come “realtà
spirituale”,210 alla maniera di Betti, che ne fanno Burdese e Gallo211

208
E. ZITELMANN, Die Gefahren des bürgerlichen Gesetzbuches für die
Rechtswissenschaft, discorso tenuto a Bonn il 27 gennaio 1896 citato in E. B ETTI,
Metodica e didattica del diritto secondo Ernst Zitelmann, in Riv. int. fil. dir.
(RIFD), 1925, p. 5, ora in Diritto, Metodo, Ermeneutica, Milano, 1991, p. 14.
209
E. BETTI, op. ult. cit., p. 14.
210
Così R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, in Riv.
trim. dir. proc. civ., 1951, p. 753.

86
può apparire, tuttavia come una contrapposizione, dato che vengono
a trovarsi contigue due concezioni differenti. Se, cioè, come fanno
gli autori citati, si cerca la convivenza, o il compromesso tra la
norma come cornice alla Kelsen e la norma come realtà spirituale, si
rischia di franare nella contraddizione della convivenza tra
concezioni antitetiche.
Da un lato vi è la serie di possibili interpretazioni, e di
possibili significati equivoci, cui si trova di fronte l’interprete che
riduce l’oggetto interpretativo alla dichiarazione legislativa.212
Dall’altro la “dotazione spirituale” affidata al documento segna il
ritorno a quella - univoca? - spiritualità di cui si è parlato al capitolo
1.
Di fronte alla comprensione di un “contenuto spirituale
obbiettivato”,213 pertanto, si trova la volizione astratta e tipica
espressa nella norma. Astratta oggettività e oggettiva
spiritualizzazione l’un contro l’altra armate, verrebbe da dire.
Per tentare qualunque conciliazione tra questi due elementi,
quindi, non si può che rivolgere la riflessione preliminare sulla
tipica, nei cui confronti, più che in quelli delle leggi, sembra, alla
fine, porsi il problema della completezza dell’ordinamento. La
tipica, cioè, come vera topica214 giurisprudenziale215 che significa,
contrariamente all’immaginabile, rifiuto del concettualismo estremo

211
A. BURDESE M. GALLO, Ipotesi normativa ed interpretazione del
diritto, in Riv. it. sc. giur., 1949, p. 356 e ss.
212
Così R. SACCO, cit., p. 752.
213
L. CAIANI, voce Analogia. b) Teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, Giuffré, p. 354.
214
Perspicua la definizione di F. CAVALLA nella voce Topica giuridica per
l’Enciclopedia del diritto, vol. XLIV, Milano, 1992, p. 720, che delinea la topica
come “l’attività diretta a rinvenire - quando non si disponga di un principio
scientifico - l’affermazione con cui cominciare una procedura discorsiva, idonea a
organizzare una serie di proposizioni verso una conclusione [...] Il modo e
l’oggetto del rinvenimento ricevono una configurazione diversa a seconda della
concezione che si assuma nel metodo di sviluppo delle premesse ritrovate”.
215
L’espressione è di L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto
giurisprudenziale, Milano, 1975, p 31.

87
e, anzi, un continuo “spezzarsi” di questo, attraverso la metodica dei
tipi, nella concretezza dei casi.216
Da qui, dalla tipica, su queste basi può partire allora anche la
riflessione sull’analogia e l’interpretazione estensiva, se è vero che
nel procedimento analogico da questa si dipana il ragionamento. Se
è vero, cioè, che nel procedimento analogico si applica una norma
particolare sostituendo i “nomina strettamente dipendenti dalla
collocazione sistematica all’interno di un codice” con i “nomina
propri del conflitto o della situazione sociale non contemplati” sulla
base della loro “reciproca fungibilità” in ordine al tipo di problemi e
principi di soluzione che la norma prospetta.217
È già in nuce qui, da quanto si può vedere, l’apertura alle
varie forme di applicazioni analogiche, su cui ci si soffermerà ai
capitoli seguenti; la eventuale presenza di ulteriori conflitti e
situazioni sociali, non riconducibili ai termini della descrizione
normativa porterà, alla fine, ad esse.

216
L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto cit., p. 32.
217
M. BARCELLONA, L’interpretazione del diritto come autoriproduzione
del sistema giuridico, in Riv. critica del dir. priv., 1991, p. 53.

88
9.1.2. Ordinamenti giuridici chiusi e aperti: è ancora attuale
questa distinzione? Ogni sistema è normativamente chiuso e
cognitivamente aperto. Completezza e autosufficienza

L’analisi condotta da Bobbio sui rapporti tra lacune e analogia


ne pone in luce una non piena coincidenza sulla base del concetto di
completezza dell’ordinamento giuridico. “Il problema delle lacune e
quello dell’analogia non combaciano perfettamente”, scrive Bobbio.
“O la completezza si valuta dal punto di vista formale, e allora un
ordinamento è sempre completo anche senza l’analogia; o dal punto
di vista reale, e allora l’ordinamento è sempre incompleto
nonostante l’analogia. L’analogia è un problema logico, le lacune
sono un problema politico”. 218 Del resto, il filosofo torinese aveva
detto poco sopra che “l’incompletezza di un ordinamento non è un
problema da dialettici o da sofisti ma è prima di tutto un problema
politico ed etico”. 219 Nell’impostazione di Bobbio la categoria del
“politico”, tuttavia, sembra afferire più ad un’idea di
“discrezionale”, di “sovrano”, a-logico, verrebbe da dire, così che il
problema delle lacune sembra presentarsi come l’altra faccia della
discrezionalità del legislatore. Se, invece, si assume la categoria
“politica” come legata ad un discorso sui valori - qui sì, allora,
“etico” - che la norma prende in considerazione ma, anche, che il
sistema si pone, al di là e oltre le norme, allora anche l’analogia può
diventare un problema “politico”. Non, però, questa volta, nel senso
di “discrezionale”, ma nel senso più pienamente logico. Logico
perché politico, si potrebbe dire. Posto che si abbia di fronte un
legislatore ragionevole e coerente, pertanto, nel momento in cui le
norme sorgono già vi è inclusa un’intrinseca ragionevolezza, già vi
è un valore protetto. E allora la stessa interpretazione teleologica,

218
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. II, cap. 3.
219
N. BOBBIO, op. ult. cit., p. II, cap. 2.

89
potendo avvicinare la “volontà del legislatore” con il bene protetto
dalla norma, potrà accedere con maggiore successo alla “certezza”
ermeneutica. Ma se sia l’analogia che l’interpretazione approdano
alla questione politica, o meglio, a quella assiologica, allora già se
ne può trarre argomento per un avvicinamento concettuale.
Da quanto si è detto emerge, dunque, la connessione stretta
che esiste tra il problema dell’analogia, quello delle lacune, e le
diverse concezioni in merito all’ordinamento giuridico. Affiora
subito, però, anche l’idea che a dare scaturigine a queste
implicazioni sia fondamentalmente l’impostazione eletta in merito
agli ordinamenti giuridici, elemento da cui discendono tutte le altre
teorizzazioni. Si impone, cioè, una scelta di campo sul modo di
intendere l’ordinamento giuridico e, secondo l’impostazione
tradizionale, sul modo di comporlo come un sistema “chiuso”
ovvero un sistema “aperto”. Chiusura determinata dalla pretesa di
completezza data, soprattutto, dalla fiducia nella capacità delle
norme, e soprattutto dei codici, di coprire tutta la realtà da regolare.
Apertura data, al contrario, dal concepire l’ordinamento come un
sistema incapace di esaurire le necessità normative e allo stesso
tempo recettivo alle integrazioni provenienti da fonti extra-
sistematiche.
A quale completezza, cioè, si fa riferimento? A quella
assoluta di un sistema “chiuso”, in sé esaustivo, oppure a quella
relativa di un sistema “aperto”?
La storia delle codificazioni220 è anche la storia della pretesa,
protrattasi fino alla metà del ventesimo secolo, di completezza e
“chiusura” degli ordinamenti proprio grazie ad una fiducia illimitata
nella onnicomprensività dei codici; fiducia che traeva alimento da
una impostazione fondata sul concetto di Stato come unica fonte del
diritto, “aggravata dall’idea dello Stato nazionale o nazionalista”.221
Il pensiero giuridico recente, al contrario, soprattutto a seguito

220
Cfr. F. CAVANNA, Storia del diritto moderno in Europa, Milano, 1982,
pp. 253 e ss.
221
Così G. GORLA, I principi generali comuni alle nazioni civili e l’art. 12
delle disposizioni preliminari del codice civile italiano del 1942, in Foro it.,
1992, V, p. 92.

90
dell’inserimento dei sistemi normativi nazionali entro sempre più
ampi sistemi internazionali, si è portato via via verso una
concezione “aperta” dell’idea di ordinamento giuridico. Senza
rinunciare, per questo, all’idea di completezza, ma anzi, spesso,
ricorrendo proprio alle fonti “eteronome” per integrare,
completandolo, un vuoto normativo.
Queste differenziazioni concettuali sembrerebbero non avere
effettività applicativa se non ci si accorgesse, con Bobbio, che esse
mascherano da un lato un problema politico, dall’altro che le istanze
ermeneutiche non possono trovare soluzione se non qualificando
l’ambito entro cui si fa operare lo stesso processo interpretativo.
Ha senso parlare ancora oggi di scelta di campo tra
ordinamenti chiusi o aperti?
Con Luhmann222 è possibile ritenere che ogni sistema
giuridico sia insieme normativamente chiuso e cognitivamente
aperto e che, quindi, la chiusura normativa del sistema non escluda
affatto una sua apertura cognitiva. Non escluda, cioè, la
“disponibilità del sistema stesso ad apprendere i mutamenti della
realtà sociale ed a misurare su di essi le sue risposte normative”.223
A patto, però, di intendersi sul fatto che comunque ciò a cui si fa
riferimento è la completezza della legge, non del diritto.224
Quale spazio rimane, con questa impostazione, al discorso
sulla completezza dell’ordinamento?
“La compiutezza dell’ordinamento non significa inesistenza
di lacune ma esigenza di eliminarle per mezzo di un dispositivo”,
scriveva Carnelutti,225 insinuando il dubbio se, comunque, la
completezza esista o non sia, invece, che una tensione verso un
obiettivo mai totalmente raggiunto o addirittura mai raggiungibile

222
Ripreso anche da P. BARCELLONA, L’interpretazione del diritto come
autoriproduzione del sistema giuridico, cit., p. 61.
223
P. BARCELLONA, L’interpretazione cit., p. 60.
224
Cfr. N. BOBBIO, voce Lacune del diritto in Novissimo Digesto italiano,
IX, 1963, p. 420.
225
F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, III ed., Roma, 1951.

91
data, come afferma Ascarelli,226 l’incapacità del diritto di “afferrare
la vita e la storia che, nella loro concretezza, sfuggono
continuamente”.
Si è autorevolmente sostenuto che, storicamente, il discorso
sulla completezza, intesa come dogma, postulata dai grandi
codificatori, si accompagnò sempre alla teoria della separazione dei
poteri227 e alla ricerca di attuazione del principio di legalità. Si
osservi, tuttavia, che in alcuni ordinamenti, come quello inglese, la
separazione dei poteri fu postulata al di fuori di ogni pretesa di
completezza. Si è sostenuta, dunque, la necessità “storica” della
legalità come corollario della certezza; certezza derivante da una
forma di pan-normativismo conseguente all’intendere
l’ordinamento come completo e in grado di completarsi.
Separazione dei poteri come distinzione netta tra l’opera degli
“applicatori” del diritto e quella dei creatori. Ma già l’esempio
storico è in grado di smentire questa impostazione.
Sorpassata chiaramente questa teorizzazione anche a livello
concettuale, ne è rimasto tuttavia un residuo nelle impostazioni
ermeneutiche che, pur distinguendo, sottendono e ricercano ancora
il postulato della completezza.
Le critiche sono almeno due. In primo luogo più che alla
completezza queste impostazioni sembrano rivolgersi
all’autosufficienza dell’ordinamento giuridico inteso come “un
insieme di norme le cui lacune possono sempre essere colmate
mediante interpretazione o integrazione, e quindi senza bisogno di
ricorrere al potere creativo del giudice”.228 Da questo punto di vista
sarà proprio l’opera creativa del giudice a essere sottoposta a
revisione concettuale.229
Autosufficienza, si è detto, che se si contrappone alla
completezza proprio in forza del fatto che l’ordinamento completo è

226
T. ASCARELLI, Il problema delle lacune e l’art. 3 disp. prel. nel diritto
privato, cit., p. 13.
227
N. BOBBIO, voce Lacune del diritto, cit., p. 420.
228
Cfr. N. BOBBIO, voce Lacune del diritto, cit., p. 423.
229
Cfr. § 3.2.

92
“un insieme di norme che non ha lacune”,230 laddove l’ordinamento
autosufficiente è quello che riesce a colmarle, si contrappone anche
all’ ”autonomia”. Questa, infatti, come noto è la capacità di darsi da
sé delle regole e, nel caso specifico, si concreterebbe nella
caratteristica dell’ordinamento di esaurire in sé la fonte della
normazione. Resterebbe comunque da chiedersi: se l’ordinamento e
mezzo e non fine, come fa a darsi da sé le regole? La risposta esula
dell’economia di questo studio, ma la stessa domanda, anostro
avviso, fa emergere il carattere non meramente tecnico, quanto
squisitamente politico dell’ordinamento giuridico, non riducibile
alla sola tékne, quanto partecipe della pràxsis, per utilizzare
categorie aristoteliche che hanno ritrovato fortuna nel secolo
passato.
In secondo luogo chiamare in causa l’interpretazione a fronte
del problema della completezza significa non sfuggire alla critica di
Lombardi Vallauri laddove sostiene che “l’interpretazione, quando
opera col postulato della legge completa, non può essere logica,
dato che esistono comunque le contraddizioni”.231 Contraddizioni
che però sono anche lacune, e lacune che sono contraddizioni.
Postulare la completezza significa, cioè, rimanere invischiati nel
circolo vizioso.
È noto, infatti, che, anche dal punto di vista logico, nessuna
teoria formale è abbastanza forte da poter esibire da sola la sua non
contraddittorietà, ossia che la coerenza di una teoria non può essere
verificata a partire dai teoremi della teoria stessa.232 Pertanto
postulare la completezza dell’ordinamento ponendo in
dimostrazione le regole - supposte come complete -

230
N. BOBBIO, op. cit., p. 423.
231
L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano,
1975, p. 270 ss.
232
La teorizzazione della relatività di ogni assiomatica applicata ai sistemi
logici fu dimostrata dal matematico austriaco Kurt Gödel nel 1931, sulla scorta
delle osservazioni di Bertrand Russel; di quest’ultimo è rimasta celebre
l’antinomia, e perciò la non verificabile verità, dell’affermazione del “mentitore
che asserisce di mentire”. Cfr. In matematica non esiste la certezza su “vero e
falso” in Il Sole-24 Ore del 25.4.1997.

93
dell’ordinamento stesso finisce per essere una costruzione
tautologica che non riesce a dimostrare quanto aveva postulato.
Conviene, a questo punto, rinunciare a queste categorie e
rimettersi, piuttosto, all’apertura cognitiva del sistema, come detto,
rimandando, al massimo, la categoria dell’incompletezza a quella di
una “inadeguatezza rispetto agli scopi di giustizia”, come si vede
costretto a fare lo stesso Bobbio.233 Per questa via, allora, ha un
senso proporre l’analogia come soluzione alle inadeguatezze
normative e allo iato tra diritto e legge, e assumere quello
dell’adeguatezza come criterio interpretativo - ma non nuovo
“dogma”- fondamentale.
È questa la giustificazione logica della necessità dell’analogia
ma anche, assunto quello dell’adeguatezza come criterio
interpretativo, dell’interpretazione estensiva. Appurato che esistono,
resta da porsi, il problema della distinzione tra questi due strumenti
ermeneutici. Problema che per essere affrontato richiede ancora
alcune precisazioni in tema di lacune.

233
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p.II, cap. 2.

94
9.1.3. Le lacune: esistono o sono create dall’interprete? Le
lacune pensabili. Il “diritto controverso” di Betti: lacune della
legge o insufficienza dell’interprete? Lacune: lacunosità generica e
specifica, lacune statiche e dinamiche, lacune originarie ed
evolutive, lacune metodologiche, lacune operative, lacune politiche
e ideologiche, lacune proprie e improprie. Lacune anche dei
principi.

Come si è detto non si può negare empiricamente l’esistenza


di lacune legislative: di fatto, cioè, l’interprete si trova davanti ai
“casi non regolati” e alla necessità di reperire la norma per regolarli.
Questo, però, solo ad un approccio superficiale. Scavando alle
fondamenta delle costruzioni giuridiche in tema di lacune non è
difficile imbattersi nell’obiezione che l’esistenza delle lacune possa
essere, in realtà, una specie di fata morgana dell’interprete, che
creerebbe da se stesso l’idea della lacuna là dove, al contrario,
questa non esiste. Già Bobbio aveva messo in guardia contro questa
illusione dell’interprete commentando con un’immagine efficace le
posizioni, in materia, dei positivisti. “Sin dove giunge la
regolamentazione giuridica non ci sono lacune, dove non giunge c’è
l’attività indifferente al diritto, che non può chiamarsi “lacuna” del
diritto così come la riva di un fiume non si può chiamare “lacuna”
del fiume”.234
“La lacuna non è nella norma in sé, ma è sempre il risultato
dell’applicazione di una procedura interpretativa: la lacuna è una
creazione dell’interprete”.235 Questo, però presupporrebbe
l’esistenza di una sorta di “diritto perfetto” prima dell’applicazione
interpretativa, di un diritto, cioè, non lacunoso e che, al contrario,

234
N. BOBBIO, voce Lacune del diritto, cit., p. 421.
235
P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, p. 595.

95
diverrebbe tale solo a seguito dell’interpretazione. Non può non
sorgere il dubbio, tuttavia, che questa impostazione, che in realtà si
muove dentro il dogma della completezza, non sia che un artificio
logico per eludere la dimostrazione e la scelta sull’esistenza o meno
delle lacune e per aprire arbitrariamente la via, per mezzo
d’interpretazione, ai rimedi.
Nell’impostazione di Monateri, poi, le lacune si paleserebbero
solo di fronte al sorgere di una contraddizione tra un certo risultato
interpretativo e le aspettative - la “precomprensione”236- o le
esigenze che l’interprete ha di condurre detto risultato ad un dato
indirizzo.
Non si tratterebbe più, pertanto, nemmeno di superare le
lacune mediante l’interpretazione, ma di contrapporre
rispettivamente più risultati interpretativi.
Questo modo d’intendere se può convincere per il
superamento del binomio lacune-interpretazione lascia però
scoperto il fianco alla critica di indifferentismo razionalistico cui
sarebbe portato chi pensa che le soluzioni giuridiche entro cui
scegliere siano tutte dotate di pari giuridicità: la critica, cioè, di fare
dell’interpretazione così intesa un novello “metodo di Bridoie”.237
L’obiezione logico-formale al problema delle lacune sarebbe,
poi, comunque, quella - già accennata - della loro “non pensabilità”
per il fatto stesso di essere lacune.
Spunta, a questo punto, un problema di costruzione perché si
giunge ad un bivio, oltre il quale le lacune non possono più essere
colmate attraverso “procedimenti riconducibili ad un concetto, sia
pur lato, di interpretazione”,238 ma debbono necessariamente
richiamare l’applicazione dell’analogia, o comunque di costruzioni
di “giurisprudenza superiore”, secondo la definizione di Jehring.
Non pensabili, cioè, solo entro la visione dogmatica della
completezza, tuttavia metodologicamente esistenti e non negabili.

236
Cfr. § 1.1.2.
237
Il giudice Bridoie, di cui ci parla Rabelais, pare usasse risolvere coi
dadi le cause più difficili, ottenendo, non a caso, il generale consenso.
238
L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano,
1975, p. 270.

96
Risolvibili, nonostante tutto, solo entro un sistema di valori e al
riparo da ogni indifferentismo ermeneutico.
Anche lo stesso Betti, teorizzatore dell’inquadramento entro
un sistema giuridico di valori, ha occasione di pronunciarsi sul
problema delle lacune contrapponendo le due concezioni - quella
che le nega e quella possibilista - per metterne in luce gli
equivoci.239 Da un lato egli evidenzia l’equivoco in cui incorre chi,
per inseguire la completezza e negare le lacune, scambia la totalità
dell’ordinamento con la sua universalità, la coerenza, cioè, con la
onnicomprensività. Dall’altro smaschera gli assertori della
possibilità di lacune laddove attuano una impropria inversione del
rapporto presupposto-risultato dello stesso canone della
completezza. La completezza, cioè, nella spiegazione di Betti, non è
il presupposto da cui partire con l’interpretazione, ma il risultato,
l’obiettivo che la stessa interpretazione deve avere, se mai, di mira.
Pertanto asserire l’esistenza di lacune partendo dal presupposto
della completezza può significare un ritorno alla concezione, più
sopra criticata, di un ordinamento perfetto prima dell’applicazione.
Ma già si è messa in luce l’artificiosità della posizione.
Alla fine, comunque, tolti gli equivoci, anche Betti conviene
sul fatto che quello del difficile rapporto lacune-completezza rimane
un problema di “coerenza non solo logica, ma organica e
teleologica”.240
Nonostante lo sforzo concettuale per l’esaltazione di questo
télos come soluzione ultima, di taglio assiologico, alla problematica
non si riesce, però, comunque, a risolvere un dubbio. Quello se la
categoria del “diritto controverso”, di quel diritto che esce, cioè,
dalla portata delle norme, sia da far risalire a una lacuna della legge
o semplicemente ad una insufficienza dell’interprete.241 Ma è vero
diritto? Per un positivista di sicuro non lo è, forte dei postulati del
legalismo che si sono evidenziati, poiché “non c’è diritto al di fuori
della legge”. Tuttavia non può non constatarsi empiricamente lo iato
239
E. BETTI, L’interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 136
ss.
240
E. BETTI, cit., p. 140.
241
R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, cit., p. 752.

97
che esiste tra la fattispecie astratta, prevista dalla legge, e l’infinità
di fattispecie generiche che si possono presentare.
Non rimangono, allora, fuori dalle giustificazioni causali, che
le constatazioni empiriche: pensabili o non, nel diritto positivo si
opera come se le lacune esistessero.
Esaminato, quindi, il problema della colmabilità delle lacune
si può passare ad analizzarne l’essenza, tenendo conto che chi ha
riconosciuto l’esistenza - al di là della pensabilità - delle lacune non
ha potuto fare a meno di individuare, all’interno di questa famiglia,
numerose categorie concettuali.
Una prima distinzione si è fatta tra lacunosità generica e
specifica.242 Quella generica, dipendente dalla tipicità e astrattezza
della norma giuridica, sarebbe una “integrazione o innovazione
dello schema o cornice astratta della norma ‘come testo’”. Sarebbe,
cioè, proprio l’astrattezza della norma giuridica a determinare lo
scollamento rispetto al caso storicamente determinato. La lacunosità
specifica, invece, cui comunemente ci si riferisce, dipenderebbe
dalla necessaria “staticità e chiusura dell’ordinamento”,
impossibilitato per natura a coprire la “continua novità ed apertura
dell’esperienza”.243 Secondo questa distinzione, dunque, il
problema delle lacune si fa risalire da un lato al rapporto “statico”
tra fattispecie astratta e fattispecie concreta, dall’altro a quello
“dinamico” tra ordinamento chiuso e realtà sociale mutevole.
Già questa distinzione apre la via a quella che classifica le
lacune in “statiche” e “dinamiche”.244 La staticità sarebbe appunto
data dall’astrazione normativa rispetto alla necessità di doversi
applicare ai casi concreti e rispetto all’evoluzione della vita sociale.
La stessa plurivocità del linguaggio sarebbe una fonte di queste
lacune statiche. Statiche, dunque, in quanto intrinseche allo stesso
fenomeno normativo.

242
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 352.
243
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia, cit. p. 352.
244
L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano,
1975, p. 240 ss.

98
La dinamicità, al contrario, sarebbe determinata dal fatto che
la norma è destinata ad attuarsi “nel concreto divenire”. Tanto che
questa illusione dinamica dell’attualità normativa fa apparire lo
stesso giudice-legislatore teso nell’inane sforzo di stare al passo e
avvinto da intrinseche Anschauungslücken, dall’impossibilità di
cogliere l’intera esperienza che si vorrebbe regolare.
A ben guardare, tuttavia, già da qui si avverte una certa
artificiosità delle partizioni essendo queste solo rappresentazioni di
quella che è il fenomeno normativo all’interno di un sistema
giuridico. Rendersi consci di queste partizioni può, tuttavia,
rivelarsi utile al fine di individuare il tipo di approccio che i
“rimedi” al problema delle lacune, così come tradizionalmente si
sono identificati l’analogia e l’interpretazione estensiva, possono
attuare. Se si punta l’accento sulla plurivocità del linguaggio e sulla
staticità delle lacune si sarà probabilmente portati a individuare
quello dell’interpretazione estensiva come il rimedio per eccellenza,
laddove si prediligerà, invece, l’analogia di fronte alla constatazione
della molteplicità delle esperienze e all’insufficienza della legge a
regolarle tutte. Questo, ovviamente, solo ad un primo approccio alla
problematica, sintomatico, tuttavia, del rischio cui può portare la
mancanza di consapevolezza della mera funzionalità di queste
partizioni e la necessità, al contrario, di condurre l’analisi entro una
prospettiva globale.
Dalla delineata visione “cinetica” del problema delle lacune
trae fondamento anche la distinzione tra lacune originarie e lacune
evolutive. Le prime, infatti, sarebbero già presenti al momento della
determinazione normativa, le seconde si creerebbero in seguito al
necessario evolversi del sostrato sociale e dei bisogni sottesi alle
necessità normative. È come se si contrapponessero, qui, due
fotografie dell’ordinamento - una relativa al momento della
determinazione normativa e una relativa al momento applicativo -
temporalmente distanziate ma dinamicamente connesse.
L’aporia di questa impostazione, tuttavia, sta nel fatto che non
tiene conto che sia lo strumento interpretativo sia la realtà
normativa sono in continua evoluzione per cui, per riprendere la
metafora, ci si trova nella stessa situazione di chi “fotografa” con un

99
apparecchio in trasformazione una realtà in movimento. Postulare
lacune originarie in antitesi a lacune evolutive, quindi, può rivelarsi
indice di una impostazione che vede un diritto “originario” perfetto,
corrotto dall’interpretazione o dall’esperienza; concezione, come
detto, rigettata anche perchè snaturerebbe il fenomeno
dell’interpretazione. Non solo. Porre l’accento sulla evolutività
delle lacune può, in realtà, rivelarsi un nascondere la stessa natura
evolutiva dell’interpretazione secondo l’impostazione che si è
delineata nel capitolo precedente. Perciò invocare l’analogia per
risolvere quelle lacune che nemmeno la legge è riuscita, nella sua
formulazione, a colmare e, al contrario, l’interpretazione estensiva
per colmare quelle lacune date dall’inevitabile evolversi della realtà
non è altro che disconoscere il fenomeno normativo in sé e
l’interpretazione, in ottica bettiana, come “rappresentazione”. Si
vede quindi come, evidenziato l’equivoco insito nella partizione, se
ne possa trarre argomento utile per negare una effettiva differenza
tra interpretazione estensiva e analogia.
Per non rimanere schiacciati dalla generale cinesi che queste
impostazioni “evolutive” accentuano urge, come si può
immaginare, una scelta, che è politica, prima che logica, tra gli
stessi metodi interpretativi per evitare di aprire il fianco a quelle che
sono state definite lacune metodologiche. “A rigore si può
addirittura affermare che ci sono sotto la stessa legge tanti
ordinamenti giuridici quanti sono i metodi d’interpretazione”,
scriveva Adolf Merkl nel 1916.245
Lacune metodologiche da non confondersi con le lacune
applicative, o di ordine operativo come le definisce una sentenza del
1986.246 Le prime sono, infatti, determinate dalla molteplicità dei
metodi di interpretazione nel momento in cui si distoglie
quest’ultima dal riferimento assiologico. Paradossalmente sono
“vuoti” dati da un eccesso di tentativi di colmare i “vuoti” stessi. Il
“buco nero”, di nuovo, dell’indifferentismo interpretativo.
245
Cfr. A. MERKL, Allgemeines Verwaltungsrecht (1916), Darmstadt,
1969, p. 181.
246
Cons. giust. amm. Sicilia 28.8.1986 n. 129, Comune Augusta c. Società
Esso Italiana e altro, in Riv. Amm. R.I., 1986, 779.

100
Totalmente diverse, al contrario, le lacune operative. Queste
ultime sarebbero, infatti, quelle situazioni non fronteggiate in modo
“adeguato” dalla legge. La definizione, di origine giudiziale,247 trae
spunto da un caso di ordinanze di necessità non tipicizzate od
ordinarie, cioè extra ordinem che, si stabilisce, non debbono servire
a colmare situazioni impreviste ma a far fronte a situazioni - nella
fattispecie si trattava di situazioni di pericolo - che non siano state
affrontate in modo adeguato. Lumeggia, qui, come si può vedere,
una quanto meno ambigua interpretazione strumentale agli scopi
dell’interprete, e in ogni caso la necessità di fissare -
ermeneuticamente? - i confini e i canoni di questa adeguatezza.
Se la scelta tra i metodi interpretativi deve essere fatta e, come
detto, si tratta di una scelta politica, la contiguità con la politicità
che l’”adeguatezza” normativa nasconde è, tuttavia, palese e
comprensibile l’ulteriore distinzione delle lacune in proprie e
improprie.
Già Zitelmann248 aveva adottato questa distinzione; Betti, la
riprende249 e sottolinea come le lacune proprie evidenzino una
“inavvertita insufficienza della disciplina legale”, quelle improprie
una “inadeguatezza e deficienza teleologica”. È chiaro che si apre
qui la categoria delle lacune politiche e ideologiche (o
extrasistematiche250) e l’interrogativo se l’assenza di norme giuste
valga a costituire una lacuna.251 Interrogativi e aperture che si
giustificano e si spiegano solo entro una concezione assiologica
della stessa interpretazione252 e che involgono tutta la dimensione
equitativa della normazione.
Un’ultima categoria forse merita di essere menzionata: la
possibilità di individuare lacune non soltanto nella legge come testo
247
Cons. giust. amm. Sicilia 28.8.1986 n. 129, cit.
248
E. ZITELMANN, Lücken im Recht, Leipzig, 1903, su cui amplius infra.
249
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 146
ss.
250
Così L. LOMBARDI VALLAURI, Corso di filosofia del diritto, Padova,
1981, p. 31.
251
L. PERFETTI, Interpretazione costituzionale e costituzionalità dei valori
nell’interpretazione, in Jus 1993.
252
Cfr. § 3.2.4.

101
- la Wortlaut tedesca - ma anche nel Wertsystem sovrastante, in quel
livello superiore del diritto che è costituito dall’insieme dei giudizi
di valore e dal mare magno dei principi.253
Esistono lacune nei principi? Senz’altro ne esistono
contraddizioni. Occorrerebbe, però, chiedersi, a questo punto, se la
natura dei principi stessi è quella di norma ovvero di fonti di norme.
Perchè se si conviene sulla normatività dei principi allora si può
anche riconoscere che laddove la norma è generale essa è anche più
esposta al rischio di lacune, per tutte le osservazioni che si sono
precedentemente fatte. Anzi, si potrebbe sostenere che tanto più la
norma è generale, tanto meno è specifica e vicina al caso concreto,
tanto più essa si può rivelare lacunosa. Non bisogna dimenticare,
però, che ciò può essere vero fino ad un certo punto, perchè anche
la norma più specifica può essere lacunosa e, anzi, proprio perchè
eccessivamente specifica è più soggetta sia ad obsolescenza che ad
inadeguatezza.
D’altro canto accordando ai principi la natura di fonti di
norme, e non come norme, si potrebbe eludere il problema delle
lacune nell’ambito dei principi stessi se si assumono le categorie
della lacunosità come costruzioni adatte esclusivamente al
fenomeno normativo.
Se, tuttavia, si guarda all’ordinamento in chiave storico-
evolutiva non si può fare a meno di notare un dinamismo - più lento
ma presente - anche nei principi. Pertanto, a considerare le lacune
come a qualcosa di inserito in un continuo divenire, non si può non
abbozzarne l’esistenza anche entro la sfera dei principi non scritti.
Siano cioè norme o fonti di norme è il fenomeno delle lacune ad
attagliarsi ad un oggetto in evoluzione e, quindi, ad essere
comunque ammissibile e riscontrabile anche nella sfera dei principi.
Interessante, a questo proposito, sarà allora valutare l’interazione di
tale fenomeno con i rimedi dell’analogia e dell’interpretazione
estensiva, tenuto conto del fatto che tradizionalmente per
giustificare l’analogia e distinguerla dall’interpretazione estensiva si

253
L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano,
1975, p. 240 ss.

102
è fatto ricorso al criterio del “principio ispiratore”. Ammettendo la
prospettabilità di lacune anche nei principi si vede come pure le
delineate distinzioni si vadano affievolendo.

103
9.2. In claris non fit interpretatio: (in) attualità di
un broccardo

9.2.1. Pretesa chiarezza di un testo. Il “caso deciso” e il


“caso dubbio”. Come stabilire quando non esistono dubbi sul
contenuto di una norma? Dubbio diagnostico e dubbio assiologico
(Betti). La chiarezza come risultato e non come presupposto (Betti).
In claris o non, semper fit interpretatio (Perlingieri).

La necessità dell’interpretazione estensiva e dell’analogia,


oltre che per un problema “sistematico” relativo alle lacune
dell’ordinamento, entra in gioco anche di fronte alle questioni
relative alla chiarezza o meno del medesimo testo di legge,
supposto esistente. Interpretazione estensiva e analogia, dunque,
come risposte alle istanze evidenziate dalla presenza di lacune nel
significato, lacune di ordine, diremmo così, semantico. Anche di
fronte ad un testo poco chiaro, cioè, e proprio perché proprio chiaro,
entrerebbe in gioco il procedimento ermeneutico estensivo o
analogico.
La critica contro il noto brocardo “in claris non fit
interpretatio” si è, tuttavia, ben presto avviata proprio a partire dalle
indagini sulla presunta chiarezza del testo normativo.
Esiste una chiarezza normativa?
Da un punto di vista logico nessun linguaggio è in grado di
sviluppare autonomamente la propria semantica, necessitando,
semmai, di una sorta, di giustificazione logica di quelle regole di
linguaggio, di riflessione teoretica che “abbia ad oggetto quel

104
linguaggio e i fatti a cui esso si riferisce”.254 Si rivela, pertanto,
solamente naive la pretesa di individuare un testo normativo
veramente “chiaro”.
L’ellitticità del linguaggio, anche di quello precettivo, risulta
essere, dunque, l’omologo sul fronte oggettivo di quella che Betti
definiva, sul piano soggettivo, “l’angustia della coscienza”255 da cui
partivano e trovavano spiegazione il mutare delle prospettive e la
“costante ulteriorità dell’appercezione”.256
Data questa intrinseca plurivocità del linguaggio anche
legislativo, allora, più che di problema di “lacune” si dovrebbe
parlare di casi dubbi257 e assumere la categoria del dubbio, più che
quella di una “mancanza”, come elemento propulsore di ogni
interpretazione.
Com’è noto sembra seguire parzialmente questo filone del
“dubbio” anche la più recente teoria giuridica nord americana, in
particolare con gli scritti di Dworkin,258 ove si sostiene essere i
principi (ma non è una novità) l’elemento capace di giocare un
254
P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, p. 588.
Scrive l’autore che “appare sicuramente naive la credenza che le parole stesse
possano dirci qual è il loro significato, anche se ovviamente noi non ci
accorgiamo solitamente di questa difficoltà perché abbiamo da sempre appreso ad
accoppiare certe parole a certi fatti”.
255
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 16.
256
T. GRIFFERO, Elogio dell’incompiutezza. L’eccedenza simbolica
nell’ermeneutica di Emilio Betti, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti,
Milano, 1994, p. 95, che però sembra declinare il simbolismo oltre le intenzioni
di Betti e, comunque, oltre l’usuale: "Solo in questa rappresentazione e mediante
essa diventa possibile anche ciò che noi chiamiamo l'esser dato e la presenza del
contenuto. Tutto ciò risulta subito e chiaramente se prendiamo in considerazione
anche soltanto il caso più semplice di questa «presenza»: la relazione temporale e
il «presente» temporale. Nulla sembra essere più sicuro del fatto che tutto ciò che
è dato in maniera veramente immediata alla coscienza si riferisce ad un singolo
istante, o a un determinato «ora», ed è in esso racchiuso." Così E. C ASSIRER,
Filosofia delle forme simboliche, vol I, trad. it., Firenze, 1961, p.37 ss. Sul
medesimo punto, cfr. G. G ADAMER, Verità e Metodo, trad. it., Milano, 1983, p.
152.
257
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958, p. 352.
258
R. DWORKIN, I diritti presi sul serio, Bologna, 1982.

105
ruolo determinante nelle controversie di dubbia soluzione, detti
anche hard cases. Addirittura Dworkin, almeno nell’interpretazione
che ne fa Guastini,259 individua le situazioni di dubbio in tre diverse
ipotesi: quella delle lacune, quella delle antinomie e, infine, quella
della sussistenza di ambiguità intorno all’interpretazione di una
disposizione normativa.
Storicamente l’interpretazione attinse sempre come fonte ai
casi omessi o dubbi: si parlava delle categorie del casus omissus o
novus o dubius come situazioni che chiamavano in causa
l’interpretatio in mancanza di testi espressi o precisi di legge.260
Il caso dubbio, tuttavia, non si contrapponeva concettualmente
al caso “certo”, bensì alla categoria del caso “deciso”, tanto che
proprio per risolvere i dubbi nell’interpretazione si ricorreva ai casi
decisi, ossia alla categoria del casus legis. Naturale se si pensa che,
a causa del divieto imposto al giudice del non liquet, del “giogo del
giudicare” cui si trova sottoposto, anche nel dubbio è necessario
trovare una soluzione e proporla come “decisa”, più che come
“certa”. Paradossale, tuttavia, se si condivide la moderna
concezione della legge che è vista non più come posta a “decidere
dei casi”, ma piuttosto come diretta a dettare norme che servono,
semmai, a decidere dei casi. Porre il caso dubbio come contrapposto
al caso deciso - come fa il nostro articolo 12 delle disposizioni
preliminari - è retaggio dell’impostazione romanistica che aveva,
come noto, carattere prevalentemente casistico. Se è vero, infatti,
che il giudice è il legislatore del caso particolare, per cui il caso
“deciso” diventa anche, nel momento in cui è deciso, “certo”, non si
può non rilevare l’ambiguità della lettera del nostro articolo 12 disp.
prel. il quale, appunto, come si vedrà, contrappone la controversia,
impossibile ad essere “decisa” con una precisa disposizione, ai
rimedi dei “casi simili e delle materie analoghe”, proponendo poi la
soluzione dei principi se “il caso rimane ancora dubbio”. Non dice,
cioè, esplicitamente “se il caso non è certo”, puntando l’attenzione
259
R. GUASTINI, Dalle fonti alle norme, Torino, 1990, p. 132.
260
G. GORLA, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del
codice civile del 1942 (un problema di diritto costituzionale?), in Foro it., 1969,
II, p. 123.

106
sull’interpretazione, bensì “se la controversia non può essere
decisa”, dimostrando così di avvalersi ancora delle categorie
casistiche classiche.261
Stabilire che non esistono dubbi sul contenuto di una norma,
allora, che cosa significa? Che esiste un caso simile già deciso o che
la norma presenta un “testo chiaro”?
La dicotomia deriva dalla concezione, ormai sorpassata, di un
linguaggio - anche normativo - chiaro o chiarificabile secondo
precisi canoni, e che vedrebbe l’interpretazione entrare in gioco solo
nell’area dell’”ambiguità o oscurità dei significati”.262 Concezione
superata, come detto, dall’empirica constatazione dell’ellitticità del
linguaggio, prima ancora che delle situazioni oggetto di
normazione.
Ancora qualche autore,263 tuttavia, indugia nel mito della
chiarezza a priori della legge ed afferma che si possa considerare
chiara “anche una disposizione formulata con parole improprie
quando il discorso non faccia sorgere dubbi”.
È ancora una volta Betti264 a porre ordine nella materia
facendo luce sulle pieghe entro cui rischiava di incepparsi il
ragionamento laddove non chiariva quando, effettivamente, si
potesse dire che il discorso era in grado di “non far sorgere dubbi”.
L’autore spiega, dunque, come l’interprete che “avverta la
insufficienza o deficienza della disciplina legislativa rispetto al caso
non previsto testualmente, sottoposto a decisione”, sia per ciò stesso
condotto a ravvisare in esso un “caso dubbio” ai sensi dell’art. 12
capv. disp. prel.
Tuttavia chiarisce subito come non si tratti di un dubbio
logico, dato che l’apprezzamento che si richiede all’interprete è la
impossibilità di decidere il caso con una “precisa disposizione”,

261
Per approfondimenti in merito alle radici di queste distinzioni è
interessante l’analisi dei precedenti storici dell’art. 12. Cfr. § 4.1.
262
R. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale, in Comm. del
cod. civ. Scialoja e Branca, 1974, p. 241.
263
Cfr. R. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale, cit., p. 244
ss.
264
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione , cit., p. 841.

107
bensì di un dubbio “diagnostico”, “attinente all’incertezza della
diagnosi e valutazione giuridica del caso”.265 Un dubbio, come egli
lo definisce, “in questo senso non logico ma assiologico”.
Betti mette in guardia, dunque, contro quello che definisce
“equivoco indotto dal pregiudizio logicistico”,266 quello di
scambiare la logica del diritto con la logica formale e di “ridurre il
compito dell’interpretazione a un’operazione di sussunzione
logicistica somigliante nel suo rigido automatismo alle operazioni
aritmetiche”. Abbiamo qui la dichiarazione per tabulas che per
l’autore camerte il diritto non può essere ridotto a scienza esatta,
partecipando piuttosto della natura “artistica” propria della prassi di
tradizione aristotelica. Preme cioè porre l’attenzione su quel prosilo
di prudentia che caratterizza l’approccio al diritto, particolarmente
sentito nel momento dell’abbeverarsi alle sue fonti, intese come
luogo in cui tradizione (dello jus receptum) e novità (del caso
concreto) si incontrano.267
Perciò è la stessa varietà di funzioni dell’interpretazione a far
variare la consistenza e la valenza dell’interpretato; il fatto che
l’interprete sia chiamato non già ad un’operazione di tipo aritmetico
ma ad un apprezzamento rispondente ad esigenze assiologiche268 fa
cadere in toto la categoria della chiarezza a priori e fa approdare alla

265
E. BETTI, cit., p. 842.
266
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 283.
Tale sembra ancora l’orintamento della Cassazione, ove afferma che “All'uopo va
ricordato che è fondamentale canone di ermeneutica, sancito dall'art. 12 delle
preleggi, che la norma giuridica dev'essere interpretata innanzi tutto e
principalmente dal punto di vista letterale, non potendosi al testo "attribuire altro
senso se non quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la
connessione di esse"; di poi, sempre che tale significato non sia già tanto chiaro
ed univoco da rifiutare una diversa e contrastante interpretazione, si deve
ricorrere al criterio logico: ciò al fine di individuare, attraverso una congrua
valutazione del fondamento della norma, la precisa "intenzione del legislatore",
avendo però cura di individuarla quale risulta dal singolo testo che è oggetto di
specifico esame (Cass. 16 ottobre 1975 n. 3359; 13 novembre 1979 n. 5901).”
Così Cassazione Civile, Sezione Lavoro, n. 7279 del 03/07/91.
267
Per le definizioni diacroniche e sincroniche, rinvio alla felice
raffigurazione resa da U. PAGALLO, Alle fonti del diritto, cit., p. 1 e 252.
268
E. BETTI, Interpretazione della legge, cit., p. 287.

108
concezione per cui, di fatto, esistono sempre dubbi
sull’interpretazione di una norma.
Compito dell’interprete non può concepirsi alla stregua di un
mero ruolo di amministratore, che incasella la realtà entro le
categorie della legge, anche se è ben lontano dall’eccesso opposto,
di assoluto sovrano nel determinare, arbitrariamente, la legge del
caso singolo. La ricerca che deve condurre non è, perciò, limitata ad
un discorso aritmetico - o geometrico - di rinvenimento della norma
che regola il caso così come potrebbe avvenire per una legge fisica
o dell’aritmetica. La ricerca dell’interprete deve essere rivolta al
dato assiologico, unico elemento in grado di assicurare ad un tempo
l’aderenza dell’interpretazione alla realtà - l’adeguatezza -, la
possibilità di evoluzione normativa e al tempo stesso una sorta di
koiné giuridica e, di conseguenza, sociale.
Questa necessità assiologica si manifesta, tuttavia, non solo
come principio sussidiario ai criteri di interpretazione da adottare
nell’ipotesi di un caso ambiguo: la ricerca assiologica non è il
rimedio degli hard cases ma, al contrario, è un apprezzamento
insito nel concetto stesso di interpretazione. Ciò significa, però,
anche che se cade il “mito” della chiarezza a priori cade anche la
distinzione tra gli strumenti interpretativi che proprio su questa base
cercava di trovare piede. L’analogia e l’interpretazione estensiva
non trovano più ragione della loro differenziazione nell’essere la
prima, contrariamente alla seconda, un procedimento che faceva
ricorso ad un’ ”ulteriorità” ermeneutica data, forse, da tale
apprezzamento assiologico. Stabilito che questo fa parte integrante
di ogni interpretazione viene, giocoforza, a cadere anche la
possibilità di distinguere gli indicati strumenti interpretativi su tale
base.
L’uniformità interpretativa che si può riscontrare non si deve
confondere con la intrinseca dubbiosità del precetto normativo:
essa, semmai, è solo un sintomo di un comune sostrato assiologico,
di un “ritrovarsi attorno ai principi”, un indice di maggiore
probabilità di avvicinamento ad un ideale “spazio di intesa
comune”, ma nulla più.

109
Pertanto è da rigettare come superato e non condivisibile
l’antico brocardo in claris non fit interpretatio. In primo luogo
perché l’operazione con cui, eventualmente, si determinasse la
chiarezza di un testo legislativo per escluderne la necessità
interpretativa sarebbe già di per sé un’operazione interpretativa.
Come determinare, cioè, che un testo non necessita
d’interpretazione se non interpretandolo?
In secondo luogo, poi, la chiarezza, come detto,269 non è un
presupposto ma, se mai, un risultato del processo interpretativo.
Non è la chiarezza, cioè, che determina se un testo va interpretato
oppure no, ma è l’interpretazione che tende il più possibile a
produrre chiarezza.270
Alcuni orientamenti giurisprudenziali si presentano, tuttavia,
come contrari all’impostazione delineata. In particolare si può
considerare significativa la pronuncia emessa dalla Pretura di
Bologna271 nel 1994 in materia di criteri legali di interpretazione dei
contratti. La sentenza esclude l’applicabilità di tali criteri, a partire
da quello dell’interpretazione secondo buona fede fino a quello
dell’equo contemperamento degli interessi delle parti, qualora il
testo da interpretare - nella fattispecie si trattava di un contratto
collettivo di lavoro - non presenti “margini di dubbio o di lacune o
di incertezza”. Malgrado la sentenza si occupi di interpretazione dei
contratti e non strettamente di interpretazione della legge (seppure il
C.C.N.L. ha valenza di atto regolamentare, ancorché da interpretarsi
secondo i canoni di cui agli articoli 1362 e seguenti del codice civile
e non secondo l’articolo 12 delle disposizioni sulla legge in
generale) è significativo il criterio che la ispira, cioè l’esclusione
della necessità di interpretare laddove il testo - del contratto, nel
caso di specie - non si qualifichi per l’incertezza dell’interpretazione
medesima. Significativo è anche il fatto che la sentenza, con questa
pronuncia, mirasse ad escludere l’applicabilità, in contrasto con la
lettera del contratto scritto da interpretare, di accordi “politici”,
collaterali all’accordo formalizzato, che, al contrario, avrebbero
269
Cfr. § 2.1.2 a proposito della completezza.
270
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 286.
271
Pretura Bologna, 6.9.1994, in Orient. giur. lav. 1994, 469.

110
potuto permettere un’interpretazione del contratto collettivo
totalmente aderente alla reale volontà delle parti. La ragione
dell’esclusione è, tuttavia, indicata non nella prevalenza del criterio
della letteralità, come di fatto è, ma nell’incapacità degli accordi
politici di influire sul contenuto dell’accordo formalizzato e quindi
sull’irrilevanza delle circostanze, che pure determinarono l’accordo
scritto, ad influire nell’interpretazione del medesimo. Se tali
circostanze non sono in grado di incidere sull’interpretazione il
testo si presenta, secondo la sentenza, come “chiaro” e, perciò,
come autosufficiente rispetto a qualunque necessità interpretativa.
Ma, come si può vedere, questa non è che la giustificazione della
validità del criterio letterale, presunto come, in sé, capace di
escludere qualunque interpretazione.
Rigettata questa impostazione per i motivi che si sono
evidenziati e, al contrario, ribadita la necessità interpretativa sempre
e comunque, non si può, per quanto detto, che concordare con
Perlingeri272 concludendo con lui che, dunque, in claris vel non,
semper fit interpretatio.

272
P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica ed
assiologica. Il brocardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 disp.
prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, in Rassegna dir. civ., 1985, p. 1017.

111
9.3. Mezzi per colmare le lacune secondo prassi

9.3.1. Ipotesi volontaristica. Volontà presunta del


legislatore: velleitarietà dell’impostazione in termini volontaristici.

La necessità di distinguere tra interpretazione estensiva e


analogia come soluzione al problema delle lacune fa seguito, come
visto, a quella, precedente, che vede a confronto le lacune, e financo
gli stessi testi legislativi, con il processo e la necessità interpretativa
medesima.
Una volta stabilita la diuturna esigenza di ricorrere, sempre e
comunque, all’interpretazione può rimanere spazio per le categorie
del dubbio e del “caso deciso” proprio nel tentativo di dipanare il
problema di una distinzione tra interpretazione estensiva e
analogica. Si è, cioè, talvolta indicata l’interpretazione estensiva
come lo strumento in grado di risolvere i casi dubbi lavorando, si
potrebbe dire, proprio a partire dalla loro intrinseca “dubbiosità”,
ossia ricercando gli strumenti per la loro soluzione all’interno della
stessa attività interpretativa. Al contrario si è cercato di delineare il
ricorso all’analogia come ricerca di altri “casi decisi” da affiancare
e utilizzare per risolvere gli stessi “casi dubbi”, come ricorso non
all’interpretazione ma all’applicazione che dell’interpretazione si è
fatta.
Alla base di questi tentativi e della possibilità di accoglierli o
meno, sta, come si può vedere, una scelta d’impostazione che
concerne il processo interpretativo in sé, e raffigura l’interprete alle
prese con il testo normativo in una mano e la realtà nell’altra.
Per stabilire come l’interprete debba muoversi in questa
condizione, se debba - per restare nella metafora - allargare la mano

112
del testo fino a farla coincidere il più possibile con quella della
realtà ovvero ricorrere a una terza mano, contenente un altro testo, è
necessario comprendere non solo perché le due “mani” non
coincidano, il che si è cercato di spiegare finora, ma anche con
quale mezzo avvicinare una “mano” all’altra.273
L’ipotesi tradizionale più remota, in materia, è quella
cosiddetta “volontaristica”. Ciò che l’interprete deve fare, per
tentare il più possibile la coincidenza tra la realtà e il testo, è
ricorrere alla ricerca della volontà del legislatore, è, anzi, tentare di
immedesimarsi egli stesso nell’ipotetico “legislatore” operando,
appunto, nell’interpretare “come se” fosse il legislatore. È la famosa
immagine del giudice come la “bouche de la loi”274 e del giudice
“come se fosse il legislatore” di tante disposizioni normative
sull’interpretazione, la più famosa delle quali forse resta l’art. 1 del
codice civile svizzero.275
Carnelutti sembra indugiare in questa impostazione quando si
sofferma, analizzando il problema dell’ ”intenzione del legislatore”
sul rapporto tra questa intenzione e la dichiarazione normativa. “In
quanto attraverso l’indagine dell’intenzione del dichiarante il
pensato, anche se non dichiarato, vale come dichiarato, la legge
risolve il problema della divergenza tra il fine e l’evento nella
dichiarazione facendo prevalere il fine sull’evento”276 scrive
l’autore, facendo riferimento alla necessità di ricercare la volontà
normativa al di là della lettera della legge.
Si tenga, poi, presente che tutti i criteri ermeneutici
tradizionali, tranne il criterio teleologico che si propone di indagare
quale sarebbe dovuta essere la volontà del legislatore tenendone
presenti gli obiettivi, fanno riferimento a tale “volontà del
273
Cfr. anche S. ARMELLINI, Le due due mani della Giustizia, Torino,
1996.
274
L’espressione risale al barone di La Brède, CH. L. DE SECONDAT DE
MONTESQUIEU, L’Esprit des lois, Paris, 1748,. “I giudici della nazione sono
soltanto [...] la bocca che pronuncia le parole della legge: esseri inanimati, che
non possono regolarne né la forza né la severità”.
275
Sul quale si veda infra §. 4.1.
276
F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, III ed., Roma, 1951, p. 86
ss.

113
legislatore” in ossequio ai principi cardine del positivismo. Il
richiamo, però, ad un “pensato” rimanda all’idea di un legislatore
che lo pensi, e quindi avvicina il rischio di rincorrere la finzione
della volontà presunta anche su questo fronte.
Distinguere l’interpretazione estensiva dall’analogia sulla
base di un’ipotesi volontaristica significa ricorrere a questa finzione
e ritenere che nell’analogia si tratti di disciplinare il caso non
previsto “come se” fosse stato previsto dal legislatore, mentre
nell’interpretazione estensiva il caso sia stato, seppure
implicitamente, previsto.277
Tuttavia la dottrina, primo fra tutti Bobbio,278 individua le
aporie insite nella costruzione volontaristica, segnalandone
l’artificiosità. La volontà presunta, infatti, sarebbe, in realtà,
un’interpretazione correttiva dato che trasformerebbe la volontà del
legislatore in volontà razionale. Questo, almeno, con l’utilizzo del
criterio teleologico, volto a ricercare non tanto una volontà in
quanto tale ma una volontà, appunto, secondo i criteri della
razionalità. Peraltro, così facendo si finirebbe per esautorare la
stessa volontà sovrana del legislatore e con essa lo stesso principio
di sovranità (il che potrebbe non essere un male). Se dunque
l’interprete ricerca legittimazione all’estensione analogica attraverso
il ricorso alla volontà presunta cade in errore perché “non è dalla
presunzione della volontà favorevole che si deduce la possibilità
dell’estensione analogica”, ma è, viceversa, “dalla constatazione
della possibilità dell’estensione che si presume una volontà
favorevole”.279
Un colpo deciso alla teoria volontaristica è sferrato da Betti
che, premettendo come compito dell’interprete sia di “rendere
esplicito il senso della legge” mette in guardia contro il pregiudizio
psicologistico che induce a raffigurare il legislatore come un uomo
reale e contro una distorta concezione del dogma dell’oggettività.
Se, infatti, si spersonalizza la volontà presunta di legge, riducendola
277
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 353.
278
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. 113.
279
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit.

114
a cristallizzazione vagheggiante l’oggettivo, la si impoverisce ad
una “ipostasi o finzione di una “volontà collettiva” che, ove si
concepisca come qualcosa di parallelo alla volontà individuale [...]
non trova riscontro nella realtà sociale più di quanto vi trovi
riscontro una “coscienza collettiva””.280
Betti non nega l’esistenza di una “volontà del legislatore”, ma
sotto questa categoria egli individua, così come nella volonté
générale di Rousseau,281 una espressione di comodo che
ricomprende “l’insieme di quegli interessi della comunità, che nella
legge hanno trovato protezione e quindi vanno dall’interprete tenuti
presenti”.282 Betti ricorda come Rousseau postuli una volonté
générale contrapposta alla volonté de tous, intendendo con quella
espressione un orientamento normativo di carattere deontologico
che “est toujours droite et tend toujours à l’utilité publique” e tale
che “ne regarde qu’à l’interêt commun”.283 Il fatto che, poi, rende
generale la volontà non è tanto il numero dei voti ottenuti dalla
“consultazione del popolo” ma “l’interesse che li unisce”. 284 È la
categoria dell’ ”interesse comune” a caratterizzare tanto la volontà
generale quanto la sedicente “volontà del legislatore”, ed è proprio
verso questa “tensione virtuale al bene comune”285 che si dovrà
dirigere la stessa interpretazione.
Dal punto di vista della giurisprudenza alcune sentenze
“storiche”, come quella della Cassazione del 1949286 commentata
dallo stesso Bobbio, hanno negato alla presunzione della volontà del

280
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 263.
281
Cfr. J.J. ROUSSEAU, Contrat social, II, cap. 3; E. BETTI, Interpretazione
della legge, cit., p. 263.
282
E. BETTI, Interpretazione della legge, cit., p. 264.
283
Cfr. J.J. ROUSSEAU, Contrat social, II, cap. 3, su cui F. GENTILE,
Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed, Milano, 1984, pp. 138 e ss.
284
Ancora J.J. ROUSSEAU, Contrat cit., II, 4.
285
F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed, Milano, 1984,
p. 139, ove viene smascherata l’artificio dell’artificiosa equazione tra volontà
generale e volontà della maggioranza, intesa sempre retta “per definizione”.
286
Cassazione civile, II sez., 14.7.1949 n. 1801 in Giur. it. 1951, I, I, 229-
232.

115
legislatore legittimità a costituire il fondamento dell’analogia.
“Fondamento dell’analogia non è la presunzione della volontà del
legislatore, bensì il principio della uguaglianza giuridica”,287
stabilisce la sentenza.
Tuttavia una sentenza di poco precedente288 parlava di
“necessità che determina la volontà della legge” come l’elemento in
grado di interpretare in ogni tempo il testo legislativo, per mezzo
del pensiero del suo autore, nell’ordinamento di cui la norma fa
parte, dimostrando di andare, con l’escamotàge della ricerca della
“necessità causale”, ad individuare di nuovo il “pensiero del
legislatore”. Interessante nella sentenza in questione è, tuttavia, il
fatto che fa coesistere anche un’altra affermazione: la legge, infatti,
si deve interpretare “secondo l’intenzione del legislatore attuale, e
non di quello del tempo in cui fu emanata”,289 sistema che
assicurerebbe un costante “adattamento” della norma medesima.
Volontà, quindi, che coincide, a seconda dell’interpretazione che se
ne dà, con gli intenti del legislatore emanante, ovvero con la
necessità di disciplina del legislatore attuale.
Anche di recente per giustificare, invece, l’interpretazione
estensiva si fa riferimento alla volontà del legislatore: ora
sostenendo che questi “minus dixit quam voluit”,290 ora segnalando
questa estensione come necessità di coprire le lacune avendo
riguardo al disegno globale della legge, “ai suoi criteri ispiratori ed
alle sue implicazioni necessarie, tenendo conto non solo di ciò che il
legislatore ha voluto affermare, dicendolo, ma anche di ciò che ha
inteso escludere, tacendo”.291
Queste incertezze della giurisprudenza non valgono, tuttavia,
a fondare l’ipotesi volontaristica: la distinzione tra interpretazione
estensiva e analogia non può essere costruita sulla base della
distinzione tra volontà del legislatore e volontà presunta né di quella

287
Cassazione civile, II sez., 14.7.1949, cit., p. 230.
288
Cassazione civile, S.U., 25.6.1949 n. 1592 in Foro it., 1949, I, 801-805.
289
Cassazione civile, S.U., 25.6.1949, cit., p. 803.
290
Cfr. Cons. Stato sez. IV, 4.7.1978 n. 701 in Cons. Stato 1978, I, 1047.
291
Così T.A.R. Campania 11.6.1980 n. 445 in Foro amm. 1980, I, 2009 e
Cons. giust. amm. Sicilia 26.7.1986 n. 109 in Cons. Stato 1986, I, 1046.

116
tra volontà della legge e volontà del legislatore.292 In tutti questi
tentativi, infatti, si nasconde il tentativo di mascherare l’arbitrio
dell’interprete o la sua normale attività integrativo-creativa.
Tutto ciò detto e ricordando che alcuni hanno perfino
sarcasticamente sostenuto che la norma legislativa comincia ad
esistere quando non c’è più nessuna volontà,293 si deve concludere
per la velleitarietà dell’ipotesi volontaristica e nella inutilità ed
equivocità294 delle sue conclusioni.

292
M. BOSCARELLI, L’analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civile,
1954, p. 630.
293
H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, trad. it. di R.
Treves, Milano, 1952, p. 34.
294
M. BOSCARELLI, L’analogia giuridica, cit., p. 631. Implicitamente
anche la giurisprudenza, ove afferma “La Corte napoletana ha correttamente
evidenziato che, ove al divieto regolamentare di costruire in una determinata zona
si dovesse sostituire, nei rapporti tra privati confinanti, l'obbligo di osservare le
distanze prescritte dallo stesso strumento urbanistico per altre zone, si verrebbe
quasi a legittimare, mediante il semplice arretramento della costruzione alla
distanza "analogicamente" applicata, un'opera edilizia che in quella zona non
dovrebbe affatto esistere. A monte di tale considerazione, però, vi è la giuridica
impossibilità del ricorso all'analogia in un caso come quello che ci occupa. L'art.
12 delle Preleggi, infatti, conseguente l'applicazione analogica solo "se una
controversia non può essere decisa con una precisa disposizione", cioè
allorquando manchi nell'ordinamento una specifica norma regolante la concreta
fattispecie e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativi
altrimenti incolmabile in sede giudiziaria, il che non è affatto riscontrabile
nell'ipotesi in esame. Per rendersene conto basta osservare che la mancanza, in
uno strumento urbanistico, di prescrizioni sulle distanze per una determinata zona
del territorio, a causa della scelta del legislatore locale di vietare in tale zona
qualsiasi attività costruttiva, lungi dal creare lacune nella regolamentazione dei
rapporti di vicinato, fa sì che resti applicabile ad essi la disciplina dettata dagli
artt. 873 e segg. del codice civile, con la conseguenza che, in caso di violazione
del divieto di costruire, il privato proprietario che ne abbia subito danno ha
diritto, ai sensi dell'art. 872 dello stesso codice, di esserne risarcito ma non può
pretendere la riduzione in pristino ove non risulti contemporaneamente
trasgredito l'obbligo di rispettare le distanze previste da dette norme codicistiche,
sempre, beninteso, che non sia intervenuta con la controparte, come nel caso di
specie, una deroga pattizia alle medesime (trattandosi senza dubbio di norme
derogabili).” Così Cassazione Civile, Sez. II, n. 4754 del 29/04/95.

117
9.3.2. Ipotesi logicistica; diversità di struttura logica e di
natura giuridica (impostazione del problema e rinvio).

Respinta l’ipotesi volontaristica la dottrina si è rivolta a quella


che è stata definita ipotesi logicistica o normativistica.295
La teoria che poneva l’accento sulla volontà del legislatore o
nella legge era stata oggetto di critiche, per la verità, proprio a
partire da un discorso logicistico: si sosteneva, infatti, che essa non
consentiva la costruzione scientifica in quanto ne negava, in pieno
dogma positivistico, il presupposto, cioè l’intima razionalità del
sistema positivo.296
L’ipotesi logicistica, allora, si affacciò di fronte all’esigenza
di distinguere tra un’attività “normale” di interpretazione e una
attività che in dottrina si tese sempre più a identificare come attività
di “integrazione del diritto”297: processi propedeutici alla
differenziazione tra l’interpretazione estensiva e l’analogia. Vi si
affacciò per distinguere sostenendo che “vi sarebbero casi
logicamente compresi dalla norma, oppure casi non compresi, ma
simili, e quindi da regolare in base alla stessa norma.”298
Si è già fatto cenno all’insistenza sulla dimensione logica del
ricorso all’analogia299. Tuttavia in questa impostazione lascia il

295
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 353.
296
Cfr. N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. 116; M.
BOSCARELLI, L’analogia giuridica, cit., p. 633.
297
L. CAIANI, voce Analogia, cit., p. 353.
298
L. CAIANI, voce Analogia, cit., p. 353.
299
Per tutti Bobbio, la cui opera sull’analogia porta già nel titolo
l’inquadramento della trattazione entro un discorso logico. Cfr. N. BOBBIO,
L’analogia nella logica del diritto, cit. Caiani ne fa una critica in L. CAIANI, voce
Analogia, cit., con argomenti non dissimili da quelli della critica giusliberista,
almeno nell’interpretazione che ne dà Lombardi Vallauri. Cfr. L. LOMBARDI
VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1975, p. 285 nota 262.

118
sospetto di una “insufficiente discriminazione”300 tra il punto in cui
la logica finisce e la chiarificazione di quale genere di “non logica”
ivi comincia.
La critica giusliberista, poi, ha proseguito scagliandosi contro
l’analogia come la più importante risorsa della logica giuridica ed
evidenziando come da un lato essa non sia una pura trasformazione
logica della legge, neppure quando intende esserlo in tutta la misura
del possibile, dall’altro come l’analogia non debba assegnarsi come
primo scopo di essere il più logica possibile. L’ipotesi logicistica si
rivela, per la verità, una “seducente idea”301 e così il fatto che
l’analogia possa riposare sull’“intima consequenzialità del diritto”.
Consequenzialità, però, non sempre meramente logica, bensì, come
la definì Savigny,302 “organica”.303
In questo contesto il tentativo di fare chiarezza sulla
distinzione tra interpretazione e integrazione, e poi tra
interpretazione estensiva e analogia, è stato condotto attraverso il
riferimento ad una diversità di struttura logica. Da un lato si è, così,
sottolineato il rimanere - con l’interpretazione, e con quella
estensiva - nell’ambito della norma, senza discostarsi da essa,
dall’altro ci si è riferiti - con l’integrazione, e con l’analogia - al
ricorso ad un elemento che esce dalla portata della norma e, anzi,
introduce in essa significati che, altrimenti, non sarebbero stati
ricavati per sola via d’interpretazione. A questo genere di
distinzione è conseguita l’analisi sulla diversità della natura
giuridica dei rispettivi risultati.304 Da un lato, quindi, l’indagine si è
spostata sul piano della distinzione tra la dichiaratività e
l’integratività dell’interpretazione, dall’altro sul fronte
300
L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano,
1975, p. 285.
301
La definizione è di F. GENY, Méthodes d’interprétation et sources en
droit privé positif, Paris, Sirey, 1919, I, pp. 118-122.
302
C.F. von SAVIGNY, System des heutigen römischen Rechts (1840), Rist.
Aalen, Scientia, 1973, I, 292, citato anche da L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia
in Digesto civile, I, (1987), p. 320 ss., nota 29.
303
Cfr.L. GIANFORMAGGIO, op. ult. cit.
304
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 353.

119
dell’esistenza o meno di una norma sovraordinata che giustifichi i
diversi risultati interpretativi. Su tali analisi, tuttavia, si
soffermeranno i capitoli seguenti.

120
9.3.3. Analogia e ricorso ai principi non valgono a escludere
l’incompletezza dell’ordinamento giuridico. Necessità di
soffermarsi sulla funzione, prima che sulla struttura di
interpretazione estensiva e analogia. Funzione dell’analogia è
colmare le lacune? Equivoco: definire l’analogia per la sua
funzione e non per la sua essenza.

Come si è potuto constatare nei paragrafi precedenti i processi


interpretativi che fanno capo all’analogia e all’interpretazione
estensiva, ammettendo che siano due procedimenti diversi, non
valgono ad escludere l’incompletezza dell’ordinamento giuridico.
Già Savigny, del resto, pur con presupposti diversi, aveva escluso la
relazione tra questi strumenti interpretativi e la completezza.
“L’interpretazione estensiva e restrittiva non hanno a che fare con la
completezza dell’ordinamento giuridico, ma si riferiscono solo alla
inesattezza delle leggi singole, consistente nel contrasto tra pensiero
ed espressione”.305 Sembrerebbe, qui, addirittura, ipotizzare una
sorta di “errore ostativo” del legislatore, vizio sanabile mediante la
ricostruzione, per via, appunto, d’interpretazione, dell’esattezza di
questo rapporto pensiero-espressione.
Nemmeno il ricorso ai principi, d’altro canto, vale ad
escludere questa postulata incompletezza, se si concorda con l’idea
enunciata che sia possibile la presenza di “lacune” anche nei
principi, oltre che nelle norme scritte.306
Se dunque la funzione dei processi interpretativi in questione
non è quella di colmare l’incompletezza dell’ordinamento giuridico,
si rende necessario soffermarsi proprio sulla funzione degli stessi. Il
305
C.F. von SAVIGNY, System des heutigen römischen Rechts (1840), rit.
Aalen, 1973, citato anche da N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto,
Torino, 1938, p. 113.
306
Vedi supra, § 2.1.3.

121
fatto che si sia ventilata una impostazione logicistica fa presupporre
che affrontare la questione dell’interpretazione estensiva e
dell’analogia come problemi di logica significhi anche fare ricorso
ad un’analisi sulla loro struttura. Si può concordare sul fatto che
non si possa affrontare il discorso se non lo si inquadra, come già si
è cercato di fare, in un’ottica di teoria generale del diritto e, quindi,
andando ad indagare, prima ancora che sulla struttura, sulla
funzione dei processi interpretativi in discussione. 307
“Qual è la funzione dell’analogia? Essa è uno dei mezzi
adoperati dal giudice allo scopo di colmare le lacune della
legislazione”,308 scrive Bobbio.
In effetti questa impostazione è seguita dalla giurisprudenza
che, in numerose sentenze ha dato prova di avere fatto proprio il
concetto del mette in relazione lacune e analogia in un rapporto di
funzione a strumento.
Una sentenza recente della Cassazione mette in chiaro come il
ricorso all’analogia sia consentito “dall’articolo 12 delle preleggi
solo quando manchi nell’ordinamento una specifica norma
regolante la concreta fattispecie e si renda, quindi, necessario porre
rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede
giudiziaria”.309 Dieci anni prima la Cassazione aveva indicato come,
nel caso di lacune, si dovesse procedere ad un’opera di
“ricostruzione” della disciplina della materia insufficientemente
regolamentata ricorrendo, ove necessario, come ultimo strumento,
all’analogia.310 Il problema che si pone, ovviamente, è però quello
di determinare quando una materia possa dirsi insufficientemente
regolamentata, con quali criteri decidere che c’è o meno un “vuoto
normativo” e, infine, a chi affidare - al legislatore o all’interprete? -
il compito di fare questo discernimento.

307
In adesione alla posizione di M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in
Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 627.
308
N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano, p. 604.
309
Cassazione civile sez. II, 28.4.1995, n. 4754, in Giust. civ. Mass. 1995,
925.
310
Cassazione civile, sez. lav., 4.2.1985 n. 731, in Giust. civ. Mass. 1985,
fasc. 2.

122
In senso conforme, ma con un ragionamento a contrariis è
anche la sentenza del 1994 che preclude il ricorso all’analogia in
assenza di “una qualsivoglia lacuna dell’ordinamento”.311
Si sofferma, invece, ad analizzare la struttura logica
dell’analogia la sentenza del T.A.R. del Molise che ammette il
ricorso all’analogia “nelle ipotesi delle cosiddette lacune
dell’ordinamento” quando, “innanzitutto, sussista un rapporto di
similarità tra alcuni elementi della fattispecie regolata ed alcuni
elementi di quella non regolata e ricorra, inoltre, una identità di
ratio”.312
Decisamente significativa, infine, è la sentenza della
Cassazione del 1994 in cui, definitivamente, si mettono sul piatto,
come elemento di negazione dell’applicabilità in via analogica delle
norme sul fideiussore al terzo datore di ipoteca, da un lato le
“diversità funzionali e strutturali” della fideiussione, dall’altro la
“completezza della disciplina legislativa della prestazione di ipoteca
da parte del terzo che non lascia spazio a lacune di sorta”.313
L’equivoco insito nel costante collegamento tra il problema
delle lacune e la soluzione dell’analogia è, tuttavia, delineato dallo
stesso Bobbio: “definire l’analogia per il suo scopo (colmare le
lacune), ma non per la sua essenza”,314 per cui si finisce per sapere
benissimo a che cosa serva l’analogia senza, tuttavia, sapere che
cosa sia. 315
Alcuni autori per negare l’identificazione tra interpretazione
estensiva e analogia si sono riferiti al procedimento analogico come
a un “vero e proprio mezzo di integrazione delle norme legali”,
giungendo a rifiutare l’idea che l’analogia possa considerarsi una
forma di interpretazione.316
311
Cassazione civile sez. II, 14.12.1994, n. 10699.
312
T.A.R. Molise 6.12.1982 n. 217, in T.A.R. 1983, I, 655.
313
Cassazione civile sez. III, 6.5.1994, n. 4420, in Notariato, 1995, 18
nota Gradassi.
314
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, capitolo
VI..
315
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., pp. 790 e ss.
316
F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale - parte generale, XI ed.,
Milano, 1989, p.85.

123
Sarà dunque necessario tenere presenti le interazioni cui si
accennava ed evitare l’equivoco cui si riferiva Bobbio.317 Autore
che, peraltro, nega l’esistenza di una differenza tra interpretazione
estensiva e analogia,318 evidenziando come il tentativo di
distinguere si basi su un’errata comparazione di due punti di vista
diversi: da un lato la volontà del legislatore - nell’interpretazione
estensiva - guarda al fondamento interpretativo, dall’altro la
somiglianza dei casi - nell’analogia - si riferisce, invece, al
procedimento interpretativo medesimo.
“Il giudizio che si avvale dell’analogia non crea la norma
giuridica”, ha affermato la Suprema Corte;319 tuttavia, nonostante il
sostanziale accordo, vi sono state alcune correnti dottrinali propense
a far rientrare l’analogia puramente e semplicemente
nell’interpretazione propriamente detta, e altre propense, invece, a
distinguere l’analogia dall’interpretazione per la caratteristica di
essere integrazione delle norme giuridiche.320
Si tenterà, perciò, attraverso l’analisi del problema della
integratività e della creatività dell’interpretazione,321 di dare una
risposta al problema in oggetto.

317
Vedi supra all’inizio del paragrafo.
318
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p II, cap.
IV.
319
Cassazione civile, II sez., 14.7.1949 n. 1801, in Giur. it. 1951, I, I, 229-
232, p. 231.
320
Cfr. N. BOBBIO, nota a sent. Cassazione civile sez. II, 14.7.1949 n.
1801, in Giur. it. 1951, I, I, p. 231.
321
Cfr. capitolo 3.

124
10. TENTATIVI DI DISTINGUERE
INTERPRETAZIONE ESTENSIVA E ANALOGIA IN BASE
ALLA FUNZIONE: IL PROBLEMA DELLA
DICHIARATIVITÀ - CREATIVITÀ

10.1. Interpretazione e linguaggio: continuità e


differenze

10.1.1. L’interpretazione estensiva tenderebbe ad allargare


l’area di significanza dei termini senza superare il limite della zona
di incertezza.; l’analogia consentirebbe di applicare una norma a
una fattispecie non prevista uscendo dalla norma. (Rinvio).
Necessità logica dell’interpretazione estensiva, non similitudine di
rapporti. Superamento tramite concezione della struttura aperta del
linguaggio e ragionamento di “tipo analogico” del giudice.

Si è già approfondito l’argomento del carattere


intrinsecamente ellittico del linguaggio e in particolare delle
implicazioni sul linguaggio normativo. Taluno individua il nodo
problematico centrale dell’intera teoria ermeneutica nel “gioco della
logica di domanda e risposta” che c’è nella relazione dialettica tra
l’interprete e il testo normativo, e delinea la necessità di soffermarsi
sulle implicazioni che l’uso di un particolare medium linguistico ha
sulla stessa conoscenza del reale.322 Non è il caso di soffermarsi in
questa sede sugli spazi che gli interrogativi posti da un’analisi in
termini di filosofia del linguaggio aprirebbe. Basterà accennare, ai
fini della trattazione, all’interrogativo che è stato posto da

322
G. ZACCARIA, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria contemporanea,
in Riv. dir. civ. 1989, I, 330.

125
Francesco Cavalla:323 l’orizzonte storico in cui si situa il linguaggio
è invalicabile dal linguaggio stesso? Che, tradotto in ambiente
giuridico, può suonare come un interrogativo sui confini evolutivi di
una semantica normativa.
Il problema del rapporto tra interpretazione e linguaggio non è
peregrino. La stessa necessità interpretativa, infatti, è sovente stata
intesa come una insufficienza del linguaggio normativo o come la
necessità di una evoluzione semantica. L’enfasi sulla vaghezza324 e
indeterminatezza del linguaggio normativo, a fronte dell’evocata
fecondità della prassi applicativa è una testimonianza di questo
approccio, da taluni definito “altamente povero al diritto”.325
Di avviso totalmente contrario sembra essere una importante
sentenza del 1991, emessa dalla quinta sezione penale della
Cassazione,326 che individua come ogni termine linguistico, cioè
ogni parola, adoperato nell’enunciazione di una norma sia fornito di
un’”area di significanza” (o “campo di riferimento”) in cui attorno
ad un “nucleo” centrale, più o meno consolidato, si estende una
“zona di indeterminazione” (o “di incertezza”) più o meno vasta”. È
la stessa struttura linguistica della norma, pertanto, secondo questa
impostazione, a caratterizzarsi per tale zona di indeterminazione
semantica attorno ad un nucleo - semantico - forte. È evidente come
la sentenza sia venuta qui recependo le moderne posizioni non solo
in merito alla struttura aperta del linguaggio, ma anche in merito
all’ipotizzabilità di un ragionamento giuridico a “logica sfumata”,
che tenga, cioè, conto delle zone d’ombra attorno al linguaggio
normativo e che collochi in quest’area il discorso
sull’interpretazione estensiva e l’analogia.327
Dall’interno di questa impostazione la sentenza prosegue
tentando di delineare una differenziazione tra interpretazione

323
F. CAVALLA, La verità dimenticata. Attualità dei presocratici dopo la
secolarizzazione, Padova, 1996, p. 7.
324
M. BARCELLONA M., L’interpretazione del diritto come
autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica dir. priv., 1991, p. 61.
325
Così M. BARCELLONA, ibidem.
326
Cassazione penale, V sez., 3.7.1991, in Foro it., 1992, II, 146.
327
Per ulteriori approfondimenti cfr. cap. 7.

126
estensiva e analogia. L’interpretazione estensiva sarebbe quella che
“tende ad allargare il campo di riferimento” del termine o
dell’espressione del testo normativo “fino a ricomprendervi
“oggetti” che ricadono nella fascia più sfumata della zona di
indeterminazione”.328 L’analogia, invece, applicandosi a fattispecie
diverse, ma congruenti con quella di partenza in alcuni aspetti
ritenuti essenziali, si avrebbe quando l’identità di ratio fa ricadere
entrambe le fattispecie nella stessa “area di similarità”.329
Sarebbe proprio la contrapposizione tra ambito dell’”area di
significanza” e ambito della “area di similarità” a differenziare
l’interpretazione estensiva dall’analogia. Andando oltre la mera
distinzione linguistica, tuttavia, e scendendo ad analizzare in che
cosa consista questa estensione dall’interno o all’esterno di questo
nucleo forte della norma, emerge un tentativo di distinzione
piuttosto antico. Infatti poco oltre la differenziazione sul piano
semantico dell’interpretazione estensiva e dell’analogia si legge
nella sentenza che il primo procedimento sarebbe “pur sempre
legato al testo della norma esistente”, mentre il secondo sarebbe
“creativo di una norma nuova che prima non esisteva”.330 Questo
non solo spiegherebbe l’inapplicabilità del procedimento analogico
alle leggi penali, causa il divieto del nulla poena sine lege sancito
dall’articolo 1 c.p. e dall’articolo 25 della Costituzione: un
procedimento qualificantesi come “creativo” di una norma nuova
diverso dal procedimento legislativo non potrebbe, infatti, che
infrangersi contro la previsione del citato divieto. Tale impostazione
segna anche il ritorno alle vecchie impostazioni che tentavano di
distinguere sulla base dell’approccio dichiarativo o creativo
l’interpretazione estensiva dall’analogia, registrando un
allontanamento dagli spunti che l’analisi semantica sembrava avere
aperto.
In conclusione, pur ricorrendo all’impostazione semantica,
non ci si discosta dall’intendere l’interpretazione estensiva come un
rimanere nell’ambito della norma pur se dilatata fino al limite della
328
Così Cassazione penale 3.7.1991, ibidem.
329
Così Cassazione penale 3.7.1991, ibidem.
330
Cfr. Cassazione penale 3.7.1991, ibidem.

127
sua massima espansione linguistica, e l’analogia, al contrario, come
un uscire dalla norma per l’impossibilità di ricomprendere il caso
dentro la norma, per quanto se ne allarghi il significato fino alla sua
massima estensione.331
Il problema, tuttavia, sta proprio qui, cioè nel determinare
quando, effettivamente, si possa dire che il significato di una norma
sia stato esteso fino alla sua massima espansione; di come, cioè, si
fissi il criterio in base a cui “ragionevolmente” un significato si
debba catalogare come eccedente rispetto alla “area di significanza”
della norma.
Alcuni autori332 hanno, su questa scia, distinto altrimenti il
ricorso all’interpretazione estensiva da quello all’analogia. Il primo
sarebbe dettato dalla “necessità logica” di evitare gli effetti assurdi
derivanti dall’assumere i termini linguistici contenuti nelle norme
nella loro accezione più ristretta, mentre il secondo procederebbe
per “similitudine di rapporti”, creando, così, norme nuove.
Per quanto, però, si parli di “necessità” e di “similitudine” non
si riesce a delineare un criterio preciso di distinzione tra i due
procedimenti, o meglio, di determinazione del confine tra l’uno e
l’altro.
A ben guardare, però, quella che il giudice o comunque
l’interprete fanno nel collocare il caso entro la presunta “area di
significanza” ovvero nella “area di similarità” della norma non è
altro che un’operazione ermeneutica, dato che si risolve in un
“interpretare come è opportuno interpretare” il caso al fine di
attribuirgliene la regolamentazione. Operazione ermeneutica che,
però, si avvale di un ragionamento “di tipo analogico”,333 fondato su
“coincidenze e sovrapposizioni, o divergenze e sfasature” tra il caso

331
Cfr. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale - parte generale, XI ed.,
Milano, 1989, p.85; M. BOSCARELLI, Analogia e interpretazione estensiva nel
diritto penale, Palermo, 1955, p. 68 ss.
332
Così V. MANZINI, Trattato di diritto penale, Torino, 1982, I, p. 344.
333
Cfr. G. FINADACA- E. MUSCO, Diritto penale, Bologna, p. 103.

128
da giudicare e quelli che sicuramente si possono far rientrare nella
norma.334
Ma allora, se quello che l’interprete deve svolgere è un
compito ermeneutico che si avvale di un ragionamento di tipo
analogico, è facile vedere come anche il procedimento di
interpretazione estensiva e quello dell’analogia, in realtà, vadano
coincidendo. E, sulla base di un comune operare “logico” nella
struttura aperta del linguaggio - anche normativo - sembrerebbe,
dunque, ben difficile individuare una netta linea di confine tra i due
procedimenti.

334
Cfr. M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, Milano,
1987, I, p. 45.

129
10.2. Interpretazione e creazione: fisiologia e
patologia ermeneutica

10.2.1. Insostenibilità di una distinzione qualitativa tra


integrazione e interpretazione sulla base dell’antitesi
creatività/dichiaratività. Analogia e interpretazione estensiva come
processo sostanzialmente unitario. Impossibilità di stabilire un
confine tra integrazione e interpretazione naturale e fondamentale.

Respinta l’ipotesi “quantitativa” come discretiva dei


procedimenti di interpretazione estensiva e di analogia, quella, cioè,
facente capo ad un criterio “fondato sulla maggiore o minore
ampiezza dell’ipotesi normativa implicita nella norma da
interpretare o estendere”,335 riferita, dunque, all’intrinseca struttura
del linguaggio normativo - come illustrato nel paragrafo precedente
- si affaccia in dottrina quella che è stata definita come la
“distinzione qualitativa”336 che vede contrapposte, in modo
paradigmatico ai processi di interpretazione estensiva e analogia, la
funzione prettamente interpretativa a quella più propriamente
integrativa dei precetti normativi. Si è così giunti a parlare di una
sorta di antitesi tra interpretazione in funzione “dichiarativa” e
interpretazione in funzione “creativa”, riconoscendo che, se pure
fosse possibile negare ogni distinzione tra la struttura logica dei
processi di interpretazione estensiva e analogia, non sarebbe,
nondimeno, possibile negarne una distinzione sulla base della

335
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 353.
336
Cfr. L. CAIANI, op. loc. ult. cit.

130
rispettiva funzione. E questo potrebbe essere un argomento a favore
della tesi che vogliamo sostenere.
Tuttavia, i punti di attrito che la detta partizione offre sono
almeno due. Da un lato si rende, comunque, necessario esplicitare il
confine tra la dichiaratività e la creatività del processo
interpretativo: quando l’interpretazione finisce di essere dichiarativa
e comincia, invece, a qualificarsi come creativa?
Non si pensi che questa sia una questione meramente
classificatoria: dalla scelta che si fa - per il carattere di creatività
ovvero di dichiaratività - in merito ad un’interpretazione discende,
secondo questa impostazione, l’ammissibilità o meno di tale
procedimento. Basti pensare al campo penalistico dove decidere se
una certa interpretazione è creativa o meramente dichiarativa
diventa non soltanto un fattore di qualificazione, ma legittimante
quella medesima interpretazione.
D’altro canto, un ulteriore punto debole della partizione
delineata è costituito dalla necessità di individuare e di intendersi
sul significato di quella che viene classificata come funzione
“dichiarativa” e, per contro, dell’attività più propriamente
“creativa”.
Dare ad un’applicazione analogica il carattere di
interpretazione ovvero di creazione si qualifica ben presto, in realtà,
come una “questione meramente verbale”, come la definiscono sia
Bobbio337 che Caiani.338 Infatti confinare un’interpretazione in un
ambito puramente dichiarativo significa disconoscere il carattere
stesso dell’interpretazione così come si è venuta delineando finora,
operante entro una “attività spirituale obbiettivata in una forma
rappresentativa”,339 quale è la norma interpretanda, e mai passibile,
invece, di essere ridotta a mera recezione di un contenuto
obbiettivato.

337
N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano, Torino,
1957, p. 604.
338
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 354.
339
Così L. CAIANI, op. loc. ult. cit.

131
Anche Antolisei espunge dalla sua partizione
dell’interpretazione “rispetto ai risultati” quella che identifica come
interpretazione dichiarativa - contrapponendola all’interpretazione
restrittiva o estensiva - ma con una motivazione che, in realtà, prova
troppo. L’interpretazione dichiarativa può essere eliminata come
categoria, egli scrive, perché “l’interpretazione è sempre
dichiarativa, in quanto il suo scopo essenziale è di spiegare e,
quindi, dichiarare il senso della legge”.340
È chiaro che l’operazione concettuale sottesa a queste due
impostazioni, pur se diretta in entrambi i casi a espungere
dall’orizzonte ermeneutico la categoria della dichiaratività, procede
per vie decisamente antitetiche. Nell’impostazione di Antolisei,
infatti, si nega l’antitesi tra dichiarazione e creazione sostenendo
che l’antitesi non sussiste, dato che l’interpretazione è per
definizione dichiarativa. Nell’impostazione di Caiani, invece, si
nega la stessa antitesi affermando che l’interpretazione non può mai
ridursi a mera dichiarazione, essendo contenuta in ogni attività
interpretativa una componente creativa data da quella che definisce
la “collaborazione simpatetica”341 dell’interprete secondo i canoni
di “attualità dell’intendere” e di “spiritualità dell’interprete” come
insegnano le categorie bettiane.342 Sulla base di quanto si è venuto
sostenendo nei capitoli precedenti non si può che aderire a questa
seconda impostazione.
Emerge, dunque, la velleitarietà della distinzione “qualitativa”
tra interpretazione estensiva ed analogia sulla base della funzione
dichiarativa ovvero integrativa dell’interpretazione medesima
proprio perché viene a mancare la stessa categoria della
“dichiarazione”. Si fa strada, al contrario, l’impostazione che
riconosce in quella che si era delineata come un’antitesi - tra
interpretazione e integrazione, tra dichiarazione e creazione - un

340
F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale - parte generale, XI ed.,
Milano, 1989, p. 76.
341
L. CAIANI, op. loc. ult. cit.
342
Cfr. E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 10
ss.. Per l’approfondimento delle tesi di Betti sull’integratività e creatività
dell’interpretazione vedi infra.

132
processo “fondamentalmente unitario”343 che non segna un confine
tra dove inizia la creazione e dove finisce la dichiarazione proprio in
virtù del fatto che “la stessa interpretazione è in questo senso
sempre integrazione del diritto”.344
Con queste precisazioni anche l’altro aspetto sottolineato,
quello della definizione di che cosa significhi, effettivamente, fare
attività di creazione, assume un connotato più preciso. “Se s’intende
“interpretazione” in senso ristretto, come mera ricognizione del
significato di una disposizione legislativa, si dirà che estendendo la
portata di una disposizione [...] non si compie opera
d’interpretazione, ma di creazione. Allo stesso modo, se s’intende
“creazione” in senso ristretto come produzione originale e originaria
di una norma giuridica, si dovrà dire che l’analogia non è creazione
perché giunge al proprio risultato partendo da una norma
precedentemente data”.345 Le parole di Bobbio esprimono in
maniera assai efficace come questa distinzione non sia che
“meramente verbale”, come detto, e come si riveli determinante
chiarire quale estensione assuma la stessa definizione di “creazione”
in ambito interpretativo per uscire dal circolo vizioso.
Se l’attività di creazione di una nuova norma, cui l’analogia -
contrariamente all’interpretazione estensiva - darebbe luogo,
consiste nella “produzione originale e originaria di una norma
giuridica” è chiaro che si viene, tuttavia, ad accostare il fenomeno
interpretativo a quello legislativo e, anzi, non si riesce più a
individuarne il discrimine. L’attività “creativa” del giudice-
interprete, pertanto, si verrebbe caratterizzando in due diversi modi,
così come li individua Caiani nella sua analisi.

343
Cfr. L. CAIANI, op. loc. ult. cit.
344
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 355.
345
N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano, Torino,
1957, p. 604-605.

133
Da un lato si manifesterebbe in un’opera di “traduzione”346
della volizione astratta e tipica contenuta nella norma in una
volizione concreta e particolare del caso specifico: la creatività
emergerebbe proprio nel passaggio dalla fattispecie astratta a quella
concreta.
D’altro canto l’emanazione della sentenza che definisce
un’interpretazione come corretta costituirebbe il fulcro di tale
attività creativa, alla stregua di quanto accade per il fenomeno
normativo, sulla scorta della considerazione della sentenza,
appunto, come legge del caso particolare.
Come si può vedere, tuttavia, e come lo stesso Caiani non ha
mancato di osservare, entrambe le prospettive presentano i caratteri
della parzialità dovuta al fatto che l’attività interpretativa, per
quanto si è fin qui affermato, non è in sé né meramente dichiarativa,
né meramente creativa per cui l’accentuare esclusivamente sulla
creatività l’analisi del fenomeno ermeneutico non può che far
emergere le aporie che si presentano su questa via.
Per quanto concerne il secondo aspetto, quello che individua
l’attività creativa nell’applicazione giudiziale, è facile notare che se
si può accordare una qualche credibilità alla visione che riconosce
alla sentenza la caratteristica di legge del caso particolare, o di
“norma individuale”, come la definisce Kelsen,347 è tuttavia difficile
limitare il fenomeno interpretativo a quello che avviene in sede
giudiziale. Non si spiegherebbero, cioè, quelle che tradizionalmente
sono state classificate come interpretazioni dottrinali o scientifiche.
Non si spiegherebbe nemmeno, poi, il fenomeno già analizzato del
conflitto delle interpretazioni, se non come un costante conflitto
diremmo così “normativo” che giunge a scalfire lo stesso concetto
di positività e quindi anche di validità normativa. Senza parlare, in

346
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 355.
347
Cfr. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. a cura di
R. Treves, Milano, 1952, cap. XI.

134
aggiunta, della necessità di stabilire un confine tra la fisiologia e
patologia della stessa creatività giudiziale.348
Respinta, quindi, per l’impostazione che si è data al concetto
di interpretazione, l’ipotesi “giudiziale” della creatività ermeneutica
rimane da analizzare il primo indirizzo, quello riferentesi al
processo di “traduzione” insito nell’atto interpretativo della norma
astratta in fattispecie concreta, momento in cui si rivelerebbe la
caratteristica creativa e in cui - si ricordi - sarebbe possibile,
giungere ad una distinzione tra il procedimento dell’interpretazione
estensiva e quello dell’analogia.
Ma se si riconosce carattere creativo nelle pieghe di questo
processo che sembra avvicinarsi troppo a quello della sussunzione
le osservazioni sono almeno due.
Da un lato, per le analisi fin qui condotte sul fenomeno
ermeneutico, si deve mantenere una certa distanza dall’adesione allo
schema della sussunzione,349 contro il quale lo stesso Betti ebbe ad
indirizzare la sua arguta critica, sostenendo350 che adottarlo fosse
proprio dei “fanatici del positivismo giuridico e della certezza delle
leggi” e non significasse che “seguire una concezione statica e
antistorica del diritto positivo”.
Dall’altro si può anche riconoscere il carattere di creatività al
processo - sia esso qualificabile o meno nello schema della
sussunzione - che collega il “caso” alla norma, ma allora questo non
è che lo svolgersi normale dell’atto di interpretazione, che diventa
integrativo della norma proprio perché, si potrebbe dire,
interpretativo, e nella misura in cui la interpreta o, per dirla con le
categorie bettiane, la attualizza, la intende nell’attualità.
Ma allora se, nel senso qui delineato, l’integratività
dell’interpretazione si spende nello stesso processo ermeneutico,

348
Cfr. G. MARINI, Crisi della legge e interpretazione, in Riv. dir. civ.,
1988, II, 168, nota 5; M.A. CATTANEO, Considerazioni sul significato
dell’espressione “i giudici creano diritto”, Atti del VII congresso della Società di
Filosofia Giuridica e Politica, Milano, 1966, vol II, p. 256 ss.
349
Sulla critica all’applicazione del diritto come pura sussunzione vedi
infra.
350
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 49.

135
cade anche l’impostazione che tentava di distinguere tra
l’interpretazione estensiva e l’analogia sulla base della
dichiaratività, o quanto meno della non creatività, dell’una e, al
contrario, dell’integratività dell’altra, offrendo un ulteriore
appoggio alla tesi dell’equiparazione tra estensione ed analogia,
opposta a quella che vogliamo sostenere.
Si può allora evidenziare l’impossibilità di stabilire un confine
tra quella che si è definita come interpretazione “fondamentale” o
naturale351 e l’interpretazione analogica.
La prima consisterebbe in una “relazione tra la formula e il
contenuto normativo”,352 porterebbe alla conoscenza di ciò che il
dettato normativo immediatamente rappresenta e condurrebbe alla
ricognizione tanto degli effetti giuridici implicati dalla norma
quanto dei casi che condizionano tali effetti. L’interpretazione
fondamentale avrebbe, pertanto, carattere per così dire “finito” data,
appunto, la finitezza dei casi che nella ratio di una norma si
possono dire contemplati.
Al contrario l’interpretazione analogica sarebbe caratterizzata
da una conoscenza solo indiretta di ciò che la formula normativa
vale a rappresentare dato che arriverebbe a tale conoscenza non
mediante un’operazione ricognitiva ma logica, in grado, tra l’altro,
di estendersi in maniera “infinita”, data l’infinità dei casi che per la
ratio di una norma si possono dire contemplati.
Ma se, come si è venuto descrivendo, il processo
interpretativo non si esaurisce in una mera ricognizione né, d’altro
canto in una totale integrazione logica, si concorda anche sul fatto
che è, quello ermeneutico, e in particolare quello afferente il
procedimento analogico, un ragionamento di natura complessa. Si
potrà discutere sul fatto che esso sia, come lo definisce Bobbio,353
un ragionamento simile a quello entimematico, tuttavia si dovrà

351
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 354; M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in
Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 642.
352
M. BOSCARELLI, op. loc. ult. cit.
353
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, parte II,
cap II.

136
convenire che, respinte le partizioni cui si è fatto cenno, emerge la
prepotenza di una sorta di “intuizione analogica”354 all’interno di
ogni approccio ermeneutico, tanto da giungere a concordare con
Höffding che ebbe a definire l’analogia come il Leitmotiv di ogni
ricerca giuridica.355
Resta da capire il perché.

354
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958, p. 357.
355
H. HÖFFDING, Der Begriff der Analogie, Leipzig, 1924, citato da L.
CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II,
Milano, 1958, p. 357.

137
10.2.2. Da Carnelutti a Betti sulla distinzione auto-etero
integrazione; ricorso ai principi e auto (o etero?) integrazione.
Autopoiesi formale e materiale. L’adeguazione dell’intendere di
Betti. La chiarificazione, l’adattamento. La norma si adegua
automaticamente alle condizioni storiche evolvendosi con esse: si
modifica il contenuto della norma. Inoltre il mutare dei rapporti
sociali reagisce sull’originaria ratio iuris (Betti).

La dottrina ha tradizionalmente distinto, ma con


consapevolezza almeno a partire da Carnelutti,356 all’interno della
categoria ermeneutica che delinea il procedimento integrativo i
mezzi cosiddetti di “autointegrazione” da quelli di
“eterointegrazione”.
Fra i primi si sono compresi principalmente l’analogia e il
ricorso ai principi generali dell’ordinamento, qualificandoli come
“mezzi naturali di integrazione, [...] tratti dallo stesso ordinamento,
o meglio dalla sua intrinseca razionale capacità di sviluppo”.357 Non
avrebbe senso, per questi, nemmeno parlare di un rinvio da parte
dell’ordinamento, data la naturalità del ricorso ad essi.
Fra i secondi, al contrario, si sono compresi soprattutto la
consuetudine e il ricorso a norme provenienti da ordinamenti
giuridici diversi da quello vigente e per essi soltanto, perciò,
avrebbe un senso la posizione di un rinvio, trattandosi,
essenzialmente, di fonti di produzione diverse cui fare richiamo.
Altrove si è parlato, al contrario, di tecniche di integrazione
autopoietica,358 tra cui si comprende l’interpretazione estensiva, che

356
Cfr. F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, III ed., Roma, 1951,
pp. 86 ss.
357
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958, p.352.
358
Cfr. M. BARCELLONA M., L’interpretazione del diritto come
autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica dir. priv., 1991, 56.

138
vedono il conflitto o la situazione sociale non contemplati dalla
previsione normativa essere sottoposti, comunque, a un “principio
di regolazione giuridica” e l’applicazione di un’estensione
interpretativa come un’opera di “ridislocazione di tale conflitto o
situazione da un sottoambito ad un altro”.359 Interessante in questo
inquadramento è il fatto che tanto l’analogia quanto
l’interpretazione estensiva vengono qualificate come forme di
autopoiesi materiale,360 in contrapposizione a quella che viene
definita autopoiesi formale e che qualifica la rinnovazione
normativa, cioè l’adeguamento ad una nuova realtà sociale o ad una
nuova esigenza di regolazione attraverso la posizione di una nuova
norma. Le tecniche di autopoiesi materiale, al contrario, non
vengono aggiungendo, secondo questa impostazione, nuove
rationes a quelle già esistenti nel sistema giuridico, ma si limitano
ad allargare quelle rationes già contemplate dal sistema. In tale
senso costituirebbero una fonte di autoriproduzione, per via
d’interpretazione, dell’ordinamento giuridico medesimo.
Anche Betti riconosce alle partizioni di Carnelutti un qualche
valore, soprattutto dove indica l’integrazione interpretativa, o
meglio il nesso tra interpretazione e integrazione come un nesso di
autointegrazione,361 tuttavia giunge a darne un taglio nuovo.
La “ricognizione contemplativa del significato proprio della
norma considerata nella sua astrattezza e generalità”362 non
costituisce che un momento dell’attività dell’interprete, cioè il
momento concernente quella che si è detta attività di
“chiarificazione”. Da questa chiarificazione parte il nesso, detto di
autointegrazione, con lo “sviluppo individualizzante”, negato dai
formalisti e da coloro che assumono l’attività giudiziale e in
particolare la sentenza come atto di volontà del giudice, il nesso,
cioè, con l’attualizzazione e l’adeguazione al presente

359
Cfr. M. BARCELLONA M., L’interpretazione del diritto come
autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica dir. priv., 1991, 56.
360
Cfr. M. BARCELLONA M., L’interpretazione del diritto come
autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica dir. priv., 1991, p. 59.
361
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., par. 11.
362
E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 50 ss.

139
interpretativo. Questo, che viene detto “sviluppo integrativo”363
opera, secondo Betti, mediante apprezzamenti o giudizi di valore, la
cui formazione è compito del criterio o intento assiologico.
La dimensione “autointegrativa”, pertanto, si sviluppa in
quanto lo stesso giudizio di valore viene definito come il
“riconoscimento di un valore che ci illumina e ci convince e che
riscontriamo nel dato fenomenico: è non pura Bekenntnis ma
Erkenntnis”,364 non tanto una dichiarazione quanto un processo
conoscitivo, gnoseologico.
Alla base del processo interpretativo vi è, secondo Betti, un
affidamento della dichiarazione normativa sulla cooperazione del
destinatario: essa pone in collaborazione l’interprete con lo spirito
che appare come l’”autore della dichiarazione” e, in quanto
collaborazione, l’interpretazione è necessariamente creazione.365 Il
problema che si pone è, dunque, relativo alla natura di tale
integrazione creativa: ha essa carattere di creazione originaria e
indipendente, o derivata? Ovvero: è quella interpretativa una
nomogenesi, una creazione libera, spontanea, e in quanto tale anche
arbitraria, oppure è subordinata alla totalità del sistema giuridico
come “organica concatenazione di norme e alle esigenze
dell’ambiente sociale”?366
“L’interpretazione rimane sempre soggetta alle valutazioni
immanenti e latenti nell’ordinamento giuridico inquadrato
nell’ambiente storico e sociologico in cui vive”, scrive Betti,367 e
questo conferisce un carattere subordinato e vincolato a quella che
definisce interpretazione integrativa. È la stessa attualità, secondo
Betti, a conferire il carattere creativo all’interpretazione, tanto che la
363
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, loc. ult. cit.
Sul punto si veda anche il contributo di A. DE GENNARO, L’ermeneutica idealista.
Filosofia politica neoidealistica italiana ed interpretazione, Napoli, 1993, che si
sofferma sulla critica gnoseologia della giurisprudenza di Angelo Ermanno
Cammarata, Sul pensiero di Widar Cesarini Sforza, sulla meta – interpretazione
di Tullio Ascarelli, l’humus su cui germoglierà il pensiero dell’autore camerte.
364
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, loc. ult. cit.
365
E. BETTI, ibidem, p. 132 ss.
366
E. BETTI, op. loc. ult. cit.
367
E. BETTI, op. loc. ult. cit.

140
stessa norma ne risulta - contrariamente all’opinione di Sacco368 -
modificata.
Occorre tuttavia distinguere, secondo quanto viene sostenendo
il nostro autore, fra il piano della norma e quello della massima di
decisione che emerge dall’interpretazione giudiziale. Il fatto che la
sentenza, decidendo il caso particolare, venga delineando anche una
massima di decisione non deve, infatti, confondere né con il
fenomeno propriamente legislativo, come si è sopra evidenziato, né,
tuttavia, con un’operazione meramente contabile, da
369
amministratore, come si è avuto modo di osservare.
Betti segnala, perciò, la necessità di tenere inconfusi
nell’interpretazione giudiziale quelli che definisce “il profilo
ermeneutico di attività spirituale ricognitiva dal profilo giuridico di
attività normativa”.370 Il primo, in quanto attività “spirituale” si
manifesta sì, secondo Betti, come attività creativa, inventiva, ma
con i caratteri della subordinazione, del vincolo a una “oggettività
irriducibile”371 data dalla norma interpretanda all’interno del
contesto giuridico in cui si trova inserita.
368
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 140.
369
Vedi infra §. 1.2.1
370
E. BETTI, op. loc. ult. cit.
371
E. BETTI, op. loc. ult. cit. Ci sembra che in questo modo Betti intenda
ricucire tendenze opposte che avevano lacerato il dibattito giuridico europeo delle
generazione a lui precedente. In Francia, per es. Mornet e Cruet affermano che
l’interprete non è sempre vincolato alla lettera della legge, nè deve darle il
contenuto voluto dal legislatore quando l’una e l’altro non corrispondono alle
esigenze reali della vita moderna. D. MORNET, Du rôle et des droits de la
jurisprudence en matière civile, Paris, 1904; J. CRUET, La vie du droit et
l’impuissance des lois, Paris, 1908, citati in F. DEGNI, L’interpretazione della
legge, Napoli, 1909, p. 186. Non si possono dimenticare posizioni estreme, come
nella stessa Francia, per opera del celebre primo presidente del tribunale di
Château-Thierry, il giudice Magnaud, che conduce il diritto libero ai suoi ultimi
termini, in quanto, non curandosi affatto di disposizioni tassative di legge, quando
contrastano col suo temperamento o con le sue idee politico-sociali nega ad esse
qualunque valore, applicando, invece, un diritto che è perfettamente in antitesi
con quello che la legislazione positiva ha riconosciuto. Così l’ottimo F. DEGNI,
L’interpretazione della legge cit., p. 187. Si veda anche N. BOBBIO, Teoria
dell’ordinamento cit., p. 140. Fra i giuristi tedeschi, si possono ricordare lo
Stammler, che vuole che il giudice non sia schiavo della legge, ma, nei singoli

141
Emerge chiaramente, da questa impostazione, che precisa
meglio i caratteri della creatività giudiziale e dell’attività
ermeneutica, come ancora una volta si debba giungere a negare una
distinzione tra i procedimenti di interpretazione estensiva e di
analogia, se non altro sulla base della tradizionale partizione
appellantesi alla presenza o meno del dato creativo e della forza di
integrazione del precetto normativo fornita dal procedimento
ermeneutico.
Significativa è anche la sottolineatura che Betti fa in merito
agli strumenti cosiddetti di eterointegrazione cui si è fatto più
indietro cenno.
L’esigenza di eterointegrazione si manifesta, secondo Betti372
negli “apprezzamenti secondo equità”, in un’ampia valutazione
morale dei precetti normativi e in una sorta di “raddrizzamento”, di
correzione dei medesimi alla luce di tali apprezzamenti. Questa
operazione, tuttavia, non è condotta, secondo Betti, sulla scorta del
mero senso giuridico del giudice bensì mediante l’uso degli
“strumenti” di eterointegrazione tra cui emergono i principi generali
del diritto.
Ai principi generali significativamente Betti attribuisce, anzi,
una forza di espansione non meramente logica, quanto assiologica.
Per tale via giunge, dunque, a risolvere la vexata quaestio relativa
all’inserimento del ricorso ai principi generali tra i mezzi di
autointegrazione ovvero di eterointegrazione: il dato assiologico che

casi, indaghi qual è il diritto giusto (gerechtes Recht), il diritto secondo giustizia,
che ha esigenze del tutto diverse, in molti casi del tutto opposte, da quelle che,
nella società moderna, il diritto dello Stato può soddisfare; lo Stampe, che,
combattendo l’analogia e le costruzioni giuridiche, sostiene che, accanto al diritto
statale, deve affermarsi e aver vigore il diritto libero, che corrisponde agli
interessi reali della vita e che il giudice deve indagare liberamente, valutando,
come farebbe il legislatore, i diversi interessi da soddisfare (interessenwägung),
sino al punto che, in casi estremi, quando la legge non si trova d’accordo con le
esigenze pratiche, il giudice può sentirsi autorizzato a disapplicarla. R.
STAMMLER, Die Lehre von dem richtigen Rechte, Berlin - Leipzig 1902; E.
STAMPE, Rechtsfindung durch Konstruktion, in Deutsche Iuristen-Zeitung, 1905,
p. 417, citati in F. DEGNI, L’interpretazione della legge, Napoli, 1909, p. 189.
372
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 144.

142
li caratterizza li pone, perciò, sul confine tra l’una e l’altra
categoria.
Interpretare, secondo questa visione, non è, dunque,
solamente tornare a conoscere una proposizione normativa, ma
integrarla e realizzarla nella vita di relazione373 e in questa
prospettiva, allora, si spende anche il canone dell’adeguazione
dell’intendere374 cui sovente Betti fa cenno.
È opportuno sottolineare ancora una volta, tuttavia, che data la
razionalità di una norma, cioè individuata una correlazione tra il
contenuto e la ratio legis, l’attualizzazione della norma non
avviene, secondo l’impostazione bettiana, attraverso la posizione di
una nuova norma, bensì è la stessa norma che automaticamente si
adegua alle condizioni storiche evolvendosi con esse,375 cosicché lo
stesso contenuto della norma viene ad essere mutato e, come lo
stesso Betti scrive, “il mutarsi dei rapporti sociali reagisce [anche]
sull’originaria ratio iuris”.376
Ma se questo adattamento non è altro che l’interpretazione
evolutiva, l’antitesi interpretazione-integrazione può avere ancora
una qualche validità solo nell’ambito dell’autopoiesi formale, cioè
nella creazione di una nuova norma ad opera degli organi legislativi
competenti e non nell’ambito della funzione ricognitiva.
Nell’adattamento ricognitivo, che si avvale di quella che si è
definita come intuizione analogica, viene a giocarsi
l’attualizzazione medesima, cosicché viene confermata ancora una
volta la natura interpretativa dell’analogia377- desumibile proprio
dalla funzione ricognitiva - e l’apparente impossibilità di

373
G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di Emilio
Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, 786.
374
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 276; E. BETTI,
Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 56 ss.
375
Ne dà questa interpretazione M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in
Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 645.
376
E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 62.
377
Cfr. M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.
1954, p. 646.

143
distinguerla, per questa via, dal procedimento di interpretazione
estensiva.

144
10.2.3. Attualità nella giurisprudenza sulla dichiaratività-
creatività. Il problema della “falsa applicazione” delle norme. La
Corte costituzionale e la sua vocazione paralegislativa nel rapporto
integrazione-creazione-interpretazione. La nomofilachia come
diretta espressione del principio di uguaglianza (uniforme
interpretazione della legge). Libera ricerca del diritto. Law in
action, law in public action. Tesi: possibilità di intendere
l’interpretazione estensiva e l’analogia come raccordo tra statute
law e common law

Le teorizzazioni in merito alla dichiaratività o creatività dei


procedimenti interpretativi hanno, evidentemente, influenzato anche
le decisioni giurisprudenziali nonostante il panorama giudiziale
presenti una certa eterogeneità. Sicuramente prevalente è
l’impostazione tradizionale, tesa a distinguere l’interpretazione
estensiva dall’analogia sulla base proprio del carattere non
integrativo della prima rispetto alla seconda.
Si evidenzia, invece, più che per l’originalità della posizione,
per il tipo di critiche cui ha dato luogo una sentenza della
Cassazione civile del 1959, annotata da Laserra.378 La sentenza
stabiliva l’ammissibilità dell’interpretazione estensiva,
contrariamente a quella analogica, in materia di leggi tributarie,
consentendo la ricomprensione nelle norme concernenti benefici
fiscali379 di tutti i casi a cui le norme stesse si potessero riferire,
“nella lettera e nello spirito”. Laserra nota come la sentenza

378
Cassazione civile, I sezione, 9.8.1959 n. 2500, in Giur. it., 1961, I, 1,
101 e ss., con nota di G. LASERRA.
379
Nella fattispecie concreta si trattava di estendere benefici fiscali
concessi all’Opera Nazionale Dopolavoro anche all’Ente Nazionale Assistenza
Lavoratori, succeduto a tutti gli effetti all’O.N.D, nonché ai Circoli Ricreativi
Assistenza Lavoratori che, in base a sentenza, si sosteneva avere sostituito i
dopolavoro comunali e aziendali.

145
nasconda tra le sue pieghe un’impostazione triadica in merito
all’attività interpretativa. Da un lato sarebbe posta l’interpretazione
dichiarativa o non elaborante, contrapposta, dall’altro,
all’interpretazione analogica: tra queste starebbe un tertium genus
dato dalla vera e propria interpretazione estensiva. Quest’ultima,
poi, si differenzierebbe dall’interpretazione dichiarativa per una sua
“maggiore latitudine di indagini e risultati”380 mentre, al tempo
stesso, finirebbe per coincidervi in antitesi all’interpretazione
analogica per essere questa soggetta - diversamente
dall’interpretazione dichiarativa ed estensiva - a generalità
indiscriminata di applicazione.
Laserra critica questa tripartizione ricavabile dalla sentenza
finendo, però, per riconoscere, al contrario, una bipartizione tra
interpretazione dichiarativa o non elaborante, che resta nell’ambito
della norma, e interpretazione elaborante, che esce dal “tema” della
norma stessa, o, come la definisce, dalla suità normativa.381 Viene
subito precisando, tuttavia, che, in realtà, la categoria
dell’interpretazione estensiva tende a perdere rilevanza autonoma,
dato che finisce per coincidere con l’analogia382 e che

380
Cfr. G. LASERRA, Critica della interpretazione estensiva, in Giur. it.,
1961, I, 1, 102.
381
Cfr. G. LASERRA, Critica della interpretazione estensiva, cit., p. 103.
382
Cfr. G. LASERRA, Critica della interpretazione estensiva, cit., p., 103.
Al contrario, la distinzione può rivelarsi utile in pratica. Lo stesso tema della
nostra ricerca muove dall’osservazione di come molto spesso i giudici, laddove la
normativa non sia suscettibile di applicazione analogica, ricorrono, per operare
ugualmente l’estensione, all’interpretazione estensiva. Per es., in tema di
assicurazione contro le malattie professionali, si dice che “le elencazioni
contenute nelle indicate tabelle ( ex art. 3 del d. P. R. 30 giugno 1965 n. 1124)
hanno carattere tassativo, ma ciò se vieta l’applicazione analogica delle relative
previsioni (presunzione a favore dell’assicurato di eziologia professionale), non è
di ostacolo ad un’interpretazione estensiva della medesima, con la conseguenza
che la suddetta presunzione è invocabile anche per lavorazioni non espressamente
previste nelle tabelle, ma da ritenersi in esse implicitamente incluse, alla stregua
dell’identità dei loro connotati essenziali, ferma restando l’inapplicabilità della
presunzione stessa per lavorazioni che presentino solo caratteri di mera
somiglianza o prossimità con quelle tabellate. Nella specie, la sentenza
impugnata, confermata dalla S. C., aveva escluso che potesse rientrare nella

146
l’interpretazione dichiarativa, o non elaborante, finisce per non
essere altro che l’interpretazione non delle mere parole della norma
- ché, altrimenti, si ridurrebbe a interpretazione letterale - ma del
“problema pratico” della formula legislativa.
Laserra dichiara esplicitamente di rifarsi alle tesi di Betti, ma
che cosa significhi, secondo la sua impostazione, venire
interpretando codesto problema pratico della norma reswta tutto da
chiarire.

valutazione tabellata “prove di motori a scoppio” di cui all’allegato 4 del d. P. R.


n. 1124 del 1965, nel testo sostituito dal d. P. R. n. 482 del 1975, l’attività di
conducente di autobus di città con motore diesel. Cass. Civ. sez. lav., 15/4/1994,
n. 3556. In tal senso, Consiglio di Stato sez. V, sent. 14/10/1992 n.987: “La
tassatività dell’elencazione legislativa (lg. 28/1/1977 n. 10, art. 9) dei casi di
concessione edilizia gratuita non esclude la possibilità di individuare una regola
generalmente applicabile, attraverso un’interpretazione anche estensiva delle
norme che escludono per certe opere la onerosità della concessione”. Per
l’equiparazione, T.A.R. Lazio sez. II, sent. 20/12/1983 n. 1269: “Non è possibile
un’interpretazione estensiva e/o analogica della normativa posta dall’art. 8 l. 25
marzo 1982 n. 94, che ha introdotto la procedura del silenzio-assenso in tema di
concessione edilizia, stante il carattere derogatorio ed eccezionale di tali
disposizioni rispetto all’intero sistema ordinamentale urbanistico-edilizio, che
presuppone il rilascio di un esplicito formale atto di concessione per l’esecuzione
di opere edilizie”.
In senso contrario all’identificazione tra analogia e interpretazione
estensiva, si veda Cass. Civ., sez. lav., sent. 18/3/1981 n. 1800: “Per le
disposizioni di diritto singolare, è vietata (ex art. 14 Prel.) soltanto la
interpretazione analogica, mentre è consentita quella estensiva; ma neppure a
quest’ultima può farsi luogo se la ratio legis non persuada che il legislatore ebbe
in mente di estendere il suo precetto a casi apparentemente non contemplati. (Il
principio è stato affermato nella specie per escludere l’applicabilità -in via
analogica o d’interpretazione estensiva- al rapporto di lavoro privato della
legislazione in materia di pubblico impiego).
Così anche Cass. pen., sez. V, sent. 8/1/1980 ove si afferma che
“l’interpretazione estensiva, che non va confusa con l’estensione analogica, in via
di principio vietata in materia penale (art. 14 Prel. e art. 1 c. p.), si ha quando
l’ambito di applicazione di una norma penale viene esteso ad un caso che, pur
non essendo espressamente ivi previsto, si deve ritenere compreso nella norma
stessa risalendo all’intenzione del legislatore”.

147
Anche la famosa sentenza della Cassazione civile del 1949,383
commentata da Bobbio, afferma che il giudizio che si avvale
dell’analogia non crea la norma giuridica ma “la trova nella
legislazione positiva e se ne avvale per la somiglianza dei due casi
che meritano un conforme regolamento”. Si avalla, cioè, la tesi
secondo cui non è il carattere creativo o meno del procedimento a
differenziare l’analogia dall’interpretazione estensiva anche se,
tuttavia, rimane scoperto il fianco all’obiezione secondo cui non
sarebbe la creazione, ma l’integrazione il carattere differenziatore.
Significativa per delineare il percorso giurisprudenziale in
merito alla dichiaratività o alla creatività dell’interpretazione e per
chiarire anche meglio il punto lasciato scoperto dalla sentenza
commentata da Bobbio rimane, comunque, la già citata sentenza
della Cassazione penale del 1983384 che, ponendo l’accento
sull’oggettivizzarsi della norma al momento della sua entrata in
vigore, impone un’interpretazione attualizzante, escludendo, perciò,
esplicitamente, in questa operazione, tanto l’interpretazione
estensiva quanto l’analogia. Il fatto di dover interpretare la norma
secondo il riferimento alla situazione esistente al momento della sua
applicazione fa sì che la “nuova fattispecie” rientri direttamente
nella previsione della norma, in particolare, come dice la sentenza,
nel suo “significato letterale e logico” cosicché, come si è venuti
esprimendo, è la stessa interpretazione a “modificare” la norma.
Queste posizioni, che in parte riflettono il dibattito dottrinale
intorno alla creatività giudiziale e alla sua ammissibilità, debbono
essere tenute presenti nell’accostarsi alla problematica della “falsa
applicazione” delle norme di diritto.
È noto, infatti, come tra i motivi della ricorribilità in
Cassazione vi sia la violazione o falsa applicazione delle norme di
diritto, nel giudizio civile (art. 360 n. 3 c.p.c.), cui si avvicina
l’erronea applicazione della legge penale nel giudizio penale (art.
606, lettera b)). L’analisi approfondita del significato di questi
383
Cassazione civile, sez. II, 14.7.1949 n. 1801 in Giur. it. 1951, I, I, 229-
232; vedi supra § 3.3.1
384
Cassazione penale, sez. V, 12.10.1982 in Giust. pen. 1983, II, 633; vedi
amplius supra § 2.4.2.

148
articoli porterebbe troppo lontano rispetto al compito che ci siamo
proposti. Non deve, tuttavia, essere perso di vista l’orizzonte entro
cui, nel nostro ordinamento, si muove l’interpretazione giudiziale né
si debbono dimenticare i risvolti processuali cui questa o quella
interpretazione può dare luogo.
Significativo è, perciò, notare come tradizionalmente con
l’espressione “violazione di una norma” si sia indicata
l’interpretazione non combaciante con il “vero contenuto” della
norma mentre con la “falsa o erronea applicazione” si sia indicato il
travisamento del fatto e la sua riconduzione a una norma anziché ad
un’altra.385 Ciò significa che, al di là degli aspetti processualistici, si
è avallato il concetto di sussunzione e, quindi, ci si è spostati
sempre più vicini all’idea di interpretazione non elaborante in nome,
probabilmente, della vagheggiata certezza della legge.
Ma se la Cassazione è coinvolta nel procedimento
interpretativo proprio perché a quest’organo si può ricorrere in caso
di falsa interpretazione, non si deve dimenticare che il massimo
grado di creatività giudiziale si spende proprio grazie ai
“precedenti” stabiliti dalle sentenze della Cassazione.
Storiche, in questo senso, sono due sentenza della stessa corte
del 1983. Con la prima386 si stabilì il fondamentale principio
secondo cui il giudice di merito attende all’obbligo di motivazione
delle sentenze ai sensi dell’art. 132 n. 4 c.p.c. anche soltanto con il
“mero riferimento alla giurisprudenza della Cassazione”.
Con la seconda387 si completò dicendo che il giudice di
merito, pur essendo libero di non adeguarsi alle decisioni di altri
organi giudicanti e nemmeno della stessa Cassazione, tuttavia ha
l’obbligo, in tale caso, di “addurre ragioni congrue, convincenti a
contestare e a fare venire meno l’attendibilità dell’indirizzo
interpretativo rifiutato”. In pratica si stabilì che anche nel nostro
ordinamento le interpretazioni della Cassazione hanno valore di

385
Cfr. S. SATTA- C. PUNZI, Diritto processuale civile, Padova 1994, p.
536.
386
Cassazione civile, 13.5.1983 n. 3275 in Mass. Foro it., 1983.
387
Cassazione civile, 3.12.1983 n. 7248 in Mass. Foro it., 1983.

149
precedenti con una sorta di presunzione di conformità iuris tantum:
chi intenda discostarsene ha l’obbligo di dimostrare la fondatezza
del rifiuto. Significativo è aggiungere, a questo proposito, che tale
ultima sentenza andava contro una precedente sentenza del 1980388
che, essendo qualificabili come viziati i motivi della decisione solo
in relazione alla concreta fattispecie, e non perché in contrasto con
motivi addotti in “decisioni riguardanti fattispecie analoghe, simili,
o addirittura identiche”, il giudice non era tenuto a dimostrare, nella
motivazione della sua decisione, la “infondatezza o la non
pertinenza della giurisprudenza eventualmente difforme”.
Decidere per l’una o l’altra affermazione della Cassazione,
come si può vedere, non è neutrale in merito al problema
dell’interpretazione dato che significa anche dare credito o meno
all’ipotesi di creatività giudiziale interpretativa ovvero di rincorrere
un’ipotesi di référé legislatif - luogo dell’emarginazione per
eccellenza dei rimedi cosiddetti di autointegrazione - che pareva
ormai sepolta nelle pieghe della storia.
Una svolta in grado di salvare la vitalità interpretativa e allo
stesso tempo la perenne ansia di certezza giuridica sembra essere
offerta dalla Corte costituzionale, organo sovente accusato di
arrogarsi funzioni interpretative non proprie e, per questo, di avere
addirittura assunto poteri paralegislativi.389
La sentenza del 1986390 chiarisce che la constatazione che la
giurisprudenza in ordine all’interpretazione di una norma non sia
consolidata “al punto da rappresentare diritto vivente” non toglie
alla Corte il potere di esaminare la costituzionalità della norma
lasciando aperta la possibilità di “altre interpretazioni” quando non
sottoposte al vaglio di costituzionalità. Ossia, leggendo a contrariis,
quando un’interpretazione è divenuta diritto vivente non c’è spazio
per la posizione ermeneutica dell’organo della Consulta perché,

388
Cassazione civile, 17.3.1980 n. 1772 in Mass. Foro it., 1983.
389
Sul fenomeno che è stato definito di supplenza legislativa ad opera dei
giudici cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed., Milano,
1984, p. 211 e ss.
390
Corte Costituzionale, 3.3.1986 n. 42 in Giur. cost. 1986, I, 330.

150
quasi, è il diritto stesso ad avere dato di sé la propria
interpretazione.
È la Corte di Cassazione, lo dice una sentenza della Corte
costituzionale,391 ad avere funzione di nomofilachia e ciò, se da un
lato può costituire un’ammissione di supplenza legislativa da parte
della Suprema Corte, dall’altro lascia anche aperto il campo a colpi
di mano ermeneutici392 che scavalcano gli ordinari mezzi di
integrazione normativa - come l’analogia e l’interpretazione
estensiva - e giungono così, surrettiziamente, a introdurre
orientamenti e interpretazioni.
Una sentenza della Cassazione penale393 precisa come
l’uniforme interpretazione della legge significhi, in realtà,
uguaglianza di trattamento dei cittadini di fronte alla legge, e quindi
la funzione nomofilattica sia espressione di un principio
costituzionalmente stabilito. Funzione, questa, affidata a ciascuna
delle singole sezioni di Cassazione.
Significativa, tuttavia, è la precisazione che segue: la
pronuncia delle Sezioni Unite, cui si fa ricorso per porre fine a
incertezze interpretative a seguito di contrasti giurisprudenziali,
costituisce “una sorta di annuncio implicito di giurisprudenza futura
determinante affidamento per gli utenti della giustizia in generale e
per il cittadino in particolare”. In tali ipotesi, prosegue la sentenza,
“la funzione nomofilattica ha un peso dominante su altri valori”.
È evidente il rilievo delle affermazioni contenute in tale
sentenza anche ai fini del nostro discorso: riconoscere alla
pronuncia delle Sezioni Unite il valore di annuncio implicito di
giurisprudenza futura tocca l’autonomia dell’interprete e viene
anche ad assegnare alle pronunce della Suprema Corte un valore
pari a quello di interpretazione autentica.
Attribuire, poi, il crisma dell’idoneità a suscitare un legittimo
affidamento negli “utenti della giustizia” a tali pronunce significa
che si ammette che il cittadino-utente, lungi dal poter contare sui
391
Corte costituzionale 20.3.1985 n. 73 in Riv. amm. R.I. 1985, 738.
392
G. MARINI, Crisi della legge e interpretazione, in Riv. dir. civ. 1988, II,
p. 180.
393
Cassazione penale sez. III, 23.2.1994 in Giust. pen. 1995, II, 159.

151
canoni dell’adeguazione dell’intendere, sul farsi
dell’interpretazione, deve rimettersi, come ultima parola, alla
Suprema Corte, la cui capacità di far coincidere l’evoluzione sociale
con l’evoluzione ermeneutica è aprioristicamente data per certa.
Assegnare, infine, al giudizio delle Sezioni Unite un peso
dominante sugli altri valori giuridici ed ermeneutici non può non far
discutere sul senso, allora, da attribuire ai procedimenti
interpretativi dell’interpretazione estensiva e dell’analogia. Quale
valore dare a questi strumenti se, comunque, il peso dominante è
dato dalla decisione della Suprema Corte?
Sembrerebbe doversi legittimamente, perciò, affermare che
tali strumenti vengano operando solo laddove la Cassazione non sia
giunta con una sua pronuncia. “Se una controversia non può essere
decisa secondo una precisa disposizione” - come recita l’art. 12 -
non significherebbe altro, allora, che “se le Sezioni Unite della
Cassazione non si sono ancora pronunciate”.
Come si può intuire queste conclusioni, in realtà, provano
troppo, cosicché quella della funzione nomofilattica non è che un
ennesimo tentativo di rincorrere, per via del ricorso ad un organo
superiore che abbia la parola definitiva sulle varie interpretazioni, la
certezza e uniformità ermeneutica. Del resto la stessa
contraddittorietà tra pronunce della stessa Cassazione, fenomeno
non certo peregrino, non può che confermare che, se intesa secondo
l’impostazione data dalla sentenza della Suprema Corte qui
analizzata, il ruolo che si vuole attribuire a quest’organo si rivela
come quello di un “custode troppo timido di una difficile unità della
interpretazione”.394
Si potrebbe pensare che questo rinnegare il ruolo uniformante
della Suprema Corte significhi dare credito alla Freie Rechtsfindung
e avallare la discontinuità del diritto e nel diritto come regola. In
verità nemmeno le teorie antiformalistiche della scuola del diritto
libero hanno mai cercato di sostenere un potere dei giudici talmente
svincolato dal dato normativo da esaltare la creatività

394
Cfr. G. MARINI, Crisi della legge e interpretazione, in Riv. dir. civ.,
1988, II, p. 184.

152
giurisprudenziale al punto da ammetterla non solo intra et praeter
legem ma addirittura contra legem.395
“L’interesse principale dell’ermeneutica si dirige a conservare
e ampliare l’intersoggettività”,396 scriveva Habermas, ad un
“controllo di razionalità di tipo intersoggettivo”. La creatività
giudiziale, pertanto, si spende sì come law in action, come tendenza
a combaciare, sul piano teorico, con il dato evolutivo di un diritto in
fieri, ma anche come law in public action, come sviluppo, cioè,
delle istanze ermeneutiche date dal vivere sociale, da quella
“comunità giuridica” cui già si è fatto cenno.397
Viste in questa prospettiva, pertanto, l’interpretazione
estensiva e l’analogia potrebbero costituire un punto di raccordo tra
statute law e common law grazie alla contiguità, cui darebbero
luogo, tra l’allargamento per via analogica del senso della norma e
il reasoning from case to case tipico della tradizione anglosassone.
In realtà lo stesso Betti sembra mettere in guardia
dall’equivoco di questo accostamento, sottolineando come il
processo euristico volto a trovare il diritto nei precedenti non si
debba qualificare come interpretazione.
Betti chiarisce come esistano sì delle identità date dal comune
approdo ad uno sviluppo analogico del precetto ma, tuttavia, sia
necessario distinguere tra il processo interpretativo di testi
legislativi e il procedimento euristico di ricerca di un principio da
decisioni giurisprudenziali dotate di autorità. “Solo colà dove una
decisione o una giurisprudenza uniforme non fa altro che fissare una
regola o massima per un tipo definito di situazione di fatto”,
aggiunge Betti, “il processo logico sembra comparabile alla tecnica
di ritrovare una massima di decisione in un testo scritto”. 398
395
Cfr. G. MARINI, Crisi della legge e interpretazione, in Riv. dir. civ.,
1988, II, p. 171-172.
396
J. HABERMAS, Erkenntnis und Interesse, in Teknik und Wissenschaft als
Ideologie, Frankfurt, 1968, p. 158; citato da G. ZACCARIA, L’apporto
dell’ermeneutica alla teoria contemporanea, in Riv. dir. civ. 1989, I, 348.
397
Vedi supra § 1.3.2.
398
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 127
nota 91.

153
154
10.2.4. L’eccedenza assiologica delle norme e il consenso
sociale alla base del rapporto tra interpretazione estensiva e
analogia. Negazione di una neutralità assiologica; rifiuto
dell’applicazione del diritto come pura sussunzione. Norma come
rappresentazione e come valutazione secondo criteri assiologici di
plausibilità e ragionevolezza in Betti. Spazio nelle norme per gli
orizzonti di attese collettive e il consenso sociale

Di fronte all’analisi fin qui condotta, passata attraverso la


critica alla configurabilità di un sistema prossimo a quello
anglosassone avvalentesi delle tecniche di sviluppo analogico, non
si può non ricercare, respinte le ipotesi anzidette, un criterio tramite
cui non solo distinguere gli strumenti dell’interpretazione estensiva
e dell’analogia, ma anche rifuggire la completa arbitrarietà delle
interpretazioni e delle applicazioni giudiziali.
Non può non tornare, a questo punto, il discorso sul rapporto
tra la norma e l’interprete e sulla cosiddetta neutralità
dell’interprete.
I tentativi di negare la necessaria neutralità dell’interprete
sono, tuttavia, sovente caduti nell’eccesso opposto di avallare una
giustizia politicizzata399 nella sua accezione più deteriore che va a
scadere nell’arbitrio giudiziario. Si è addirittura teorizzato un diritto
alternativo,400 definito da alcuni come un “diritto politicizzato al
servizio di interessi di classe”401 confinante, come si può capire, con
il diritto asservito all’ideologia.

399
Cfr.F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed., Milano,
1984, p. 207 e ss.
400
Cfr. G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di
Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, p. 781; F. GENTILE, Intelligenza politica e
ragion di Stato, II ed., Milano, 1984, p. 209.
401
Cfr. L. MENGONI, Ancora sul metodo giuridico, in Riv. trim.dir civ.,
1983, p. 321.

155
Per sostenere quest’idea si è anche fatto perno sul rifiuto della
categoria - ormai bandita - della sussunzione, basato sulla crisi del
concetto stesso di applicazione del diritto come procedimento
sillogistico, come tecnica mediante cui sussumere, appunto, il caso
concreto entro una fattispecie astratta.402
Betti riconosce l’esigenza di neutralità ermeneutica
intendendola come un divieto imposto all’interprete di “risalire ad
istanze metagiuridiche, etiche, religiose, sociali o economiche,
secondo preferenze sue personali”403 e, al contrario, lo vincola alle
“valutazioni normative che determinano la disciplina positiva dei
rapporti e sono immanenti all’ordine giuridico”.404 Pone anche tra i
canoni presupposti dell’intendere ermeneutico, o meglio gli
“atteggiamenti metateoretici preliminari al processo
405
interpretativo” , l’abnegazione di sé dell’interprete che, pur dal
sapore vagamente romantico, racchiude il rapporto dialettico tra la
soggettività dell’interprete e l’oggettività della norma.
Un tentativo di sfuggire all’alternativa viene cercato tramite
l’approdo all’idea di una struttura precostituita del comprendere, di
una precomprensione secondo il concetto proposto in maniera
efficace soprattutto a partire dalle teorizzazioni di Esser.406 Su
questa impostazione Betti entra in polemica con Gadamer che non
riesce a convincerlo che “la precomprensione non è un concetto
metodologico ma ontologico”407 e la rigetta apparendogli come una
manifestazione di esasperato soggettivismo che conduce a una
“perdita irreparabile dell’oggettività”.408

402
Cfr. G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di
Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, p. 781.
403
E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 795.
404
E. BETTI, op. loc. ult. cit.
405
E. BETTI, op. ult. cit., p. 269 ss.
406
Cfr. J. ESSER, Vorverständnis und Methodenwahl in der Rechtsfindung,
trad. it. di S. Patti e G. Zaccaria col titolo Precomprensione e scelta del metodo
nel processo di individuazione del diritto, Napoli, 1983.
407
G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tübingen (1960), III ed., 1972,
tr. It. (sulla II ed., 1965) a cura di G. Vattimo, p. 484 nota 2.
408
L. MENGONI, La polemica di Betti contro Gadamer, in Quaderni
fiorentini n. 7, 1978, p. 132.

156
Ad essa oppone nella sua metodologia ermeneutica la
funzione normativa dell’interpretazione, recuperando la tematica del
condizionamento storico dell’interprete e del suo ruolo di
mediazione attraverso l’accentuazione dei canoni dell’attualità e
dell’adeguazione dell’intendere e la presentazione del concetto di
drammatizzazione da parte dell’interprete.
Betti sostiene, infatti, che se l’interpretazione ha funzione
normativa, di un intendere per agire, è necessaria da parte
dell’interprete una drammatizzazione,409 un “tuffo nell’azione”,410
quella rappresentazione - la realization anglosassone - dei risvolti
pratici e degli esiti dell’interpretazione, della realtà da interpretare
secondo il delineato concetto di dogmatica.
La dogmatica di Betti, tuttavia, è “rappresentazione
concettuale del fenomeno giuridico nell’indirizzo di valutazioni
normative”,411 non prescinde, cioè, dalle valutazioni immanenti al
sistema e, quindi, dal dato assiologico, ma, anzi, riconosce
l’immanenza nella norma da interpretare di un elemento
“emozionale”, o più precisamente, “valutativo e assiologico.”412
Non è più sufficiente, cioè, il ricorso a canoni logici o
gnoseologici di interpretazione, essendo necessario il ricorso a
criteri assiologici quanto meno di “plausibilità e ragionevolezza”.413
Betti, ponendo l’accento sul dato assiologico come criterio
principe dell’ermeneutica si pone anche al riparo dalla critica di
aprire il varco ad una pericolosa discrezionalità giudiziale. Questa
critica non è giustificata, spiega l’autore, giacché “l’apprezzamento
interpretativo rimane pur sempre vincolato e subordinato alla linea

409
E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 803 ss.
410
Così la definisce G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria
ermeneutica di Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, 794.
411
E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 813.
412
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 102
ss.
413
Cfr. G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di
Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, p. 794.

157
di coerenza logica e assiologica che si dimostra immanente
all’ordine giuridico considerato nella sua organica totalità”.414
Nella “perenne dialettica tra eternità di valori e contingenza di
situazioni storiche”415 Betti delinea, pertanto, una sorta di eccedenza
di contenuto deontologico nei principi sottesi alle norme e, quindi,
indirettamente, alle norme stesse cosicché l’interprete è chiamato a

414
E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 822. E’ la
premessa, che Donati pone come indiscutibile, che Pedrali-Noy nega: cioè che il
dato della volontà legislativa si abbia solo nella volontà espressa nella norma, che
la volontà legislativa risulti solo dalla sua materiale espressione, perchè essa non
risulta dalla lettera, ma anche dallo spirito della legge. Se si toglie questa
premessa, il ragionamento che fa Donati non può più reggere. Risorge invece il
vero concetto del processo analogico, sia pure tradizionale, che Donati stesso
espone in una nota (Cfr. D. DONATI, Il problema delle lacune dell’ordinamento
giuridico, Milano, 1910, p. 49); cioè il processo analogico non si fa in base ad
una norma stabilita per il caso particolarmente considerato, ma ad una norma più
ampia della norma indicata, comprendente ad un tempo il caso particolarmente
considerato ed il caso non particolarmente considerato ad esso analogo. Ma
questo per Donati significa svisare completamente il carattere dell’analogia,
perchè se la volontà legislativa che si applica nella decisione per analogia è una
volontà più ampia che si ricostruisce logicamente da una più ristretta dichiarata
espressamente dal legislatore, allora vuol dire che l’analogia s’identifica con
l’interpretazione logica estensiva. Tuttavia, secondo il Pedrali-Noy, non si ha
affatto uno svisamento del concetto di analogia e non c’è nulla di male che questo
concetto identifichi l’analogia con l’interpretazione logica, perchè l’analogia è
appunto una forma di processo logico. Pedrali-Noy, infatti, non crede che
l’analogia crei la norma, regolando ciò che dalla legge non è contemplato. Con
essa si svela la vera estensione della legge, si arriva a comprendere che la norma
arriva più in là di quanto a prima vista parrebbe e l’interprete non fa che
dichiarare la legge, senza estenderla oltre i suoi naturali confini. Non vi è dunque
nè creazione nè estensione da parte dell’interprete, ma si tratta solo, per mezzo di
un processo logico, di arrivare a conoscere la portata della legge. Dato il concetto
di analogia che ha Pedrali-Noy è chiaro che l’interprete di essa potrà sempre
usufruire senza che il legislatore lo autorizzi e che l’art.3 disp. prel. non ha per
scopo di concedere all’interprete di usare questo procedimento, ma di
imporglielo. Cfr. P.L. PEDRALI-NOY, I vuoti del diritto, Bologna, 1911, p. 171.
415
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 310 e
ss.

158
cercare proprio i giudizi di valore416 immanenti alle proposizioni
normative.
Vi è, quindi, un implicito riconoscimento del diritto in quanto
valore o, secondo la definizione di Caiani, del diritto in quanto
“espressione dell’esigenza imprescindibile dello spirito umano a
tradurre nelle forme della giuridicità un regolamento di rapporti
interindividuali che sia ispirato ai valori dominanti nella coscienza
comune, e tendenzialmente a quello supremo di giustizia.”417
Tale riconoscimento, tuttavia, non è una mera ricognizione
delle valutazioni sottese alla norma, ma è un giudizio che si
sviluppa dall’interno, e integra, talvolta rinnovandoli, i “giudizi di
valore originari ispiratori della norma o dell’intero ordinamento.”418
Con queste precisazioni emerge che se è proprio il piano
assiologico l’orizzonte entro cui condurre la ricerca ermeneutica,
allora è su tale base che si dovrà esplicare anche l’interpretazione
estensiva. Ma non potrà non essere pure quell’elemento “terzo”
attraverso cui portare avanti lo sviluppo analogico che non sia mera
discrezionalità: solo tramite un giudizio di valore nel diritto - più
che sul diritto, come precisa Caiani419 - sarà, infatti, possibile fare
ricorso, senza tema di applicazione arbitraria, allo strumento
dell’analogia.
Se, allora, è l’eccedenza assiologica delle norme il perno
attorno a cui ruotano sia l’interpretazione estensiva che l’analogia,
cadrebbe, però, anche la necessità e la possibilità di distinzione dei
due procedimenti.
Rimane, tuttavia, da considerare proprio quella linea di
“coerenza assiologica” immanente al sistema e che consente di
ricorrere agli strumenti ermeneutici al riparo dal soggettivismo. La

416
Cfr. L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica,
Padova, 1953.
417
L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova,
1953, p. 49.
418
L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova,
1953, p.53.
419
L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova,
1953, p.53.

159
fusione del dato assiologico e dell’attualità dell’interprete, infatti,
danno luogo alla mediazione tra la necessità di un sistema stabile e
l’elaborazione di nuovi “orizzonti di attese collettive”420 cosicché il
dato assiologico viene a mutare di portata con il mutare del
consenso sociale.
L’interprete, cioè, lungi dall’indugiare in un soggettivismo
esasperato, deve sì ricercare la valutazione originaria, immanente
alla norma nell’ambiente sociale in cui fu emessa, ma anche
l’eventuale maturazione di esiti sociali ulteriori421 in quella che
efficacemente è stata definita da Dilthey una
Wirkungszusammenhang, una “operante concatenazione
produttiva”, un fenomeno di eterogenesi di significati e valutazioni
che solo può assicurare un diritto non arbitrario, ma vivo.

420
Cfr. G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di
Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, p. 784.
421
E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur.
umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319-344.

160
11. L’ATTUALE DISCIPLINA DELLA
INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE: L’ARTICOLO 12
DELLE PRELEGGI

11.1. I precedenti storici dell’articolo 12: soluzioni


giurisprudenziali, legislative ed esperienze straniere

11.1.1. Intensio ed extensio; leges, auctoritates e rationes;


argumentum a similibus; Codice Giustinianeo; Regie Costituzioni
piemontesi; Codice estense 1771; Dispaccio di Ferdinando IV di
Napoli 1774; Tribunal de Cassation; Référé législatif; Art. 4 Codice
Napoleone; artt. 14 e 15 Statuto albertino; artt. 6 e 7 cc. austriaco;
artt. 3 codice 1865; art. 22 leggi Città del Vaticano; art. 9 n. 1
Codice civile portoghese; art. 1 cc. svizzero; art. 2 disposizioni di
attuazione c.c. svizzero

Le radici del problema della distinzione tra l’interpretazione


estensiva e l’analogia affondano nella storia del diritto più remota,
anche se non sempre la discussione che ne è seguita ha presentato i
caratteri e la portata di quella recente. Sovente, infatti, la materia è
rimasta in un ambito di pura classificazione del diritto o, al
contrario, si è spinta alla ricerca di una giustificazione teorica di
poteri più o meno lati attribuiti agli organi giudicanti.
Qui preme richiamare alcuni passi fondamentali della “storia
dell’interpretazione giuridica” non tanto per fare una dossografia
delle diverse posizioni, quanto piuttosto per individuare il punto ove
si annida l’equivoco dell’indebita equiparazione tra analogia ed
interpretazione estensiva.

161
A parte la riflessione sull’interpretazione giuridica condotta
già in epoca romana422 fin dai primi trattati sull’interpretazione,
risalenti al sedicesimo secolo, la dottrina aveva distinto tra intensio
ed extensio, individuando la possibilità di comprendere la
fattispecie concreta nelle parole, nella mens o nella ratio della
fattispecie astratta come intensio, comprehensio o interpretatio
intensiva423 e attribuendo solo all’extensio la qualifica di vera e
propria interpretazione.424
Si è notato, cioè, fin dall’inizio una certa riluttanza a chiamare
extensio la semplice deduzione dalla generalità della ratio alla
specificità del caso, anche se inespresso,425 preferendo distinguere,
perciò, l’interpretazione vera e propria dalla estensione. Per contro
la riflessione sull’analogia, già oggetto di analisi a partire dalla
teologia426 e filosofia classica427 attingeva fin dagli albori ai concetti
di somiglianza e di proporzione, ponendo l’accento sulla struttura
dello strumento dell’argumentum a similibus ad similia come
elemento di distinzione dall’interpretazione estensiva. Anche
l’argumentum a simili, tuttavia, veniva giustificato più in ragione
dell’aequitas o di una ratio naturalis che per argomenti logici o di
teoria ermeneutica.
Se di pari passo con il concetto di diritto comune si
sviluppava l’idea di un “ritrovamento” dello stesso diritto tramite il
ricorso ad una triplice base costituita da leges, auctoritates e

422
Basti ricordare i frammenti 10 e 12 del Digesto “De legibus senatusque
consultis et longa consuetudine”. Altri frammenti del Corpus giustinianeo
saranno esaminati più analiticamente infra al § 5.4.1., non tanto per una
ricostruzione filologica, quanto per trarre spunto di riflessione sui principi che
governano la materia.
423
Cfr. BARTOLOMEO CEPOLLA, De interpretatione legis extensiva, 1557,
citato da N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, cap. II.
424
Cfr. COSTANZO RUGGERO, Tractatus de iuris interpretatione, 1549,
citato da N. BOBBIO, op. loc. ult. cit.
425
N. BOBBIO, op. loc. ult. cit.
426
A partire dalla riflessione sul rapporto analogico tra l’uomo e Dio
matura il concetto di conoscenza analogica come forma di conoscenza propria
della teologia. Cfr. § 6.1.1.
427
Per tutti ARISTOTELE, Metafisica, V libro.

162
rationes, veniva anche prendendo piede l’autorità di un diritto
giurisprudenziale in cui l’analogia, nonostante venisse distinta
dall’extensio legis, veniva riconosciuta come il mezzo più idoneo ad
attuare una legittima estensione.428 L’analogia, insomma, serviva da
escamotage attraverso cui il diritto giurisprudenziale veniva
introducendo surrettiziamente, per opera anche della consuetudo
iudicandi, nuovi concetti giuridici.
In epoca recente si vengono sviluppando quelli che si possono
definire come i precedenti storici dell’attuale articolo 12 delle
preleggi e dei quali rimane in quest’ultimo, come si vedrà, una,
talvolta considerevole, traccia.
Sicuro riferimento di tutti gli sviluppi giuridici successivi è
stato, per lungo tempo il Codex giustinianeo i cui concetti erano nati
in un ambiente giuridico fortemente improntato alla casistica e in
cui, pertanto, acquistava un valore particolare il “caso deciso dalla
legge” con l’autorità di chi lo aveva pronunciato.
Si possono, innanzitutto, riferire come precedenti dell’attuale
articolo 12 delle vigenti preleggi le regie Costituzioni piemontesi
del 1723 e del 1729429 che specificano il ricorso, nei casi non decisi,
alle deliberazioni dei grandi Tribunali vietando il riferimento
all’autorità dei dottori, lasciando, tuttavia, aperto il campo alle
auctoritates, alle rationes, nell’accezione dell’appello alla ragion
naturale o delle genti.430
Pure interessante, su questa linea, è il reale dispaccio del Re di
Napoli Ferdinando IV del 1774 che prescrive che “quando non vi
sia legge espressa per il caso, di cui si tratta, e si abbia da ricorrere
alla interpretazione o estensione della legge [...] si faccia dal giudice
in maniera che le due premesse dell’argomento siano sempre
fondate sulle leggi espresse e letterali. E quando il caso sia nuovo o
talmente dubbio che non possa decidersi colla legge, né con

428
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., cap. I.
429
Regie Costituzioni piemontesi, 1723, libro III Della procedura, titolo
XIX Delle sentenze; 1729, libro III, titolo XXVII; citati da G. GORLA, I
precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del codice civile del 1942
(un problema di diritto costituzionale?), in Foro it., 1969, p. 119.
430
Cfr. G. GORLA, op. loc. ult. cit.

163
l’argomento della legge” si ricorra direttamente all’interpretazione
del Re.431 Documento interessante soprattutto perché vincola
l’argomentazione estensiva ad identità di premesse e, in particolare,
la fonda sulla letterale espressione della legge da estendere.
L’argomentazione analogica, al contrario, è soppiantata dal diretto
ricorso all’autorità del Re.
Di impostazione simile è anche il Codice estense del 1771 che
prevede il ricorso, nei casi dubbi, al Supremo Consiglio di giustizia
e nei casi mancanti alle disposizioni del Gius comune.432
Il periodo rivoluzionario francese vede la creazione di due
istituti giudiziari significativi: il Tribunal de Cassation e il référé
legislatif.
Il Tribunale è deputato all’annullamento di “ogni atto nel
quale le forme fossero state violate e ogni decisione contenente una
espressa contravvenzione alla legge” e, come risulta dalle
discussioni nella sede dell’Assemblea che istituisce la Cassazione,
vige il divieto dell’extensio del testo, dato che tra i vizi oggetto di
Cassazione si può solo includere la violazione di un testo espresso
sul caso o del casus legis.433
Il référé legislatif, invece, è istituito con il compito di
esercitare una funzione dichiarativa dell’interpretazione. Quello
cosiddetto obbligatorio impone al giudice di rivolgersi al Corpo
Legislativo quando la stessa questione sia stata preceduta da due
sentenze entrambe cassate, mentre quello facoltativo consente al
giudice il ricorso al medesimo Corpo Legislativo toutes les fois
qu’ils croiront nécessaire d’interpréter une loi, cioè quando manca
sul caso un testo espresso o preciso di legge - quando, cioè, la legge
ne décide pas le cas - o quando il testo di legge sia oscuro.434
Come si può vedere, perciò, sia il Tribunal de Cassation che il
référé legislatif poggiano sui concetti di casus omissus, novus o

431
G. GORLA, op. ult. cit., p. 120.
432
G. GORLA, op. ult. cit., p. 121.
433
G. GORLA, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del
codice civile del 1942 (un problema di diritto costituzionale?), in Foro it., 1969,
p. 122 nota 20.
434
G. GORLA, op. ult. cit., p. 123.

164
dubius, in base, cioè, al casus legis e ai precedenti - sentenze o
pareri - sul medesimo. Traccia dei quali è rimasta nella lettera del
nostro articolo 12 dove parla di casi che possono o meno essere
decisi secondo una precisa disposizione di legge. Forse perché
scardina la tripartizione dei poteri, il référé legislatif ha, tuttavia,
vita breve dato che il Code civil di Napoleone innova anche in
questo settore abrogando l’istituto del référé e sancendo, al
contrario, nel famoso articolo 4 il divieto per il giudice del non
liquet. “Le juge qui refusera de juger, sous prétexte du silence, de
l’obscurité ou de l’insuffisance de la loi, pourra être poursuivi
comme coupable du deni de justice”, stabiliva il codice,435
superando il divieto illuministico dell’interpretazione, ma non
specificando le regole in base alle quali il giudice è tenuto a
giudicare. Implicitamente, perciò, il Codice Napoleone attribuisce ai
giudici ampi poteri, dato che, come riferisce il Discours
Préliminaire “il compito della legge è quello di fissare, attraverso
ampie prospettive, le massime generali del diritto, di stabilire
principi fecondi di conseguenze, e non di scendere nei dettagli delle
questioni che possono nascere su ciascuna materia. Sta al magistrato
e al giureconsulto, penetrato dello spirito generale delle leggi, di
dirigerne l’applicazione”. Potere, quindi, di ampio ricorso
all’analogia e di risalire, anche, in caso di “fatto assolutamente
nuovo”, ai “principi del diritto naturale”, nonostante questi
strumenti siano indicati come ausili dalla dottrina - sfociata poi
nella rigorosa Scuola dell’Esegesi - ma non dal testo espresso del
Codice.
Contrariamente al Codice Napoleone, i paragrafi 6 e 7 del
codice civile austriaco del 1811 e gli articoli 14 e 15 del codice
albertino del 1838 prevedono esplicitamente le regole per
l’interpretazione, cosicché si possono ritenere i diretti precedenti del
nostro articolo 12 delle preleggi.
Il paragrafo 6 dell’Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch für
die deutschen Erblande (ABGB) stabilisce, in modo praticamente
identico al primo comma dell’attuale articolo 12, che

435
G. GORLA, op. ult. cit., p. 125.

165
“nell’applicare la legge non è lecito d’attribuirle altro senso che
quello che si manifesta dal proprio significato delle parole secondo
la connessione di esse, e dalla chiara intenzione del legislatore”.436
Identico anche l’articolo 14 del codice albertino.

436
G. GORLA, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del
codice civile del 1942 (un problema di diritto costituzionale?), in Foro it., 1969,
p. 114. R. DE RUGGIERO, Istituzioni di diritto civile, vol. I, Milano, VII ed., 1934-
1935, p.14-97, che considera l’analogia come un procedimento logico che risulta
dalla diversità dei casi e dalla identità del principio che li governa, condividendo,
a questo proposito, l’opinione del F. FILOMUSI -GUELFI (Enc. Giur., Napoli, 1907,
p.52, che sostiene che in essa si procede per conseguenza logica da un caso
previsto ad uno che non è tale, ma che è compreso in una norma generale che
regola i due casi e che è presupposta nel caso previsto), in modo chiaro mette in
evidenza la sostanziale differenza che passa tra l’analogia e la cosiddetta
interpretazione logica estensiva e in questo contraddicendo proprio Donati,
laddove quest’ultimo sostiene che, seguendo l’opinione tradizionale in materia di
analogia, si giunge a non intravedere più tale differenza. Perchè l’interprete possa
far ricorso all’analogia, deve infatti esservi nella legge una lacuna assoluta: cioè
occorre che quel determinato caso il legislatore non abbia contemplato nè
esplicitamente, nè implicitamente in un’altra disposizione che lo possa
comprendere. Mentre l’interpretazione è diretta essenzialmente a spiegare,
attraverso le parole della legge, il pensiero e la volontà del legislatore, e quella
estensiva ha come scopo peculiare di ricercare nelle parole oscure o dubbie della
legge quanto in esse solo apparentemente vi manca e si mira alla pura e semplice
ricostruzione della volontà legislatrice, diversa è l’analogia, la quale non è diretta
a ricostruire e a spiegare ciò che è incerto, ma quasi a creare, colmando quei vuoti
che la legge scritta inevitabilmente presenta. Per la qual cosa, si è ritenuto da
molti che l’analogia sia una vera e propria fonte di creazione del diritto (in tal
senso, N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico cit., p. 177-178). Così si
cade in un’esagerazione: colmar le lacune della legge derivando le norme dalla
legge stessa, non è creazione del diritto; la regola applicata per analogia è già
esistente ed emana dal legislatore. Il procedimento, che mediante l’analogia fa
l’interprete, si limita ad un’integrazione, che è qualcosa di più della pura e
semplice interpretazione, ma non è creazione. (ulteriore problema qui si apre
circa la possibilità di esistenza di un tertium genus, se c’è, tra interpretazione e
creazione del diritto). Solo laddove c’è lacuna assoluta, c’è analogia, altrove si
avrà semplicemente un’interpretazione estensiva. In effetti una distinzione esiste,
come appunto nota il De Ruggiero, ma non sempre, nella pratica, è così netta e
recisa, tanto che si parla sovente di interpretazione analogica.
Nel senso della distinzione tra analogia e interpretazione logica estensiva,
anche Cass. Civ. sez. lav., sent. 3/10/1991 n. 10304, ove si afferma che

166
Il paragrafo 7 dell’ABGB, invece, stabilisce che “qualora un
caso non si possa decidere né secondo le parole, né secondo il senso
naturale della legge, si avrà riguardo ai casi consimili precisamente
dalla legge decisi, ed ai motivi di altre leggi analoghe. Rimanendo
dubbioso il caso, dovrà decidersi secondo i principi del diritto
naturale, avuto riguardo alle circostanze raccolte con diligenza e
maturamente ponderate”.437 È sicuramente di rilievo l’affinità col
secondo comma dell’attuale articolo 12, ma ancor di più rilevano le
diversità, in particolare il riferimento al “senso naturale” della legge
e ai principi di “diritto naturale” come criterio sussidiario di
interpretazione, oggi spariti dalla dizione normativa, nonché la
menzione dei “motivi” come criterio di appoggio dello strumento
dell’analogia. Tutte indicazioni che spiegano un certo affannarsi
della dottrina nel giustificare, ancora oggi, in base agli stessi criteri
l’attuale disposizione legislativa.
L’articolo 15 del codice albertino, invece, è ancora più vicino
alla norma presente mantenendo solo il ricorso al “senso naturale
della legge“, e ai “fondamenti di altre leggi analoghe”,
prescrivendo, come criterio finale, il ricorso ai “principi generali di
diritto, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso”.438
Di rilievo è anche il fatto che già l’articolo 17 del codice
albertino ma, più esplicitamente, il paragrafo 12 del codice
austriaco prevedesse che “le disposizioni date in casi particolari e le
sentenze proferite dai tribunali non hanno mai forza di legge, e non
possono estendersi ad altri casi o ad altre persone”.439 Viene cioè
negata l’estensione delle norme eccezionali in virtù della mancanza,
in queste, della necessaria “forza di legge” e, soprattutto, si
impedisce l’applicazione di casi già decisi e delle sentenze che li
hanno definiti senza passare per le norme che ne hanno ispirato la
decisione: si estende, semmai, la norma, mai il caso.

“l’interpretazione estensiva, limitandosi ad esplicare il contenuto della norma,


senza nulla aggiungere alla portata della medesima, è consentita anche con
riguardo a disposizioni eccezionali o di carattere tassativo”.
437
G. GORLA, op. loc. ult. cit.
438
G. GORLA, op. loc. ult. cit.
439
G. GORLA, op. ult. cit., nota 36 p. 129.

167
L’ultimo, e più diretto precedente dell’articolo 12 è, infine,
l’articolo 3 delle disposizioni preliminari (“Disposizioni sulla
pubblicazione, interpretazione ed applicazione delle leggi in
generale”) al codice civile del 1865,440 che l’attuale articolo
riproduce quasi letteralmente, a parte la dizione “principi generali
dell’ordinamento giuridico dello Stato” che nella precedente
versione era “principi generali di diritto”.441
Significativo nell’articolo 3 del codice del 1865, così come
nei suoi più diretti precedenti è il richiamo alla “intenzione del
legislatore”, sul cui concetto si sono aperti ampi dibattiti dei quali si
riferirà più avanti. Per il momento è interessante rilevare come
anche in legislazioni straniere coeve alla nostra codificazione si
sono sviluppati concetti simili a quelli che hanno animato il
dibattito giuridico italiano.
L’articolo 22 della legge sulle fonti di diritto oggettivo della
Città del Vaticano, per esempio, ha posto l’accento sull’esigenza di
iniziativa del giudice nell’individuazione della norma, desumendo
da tale attività la implicita massima di decisione, come non manca
di sottolineare lo stesso Betti.442 L’articolo prescrive, infatti, che il
giudice, “tenuti presenti i precetti del diritto divino e del diritto
naturale, nonché i principi generali del diritto canonico, decide
applicando quel criterio che seguirebbe se fosse legislatore”. È
questo un importante esempio di approdo al criterio ermeneutico
volto alla ricostruzione della volontà del legislatore (o del presunto
legislatore incarnato dal giudice) che, ciò nonostante, lascia aperto
il campo all’interpretazione evolutiva. Prevedere questa figura di
giudice-legislatore significa, infatti, approdare alla massima
elasticità e apertura ermeneutica, tracimante, per la verità,

440
L’articolo 3, peraltro, è a sua volta il risultato delle discussioni
precedenti l’emanazione del codice del 1865 avvenute sulla base degli articoli 12
e 13 del progetto Cassinis del 1860, degli articoli 14 e 15 del Codice Sardo e
degli articoli 5 e 6 del progetto Miglietti del 1862, come riferisce N. BOBBIO,
L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.II, cap. 4.
441
Sul significato di questa precisazione vedi infra capitolo 6.
442
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 136 e
ss.

168
nell’arbitrio giudiziale, tanto ampio è il criterio proposto del ricorso,
oltre ai principi generali del diritto canonico, ai precetti del diritto
divino e del diritto naturale.
Significativo è anche l’articolo 9 n. 1 del Codice civile
portoghese che dispone che “a interpretação não deve cingirse à
letra da lei, mas reconstituir a partir dos textos o pensamento
legislativo, tendo sobretudo em conta a unidade do sistema
juridico, as circunstâncias em que a lei foi elaborada e as
condições especìficas do tempo em que é aplicada”. In esso, come
si vede, sono contenuti sia il riferimento al pensiero legislativo che
ha motivato la norma - la ratio - con le circostanze del tempo
dell’emanazione, sia le condizioni dell’applicazione al caso
concreto - il che consente un’interpretazione evolutiva -, sia il
concetto dell’unità del sistema giuridico, così come stabiliranno
tante sentenze che autorizzano il criterio sistematico di
interpretazione.443
Il più citato444 esempio di norma sull’interpretazione è,
comunque, senz’altro l’articolo 1 del codice civile svizzero, redatto
nel 1907 da Eugen Huber, vicino al giusliberismo, che stabilisce
come “en l’absence d’un texte légal applicable, le juge prononce
selon le droit coutumier, et, en l’absence d’un droit coutumier,
suivant la doctrine et la jurisprudence. A défaut de ces sources, il
appliquera les règles qu’il édicterait s’il avait à faire office de
legislateur”. Di rilievo soprattutto perché, al pari dell’articolo 22

443
Fra tutte cfr. Consiglio di Stato, VI sez., 89/717.
444
Cfr. M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.
1954, p. 640 nota 65. Lo stesso Legislatore, infatti, avverte queste nuove esigenze
e abbandona il principio della completezza dell’ordinamento giuridico E nella
relazione pubblicata dal ministro della giustizia e dell’interno, la ragione di quella
disposizione è spiegata così: “La seule direction que la loi puisse alors lui fornir
c’est qu’il ne doit pas statuer arbitrairement, sous l’influence de circostances
momentanées, pitié, indignation, animosité personelle, mais agir comme si,
faisant office de législateur, il avait à édicter une régle pour l’appliquer ensuite à
l’éspéce qui lui est déférée. Il pronence en se fondant non sur une loi qui serait
absolument compléte, mais sur le droit qui doit l’être, et il crée lui même la
norme qu’il estimairet juste et sage, dans le cadre de l’ordre juridique existant”.
Cfr. F. DEGNI, L’interpretazione della legge, Napoli, 1909, p. 198.

169
delle leggi della Città del Vaticano, autorizza il concetto del
giudice-legislatore come criterio sussidiario di interpretazione, dopo
avere consentito il ricorso al diritto comune in caso di assenza di
norma applicabile.
Da notare, tra l’altro, che l’articolo 2 delle disposizioni di
attuazione del codice civile svizzero prevede l’immediata entrata in
vigore delle norme che “tutelano l’ordine pubblico e la morale
sociale”, ma dichiara inapplicabili le norme riconosciute come
incompatibili con i suddetti parametri “secondo le valutazioni del
nuovo diritto”.445 Questa che Betti definisce la “riserva dell’ordine
pubblico intertemporale” avalla ancora una volta, come si può
vedere, il concetto di interpretazione evolutiva e conferma la
validità di una ricerca ermeneutica volta al contenuto assiologico
delle norme.
Come si può vedere, infine, ciò che accomuna queste
esperienze legislative straniere, ma soprattutto l’articolo 22 delle
leggi della Città del Vaticano e dell’articolo 1 del codice civile
svizzero è la esclusione della possibilità del ricorso all’analogia,
sussistendo altri strumenti espressamente previsti come criteri
sussidiari.
Così come si è osservato,446 pertanto, laddove non ci sia una
norma che la vieti - come il nostro articolo 14 delle preleggi - o una
norma che prescriva di ricorrere ad altri mezzi - come nelle citate
esperienze straniere - l’impiego dell’analogia rientra nell’ordinario
processo di interpretazione e ciò lungi dal costituire un’altra
conferma dell’impossibilità di distinguerla dall’interpretazione
estensiva, manifesta l’ennesima esigenza di fondarne il criterio
discretivo.

445
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 110 e
ss.
446
M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.
1954, p. 640.

170
11.2. Analisi dell’attuale articolo 12

11.2.1. Riferibilità dell’art. 12 all’interpretazione della legge


ovvero all’applicazione dei giudici. Richiamo dell’interpretazione
in funzione normativa di Betti. Esistenza o meno di un senso
”proprio” delle parole. L’intenzione del legislatore (rinvio).
Significato della “precisa disposizione di legge”; problema dei
combinati disposti. I casi e i tempi “considerati” dell’art. 14.

Conviene, a questo punto, analizzare più da vicino l’articolo


12447 delle nostre disposizioni preliminari e cercare di ritrovare,
attraverso le parole del legislatore, qualche indicazione per
l’oggetto della nostra trattazione.
Un primo spunto di riflessione è dato dall’incipit dell’articolo
12, dove si fa riferimento alla “applicazione della legge”,
diversamente da quanto è indicato nella rubrica, che, al contrario,
reca l’indicazione “interpretazione della legge”. Le norme
dell’articolo 12 sono dettate per l’interpretazione della legge o per
l’applicazione che debbono farne i giudici?
A leggere la rubrica e la stessa collocazione dell’articolo tra le
Disposizioni sulla legge in generale e non all’interno di statuizioni

447
Si riporta, per memoria, il contenuto dell’articolo 12 delle Disposizioni
sulla legge in generale. “Interpretazione della legge. Nell’applicare la legge non
si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio
delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Se
una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha
riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso
rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento
giuridico dello Stato.”

171
espressamente processualistiche sembrerebbe farsi riferimento alle
regole concernenti l’interprete in genere, sia questi il giudice o
qualsiasi altro soggetto (privati, organi dello Stato, enti
pubblici...).448 In realtà sia le prime parole del primo comma, sia
tutto il secondo comma parlano di “applicazione” e di “casi decisi”,
evidenziando l’intento di una norma rivolta a definire il modo in cui
decidere le controversie, ruolo, apparentemente, riservato agli
organi giudicanti, se non si considerasse il peso dei precedenti per i
giuristi in generale, sia negli ordinamenti di civil, non meno che in
quelli di common law. Insomma più che un interpretare per
conoscere, un interpretare per decidere. Non un’interpretazione, per
dirla con Betti, storica, “volta a rievocare nella sua autonomia [...] il
senso, in sé conchiuso, della forma rappresentativa”,449 ma
operativa.
Anche il giurista, per la verità, deve porsi una questione
storica, scrive Betti, questione cui viene a capo, allo scopo di
“penetrare più a fondo i problemi di convivenza risolti dal diritto”450
avvalendosi dello strumentario dogmatico, di “tipi e categorie che
stanno tra loro in logica correlazione e coerenza”.451 Il giurista,
tuttavia, non può arrestarsi a rievocare il senso originario della
norma, perché la stessa legge non è, come il nostro autore
efficacemente la descrive, che una “impalcatura, destinata a
rianimarsi e ad illuminarsi da un lato al contatto con la vita sociale,
dall’altro nella luce della tradizione”.452 Il giurista deve “fare un
passo avanti”.453
Ecco, allora, l’interpretazione in funzione normativa o
direttiva della condotta, correlata sì con la costruzione dogmatica e
con la qualificazione giuridica, ma altresì con l’applicazione.
448
G. GORLA, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del
codice civile del 1942 (un problema di diritto costituzionale?), in Foro it., 1969,
p. 113.
449
E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 28.
450
E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur.
umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319.
451
E. BETTI, op. loc. ult. cit.
452
E. BETTI, op. loc. ult. cit.
453
E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 28 ss.

172
Anche se Betti è meno drastico di Gorla454 nel riferire
l’articolo 12 esclusivamente ad un intendere per operare, per
decidere controversie, nondimeno sottolinea come
nell’interpretazione giuridica vadano messe a raffronto
“l’interpretazione del giurista con indirizzo teoretico, storico o
comparativo e l’interpretazione con indirizzo pratico, in funzione
direttiva della condotta”.455 Chiaramente di fronte alla formulazione
di una “teoria generale dell’interpretazione”, come quella che Betti
fa, non poteva non stridere la dura constatazione di un’indicazione
normativa - quale l’attuale articolo 12 - più tesa a “risolvere
controversie” che a raggiungere un approdo ermeneutico.
Non può sfuggire, tuttavia, l’osservazione che viene
dall’analisi che s’è fatta456 sulla storia dei precedenti dell’articolo
12. Il riferimento alla decisione di controversie e la destinazione
dell’articolo non ad un interprete qualsiasi ma al giudice non può
non essere rilevata come esistente proprio a partire da tali
precedenti: basterà pensare, per tutti, all’articolo 1 del codice civile
svizzero rivolto esplicitamente alla categoria dei giudici.
Tuttavia vi è da chiedersi se questa partizione netta, pur
teoricamente visibile, tra la prescrizione di norme per la decisione
di controversie e quella di regole generali per l’interpretazione
giuridica abbia un fondamento. E la questione non è una pura
sottigliezza di astrazione. Ammettere o negare la possibilità di una
coincidenza a livello teorico a fronte di una assoluta distinzione tra
il procedimento di interpretazione estensiva e quello di analogia dal
punto di vista applicativo, davanti ai casi concreti, cioè, può avere,

454
Sul contrasto con Gorla sull’interpretazione in funzione normativa
riferisce lo stesso E. BETTI, Attualità di una teoria generale dell’interpretazione,
in Ann. Camerino, XXXIII, 1967, 95-111.
455
E. BETTI, op. loc. ult cit. Ci pare di vedere qui un riferimento
(inconsapevole) alla alla bipartizione aristotelica tra teoria e prassi, o alla
tripartizione conseguente alla distinzione tra prassi e poiesi (Et. Nic., II, 1, 1103 a
b; II, 6, 1106 a; VII, 3, 1146 b - 1147 a), su cui cfr. infra § 5.1.1 Ad ogni modo,
qui interessa mettere in evidenza la distinzione tra l'operatività e la pratica
nell'accezione aristotelica del termine.
456
Cfr. § 4.1.

173
come si può capire, un rilievo assai diverso, come è emerso fin dalla
prima pagina di questo scritto.
Ritengo con Ascarelli, proprio su questa constatazione, -
contrariamente alla rigida partizione di Gorla e secondo il modello
ermeneutico di Betti - che le modalità dell’applicazione normativa e
le regole dell’interpretazione giuridica siano parte di un “unico e
inscindibile problema, là dove la conoscenza giuridica non è
prospettabile mai separata dal fine pratico dell’applicazione e non si
considera completa se distinta dall’impatto con il caso concreto, con
il fatto storico da regolamentare”.457
Chiarito il senso globale dell’articolo 12 si può notare come
l’interpretazione enunciata sia in primo luogo quella letterale,
rinvenibile nella previsione del “senso fatto palese dal significato
proprio delle parole”.
In realtà vi è da chiedersi che cosa sia codesto “senso proprio”
delle parole della legge dato che, come è evidente, proprio sulla
“proprietà” del significato delle espressioni di legge si hanno
multiformi punti di vista.
Si è già analizzato il rapporto tra interpretazione e
linguaggio.458 Come si è avuto modo di indicare, la dottrina più
moderna considera “frutto di pregiudizi filosofici la credenza
secondo cui le parole di una disposizione di legge abbiano un senso
'proprio' se viste nella loro connessione”:459 in realtà qualsiasi
enunciato risulta ambiguo, soprattutto nel momento in cui questo
assume, come nel caso in questione, una funzione precettiva, in cui

457
T. ASCARELLI, Norma giuridica e realtà sociale, in Problemi giuridici,
I, Milano, 1959, p. 90. Si tratta dell’aspirazione (forse inconsapevole)
dell’irrequieto e tormentato giurista di cogliere il problema metodologico del
diritto, che opera nella prassi, ma non si riduce a questa, che vive di teoria, ma
abbisogna del riscontro empirico; è cioè sospeso tra cielo e terra, un filosofico
ircocervo, come ha messo bene in evidenza nel suo documentato studio F. CASA,
Tullio Ascarelli. Dell’interpretazione giuridica tra positivismo e idealismo,
Napoli, 1999.
458
Cfr. § 3.1.
459
B. TROISI, Interpretazione della legge e dialettica, in Legge, giudici,
giuristi. Atti del Convegno tenuto a Cagliari nei giorni 18-21 maggio 1981,
Milano, 1982, p. 324.

174
diventa significativo uscire o meno dalle maglie della lettera della
legge.
Questo problema confina, come si può vedere, con quello
della chiarezza normativa che si è già affrontato,460 tanto che alcuni
autori461 attribuiscono al fatto che il testo abbia un senso “naturale”,
che esprima un giudizio “sensato”, l’inutilità di dar luogo a
ragionamenti di carattere logico, circa la coerenza o incoerenza nel
sistema della lettera della legge, come pure di dare luogo a ricerche
“estrinseche di carattere ontologico (intenzione del legislatore),
teleologico ecc.”462 Del resto, abbiamo sentito dire da Rolando
Quadri, “si può considerare chiara anche una disposizione formulata
con parole improprie quando il discorso non faccia sorgere
dubbi”.463 Come si può vedere, perciò, il criterio letterale del senso
“proprio” delle parole sfocia nel criterio della razionalità e
dell’interpretazione sistematica, dato che, comunque, per attribuire
con certezza un significato come “proprio” alle parole utilizzate è
necessario analizzare il contesto in cui sono inserite.
Significativa è a questo proposito la sentenza della Cassazione
del 1987464 che stabilisce come il criterio del significato letterale - il
quale, precisa, costituisce “norma fondamentale a tutela della
certezza del diritto, e mezzo preminente per l’interpretazione di una
legge” - postula, in realtà, l’assoluta univocità del significato delle
parole adoperate dal legislatore. Tale univocità può, secondo la
sentenza in esame, ritenersi insita nell’uso di un termine giuridico,
specie con riferimento all’interpretazione di norme del codice - si
trattava di norme del codice civile - caratterizzato dalla precisione
della terminologia giuridica, oppure nell’uso di un termine tecnico.
Non altrettanto può affermarsi per le parole “tratte dal linguaggio
460
Cfr. § 2.2.
461
R. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale, in Comm. del
cod. civ. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1974, p. 240 ss.
462
R. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale cit, p. 240.
463
R. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale, cit. p. 244. Sul
punto, perspicuo N. IRTI, testo e contesto. Una lettura dell’art. 1362 Codice
civile, Padova, 1996; per diversi profili sullo stesso tema, U. PAGALLO, Testi e
contesti dell’ordinamento giuridico, III ed., Padova, 2001.
464
Cassazione civile 31.3.1987, n. 3097, in Giust. civ. 1987, I, 1944.

175
comune, il cui significato sia plurivalente o soggetto a mutamenti
nel tempo”.
Il significato “proprio” delle parole, pertanto, stando alla
sentenza della Cassazione, sarebbe un criterio valevole solo per
termini tecnici sulla cui convenzionalità non vi siano disaccordi. Per
ogni altro termine, se ne deduce, la dizione di questa prima parte
dell’articolo 12 si rivela inutile perché prescrive, comunque, il
ricorso ai criteri sussidiari.
Criteri, questi ultimi, costituiti dalla “intenzione del
legislatore” e da quelli previsti dal secondo comma dell’articolo 12.
Per quanto concerne l’intenzione del legislatore se ne parlerà
più diffusamente al paragrafo 4.3.1.. Tuttavia è importante, qui,
sottolineare il valore della congiunzione465 che, secondo la dizione
del citato articolo, lega il ricorso al criterio in parola - l’intenzione
del legislatore - con il ricorso al criterio letterale: quella cesura,
segnata dalla virgola, cui segue la congiunzione, infatti, può
significare alternatività dei due criteri, subordinazione,
indipendenza. Viste le considerazioni fatte in merito alla validità del
criterio letterale ritengo, tuttavia, più plausibile accogliere la
concezione che impone, comunque, di ricorrere al secondo criterio,
sancendo l’inutilità del primo.
Per quanto riguarda l’espressione “secondo la connessione di
esse”, poi, concordo con l’opinione di Bobbio466 che tacciava
l’articolo - si trattava, allora, del vecchio articolo 3 delle
disposizioni preliminari ma, come si è già detto, era per questa parte
identico all’attuale articolo 12 - di dire in questa parte cose “ovvie e
banali”. Che cosa significa, infatti, “secondo la connessione di esse”
se non qualcosa di ovvio ed evidentemente superfluo?
Bobbio fa notare che se il legislatore ha ritenuto di precisare
la necessità di interpretare secondo la connessione delle parole,
avrebbe, del pari, potuto precisare la necessità di interpretarle

465
“... dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse,
e dalla intenzione del legislatore”; così l’attuale articolo 12 dip. prel.
466
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. II, cap.
3.

176
secondo l’ordine di stesura, cioè da sinistra a destra.467 L’evidenza
delle provocatorie osservazioni di Bobbio consente di non
soffermarsi oltre sul problema.
Per quanto concerne, invece, il secondo comma vi si fa
riferimento ad “una precisa disposizione” e si indica esplicitamente
la sussidiarietà, rispetto a questa, del ricorso ai criteri
successivamente indicati. La “precisione” di cui parla l’articolo è da
taluni468 intesa come l’esistenza di una norma “espressa” ma appare
evidente che, riscontrata la superfluità del primo comma
dell’articolo 12, almeno nelle considerazioni che se ne sono fatte,
prevedere i criteri sussidiari dell’analogia e del ricorso ai principi
solo colà dove non esista una norma espressa regolante la fattispecie
concreta è fuorviante. Stando alla rubrica dell’articolo, infatti,
assegnare il compito dell’interpretazione solo negli spazi lasciati
vuoti dall’espressa previsione legislativa, solo, cioè, applicata ai
criteri sussidiari, non può che contrastare con la concezione
ermeneutica fin qui presentata.
Del resto, poi, dato che l’articolo parla di decidibilità “della
controversia con una precisa disposizione” non può essere
tralasciata la constatazione del fatto che, normalmente, una
controversia, o meglio una fattispecie concreta, è regolata non tanto
da una singola disposizione ma da una serie di due o più norme,
secondo la tecnica dei “combinati disposti”. In tali casi che, per la
verità, sono la maggioranza - data anche la congerie legislativa -
diventa difficile distinguere quale delle disposizioni combinate sia
prevalente rispetto alle altre, quale, cioè, possa qualificarsi come
“precisa disposizione”.469 Partendo dai “casi da decidere”, e non
tanto dalle norme da astrattamente interpretare, cioè, si finisce per

467
N. BOBBIO, op. loc. ult. cit.
468
F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1952, I,
107 e ss.
469
P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica e
assiologica in Rassegna dir. civ., 1985, p. 1010.

177
perdere di vista i confini tra casus decisus, casus dubius e casus
omissus.470
Non si deve pensare, tuttavia, che si debba cedere il passo alla
soggettività estrema o all’arbitrio interpretativo. Paradossalmente il
criterio cosiddetto letterale, che potrebbe a rigore essere escluso per
una certa assurdità di applicazione, si potrebbe, in realtà, rivelare il
più consono al complesso di valori sotteso al sistema giuridico. Ne
dà un efficace esempio Perlingeri,471 che riporta il caso del divieto
di ingresso ai minori nei cinema.
Nota l’autore che, alla lettera della legge, il divieto dovrebbe
estendersi anche ai neonati tenuti in braccio dai genitori che
assistono alla proiezione, “minori” i quali, evidentemente, essendo
incapaci di rendersi conto dell’accaduto, non si possono ritenere
colpiti dal divieto né passibili di tutela. Tuttavia, fa notare
Perlingeri, l’interpretazione letterale fino in fondo (esclusione
dall’ingresso anche del neonato) potrebbe essere “la soluzione
maggiormente rispondente alla logica ed ai valori del sistema
imperniato sul rispetto della persona umana”. 472
470
P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica e
assiologica in Rassegna dir. civ., 1985, p. 1010.
471
Cfr. P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica e
assiologica, cit, p. 1011.
472
Cfr. P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica e
assiologica, cit. p. 1012. La questione rende conto di quanto già avvertiva Luigi
Caiani, Il giurista positivista, osserva Caiani, tende a rinchiudere in un certo senso
“il problema interpretativo in termini strettamente giuridico-dogmatici, onde
difenderlo dalle impurezze e dalle incertezze connesse ai problemi tecnici e
filosofici dell’interpretazione, e così garantire in sostanza la scientificità, cioè
l’univocità e l’esattezza del risultato interpretativo”. E si tratta di un tentativo più
o meno implicito in gran parte dell’opinione giuridico-positiva. Cfr. L. CAIANI, I
giudizi di valore nell’interpretazione giuridica cit., p. 182-183. Ancor più
paradossale appare la dichiarazione di Scarpelli, quando nota come nel
positivismo giuridico la positività del diritto è in funzione appunto della
scietificità: “non si fa una scienza del diritto come scienza del diritto positivo
perchè interessa conoscere scientificamente il diritto positivo e quindi se ne fa la
scienza, ma si fa la scienza del diritto come scienza del diritto positivo perchè
interessa fare la scienza del diritto e, trovando nel diritto positivo l’oggetto che la
rende possibile, le si assegna appunto questo oggetto”. Cfr. U. SCARPELLI, Cos’è
il positivismo giuridico, Milano, 1965, p. 40.

178
Si rende, come si vede, necessario il ricorso alla logica del
sistema ed all’interpretazione assiologica il che, evidentemente,
getta seri dubbi sull’utilità dell’articolo in analisi.

179
11.2.2. Possibilità di concepire il capoverso dell’art. 12, in
quanto prescrive l’analogia, come teoreticamente superfluo e
irrilevante; come contenente tutti i criteri ermeneutici della legge:
sia l’interpretazione estensiva che l’interpretazione analogica.
L’art. 14 come non dettante alcun criterio di esegesi legislativa.
L’interpretazione assiologica come superamento
dell’interpretazione letterale e criterio base di ogni interpretazione.

Sull’utilità dell’articolo 12 - all’epoca articolo 3 del codice del


1865 - si interroga Bobbio,473 analizzandone la natura. L’articolo in
parola è norma giuridica?
Contro i sostenitori della tesi secondo cui esso non sarebbe
una regola di condotta ma una regola logica, Bobbio obietta che
l’articolo in primo luogo si presenta sotto forma di comando, che
già lo fa ricondurre alla categoria delle norme giuridiche; in
secondo luogo, poi, se può essere vero che le regole logiche e le
massime di esperienza si osservano senza bisogno di imperativistica
imposizione, è anche vero che la contrarietà a tali regole, previste
dall’articolo, non è tollerata “come stravaganza” ma perseguita
“come violazione”. Di qui la natura giuridica, sul presopposto di
matrice kelseniana ripreso dal giusfilosofo torinese, della
compresenza di precetto e sanzione, quest’ultima considerata il
tratto caratterizzante la giuridicità.
Ciò nonostante, tuttavia, l’articolo 3 è, per Bobbio, un
duplicato inutile, dato che “nella prima parte dice cose ovvie e
banali, nella seconda parte cose oscure e imprecisabili”.474 Ma in
questo modo il riconosciuto caposcuola infligge il colpo mortale
all’analitica e all’ermeneutica: se ha appena affermato norma
giuridica l’articolo in esame non può qualificarlo inutile ed

473
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. II cap. 3.
474
N. BOBBIO, op. loc. ult. cit.

180
incomprensibile senza far cadere il protocollo analitico positivista
per il quale ogni norma deve contenere uno o più disposizioni e che
queste debbono avere un senso, ricostruibile per scomposizione
analitica.
Né vale, per fare chiarezza, il ricorso all’articolo 14.475 Anche
tale norma, infatti, tradizionalmente deputata a prescrivere e
regolare il divieto di interpretazione analogica, fa riferimento a
“casi” e a “tempi” considerati nelle leggi eccezionali e penali,
elementi tutt’altro che chiari e inequivoci.
Che cosa sono i “casi e i tempi considerati” nelle norme?
Vi è forse l’autorizzazione al mero ricorso all’applicazione
letterale? Ma non necessita, anche questa, di un’operazione di
interpretazione?
L’articolo 14 prevede solo il divieto di interpretazione
analogica, secondo la lettura che se ne è tradizionalmente data, ma
non spiega in che cosa essa consista, né come debba essere
applicata, dato che presuppone che sia l’articolo 12 a dare contezza
di tali criteri ermeneutici.
L’indagine sui lavori preparatori dell’articolo 14 non è, in
questo senso, illuminante, dato che nella sua relazione il
Guardasigilli (n. 4) spiega che “poiché la norma (inizialmente art. 4
ed oggi art. 12) non riguarda l’interpretazione estensiva [... si è]
sostituito “considerati” ad “espressi”, potendo quest’ultima parola
far pensare che si debba aver riguardo solamente ai casi menzionati
espressamente”.476
Storica nel definire la funzione degli articoli 12 e 14 è la
sentenza della Cassazione civile n. 4373 del 1989477 che sancisce
come l’articolo 12 contenga “tutti i criteri ermeneutici della legge
ed in particolare sia il criterio dell’interpretazione estensiva, che
consente l’utilizzazione di norme regolanti casi simili (e non già

475
Si ricorda, per memoria, l’articolo 14: “Applicazione delle leggi penali
ed eccezionali. Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad
altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”.
476
Relazione del Guardasigilli, citata in Giust. civ. 1989, fasc. 10.
477
Cassazione civile, sez. lav., 25.10.1989 n. 4373, in Giust. civ. Mass.
1989, fasc. 10.

181
identici), sia quello dell’interpretazione analogica (“analogia
legis”), mentre l’articolo 14 non detti “alcun criterio di esegesi
legislativa”, limitandosi a stabilire che le leggi penali ed eccezionali
“non si applicano (in via di interpretazione analogica) oltre i casi ed
i tempi in esse considerati”.
Se i casi “considerati” non sono i casi “espressi” significa,
dunque, che nell’articolo 14 non si vieta l’interpretazione, prescritta
dall’articolo 12, semplicemente si impedisce che questa trasbordi
oltre la sua funzione. Funzione che, tuttavia, dovrebbe essere
delineata sulla scorta dell’articolo 12.
Si è già stabilito, tuttavia, che il primo comma della norma
rinvia ad un processo di interpretazione ulteriore rispetto a quelli
indicati dalla lettera dell’articolo. Né il secondo comma chiarisce
come si deve condurre l’interpretazione analogica, quali criteri,
cioè, si devono ricercare nell’individuare “i casi simili” e le
“materie analoghe”, a quali canoni si debba appellare la ricerca
interpretativa.
Significativo, allora, diventa un passaggio della relazione
della Commissione Reale per la preparazione del codice, citata dalla
menzionata sentenza n. 4373 del 1989.
“Certo che con essa [la disposizione dell’articolo 12] non
sono eliminate le difficoltà cui, nella pratica, l’interpretazione delle
leggi dà luogo”, indica la Relazione, “tuttavia l’opera giudiziaria è
un lavorio continuo d’interpretazione delle leggi, e sarebbe vana la
fatica del legislatore che pretendesse di risolvere con regole generali
le difficoltà numerose che si presentano praticamente e che per la
molteplicità e per la loro varietà sfuggono alle sue previsioni. La
scienza può dare e dà, effettivamente, regole appropriate che
possono servire a guidare convenientemente l’interprete, ma
nessuna di esse può avere valore di norma assoluta, per cui ciò che è
essenziale è che l’interprete sia intelligente ed onesto e che ricerchi
il senso della legge animato dal solo spirito della verità e della
giustizia”.478
478
Codice civile: libro delle successioni e donazioni : illustrato con i
lavori preparatori, relazione sul progetto preliminare, relazione sul progetto
definitivo, atti della commissione parlamentare, relazione del guardasigilli a S.M

182
il Re imperatore, Roma, 1939, pag. 9, n.ri 2 e 3, ripresa altresì da Cass. civ.,
25.10.1989 n. 4373. In senso contrario a Donati e a Rotondi riguardo al ricorso
alla norma generale esclusiva, si esprime Solmi, il quale sostiene che il problema
delle lacune non può essere guardato che come un lato del problema generale
dell’interpretazione della legge, per cui solo quando si sia determinato fin dove si
possa giungere con l’analogia e coi principii generali del diritto, si potrà dire se
veramente vi sono punti in cui cessa la possibilità di ricorso all’analogia e in cui
si dia luogo a lacune. Donati sostiene che, in ogni ordinamento giuridico, perchè
sia ammessa l’analogia, sia necessario un apposito riconoscimento legislativo,
Solmi invece che l’analogia sia mezzo necessario d’interpretazione del diritto.
Donati fonda il suo ragionamento su due dati: la presenza della norma generale
all’infuori delle norme espresse e la constatazione che quello che il legislatore ha
voluto per un caso, non può non averlo voluto anche per un caso simile, ma
leggermente diverso, a meno che esplicitamente lo dichiari. Tenendo presente che
per il Solmi la norma generale esclusiva rappresenta il riconoscimento, in realtà,
dell’inadeguatezza del diritto ad un caso concreto, è evidente che ad essa si dovrà
ricorrere il meno possibile e solo quando non vi sia altro modo di trovare una
norma più adeguata. Non può quindi essere che il legislatore abbia inteso
impedire che, dal palese significato di una norma, non si possa indurre la regula
iuris per un caso in tutto simile, benchè non identico, a quello che gli era dinanzi.
Ricorrendo all’analogia, l’interprete fa un’opera di pensiero, che è necessaria allo
spirito umano: egli non esce dalla materia dell’ordinamento giuridico, ma per
mezzo di questa scopre con tutta certezza la effettiva e certa volontà del
legislatore, nei casi analoghi da lui considerati. Così si spiega, secondo Solmi,
come la legge sia costretta espressamente a proibire il ricorso all’analogia nelle
materie di diritto pubblico, dove voglia impedire i possibili arbitri della
P.A.(questo rispetto all’art. 4.); e perciò il cod. civ. germanico ha potuto tacere la
disposizione che ammette l’analogia, senza timore di veder escluso questo
fecondo mezzo d’interpretazione del diritto. Soltanto non si deve credere che
l’analogia sia diretta a determinare una volontà legislativa più ampia, ricostruita
logicamente da una più ristretta. Si tratta, invece, di una volontà del tutto simile a
quella espressa, logicamente indotta dalla volontà espressa, ed adattata ad un caso
strettamente affine a quello previsto. Ma allora non si tratta di creazione, seppur
“vincolata”? Cfr. A. SOLMI, Sulle lacune dell’ordinamento giuridico in Riv. dir.
comm., 1910, p. 487, per la citazione, p. 493.
Quindi, per Solmi, esclusa la norma generale, è legittimo, salvo che risulti
il contrario (art. 4), il ricorso all’analogia senza che sia necessaria un’esplicita
volontà del legislatore in tal senso. Su quest’ultimo punto, risulta quindi concorde
con Rotondi. Quel che è interessante, secondo noi, è la diversa valenza che da
questi due autori viene attribuita all’art. 4. Rotondi lo interpreta come norma che
dà prevalenza all’argumentum a contrario rispetto a quello a simili, almeno in
certe materie; nel resto, si è visto, avviene l’inverso. Solmi, invece, non guarda

183
È il complesso di valori sotteso al sistema - lo “spirito di
verità e giustizia” di cui romanticamente parla la Relazione - che,
dunque, costituisce l’unico vero criterio cui ricorrere per
interpretare la legge. Criterio, questo, che accomuna
l’interpretazione estensiva e l’analogia, rendendo, in apparenza,
superflua ogni distinzione. Ma per questa via, per “spirito di verità e
di giustizia”, non si dovrebbe distinguere più alcunché nel mondo
del diritto, atteso che a tali criteri ogni istituto dichiara di rifarsi.
L’articolo 14, in questa luce, non avrebbe, allora, altro
significato che quello (invero impossibile) di vietare l’introduzione
per via d’interpretazione di nuovi valori nel sistema, di inibile lo
spostamento, surrettizio, di quell’equilibrio assiologico che è insito
in ogni ricerca ermeneutica.

all’art. 4 come norma sancente l’imperio dell’argomentum a contrario, ma come


norma che limita il ricorso all’argomentum a simili, che, a suo parere, è l’unico
possibile.

184
11.3. La ricerca e la distinzione sulla base della
ratio legis

11.3.1. Valore dei lavori preparatori e dei progetti di riforma


nell’interpretazione. Il convincimento interpretativo. Art. 12 e
ricorso ai principi costituzionalizzati: possibilità di una doppia
fonte interpretativa. Intenzione del legislatore e ratio legis.
Problema della ratio legis come un doppione della norma. Ratio
come scopo e come fondamento. Differenza tra razionalità della
norma e sentimento di giustizia. Ratio legis e ragion sufficiente
della esistenza e della verità della norma. Scopo della norma e ratio
legis. L’elemento della ratio nella giurisprudenza.

La ricerca del dato assiologico contenuto nella norma non è,


tuttavia, operazione lontana da contrasti e pluralità di vedute.
Un criterio cui sovente si fa ricorso per giustificare e
sostenere una determinata interpretazione è quello che si appella ai
lavori preparatori della norma oggetto di analisi ermeneutica.
Analizzando le scelte del legislatore - rectius, dei legislatori - e le
spesso opposte posizioni che si sono confrontate in sede
parlamentare si ritiene possibile, infatti, risalire ai valori - ai
principi? alla ratio? - che irrorano la norma in esame.
Numerose sentenze della Cassazione hanno affrontato il
problema del ricorso ai lavori preparatori e anche ai progetti di
riforma legislativi. Per questi ultimi,479 in particolare, il confronto
479
Sul valore dei progetti di riforma agli effetti dell’interpretazione della
legge in vigore si era pronunciata in senso nettamente contrario la sentenza delle
Sezioni Unite 17.1.1936, in Foro it. 1936, I, 455. Di diverso avviso la sentenza
della Corte d’Appello di Roma del 10.1.1939 in Foro it., 1939, I, 673 che ritiene

185
tra le modifiche proposte e discusse e il testo originario, l’analisi
dello “spirito” delle riforme, è stato considerato utile per addivenire
all’individuazione dei valori sottesi.
Tuttavia nella maggior parte di tali sentenze la Cassazione ha
riconosciuto ai lavori preparatori unicamente il tradizionale valore
sussidiario, o anche valore discretivo, ma soltanto quando l’attività
di applicazione normativa sia cronologicamente vicina a quella
promulgativa e il “contesto politico, economico e sociale del tempo
dell’applicazione della legge sia simile o eguale a quello del tempo
in cui la legge fu promulgata”.480 Come si debba fare tale
equiparazione non è spiegato, ma il passaggio è indicativo per la
tesi che andiamo sostenendo: il riferimento, cioè,
all’inpterpretazione teleologica intesa quale individuazione dello
scopo della norma, ovvero a quale problema individuato dal
legislatore voglia essere risposta la norma, verso quale obbiettivo
era (o doveva essere) indirizzata.
Il limite del ricorso ai lavori preparatori - da cui la
sussidiarietà del criterio - è individuata dalla Cassazione481
nell’impossibilità per la volontà da essi risultante di sovrapporsi alla
“volontà obiettiva della legge”, quale emerge, secondo una sentenza
della Suprema Corte, “dal significato proprio delle parole e dalla
connessione di esse, e dall’intenzione del legislatore”,482
riproducendo -in sostanza- le ambiguità dell’art. 12.
La Cassazione insiste nell’appello all’intenzione del
legislatore soprattutto in tema di lavori preparatori, arrivando a
distinguere tra voluntas legis, la volontà oggettiva della norma, e
voluntas legislatoris, la volontà dei singoli partecipanti al processo
formativo della norma,483 ammettendo, così l’esistenza di una

lecita l’interpretazione secondo progetti di riforma di una legge se compiuta


allorché la legge è stata emanata ancorché non entrata in vigore e altresì se la
nuova legge non era ancora stata emanata quando lo sia, anche se non ancora in
vigore, al tempo della sentenza.
480
Così Cassazione civile 1.3.1971 n. 507.
481
Cassazione civile 8.6.1979 n. 3276.
482
Cassazione civile 8.6.1979 n. 3276.
483
Cassazione civile 8.6.1979 n. 3276.

186
“eccedenza assiologica” - che definisce in termini di “volontà” -
della norma, da considerare criterio prevalente sulla effettiva,
concreta volontà di chi materialmente volle la legge.
Negando la possibilità di desumere tale medesima voluntas
legis dai lavori preparatori di una legge diversa che pure adotti
espressioni identiche la Cassazione484 conferma, poi, la netta
distinzione tra le due “volontà” che di comune hanno, per la verità,
solo il nome.
Altro campione è la sentenza della Cassazione penale 485 che
fa riferimento alle osservazioni e riflessioni sulle leggi e sui
regolamenti contenute nella stessa motivazione del giudizio. La
sentenza chiarisce come queste osservazioni non costituiscano
“semplice fonte di ispirazione nell’interpretazione delle norme” ma
facciano, invece, parte integrante del procedimento interpretativo
se, “nonostante la loro collocazione preliminare alla motivazione, il
giudice dimostra di tenerne conto nel suo convincimento
interpretativo”. Questa chiarificazione è di rilievo perché consente,
come corollario, l’impugnazione della sentenza medesima per
inosservanza o erronea applicazione delle disposizioni sulla legge in
generale -gli articoli 12 e 14, in particolare- vale a dire per errata
interpretazione, quando tali osservazioni e riflessioni “si pongano
contro le espressioni letterali delle norme o ritengano tutelati
interessi esorbitanti dal contenuto delle medesime”. In sostanza la
sentenza indica come fonti d’interpretazione non soltanto le norme
in sé, ma anche le riflessioni sulle norme: l’interpretazione, cioè,
diventa essa stessa fonte di interpretazione.
Ridimensionato il valore del ricorso ai lavori preparatori e alla
mens legislatoris come dato a cui riferire l’interpretazione, si è
tentata la via dei principi costituzionalizzati e della coerenza
costituzionale.
Rinviando al capitolo 6 l’analisi del ricorso ai principi, non
può non porsi come problematico il rapporto tra l’articolo 12 e la
484
Cassazione civile n. 2533/1970.
485
Cassazione penale sez. III, 11.1.1980, in Giust. pen. 1981, III, 21.

187
Carta costituzionale, non fosse altro per il fatto che
cronologicamente l’emanazione di questa ha seguito quella,
precedente, del codice. È evidente, infatti, che se l’articolo 12, così
come è stato formulato risente della precedenza temporale rispetto
alla Costituzione, ciò nonostante è impensabile supporre che
l’applicazione dei principi costituzionali sia solo sussidiaria rispetto
al criterio letterale e agli altri indicati dall’articolo 12. Si
altererebbe, altrimenti, la gerarchia delle fonti attribuendo
all’articolo 12 idoneità ad impedire l’applicazione delle norme
costituzionali.486
Sono innumerevoli le sentenze dirette a privilegiare
l’interpretazione secondo Costituzione (o adeguatrice): addirittura si
indica all’interprete di giungere ad una lettura della norma stessa
che, “nel rispetto dei tradizionali canoni ermeneutici”, consenta di
intenderla in armonia con la Carta costituzionale,487 attribuendo a
tale operazione il carattere di “momento costitutivo normale di ogni
interpretazione”.488
La vigenza di una legalità costituzionale impone, dunque,
un’interpretazione alla luce degli interessi e dei valori
costituzionalmente rilevanti, non relegabili, tuttavia, solo all’ultima
parte del secondo comma dell’articolo 12. I principi costituzionali
non sono una fonte normativa concorrente ma alimentano
quell’interpretazione che viene ad essere per definizione logico-
sistematica e teleologico-assiologica.489
Tra i criteri di interpretazione di cui già si è fatto cenno vi è,
infine, quello della “intenzione del legislatore” al quale si riferisce
l’ultima parte dell’articolo 12.

486
P. PERLINGERI, Norme costituzionali e rapporti di diritto civile, in
Rass. dir. civ., 1980, p. 101.
487
Cassazione civile 3.2.1986 n. 661 in Foro it., 1986, I, 1898.
488
Corte costituzionale 14.7.1988 n. 823 in PESCATORE-RUPERTO (a cura
di), Codice civile annotato con la giurisprudenza della Corte Costituzionale,
della Corte di Cassazione e delle giurisdizioni amministrative superiori, cit., p.
34.
489
P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica e
assiologica in Rassegna dir. civ., 1985, p. 1012 e ss.

188
È evidente la concezione volontaristica sottesa all’indicazione
della norma: si rincorre ancora l’idea di un legislatore personificato,
senza avvedersi, al contrario, del fatto che questa è persona fittizia
ma inutile.490 Concezione che, come detto, trova la sua
consacrazione dell’articolo 1 del codice civile svizzero dove si
incarica l’interprete di decidere “secondo la regola che adotterebbe
come legislatore”.491
Del resto questa che appare una considerazione ovvia rispetto
ad una concezione ormai superata dall’attuale elaborazione
giuridica è, al contrario, una impostazione che fa tuttora parte della
cultura giuridica moderna.
La stessa distinzione tra interpretazione estensiva e analogica,
pertanto, si è ritrovata in quella tra ricerca del pensiero del
legislatore insito nella norma e ricerca di quello che sarebbe stato il
pensiero del legislatore se vi avesse pensato.492 L’analogia, cioè, è
sovente costruita come l’individuazione della volontà presunta del
legislatore: il che, evidentemente non può che palesarsi come un
artificio della dottrina per mascherare, dietro questa entità - la
volontà di un legislatore - l’elemento che realmente presiede alle
ricerche ermeneutiche.
Si è anche tentato di distinguere l’interpretazione estensiva
dall’analogia sulla base di un ipotetico diverso fondamento: la
prima poggerebbe sulla volontà del legislatore, la seconda sulla
somiglianza dei casi. A parte la constatazione493 che si prendono in
considerazione, in questo modo, due punti di vista diversi - il
fondamento, nell’un caso, e il procedimento nell’altro - è già emersa
l’artificiosità e l’ambiguità del riferimento ad un legislatore con una
volontà tangibile al pari della volontà contrattuale.
In effetti l’unica realtà afferrabile, più che quella di un
legislatore con questa o quella volontà - o intenzione, come recita

490
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. II, cap.
3.
491
Cfr. § 4.1.
492
N. BOBBIO, op. loc. ult. cit.
493
Cfr. N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.II,
cap. 4.

189
l’articolo 12 - è quella che può essere indicata come la figura di un
legislatore ragionevole e moderno così come lo concepisce
l’interprete, di un legislatore che esprime, cioè, i criteri di
ragionevolezza, sistematicità e attualità secondo i canoni
dell’interprete. Il che, però, vale a dire che l’unica realtà afferrabile,
più che quella di un artificioso legislatore, è quella dell’interprete
medesimo.
Come indica Betti nella sua critica al dogma della volontà
legislativa494 compito dell’interprete è di rendere esplicito il “senso
della legge”, non di ricreare una “volontà della legge”. Volontà che
già dovrebbe essere negata come concetto solo a constatarne
l’aporia di fronte al fenomeno della consuetudine, istituto in cui non
può che stridere l’accostamento del concetto di volontà con quello
di spontaneità insito nell’idea dell’opinio iuris seu necessitatis.
Volontà, poi, che proprio grazie al compito dell’interprete,
viene ad essere spersonalizzata, al massimo ridotta a “ipostasi o
finzione di una 'volontà collettiva'”. Dato che il legislatore si rivela
non essere altro che “l’insieme degli interessi della comunità che
nella legge hanno trovato protezione” e la sua “intenzione” non
altro che lo “scopo pratico che la legge si propone di conseguire”,495
è evidentemente fuorviante ricercare una intenzione del legislatore -
in un parallelismo con la volontà individuale - in questa sorta di
volontà collettiva che “non trova riscontro nella realtà sociale più di
quanto vi trovi riscontro una coscienza collettiva.”496 Ed anche qui,
ci sembra, ritroviamo un tassello della costruzione che andiamo
sostenendo: non la ricerca di una volontà, ma la ricerca di un
obbiettivo. Si tratta, a ben vedere, della struttura propria della
direttiva che tradizionalmente costituisce il nerbo dell’ordinamento
giuridico comunitario; una disposizione, cioè, che indica lo scopo
da raggiungere, lasciando un certo margine di libertà nella scelta
delle vie da seguire per arrivare alla destinazione prefissata.
Respinto il concetto di volontà del legislatore, pertanto,
questo è soppiantato dal concetto di ratio iuris, dove l’indagine
494
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., cap. XI.
495
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., cap. XI.
496
E. BETTI, op. ult. cit., p. 261 e ss.

190
ermeneutica va a ricercare, a seconda di come la si intenda, lo scopo
della norma ovvero il suo fondamento.
Nella ratio come scopo non vi è la ricerca della mera occasio
legis, come fa la critica aderente al formalismo kelseniano,497 bensì
la ricerca della causa finale della norma, da ammettere come dato
fenomenologico, da rinvenire mediante criteri teleologici di
interpretazione. Nella ratio come fondamento, invece, vi è la ricerca
del fondamento logico e assiologico della norma tramite cui la
norma medesima si conforma alle esigenze sociali.498
Quello della ratio, è stato utilizzato su queste basi non
soltanto come criterio ermeneutica, ma anche come elemento
discretivo tra lo strumento dell’interpretazione estensiva e quello
dell’analogia. Mediante quello che Betti definisce499 “l’artificio con
maggiore risalto” nelle teorizzazioni della dottrina, si è, infatti,
intesa l’interpretazione estensiva come basata sul dogma della
volontà, contrariamente all’analogia, basata su un argomentare dalla
parità di ratio tra un caso non disciplinato e una norma regolante
casi o materie simili. In questo modo, tuttavia, si è disconosciuto il
fatto che la ricerca dell’eadem ratio sta alla base anche
dell’interpretazione estensiva nel momento in cui si spinge a trovare
il fondamento dell’estensione secondo la razionalità della norma.
Del resto, poi, anche l’analogia esige un apprezzamento della ratio
della norma come apprezzamento della teleologia in essa
immanente, come giudizio di valore500 e quindi nemmeno su questo
terreno è possibile negare l’equiparazione tra i due strumenti
ermeneutici. Almeno secondo la posizione di Betti.
La ricerca della ratio insita nella norma, tuttavia, potrebbe
apparire come la ricerca di una sorta di norma nella norma, di

497
Cfr. E. BETTI, op. ult. cit., p. 275 e ss.
498
E. BETTI, op. loc. ult. cit., p. 169 e ss.
499
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 169 e
ss.
500
G. ZACCARIA, L’analogia come ragionamento giuridico, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1989, p. 1541.

191
doppione, quindi, della norma stessa.501 Per contro l’insistere sulla
ricerca del senso della legge, della razionalità ad essa intrinseca, si
scontra con la constatazione502 espressa dal brocardo dura lex sed
lex: nonostante una legge appaia irrationabilis, infatti, la sua
coercitività sembrerebbe imporne il rispetto, lontano da ogni
interpretazione che, sotto la maschera dell’evolutività, rischierebbe
di trasformarsi in un’interpretazione - per i formalisti - politica.
La razionalità della legge, al contrario, viene fatta coincidere
con il senso di giustizia,503 esigenza storicamente condizionata e
accertata dall’interprete con criteri obbiettivi, fondamento di ogni
intuizione analogica ma, prima ancora, ermeneutica. Ma in tal modo
determinata essa è anche la “ragion sufficiente” della norma così
come la definisce Bobbio,504 tanto che se è vero che è “id propter
quod lex lata est, et sine quo lata non esset”, accade anche che
“cessante ratione legis, cessata est ipsa lex”.
Affermazioni tanto condivisibili quanto gravi, soprattutto in
una cultura giuridica come la nostra, più propensa all’opzione
formalistica che a quella dell’equità come nei Paesi di common law.
Tanto che si è subito avvertito il pericolo, insito nel criterio della
ratio, costituito da una tentazione verso le soluzioni arbitrarie e una
minaccia al dogma della certezza.505
Bobbio distingue tra ragione sufficiente dell’esistenza della
norma e ragione sufficiente della sua verità: la prima, che individua

501
Cfr. P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, p.
601.
502
P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica e
assiologica, cit., p. 992, avvallando così la contraddizione di Bobbio: cfr. supra n.
474.
503
Così R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, in Riv.
trim. dir. proc. civ., 1951, p. 763.
504
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.II, cap.
2.
505
Ancora R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, cit., p
.763.

192
come fatto storico, è la causa della norma, mentre la seconda, che è
un giudizio, ne forma il fondamento.506
La ragione sufficiente della norma, la “ragione per cui essa è
quello che è (nihil est sine ratione cur potius sit quom non sit)”507 e
per cui un effetto è tale in rapporto ad un certo caso, non sarebbe
data da una razionalità come astratta ragione, ma come ragione
immanente, secondo Bobbio508 come “storicità” tramite cui si risale
alla volontà.
Addirittura il chiaro autore arriva a dire che la volontà della
legge e nella legge è per lo più ignota, e quando è nota lo è
attraverso la ragione, tanto che se ci fosse una volontà, nota, non
coincidente con la ragione della legge sarebbe della ragione e non
della volontà che si dovrebbe tenere conto.509
Ma codesta razionalità è concepibile, a questo livello, anche
come adeguatezza della norma rispetto allo scopo, il che equivale a
dire che, proprio in virtù dello scopo, la norma è posta a contatto
con l’esperienza sociale e con quelle istanze che la giustificano
nella sua storica attualità,510 circostanze in grado di offrire un
criterio fondamentale per la conoscenza del suo contenuto. Se,
allora, razionalità è adeguatezza allo scopo ciò significa anche
ripudiare ogni concezione formalistica e concettualistica della legge
per accoglierne invece una concezione teleologica.511 Scopo e ratio
della norma si avvicinano, pertanto, fino a identificarsi.512

506
La distinzione era già stata rilevata da C. NEGRONI,
Dell’interpretazione, Roma, 1878, p. 83.
507
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 165.
508
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. II cap.
4.
509
N. BOBBIO, op. loc. ult. cit.
510
M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.
1954, p. 635.
511
M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.
1954, p. 634.
512
Cfr. N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.
107; E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 166; L.
SCARANO, Il problema dei mezzi nell’interpretazione della legge penale, in Riv.
it. dir. pen., 1952, p. 164.

193
Ma nel definire l’analogia come lo strumento mediante cui si
trascende il contenuto di una norma espressa per applicare una
norma inespressa implicita nel sistema,513 rinvenibile aliunde
proprio sulla base di una comune ratio, non ci si discosta dal
definire l’interpretazione estensiva. Questa, comunque, è un
estendere in virtù di una ratio rinvenuta per analogia: perciò se a
caratterizzare entrambi i procedimenti è tale comune intuizione
analogica, basata sulla ratio, non vi è, di nuovo, ragione di
distinguerli.
Ciò che fin qui si è data per scontata è, tuttavia, proprio
l’equiparazione tra la “ragion sufficiente” della norma e la sua ratio
e così, nel parlare di analogia, tra scopo o fondamento di una norma
ed elemento autorizzante l’equiparazione. L’apriorismo si è dato
proprio non discutendo la riconducibilità dell’idea di ratio entro i
concetti di una logica formale:514 si è tralasciato di considerare,
cioè, che il giudizio che consente tale equiparazione appartiene non
soltanto ai giudizi logici o di fatto, ma anche e soprattutto ai giudizi
di valore. È quindi sul dato assiologico, sull’elemento valutativo
insito nella scelta della norma e del principio da applicare, che
trovano fondamento i processi di estensione e di analogia e su tali
basi, prima ancora che su elementi di logica formale, che se ne
dovrà ricercare la distinzione.
La giurisprudenza ricorre sovente all’elemento della ratio,
soprattutto per giustificare applicazioni - analogiche o estensive -
più “audaci”, come per avallare l’introduzione di nuove
interpretazioni facendole rientrare nel contenuto delle norme.
Spesso, anzi, viene addirittura negata l’applicazione dell’analogia o
dell’interpretazione estensiva perché si comprende una certa
interpretazione entro la ratio della norma così che, si dice, non vi è
nemmeno bisogno di ricorrere a tali strumenti ermeneutici.
Prendono l’identità di ratio come elemento di paragone tra
due istituti, o due materie o casi, e quindi come dato che autorizza o

513
Per tutti G. BETTIOL, Diritto penale, Palermo, 1945, p. 84.
514
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958, p. 364.

194
nega l’applicazione analogica, numerose sentenze,515 tra cui
rilevante è quella della Cassazione del 1981516 che vieta non solo
l’interpretazione analogica, ma anche quella estensiva nel caso di
disposizioni di diritto singolare, laddove la ratio legis non persuada
che “il legislatore ebbe in mente di estendere il suo precetto a casi
apparentemente non contemplati”. Vi si fa riferimento, cioè, ad una
ratio in grado di persuadere sulla ratio, ad una razionalità o
ragionevolezza che autorizza un’interpretazione anche esorbitante
l’apparenza, forse quest’ultima coincidente con la letteralità.
Interessante è anche il rilievo della sentenza della Cassazione
del 1990517 che, sempre nell’ambito di norme di diritto eccezionale
o singolare, ne esclude, invece, sia l’applicazione analogica che
l’interpretazione estensiva con riferimento a situazioni che, sebbene
similari a quelle contemplate espressamente, “esorbitano
dall’ambito di operatività della norma stessa, individuato alla
stregua della ratio legis”. La ratio qui è l’elemento che serve ad
individuare l’ambito di operatività, il “confine” della disposizione
di legge.
Emerge, allora, come sia ancora lontana dalla nostra
tradizione giudiziale, come si è potuto constatare, la concezione
della ratio come anima della norma e come elemento assiologico in
grado di sostenerne una corretta ermeneutica, almeno nelle
dichiarazioni esplicite, contrariamente alla dottrina che, invece, su
questi punti ha da tempo avviato le sue riflessioni.

515
Cfr. Cassazione penale sez. I, 10.11,1993 in Foro it. 1995, II, 558;
Cassazione penale sez. I, 12.1,1993 in Cass. pen. 1993, 6, 79; Cassazione civile
sez. I, 19.4.1991 n. 4234 in Foro it. 1991, I, 3114; Consiglio Stato sez. V,
26.10.1990 n. 731 in Foro amm. 1990, fasc. 10.
516
Cassazione civile, sez. lav., 28.3.1981 n. 1800 in Giust. civ. Mass.
1981, fasc. 3.
517
Cassazione civile, sez. lav., 2.2.1990 n. 689 in Giust. civ. Mass. 1990,
fasc. 2.

195
12. LE SOLUZIONI AL PROBLEMA DELLA
DISTINZIONE

12.1. Premessa logica: ragionamento per analogia


nella logica in generale e nel diritto in particolare

12.1.1. L’analogia nella riflessione teologica e filosofica.


L’analogia nella logica: le proposizioni. Ragionamento sottinteso:
induttivo, deduttivo, sussuntivo. Ragionamento per analogia come
di probabilità (storicamente condizionato), non di certezza. Critica
alla completa equiparazione tra analogia nella logica generale e
nella logia giuridica. Esistenza di un termine medio che non è nella
legge ma è nel diritto, come un giudizio di valore, non logico in
senso stretto.

Prima ancora di essere utilizzato come strumento di


interpretazione giuridica quello dell’analogia ha costituito uno dei
termini del ragionamento nella logica e, forse prima ancora, nella
teologia.
Si è già accennato come per quest’ultima l’analogia sia, anzi,
stata considerata un’importante - talora l’unica - forma attraverso
cui si è ritenuto che l’uomo possa attingere alla conoscenza del
trascendente. Tutta la tradizione di pensiero occidentale, quindi, si
può dire segnata, secondo un apparente e dirompente ossimoro,
dall’intuizione analogica,518 non solo a partire dalla speculazione
filosofica, ma anche in ambito di speculazione teologica.

518
L’apparente antiteticità dei termini non deve trarre in inganno. Potrebbe
sembrare, infatti, impossibile una coesistenza dell’elemento di rigorosa logicità
fornito da un procedimento come quello analogico con il dato, empiricamente a-
logico - o almeno che mette tra parentesi il discorso logico - dell’intuizione. In

196
Nella stessa concettualizzazione biblica519 dell’uomo si può
riconoscere, pertanto, il nucleo essenziale della struttura di

verità parlare di intuizione analogica non è affatto contraddittorio se si parte da


un’accezione di analogia come quella che si viene delineando. Ciò che rende, in
ambito giuridico, l’analogia così intesa vicina all’intuizione è, infatti, il
superamento del dato letterale della norma per passare, sul piano assiologico, al
collegamento con il sistema giuridico di riferimento. L’attualizzazione della
norma e la sua interpretazione secondo la “vivente attualità”, dunque, avviene per
un procedimento che approda al dato assiologico con un “salto”, oltre la stretta
positività normativa, assimilabile a quello di un’intuizione. Questo non significa,
tuttavia, che l’interpretazione analogica sia qualcosa di abbandonato ad una sorta
di fluttuare tra le illuminazioni emozionali dell’interprete. La forza di gravità di
questa “intuizione” è, comunque, la sua rigorosità, e il suo legame non tanto alla
soggettività dell’ermeneuta quanto al dato dell’orizzonte assiologico cui dà
accesso.
Anche rimanendo su un piano non strettamente giuridico, comunque, si
può sottolineare il fatto che, a ben vedere, persino la conoscenza intuitiva, per
quanto scevra di ragionamento, non possa prescindere dall’approdo a risultati
analogici e come, per converso, la conoscenza analogica non possa non avvalersi
di procedimenti intuitivi.
Interessanti a questo riguardo sono anche le considerazioni di Husserl
nelle Ricerche logiche, II vol., a proposito dell’intuizione empirica, rivolta
all’oggetto individuale, e dell’intuizione categoriale, che, partendo dall’oggetto
empirico e in connessione con esso, coglie l’oggetto generale. Quest’ultimo tipo
di intuizione raggiunge il mondo delle essenze o delle idee, e a queste Husserl si
rivolge come ad “ontologie regionali”, regioni in cui l’essere si articola e si
differenzia. Mi sembra che si possa cogliere un certo parallelismo tra l’idea di
intuizione analogica e l’analisi del filosofo tedesco cui si è fatto cenno.
Si può accennare qui al fatto che un’interessante analisi sull’intuizione e
sulla sua portata gnoseologica fu approfondito da diversi autori, tra cui H.
Bergson (Introduzione alla metafisica, 1903) e attraverso le idee di quelli che
furono definiti “intuizionisti”, in particolare della cd. scuola del senso comune,
per i quali alla base dell’agire etico stava l’intuizione, come capacità di cogliere
principi razionali oltre la conoscenza empirica e come strumento per conoscere in
modo prerazionale (“affettivo”, diranno Hartmann e Scheler) i valori morali. Su
questo carattere “affettivo” della conoscenza, peraltro, indugia lo stesso Betti (Di
una teoria generale dell’interpretazione, p. 41 ss) dove abbozza il discorso a
proposito della cd. spiritualità dell’interprete, di cui si è già discorso al cap. 1.
Permane, ad ogni modo, come si può constatare, una pesante ipoteca della
conoscenza analogica su tutta il pensiero occidentale.
519
Cfr. Gn, 1, 26: “E Dio disse: ”Facciamo l’uomo a nostra immagine, a
nostra somiglianza, [...].”

197
conoscenza analogica: l’uomo è fatto a “immagine e somiglianza”
di Dio, cosicché conoscendo l’uomo è possibile conoscere Dio
nonostante i due termini non siano identici (o forse proprio per
quello). L’uomo conosce Dio, insegna la tradizione biblica, per
analogia con l’esperienza che fa di se stesso:520 questa impostazione
rimane viva nella gnoseologia occidentale, che continuerà a riferirsi
allo strumento dell’analogia come al mezzo in grado di mettere in
relazione gli “enti” consentendo una sorta di superamento della
“datità”521 a fronte dell’accesso all’”ulteriorità”.

520
L’immagine di Dio nel creato non è l’uomo individualmente
considerato, ma l’uomo in quanto umanità. Secondo l’interpretazione che ne dà
Gregorio di Nissa (De hominis opificio 140C) per procedimento d’analogia è
possibile conoscere di Dio anzitutto l’unicità: poiché l’immagine è unica, anche
l’archetipo sarà uno. Tuttavia è possibile conoscere, sempre secondo Gregorio
(Contra Eunomion, 256), solo ciò che è intorno a Dio, a causa della pochezza
della intelligenza umana. “Poiché ci sfugge la natura della nostra intelligenza che
è ad immagine del Creatore, ciò dimostra in maniera perfetta la somiglianza con
Colui che la domina, esprimendo attraverso il mistero che è in lei la natura
inconoscibile”. Interessante notare che la duplice definizione “immagine e
somiglianza”, variamente interpretata, è intesa dall’autore citato come un
rapporto di reciproca implicazione ma di non coincidenza. Per Gregorio, anzi,
nella ragione risiede l’immagine, nel nous, ed è causa efficiente della
somiglianza, che si acquista attraverso il gioco della libera volontà.
Non sarà superfluo, ad ogni modo, sottolineare l’opportunità di una lettura
non in termini di essenza ma di rappresentazione, di specularità del racconto
esameronale; il che non toglie, tuttavia, l’influsso che la struttura di conoscenza
analogica, nel passo contenuta, ha esercitato sul pensiero occidentale.
521
L’analogia, cioè, è il mezzo attraverso cui la realtà, che appare come un
dato, consente di accedere alla trascendenza, a quell’”ulteriore” che emerge dalla
relazione tra gli “enti”. Davanti all’insufficienza del “dato” della conoscenza
soccorre, cioè, l’analogia. Stabilire un’analogia tra due “enti”, allora, significa
oltrepassarne i confini di conoscibilità per aumentare, al contrario, le possibilità
di conoscenza. Che cosa rivela la relazione tra i due enti? Se è una relazione di
analogia significa non solo che c’è del diverso e c’è del comune tra questi enti,
ma anche che il loro legame rimanda ad un assetto - di “valori”, o di “essenza” -
che oltrepassa il primitivo dato conoscitivo e forma una sorta di inter-essenza,
come tale ulteriore.

198
Siffatta “analogia degli enti” fu sviluppata in ambito teologico
soprattutto dal tomismo,522 favorendo questo “prestito” delle
nozioni trascendentali da una realtà all’altra - umana e divina,
naturale e soprannaturale - sulla scorta della loro avvicinabilità.
D'altronde vale la pena sottolineare come la stessa matrice del
tomismo, Aristotele,523 utilizzò i concetti di “somiglianza” per
indicare non qualunque concordanza di due termini, ma la
concordanza di due termini sotto l’aspetto della qualità.524 I
dialettici parleranno di similitudo e diranno che “nihil aliud est,
quam rerum differentium eadem qualitas”.525 E dunque, se ogni
forma di conoscenza avviene per “riconoscimento” per identità e
differenza dell’ignoto comparato con il già noto, allora ogni forma
di conoscenza è mutuata sull’analogia. Anzi, l’analogia costituisce
il paradigma stesso della conoscenza in generale e, quindi, anche
del ragionamento giuridico.
Siamo al nodo del problema: la difficoltà nel distinguere
analogia da interpretazione estensiva si annida nella circostanza
(nulla di più) che quest’ultima (come ogni forma di conoscenza)
partecipa della struttura euristica per identità e differenza o per
confronto tra “diverso” e “comune”.526

522
Ma fu respinta da autori come Duns Scoto e Occam, che rivendicarono,
invece, l’univocità degli enti. Fra i contemporanei anche Barth nega l’esistenza di
similitudini tra Dio e il mondo, respingendo anzi ogni discorso analogico in sede
teologica. Cfr, in questo senso F. BOTTIN, La scienza degli Occamisti, Rimini,
1982, specialmente p. 87. Altresì, cfr. P. VIGNAUX, La filosofia del medioevo
(1987), trad. it. Bari, 1990, specialmente, p. 61 e ss., 105 e ss.
523
Cfr. ARISTOTELE, Metafisica, libro V, citato anche da N. BOBBIO,
L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. II, cap. I.
524
Per la verità i concetti sono enunciati con diversa significanza anche
dalla speculazione platonica. Cfr. PLATONE, Il Sofista, 235 e), ed. a cura di
Arangio-Ruiz, Bari, 1951. Cfr. supra n. 4.
525
N. BOBBIO, op. loc. ult. cit., che tralascia, tuttavia, ampi momenti della
riflessione classica su cui infra.
526
Seppure rimanga affermata nel linguaggio corrente la dizione principio
per identità e differenza, la dottrina più attenta già da qualche decennio ha messo
in luce come questa dicitura risulti impropria. Infatti, il confronto dialettico non
potrebbe darsi “per identità”, poiché, in ossequio alla confutazione platonica del
sofista attorno alla quadripartizione dell’essere (uno - molti, quieto – in moto) due

199
termini “identici” non potrebbero sussistere, in quanto sarebbero la medesima
cosa. Per questo l’indagine dovrebbe avvenire solo per “comunanza e diversità”,
cioè raggruppando e dividendo gli oggetti da conoscere per ciò che gli accomuna
e per ciò che li diversifica. In verità, a ben vedere, la “comunanza” dei due oggetti
a confronto può darsi solo tramite un procedimento analitico che, sezionandoli,
individui i profili “identici” tra i due termini che, per questo aspetto, diventano
“comuni”. Come possono dirsi “comuni” due oggetti di indagine, se non legati da
spetti che sono tra loro “identici”? La comunanza non può che essere data dalla
corrispondenza dell’oggetto con il suo archetipo. Ciò che rende due termini
“comuni” non può che essere l’identità, cioè l’esatta sovrapponibilità di uno o più
dei loro aspetti, che poi questi aspetti si presentino già distinti dal fatto di
accedere a due termini diversi, fa si che gli oggetti di indagine siano due e non
uno. Altresì, il procedimento della dialettica classica deve essere completato con
il principio, anch’esso di origine platonica, di non contraddizione e terzo escluso,
ponendo la ricerca in termini di alternativa dualista e identificando il termine di
indagine in un dato tempo, giacché il fluire del “divenire” consente a Socrate (per
mantenere il noto esempio) di essere prima seduto e poi in piedi, giacché solo
nello stesso tempo egli non può essere in piedi e seduto. Così come, l’alternativa
tra identità e differenza può esplicare la sua efficacia euristica solo se mantenuta
nei termini dell’alternativa, giacché l’introduzione di un tertium genus sposta il
termine di indagine compromettendo il confronto. Per questo motivo, pur
mantenendo la consapevolezza della diversità che distingue “identità” da
“comunanza” (e proprio a questa condizione) non riteniamo di dover mutare la
terminologia di quello che è orami conosciuto come principio per identità e
differenza, non contraddizione e terzo escluso. Tra le molte monografie tedesche,
per il ruolo che hanno avuto ed ancora hanno nella storia del pensiero, cfr. E.R.
BIERLING, Zur Kritik der juristischen Grundbegriffe, Gotha, 1877; IDEM,
Juristische Prinzipienlehre, Freiburg und Leipzig, 1894; R. STINTZING,
Geschichte der Deutschen Rechtswissenschaft, München und Leipzig, 1880; E.
LANDSBERG, Geschichte der Deutschen Rechtswissenschaft, München und
Leipzig, 1898; più recentemente, cfr. W. SAUER, Juristische Methodenlehre.
Zugleich eine Einleitung in die Methodik der Geisteswissenschaften, Stuttgart,
1940; F. MÜLLER, Juristische Methodik, Berlin, 1976; nonché il più diffuso K.
LARENZ, Methodenlehre der Rechtswissenschaft, V ed., Berlin, 1983, della cui I
ed. (1960) esiste una traduzione italiana, non a caso, limitata alla parte storica,
Storia del metodo della scienza giuridica, Milano, 1966. In Francia, oltre ai
capitoli dedicati al metodo nelle opere di Gény, di Eisenmann, Batiffol e Villey
cfr. particolarmente, P. AMSELEK, Méthode phénoménologique et théorie du
droit, Paris, 1964, p. 24 e ss. Per un'esplicita professione di applicazione del
metodo di identità e differenza e del principio di non contraddizione e del terzo
escluso, in un ampio capitolo introduttivo di carattere metodologico, ad
imitazione delle migliori monografie germaniche, cfr. la rilevante opera di G.

200
Il concetto di analogia, nato per gemmazione dall’intuizione
platonica, riceve nuova linfa innestandosi nelle costruzioni della
matematica che attingevano all’idea di proporzione, tanto che
ancora oggi l’elaborazione sull’analogia oscilla sovente tra il
significato, in termini matematici, di “proporzione” e quello, più
generico e in termini logici, di “comparazione”.527
La struttura logica dell’analogia ha, dunque, sempre fatto
riferimento al concetto di “comunanza” tra due termini: la stessa
derivazione greca del termine ( indica la relazione di
identità, similitudine, tra due elementi o discorsi. E da qui, a partire
dall’analisi delle proposizioni matematiche (e logiche), si è dipanato
il percorso logico attraverso cui storicamente è andato ad operare lo
strumento analogico.
Si rende indispensabile, a questo punto, soffermarsi
brevemente su tale percorso, al fine di chiarire quel ragionamento
logico che, successivamente, verrà tradotto in termini giuridici.
Dato un predicato afferente un soggetto si è giunti ad
attribuire lo stesso predicato ad un diverso soggetto in base alla
relazione logica di similitudine tra i due. In simboli, utilizzando il
linguaggio proprio delle proposizioni matematiche e logiche,
modernamente si è indicato questo procedimento analogico
mediante le espressioni “q è p”, dove q è il soggetto e p il predicato,
per indicare l’attribuzione di un predicato ad un soggetto; “s è p”,
dove s è il diverso soggetto, per indicare l’assegnazione dello stesso
predicato ad un diverso soggetto; “s è simile a q” , per indicare il

BRUNETTI, Il dogma della completezza dell'ordinamento giuridico, Firenze, 1924,


p. 27. Cfr. altresì W. SAUER, Juristische Methodenlehre, cit. p. 327 e ss., p. 441 e
ss., nonché 560 e seg. La rilevanza (anche) giuridica del principio di non
contraddizione, inteso come condizione per il significato di ogni altro discorso,
viene evidenziata da E. BERTI, Il principio di non contraddizione come criterio
supremo di significanza nella metafisica aristotelica, memoria presentata dal
socio effettivo Marino Gentile in “Rendiconti della Classe di Scienze morali,
storiche e filologiche” dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti (Venezia),
serie VIII, vol. XXI, fasc. 7-12 – Luglio – Dicembre 1966.
527
Ci ricorda il detto di M. T. CICERONE nel Timaeus, “Id optime
adsequitur, quae Graece  latine comparatio proportiove dici potest”,
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, cap. V.

201
passaggio di predicato sulla scorta della relazione e ragione
sottostante di similitudine.
Di per sé, si è detto,528 tale ragionamento non offre alcuna
garanzia di validità, dato che per rendere credibile il passaggio del
predicato “p” dalla proposizione “q” alla proposizione “s” è
necessario che “p” sia la ragione sufficiente di q e di s. Il predicato
“p” deve, cioè, poter sostenere sia il soggetto “q” che il soggetto
“s”.
Si è, allora, detto che, per dare credibilità al passaggio tra “q”
e “s” si rende opportuno introdurre un nuovo elemento nel
ragionamento, simboleggiato con “m”, che rappresenta il
fondamento di validità della proposizione “s è p”. Da qui, poi, si è
reso, in questo modo, possibile la transitività tra “q” e “s”, dato che
si è allargato il discorso logico sfruttando il “ponte” dell’elemento
“m”, passando attraverso la sequenza “q è p”; “q è m”; “s è m”; “s è
p”.
A questo punto, però, introdotto il concetto di un “m” in grado
di spiegare in modo plausibile il passaggio tra “q” e “s”, si è resa
necessaria una giustificazione di tale “m”, supposto esistente per
giocoforza logico, ma implicante una sostenibilità almeno
sufficiente. Si possono, su questo punto, rinvenire quanto meno due
ordini di giustificazioni.529
Da un lato si è spiegato questo termine medio “m” come una
relazione del tipo fondamento a conseguenza: “m” sarebbe il genere
di cui “p” è il predicato, tale per cui si renderebbe possibile dire
“tutti gli m sono p” e farne il fondamento di validità del
ragionamento. In questo caso, perciò, il procedimento per analogia
si è avvalso della logica deduttiva, cosicché il passaggio da “q è p”
alla proposizione “s è p” è scaturito da una deduzione sulla
proposizione generale “tutti gli m sono p”.
Dall’altro lato si è individuato questo “m” come una relazione
del tipo causa ad effetto: sarebbe, in forza di ciò, possibile dire “m è
la causa di p” e farne, a sua volta, il fondamento di validità del

528
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. 81 e ss.
529
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. 97 e ss.

202
ragionamento. In questo secondo caso, come si può notare, il
procedimento per analogia si caratterizza, invece, come induttivo,
sulla base dell’osservazione empirica che “m è la causa di p”.
Traducendo tutto questo dal piano strettamente logico al piano
giuridico si arriva ad affermare che è applicabile una certa
disciplina giuridica prevista per un caso - contemplato - ad un caso
che non è contemplato nella lettera della legge per il fatto di
riconoscere una relazione di somiglianza - o la ragione comune? -
tra i due casi.530 Ma proprio su questo punto si innescano i contrasti,
sull’individuazione di quel quid in grado di consentire il passaggio
logico dal caso contemplato alla disciplina del caso non
contemplato, da “q”, “a”, “s”.
Non solo. La difficoltà nel distinguere l’analogia
dall’interpretazione estensiva consegue alla difficoltà
nell’individuare il confine di quel “q” e la comprensività di quel
“m”, nonché la effettiva distinguibilità tra “q” e “s”. Difficoltà
insormontabile ove si insista nell’indugiare (ecco il limite!)
nell’allargamento dei “soggetti” per accomunarli tutti sotto lo stesso
“predicato”, si pretenda cioè di risolvere e giustificare il passaggio
dal caso contemplato “q” al caso non contemplato “s” mediante un
allargamento del concetto di “q”, tale per cui vi si finisca per
includere lo stesso “s”. Come, infatti, delineare i confini di “q” e
decidere, per ipotesi, che, contrariamente a quanto è possibile fare
con “s”, non vi rientra l’ipotesi “t”, totalmente estranea alla
comprensività di “q”?
Per accedere ad una risposta il più possibile univoca si rende,
allora, necessaria l’analisi della struttura dell’analogia sulla scorta
delle sollecitazioni che vengono dalla riflessione logica, nonché del
fondamento - politico, giuridico e logico - dello stesso
procedimento.
Si è accennato alla configurabilità del procedimento per
analogia come ragionamento deduttivo, ma anche, secondo altra
accezione, induttivo.

530
M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.
1954, p. 624.

203
Per quanto riguarda l’induzione la riflessione logica e
dottrinale non si è curata troppo di distinguerla sia
dall’interpretazione che dall’analogia. Comunemente si è intesa,
perciò, l’induzione come una fase del procedimento analogico,
tramite cui dal precetto si evince il principio, dalla norma la ratio.
In quest’ottica531 l’induzione diventa quasi un procedimento
autonomo, che può vivere anche indipendentemente dall’analogia, e
non più, pertanto, come una sua fase. L’induzione, infatti, si può
ritrovare in quei procedimenti, cui si è più indietro dato rilievo,532 di
ricerca dello “spirito del sistema” propri, piuttosto,
dell’interpretazione in quanto tale533 e della norma.
Non si è mancato, tuttavia, di osservare che, mentre
l’induzione si struttura come una ricerca eminentemente
oggettiva,534 la ricerca dello spirito si fonda su un ritrovamento
delle “valutazioni immanenti e latenti” nella legge le quali, nel
momento in cui costituiscono la ratio iuris di norme già formulate,
possono essere adoperate come base o “addentellato da cui ricavare
e rendere esplicite le massime adatte alla decisione cercata”,535
come sottolinea lo stesso Betti. Induzione e ricerca dello spirito
vengono perciò, con queste puntualizzazioni, differenziandosi. Ciò
significa che si viene attenuando anche la portata
dell’avvicinamento dell’analogia all’induzione, almeno in senso
stretto, e così che, sul piano logico, sarà necessario spingere altrove
l’analisi dello strumento analogico.
Si è cercata, allora, un’affinità tra l’analogia e la deduzione,
tentando di costruire, cioè, il procedimento analogico come un
fenomeno deduttivo: la situazione particolare prevista dalla legge,
da estendersi al caso simile, si è individuata come esemplificativa, e

531
Cfr. L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale,
Milano, 1975, p.295.
532
Cfr. § 4.3
533
La colloca in questi termini L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto
giurisprudenziale, Milano, 1975, p. 295 nota 283, o ammette che si parli,
piuttosto, di “astrazione” o “generalizzazione”.
534
Lo sottolinea E. EHRLICH, Juristische Logik, Tübingen, 1925, p. 258.
535
E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit. p. 31.

204
non tassativa,536 cosicché si è resa possibile la concretizzazione dei
principi in soluzioni, e si è dato vita, così, alla vera e propria
applicazione.
Non solo. Si potrebbe qualificare come deduttivo anche il
procedimento attraverso cui si sono trasformati e combinati i
principi per produrne di nuovi, in una sorta, diremmo, di
“deduzione di alto livello”.
Come si può vedere si sono fusi e confusi in un unico
elemento, quello deduttivo, più procedimenti e, inoltre, anche in
questo caso, se si può riconoscere una componente deduttiva nel
procedimento analogico, non è altrettanto sostenibile la perfetta
coincidenza tra la deduzione e l’analogia. La deduzione, come per
l’induzione, è stata ritenuta sussistere, infatti, anche autonomamente
da un discorso analogico.
Si è allora parlato, a proposito dell’analogia, di induzione
imperfetta,537 e di deduzione temperata538 nel tentativo di conciliare
i due procedimenti logici con le caratteristiche dello strumento
ermeneutico e con le conseguenze che comporta l’applicazione al
fenomeno giuridico di detti procedimenti. A ben vedere sia
quest’ultima posizione, sia quella che la precede sono affette dal
medesimo vizio di derivazione scolastica, cioè –rispettivamente- la
fiducia nella deduzione come fondamento della conoscenza, sulla
base del sillogismo aristotelico, oppure la costruzione speculare
fondata sull’induzione di derivazione empirica in forza della critica
alle capacità euristiche della deduzione dacché predicatus inest
subjecto. In questo senso l’analogia viene di volta in volta
ricostruita da quello che è ritenuto il punto di partenza: la deduzione
o l’induzione. Ci si deve chiedere se non debba avvenire l’opposto:
se il procedimento originario della conoscenza (addirittura il
“sistema di funzionamento” della nostra mente) è il movimento

536
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. II., cap.
II.
537
M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.
1954, p. 624.
538
L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano,
1975, p. 297.

205
dialettico per identità e differenza, allora sono induzione deduzione
a dover essere plasmati sulla struttura dell’analogia. E proprio a
questo sembrano condurre i tentativi di conficcare questa in quelle.
Il margine di incertezza della induzione così come della
deduzione sembra essere dovuto alla necessità, in ambito giuridico,
di postulare, in ogni caso, la ragionevolezza del legislatore o
comunque del sistema giuridico nel suo complesso. Perché, in tutti i
casi, per deduzione o per induzione, l’applicazione della norma
rimarrebbe sempre incerta? Per la necessità di postulare, sempre la
ragionevolezza dell’interprete: senza questa non ci sarebbe, infatti,
mai deduzione o induzione veramente “sicura”. Senza dire, poi, del
fatto che, per quanto concerne il discorso induttivo, un margine di
incertezza sarebbe dato dall’impossibilità di risolvere del tutto
quella critica giusliberista che nega la giuridicità dei principi
ricavati per induzione.
Premesso ciò, pertanto, l’induzione sarebbe imperfetta, perché
applicata all’analogia si caratterizzerebbe solo come giudizio di
probabilità e non di certezza: imperfetta in quanto probabile ma non
certa, come invece richiederebbero i canoni di un procedimento
logico puro. Tradotto in termini giuridici avvalersi di un’induzione
imperfetta significherebbe, allora, pensare come applicabile una
norma sulla base della somiglianza con un’altra disciplina,
ritenendo quella disciplina, non prevista per il caso non regolato,
come altamente probabile.539
L’incertezza connessa alla deduzione, poi, tale per cui si è
parlato, appunto, di déduction tempérée, sarebbe data anche da un
altro fattore. Si renderebbe sempre necessario, infatti, come
procedimento a posteriori ma anche in fieri dell’interpretazione,
dare luogo a una verifica, da parte dell’interprete, di tipo assiologico
sui risultati dell’interpretazione medesima, “temperandone”,
dunque, gli esiti. E ciò al fine di evitare, appunto, l’irrazionalità
della deduzione in relazione al sistema, o al contesto, o a fronte di

539
Sull’applicabilità dei criteri probabilistici all’analogia vedi infra.

206
un’avvenuta evoluzione del caso rispetto ai principi che
disciplinano la fattispecie simile.
In entrambe le ipotesi, pertanto, la necessità di un controllo -
che presto si rivela di tipo assiologico - sui risultati
dell’interpretazione diremmo così “logica”, impedisce la completa
assimilazione non solo dell’analogia, ma anche della stessa
interpretazione tra i procedimenti mutuabili dalla logica in senso
stretto e tradizionale.
Per la medesima ragione, e a fortiori, è da respingere l’idea di
sussunzione quale ragionamento sottinteso al procedimento di
analogia, come si è già avuto modo di approfondire.540
Rigettata, almeno su queste basi, la stretta logica del
sillogismo giuridico - e giudiziario - si è anche sostenuto che la
cosiddetta inferenza analogica null’altro sia se non, appunto un
ragionamento di probabilità e non di certezza. Probabile nel senso
di storicamente condizionato, proprio perché l’analogia si applica
come un giudizio di valore e non come un giudizio logico o di
fatto.541
Il giudizio analogico, infatti, richiede di accertare non tanto la
causa di un evento naturale, o i presupposti strettamente logici di
un’argomentazione: esso implica il rinvenimento del “motivo
storico” della norma, che non si identifica, evidentemente, con le
mere motivazioni politiche del legislatore, ma implica, comunque,
una serie successiva di scelte, tra cui quella della norma da
applicare, del procedimento analogico con cui giustificarne
l’applicazione, della giustificazione teleologica implicita nella
valutazione del rapporto caso-disciplina.
La probabilità insita nel procedimento analogico, pertanto,
non è altro che quel “salto assiologico” che ogni interpretazione

540
Sulla sussunzione cfr. § 3.2.1, dove si sono prese le distanze dallo
schema della sussunzione, contro cui si scagliò lo stesso Betti, riconoscendo
peraltro il carattere di creatività del processo che collega il caso alla norma, ma
non più che come svolgimento normale dell’atto di interpretazione.
541
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 364; L. CAIANI, I giudizi di valore
nell’interpretazione giuridica, Padova, 1953, p. 14 e ss.

207
richiede, ma allora, ancora una volta, nemmeno sul piano logico si
può giungere ad una netta differenziazione tra l’analogia e
l’interpretazione in quanto tale e, a maggior ragione, in quanto
estensiva.
Si è anche cercato di sostenere il carattere logico dell’analogia
individuando in essa un procedimento mediante cui una parte della
norma, in special modo la conseguenza giuridica, viene ricondotta a
una fattispecie astratta che si sostiene non essere espressamente
regolata.542
L’analogia, definita, secondo quest’impostazione, come
Niveauschluss, come deduzione di livello, sarebbe una sorta di
inferenza dove non si ha modificazione, appunto, del livello di
generalità: il passaggio avviene da una norma generale ad un’altra
norma generale. Il problema cruciale, comunque, rimane sempre
quello dell’affidabilità dell’estensione della disciplina che
l’applicazione analogica - o estensiva - comporta.
Alcuni autori hanno negato, perciò, la configurabilità
dell’analogia come un procedimento di probabilità543 avvalendosi
della critica secondo cui parlare di probabilità di una norma è, per
definizione, un nonsenso.544 Ciò che può essere certo o, al contrario,
probabile - si è detto - non è tanto un ragionamento logico, il quale
può solo essere formalmente valido o meno, quanto piuttosto le
conseguenze di quel ragionamento, ove consista in un giudizio di
fatto che possa dirsi, pertanto, “empiricamente vero o falso”.
Il ragionamento per analogia, quindi, non può essere
probabile o certo, ma semmai valido o meno. Solo a patto, però, di
riferirsi a un’entità che possa essere reputata vera o falsa. Ma la
norma non può mai ricondursi ad uno schema di vero-falso in questi
termini strettamente logici, per cui il ragionamento per analogia su
una norma non può seguire queste categorie di certezza-
probabilità.545 Peraltro, la validità o la probabilità, per vero,

542
Ne fa parola L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I,
1987, p. 322.
543
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. 89.
544
L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, cit., p. 323.
545
L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, cit., p. 323.

208
presuppongono l’univocità di senso o di ratio, che è l’oggetto della
discussione: sicché la posizione in esame sembra incorrere in una
petizione di principio.
Ciò che lascia perplessi in tutto questo argomentare è
comunque il tentativo di incasellare entro precise categorie logiche -
o meglio logicistiche - il processo interpretativo e, pur negandolo
esplicitamente, il cedere di continuo alla tentazione di avvicinare la
logica giuridica a quella scientifica, o meglio di far coincidere i
criteri e i ragionamenti del diritto con quelli della logica formale. È
questo indugiare nel logicismo giuridico che, illudendo che sia
possibile trarre dalla legge nuovo diritto mediante operazioni
puramente logiche, fa perdere di vista il fatto che il ragionamento
ermeneutico, e quindi la scelta tra i metodi interpretativi, non può
avvenire sulla base di considerazioni meramente logiche o tecniche,
ma deve, alla fine, per forza essere condotta sulla base di giudizi di
valore capaci di trovare consenso e aderenza storica più di qualsiasi
inferenza logica.546
Per lo stesso Bobbio è da negarsi, pertanto, una completa
equiparabilità del ragionamento per analogia nella logica e nel
diritto547 e da riconoscersi, al contrario, una sostanziale complessità
di esso, proprio in virtù della componente assiologica, tale per cui è
anche possibile ipotizzarlo come ragionamento entimematico -
come lo definisce Bobbio548 - che procede da premesse verosimili
per arrivare a conclusioni non assolutamente certe. Ammettendo,
così, che la logica giuridica può anche non coincidere con quella
formale si arriva ad ammettere l’analogia giuridica come
ragionamento che procede per probabilità.
La proposizione assunta come universale, allora, poiché si
potrà rivelare come solo tendenziale o, pur formalmente

546
Sul punto, cfr. F. GENTILE, Politicità e positività nell'opera del
legislatore. Relazione al 17. Congresso della Societa Italiana di Filosofia
Giuridica e Politica (1989), Catanzaro, 1998.
547
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 363.
548
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. II, cap.
I.

209
ineccepibile, inadatta alla “imprevedibile e inesauribile creatività
del reale” andrà costantemente verificata alla luce proprio del dato
assiologico.549 E poiché la razionalità del sistema non è un dato ma,
semmai, un prodotto,550 l’analogia finisce per essere null’altro che
un procedimento di attribuzione di valore che ricerca il “termine
medio”, quella “m” delle proposizioni logiche, non nella legge, ma
nel diritto,551 non nella sfera razionale, ma in quella etica.
È chiaro, però, che ciò si verifica solo laddove legge e diritto
siano supposti come distinti e non coincidenti, sul presupposto che
la legge non sia che una delle fonti dell’ordinamento giuridico.552
Non bisogna dimenticare, infatti, che non tutta la letteratura
giuridica sull’antichissimo tema del rapporto tra legge e diritto si è
risolta a favore di una distinzione tra i due concetti: anzi, si
potrebbe dire che anche in tempi moderni è proseguita sul dramma
di Antigone questa tensione, vero motore di ogni problematica
giuridica.
Da un lato, perciò, si sono schierati i sostenitori della tesi che
vede coincidere legge e diritto: “tutto il diritto è nella legge e tutta
la legge è diritto” potrebbe essere il loro manifesto. Ma contro
questi postulati legalisti, riuniti attorno ad un’idea giuspositivista e
normativista, si schierano quanti riconoscono, invece, la non
esaustività della legge rispetto alla vastità del diritto. Anzi, il
legislatore finirebbe sempre per emanare norme già “vecchie”,
superate dal cosiddetto “diritto sociale”,553 per l’intrinseca
incapacità della legge di “afferrare la vita e la storia”, 554 fuggevoli
dalla rigidità degli schemi giuridici.
Malgrado le storiche riflessioni sulla distinzione tra leges e
jura non bisogna dimenticare, ad ogni modo, che, comunque, nel
549
M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.
1954, p. 624; N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. 99.
550
L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I, 1987, p. 325.
551
L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, cit., p. 324.
552
Cfr. T. ASCARELLI, Il problema delle lacune e l’art. 3. disp. prel. nel
diritto privato. (Appunto critico), Estratto da Archivio Giuridico, vol XCIV, Fasc.
2, p. 7.
553
Cfr. T. ASCARELLI, Il problema delle lacune, cit., p. 10.
554
Cfr. T. ASCARELLI, Il problema delle lacune, cit., p. 13.

210
nostro ordinamento il diritto ha pur sempre, almeno in senso lato,
derivazione statale e che, quindi, la legge, anche se non esaurisce
tutto il diritto, ne è pur sempre l’aspetto più eminente e più tipico:555
del resto porre eccessivamente l’accento sul diritto, piuttosto che
sulla legge, rischierebbe di far cadere nella trappola opposta a
quella in cui si imbattono i legalisti, cioè di abbandonare il
fenomeno giuridico al mero gioco delle forze, ossia alla legge del
più forte. Il che, poi, non è altro che la negazione stessa della
giuridicità.
“Law, in short, begins to grow as soon as society begins to
grow; it is not invented and imposed ab extra at any specific stage
of development”, scrive Allen.556 Pare, invece, più corretto
sostenere che non tutta l’esperienza giuridica si esaurisca nella
legge - ché, altrimenti, si arriverebbe alla stasi giuridica, alla
negazione di un “diritto vivente” - ma che essa non possa
prescinderne.
Solo in questo modo, avendo delineato l’intreccio tra legge e
diritto, senza determinarne la confusione, è possibile, allora,
investire l’analogia del carattere di strumento di grado di attribuire
valore, di fare un salto assiologico, tramite una ricerca che passa per
la legge per attingere, alla fine, al diritto e, anzi, ne costituisce
proprio l’originale trait d’union.
Ma un ultimo profilo merita di essre qui considerato, in vista
del momento ricostruittivo demandato alla fine di questo lavoro. E
si tratta della obiezioni al procedimento per identità e differenza cui
si ipira la nostra indagine e su cui è plasmato, lo si è visto, il
procedimento analogico.
La critica più radicale al procedimento per genere e specie,
proviene dal kantismo, ove si afferma che l’aggregazione dei
termini in comparazione presuppone già quel criterio di distinzione
che si afferma essere il prodotto della ricerca. In altri termini, per
collocare gli oggetti dell’indagine nelle diverse categorie nelle
differenti caselle di un genere e di una specie, il ricercatore
555
G. FASSÒ, voce Legge (teoria generale) in Enciclopedia del diritto, vol.
XXIII, Milano, 1973, p. 792.
556
C.K. ALLEN, Law in the making, 7th ed., Oxford, 1964, p. 6.

211
dovrebbe già avere in mente, in via necessariamente preventiva,
dunque, un criterio discretivo che gli consenta di sceverare
operando quella classificazione di cui si è detto. In questo senso si
riconosce l’eredità prettamente kantiana delle categorie, cioè di
quella griglia a priori che costituisce il punto di forza ma anche il
limite della speculazione del Maestro di Königsberg, già denunciata
dagli allievi, giacché si sottrae alla problematicità del criticismo il
punto di partenza, cioè proprio il carattere a priori delle categorie.
Singolare destino, per chi voleva fondare un nuovo metodo
speculativo libero da incrostazioni metafisiche, quello di veder
dichiarata forte l’assonanza tra le categorie a priori e le idee
platoniche. La stessa critica, infatti, potrebbe essere mossa alla
dialettica classica, affermando che anche in tale prospettiva la
distinzione dei termini oggetto di indagine può avvenire solo
tramite la rimembranza delle idee che ha il soggetto conoscente e
che proietta sull’oggetto di indagine, classificando per genere e
specie. In questo modo, viene facile il parallelo tra le idee, bollate
come metafisica, fuori dalla verifica empirica, e le categorie
kantiane, parimenti fuori dall’esperienza sensibile e dalla verifica,
programmaticamente assunte come a priori. In questa prospettiva,
anche in Platone, come in Kant (e, per altro verso, secondo la
tradizione empiristica inglese), il procedimento conoscitivo
avverrebbe grazie alla memoria di archetipi noti e quindi sarebbe
privo di capacita critica originaria, poiché alla fine della
classificazione avremmo in mano quello sapevamo già, proprio quel
concetto che ha costituito il metro con cui abbiamo potuto svolgere
la classificazione. Così come senza le categorie non ci si può
orientare, parimenti togliendo le idee non vi sarebbe più alcun
riferimento con il quale accorpare, dividere, cioè classificare gli
oggetti del conoscere; di più, la svolta idealistica sarebbe già in
nuce nelle premesse platoniche, dacché il riconoscimento delle cose
starebbe tutto nella rimembranza del soggetto conoscente;
consentendo così il breve passo per il quale si afferma che è il
soggetto (con il suo pensiero) a dare esistenza alle cose. Tuttavia, a
ben vedere, per riconoscere il “diverso” ed il “comune” fra due
termini si possono enucleare gli elementi specifici di ciascuno senza

212
fare riferimento a categorie pregresse, vuoi dell’esperienza, vuoi
reperite aliunde.557 In altri termini, la forza euristica del
procedimento che riteniamo programmaticamente di adottare
emerge dalla considerazione che per esso non è necessario il
confronto tra l’oggetto di indagine ed un secondo termine di
paragone, di difficile, problematica (ancorché spesso non
problematizzata) individuazione; al contrario, la comparazione
avviene tra i due (o più) termini di indagine, in confronto tra di loro,
senza la necessità di richiamare ciò che è fuori da quell’indagine
nella sua puntualità, sia idea metafisica, sia categoria a priori. E
così, ancora, il confronto può essere tra un oggetto fisico ed un
termine astratto: ciò che caratterizza l’indagine è proprio il
confronto tra entrambi i termini; non si tratta di un oggetto che
dev’essere conosciuto mediante la sovrapposizione di categorie
prefissate, bensì di due oggetti, entrambi sottoposti a conoscenza o a
(ri)conoscimento, sicché anche il termine di confronto (le categorie
kantiane, per capirci) è soggetto a nuova conoscenza ed a eventuale
modificazione in ragione del confronto con un altro oggetto.
Operazione impossibile per un criticista, come per ogni scienziato
che intenda esplorare un oggetto fruendo del suo bagaglio di
categorie, in quanto tali date per non modificabili, almeno
all’interno della singola operazione conoscitiva, poiché questa è la
funzione delle categorie, quella cioè di fungere da piano di
riscontro, da misura, da immobile criterio di paragone.
Ed è questo limite, invalicabile per lo scienziato, che non si
pone come ostacolo al dialettico. Con la conseguenza che norma e
principio di cui essa vuol essere specificazione diventano entrambi
oggetto di indagine, non tentativo di sussunzione dell’una nell’altro.
Ma su questo, infra al § 7.2.

557
E con questa espressione ricomprendiamo ogni momento non
riconducibile all’esperienza intesa qui come luogo privilegiato degli orientamenti
empiristi, accomunando le speculazioni che vanno dall’adduzione di Peirce alle
categorie subliminali di Poincaré, alla ricerca della “qualità”.

213
12.1.2. Segue. Analogia come argomento a contrario:
indeducibilità di una regola generale a contrariis da una norma
eccezionale. Analogia e paradigma, proiezione e proporzionalità.
Fondamento logico e politico dell’analogia. Ipotizzabilità della
eguaglianza e della giustizia distributiva come fondamento
dell’analogia e della interpretazione estensiva.

I giuristi medioevali usavano distinguere, nelle partizioni


dottrinali, l’interpretazione detta comprensiva da quella detta
estensiva e all’interno di quest’ultima includevano, tra gli altri
strumenti, l’argomentare per analogia, o argumentum a simili, e il
cosiddetto argumentum a contrario.558
L’alternativa tra analogia e argomento a contrario, in
particolare, ha diviso i giuristi che hanno sovente visto nell’opzione
tra l’uno o l’altro strumento non soltanto la soluzione al problema
delle lacune, ma anche una precisa scelta di campo sul fronte della
delimitazione nella estensione interpretativa e della correlata
autonomia di movimento da parte dell’interprete.
In ogni norma, si è detto, sono contenute due norme generali
implicite: una, detta generale inclusiva, che stabilisce che tutti i
comportamenti giuridicamente simili a quello regolato si devono
intendere come inclusi nella qualificazione normativa; un’altra,
detta generale esclusiva, per cui - procedendo mediante l’argomento
a contrario - tutti i comportamenti dissimili da quelli regolati
debbono avere una disciplina opposta a quella qualificata dalla
norma.559
558
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.I, cap.
II.
559
Tra gli altri N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano,
Torino, 1957, p. 604. Ma la formulazione più compiuta della teoria della norma
generale esclusiva si deve a E. ZITELMANN, Lücken im Recht, Leipzig, 1903, p.

214
Argomentare a contrario, allora, significa escludere
l’estensione e l’analogic, ritenendo tutti i casi non espressamente
contemplati come esclusi. Significa, cioè, come è stato detto,
considerare le differenze, tra i casi regolati e quelli non regolati,
come essenziali.
Il problema che, però, a questo punto si sono posti i giuristi è
proprio sulla effettività e sulla consistenza di tale alternativa tra
analogia e argomento a contrario. Ogni proposizione giuridica,
infatti, si è osservato,560 consente, dal punto di vista logico, di
avvalersi di entrambi gli strumenti ermeneutici: addirittura vi è stato
chi ha parlato,561 per la scelta tra l’uno o l’altro di Pandektlotterie,
per indicare in modo pittoresco l’assoluta indifferenza per l’uno o
per l’altro.
Ma se l’argomentare a contrario o per analogia è
assolutamente un’operazione non controllabile logicamente,
assimilabile addirittura all’alternativa di una lotteria, ciò significa

17 e ss., la cui tesi sarà ripresa in Italia con originali varianti da D. D ONATI, Il
problema delle lacune dell’ordinamento giuridico, Milano, 1910. Cfr. altresì, K.
BERGBOHM, Jurisprudenz und Rechtsphilosophie, Leipzig, 1892, le cui tesi
saranno riprese in Italia da S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, Pisa, 1917-18,
p. I, p. 190, nonché IDEM, Osservazioni sulla completezza dell’ordinamento
statale, Modena, 1925, ora in Scritti minori, I, Milano, 1950, p. 371 e ss; ma si
veda anche A. SOLMI, Sulle lacune dell’ordinamento giuridico, in Riv. dir.
comm., 1910, p. 492; A. ASQUINI, La natura dei fatti come fonte del diritto,
Modena, 1921, p. 10. Per le critiche a tali concezioni, cfr. A. L EVI, Contributi ad
una teoria filosofica dell’ordine giuridico, Genova, 1914, p. 383; F. FERRARA,
Trattato di diritto civile italiano, I, Roma, 1921, p. 225, nota 1; G. B RUNETTI, Il
dogma della completezza dell’ordinamento giuridico, Firenze, 1924, p.27; M.
ASCOLI, La interpretazione delle leggi, Roma, 1928, p. 34; E. BETTI, Metodica e
didattica secondo E. Zitelmann, in Riv. Int. Fil. Dir., 1925, p. 49 ss.; Id., Teoria
generale dell’interpretazione (1955), II ed., Milano, 1990, p. 839, nota n. 2. Cfr.,
altresì, A. FRANCO, Problema della coerenza e della completezza
dell’ordinamento, Torino, 1988.
560
L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano,
1975, p. 299 e ss.; IDEM, Corso di filosofia del diritto, cit., p. 95 e ss.; vi sono
citati come autori che sostengono questa tesi, tra gli altri, Jung, Gény, Heck, Jsay,
Rümelin, Brütt.
561
E. FUCHS, Die Gemenischädlichkeit der konstruktiven Jurisprudenz,
Karlsruhe-Brun, 1909, p. 55.

215
che occorre decidere non su basi logiche - per l’inclusione o
l’esclusione dalla qualificazione giuridica prevista dell’elemento
non previsto - dato che la scelta è logicamente non motivabile nel
senso di “tecnicamente indifferente”. Differisce solo, e
significativamente, sul piano di un giudizio di valore, per cui se la
scelta tra l’argomento a contrario e l’analogia è del tutto arbitraria
dal punto di vista logico, sul piano ermeneutico implica una scelta
assiologica qualificante.
Non si può, allora, per questa via continuare a sostenere che
l’analogia opera nello spazio lasciato tecnicamente libero
dall’argomentazione a contrario, perchè la scelta della stessa
analogia si pone come scelta non logico-formale, cosicché la portata
delle stesse proposizioni legali viene ad essere modificata dall’uso
dello strumento ermeneutico: si fa dire alla legge qualcosa che essa,
per definizione, certamente non ha detto, in netta opposizione al
formalismo della Buchstabenjurisprudenz, ma in piena coerenza
con il canone dell’attualità dell’intendere e dell’evolutività
interpretativa. Ma ciò significa abbandonare la scelta tra
l’argomentare a contrario o per analogia e inserire, invece, di buon
diritto, il procedimento analogico tra gli ordinari procedimenti di
interpretazione. In latri termini, si può concludere che
l’argomentum a contrariis costituisca una sorta di procedimento
analogico a rovescio: l’affermazione dimostra la sua rilevanza per la
conseguenza che non sarà possibile dedurre una regola generale
procedendo a contrario da una disposizione eccezionale.
Un tentativo di distinguere, in qualche modo, l’analogia si è
tentato tramite l’utilizzo dei concetti di paradigma e proiezione.
A partire dal aristotelico, assunto nel suo
significato tecnico dalla logica per indicare l’argomentazione
fondata su un esempio, la dottrina si è avvalsa, infatti, del concetto
di paradigma per assumere la funzione paradigmatica delle norme.
Nell’interpretazione, pertanto, si giungerebbe alla disciplina dei casi
non contemplati per trasposizione dal particolare al particolare,
dall’esempio al caso.

216
A parte coloro che hanno voluto vedere nel paradigma lo
svolgimento della struttura analogica562 appare non condivisibile il
tentativo di utilizzare tale concetto per scardinare la funzione
dell’analogia: basti l’obiezione che, se tale procedimento logico -
quello da particolare a particolare - può essere configurabile nella
logica, non si può superare, comunque, il fatto che in ambito
giuridico la proposizione normativa non si caratterizza come una
qualsiasi proposizione ma è intrinsecamente dotata di imperatività e
quindi di generalità e astrattezza. Non si potrà, perciò, mai
considerare la norma giuridica come un esempio di disciplina, per
cui nemmeno si potrà accedere ad un’idea di interpretazione come
di applicazione di un procedimento paradigmatico.
Del concetto di proiezione, invece, si sono valsi alcuni autori
per distinguere da questo sia l’analogia che la sussunzione.
Wurzel563 parla di proiezione come di “applicazione del concetto di
una norma giuridica senza modificazioni a fenomeni che
originariamente non vi erano stati rappresentati o almeno non lo
erano in modo dimostrabile” e, collocandola in posizione
intermedia tra l’analogia e la sussunzione, ne segnala l’influenza ad
opera di elementi extralegali come l’esperienza e addirittura gli
affetti.
Ma non mi pare che questo concetto differisca di molto dai
canoni dell’adeguazione dell’intendere e della corrispondenza o
consonanza ermeneutica di cui parla Betti564 in base ai quali
l’interprete deve “sforzarsi di mettere la propria vivente attualità in
intima adesione e armonia” con quello che definisce “l’incitamento
che gli proviene dall’oggetto”, cioè la norma stessa, imponendogli
di conservare e, anzi, valorizzare la sua soggettività e allo stesso
tempo gli sviluppi a cui è, dall’ambiente ermeneutico, sollecitato.

562
Per una ricostruzione puntuale delle posizioni dei diversi autori, rinvio
all’informato studio di L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I,
1987, p. 324, nota 21.
563
Lo cita N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.
I, cap. VI.
564
E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 20 e ss.

217
Si è, dunque, analizzato il discorso del fondamento logico
dell’analogia e della sua “legge di validità”, nonché della sua
giuridicità. È emersa, comunque, la politicità del fondamento
dell’analogia565 anche se su questo punto si dibatte una pluralità di
posizioni.
Converge, tuttavia, parte della dottrina nell’individuare alla
base dell’analogia un principio di universalizzabilità566 e la
connessa questione dell’uguale trattamento. È l’uguaglianza il
valore e il criterio su cui poggia l’analogia, ossia una “uguale
valutazione di circostanze di fatto ritenute giuridicamente simili”.567
L’analogia è proporzionalità, almeno in uno dei significati
aristotelici568 e ciò, in ambito giuridico, si traduce nell’idea di
giustizia, e in particolare di giustizia distributiva. In quest’ottica,
pertanto, il discorso sull’analogia si può inserire in un più ampio
approccio al vasto problema della giustizia, intesa sia nel senso di
tensione alla certezza, sia di approdo all’equità: sempre, comunque,
il valore a cui l’analogia attinge è quello di una fondamentale
esigenza di “giusta uguaglianza”, nonostante ciò non possa
rimanere sul mero piano etico ma debba essere riconosciuto e
tradotto sul piano del diritto positivo.
Non basta, cioè, un vago ideale di giustizia dell’interprete per
conferire legittimità al ragionamento analogico e, comunque, ad
ogni approdo ermeneutico.569 Ciò nonostante, però, per quanto si è
venuti dicendo, si può ribadire che la forza, oltre che il fondamento,

565
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 361.
566
Cfr. G. ZACCARIA, L’analogia come ragionamento giuridico. Sul
fondamento ermeneutico del procedimento analogico, in Riv. it. dir. proc. pen.,
1989, 1546.
567
K. LARENZ, Methodenlehre der Rechtswissenschaft, cit. p. 132. Si
cercherà al § 7.2.1. di sgiogliere l’ambiguità del termine “eguaglianza” in questo
contesto, ancorando l’analogia (e, più in generale, l’interpretazione della norma)
ai due elementi di tèlos e ratio.
568
Cfr. l’informato studio di L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in
Digesto civile, I, 1987, p. 325, nota 21.
569
Cfr. G. ZACCARIA, L’analogia come ragionamento giuridico, in Riv. it.
dir. proc. pen., 1989, p. 1550.

218
dell’analogia è di natura concettualmente politica, ossia non tanto o
non soltanto logica, quanto piuttosto quella squisitamente
assiologica di un “procedimento razionale di attribuzione di
valore”.570
Su queste basi, tuttavia, non poggia senza inconciliabilità, a
ben guardare, l’interpretazione estensiva, nemmeno ove il
superamento della letteralità cui l’estensione dà luogo si costituisce
e si giustifica in termini di giustizia, cosicché ancora una volta
verrebbe a profilandosi una ragione per eavvicinarsi
concettualmente alla distinzione tra il procedimento ermeneutico di
estensione e quello di analogia, cioè alla tesi che andiamo
sostenendo.

570
L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I, 1987, p. 325.

219
12.2. L’analogia legis e l’interpretazione estensiva

12.2.1. Distinzioni tradizionali: qualitativa e quantitativa,


particolare e generale (ragionamento a sineddoche). Distinguibilità
in base al presupposto, agli effetti, alla funzione (Betti e Bobbio).
Impossibilità di distinguere una interpretazione ordinaria e una
analogica posto che il criterio di ragionamento è quello analogico.

La tesione che conduce ad equiparare l’intepretazione


estensiva all’analogia sottende il carattere “analogico”
dell’interpretazione estensiva -come di ogni altro procedimento
conoscitivo in genere- ché la nostra mente sembra poter conoscere
solo tramite apparentamenti tra ignoto e noto, tra “diverso” e
“comune”. Si è cioè già sottolineato che ogni forma di conoscenza –
logica- è debitrice della struttura analogica, sicché non bisogna
lasciarsi condizionare da “quel po’ di analogia” che si trova in ogni
procedimento euristico, in ogni ragionamento, che si riduce in
sostanza ad una serie di equivalenze. Di più: per identità e
differenza (e solo per identità e differenza = analogia) si può
distinguere tra analogia ed intepretazione estensiva.
Si è già fatto cenno alla distinzione tradizionale tra
interpretazione estensiva e analogia sul piano sia qualitativo che,
diremmo così, quantitativo.
Per quanto riguarda l’aspetto qualitativo della distinzione si
sono già affrontate le classificazioni sul piano della diversità di
struttura logica e di natura giuridica dei risultati dell’applicazione
dell’uno o dell’altro strumento ermeneutico e si sono già indicati gli
argomenti a favore dell’insostenibilità della distinzione.571

571
Cfr. §. 2.3.2.

220
Anche con riferimento a una differenziazione su una base più
strettamente quantitativa, poi, la dottrina ne ha già da tempo
indicato l’insufficienza, non potendosi, sostanzialmente, sostenere
come criterio discretivo tra estensione interpretativa e applicazione
analogica l’arbitrario confine determinato dalla minore o maggiore
ampiezza dell’”allargamento” dalla norma al caso, o meglio di
quella ipotesi normativa che si reputa implicita nella regola da
interpretare e che, mediante l’applicazione di questo o quello
strumento ermeneutico, si viene ad esplicitare.572
Agli stessi fondamenti si appellano anche quelle analisi che si
soffermano sulla struttura analogica e ne sottolineano, in antitesi a
quella dell’interpretazione estensiva, la tensione verso la ricerca di
una norma generale: nell’analogia si passerebbe da una norma che
regola il caso particolare alla norma - principio? - più generale, per
ridiscendere, poi, di nuovo alla norma del caso particolare.
Al contrario nell’interpretazione estensiva si passerebbe
direttamente dalla regola del caso particolare alla regola - sempre
particolare - del caso non previsto.
A questa impostazione che si avvale di una costruzione
definibile, col linguaggio della retorica, di sineddoche analogica,
sono tuttavia sollevabili almeno due ordini di obiezioni.
Anche ammesso che l’analogia possa passare dalla specie al
genere, dalla parte al tutto, come per sineddoche, resta infatti,
comunque, da un lato da chiarire il confine, in ambito giuridico, tra
norma “particolare” e norma “generale”, dall’altro da giustificare
l’esclusione di questo passaggio dal particolare al generale
nell’interpretazione estensiva e, quindi, il fondamento di legittimità
dell’allargamento dell’ipotesi normativa al caso pur sempre non
esplicitamente previsto.
Costituisce un indice che questi argomenti non siano però
decisivi la difficoltà della giurisprudenza che indugia ancora su tali
posizioni, ribadendo la distinzione tra i due criteri proprio su queste
basi.

572
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 353.

221
Ne è un esempio la sentenza della Cassazione civile n. 5777
del 1990573 che, in materia di clausole vessatorie, ha stabilito un
criterio discretivo netto tra interpretazione estensiva e analogia,
dichiarando come l’analogia consista in un “processo intellettivo
che, attraverso norme particolari, consente di determinare la ratio, il
principio informatore da cui derivano per poi stabilire se in questi
rientri anche il caso non preveduto”. Il ricorso all’analogia viene
fatto discendere dall’esigenza di regolare un caso non preveduto
dalla norma mediante il riferimento alla disciplina di un caso “con
lo stesso fondamento razionale”, appunto analogo.
Al contrario la sentenza indica il ricorso all’interpretazione
estensiva “solo allorché il caso non previsto sia uguale a quello
disciplinato e debba, quindi, essere considerato implicitamente
compreso nella norma”. Ma come si vede, il fondamento della
distinzione è analogico.
Emerge chiaramente l’impostazione bipartita della sentenza e
il sottile confine che, tuttavia, segna la differenza tra
l’interpretazione estensiva e l’analogia con questo approccio. Da un
lato, infatti, si fa riferimento ad un caso identico, implicitamente
incluso nella norma, dall’altro ad un caso analogo, con il medesimo
fondamento razionale. Come, però, si determini la differenza tra
questa identità e l’analogia, tra il fondamento razionale e la
considerazione implicita non è affatto chiarito.
Sottesa, come si può capire, è ancora una volta l’idea di una
distinzione qualitativo-quantitativa, volta a cercare in una maggiore
o minore ampiezza di significato, in un distaccarsi più o meno dalla
letteralità della norma, l’incerta barriera tra i due strumenti
ermeneutici. E sotto le mentite spoglie della diversità logica e
giuridica può celarsi, in verità, l’autonomia dell’interprete che
risulta, comunque, l’arbitro della decisione di far rientrare una
interpretazione in questo o in quell’ambito.
Più onestamente un’ autrice574 ha fatto osservare come la
differenza tra interpretazione estensiva e analogia possa essere
573
Cassazione civile, sezioni unite, 14.6.1990 n. 5777, in Giust. civile
1991, I, 79.
574
L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I, 1987, p. 327.

222
identificata, a questo proposito, nell’attitudine dell’interpretazione
estensiva a qualificarsi come “analogia facile”, ritenuta o
pretestuosamente fatta passare per accettabile dalla dottrina e dalla
giurisprudenza; al contrario l’analogia sarebbe un’estensione che
necessita di giustificazione. Il che, evidentemente, equivale a negare
l’effettività di ogni distinzione, se si dimentica il procedimento
analogico che è servito per conoscere analogia ed interpretazione
estensiva.
Sui tentativi di distinguere interpretazione estensiva e
analogia in base al presupposto, agli effetti e alla funzione si sono
soffermati criticamente sia Bobbio575 che, più tardi, lo stesso
Betti576 per approdare entrambi, comunque, alla conclusione che
non esista differenza tra i due procedimenti.
La distinzione in base al presupposto si è avvalsa del concetto
di volontà del legislatore, rinvenuta come effettiva
nell’interpretazione estensiva e, al contrario, qualificata come
mancante nell’analogia: da qui la diversità di presupposti. Ma, come
già sottolineato affrontando il tema della volontà effettiva o
presunta del legislatore577 ciò che rende possibile l’estensione “non
è la volontà né effettiva né presunta, ma la ragione della legge”578
cosicché, la volontà viene ad essere per lo più ignota, o al più
conoscibile solo attraverso la ragione. E se pur può essere
suggestiva l’immagine attribuita a Federico II di Prussia secondo
cui “basterebbe un tratto di penna del legislatore per mandare al
macero intere biblioteche giuridiche”,579 è pur vero che, comunque,
anche quel tratto di penna necessita a sua volta di essere riletto
ermeneuticamente, per cui nemmeno questa presunta volontà

575
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.II cap.
IV.
576
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 277 e
ss.
577
Cfr. § 2.3.1.
578
E. BETTI, op. ult. cit., p. 278.
579
Lo riferisce E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p.
572. Incerta è tuttavia l’attribuzione del detto ripreso da molti al grande sovrano
Hohenzollern.

223
esplicita è in grado di cancellare lo sforzo raziocinante
dell’interprete.
Eliminata la volontà, in questi termini, è presto soppressa
anche la presunta differenza di presupposti tra i due procedimenti,
almeno così intesa.
I tentativi di distinguere in base agli effetti e alla funzione non
si rivelano più efficaci. Per i primi la differenza si è voluta condurre
sul piano dell’estensione di una norma già esistente nel caso di
interpretazione estensiva e, per contro, di formulazione di una
norma nuova nel caso di analogia.
A parte l’obiezione che anche nell’analogia non si tratta di
elaborare una norma “nuova” ma di rinvenire una massima di
decisione sulla base di una comune ratio iuris,580 si nota che la
struttura è la stessa tra i due procedimenti, per cui in entrambi si
arriva a integrare il precetto nel senso di rendere esplicito ciò che
era implicito nella norma.
Quanto alla diversità di funzione, poi, l’osservazione secondo
cui l’interpretazione estensiva estende le parole della legge mentre
l’analogia ne estende il pensiero si rivela povera, constatato che se il
“pensiero della legge” corrisponde alla sua intrinseca logicità, alla
sua idea, questa non si estende ma, semmai, si sviluppa, si integra,
si vivifica: ad estendersi - sottolinea Betti581 - è la portata, e con
essa la formula della legge, non l’intrinseca logicità della legge.
Smantellata anche questa distinzione Bobbio,582 da una parte,
e Betti,583 dall’altra, concludono per l’inesistenza di ogni
differenziazione tra i due procedimenti e in particolare Betti584
segnala come esigenza sottesa, questa volta, ad entrambi i processi,
quella di spiritualizzare la logica del diritto e il procedere, per

580
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 172.
581
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 280.
582
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.143 e
ss.
583
E. BETTI, op. loc. ult. cit.
584
E. BETTI, op. loc. ult. cit.

224
ambedue, perciò, secondo un argomentare dal carattere
essenzialmente teleologico.
A questo punto, tuttavia, si prospetta un’ulteriore questione:
esiste differenza tra un’interpretazione, diremmo così, ordinaria e
l’interpretazione analogico - estensiva, ipotizzate come coincidenti?
E come escludere la contraddizione pratica da cui ha preso le mosse
questa indagine?
Per Betti585 l’analogia ha l’ufficio di porre, anzichè norme
giuridiche, “massime di decisione”, ossia precetti per il caso
concreto, e ciò in virtù della caratteristica di ogni interpretazione in
funzione normativa, che, nella concezione bettiana, ha il compito di
conoscere per agire, e quindi si rivolge immediatamente al caso
concreto. Ciò, tuttavia, rischia di essere fuorviante, se non altro per
il fatto che in questo modo si viene negando una certa funzione
normativa della stessa analogia.586 E se è pur vero che nel momento
applicativo della legge, interpretata analogicamente, ciò che si
rinviene è una “massima di decisione”, questa assume valenza
ermeneutica ulteriore rispetto alla fattispecie concreta, proprio in
virtù dell’intuizione normativa che la sostiene.
Contrariamente a chi587 nega che l’argomentare per
interpretazione estensiva significhi rinvenire, comunque, la ratio
implicita, o meglio il valore sotteso alla norma, mi sembra
possibile, invece, sostenere che ogni interpretazione finisce per
argomentare in questo modo, ad onta delle accuse di
teleologismo,588 e che pertanto anche nell’interpretazione cosiddetta
ordinaria sia rinvenibile un criterio di ragionamento analogico.
Concordo, perciò, con Grosso che, commentando una
sentenza della Corte Costituzionale589 in materia di leggi di

585
E. BETTI, op. ult. cit., p. 42.
586
Cfr. M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.
1954, p. 644 nota 78.
587
Cfr. M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.
1954, p. 639 nota 58.
588
Cfr. M. BOSCARELLI, op. ult. cit., p. 638.
589
Corte costituzionale 27.5.1961 n. 27, in Giur. it. 1961, I, 1, 1043 e ss.

225
pubblica sicurezza, introduce il concetto secondo cui l’analogia non
porta all’allargamento dell’area di operatività di una disposizione
mediante l’ingresso di una figura non contemplata. L’analogia,
piuttosto, permette di constatare, rispetto a situazioni simili a quella
formalizzata nella norma, la validità della disciplina ipotizzata,
peraltro già vincolante sebbene esplicitata solo per relationem.
Ciò mi sembra implichi evidentemente il riconoscimento
dell’ordinarietà insita nella logica dell’analogia, così come
l’ammissione dell’approccio analogico che è implicito in ogni
interpretazione ordinaria.
Su questa linea, peraltro, si era già inserito l’autore del
commento alla sentenza della Cassazione civile del 1959,590
ponendo in luce l’equivoco, insito nella dottrina e nella stessa
giurisprudenza, tra analogia, interpretazione estensiva e
interpretazione lata o non elaborante. Laserra sottolinea come,
mentre la dottrina, e la stessa sentenza in analisi, continuino a porre
l’interpretazione estensiva come tertium genus tra interpretazione
lata e analogia, di fatto questa contrapposizione non abbia senso.
L’interpretazione dichiarativa, o non elaborante, o ordinaria, infatti,
non può ridursi ad un mero legame alla lettera della legge, avendo
essa stessa per oggetto non tanto le parole del legislatore, quanto il
problema pratico della formula legislativa,591 cosicché si finisce per
concludere che nemmeno l’interpretazione estensiva sfugge
all’alternativa tra “rientrare nell’ambito del problema pratico di una
formula legislativa o di superare questo problema.”592
Ma ciò significa, per Laserra, anche dedurne che
l’interpretazione estensiva coincide con l’interpretazione lata
ovvero con l’analogia, vale a dire che l’interpretazione estensiva in
quanto tale non esiste.

590
Cassazione civile, I sez., 8.8.1959 n. 2500 in Giur. it. 1961, I, 1, 101 e
ss., con nota di G. La serra.
591
Così anche E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici,
cit., p. 22 e ss; 163 e ss.
592
Cfr. G. LASERRA, Critica della interpretazione estensiva, in Giur. it.,
1961, I, 1, p. 104.

226
Pur condividendo l’analisi di Laserra sulla non terzietà
dell’interpretazione estensiva tra l’analogia e l’interpretazione lata
rimane, comunque, da giustificare la differenza tra questi ultimi due
termini. Differenza che, come si è sostenuto, verrebbe a cadere
laddove si riconosca la natura analogica di ogni accesso
ermeneutico nel momento stesso in cui va a ricercare un’ulteriorità
rispetto alla formula della legge che è data dalla ratio o dal valore
che vi sono impliciti.
A meno di non voler realmente concludere con Bobbio che
“non è il procedimento a disposizione del giudice che determina il
risultato, ma il risultato cui si vuol giungere che determina la regola
che viene di volta in volta adottata”,593 cosicché la qualificazione
come analogica dell’interpretazione estensiva o viceversa sarebbe
del tutto indifferente ponendosi il più delle volte come
giustificazione a posteriori di una scelta operata. Ma questa
disincantata professione di pragmatismo giustifica l’indifferenza e
l’irrilevanza di ogni attività ermeneutica, scaduta a paludamento dei
capricci del giudice.

593
N. BOBBIO, Ancora intorno alla distinzione tra interpretazione
estensiva e analogia, in Giur. it. 1968, I, 1 c. 701.

227
12.2.2. Il senso della norma e la necessità normativa.
Relazione tra norma e teleologia, validità e fini. Norma come
Sollen e ammissibilità o meno di un discorso analogico che
prescinda da un atto di posizione. Sollen e Sein: la cd. legge di
Hume e le critiche alle interpretazioni che ne sono discese. Il
problema dell’efficacia. Applicabilità o meno dei principi di non
contraddizione e inferenza alla struttura normativa. La
ragionevolezza come condizione del volere normativo.

Si è già affrontato il discorso a proposito dell’analogia nella


logica e nel diritto594 e si è accennato alle analisi condotte in termini
di validità-invalidità, verità-falisità, certezza-probabilità.
La questione che si affaccia a questo punto è la seguente: che
cosa “rinviene” l’analogia? Un enunciato - lo si consideri nuovo,
rinnovato, creato, dichiarato, rivivificato, ... - in termini descrittivi o
prescrittivi, di essere o di dover essere (sempre che tale distinzione
non sia fuorviante)? E ancora: sono applicabili all’analogia i
principi di inferenza e di non contraddizione, alla stregua di un
sillogismo logico, o si tratta di una questione, in questo ambito,
priva di senso?
Per tentare di risolvere le molte implicazioni connesse ai temi
enunciati sarà necessario fare un passo indietro, fino ad arrivare alle
domande intorno al concetto di norma e soprattutto a riguardo del
senso stesso della norma: ad un problema di filosofia del diritto.
Senza addentrarsi nelle spire delle analisi normativistiche o
decisionistiche595 potrà essere utile partire assumendo la norma
come espressione di un dover essere, concepibile, tuttavia, come un
termine semplice, elementare, primigenio, ovvero come implicante

594
Cfr. § 5.1.1.
595
Cfr. A. G. CONTE, Primi argomenti per una critica del normativismo,
Pavia, 1968, p. 3 e ss.

228
il riferimento a caratteri non puramente normativi ma intenzionali,
relativi al perseguimento di fini.596
Non possono non tornare alla mente le riflessioni kelseniane
sul senso della norma597 come un Sollen, come un atto di volontà
diretto ad un comportamento altrui, come una necessità normativa,
distinto dal Müssen, contenuto di una regola relativa all’essere
(Seins-Regel), che si qualifica come necessità causale, come
relazione tra causa ed effetto, la stessa che identifica la relazione tra
fine e mezzo, la necessità, appunto, teleologica.598
In questo quadro si ricorderà come Kelsen distingua a sua
volta l’atto di posizione della norma, come essere (Sein), dal senso
dell’atto medesimo, dalla norma stessa, che si pone come un Sollen.
Come un Sollen, un dovere, si badi bene, non come un Soll Sein,
come un dover essere: la norma esprime, cioè, più ancora che
“qualcosa deve essere”, che qualcosa “deve”. Così mentre entro un
contesto di necessità causale se all’antecedente non segue il
conseguente si può dire che la legge è falsa - o, nel caso contrario,
vera -, in un contesto di necessità normativa si deve dire che la
legge è infranta e che, del resto, la validità normativa è data
dall’atto di volontà che la pone e di cui la norma stessa è il senso.
Ma allora, partendo da questa impostazione, che connessione
può esserci tra norma e teleologia, tra validità e fini, e, a cascata, tra
positività e interpretazione normativa? Se la norma è espressione di
un dovere, la cui validità dipende esclusivamente dall’atto che la
pone, come ammettere un discorso interpretativo e, soprattutto
analogico il quale, per quanto si è detto, sembra prescindere da - e
soccorrere proprio laddove manca - un esplicito atto di posizione
normativa?
Il tema dell’interpretazione e della necessità di qualificarla in
termini di Sollen, Müssen o Sein, non può, a questo punto,

596
Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità - Una critica all’ultimo
Kelsen, Torino, 1990, p. 5.
597
In particolare H. KELSEN, Allgemeine Theorie der Normen, (ed. post.)
Wien, 1979, cap. 2.
598
Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità - Una critica all’ultimo
Kelsen, Torino, 1990, p. 23.

229
prescindere da una considerazione a proposito della relazione
esistente tra questi concetti, e in particolare a riguardo di quello, che
sembra essere diventato un assioma, della presunta inderivabilità
logica del dover essere dall’essere: è la cosiddetta “legge di Hume”,
contenuta, a detta di coloro che se ne sono avvalsi, nel famoso “Is-
ought paragraph”.
“Non posso evitare di aggiungere a questi ragionamenti”,
scriveva Hume nel paragrafo citato, “un’osservazione che può forse
risultare di una certa importanza. In tutti i sistemi di morale in cui
finora mi sono imbattuto ho sempre trovato che l’autore va avanti
per un po’ ragionando nel modo consueto, e afferma l’esistenza di
Dio o fa delle osservazioni sulle cose umane; poi, tutto a un tratto,
scopro con sorpresa che al posto delle abituali copule è-non è
incontro solo proposizioni che sono collegate con un deve o non
deve. Si tratta di un cambiamento impercettibile ma che ha, tuttavia,
la più grande importanza. Infatti, dato che questi deve o non deve
esprimono una nuova relazione o una nuova affermazione, è
necessario che siano osservati e spiegati; e che allo stesso tempo si
dia una ragione di ciò che sembra del tutto inconcepibile, ovvero
che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre
relazioni da essa completamente diverse. [...] La distinzione tra
vizio e virtù non si fonda semplicemente sulle relazioni tra oggetti e
non viene percepita mediante la ragione”.599
Poiché da questo passo si sono tratte conseguenze in ordine
all’assoluta separatezza tra essere e dover essere, nonché alla
reciproca inderivabilità - conclusioni dalle quali non sono avulse
nemmeno le analisi kelseniane - è opportuno sottolineare come sia
possibile ventilare l’ipotesi che le interpretazioni dell’is-ought
paragraph siano spesso andate ben oltre l’originaria intenzione
dell’autore scozzese. Di modo che, si può prospettare, in realtà, si
sarebbero tratti esiti concettuali giustificandoli sulla scorta di un

599
D. HUME, Trattato sulla natura umana, (1739-40), tr. it. ed. Laterza,
1971, p. 496-497.

230
assioma non discusso, a ben guardare, nemmeno dallo stesso
Hume.600
Hume non crea un solco tra fatti e valori, ma sottolinea la
necessità di considerare l’essere prima di erigere qualsiasi forma di
dover essere.601 Ma allora da dove deriva la sua validità la norma?
Il “deve” non deriva, per Hume, ma anche per tutta una vasta
tradizione di pensiero giuridico che arriva fino ai giorni nostri
immediatamente dal dato di fatto, ma dalla normatività insita in
quella convenzione che sta alla base della norma stessa,
convenzione che non solo ha tradotto l’interesse individuale in un
interesse generale, ma lo ha anche reso obbligatorio: è l’idea, che
Kelsen svilupperà ampiamente, della Grundnorm, “principio in
grado di assicurare l’unità logica interna di un insieme di norme”602
proprio perchè ne statuisce la cogenza.
È proprio sulla validità della norma fondamentale, sulla
validità del dovere, che si arenano tanto l’analisi di Kelsen quanto
l’interpretazione che si è data della legge di Hume: la Grundnorm,
600
Tra le interpretazioni più rappresentative dell’is-ought paragraph si
possono qui ricordare quella che ne ha visto una distinzione tra essere e dover
essere, negando conclusioni normative da premesse descrittive - un dover essere
da un essere - a cui si è obiettato non avere, Hume, elaborato che una scienza
della natura umana, di stampo eminentemente teoretico, ben lungi dall’averne
tratto delle applicazioni pratiche. L’interpretazione che ne ha dedotto l’autonomia
della morale e la non riducibilità del dover essere all’essere è stata, invece,
confutata sottolineando come Hume non credesse a tale autonomia, ma anzi,
intendesse la morale come un procedimento artificiale con una rilevante
componente razionale, capace di compiere distinzioni solo a posteriori: il che, del
resto, non significa negare l’intrinseca diversità tra essere e dover essere.
Un’ulteriore interpretazione ne ha tratto, infine, addirittura l’inesistenza del
dovere, e quindi la non obbligatorietà della morale. In verità si può concludere
che la legge di Hume è inapplicabile tanto alla morale quanto al diritto, dato che,
così come l’ha enunciata l’autore scozzese, è riferita alla parte speculativa, più
che pratica dell’analisi giuridica. Queste intuizioni sono state sviluppate da C.
BARONI, Essere e dover essere alla luce della cd. legge di Hume, Tesi di laurea in
Filosofia del diritto, Facoltà di Giurisprudenza, Università di Padova, a.a.1995-
96, pp. 123 e ss.
601
Cfr. C. BARONI, op. loc. ult. cit.
602
Cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed., Milano,
1984, p. 158.

231
infatti, è in grado di organizzare la cogenza, l’operatività e
l’efficacia delle norme esistenti, ma rivela tutta la sua ambiguità
proprio laddove non spiega la ragione per cui è necessario obbedire
alla stessa norma fondamentale, e, a cascata, a tutte le norme che in
essa traggono validità.603
L’analisi sul perché di quel Sollen - sia o meno lecita la
posizione di una domanda sul warum (Warum soll etwas) -
conduce, allora al discorso sul fine della posizione delle norme.
Kelsen sostiene che solo l’atto di posizione della norma può
avere un fine, poiché è un essere, non la norma che è un dovere,604
per cui rimane del tutto inaccettabile un’interpretazione, teleologica,
della norma in quanto tale.
Ma allora si pongono numerosi problemi: se la posizione della
norma è un atto di volontà, che senso può avere, in questa
concezione, se non quello di una volontà di volontà? E ancora:
davvero il Sollen non è diretto verso un Sein? E se la norma non è
un fine ma un mezzo per raggiungere un fine, chi vuole il mezzo
non vuole, per ciò stesso, anche il fine?
Ancora una volta è l’interpretazione a far uscire dal vicolo
cieco in cui, altrimenti, parrebbe di ritrovarsi. L’interpretazione del
senso della norma, indispensabile quanto meno per “capirne il
comando” - impone il riconoscimento di una connessione tra la
norma e l’asserzione che ne costituisce il senso, tra il pensiero e la
volontà.605
Così se può essere sostenibile, in astratto, come vera
un’interpretazione humeana del tipo “ciò che è non può essere
dovuto, proprio perchè è, e ciò che è dovuto non può essere, proprio
perché è dovuto” da un lato rimane da risolvere l’impasse di che
senso possa avere che qualcosa sia dovuto senza che sia dovuto che
esso sia,606 dall’altro il problema ermeneutico fondamentale solleva

603
Suggestiva, su questo ampio tema, la nota L’ambiguità della
“Grundnorm” di F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed.,
Milano, 1984, p. 147 e ss.
604
Cfr. H. KELESEN, Allgemeine Theorie der Normen, cit., cap. 2.
605
Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità cit., p87.
606
Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità, cit., p. 118.

232
il dubbio di come si determini che qualcosa è veramente dovuto
senza sapere che cosa è - a meno di non attenersi alla mera
letteralità - senza riconoscere anche al Sollen una qualche direzione
verso il Sein.
Perciò, a ben guardare, se non si vuole far sì che il
destinatario della norma non sappia riconoscerne il comando, è
necessario dotarsi di strumenti in grado di ricavarlo, ricucendo, si
potrebbe dire, lo strappo tra Sollen e Sein: e, significativamente,
questo “rammendo giuridico” non è necessitato né da un problema
di verità o non verità della norma - perchè, su questo piano, si
potrebbe obiettare che le proposizioni prescrittive non sono né vere
né false607 - né di validità o invalidità608 - dato che non viene, per
questo, meno la validità formale della norma, sussistendo quella
della norma fondamentale - ma da un problema di efficacia.
Un’obiezione, però, potrebbe, a questo punto, essere
sollevata: quella, sostenuta da Kelsen,609 della non applicabilità del
principio di non contraddizione e della regola dell’inferenza alle
norme, né direttamente, né indirettamente. Da ciò deriverebbe il
fatto che un eventuale conflitto tra norme non infirmerebbe la loro
appartenenza all’ordinamento e, soprattutto, che non sarebbe
logicamente derivabile la validità di una norma dalla validità di una
o più norme superiori o collaterali.610 Questo, evidentemente,
metterebbe fuori gioco l’intero discorso sull’analogia poiché tra un
dover essere e un altro dover essere (o, meglio, tra due “doveri”,
entrambi validamente sussistenti) non potrebbe sostenersi alcun
rapporto analogico611 proprio in ragione della non applicabilità del

607
Per dirla con Aristotele, sono discorso semantico, significante, non
apofantico, vero o falso; cfr. ARISTOTELE, De interpretatione, 17a.
608
Affronta il tema dell’impossibilità, per gli enunciati deontici, di essere
intesi come giudizi di validità R. GUASTINI, Dalle fonti alle norme, Torino, 1990,
p. 60 e ss.
609
Cfr. H. KELSEN, Allgemeine Theorie der Normen, cit., capp. 57-61.
610
B. CELANO, Dover essere e intenzionalità, cit., p. 232 e ss.
611
Kelsen non nega la possibilità di rapporti logici fra norme, anzi
esplicitamente lo ammette considerato che una norma, pur non essendo un

233
sillogismo logico alle norme, essendo norme solo e soltanto quelle
poste,612 e in ragione del fatto che non sussisterebbe correlazione tra
la verità di un’asserzione613 e la validità di una norma, né tra la
verità di un’asserzione e l’osservanza della norma.614
Il problema irrisolto, però, rimane comunque quello
dell’efficacia, proprio a cagione di questa non correlatività tra
validità e osservanza, nonché, sulla stessa lunghezza d’onda, rimane
il problema della staticità dell’ordinamento se inteso esclusivamente
come positivamente fondato.
Il pericolo avvistato da chi contrasta questa obiezione -
derivante, a ben guardare, più dal dato empirico che da quello
logico - è sempre quello della “naturalistic fallacy”, della fallacia
naturalistica, che consiste nella deduzione immediata del Sollen dal
Sein: il pericolo che si teme è quello di tornare ad invocare, per
salvare il rapporto tra Sollen e Sein, tra validità ed efficacia, un
ormai ritenuto sepolto (ma –paradossalmente- sempre temuto)
diritto naturale.615
L’ostacolo si supera se si pone mente al fatto che, dal punto di
vista dell’efficacia, l’espressione di un volere non può che essere
quella di un volere possibile, almeno ragionevolmente, pena
l’impossibilità di osservare quel volere. Non è sufficiente, cioè, la
posizione di un dovere, ma occorre quella di un dovere almeno
normalmente “ragionevole”.

concetto, contiene concetti, elementi tra cui sono ammissibili relazioni logiche.
Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità, cit., p. 233.
612
Tale non applicabilità, in verità, si potrebbe qualificare come una
tautologia, posto che la validità di due proposizioni contraddittorie nonostante
tale loro contraddittorietà deriva dalla sufficienza, per l’esistenza - compresa in
un concetto ampio di validità - di una norma, della sua mera esistenza. Così A. G.
CONTE, Primi argomenti per una critica del normativismo, Pavia, 1968, p. 21.
613
Per Kelsen un’asserzione è il senso (Sinn), o il contenuto di senso
(Sinngehalt) di un atto di pensiero, mentre una norma è il senso, o il contenuto di
senso di una atto di volontà. Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità - Una
critica all’ultimo Kelsen, Torino, 1990, p.51.
614
Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità, cit., p. 82.
615
Lucido, nell’individuare la radice delle difficoltà moderne del diritto
naurale, F.GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984, p.
171, Un oggetto misterioso: il diritto naturale.

234
Ma è qui che si inserisce il cuneo che porta alla rottura della
costruzione. Porre un dovere ragionevole significa distruggere il
dogma della norma come puro Sollen e, al contrario, avvicinarla
decisamente almeno ad un Soll Sein, se non proprio ad un Sein. Ma
cosi si introduce un giudizio di valore che dà validità alla norma
(anche) in base al suo contenuto, guardando al télos.
Ecco, allora, che, scardinate le premesse sul senso della
norma, è possibile intravederne, in lontananza, quello che si è
indicato come orizzonte assiologico. Su questa base, perciò, si può
richiamare l’analogia, fuori dal timore di inapplicabilità, come
ponte, se non tra l’essere e il dover essere, almeno tra il dovere e il
dover essere.
L’interpretazione stessa, anzi, fondata com’è sul criterio di
ragionevolezza, è il passante attraverso cui è possibile attingere al
senso della norma senza per questo minarne la validità positiva.616
Ma allora, per quanto si è detto, tanto vale negarne, anche da
quest’angolo visuale, ogni differenziazione con l’analogia, per
riconoscere, al contrario, in ragione anche di queste peculiarità, la
caratteristica essenzialmente analogica di ogni approccio
ermeneutico. Tuttavia, sarebbe conclusione affrettata: l’analogia
procede per identità e differenza, così come l’interpretazione
estensiva e, più in generale, ogni forma di conoscenza. Se
l’equiparazione è in forza di questo elemento, ogni forma di
ragionamento è analogia. Ed è superfluo rimarcare che essa
partecipa di ognuna, ma non si esaurisce in alcuna.

616
Scrive G.H. VON WRIGHT in Is and Ought, London, 1963, p. 72: “In an
important sense, we could say the purpose of norms is to “bridge the gap”
between Is and Ought, although not in the sense of establishing a deductive bound
of entailment between the two”.

235
12.3. Sulla necessità di una norma autorizzatrice

12.3.1. Ipotizzabilità della tesi negativa sul condizionamento


del legittimo impiego dell’analogia all’esistenza di una norma che
lo prescriva. Posizione di Betti. L’analogia e il contenuto delle
norme. La previsione di norme sull’interpretazione all’interno di
altre norme (gli “altri casi simili”). Consuetudine e analogia.
Ipotizzabilità di un ordinamento giuridico senza norma di
autorizzazione al ricorso analogico. Il problema dell’ordinamento
giuridico internazionale. Tra virtualità e realtà.

Il dibattito sull’ordinarietà o meno dell’applicazione analogica


e sulla normalità del procedimento proprio dell’analogia come di
ogni dinamica ermeneutica ha portato la riflessione sull’indagine in
merito alla necessità o meno di una norma che prescriva l’analogia
per autorizzarne l’applicazione.
Se, dunque, si ritiene che l’analogia sia nulla più che
l’applicazione da parte del giudice di una norma si deve escludere la
necessità di una esplicita regola che ne autorizzi l’impiego; esigenza
avvertita da chi ritiene, al contrario, che con l’analogia il giudice
ponga una disciplina per il caso singolo, segnalandosi come
necessaria, in questo caso, una norma generale che ne sancisca la
legittimità.617
Chi, peraltro, nega la necessità di un’esplicita norma
autorizzatrice fa, poi, ricorso per giustificare l’applicazione
analogica all’ipotesi volontaristica di una presunta volontà
conforme del legislatore - che avrebbe regolato il caso nello stesso

617
M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.
1954, p. 627.

236
modo se lo avesse esplicitamente preveduto - oppure ad una norma
implicita ma inespressa dal sistema - che legittima il ricorso
analogico -, ovvero ancora ad una norma consuetudinaria.
Per quanto riguarda i sostenitori di quest’ultima tesi618 vi è da
rilevare che sovente essi si rinvengono tra gli autori tedeschi, a
ragione dell’assenza nell’ordinamento germanico di una regola
sullo stampo del nostro articolo 12 e che, pertanto, l’appello alla
consuetudine non potrebbe essere giustificato altrimenti.
Si è già analizzato l’articolo 12 e la critica che si è formata
attorno ad esso. Il fatto che il fondamento dell’analogia sia
rinvenuto nella razionalità,619 più che in una norma autorizzatrice
fa, pertanto, non solo esplicitamente superare la prescrizione
dell’articolo 12 medesimo, ma anche approdare a qualcosa di simile
al diritto naturale come elemento in grado di autorizzare questo
genere di interpretazione. Diritto naturale nel senso, come dice
Bobbio, di ragione nel diritto, di razionalità, ma ancora di più: una
intima attitudine alla regolarità, al darsi delle regole e rispettarle,
propria della tradizione classica del diritto.
Il problema è, semmai, di rinvenire ancora uno spazio per
l’analogia anche al di là del riferimento alla ratio, e in particolare
nei casi in cui il riferimento all’analogia figura per esplicita volontà
del legislatore, ma non in una norma generale come quella del tipo
dell’articolo 12, quanto in una norma particolare come quando la
legge estende la sua disciplina ad una serie di casi tassativamente
previsti ed aggiunge, in fine, la locuzione “e in ogni altro caso
analogo.”620
Partendo dalla domanda implicita sulla sufficienza di una
norma sull’interpretazione per escludere, comunque, tutti i dubbi

618
Tra cui si annoverano WRIGHT G.H. e L. ENNECCERUS, Lehrbuch des
bürgerlichen Rechts, I, Marburg, 1928, p. 110 e ss; A. von TUHR, Der allgemeine
Teil des deutschen bürgerlichen Rechts, I, Leipzig, 1910, p. 41; E. ZITELMANN,
Lücken im Recht, Leipzig, 1903 p. 26.
619
Cfr. N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.II
cap. 3.
620
Cfr. M. ROMANO, Commentario sistematico al codice penale, Milano,
1987, p. 47 e ss.

237
ermeneutici e analizzando la funzione dell’analogia - individuata
oltre che in una autointegrazione dell’ordine giuridico, anche di un
“intendere nella sua intima coerenza la norma”621- pure Betti
conclude per la non necessità di un’apposita autorizzazione
all’analogia: essa sarebbe legittima sempre che non sia vietata.
Quella che viene esplicitamente disciplinata, pertanto, non è
l’autorizzazione all’applicazione analogica, ma quell’attività che è
necessario impiegare per formare il convincimento, ossia il
“procedimento da tenere per raggiungere l’intelligenza del quid
iuris”622 che consente l’accesso alla verità normativa.
È da negare, quindi, la posizione di chi individua il contenuto
della norma accertato mediante l’analogia come una scissione
logica della fattispecie prevista in tante fattispecie quanti sono i casi
non previsti,623 scissione operata, appunto dalla norma
autorizzatrice, così come la posizione di chi conferisce a tale ultima
norma il potere di allargare il contenuto di quella da interpretare,
che altrimenti sarebbe più ristretto.624 Tuttavia, si consideri
l’analogia come uno strumento per accertare il contenuto di una
norma,625 ovvero se ne giustifichi l’impiego per ossequio alla
ragione insita nel diritto - come fanno Bobbio626 e Betti627 - rimane
la superfluità, quanto ai risultati, di una norma generale
autorizzatrice.
Per quanto riguarda, invece, il problema della previsione
esplicita di una norma sull’interpretazione non in via generale ma,
al contrario, all’interno di una norma specifica e come regola di

621
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit. p. 70.
622
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 248 e
ss.
623
Così A. BURDESE e M. GALLO, Ipotesi normativa e interpretazione del
diritto, in Riv. it. sc. giur., 1949, p. 371.
624
Così R. SACCO, Il concetto di interpretazione del diritto, Torino, 1947,
p. 15 e ss.
625
Come fa M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc.
civ. 1954, p. 639.
626
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. 123.
627
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 70 e
ss.

238
chiusura dopo l’elencazione di casi tassativi, sono numerosissime le
sentenze in materia.
Paradigmatica, a questo proposito, è ancora la sentenza della
Corte costituzionale del 1961628in merito all’interpretazione
dell’articolo 121 delle leggi di pubblica sicurezza. La norma, che
sancisce il divieto di esercitare mestieri ambulanti senza previa
iscrizione in un registro apposito presso l’autorità locale di pubblica
sicurezza, contiene un elenco di mestieri - ambulanti - che fa
rientrare nella fattispecie normativa, e conclude con la dicitura “e
mestieri analoghi”. Stante il carattere penale delle leggi di pubblica
sicurezza la questione oggetto di sentenza sorge perché
l’ammissione di una interpretazione analogica della legge penale -
esplicitamente prevista dall’articolo in parola con l’espressione
“analoghi” - cozzerebbe non solo contro l’articolo 14 delle preleggi,
ma anche contro gli stessi articoli 1 del codice penale e anche 25
comma secondo della Costituzione che prevedono l’irretroattività
della legge penale e, per il principio del nulla poena sine lege, il
divieto di analogia in ambito penale.
La soluzione adottata dalla Corte costituzionale per superare
l’impasse è quella di escludere che le diciture di chiusura (“e
mestieri analoghi”, “e casi simili”, “ed altri analoghi”, o altre
equivalenti) ad elenchi di fattispecie, come nel caso in questione,
possano autorizzare l’interpretazione analogica e di concludere, al
contrario, che si tratti di “ordinario procedimento di interpretazione,
anche se diretto ad operare l’inserzione di un caso in una fattispecie
molto ampia e di non agevole delimitazione”.
È questo, evidentemente, un escamotage della Consulta per
sfuggire alla trappola dell’articolo 14 e degli articoli 1 c.p. e 25
Cost. che lascia, tuttavia, aperto il problema.
Non può non essere rilevato, infatti, che il procedimento per
cui si individuano “casi analoghi” a quelli elencati non sembra
differire da quello normalmente impiegato per rinvenire i “casi
simili” e le “materie analoghe” sulla scorta di una norma generale
alla stregua dell’articolo 12 delle preleggi. Quanto meno, perciò,

628
Corte costituzionale, 27.5.1961 n. 27, in Giur. it. 1961, I, 1, 1043 e ss.

239
questa operazione dovrebbe essere inserita in una particolare
accezione di interpretazione ordinaria, ulteriore rispetto al normale
inquadramento di un caso in una fattispecie astratta.629 Ma ciò
conduce, inevitabilmente fuori dalla proponibilità di una
convergenza sul concetto di interpretazione ordinaria stessa, il che
avvalora la tesi che assegna ad ogni interpretazione gli elementi del
ragionamento analogico, come ormai abbiamo detto più volte.
Per superare il problema, che comunque rimane, del divieto di
analogia in ambito penale si è proposta, poi, un’ulteriore
qualificazione, invero formalistica: la previsione di diciture come
quella che, in materia penale, estende a “casi analoghi” una data
disciplina incriminatrice significherebbe una deroga al generale
divieto di estensione analogica, cosicché si verrebbe giustificando la
previsione in casi come l’articolo 121 del T.u.l.p.s. senza
ammetterne l’incostituzionalità.
Del resto l’uso incondizionato dell’analogia, laddove si
ritenga che essa dia luogo non a ragionamento di certezza630 ma di
probabilità, potrebbe rivelarsi estremamente a rischio proprio in
ambito penale, dove potrebbe scalfire il fondamentale principio di
stretta legalità.
Facendo appello, invece, alle tesi di chi, come Betti, individua
nell’analogia non tanto la creazione di una norma nuova, quanto
piuttosto il rinvenimento di una proposizione linguistica e
concettuale già presente nel tema della norma,631 l’intenderla nella
sua intima coerenza e allo stesso tempo il vivificarla in un
“incessante ripensamento”,632 si può concludere che anche diciture
come quella dell’articolo 121 del T.u.l.p.s. non fanno che
629
Cfr. C. F. GROSSO, L’art. 121 delle leggi di pubblica sicurezza e il
divieto di analogia in diritto penale, in Giur. it. 1961, I, 1, 1046.
630
Sostengono la tesi dell’analogia come ragionamento di certezza N.
BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.97 e ss; M.
BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 634;
contrario, invece è L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia
del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 363 e ss.
631
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit. p. 70 e
ss.
632
E. BETTI, op. ult. cit., p. 140 ss.

240
riferimento, a loro volta, a “casi [e tempi] considerati” come
prevede l’articolo 14 delle preleggi, e quindi non contrastano con il
principio di stretta legalità perché, pur se in forma generica, i casi
rinvenuti analogicamente in realtà già si trovano nell’attualità della
norma.
Rimane, a questo punto, l’interrogativo sul senso da dare,
comunque, al divieto sancito dall’articolo 14, ma sul punto si
approfondirà nel prossimo paragrafo.
Ciò che qui è interessante anticipare è proprio la riflessione in
merito all’interpretazione analogica esplicitamente prevista in
norme incriminatrici, come nel caso dell’articolo 121 T.u.l.p.s..
Caso significativo proprio perchè oggetto di una recente sentenza
del T.a.r. Liguria633 che, sulla stessa materia, si è espresso per
un’interpretazione adeguatrice634 della norma ritenendo che per far
scattare il divieto - nella fattispecie si trattava di includere tra i
“mestieri analoghi” a quello, espresso, di “ciarlatano” l’esercizio
della cartomanzia, dell’occultismo e della parapsicologia a mezzo
della televisione - sia necessario interpretare la norma
obiettivamente “alla luce dei nostri giorni”, apparendo “francamente
impossibile” applicare automaticamente la qualifica data dalla
norma incriminatrice (“ciarlatano”) a tutte le categorie elencate e
non potendosi ritenere, perciò, incluse quelle in questione (“maghi e
cartomanti”).
Nemmeno le norme incriminatrici, pertanto, sfuggono
all’interpretazione adeguatrice e la previsione di spazi
apparentemente liberi dalle maglie del diritto, come l’allargamento
di una disciplina a “casi analoghi”, testimonia quanto meno
un’elasticità ermeneutica delle norme penali non inferiore a quella
delle altre norme.
Sull’analogia nel caso di elenchi tassativi di fattispecie
un’ultima osservazione può essere fatta: la giurisprudenza tende, in
questi casi, a escludere sia l’interpretazione estensiva che
633
T.A.R. Liguria, sez. II, 15.1.1997-14.2.1997 n. 37 in Guida al diritto
5.4.1997 n. 13.
634
Cfr. M. CLARICH, Con un’interpretazione moderna della legge salta
l’equiparazione tra maghi e “ciarlatani”, in Guida al diritto 5.4.1997 n. 3, p. 71.

241
l’analogia,635 autorizzando, al contrario, una sorta di interpretazione
letterale. Significativo è il fatto che l’elencazione specifica di casi è
considerata un’implicita volontà di esclusione dei casi non
menzionati, talvolta con l’esplicita cautela contro la violazione del
principio costituzionale di uguaglianza. La giurisprudenza, e con
essa il legislatore sembrano, cioè, ancora tesi nello sforzo di
certezza e obiettività, cercate rincorrendo una specificità normativa
contro gli arbitri dell’interprete: salvo, poi, cadere nella trappola
delle deroghe o della pletora legislativa.
Contro l’idea di certezza ermeneutica cozza anche il tema del
rapporto tra analogia e consuetudine. Si è già accennato alla
soluzione data da una parte della dottrina, soprattutto tedesca, al
problema della norma autorizzatrice dell’analogia ricorrendo
all’idea di una norma consuetudinaria facente funzioni di norma
legittimante il procedimento analogico. Tuttavia il tema richiama,
altresì, quello dell’interpretazione delle stesse norme
consuetudinarie e dell’ammissibilità di un ragionamento analogico
anche in questa materia.
Senza allargare troppo il discorso sarà qui sufficiente
accennare all’interrogativo che si pone lo stesso Betti636 in ordine
all’ammissibilità di un’interpretazione analogica di norme
consuetudinarie, chiedendosi se il criterio di valutazione della
“necessità sociale”, o ratio iuris possa ricorrere anche in nuove
situazioni di fatto rinvenute analogicamente, o per similarità con
ipotesi regolate dalla consuetudine.
Anche se la risposta che l’autore si dà è per la proponibilità
della questione ma per una soluzione “non necessariamente risolta
in senso positivo”,637 tuttavia, per le considerazioni che si sono fatte

635
Cfr. Cassazione civile, sez. lav., 9.5.1983 n. 3168, in Giust. civ. Mass.
1983, fasc. 5; Cassazione civile, sez. lav., 27.10.1986 n. 6294, in Riv. infort. e
mal. prof. 1987, II, 23; Comm. centrale imposte sez. IX, 16.3.1994 n. 733, in
Giur. imp. 1994, 533.
636
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 276
ss.
637
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 331 e
ss.

242
sulla natura dell’analogia non mi sembra che il ragionamento da
farsi su norme consuetudinarie sia diverso da quello che consente di
ricavare una norma a simili. E ciò sia nell’interpretare una norma
consuetudinaria, sia, viceversa, nell’avvalersi di norme
consuetudinarie come regole da cui ricavare “casi simili o materie
analoghe”.
Prima di concludere il discorso sulla necessità di una norma
autorizzante il ricorso all’analogia converrà accennare ad un ultimo
argomento: quello sull’ipotizzabilità di ordinamenti giuridici senza
norme di autorizzazione al ricorso analogico e, in particolare, al
problema dell’ordinamento giuridico internazionale.
Si è già menzionato l’ordinamento giuridico tedesco come
esempio di assenza di norme del genere indicato. Per quanto
riguarda l’ordinamento giuridico internazionale nella sua attuale
fase di sviluppo manca, evidentemente, una regola in grado di
determinare a priori gli strumenti per colmare eventuali lacune ma,
più direttamente, per interpretare tutte le possibili norme regolanti i
conflitti interstatuali. A questo proposito vi è stato chi ha
autorevolmente sostenuto638 addirittura la necessità da parte del
giudice o dell’arbitro internazionale di emettere un giudizio di non
liquet e quindi di rifiutare ogni decisione.
In questa sede non si può, evidentemente approfondire la
natura dell’ordinamento giuridico internazionale. Mi pare, però, di
poter dire che è possibile rinvenire nella maggior parte degli
ordinamenti statuali moderni una regola, scritta o non scritta, che si
ispira all’idea di un’interpretazione secondo quanto si è fin qui
esposto. Accogliendo, pertanto, il concetto di un’analogia non tanto
creativa, quanto piuttosto attualizzante e vivificante le norme, non è
indispensabile nemmeno in un ordinamento come quello
internazionale la esplicita previsione di una norma che autorizzi il
ricorso a questo strumento ermeneutico.
Semmai il problema si pone in merito alla ricerca di quel
quid, di quei valori sottostanti le norme su cui, nel caso

638
N. BOBBIO, voce Lacune del diritto, in Novissimo Digesto Italiano,
Torino., 1963, p. 423.

243
dell’ordinamento internazionale, si può dubitare non tanto in
ragione della consistenza, quanto in ragione dell’univocità e
universalità.639

Peraltro, la norma autorizzatrice dell’interpretazione è


l’ultimo problema dell’ordinamento internazionale dei nostri tempi.
In ogni caso, se per analogia intendiamo il procedimento per
identità e differenza, esso non dev’essere autorizzato, semplicmente
perché così funziona la nostra mente ed è in forza di questo che si
identifica la fattispecie concreta con quella astratta. L’analogia
dev’essere qualcosa di più del semplice procedimento per identità e
differenza e la distinzione dev’essere ricercata nello scopo della
norma, nel ruolo che occupa all’interno dell’ordinamento. Ma è
bene muovere dai limiti positivi della analogia legis per coglierne
appieno la portata.

639
Cfr. per questi approfondimenti il capitolo seguente.

244
12.4. I limiti dell’analogia legis

12.4.1. Fondamento politico, logico, giuridico del divieto di


analogia in rapporto alle norme penali e eccezionali. Estensibilità e
valore del divieto. Posizioni della dottrina sui limiti della norma
penale. Il concetto di norma eccezionale. Fluidità del rapporto
storico tra regola ed eccezione (le eccezioni sono progressivamente
diventate regole). Esistenza o meno di altri limiti oltre quelli
dell’art. 14. Norme eccezionali e principio di eguaglianza:
l’articolo 14 disp. prel. in rapporto all’articolo 3 Costituzione. Il
problema dei privilegi legali nel credito.

L’articolo 14 delle preleggi stabilisce che “le leggi penali e


quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si
applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”.
Questa regola, come detto, è stata tradizionalmente
interpretata quale divieto esplicito di analogia per le leggi
eccezionali e per quelle penali, o almeno per quelle incriminatrici, o
odiosae. Regola, peraltro, che storicamente ha proprio segnato il
confine tra interpretazione estensiva e analogia, laddove la dottrina
ha finito per indulgere all’estensione ermeneutica, in opposizione ad
una stretta letteralità, sulle norme penali ed eccezionali
giustificandola come interpretazione e negando, per contro,
l’applicazione ad esse dell’analogia.
Non tutta la dottrina, tuttavia, sembra essere concorde sulla
natura di divieto costituita dall’articolo 14. Carnelutti,640 per
esempio, ha sostenuto come l’articolo 14 non vieti l’applicazione

640
Cfr. F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, III ed., Roma, 1951, p.
90 e ss.

245
analogica, ma il suo significato, al contrario, consista nel fatto che
le leggi penali e quelle eccezionali non possono servire alla
ricostruzione di un principio. Posizione illuminante soprattutto se si
considera che nell’articolo in parola si individua un “procedimento
analogico a rovescio”641 e tale per cui tutti i casi diversi da quelli
previsti dalle leggi penali e eccezionali si dovrebbero, in base ad
esso, reputare contrari. Il che consentirebbe non solo di conciliare
l’articolo 14 con il principio di stretta legalità della pena, ma anche
di giustificarne la stessa esistenza, altrimenti da ritenersi superflua
posto che, comunque, l’applicazione analogica non sarebbe,
nemmeno nelle materie indicate, vietata. Alla concezione proposta
da Carnelutti si è già risposto al § 5.1.2., dimostrandone la petizione
di principio nel ricercare una norma generale a contrariis da una
norma eccezionale. Né è condivisibile l’individuazione di un
comportamento lecito a contrariis da una norma incriminatrice
speciale. La circostanza che l’articolo 628 c.p. punisca chi, al fine di
trarne un ingiusto profitto, sottrae la cosa mobile atrui con violenza
alla persona o minaccia, non autorizza la sottrazione in assenza di
violenza o minaccia, dacché cadrebbe sotto l’ipotesi dell’articolo
624 stesso codice; ma ugualmente a contrariis, da quest’ultima
disposizione non si può dedurre la legittimità di una sottrazione
della cosa mobile altrui avvenuta non al fine di trarne profitto.
Tutt’al più si può affermare che non si è in presenza di furto, ma
questo è quanto è ammissibile in base ad una lettura diretta o
rovesciata (non vale qui distinguere) dell’articolo 624 c.p.
Conviene soffermarsi, viste le oscillazioni della dottrina, sul
fondamento del divieto sancito dall’articolo 14, anche in ordine alla
ipotizzata non necessità di un’esplicita norma autorizzatrice che
prescriva l’applicazione analogica: di fronte a questo assunto,
infatti, è naturale interrogarsi sul valore di una prescrizione per così
dire negativa, che impedisca, cioè, l’utilizzo di uno strumento che si
assume non necessitare di autorizzazione espressa.
Dal punto di vista logico-giuridico nulla impedisce, per la
verità, di ipotizzare una norma come quella dell’articolo 14 così

641
Cfr. F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, loc. cit.

246
come tradizionalmente è stata intesa, cioè come una prescrizione di
non fare, perfettamente legittima.
Il problema, semmai, è di ordine politico, o meglio di politica
legislativa: che cosa fa prescrivere il divieto di analogia per le
norme penali ed eccezionali?
Abitualmente la soluzione al quesito è stata trovata
nell’assegnare un carattere di “privilegio”642 all’interno delle norme
eccezionali, nel fatto che esse perderebbero il carattere di generalità
e di astrattezza, cosicché l’estensione analogica finirebbe per
estendere la ragione di privilegio, e non la ragione di principio,
trattandosi, appunto, di norme a fattispecie cosiddetta esclusiva.643
Per le norme penali, invece, il principio guida del divieto di
analogia si è rinvenuto, come detto, nel principio di stretta legalità e
di riserva a favore della legge, nonché di certezza del diritto.
A queste considerazioni si è, tuttavia, obiettato che le
medesime esigenze di certezza e di legalità sono rinvenibili anche in
altre norme644 e, anzi, in ogni categoria normativa, oltre al fatto che
il timore di incertezza collegato allo strumento dell’analogia
applicato alle leggi penali deriva più da un’idea distorta dello
strumento in questione che dai contenuti dello stesso, più da un
“abuso del potere interpretativo”645 che dai risultati di un possibile
uso.
Il problema sorge, tuttavia, per le norme penali cosiddette
scriminanti o favorevoli per le quali parte della dottrina ha escluso il
divieto di analogia, limitando quest’ultimo, perciò, alle sole norme
cosiddette incriminatrici. Il fondamento di una diversa disciplina è
stato rinvenuto, a questo proposito, nel principio di libertà tale per
cui il favor legislativo è, comunque, per l’esclusione della punibilità
o della colpevolezza, come del resto suggerisce un’interpretazione
teleologica dell’articolo 14.646

642
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. 170 ss.
643
M.S. GIANNINI, L’analogia giuridica, in Jus 1941, p. 67.
644
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, cap. XIV.
645
N. BOBBIO, op. loc. ult. cit.
646
Cfr. G. BETTIOL, Diritto penale, Palermo, 1955, p. 110 e ss.

247
Dal punto di vista logico la ragione dell’esclusione delle
scriminanti dal divieto di analogia è stato individuato anche in
maniera diversa. Assegnando alle norme penali un carattere di
eccezionalità, Rocco647 osserva come le norme negative dei precetti
penali, quali si possono qualificare le scriminanti, verrebbero ad
essere eccezioni delle eccezioni, cioè deroghe alle norme penali, di
per sé eccezionali: sarebbero, pertanto, norme di diritto comune, e
come tali estensibili per analogia.
Alcuni autori648 hanno, poi, ipotizzato l’esistenza di
scriminanti inespresse nelle norme penali consistenti non tanto in
deroghe normative, in regole rinvenute per mezzo d’analogia,
quanto piuttosto in veri e propri limiti taciti alla norma penale che,
insieme alle disposizioni espresse, concorderebbero a qualificare
l’interesse tutelato.
Tuttavia, come si è osservato,649 anche tali limiti taciti devono
essere ritrovati in qualche modo nella norma, siano pure essi
impliciti, e ciò non può che avvenire per mezzo di un processo di
interpretazione che, come visto, assume comunque caratteri non
dissimili da quelli dell’analogia. Da notare che in questa materia la
giurisprudenza si è dimostrata contraria alla ricerca da parte del
giudice di “cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso
l’utilizzo dell’analogia iuris”,650 più che altro, tuttavia, per una
dichiarata fiducia nel legislatore, con le sue “espresse
codificazioni”, più che nel giudice interprete.
Contro l’opinione di chi ammetteva l’interpretazione per
analogia di tutte le norme in bonam partem - per tutti Carrara, che
nel suo programma notava come “per analogia non si può estendere
la pena da caso a caso, per analogia si deve estendere da caso a caso

647
Ne fa menzione N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino,
1938, cap. XIV.
648
Famoso, a questo proposito, il testo di P. NUVOLONE, I limiti taciti
della norma penale, Palermo, 1947.
649
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958, p. 373.
650
Cassazione penale, sez. VI, 2.4.1993, in Giust. pen. 1994, II, 317.

248
la scusa”651 - emerge la tesi secondo cui la scelta tra l’ammissione o
l’esclusione del divieto per le scriminanti non sarebbe altro che una
scelta politica,652 assegnata - tenendo conto del grado di evoluzione
giuridica di concetti come quello di garanzia cui è informato il
sistema penalistico - alla discrezionalità dell’interprete e al
condizionamento storico in cui si trova immerso.
Personalmente ritengo di dover aderire, per quanto si è fin qui
detto, a questa ipotesi, suffragata, peraltro, dalla constatazione
empirica che non può nascondersi l’uso strumentale che si è fatto
dell’idea di analogia per le scriminanti e di interpretazione estensiva
per le norme penali incriminatrici, teso, in realtà, a giustificare
l’introduzione di nuovi concetti normativi al passo con gli
adattamenti sociali e, quindi, a coprire una effettiva elusione del
considerato divieto costituito dall’articolo 14. Operazione, come si
può vedere, che non si fatica a qualificare come eminentemente
politica.
Ma allora il limite dell’articolo 14 deve pur avere una
giustificazione o si deve ritenere inutile e superfluo come è stato
ritenuto l’articolo 12?
Per quanto si è osservato mi pare di poter dire che anche
senza l’articolo 14 le norme eccezionali non dovevano essere
applicate oltre i casi in esse considerati: ne sarebbe derivata,
altrimenti, un’analogia esorbitante i suoi contenuti e non
rispondente alla sua verità.
Anche per le norme penali, tuttavia, è possibile fare lo stesso
ragionamento. Il limite all’estensione dei casi disciplinati dalla
norma penale, infatti, non è rinvenibile tanto in una regola come
l’articolo 14, quanto piuttosto è già implicitamente incluso tra i
principi informatori del nostro sistema giuridico, e anche
esplicitamente sancito da articoli come l’1 del c. p. e il 25 della
Costituzione.

651
F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale: del delitto,
della pena, (1859-70) Bologna, 1993, n. 890, citato anche da F. ANTOLISEI,
Manuale di diritto penale - parte generale, XI ed., Milano, 1989, p. 75 e ss.
652
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958, p. 372 e ss.

249
Ritenere inclusi, per via di interpretazione estensiva o di
analogia, nella norma penale anche casi che esorbitano dal suo
stretto contenuto - e il confine non può che essere determinato
dall’interprete con la sua storicità e la sua attualità - mi pare debba
significare, perciò, non tanto un andare contro l’articolo 14, quanto
piuttosto contro la stessa ratio della norma penale e contro ogni
corretta interpretazione, si voglia classificarla come estensiva o
analogica.
Rimangono, a questo punto, da fare alcune considerazioni in
merito alle norme eccezionali.
Come norma di diritto eccezionale è stata qualificata,
storicamente, quella norma che non si può dedurre dal sistema, e
per questo non può essere sottoposta a uno sviluppo logico,
ponendosi come elemento extrarazionale.653 Non può sfuggire,
tuttavia, come anche la norma eccezionale debba necessariamente
avere una sua intrinseca razionalità, il che la differenzia dalla norma
arbitraria.
Quale rapporto, allora, tra la razionalità di questa norma e
l’extrarazionalità rispetto al sistema? Questione, questa, che non è
semplicemente un’argomentazione teorica, ma implica
evidentemente ripercussioni sulla possibilità e sulle modalità di
interpretare analogicamente le norme incluse in questa categoria.
L’elemento problematico nelle norme di diritto eccezionale -
da non confondersi con il privilegio, individuato nella norma
valevole per singole persone654 - è, dunque, “la collisione o la
deroga rispetto ai principi fondamentali di carattere politico-
valutativo dell’ordinamento giuridico”.655 Problema che sovente la
dottrina ha superato trasformando il diritto eccezionale in diritto
speciale - si pensi al caso del diritto commerciale - e superando, per
questa via, il divieto.

653
Cfr. N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.II,
cap. V.
654
N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.170.
655
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958, p. 369.

250
Le riflessioni sulla politicità del fondamento del divieto per le
norme penali si possono, pertanto, avallare anche per le norme
eccezionali, con una precisazione. La qualifica di eccezionale rivela,
in verità, una portata di relatività logica e “condizionalità storica”656
tale per cui il passaggio dalla norma eccezionale a quella, per così
dire, comune avviene, più che per trasformazioni logico-giuridiche,
per una continua evoluzione politica e sociale del tessuto su cui
questa va ad operare. È un processo “fatale”657che ha fatto la storia
del diritto, storia di “eccezioni che si trasformano in regole, di
novità che si trasformano in normalità”.658
Essendo del tutto relativa la distinzione tra norma eccezionale
e norma comune, pertanto, emerge chiaramente che solo l’interprete
può, alla luce della sua attualità, stabilire il confine del suo sforzo
ermeneutico, applicando sì anche lo strumento analogico, ove
l’evoluzione delle fattispecie lo richieda, ma sempre entro
l’orizzonte assiologico su cui fa perno il sistema e da cui, pena
l’arbitrarietà del risultato, non si deve mai discostare.
Su questa linea anche una sentenza della Cassazione civile del
659
1981 la quale, pur premettendo che per le disposizioni di diritto
singolare è vietata l’interpretazione analogica mentre è consentita
quella estensiva, secondo i canoni dottrinali tradizionali, aggiunge
che neppure all’interpretazione estensiva può farsi luogo se la “ratio
legis” non persuada che “il legislatore ebbe in mente di estendere il
suo precetto a casi apparentemente non contemplati”.
Il principio, affermato, nel caso di specie, per escludere
l’applicabilità della legislazione in materia di pubblico impiego al
rapporto di lavoro privato, evidenzia come, in ogni caso, necessiti
un’interpretazione per rinvenire un valore in base al quale applicare
l’estensione. Valore che, nel caso in sentenza, è rinvenuto in una

656
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 181 e
ss.
657
La felice espressione è di L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale,
in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 370.
658
Cfr. L. CAIANI, op. loc. ult. cit.
659
Cassazione civile, sez. lav., 28.3.1981 n. 1800, in Giust. civ. Mass.
1981, fasc. 3.

251
ipotetica volontà del legislatore ma che, per quanto si è detto, può
essere tranquillamente identificato con l’orizzonte assiologico in cui
si muovono le norme in questione.
Per quanto si è detto a me non sembra di poter dire che
l’unico vero limite dell’analogia - e quindi anche
dell’interpretazione estensiva - sia un limite assiologico.660 Per
questa via, infatti, l’interprete potrebbe, alla luce dei valori che
rileva dal complesso sociale e giuridico, segnare i confini
dell’interpretazione, confini che nessuna norma potrebbe mai
stabilire definitivamente, neanche sotto l’illusione di un ritorno alla
presunta certezza di una Buchstabenjurisprudenz. "La volontà del
principe è legge, pertanto, in virtù della legge regia che istituì la
volontà del principe, il popolo trasferì in lui il suo impero e la sua
volontà".661 Da qui i privilegi sono stati considerati come norme di
favore in vantaggio di posizioni di preminenza da proteggere, che il
legislatore, soltanto perché tale, ha il diritto di introdurre,
prescindendo dalla disparità potenziale di trattamento che il ius
singulare introduce, sia nei confronti dei cittadini tra loro, sia tra i
cittadini e la legge. Il ius singulare è quello che viene introdotto
dall'autorità del legislatore contro le norme ordinarie della ragione,
in vista dell'utilità.662 Di conseguenza, la giurisprudenza pretoria:
"non si possono seguire le regole del diritto là ove esse sono state
introdotte contro la ragione del diritto stesso",663 ed è questa
l'origine e la ratio della norma di cui allo art. 14 delle preleggi, che
vieta l'analogia delle leggi penali, per via interpretativa, nonché di
quelle eccezionali o, comunque, derogatorie. Le norme eccezionali,
pertanto, sono, in generale, secondo la loro stessa origine, o di
carattere corporativo, come quelle, numerosissime che, in passato,
affliggevano il diritto commerciale, ovvero discriminatorie, in senso
classista, come quelle che esentavano od alleviano del pagamento
dei tributi in vantaggio di potentati di ogni specie, o primaziali,

660
Cfr. contra L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I,
1987, p.328.
661
ULPIANO, D. I, 4, I.
662
PAOLO, D. I, 3; 16.
663
GIULIANO, D. I, 3, 15.

252
secondo la concezione, ad esempio, che si aveva, sino ad un tempo
recente, della famiglia e dei diritti dei genitori, anche iure
successionis, nei confronti dei figli, ovvero del consiglio di famiglia
nei confronti degli orfani minorenni e delle vedove. Basta por
mente, però all'attività svolta dalla Corte costituzionale, per aver la
prova che quel residuo di norme ingiuste che ancora sopravvivono
nella nostra legislazione, e di quelle novissime che,
inavvertitamente, sfuggono ancor oggi alla percezione del
legislatore, vengono fulminate tutte d'incostituzionalità, ex art. 3
cost., che rappresenta nella nostra legislazione l'archetipo stesso del
concetto di giustizia realizzato nel divenire giuridico. Indicativa
anche la concezione che il legislatore stesso ha avuto delle norme
eccezionali, secondo i requisiti essenziali che esso ne ha stabilito
così come risulta dalla relazione della commissione parlamentare
estesa a commento dell'art. 4 del progetto preliminare del codice
civile: "si è osservato, in definitiva, che occorre salvaguardare il
principio che la legge eccezionale deve avere applicazione
eccezionale, dev'esser, cioè, limitata sia nel tempo che
nell'estensione, escluso ogni criterio di analogia".664
Il discorso ci porta allora all’Assemblea costituente ed alla
definizione del principio di uguaglianza, come criterio che presiede
e giustifica le norme eccezionali. Ne era emersa una prima stesura
che ne aveva indicato le linee fondamentali nei termini seguenti: "1)
la radice spirituale e religiosa dell'uomo è la base sulla quale
soltanto è possibile costruire solidamente l'edificio dei diritti
naturali, sacri ed imprescrittibili"; 2) "per dare solidità intrinseca a
tali diritti la dichiarazione deve procedere anche ad un'affermazione
relativa alla natura spirituale e trascendente della persona". I
correlatori nominati, quindi, procedettero collegialmente alla stesura
dell'art. 1 nei termini seguenti: "La presente costituzione, al fine di
assicurare l'autonomia e le dignità della persona umana e di
promuovere a un tempo la necessaria solidarietà sociale, economica
664
Codice civile: libro delle successioni e donazioni : illustrato con i
lavori preparatori, relazione sul progetto preliminare, relazione sul progetto
definitivo, atti della commissione parlamentare, relazione del guardasigilli a S.M
il Re imperatore, Roma, 1939, p. 8.

253
e spirituale in cui le persone devono completarsi a vicenda,
riconosce e garantisce i diritti inalienabili e sacri dell'uomo, sia
come singolo che come appartenente alle forme sociali nelle quali
esso organicamente e progressivamente si integra e si perfeziona". Il
preambolo suddetto, però, fu poi abbandonato, non già perché la
commissione, e l'assemblea, nel suo complesso, vi furono contrari,
ma perché nella seduta del 9 settembre 1946 si preferì non seguire
quel metodo di compilazione per non caricare di ideologia eccessiva
la nuova Carta costituzionale, e far sì, per contro, che i principi già
espressi trasparissero dai singoli precetti piuttosto che da definizioni
teoretiche di difficile acquisizione cognitiva dalla generalità dei
cittadini: "assicurare una Costituzione accessibile a tutti, una
Costituzione che possa essere compresa dal professore di diritto e,
in pari tempo dal pastore sardo, dall'impiegato d'ordine e dalla
donna di casa."665 Il giusnaturalismo, pertanto, ispiratore della
nostra Carta costituzionale, è l'unico canone ermeneutico di diritto
non scritto (nòmos agrafòs) che è lecito applicare per
l'interpretazione delle norme allorquando si vuol ricercare la loro
ratio. Le norme suddette, quindi, per essere giuste, devono essere
riguardate: in ordine all'autore, sub species legitima potestatis di
colui che le ha dettate; in ordine al fine, nella misura in cui esse
sono state ordinate al bene comune, così come richiamato e definito
nel corso dei lavori preparatori della costituzione: unde homines
vivere possit et unde bene vivant; in ordine alla forma, intesa come
trascendenza dall'esperienza sensibile all'intelligibile (potenza
contrapposta ad atto), sotto il profilo in cui impongono oneri uguali
a coloro che devono osservarle.
La disciplina dei privilegi, pertanto, non fa trattamento
uguale, secondo il criterio formalistico, a meriti diseguali, ma
parifica persone e beni in una commisurazione plurima e composita
di singole posizioni soggettive da riguardare e di beni della vita da
attribuire, e realizza quella giustizia perfetta, sotto l'aspetto

665
Per originali osservazioni sul principio di uguaglianza nella Carta, cfr.
C. PINELLI, Titano, l’uguaglianza ed un nuovo tipo di “additiva di principio”, in
Giur. cost., 1993, p. 1792 e ss.

254
retributivo, che viene chiamata geometrica.666 Essa, inoltre, realizza
la giustizia commutativa, quale regolatrice di rapporti
sinallagmatici, perché commisura impersonalmente e
quantitativamente il credito ed il debito bella realizzazione
proporzionalistica in cui entrambi possono trovare soddisfazione,
onde realizza in tal modo la giustizia che viene chiamata
aritmetica.667 Da qui l'esemplificazione della giustizia, anche in
segno grafico, come un numero elevato al quadrato,668 quale
riassunzione composita delle sue caratteristiche geometriche ed
aritmetiche, espressioni, entrambe, di relazioni egualitarie e di
corrispondenza d'istanze opposte e confliggenti, onde la giustizia è
l'uguale, perché rende lo stesso per lo stesso.669 La giustizia
aritmetica, in particolare, che viene in risalto maggiore in tema di
attribuzione dei beni materiali, come, per l'appunto, la disciplina dei
privilegi, tende a far sì che ciascuno dei creditori sia soddisfatto
paritariamente rispetto agli altri concorrenti, di modo che nessun
d'essi riceva nulla di più e nulla di meno di quanto è possibile
attribuirgli in concreto, onde la giustizia commutativa rappresenta il
punto ottimale tra il danno ed il guadagno. Tale concezione della
giustizia, come constans et perpetua voluntas ius suum cuique
tribuendi,670 mette in rilievo che il significato abbia in concreto,
l'espressione ius suum, quale sia, in sostanza, il dictamen practicum
che consente di ravvisare la giustizia nei casi singoli. Il legislatore,
nella fattispecie dei crediti concorsuali, l'ha ben fatto consistere
nella proporzionalità susseguente dei diritti da comparare, ritenendo
più meritevoli di soddisfazione quelli che precedono nella
graduatoria da lui stabilita, con presunzione iuris et de iure di
giustizia, che di essi vien fatta, e meno privilegiati quelli che ha

666
gheometriché analoghia: ARISTOTELE, Etica a Nicomaco, V, 7, 1131 b,
II, 20.
667
aritmetiché analoghia: ARISTOTELE, Etica cit., V, 7, 1131 b, 25; 1132
a, 10.
668
ARISTOTELE, metafisica; I, 5, 985 b, 29.
669
ARISTOTELE, etica a Nicomaco; V, 8, 1132 b, 21, nonché, IDEM, grande
etica, I, 34, 1194 a, 28.
670
ULPIANO, D. I, I, 10.

255
posto in seguito. Mai, quindi, come nel caso della disciplina dei
privilegi, si evidenzia ex se l'esattezza del principio: ubi societatis
ibi ius,671 poiché dove vi è pluralità concorsuale vi è bisogno di
regole proporzionalistiche in termini di parità e di eguaglianza
sociale ed economica. La consuetudinarietà delle leggi, infatti, è, di
per se, indice di giustizia realizzata, perché il comune consenso
prestato ad esse ab antiquo è segno indefettibile della rispondenza
di esse alla retta ragione ed al senso di eguaglianza personale e
reale che è insito nella natura degli uomini. Anche a tal principio
etico-giuridico è stato recepito dalla nostra tradizione
giusnaturalista in termini, inizialmente, di giurisprudenza pretoria,
e, poi, di legge in senso formale e sostanziale, dalle costituzioni
imperiali: "non devono esser cambiate mai quelle leggi che hanno
ottenuto sempre un'interpretazione uniforme in ogni tempo;672 "la
diuturna consuetudine ha forza di legge in mancanza di legge
scritta,673 e da qui il secondo tratto di legge giusta, per essere
osservata sempre, e soltanto in un secondo tempo trasfusi
nell'edictum tralaticium, come regole di giustizia indubitate, e,
quindi, nell'edictum perpetuum e nelle costituzioni imperiali sino ai
vigenti codici europei; "nell'interpretare le leggi si deve avere
riguardo, anzi tutto, al diritto che fino a quel tempo è stato vigente,
perché la consuetudine è per esse un ottimo criterio ermeneutico",674
e da qui la caratteristica ulteriore di essere legge perequativa, perché
introdotta ab immemorabile tra le regole del diritto ed interpretata
sempre in modo uniforme; "nell'istituire leggi nuove deve apparire
evidente l'utilità di esse prima di discostarsi da quelle che per lungo
tempo sono state ritenute giuste",675 La legislazione, pertanto, deve
realizzare quel diritto positivo che è ritenuto per antonomasia come
espressione stessa della retta ragione e, quindi, come derivazione
diretta della legge naturale, che è partecipazione stessa alla legge
eterna, secondo la fantasiosa (ma significativa) etimologia del

671
ARISTOTELE, grande etica, VIII, II, 1159 b, 26.
672
PAOLO D. I, 3, 23.
673
ULPIANO, D. I, 3, 33.
674
CALLISTRATO, D. I, 3, 37.
675
ULPIANO, D. I, 4, 2.

256
termine "diritto": i primi padri delle nazioni gentili, ch'erano giusti
per la creduta pietà di osservare gli auspici, e che credevano divini i
comandi di Giove dal quale appo i latini era chiamato Ious, ne fu
anticamente detto il "ius", onde la giustizia appo tutte le nazioni
s'insegna naturalmente con la pietà".676
Al di là dell’imprecisa,677 ma efficace, etimologia di Vico, se
ne può dedurre che le disposizioni sui privilegi, come norme
ordinarie di diritto comune (oggi detto civile), sono suscettibili sia
d'interpretazione estensiva che analogica, ed a tal riguardo soccorre
l'origine di legge positiva stessa dei privilegi di cui agli artt. 2753 e
2754 cc, che costituiscono un complemento del sistema
previdenziale, che è oggi un corpus legislativo di carattere ordinario
e generale, perché scaturente direttamente dai precetti di cui agli
artt. 1 e 38 cost., onde di esso non è più il caso di parlare come di un
ius singulare.
Dev'esser rilevato, che l'articolo 14 delle preleggi si limita
soltanto a disporre che le leggi penali e quelle eccezionali, o che
derogano ad altre leggi, non sono suscettibili d'interpretazione
analogica, ma non spiega in che cosa questa consista, ne come
debba essere applicata, perché suppone che tali criteri ermeneutici
siano già conosciuti dall'interprete, perché enunziati nel precedente
art. 12. Di tanto ne danno certezza gli stessi lavori preparatori
dell'art. 14, là dove la relazione del Guardasigilli678 lascia
comprendere inequivocabilmente che i concetti d'interpretazione
analogica ed estensiva sono già stati acquisiti cognitivamente in una
norma precedente: "poiché la norma (inizialmente art. 4 ed oggi art.
12) non riguarda l'interpretazione estensiva ho ritenuto più
appropriato chiarire che le leggi formanti eccezioni a regole
generale non si applicano anziché non si estendono, e sempre al fine
di ottenere maggiore chiarezza, ho sostituito considerati ad espressi,

676
GB. VICO, La scienza nuova, introduzione, (1730 – 1744) nell’edizione
curata da Fausto Nicolini, Bari 1931 e 1953.
677
Per un’accurata etimologia di jus, cfr. F. GENTILE, Il giuramento.
Conversazione tenuta agli Allievi del 170 Corso Ufficiali dell’Accademia
Militare di Modena, Modena, 1989.
678
Cfr. supra, n. 4.

257
potendo quest'ultima parola far pensare che si debba aver riguardo
solamente ai casi menzionati espressamente". La relazione al re, del
pari, (n 4) dà la certezza che il concetto d'interpretazione analogica
sia stato anch'esso già acquisito nel codice: "d'altro canto le leggi
che restringono il contenuto e l'esercizio dei diritti subiettivi sono
necessariamente leggi eccezionali, in quanto si contrappongono alle
leggi generali che determinano il contenuto e l'esercizio dei diritti, e
quindi non possono applicarsi analogicamente, secondo il principio
già enunciato nell'art. 4. Consegue, pertanto, che la norma che
indica quale sia l'interpretazione analogica è quella dell'art. 12, 2
comma, delle preleggi, che dispone che: "se una controversia non
può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle
disposizioni che regolano casi simili e materie analoghe; se il caso
rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi dell'ordinamento
giuridico dello Stato".
La "materia analoga" presuppone che si faccia ricorso a
discipline d'istituti diversi che possano avere soltanto qualche punto
in comune col caso da disciplinare, o nei presupposti legislativi, o
negli effetti pratici. La giurisprudenza al riguardo, non lascia adito a
dubbi: "il ricorso alla analogia è consentito per regolare un caso non
preveduto dalla legge con la disciplina prevista per un caso analogo,
che abbia, cioè, lo stesso fondamento razionale, e consiste in un
processo logico per risalire dalle norme espresse particolari, al
principio generale che le governa.679 La giurisprudenza
sull'interpretazione estensiva, a sua volta, puntualizza, con
differenziazione apposita, in cosa essa consista: "fondamento
dell'analogia non è la presunzione della volontà del legislatore, ma
il principio dell'eguaglianza giuridica: presupposto che il rapporto
non è contemplato, sebbene diverso da quello che è, abbia con
questo somiglianza.680 La conferma che, nel caso presente, si tratti
d'interpretazione estensiva e che questa riguardi casi simili e non
identici, si ha dai lavori preparatori e, primieramente, dalla
relazione della commissione reale (pag. 9) sull'art. 3 (oggi 12), che

679
Cfr., per tutte, inizialmente, sent. n. 2404 del 23.11.1965.
680
Cfr., per tutte, inizialmente, sent. n. 1801 del 14.7.1949.

258
reca le considerazioni seguenti: questa disposizione serve a stabilire
nettamente che l'interpretazione non dev'esser altro, che la
ricostruzione del pensiero del legislatore, ed è diretta a evitare il
pericolo d'interpretazioni più o meno cervellotiche; certo che con
essa non sono eliminate le difficoltà cui, nella pratica,
l'interpretazione delle leggi dà luogo, tuttavia l'opera giudiziaria è
un lavorio continuo d'interpretazione delle leggi, e sarebbe vana la
fatica del legislatore che pretendesse di risolvere con regole generali
le difficoltà numerose che si presentano praticamente e che per la
loro molteplicità e per la loro varietà sfuggono alle sue previsioni;
la scienza può dare e dà, effettivamente, regole appropriate che
possono servire a guidare convenientemente l'interprete, ma nessuna
di esse può aver valore di norma assoluta, per cui ciò che è
essenziale è che l'interprete sia intelligente ed onesto e che ricerchi
il senso della legge animato dal solo spirito della verità e della
giustizia; "se i codici più recenti non contengono norme
sull'interpretazione della legge, quasi tutti contengono norme per
supplire al silenzio della legge, perché essa può presentare
mancanze, sia per la visione incompleta delle varie contingenze da
parte del legislatore, sia perché il progresso segna continuamente
rapporti sempre nuovi e più complessi; in caso di lacuna della legge,
è certo che il giudice deve compiere la sua opera, onde il codice di
Napoleone sanciva nell'art. 4 che il giudice non poteva rifiutarsi di
giudicare sotto il pretesto del silenzio o dell'oscurità o
dell'insufficienza della legge, altrimenti sarebbe stato passibile di
pene per il rifiuto di giustizia"; "tutti i codici più recenti contengono
una disposizione a questo proposito, ed essi riproducono, in
generale, e spesso letteralmente, quella contenuta nel capoverso
dell'art. 3 (oggi 12) del nostro titolo preliminare, e, in realtà, non si
può negar che essa sia redatta in modo da appagare le ragionevoli
esigenze della dottrina e da servire convenientemente alla pratica
giudiziaria". Da tale nomofilachia compiuta dal legislatore stesso
discende che l'interpretazione es analogica delle leggi è il criterio
generale ed ordinario dell'ermeneutica giuridica, perché le leggi
sono facilmente insufficienti o lacunose non già per la loro
formulazione claudicante od oscura, ma per l'evolversi rapido delle

259
situazioni reali con riguardo alla produzione ed alla disponibilità dei
beni della vita ed ai rapporti che a quelli si riferiscono e che
l'influenzano, e tale è da ritenersi il sistema previdenziale vigente
che non consente soste interpretative o remore legislative dei valori
umani, onde impone alla giurisdizione di adeguare il sistema
generale già esistente ai casi più disparati con criterio direttivo
coerente col sistema già posto ed il più possibile uniforme. In tal
senso, peraltro, è concorde la nostra stessa tradizione giuridica,
onde la ratio del legislatore si rivela come la conferma di un sistema
già sperimentato con favore nel tempo, e da tali precendenti essa
acquista maggior forza di convinzione e maggior certezza di
applicazione circa l'estensione della legge a quei pochi casi non
disciplinati precisamente o non previsti addirittura: "le leggi, come
sostiene Teofrasto, devono esser dettate per quei casi che accadono
più frequentemente e non già per quelli che avvengono
rarissimamente";681 "non devono esser poste leggi per quei casi che
possono accadere soltanto qualche volta";682 "le leggi devono
riguardare i casi più frequenti e facili ad accadere e non già quelli
che sorgono rarissime volte";683 "le leggi ed i senatoconsulti non
possono essere concepiti in modo che concernano tutti i casi
possibili, ma è sufficiente che provvedano a quelli che di più
frequente accadono".684 Dev'esser tratta, pertanto, una prima
conclusione al riguardo, ed affermare che l'interpretazione analogica
delle leggi è, istituzionalmente, attività quotidiana della
giurisdizione, senza la quale non sarebbe possibile render giustizia a
tutti i cittadini secondo un criterio mirato e proporzionale di
attribuzione di diritti o di obblighi. La relazione della commissione
parlamentare, a sua volta, (pag, 728) che seguì quella della
commissione reale, fu ancor più puntuale in tema d'ermeneutica
legislativa, perché pose in evidenza la differenza tra il primo ed il
secondo comma dell'art. 12 evidenziando il senso relativamente
costrittivo del primo precetto, rispetto alla maggior libertà che il
681
POMPONIO, D. I, 3, 3.
682
CELSO, D. I, 3, 4.
683
CELSO, D. I, 3, 5.
684
GIULIANO, D. I, 3, 10.

260
secondo accordava al giudice per i casi non disciplinati: "si è
considerato che le de parti di questo articolo hanno due funzioni
precise: la prima guida e frena l'interpretazione, stabilendo che deve
farsi in base alla lettera della legge e l'intenzione del legislatore,
l'altra dà, invece, una certa libertà all'interprete. "La commissione,
pertanto,... non ha creduto che si possa precisare, come qualche
commissario avrebbe voluto, cosa debba prevalere l'interpretazione
di una norma nel caso di contrasto tra la lettera e lo spirito di essa,
ed ha ritenuto che la soluzione della questione debba esser lasciata
alla dottrina, mentre, indubbiamente, se il magistrato riconosce che
nella formulazione della legge vi è un errore, egli non può dare la
prevalenza allo spirito della disposizione. Risulta confermato,
quindi, dall'autorità stessa del legislatore, che quel che deve
prevalere in caso di norma incerta, o lacunosa è la ratio legis,
considerata secondo lo spirito che anima il provvedimento
legislativo, il dictamen practicum che con esso si vuol conseguire,
la disciplina che si vuole introdurre in vista di un ampliamento della
sfera dei diritti dei cittadini ovvero della restrizione di questi in
funzione di un maggior bene comune. Di tanto, il pensiero del
legislatore, peraltro, è sorretto ancora una volta dall'esperienza
collaudata della nostra tradizione giuridica, che è, sotto tale aspetto,
ancor più illuminante con riguardo all'esattezza della soluzione data
alla tematica in esame: "non tutti i casi particolari possono essere
compresi nelle disposizioni di legge o nei senatoconsulti, ma
allorquando il senso di esse è in qualche modo manifesto, il
magistrato può estenderlo a cause simili, e rendere in tal modo
giustizia";685 "allorquando, come sostiene Pedio, una legge viene
promulgata per disciplinare una determinata materia, è questa
un'occasione favorevole per applicarla a quei casi analoghi che
tendono alla medesima utilità, mediante l'attività interpretativa
ovvero l'applicazione analogica";686 "Le leggi devono essere
interpretate benignamente, in modo, però, che venga conservata a
loro volontà";687 "la ragione del diritto e la benigna equità non
685
GIULIANO, D. I, 3, 12.
686
ULPIANO, D. I, 3, 13.
687
CELSO, D. I, 3, 18.

261
tollerano che quanto viene introdotto salutarmente per l'utilità degli
uomini, si rivolga in loro pregiudizio a causa di 'un'interpretazione
severamente restrittiva",688 e da qui l'avvertenza fatta da Cicerone ai
giurisperiti di non essere mai formalisti o restrittivi
nell'interpretazione delle leggi al fine di evitare di dimostrarsi "di
naso chiuso, emuctae nares". La sentenza di Modestino è quella che
evidenzia meglio il vizio d'interpretazione in cui abitualmente
incorrono le corti, perché esse si precludono ogni via ermeneutica e
si è ristretto soltanto nell'interpretazione letterale della locuzione,
con la conseguenza di non aver potuto cogliere tale espressione
nella sua vera ragion d'essere, secondo l'intenzione del
legislatore.689

688
MODESTINO, D, I, 3, 25.
689
“Deve concludersi, pertanto affermando: 1) che le norme del codice
civile di cui agli articoli 2753 e 2754 non costituiscono un ius singulare; 2) che
esse, per contro, sono norme di legge ordinaria; 3) che esse sono tali anche con
riguardo alla loro origine previdenziale; 4) che esse creano una par condicio tra
lavoratori subordinati e lavoratori autonomi in ordine alla tutela dei diritti
previdenziali riconosciuti ad essi ex legge; 5) che le norme suddette sono, di
conseguenza, suscettibili d'interpretazione sia estensiva che analogica; 6) che,
nella specie, dovevano esser fatte oggetto d'interpretazione analogica; 7) che tutti
i criteri ermeneutici delle leggi sono dettate dall'art. 12 delle preleggi; 8) che l'art.
14 delle preleggi non è fonte d'esegesi legislativa, ma norma che disciplina
l'applicazione delle leggi penali od eccezionali.” Così Cassazione civile, Sez.
Lavoro, n. 7494 del 24/07/90.

262
13. L’ANALOGIA IURIS E I PRINCIPI GENERALI

13.1. Analogia legis e analogia iuris

13.1.1. Il problema dell’esistenza o meno di una scala


gerarchica tra i criteri di interpretazione (interpretazione estensiva,
analogia legis, analogia iuris). Critica alla distinzione qualitativa o
sulla base dell’esistenza di un rapporto particolare-particolare
(analogia legis) o particolare-generale (analogia iuris). Negazione
della distinzione analogia legis-analogia iuris sulla base del fatto
che metterebbero capo a un principio comune (norma inespressa)
di ampiezza diversa. Ipotizzabilità di una coincidenza tra analogia
legis e principi.

Si è già accennato all’inserimento del ricorso ai principi


generali dell’ordinamento in coda ai canoni legislativi per
l’interpretazione della legge previsti dall’articolo 12. Il secondo
comma dell’articolo in parola, come noto, dispone infatti che, “se il
caso rimane ancora dubbio” - dopo la menzione del ricorso a “casi
simili o materie analoghe” - “si decide secondo i principi generali
dell’ordinamento giuridico”.
Si è anche fatto cenno alla variazione,690 rispetto al precedente
articolo 3 del codice civile del 1865 della dicitura “principi generali

690
Cfr. par. 4.1.1. “Devesi preliminarmente osservare che l'art. 12 delle
preleggi, nel dettare i criteri legislativi di interpretazione, stabilisce, anzitutto,
che, nell'applicare la legge, non si può ad essa attribuire altro senso se non quello
fatto palese: a) dal "significato proprio delle parole secondo la connessione di
esse" (criterio cosiddetto di interpretazione letterale); b) dalla "intenzione del
legislatore" (criterio cosiddetto di interpretazione teleologica). L'interprete, in
forza dei suddetti criteri, deve acquistare la conoscenza della determinazione
legislativa, tenendo presente come, nei diversi sistemi giuridici, alcune
proporzioni siano ripetute e conclamate con costanza: una di queste è la regola
(evidenziata dal citato art. 12) per cui, nel procedere all'interpretazione della

263
dell’ordinamento giuridico dello Stato”: l’antecedente codice
riportava, infatti, l’espressione “principi generali di diritto”.
Interessante, per capire la logica sottostante il concetto espresso
dall’articolo, è rileggere la relazione a Sua Maestà il Re Imperatore,
stilata in occasione del nuovo codice del 1942 (il cui primo libro,
com’è noto, è entrato in vigore già nel 1939).
“La specificazione introdotta nel progetto definitivo”, scrive il
relatore, “a proposito dei principi generali del diritto, nel senso che
tali principii debbono essere ricercati entro la sfera del sistema
legislativo vigente, ha incontrato il pieno favore della Commissione
parlamentare. Nondimeno, in luogo della formula «principii
generali di diritto vigente», che avrebbe potuto apparire limitativa
dell’opera dell’interprete, ho ritenuto preferibile l’altra, « principii
generali dell’ordinamento giuridico dello Stato », nella quale il
termine «ordinamento» risulta comprensivo, nel suo ampio
significato, oltre che delle norme e degli istituti, anche

legge, occorre attenersi innanzitutto e principalmente al lato letterale. La legge va,


dunque, interpretata alla lettera; e questo criterio impone al giudice di attenersi
strettamente al diritto posto con la legge dello Stato. Anche se il criterio di
interpretazione teleologica tende a questo risultato: le parole sono solo il mezzo
attraverso il quale si esprime "l'intenzione del legislatore"; e come tali vanno
interpretate, ma non fino al punto di attribuire alla norma un senso diverso da
quello che, dal contesto della legge, risulta corrispondere alla finalità che la
norma si propone (tradizionalmente definita anche come ratio legis); tuttavia,
l'interpretazione secondo la ratio legis deve essere giudicata eccezionale. Il
primato dell'interpretazione letterale è, infatti, costantemente ribadito dalla
giurisprudenza di legittimità (Cass. 26 febbraio 1983 n. 1482; Cass. 2 marzo 1983
n. 1557; Cass. 27 ottobre 1983 n. 6363; Cass. 7 aprile 1985 n. 2454; v. anche:
Cons. St. Sez. V 15 giugno 1992 n. 555). All'intenzione del legislatore può darsi
rilievo soltanto nell'ipotesi - eccezionale - che l'effetto giuridico risultante dalla
formulazione normativa sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo
consentito all'interprete correggere la norma, nel significato tecnico - giuridico
proprio delle espressioni che lo strutturano, solo perchè ritiene che l'effetto
giuridico risultante sia inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma è intesa
(Cass. 6 agosto 1984 n. 4631). L'interpretazione da seguire deve essere, dunque,
quella che risulti il più possibile aderente al senso letterale delle parole, nella loro
formulazione tecnico giuridica.” Così Cassazione Civile Sez. Lavoro n. 3495 del
13/04/96.

264
dell’orientamento politico legislativo statuale e della tradizione
scientifica nazionale con esso concordante”.691
La variazione dall’una all’altra dicitura è interessante non solo
perché il tentativo è verso la precisazione di codesti principi
generali, rendendoli qualcosa di più vicino al diritto vigente, ma
anche perché, raffrontando i progetti di riforma dell’articolo
rigettati con quello poi adottato emerge la volontà di dare peso non
unicamente al complesso di norme esistenti, ma anche alla
“tradizione scientifica nazionale”, all’elaborazione giuridica e
quindi a quei principi rinvenuti non solo per diretta discendenza dai
precetti ma anche per via ermeneutica.
Prima di addentrarci, però, ad analizzare il significato e la
portata dei principi generali nel nostro ordinamento - il che sarà
fatto, anche se per sommi capi, nel paragrafo successivo - è utile
indagare sul rapporto tra questi e gli altri criteri ermeneutici previsti
dall’articolo 12.
Si è già detto, parlando dei limiti all’analogia legis, che
ritenere eccezionale o meno una norma dipende da
un’interpretazione sistematica ed assiologica e che in questa
operazione è coinvolta una valutazione qualitativa rispetto ai valori
- e ai principi - che emergono dal dinamismo sociale e giuridico.
Ciò implica, evidentemente, un ricorso a elementi che trascendono -
o sono impliciti - la norma nella sua letteralità.
Ma non è solo l’analogia legis a fare da passante per il ricorso
ai principi generali. Anche nell’ordinaria attività interpretativa,
infatti, si è detto che il criterio per estendere la lettera della legge
adattandola alla concretezza dell’esperienza deve essere quello del
ricorso a valori sottesi alle norme stesse, cosicché anche senza
passare per l’analogia si può, come si vede, fare ricorso ai principi.
Tradizionalmente, invece, si è inteso il rapporto tra
interpretazione estensiva, analogia e ricorso ai principi generali

691
Cfr. Codice civile: libro delle successioni e donazioni : illustrato con i
lavori preparatori, relazione sul progetto preliminare, relazione sul progetto
definitivo, atti della commissione parlamentare, relazione del guardasigilli a S.M
il Re imperatore, Roma, 1939; nonché Corte d’Appello di Roma, sent. 10.1.1939,
in Foro it., I, c. 677.

265
come una successione progressivamente sempre più ampia di criteri
ermeneutici, come una serie di cerchi concentrici con al centro
l’espressione formale della norma e all’esterno la concezione
ideologico-valoriale che sostiene il sistema giuridico.
Anche la stessa dizione dell’articolo 12 sembra rifarsi a questa
idea, laddove parla di caso che rimane ancora dubbio,
presupponendo, pertanto, una precedente applicazione di criteri
ermeneutici diversi da quello, che appare come sussidiario, del
ricorso ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato.
Ciò che, tuttavia, non convince di questa gerarchia dei criteri
ermeneutici è il fatto che, comunque, il processo interpretativo in se
stesso comporta, come si è detto, la ricerca di questi principi, se non
altro per poter legittimare il ricorso al criterio analogico: i principi
generali, pertanto, non affiorano solo come extrema ratio, ma, al
contrario, sono il naturale approdo di ogni autentica ermeneutica,
sicché non ha ragione di esistere la scala gerarchica così come è
stata tradizionalmente individuata nell’articolo 12.
Contraria a questa impostazione è, tuttavia, parte della
dottrina, incline piuttosto a individuare nell’analogia juris,
ipotizzata come coincidente con il ricorso ai principi generali, uno
strumento di “ulteriore astrazione” rispetto ai termini della
descrizione normativa, per risolvere “ulteriori conflitti e situazioni
sociali [...] irriducibili a tali termini”.692
In generale, perciò, quella dell’analogia juris è vista come
una diversa forma di autointegrazione per sostituire i termini della
fattispecie normativa, anche non dipendenti da un inquadramento
sistematico, con termini più generali, in un rapporto, pertanto, che
va dal particolare - il caso della norma - al generale - il principio -
così come l’analogia legis era vista, rispetto alla fattispecie
normativa, come uno strumento che stabiliva con essa un rapporto
da particolare - anche qui il caso della norma - a particolare - il caso
“analogo” rinvenuto, appunto, per analogia.

692
.Cfr. M. BARCELLONA, L’interpretazione del diritto come
autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica dir. priv., 1991, p. 53.

266
Conviene, a questo punto, fare un passo indietro e soffermarsi
sul significato di questa analogia juris che, come visto, viene
confondendosi con l’idea del ricorso ai principi generali
dell’ordinamento, dato che il termine è caduto in disuso.693
Storicamente l’espressione analogia juris precedette, nell’uso,
quella di analogia legis, indicando il concetto aristotelico di
proporzione, il procedimento per ricavare soluzioni per i casi non
previsti dall’armonia del sistema.694 Così da metodo per comporre
le contraddizioni all’interno del sistema giuridico l’analogia juris
progressivamente passò a significare l’intero sistema razionale del
diritto, nella sua connessione organica, e nel suo principio logico di
costruzione.695
Proprio a partire dall’origine del termine qualche autore ha
sottolineato l’assoluta differenza esistente tra il rapporto analogia
legis-interpretazione estensiva, aventi la stessa struttura logica, e
quello analogia legis-analogia juris, aventi rapporto diverso, e
precisamente quello di sussunzione tra la specie e il genere.696
Tuttavia si è anche obiettato come pure l’analogia legis
stabilisca, dal punto di vista logico, un rapporto tra un particolare e
un universale,697 dato che, come si è ampiamente evidenziato, nella
ricerca della ratio, o del valore implicito nella norma si deve,
giocoforza, passare dalla particolarità della norma all’universalità
del principio.
Il processo di astrazione non solo logica, ma teleologica e
assiologica che il passaggio dalla fattispecie prevista alla fattispecie
non prevista richiede non differisce, pertanto, dalla indagine sui
principi generali dell’ordinamento.

693
N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano, Torino,
1957, p.605.
694
N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano, Torino,
1957, p. 605.
695
L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I, 1987, p.321.
696
N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano, Torino,
1957, p. 605.
697
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 358.

267
Anche Carnelutti dà contezza del procedimento analogico
come di quello in cui “si risale mediante una semplificazione del
comando espresso, dalla cui fattispecie si elimina un numero
maggiore o minore di caratteri, a un comando inespresso più ampio
e comprensivo al quale, in quanto per via di specificazione il
comando espresso ne è generato, si dà il nome di principio”,698 pur
se nella sua analisi l’analogia legis si differenzia dall’analogia juris
per un criterio quantitativo, dato dalla maggiore ampiezza e
generalità del comando cui il ricorso ai principi generali darebbe
luogo.
E, per la verità, questo sottolineare la diversa ampiezza del
principio comune rinvenuto con l’analogia legis ovvero con
l’analogia juris è condiviso da buona parte della dottrina, tra cui lo
stesso Betti699: con l’analogia si metterebbe capo all’applicazione di
un “principio”, inteso come proposizione normativa inespressa, cui
si giungerebbe per astrazione logica da una o più norme espresse.
Senonché altri autori700 fanno osservare che con il
procedimento analogico si perviene, in realtà, all’applicazione di
una norma espressa, poiché ad essere inespressa è solo la ratio
legis, elemento sì comune, da cui traggono origine le
argomentazioni, ma che non ha carattere normativo.
Ad essere applicati, quindi, non sono mai né il principio né la
ratio, direttamente, ma sempre si applica una norma rinvenuta per
via di interpretazione. È perciò impossibile distinguere l’analogia
legis dall’analogia juris sulla base del fatto che danno luogo
all’applicazione di un principio comune di portata diversa, e allo
stesso tempo è da accogliere, pertanto, in base alle osservazioni che
si sono fatte sull’analogia, l’ipotesi di una coincidenza tra i due
procedimenti, o comunque della irrilevanza pratica701 di una
distinzione.

698
Cfr. F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, III ed., Roma, 1951, p.
87.
699
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 69.
700
M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.
1954, p. 648.
701
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia in Enciclopedia del diritto, cit., p. 359.

268
Di contrario avviso sembra essere parte della giurisprudenza,
che utilizza la distinzione come escamotage per superare il presunto
divieto di analogia, giustificando un’estensione interpretativa
“audace” con l’analogia juris.
Così fa, ad esempio, una sentenza del Consiglio di Stato del
1985702 che, attesa la tassatività delle forme processuali, ritiene non

702
Consiglio di Stato, adun. plenaria, 20.2.1985 n. 2, in Giur. agr. 1986,
117. Ma anche la Corte di cassazione ha avuto modo di statuire che “…secondo i
principi generali del nostro ordinamento processuale, mentre l'art. 91 cpc è
applicabile estensivamente anche nelle ipotesi in cui è prevista la forma
dell'ordinanza che contiene una statuizione definitiva idonea ad incidere su un
diritto sostanziale delle parti (artt. 350 e 375 cpc), dall'altro esso non è applicabile
fuori delle ipotesi che non prevedono la chiusura di un procedimento con
sentenza definitiva. Le tesi fin qui esposte hanno tutte un tratto comune che le
unifica nella loro ratio e le contrappone, nello stesso tempo, a quelle della
seconda tendenza giurisprudenziale di cui verrà detto subito. Esse sono ancorate
tutte al principio aprioristico, che, nel caso in esame, assume vero e proprio
valore di categoria giuridica, assoluta di per sè, come principio, ed indefettibile
come applicazione, che la locuzione "sentenza che chiude il processo" debba
essere intesa in senso restrittivo, secondo il significato fatto palese dalla parole,
per cui, sotto l'aspetto letterale, essa non può significare altro che il
provvedimento che definisce il processo ordinario di cognizione, inteso come
strumento di sintesi che rappresenta, sempre e comunque, l'individuazione della
legge al caso concreto, e, quindi, la definizione, a cognizione piena, della
confliggenza di diritti soggettivi perfetti tra contendenti sottoposti al medesimo
ordinamento giuridico. L'art. 91 cpc, pertanto, diminuito, così da principio
generale del nostro ordinamento processuale a norma finalizzata alla
complementarità della formulazione del giudizio racchiuso nel documento
qualificato come "sentenza", non esprime più il suo valore universalistico di
civiltà giuridica e di giustizia, che sovviene in expensis alle necessità di chi
subisce un confronto dialettico di qualsiasi genere in sede giurisdizionale, e non
risponde più, quindi, all'imperativo categorico di eliminare le lacrimae rerum
costituite dagli esborsi inevitabili sopportati per proporre l'exceptio in litem
improbam, ma si concretizza in una forma processuale, rigida, per definizione, e
riduttiva, per valore giuridico, che lascia priva di tutela giurisdizionale una
molteplicità di casi, come quello in esame, riguardante per l'appunto la tutela
risarcitoria in sumptibus dei resistenti riusciti vittoriosi nei procedimenti cautelari.
Tale valore minimale attribuito alla norma di cui all'art. 91 cpc si pone in
antinomia non soltanto col criterio di giustizia commutativa che impone di
ristorare il reus absolutus delle spese di lite sopportate, ma contrasta anche con la
nostra stessa tradizione giuridica senza alcuna spiegazione plausibile, e di essa

269
applicabile in materia l’analogia legis, bensì l’analogia juris, col
ricorso ai principi - processuali - generali. Giustificazione che,
tuttavia, non significa altro, a ben guardare, che parrebbe
un’analogia legis particolarmente arrischiata, e niente più, se non si
accoglie la tesi –che a noi sembra preferibile- per cui l’analogia
legis astrae dalla norma il principio (o ratio) ricercandolo poi tra le
norme espresse quelle che partecipano della medesima ratio ed
individuando così il caso analogo. All’opposto, l’analogia juris non
trovando una norma che contenga la stessa ratio e portata, la
produce sostituendosi al legislatore.

bisogna tener conto allorquando, è necessario ricorrervi per riassumere i principi


generali del nostro ordinamento giuridico, essendo essa criterio comprimario di
ermeneutica legislativa, ex art. 12, 2 comma delle preleggi, secondo la ratio stessa
che di tale norma ne dà la relazione al re (n. 12): "ho ritenuto preferibile la
formula principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato, che risulta
comprensiva, nel suo ampio significato, oltre che delle norme e degli istituti,
anche dell'orientamento politico-legislativo statuale e della tradizione scientifica
nazionale (diritto romano, comune, ecc.)". La formulazione degli artt. 91 e 96 cpc
si pone nel solco di quella che fu, in un primo tempo, la giurisprudenza pretoria e,
successivamente, la legislazione imperiale. I punti salienti della tradizione
romanistica con riguardo al thema decidendum in esame, sono tre: 1) il principio
che il pagamento delle spese del giudizio non è soltanto la conseguenza della
malafede (temeritas) della parte soccombente, ma l'attuazione del principio
obiettivo della causalità, onde chi ha cagionato una spesa, indipendentemente
dall'elemento subiettivo che l'ha animato, è obbligata a risarcire l'altra parte
dell'onere economico impostale; 2) che l'obbligo del pagamento delle spese
(expensae), sia dirette che indirette (sumpta), non è connesso esclusivamente
all'accertamento di merito che conclude il giudizio, ancorchè la pronunzia della
sentenza definitiva ne sia il sistema normale; 3) che la pronunzia di condanna alle
spese può esser pronunziata anche con interlocutio nel corso del giudizio, anzichè
con sententia e, quindi, prescindendo dalla soccombenza della parte in punto di
merito.” Così Cassazione Civile Sez. Unite n. 2631 del 30/05/89.

270
13.2. I principi generali dell’ordinamento: tra norme
e fonti di norme.

13.2.1. Concetto di principio. Posizione di Betti: i principi


generali non si identificano con norme inespresse, ma sono somme
valutazioni normative. Eccedenza assiologica dei principi generali.
Il diritto naturale vigente. Principi comuni e principi fondamentali;
rapporto con i principi costituzionali. Principi di civiltà giuridica e
della vita comunitaria. Analogia e criterio degli interessi.
Insostenibilità della distinzione interpretazione estensiva/analogia
sulla base della ricerca e applicazione di un “principio” giuridico.

L’analisi dei problemi connessi ai principi generali


dell’ordinamento meriterebbe un’intera trattazione a sé e, del resto,
la letteratura in materia è, come noto, vastissima. Sembra, tuttavia,
opportuno, soffermarsi anche su questo aspetto connesso
all’interpretazione per dare, quanto meno, l’idea degli sbocchi cui il
ragionamento fin qui condotto può dare spazio. Non sarà possibile,
evidentemente, esaurire l’indagine all’interno del presente lavoro:
ciò che interessa far emergere è, comunque, come le implicazioni
connesse al complesso rapporto tra l’analogia e l’interpretazione
estensiva sfocino anche nelle pieghe del delicato e cruciale tema dei
principi del diritto.
Ciò premesso la dizione dell’articolo 12 - che parla di
“principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato” - e la già
menzionata variazione rispetto alla precedente versione del codice
del 1865 - che si riferiva, più scarnamente, ai “principi generali del
diritto” - non può non interrogare, in primo luogo, proprio sul
concetto giuridico di principio.

271
Già la constatazione della diversità linguistica tra le
espressioni contenute negli articoli dei due codici citati rinvia a
quella che è una diversità concettuale: la prevalenza, alla fine di un
vivace dibattito, del pensiero positivistico su quello
giusnaturalistico, sostenuto al tempo della redazione del codice del
1942 da Giorgio Del Vecchio, che proponeva la coincidenza e
l’immedesimazione dei “principi generali del diritto” col diritto
naturale.703
L’”ulteriorità”, comunque insita nell’idea di questo ritorno,
attraverso i principi, al diritto naturale sembra respirarsi ancora
soprattutto di fronte a chi, indugiando nell’immagine delle lacune
del sistema giuridico, considera i principi come norme capaci di
“mettere una toppa”704 di fronte a documenti legislativi non chiari.
“Se il diritto positivo aveva dei vuoti”, scrive criticamente
Bobbio705 a proposito di questo aspergere di “diritto naturale” i
principi dell’ordinamento, “chi avesse guardato attraverso quei
vuoti avrebbe visto comparire il diritto naturale”.
I principi: norme o fonti di norme?
Sulla capacità normativa dei principi si sono spesi ampi
dibattiti della dottrina: dalla concezione che ne ha visto la
qualificazione come norme su norme706 a quella che ne ha fatto
norme di secondo grado,707 dall’idea di norme “superiori”708 a

703
S. COTTA, I principi generali del diritto: considerazioni filosofiche, in
Riv. dir. civ., 1991, I, p. 496.
704
A. SCHIAVELLO, Riflessioni sulla distinzione rules/principles nell’opera
di Ronald Dworkin, in Riv. int. fil. dir., 1995, p. 183.
705
N. BOBBIO, voce Lacune del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, IX,
1963, p. 423.
706
N. BOBBIO, voce Principi generali del diritto, in Novissimo Digesto
Italiano, 1966, XIII.
707
G.R. CARRIO, Principi di diritto e positivismo giuridico, Bologna 1970,
ora in R. GUASTINI, Problemi di teoria del diritto, Bologna, 1980, pp. 75-94.
708
S. COTTA, I principi generali del diritto: considerazioni filosofiche, cit.,
p. 498.

272
quella di leggi universali, o universalmente valide, contrapposte alle
mere leggi generali contenute negli ordinamenti.709
Lo stesso legislatore, che spesso fa uso del termine
“principio”, sembra ricorrervi in maniera polisensa: alcune volte per
indicare semplicemente una disposizione generale, talaltre per
riferirsi alle finalità della legge - alla cosiddetta mens -, altre ancora
per segnalare il valore che intende tutelare.710
In epoca recente Dworkin711 ha proposto un’ulteriore
distinzione, entrata anche nella nostra riflessione giuridica, tra
norme e principi, tra rules e principles, considerando i “diritti”, e
con essi i principi, come standards di giudizio non riguardanti
aspetti contingenti, ma rispondenti ad esigenze in qualche modo
legate alla giustizia, alla correttezza, alla tutela dei cittadini.712
Questo assegnare ai principi il ruolo e la dimensione,
mancante alle norme, del “peso” o dell’”importanza”713 rischia,
tuttavia, di passare sotto silenzio il fatto che anche le norme, dal
canto loro, esercitano un’importante influenza sui principi,
contribuendo alla loro definizione, e che, comunque, resta del tutto
indefinito il grado di generalità necessario perché una norma possa
cessare di essere norma e cominciare ad essere principio.714
Cosicché nemmeno la dicotomia norme-principi sembra
soddisfare: ciò che è condiviso è, sicuramente, che i principi - al di
là delle discussioni su che cosa siano - contribuiscono
all’interpretazione delle norme per un’eccedenza assiologica che li

709
V. Per la pace perpetua. Progetto filosofico, sez. I, in I KANT, Scritti
politici, a cura di Bobbio, Firpo, Mathieu, Torino, 1956, p. 290.
710
G. ALPA, I principi generali, in Trattato di diritto privato, Milano,
1993, p. 33 e ss.
711
Cfr. § 2.2.1.
712
A. SCHIAVELLO, Riflessioni sulla distinzione rules/principles nell’opera
di Ronald Dworkin, in Riv. int. fil. dir., 1995, p. 162.
713
A. SCHIAVELLO, Riflessioni sulla distinzione rules/principles, cit., p.
162.
714
A. SCHIAVELLO, Riflessioni sulla distinzione rules/principles, cit., p.
169.

273
caratterizza715 e che consente loro di superare, in qualche modo, la
rigida e ristretta dimensione normativa.
Valenza interpretativa, e non tanto correttiva, quella dei
principi, perché quest’ultima presupporrebbe, altrimenti, una
necessaria sovraordinazione del principio alla norma: il che può
avvenire solo accedendo ad un concetto di principio come norma di
“rango superiore” a quello della norma da correggere.716
Ma vi è di più: come efficacemente è stato detto, i principi
costituiscono la “koiné moderna dei giuristi appartenenti a
ordinamenti differenti [...]. Essi assolvono oggi alla funzione un
tempo assolta dal diritto romano: tendono alla comunicazione (se
non alla omologazione) degli ordinamenti giuridici diversi per
tradizione e per storia interna”.717
715
Cfr. V. FROSINI, Sull’interpretazione dei principi generali del diritto, in
Riv. internaz. fil. del diritto 1995, p. 853.
716
G. OPPO, Sui principi generali del diritto privato, in Riv. dir. civile,
1991, I, p. 492.
717
G. ALPA, I principi generali, cit., p. 175. Ben più audace la corte di
Cassazione, ove afferma che “A tal fine, doveva venire in rilievo l'istituto della
"presupposizione", sul fondamento del quale la dottrina è tutt'ora molto discorde,
ma che la giurisprudenza ha da tempo riconosciuto come principio generale
dell'ordinamento (sent. 17 ottobre 1947, n. 1619; 29 luglio 1948, n. 1281; 6
maggio 1949, n. 1143; 16 gennaio 1951, n. 97; 25 giugno 1952, n. 1883; 17
settembre 1970, n. 1512; 10 aprile 1973, n. 1028; 19 aprile 1974, n. 1080; 5 luglio
1974, n. 1954; 10 dicembre 1976, n. 4601; 8 agosto 1978, n. 3864; 24 gennaio
1980, n. 588; 22 settembre 1981, n. 5168), talora ritenendovelo introdotto in
modo espresso e in via generale dalla norma dell'art. 1467 cod. civ., con la quale
il legislatore ha espressamente sancito la rilevanza delle straordinarie e
imprevedibili circostanze, sopravvenute ad alterare l'originaria economia
contrattuale (sent. 9 maggio 1981, n. 3074; 17 maggio 1976, n. 1738; 24 gennaio
1974, n. 191; 3 ottobre 1972, n. 2828; 6 luglio 1971, n. 2104). Ora, secondo i
principi enunciati dalla giurisprudenza, si ha presupposizione quando una
determinata situazione di fatto o di diritto, comune a entrambi i contratti, il cui
avverarsi (o il cui venir meno) sia del tutto indipendente dalla loro volontà e che
abbia i caratteri dell'obiettività e della certezza, pur in mancanza di un espresso
riferimento possa ritenersi tenuta presente dai contraenti medesimi nella
formazione del loro consenso, in modo da costituire il presupposto condizionante
il negozio (c.d. condizione non sviluppata o inespressa). Ed è stato ritenuto, sulla
scia di una parte della dottrina sul tema che il negozio fondato sulla
presupposizione possa essere dichiarato nullo per difetto di causa ove, nel

274
Koiné che si ritrova proprio a partire da e attorno alla perenne
dialettica tra l’eternità dei valori e la contingenza delle situazioni

momento della sua conclusione, l'evento presupposto già difettasse nella realtà
fenomenica; ovvero risoluto ex tunc quando, invece, venga meno nel corso di
esecuzione del contratto, nel qual caso invero l'evento, riferendosi a vicende
successive al valido sorgere del vincolo contrattuale, darebbe luogo allo
scioglimento di questo per causa non imputabile ai contraenti (v. citata sentenza
n. 5168 del 1981).
Un rapporto giuridico così anomalo, in quanto non solo impone una
controprestazione al creditore dell'onere, ma, per quanto riguarda il lato passivo,
non rimane esterno al diritto reale cui è collegato, bensì sostanzialmente ne
esaurisce (in perpetuo) i poteri di godimento normalmente attribuiti al titolare
(rapporto che tuttavia questa corte, in forza del giudicato, deve considerare come
configuranti un diritto reale), non può trovare regolamentazione se non nei
principi generali del diritto, in difetto di altri istituti giuridici dai quali mutare, sia
pure con i dovuti adattamenti, la disciplina giuridica per il caso concreto (art. 12,
2 comma, ult. parte della disp. sulla legge in generale). La corte però non ha
indagato - come si diceva - se, esclusa esattamente tale diretta applicazione, il
rapporto, per il fatto di non potere trovare una diretta regolamentazione nello
ordinamento, a causa della sua dimostrata anomalia, non dovesse trovare
disciplina nei principi generali dell'ordinamento. Quei principi del resto dei quali
lo stesso art. 1467 c.c., per unanime consenso, è esso stesso - come sopra si è
detto - espressione. Si riconosce infatti che detto articolo non è che la
applicazione, sia pure entro determinati limiti e nel solo campo dei rapporti
obbligatori, del principio della presupposizione, cioè del principio che dà rilievo
alle circostanze presupposte non manifestate, riassumibili nell'espressione rebus
sic stantibus, che condizionano ogni assetto di interessi concordato tra gli
interessati, principio che a sua volta è il portato di insopprimibili esigenze di
equità. L'impugnata sentenza va cassata e la causa rinviata ad altra Sezione della
stessa corte d'appello di Napoli, la quale procederà a nuovo esame della
controversia applicando il seguente principio di diritto: "Il giudice chiamato a
decidere una controversia relativa ad un rapporto giuridico anomalo, che non
trovi disciplina nell'ordinamento, deve fare ricorso ai principi generali
dell'ordinamento stesso, a norma dell'art. 12 disp. prel. al c.c. Fra questi principi
generali nel campo dei rapporti patrimoniali vi è quello che si racchiude nella
espressione rebus sic stantibus, cui si ispira l'art. 1467 cod. civ., in forza del quale
un rapporto giuridico patrimoniale, ove non altrimenti disciplinato, non può
essere mantenuto in vita quando siano venute meno, in misura notevole, le
condizioni di equilibrio sulle quali esso è sorto"”. Così Cassazione Civile Sez. II,
n. 6584 del 11/11/86.

275
storiche, grazie a quella che anche Betti definisce l’eccedenza di
contenuto deontologico o assiologico dei principi.718
“Nei principi”, scrive il maestro dell’interpretazione,
“operano una virtualità e una forza di espansione non di indole
dogmatica e logica, ma valutativa e assiologica”,719 cosicché viene
ad essere proprio il dato assiologico quello che consente questa
operazione di inquadramento dell’ordine giuridico nell’ethos
sociale, e con essa la possibilità di intesa ermeneutica
intertemporale e collettiva nel mondo giuridico.
Ciò che, tuttavia, interessa osservare, ai fini della presente
analisi, a proposito del discorso sui principi generali è proprio il
loro ruolo ermeneutico, accanto, o parallelamente, o
intrinsecamente ai procedimenti interpretativi ordinari di analogia e
di estensione.
“I principi generali”, scriveva Betti, “non si identificano con
norme inespresse, ma sono somme valutazioni normative”.720 Tale
caratteristica dei principi, siffattamente intesi, questa capacità
teoretico-esplicativa, diremmo così noetica,721 prima che normativa,
viene in rilievo proprio nel momento in cui l’interprete risolve
quella che si presenta come incognita normativa, e giustifica la sua
interpretazione - in nome, appunto, dei principi - attraverso il
ricorso ad una empirica esigenza di razionalità, andando ben oltre le
soluzioni legislative determinate dalle valutazioni dei principi ma,
anzi, trascendendo il diritto positivo.722
Qualcuno, tuttavia, ha distinto i principi generali veri e propri,
indicati dall’articolo 12, da quelli che sono stati identificati come
postulati concorrenti a formare il cosiddetto “spirito del sistema”,723
cioè direttive per il legislatore ricavabili per induzione dalle norme
718
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 310 e
ss.
719
E. BETTI, op. loc. ult. cit.
720
E. BETTI, op. loc. ult. cit.
721
Cfr. S. COTTA, I principi generali del diritto: considerazioni
filosofiche, cit., p. 503.
722
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 52.
723
M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.
1954, p. 653.

276
positive, e valenti come sussidi ermeneutici. Ciò, però, non deve
trarre in inganno, facendo ritenere che i principi sottesi al sistema
siano semplicemente un’ispirazione ideale, cui fare ricorso in caso
di lacune normative assolute, appellandosi ad una vaga idea di
giustizia e di garanzia.
Esiste, infatti, un vincolo di solidarietà assiologica724 che va
oltre lo stesso concetto di coerenza, poiché, al di là della
conciliabilità tra le diverse norme dell’ordinamento, si esprime in
quello che è stato definito il “diritto naturale vigente”: “non già il
senso di un astratto o ideale diritto naturale che è stato reso positivo,
bensì un diritto positivo che risulta naturale perché prodotto in
conformità alla natura specifica dell’uomo, alla sua struttura
ontologica”.725
Tradizionalmente la dottrina ha collocato accanto a questi,
definiti come principi comuni, in grado di collocare entro un ordine
sistematico tutto il quadro normativo vigente - e grazie a cui
l’interpretazione secondo i principi si viene a confondere con
l’interpretazione sistematica, e viceversa - i cosiddetti principi
fondamentali, che sarebbero caratterizzati, rispetto ai primi, per una
più elevata “idealità assiologica”.726
Così, si è detto, mentre i principi comuni - e l’interpretazione
secondo questi - esprimerebbero la coscienza sociale, e quindi
giuridica, di una comunità, i principi fondamentali, anch’essi regole
di diritto positivo, sarebbero proiettati verso il superamento del
livello medio della vita sociale e il miglioramento della sua qualità,
costituendo addirittura una sorta di “escatologia mondana”.727

724
A. FALZEA, I principi generali del diritto, in Riv. dir. civ, 1991, I, p.
467.
725
S. COTTA, I principi generali del diritto: considerazioni filosofiche, cit.,
p. 509, La posizione, pienamente condivisibile, si innesta in quell’approccio che
fa riferimento a Capograssi e al concetto di “esperienza giuridica” da lui
propugnato, oggi saldamente sostenuto, con innovazioni originali, dal gruppo di
lavoro all’insegna del L’Ircocervo, su cui http://www.filosofiadeldiritto.it
726
A. FALZEA, I principi generali del diritto, cit., p. 469.
727
A. FALZEA, I principi generali del diritto, cit., 469.

277
Non può non balzare alla mente il tema dei principi
costituzionali, se non altro per il fatto che proprio la Costituzione
vigente inquadra i primi dodici articoli entro la categoria dei
“principi fondamentali” anche se, come è stato sottolineato,
l’evidenziazione di direttive superiori del sistema normativo non si
deve ricondurre in via esclusiva all’avvento del costituzionalismo
moderno.728
Le sentenze che si rifanno alla prevalenza, allora, dei “principi
costituzionali” sono numerosissime, tutte, per lo più, tese a ribadire
la necessità di scegliere l’interpretazione, fra più, maggiormente
aderente ai canoni costituzionali (cosiddetta interpretazione
adeguatrice), considerata quest’ultima, anzi, come momento
costitutivo normale di ogni interpretazione.729
Principi che, tuttavia, vengono sovente acquistando rilevanza
accanto ad altri principi, più che altro per giustificare estensioni
ermeneutiche volte, appunto, ad adeguare una disciplina ad un
mutato sentire sociale.
Così l’importante sentenza della Corte costituzionale n. 427
del 1989730pone tra i suoi motivi, come ragione di estensione
ermeneutica delle garanzie per il lavoratore, accanto alle “innegabili
esigenze di parità di trattamento”, secondo il principio
costituzionale di uguaglianza, anche i “principi di civiltà giuridica”,
dimostrando di appellarsi a tali principi, senza peraltro indicare da
dove trarli.731
È legittimo estendere le “garanzie procedimentali” - nella
fattispecie si trattava della contestazione preventiva dell’addebito e
della necessaria audizione del lavoratore incolpato nel caso di
728
A. FALZEA, op. loc. ult. cit., dove l’autore cita, come esempio risalente,
il codice di Hammurabi, sulla stele di Susa, nel cui epilogo sono contenute le
grandi direttrici in base a cui improntare l’amministrazione della giustizia.
729
Corte costituzionale 14.7.1988 n. 823 in Gazzetta Ufficiale 7.9.1988 n.
36, non diversamente da Cons. Stato, sez. V, 18.1.1988 n. 8 in Giur. it. 1988, III,
I, 175.
730
Corte costituzionale, 25.7.1989 n. 427, in Foro it. 1989, I, 2685.
731
Cfr. G. GORLA, I principi generali comuni alle nazioni civili e l’art. 12
delle disposizioni preliminari del codice civile italiano del 1942, in Foro it.,
1992, V, 95.

278
licenziamenti disciplinari, da estendere anche alle imprese con
meno di sedici dipendenti - in base a tali “principi di civiltà
giuridica” e quindi porre, per via d’interpretazione, nel nulla una
norma732 di diritto positivo in nome dell’adeguamento a tale “civiltà
giuridica”?
Quale civiltà giuridica? Solo quella italiana?
L’esperienza ormai pluridecennale dell’inserimento del nostro
ordinamento entro un sistema giuridico comunitario ha fatto sì che
si venissero delineando anche veri e propri principi generali
dell’ordinamento comunitario. Tuttavia proprio da questa verifica si
è trovata conferma del fatto che tali principi e criteri, per quanto
sottoposti a controllo di razionalità e logicità, non sono vincolati a
imperativi provenienti dai singoli ordinamenti alla stessa stregua di
quanto prevede il nostro articolo 12.733
In sostanza è il sostrato etico che sorregge l’ordinamento
sociale e giuridico, costituente un sistema di valori, e quindi un
insieme di principi, a giustificare la ricerca ermeneutica di una
comunità - anche pluristatuale - fondata sul diritto.
Ciò, tuttavia, non deve far cadere in una ingenua fiducia nella
possibilità di fare del ricorso ai principi una specie di osso di Cuvier
-che sosteneva la possibilità di ricostruire l’intera struttura di un
animale preistorico a partire dal rinvenimento di un solo osso- per
l’ossatura giuridica nazionale e internazionale.
Soccorre, allora, quella bettiana dogmatica giuridica di cui si è
parlato all’inizio, come di rappresentazione della realtà. Solo in
questa chiave si potrà, dunque, contro il pericolo che concezioni
assiologiche differenti possano condurre a decisioni divergenti
nell’uno o nell’altro ambiente giuridico,734 concedere la
qualificazione che Betti dà della giurisprudenza: come di organo
non solo deputato a identificare e elaborare i principi generali del

732
Nel caso di specie la sentenza in esame dichiarò l’incostituzionalità dei
commi 2 e 3 dell’articolo 7 dello Statuto dei lavoratori.
733
Cfr. A. TRABUCCHI, Regole di diritto e principii generali del diritto
nell’ordinamento comunitario, in Riv. dir. civile, 1991, I, p. 520.
734
E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 856.

279
diritto, ma anche, in forza di ciò, costituente la coscienza sociale del
tempo.
È evidente la sottile linea su cui queste posizioni fanno
correre la ricerca interpretativa: l’oscillazione più pericolosa è,
senza dubbio, quella di un incontrollabile soggettivismo
ermeneutico capace di togliere ogni validità alla stessa positività
normativa.
È proprio l’analisi dello strumento interpretativo dato
dall’analogia che permette, allora, di comprendere la percorribilità,
al di fuori di ogni arbitrio, di questa astrazione o amplificazione non
solo logica, ma teleologica e assiologica, delle norme e di trovare,
pertanto, una visibile e condivisibile “ragione normativa”735 anche
nell’altrimenti evanescente e sfuggevole ricorso ai principi.
Può accadere che il principio applicabile ad un caso, non
regolato da una norma esplicita, sia così generale da risultare
generico e da richiedere, pertanto, un’opera dell’interprete che
risulta creativa alla stregua di quella di un legislatore?
Se si ammette che ciò possa accadere significa che si
riconosce da un lato una difficoltà notevole a passare, anche
ordinariamente, dal piano dei principi generali a quello della
disciplina concreta dei casi, e dall’altro che, comunque, è necessario
trovare una soluzione - se non altro per il divieto, per il giudice, di
non liquet - a tale eventualità, peraltro non del tutto remota.
La dottrina,736 a questo proposito, è giunta fino a riconoscere
l’esistenza di un quarto mezzo di interpretazione, da utilizzare
proprio quando né l’interpretazione diretta, né l’estensione
analogica, né il ricorso ai principi siano in grado di rinvenire una
disciplina per il caso in esame: soccorrerebbe allora il criterio degli
interessi in conflitto che, senza scadere nell’equivoco in cui sono
caduti alcuni fautori della giurisprudenza degli interessi, scivolando
nella scuola del diritto libero, si proporrebbe di rinvenire, come

735
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 359.
736
Cfr. D. RUBINO, La valutazione degli interessi nell’interpretazione
della legge, in Foro it. 1949, IV, p. 9.

280
ratio ermeneutica, l’interesse prevalente, tenuto conto di tutto il
sistema e delle esigenze che esso comporta.737
L’emergere di questo criterio degli interessi, tuttavia, non può
non far sorgere la questione della compatibilità con gli altri criteri di
interpretazione, in particolare con l’analogia: se vi fosse contrasto
tra il criterio degli interessi e la regolamentazione del caso data da
una norma analoga, quale si dovrebbe ritenere prevalente?738
A me sembra che, come è stato sottolineato, se una norma
“analoga” effettivamente disciplina una materia in modo differente
rispetto a quanto suggerirebbe il criterio degli interessi ciò significa
che, in realtà, dal complesso del sistema risulta che l’ordinamento,
attraverso quella specifica norma, ha già compiuto una scelta
assiologica e ha ritenuto prevalente, evidentemente, un complesso
diverso di interessi.
Il compito dell’interprete, ciò nonostante, si giocherà
ugualmente da un lato nell’indagine della natura di quella norma
“analoga” in relazione a tutto il resto del sistema: se risulterà che si
tratta di una disciplina isolata potrà, così, trarne ragione per
discostarsene, cioè per concludere che il caso effettivamente
“analogo” è disciplinato da una norma eccezionale.
Dall’altro lato, infine, l’interprete sarà tenuto a ritrovare sì le
valutazioni immanenti e latenti nella legge, ma senza scordare che -
come Betti insegnava- “il mutarsi dei rapporti sociali nel tempo
reagisce sull’originaria ratio iuris e matura un esito ulteriore, nel
senso di additare il criterio di analogia per comporre il conflitto fra
altre categorie di interessi all’infuori di quelle previste”.739
Da questa necessariamente veloce panoramica sui principi
generali emerge come appaia insostenibile tentare una distinzione
tra l’interpretazione estensiva e l’analogia basandosi sul principio
sottostante le norme: esso è il criterio cui fa riferimento ogni

737
D. RUBINO, La valutazione degli interessi nell’interpretazione della
legge, cit., p. 6.
738
La questione è posta da D. RUBINO, op. ult. cit., p. 10.
739
E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 31 e ss.

281
operazione ermeneutica.740 La constatazione della “forza di
espansione logica (logische Expanzionskraft) della legge” fa sì che,
comunque, ciò cui l’interprete deve accedere sia il dato assiologico
contenuto nelle norme, per cui indugiare nel definire741
l’interpretazione estensiva come “risultanza tecnica”
dell’interpretazione in quanto tale e, al contrario, l’analogia come
atto che “innova nel mondo giuridico una proposizione giuridica per
l’indinanzi non esistente o non formulata” si rivela privo di
consistenza. Occorre mantenere ferma la consapevolezza
dell’habitus “analogico” della nostra mente e non confondere il
procedimento della conoscenza con le forme di interpretazione (cfr.
supra).
È illuminante, perciò, l’insegnamento di Capograssi742 che
considerava come ogni atto interpretativo sia, in realtà, ricerca di
uno o più principi, nel senso che per comprendere il significato di
una norma, qualunque sia il fine che l’interprete si pone, occorre
riportarla all’unità del sistema, attraverso un lavoro costante di
deduzione e induzione che costituisce la trama mentale di ogni
ermeneutica.743
Ha tutt’oggi senso, quindi, soffermarsi ancora sulle categorie
dell’interpretazione estensiva e dell’analogia come processi
differenziati per un progressivo allargamento verso i principi, pur
tenendo presente, come osservava Caiani,744 che è proprio il rilievo
che assume la ricerca e l’applicazione del principio che consente di
scorgere la profonda unità del momento interpretativo e integrativo
nel processo dell’applicazione del diritto ed è il ragionamento per
analogia, o meglio l’intuizione analogica, che meglio esprime la più
profonda natura - nonché il fascino - dell’attività di ogni giurista.

740
Cfr. M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ.
1954, p. 652 e ss., in particolare nota 116.
741
Cfr. M.S. GIANNINI, L’analogia giuridica, in Jus, 1941, II, p. 528 e ss.
742
G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto, Roma, 1937, p.
103 e ss.
743
Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del
diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 357.
744
Cfr. L. CAIANI, op. loc. ult. cit.

282
14. NUOVE PROSPETTIVE SUL RAPPORTO TRA
INTERPRETAZIONE ESTENSIVA E ANALOGIA

14.1. Dalla discrezionalità alla fuzzy logic applicata


al pensiero giuridico

14.1.1. Le clausole generali e gli standards valutativi come


tentativo di superare la distinzione. L’uso dei cd. concetti-valvola.
Avvicinamento al sistema di common law tramite la categoria della
discrezionalità interpretativa. La core-penumbra theory già
anticipata da Betti. Principi della logica a più valori. Ipotizzabilità
di un sistema giuridico “sfumato”. Sostenibilità dell’intendere
analogia e interpretazione estensiva come applicazioni fuzzy.

Il tema dell’interpretazione estensiva e dell’analogia giuridica


e lo studio del rapporto esistente tra queste due tradizionali
partizioni nella categoria degli strumenti ermeneutici conduce, in
epoca recentissima, a nuove aperture e nuovi sbocchi su cui vale la
pena, prima di avviarsi alla conclusione, di soffermarsi per qualche
considerazione di metodo.
Il pensiero giuridico odierno sempre più frequentemente viene
confrontandosi con l’utilizzo, accanto ai collaudati (per quanto
insoddisfacenti) modelli interpretativi, di criteri in grado di
consentire all’ermeneuta un discreto margine di adattamento nel
sempre problematico rapporto tra fattispecie astratta e fattispecie
concreta.745
In particolare il mutare via via più veloce delle situazioni
sociali, e il presentarsi di sempre nuovi casi, bisognevoli di una
disciplina che non riesce a stare al passo con la rapidità dei

745
Cfr. A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, 32 ed., Padova, 1991, p.
43.

283
cambiamenti, nonché un alto tasso di instabilità assiologica -
complice anche la imperante tentazione di un certo sincretismo nei
valori giuridici - hanno fatto sì che i giudici abbiano sempre più
frequentemente ricercato un appiglio nella definizione di criteri
generali di riferimento, quali, appunto, le cosiddette clausole
generali dell’ordinamento.
Si è data vita, così, a queste regole generali che, anziché
riferirsi a singoli comportamenti e in maniera definitiva e assoluta,
sono costruite come imperativi generici, oltre che generali, di
regolamento secondo valori giuridici quali la buona fede, il buon
costume, l’ordine pubblico, l’equo pareggiamento fra le parti
contrapposte, l’onestà, la correttezza.746
Ad esse si è fatto riferimento anche come a disposizioni di
legge “elastiche” sulle quali si è subito posto un problema di
controllo di legittimità,747 per evitare il rischio, ovviamente, di fare
delle norme di legge un’opzione, ma attorno alle quali si è anche
creata l’idea che esse costituiscano, comunque, degli standards
valutativi,748 quando non ermeneutici, degli imperativi metagiuridici
e sociali in grado, tuttavia, di far leggere quella coscienza comune
che l’interprete è chiamato ad esprimere.
Addirittura alcuno749 ha parlato, a proposito di queste clausole
generali, di elementi in grado di recepire l’aequitas, il diritto
naturale, e di trasformarli in diritto positivo.
Certamente la formulazione normativa per mezzo di tali
clausole, ha mutato radicalmente la stessa tecnica legislativa,750
cosicché l’uso di queste vere e proprie valvole - da cui il termine di

746
Cfr. V. PIETROBON, Errore, volontà e affidamento nel negozio
giuridico, Padova, 1990, p. 89.
747
Cfr. C. ROSSELLI, Il controllo della Cassazione civile sull’uso delle
clausole generali, Napoli, 1983.
748
Cfr. A. FALZEA, Gli standards valutativi e la loro applicazione, in Riv.
dir. civ., 1987, I, p., 198.
749
J. ESSER, Wege der Rechtsgewinnung, Tübingen, 1990, p. 54.
750
P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica ed
assiologica. Il broccardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 disp.
prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, in Rass. dir. civ., 1985, p. 995.

284
“clausole-valvola”751 - di adeguamento del sistema giuridico al
mutare della vita sociale ha fatto sì che si sia sentita come più rara
l’ipotesi di autentiche lacune nel sistema. D’altro canto, tuttavia, la
generalità insita in queste clausole ha portato ad un sempre maggior
potenziamento del ruolo dell’interprete, relativizzando, per contro,
il testo di legge.752
Non solo. Queste clausole hanno di molto accentuato, a ben
guardare, l’intuizione analogica insita in ogni interpretazione, dato
che la loro stessa struttura si è venuta delineando come
concettualmente orientata non ad un’applicazione letterale ma ad
un’esplicazione,753 appunto, analogica, contribuendo, con ciò, a far
concludere (erroneamente), ancora una volta, per l’impossibilità di
una distinzione tra l’analogia e l’interpretazione estensiva così come
si sono tradizionalmente intese.
L’idea dei cosiddetti concetti-valvola (Ventilbegriffe) ha,
tuttavia, anche sviluppato il dibattito attorno a questi che sono stati
visti come “mandati in bianco” all’interprete (o Blankette, come
sono stati efficacemente definiti),754 come “norme di scopo”755
capaci di costituire addirittura un’alternativa cognitiva alla tecnica
della fattispecie,756 dibattito che è sfociato in quello sulla
discrezionalità giudiziaria ed ermeneutica.
Senza addentrarsi in questa materia, che porterebbe lontani
dal tema in oggetto, gioverà, tuttavia, sottolineare come, almeno
nella concezione bettiana, discrezionalità e interpretazione non
coincidono ma, anzi, vi è la necessità di differenziare i due termini.

751
Cfr. E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, a cura di Giuliano
Cfrifò, 2 voll. Milano, 1990, p. 856.
752
G. ZACCARIA, L’analogia come ragionamento giuridico, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1989, p. 1543.
753
G. ZACCARIA, op. loc. ult. cit.
754
Cfr. P. HECK, Gesetzesauslegung und Interessenjurisprudenz,
Tübingen, 1914, p. 314.
755
Cfr. L. PERFETTI, Interpretazione costituzionale e costituzionalità dei
valori nell’interpretazione, in Jus, 1993.
756
Cfr. M. BARCELLONA, L’interpretazione del diritto come
autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica dir. priv., 1991, par. 4.

285
Nonostante l’interpretazione in funzione normativa non si
esaurisca in una mera ricognizione del significato proprio della
norma nella sua astrattezza e generalità ma, al contrario, dia luogo
ad un’ulteriorità che le permette di integrare lo stesso precetto,
questa operazione, nell’analisi dell’autore camerte,757 non sconfina
mai nella discrezionalità, e tanto meno nell’arbitrio, poiché
l’interpretazione siffattamente intesa è sorretta da una solida
concezione dogmatica - intesa, come si è precisato, quale
rappresentazione della realtà - cosicché l’interpretazione, e con essa
tutte le estensioni analogiche che vi si riconnettono, lungi
dall’essere discrezionale, finisce, in questa impostazione addirittura
per risultare vincolata.758
L’avvicinamento alla categoria della discrezionalità ha, però,
anche un altro effetto: quello di stabilire un punto di contatto tra il
nostro sistema giuridico e quelli di common law, soprattutto laddove
si accentua la capacità ad un tempo evolutiva e vincolante, quindi
certa, dell’interpretazione, in parallelo all’uso - anglosassone - della
tecnica dei precedenti giudiziari.
La capacità osmotica dell’intuizione analogica di stabilire un
costante movimento tra un diritto prevedibile e un diritto
perennemente adeguato fa, dunque, sì che il nostro diritto trovi dei
punti di contatto - pur con la necessità di tenere distinte le due
tradizioni giuridiche e tenendo presente la critica, già citata, di
Betti759 ad un troppo facile avvicinamento - col sistema
anglosassone a partire dall’idea-finzione di un giudice che
“rinviene”, e non crea, il diritto nella realtà e della ratio decidendi
come elemento in grado di dare continuità al diritto senza renderlo

757
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 149 e
ss.
758
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 157 e
ss.
759
Cfr. § 4.2.3.

286
arbitrario, della ragionevolezza come attributo di ogni vincolatività
ermeneutica.760
Questo processo di rinvenimento-adattamento è spesso, per la
verità, sconfinato nella già sottolineata761 enfasi sulla vaghezza e
indeterminatezza del linguaggio normativo, sovente contrapposte
alla ricchezza e creatività della prassi applicativa, processo che ha
spesso riportato ad un problema di linguaggio quello che andava
affrontato anche come problema squisitamente ermeneutico.
Da queste premesse si è così fatta strada l’idea che i concetti -
anche normativi - si presentino come elementi intuitivamente
“visibili” nella loro essenzialità, ma avvolti da una specie di nebbia
semantica che avvolge questa visibilità. È quella che si è definita la
core-penumbra theory762, dove, attorno al nucleo chiaro di ogni
definizione normativa, si è individuata una penombra concettuale
che impedisce di trattare con concetti dai contorni ben determinati.
Mi pare di poter dire, tuttavia, che se il merito di questa
impostazione è di avere messo in luce il dato empirico della
indeterminatezza dei confini tra un concetto e l’altro, tra una
definizione normativa e le sue effettive possibilità di estensione,
non si è, al contrario, sottolineato a sufficienza quello che, invece,
era già stato messo bene in luce dallo stesso Betti,763 e cioè che
molta della penumbra è cagionata non solo da un problema di
necessaria indeterminatezza nel linguaggio, ma proprio dalla
vivente attualità dell’interprete, chiamato, attraverso l’estensione e
l’analogia, a mettere la sua contemporaneità in intima adesione e
armonia con quell’incitamento che gli proviene dalla norma e dal
caso cui applicarla.
Chiarito ciò è possibile, a questo punto, fare accenno ai nuovi
sviluppi che, su quest’ultima linea, si vengono muovendo nel

760
Com’è noto, già Lord Mansfield osservava nel 1762 che “the reason of
cases makes law, not the letter of a particular precedent”. Cfr. G. P. FLETCHER,
Basic concept of legal tought, Oxford, 1996, p. 96.
761
Cfr. § 3.1.1.
762
L. PERFETTI Interpretazione costituzionale e costituzionalità dei valori
nell’interpretazione, cit.
763
E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 24 ss.

287
pensiero contemporaneo e giuridico a partire dalle sollecitazioni
date dalla logica applicata al linguaggio informatico, ossia alle
implicazioni della fuzzy logic e del fuzzy pensiero sulla riflessione e,
in particolare, sull’ermeneutica giuridica.
È possibile sostituire il giudice con un computer?
La domanda, che potrebbe sembrare banale o didascalica,
nasconde, in realtà, il problema, dibattuto in tutti i tempi
dell’evoluzione giuridica, del sempre conteso rapporto tra la regola
e l’interprete, tra la lettera e lo spirito della legge. L’avvento
dell’era informatica non ha fatto altro, in questo campo, che porre
l’accento sulla tesi, già positivista, dell’assoluta fiducia nelle regole
e nella loro precisione.
La logica informatica, come noto, funziona come logica a due
valori - vero o falso - e sulla legge aristotelica del terzo escluso;
così qualunque congegno elettronico “ragiona”, nella sua più povera
essenzialità, come un controllo binario: o bianco o nero, o acceso o
spento. Le proposizioni vaghe o che implichino giudizi di valore
non sono ammesse.
È facile immaginare, perciò, come solo in un’ottica di
formalismo puro si sia ragionevolmente potuto pensare di sostituire
il giudice con il computer, l’interprete con un programma
informatico.
Quale idea di regola giuridica si è applicata?
Partendo da un concetto di norma giuridica come di uno
schema entro cui incasellare la realtà - che può rientrare o non
rientrare nella previsione, tertium non datur - si è, così, cercata una
semplificazione ermeneutica. L’analogia, allora, non si è intesa che
come un passaggio logico da un sistema di riferimento ad un altro,
come una ricerca, nell’universo normativo, di una regola giuridica
avente almeno un elemento - logico - in comune con il caso da
disciplinare e l’interpretazione estensiva, per contro, come la ricerca
di tutte le possibili inferenze implicite nella norma da applicare, e
nulla più.
L’impasse della logica giuridica binaria, tuttavia, è arrivato
ben presto di fronte allo scontro sul tema dei principi e alla
necessità di adattamento e continua riattualizzazione delle regole.

288
Per quanto preciso e dettagliato sia il “programma di
soluzione”, la previsione di tutti i casi e di tutti i modi per deciderli
- tecnicamente, per quanto “esperto” sia il sistema - il tallone
d’Achille di questo fantomatico giudice-informatico si manifesta
non solo nel rischio dell’iniquità, che sempre si può annidare in
ogni automatismo, e quindi nella difficoltà di controllo dei risultati
dell’applicazione, ma anche, nel caso di lacune - che non si
possono, in quest’ottica formalistica, che pensare come esistenti -
nell’impossibilità di risalire a un principio, ad una ratio, ad un
valore capace di muovere una decisione adatta alla contemporaneità
anche al di là delle norme scritte.
Proprio da queste difficoltà ha cercato di muoversi quella
logica nuova, la fuzzy logic, che ha investito, come si diceva, non
solo le applicazioni tecnologiche ma anche il pensiero giuridico.764
È del 1937765 l’articolo di Max Black,766 comparso su
“Philosophy of Science”, che affrontava il tema della logica a più
valori e dei sistemi “vaghi”, ma solo degli anni sessanta l’avvento
degli studi sulla logica “sfumata” (o, appunto, fuzzy logic) ad opera
di Lotfi Zadeh, della Berkeley University, che introdusse sistemi
capaci di interpretare l’insopprimibile indeterminatezza del
linguaggio e dei concetti.
La Fuzzy logic, basata sul buon senso e su giudizi di valore
scaturenti dall’incertezza si è sviluppata ben presto in sistemi
informatici capaci di “ragionare” in maniera non più rigida ma
elastica, sfumata, e anche all’interno di parziali contraddizioni, dove
cioè la realtà da sottoporre a disciplina non sia totalmente vera
ovvero totalmente falsa, ma si possa presentare come parzialmente
vera e, allo stesso tempo, parzialmente falsa.

764
Cfr. P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, p. 588
e ss.
765
Già negli anni Venti, tuttavia, il logico polacco Jan Lukasiewicz
enunciò una logica fatta di valori di verità frazionari, di valenza intermedia tra
l’uno e lo zero, tra il vero e il falso della logica binaria. Cfr. B. KOSKO e S. ISAKA,
Logica “sfumata”, in Le Scienze n. 301, 1993, p. 53.
766
Cfr. B. KOSKO e S. ISAKA, op. loc. ult. cit.

289
Dall’esplosione informatica il passaggio al fuzzy pensiero e al
fuzzy pensiero giuridico non è stato lungo. La necessità di decidere
su una realtà transeunte, all’interno di contraddizioni sempre in
agguato e, soprattutto, di fare appello, il più delle volte, a regole di
ragione (meglio, di non definita “ragionevolezza”), ha fatto sì che il
contatto tra il problema tipico dell’ermeneutica giuridica più pura
trovasse approdo entro questa concezione, nuova nella
formulazione, ma dai contenuti cui la scienza giuridica era da tempo
approdata.
“La parte vitale, durevole della legge”, scriveva Roscoe
Pound,767 “è nei principi - i punti di partenza del ragionamento -
non nelle regole. I principi rimangono relativamente costanti o si
sviluppano lungo linee costanti. Le regole hanno vita relativamente
breve. Non si sviluppano; vengono abrogate e sostituite da altre
regole”.
A partire da quest’idea - complice anche la sottolineatura data
dalle teorie di Dworkin sulla differenziazione tra regole e principi768
- il pensiero giuridico si è spostato sempre più attorno ad un’idea di
giudice alle prese con sistemi fuzzy, a logica sfumata, e di legge
come di quell’insieme delle affermazioni morali fuzzy rese efficaci
dallo Stato.769
Nella vecchia logica binaria il parallelo poteva essere tra una
proposizione informatica del tipo “se x allora y” e una proposizione
giuridica del tipo “se il caso x allora la norma y”; nella logica fuzzy,
invece, la proposizione informatica diventa “se x è a, oppure b, o a e
b, in base all’esperienza di x e al valore di y, allora y”, e quella
giuridica “se il caso x, con le caratteristiche di a, ma inquadrabile
anche in b, secondo la ragionevolezza e sull’esperienza e attualità
della norma y, allora y”.

767
Cfr. R. POUND, Why Law Day, in Harvard Law School Bulletin,1958,
vol X, 3, citato da B. KOSKO, Il fuzzy pensiero. Teoria e applicazioni della logica
fuzzy, Milano, 1995, p. 210.
768
Cfr. A. SCHIAVELLO, Riflessioni sulla distinzione rules/principles
nell’opera di Ronald Dworkin, in Riv. int. fil. dir., p. 159 e ss.
769
B. KOSKO, op. ult. cit., p. 302.

290
Ciò che differenzia questa impostazione da quella suaccennata
della core penumbra theory mi sembra possa essere il fatto che la
logica fuzzy, da mera descrizione del dato empirico della
indeterminatezza dei contorni dei concetti giuridici, si propone
anche come metodo di soluzione, suggerendo, attraverso un
processo chiamato di defuzzification, di uscire dalla sfumatura per
giungere ad una - e solo una - decisione.
Il sistema a logica fuzzy, pertanto, non è altro che la
dichiarazione in termini logici di ciò che, normalmente, un corretto
ermeneuta dichiara di fare; il che non è un complimento per
l’ermeneuta. Così, dato un caso e un sistema di regole, se ne fa un
approccio “aperto” dove il principio di estensione si avvale della
esperienza e della tradizione precedente, ma anche delle esigenze di
vivente attualità, senza timore di far convivere risultati anche
parzialmente contraddittori, ma sempre avendo di mira il modello
sotteso a tutto il funzionamento, quello cioè di una ragionevolezza
animata dalla tensione assiologica, unica in grado di garantire
attualità e, al contempo, certezza.
In quest’ottica l’approccio fuzzy, mettendo in luce gli aspetti
equivoci e contraddittori dei sistemi giuridici e la possibilità di
gestirli, al di fuori di un’ottica binaria, entro un’alternativa
“sfumata”, conferma l’idea di quella intuizione analogica che è
Leitmotiv di ogni ricerca di ermeneutica giuridica, e della possibilità
di tracciare un confine netto tra l’interpretazione estensiva e
l’analogia.
Proprio la “sfumatura” che - lo rivelano le applicazioni fuzzy -
può essere gestita con certezza, fuori da ogni indeterminatezza,
impedisce, perciò, di dare, con l’interpretazione estensiva, un limite
alla forza di espansione logica, teleologica e assiologica delle norme
e fa sì che l’attualità possa penetrare, pur dentro il canone della
totalità e della coerenza ermeneutica,770 mediante la continua,
osmotica, elaborazione dell’interprete.
770
E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 15 ss.
Ma a ben vedere, identico sforzo faceva Ernst Zitelmann ritenendo necessaria,
perchè l’analogia sia ammissibile, una norma generale che l’ammetta, pur
considerando, però, la norma stessa come necessariamente implicita

291
Interprete che diviene un artefice in grado di attuare, grazie al
balzo analogico che lo stacca dalla “datità” testuale, negli spazi
liberi delle “sfumature” normative, quell’intendere ermeneutico che
è sì un contendere, ma a patto che sia, prima di tutto, un
intendersi.771

nell’ordinamento giuridico (E. ZITELMANN, Lücken im Recht, Leipzig, 1903, p.


26), “Potrebbe avvenire che il giudice (nel caso non previsto), invece di applicare
la norma generale negativa, volesse dichiarare l’esistenza dell’obbligazione, in
quanto ciò gli sembrasse giusto (“weil er das für gerecht hält”): ebbene, se egli
lo fa, propriamente non colma una lacuna, ma, per questo caso, muta la norma
generale negativa nel suo contrario, ossia fa ad essa una nuova eccezione (“so
füllt er in Wahrheit nicht eine Lücke aus, sondern er ändert jenen allgemeinen
negativen Satz für diesen Fall in sein Gegenteil um, er macht eine neue
Ausnahme von ihm”). Egli, in molti casi, ha la facoltà di farlo (“darf er das”); e
ciò gli riuscirà più facilmente laddove si trovi già nella legge un disposto per un
caso simile, giacchè egli estenderà per analogia questa disposizione al caso non
previsto. Metaforicamente, dove era già un’isola, cioè terra, si avrà un
accrescimento della terra, a scapito, s’intende, dell’estensione del mare libero.”
Non si colma una lacuna, perchè la soluzione del caso ci sarebbe già nella legge,
tuttavia si deroga alla stessa, nel deviare da essa adottando una soluzione diversa
da quella, che dalla medesima risulterebbe. Mediante l’analogia si attua quindi
una nuova deroga alla norma generale e, in questo, sicuramente, Donati segue
Zitelmann. Per quest’ultimo, con l’analogia, il giudice non può creare il diritto,
ma decide in conformità del diritto esistente(“dem vorhandenen Recht gemäss...
entscheiden”). In conclusione, egli dice che deve ammettersi l’esistenza di una
norma giuridica generale (“es muss einen allgemeinen Rechtssatz geben”), con
questo contenuto: “è diritto ciò che qui nella legge è espresso (“was hier im
Gesetz steht”) con certe mutazioni o modificazioni (“mit gewissen
Aenderungen”), che risultano per via del procedimento analogico o per altra via”.
Una tal norma generale era espressa nel primo Progetto di Codice civile per
l’Impero germanico: fu poi cancellata, ma soltanto, dice Zitelmann, perchè si
ritenne che non ci fosse bisogno di esprimerla (“aber doch nur, weil sie sich von
selbst verstehe”). L’autore allude all’art. 1 del Progetto, il quale, a somiglianza
del nostro art. 3 Prel. (oggi art. 12 disp. prel.), in mancanza di una disposizione di
legge relativa ad un dato caso, stabiliva l’applicabilità delle disposizioni che
regolano casi simili e dei principi generali del diritto. Come si vede, a differenza
di Donati, Zitelmann ritiene che la norma legittimante l’analogia possa ben essere
non espressamente dichiarata.
771
Sul punto, cfr. F. GENTILE, Politicità e positività nell'opera del
legislatore. Relazione al 17. Congresso della Società Italiana di Filosofia
Giuridica e Politica (1989), Catanzaro, 1998.

292
293
7.2. Ipotesi ricostruttive e prospettive operative

7.2.1. Lettura usuale e lettura “capovolta” dell’articolo 12


disp. prel. La norma come risposta ad un problema percepito dal
legislatore. La norma come attuazione di un principio
(costituzionale o non) dell’ordinamento. Tèlos o scopo della
norma; ratio o ragion d’essere della norma. Segue: il problema del
criterio che rende ragione dell’ordine. Problema analogo, scopo
analogo ed interpretazione analogica della norma. La norma
eccezionale come compressione di un principio dell’ordinamento.
Compressione del principio e costituzionalità della norma
eccezionale. L’estensione della norma eccezionale. Il problema del
favor della norma eccezionale. Concorrenza di principi e
concorrenza di norme attuative di principi concorrenti.

Rilevata già all’inizio di questo lavoro l’intrinseca


contraddittorietà dell’equiparazione tra analogia ed interpretazione
estensiva, occorre affrontare il tema più arduo, cioè quello di
individuare un criterio, un metron che consenta di distinguere la
prima dalla seconda. Infatti, quand’anche si sia dimostrata
l’insostenibilità dell’equiparazione, il nostro lavoro non è finito,
dovendosi affiancare alla pars destruens la pars construens; anche
perché occorre parare l’obiezione di chi volesse affermare ancora
una volta l’equiparazione dei due procedimenti ermeneutici che
andiamo distinguendo, sostenendo che l’affaticarsi attorno ai vizi
dell’equiparazione a nulla vale se non si è in grado di fornirne una
distinzione; anzi, che proprio l’incapacità di delineare una
distinzione tra i due termini è prova della loro sostanziale
equiparazione, a dispetto degli enunciati del legislatore e degli
sforzi da noi fin qui condotti.
Non per ossequio al positivismo, ma per pura strategia
retorica, muoviamo l’ipotesi ricostruttiva di una distinzione tra
analogia ed interpretazione estensiva proprio dall’articolo 12 delle
disposizioni sulla legge in generale.

294
Come si è visto sopra al § 4.2, l’articolo in esame, ad una
prima lettura sembra esaurire il tema in tre possibilità, a loro volta
sempre meno articolate: 1) una serie di tre criteri, il successivo
specificazione dell’altro: l’interpretazione giuridica avviene
ricercando 1a) il senso fatto proprio dalle parole, 1b) secondo la
loro connessione, 1c) secondo l’intenzione del legislatore. Solo in
caso di insufficienza di questi a rendere chiarezza, interviene in
subordine il riferimento 2a) ai casi simili o 2b) alle materie
analoghe; ed in ulteriore subordine sussidiariamente si indica di
guardare 3) ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello
Stato.
Già altri hanno messo in evidenza come la lettura “diretta”
dell’articolo 12 produca un aumento esponenziale delle variabili
interpretative mano a mano che si procede: il criterio letterale del
significato proprio dalle parole si somma e si moltiplica in base al
criterio logico sistematico della loro connessione, per assurgere ad
un numero difficilmente dominabile di variabili ove si immetta
anche l’intenzione del legislatore. Criterio letterale, logico,
sistematico, concettuale, evolutivo, interagiscono tra di loro
aumentando i significati scientificamente sostenibili di una
disposizione normativa. Vi è chi calcolato una media di 72
significati accettabili.772
Il senso fatto palese dalla parole è mutevole quanto il contesto
in cui si inserisce: con un esempio molto semplice, la disposizione

772
Cfr. L. LOMBARDI VALLAURI, Corso di filosofia del diritto, Padova,
1981, p. 57, con l’ulteriore provocazione che ogni disposizione così interpretata
può valere di fronte ad un caso nuovo sia per analogia sia argomentando a
contrario, portando quindi a 72 x 2 = 144 i diversi usi possibili delle proposizione
normativa. Sul punto Alexy rileva come sulla quantità dei canoni ermeneutica, sul
loro ordine gerarchico, valore non vi sia accordo alcuno, pur discutendosi fin dai
tempi di Savigny. Cfr. R. ALEXY, Theorie der juristischen Argumentation: die
Theorie des rationalen Diskurses als Theorie der juristischen Begrundung,
Frankfurt (a M.), 1978, di cui segnalo la traduzione italiana a cura di Massimo La
Torre, Milano, 1998; una sintesi del suo pensiero in IDEM, voce Interpretazione
giuridica, in Enciclopedia Treccani delle scienze sociali, Roma, 1996, p. 64-71,
nonché R. ALEXY – A. PECZENIK, The Concept of Coherence and its Significance
for Discursive Rationality, in Ratio juris, 1990, p. 130 – 147.

295
“mi porti una pasta” può voler dire “mi porti una brioche” se siamo
al bar alle nove del mattino; ma può voler dire “mi serva un piatto
di maccheroni” se siamo al ristorante e qualche ora più tardi.
Seguendo questa strada è evidente che spesso una
controversia “non può essere decisa con una precisa disposizione” e
si apre la porta a quello che in cibernetica si chiama default, noto
alla tradizione come criterio subordinato e sussidiario. Entra in
gioco cioè l’analogia; con l’effetto però di portare ulteriore
moltiplicazione. E si deve così ricorrere all’ultima chance dei
principi generali dell’ordinamento giuridico, che sono però così
ampi, proprio per loro natura, da essere concepiti come fonti norme
(e come tali sottratti all’interpretazione), con la conseguenza che per
un principio cui richiamarsi spesso se ne trova uno o più d’uno utili
per sostenere sofisticamente il contrario. In buona sostanza,
l’applicazione paziente e progressiva dell’articolo 12 porterebbe ad
ampliare e generalizzare la portata della norma, anziché
individuarne l’applicabilità al caso concreto che occupa l’interprete
in quel momento.
Da qualche tempo è stata allora proposta la lettura
“rovesciata” dell’articolo 12, cioè quella che consente di dare un
significato proprio alle parole solo partendo dai principi generali,
per guardare ai casi simili, quindi all’intenzione del legislatore, al
contesto delle disposizioni e quindi al senso della singola norma. La
costruzione –a volte consapevolmente, ma spesso, meno- ha trovato
un suo seguito tra i pratici.
Fino a qui, un racconto già noto.
Ma una prima obiezione potrebbe venire proprio da quella
prospettiva positiva da cui abbiamo preso le mosse. Non sarebbe
violazione proprio dell’articolo 12 la sua lettura “rovesciata”? Quale
norma autorizza il capovolgimento di una gerarchia di criteri
chiaramente esposta nell’articolo 12? Com’è possibile fare ricorso
in prima battuta ai principi generali quando questi possono
intervenire solo in terzo luogo ed in accertato difetto di tutte le
precedenti chiavi ermeneutiche? Procedendo in questo modo non si
concreta un error in iudicando per falsa interpretazione della
norma, eventualmente motivo autonomo di ricorso in

296
Cassazione?773 Anche l’articolo 12, in quanto norma di legge segue
i criteri interpretativi previsti dallo stesso articolo 12 ed occorre
allora rendere conto della scelta di muovere dai principi per
giungere al senso fatto proprio dalle parole, anziché partire da
questo in prima battuta, lasciando per ultimo l’eventuale ricorso ai
principi.
Ora a noi sembra che la legittimità costituzionale di una
norma si misuri proprio sulla sua portata nell’attuare (o limitare) un
principio. Anzi che questa sia proprio la ragion d’essere della
norma, tanto che a questo significato vogliamo riservare in
prosieguo il termine ratio, distinguendolo dallo scopo o tèlos, con
l’intento specifico di preservarci dalle ambiguità riscontrate sopra al
§ 4.3.1.
Proprio da quest’osservazione, si dipana una proposta di
distinzione tra interpretazione estensiva ed analogia che renda anche
conto della lettura “capovolta” dell’articolo 12 alla quale riteniamo
di aderire.
Il problema che ci occupa dev’essere affrontato
incamminandoci su di un sentiero già aperto da altri, quello
dell’interpretazione teleologica, che un’esplorazione più coraggiosa
può dimostrare ancora ricco di utili conseguenze.
Riprendendo un atteggiamento proprio della riflessione
classica, occorre pensare alla ragion d’essere della norma da

773
Ricordiamo che il vigente art. 360 del codice di procedura civile, al n. 3
prevede come motivo di ricorso per cassazione la “violazione o falsa applicazione
di norma di diritto”. Grazie a questa disposizione si sostanzia la funzione
nomofilattica della Cassazione che indica la corretta interpretazione delle norme,
tra razionale e ragionevole, su cui cfr. A. AARNIO, The Rational as Reasonable,
Dordrecht, 1987, specialmente p. 54. Sul principio di ragionevolezza come
criterio adeguatore dell’interpretazione ma anche come princpio guida del
legislatore, risulta interessante porre a confronto gli scritti -separati da vent’anni-
di due grandi del diritto pubblico italiano: A.M. SANDULLI, Il principio di
ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in Diritto e società, 1975, p.
561 e ss; e C. ROSSANO, “Ragionevolezza” e fattispecie di eguaglianza, in
AA.VV., Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte
costituzionale. Riferimenti comparatistici, Atti del sminario di studi tenuto a
Palazzo della Consulta il 13 e 14 ottobre 1992, Milano, 1994, p. 169 e ss.

297
interpretarsi. Ora, la norma nasce –o dovrebbe nascere (ma per il
momento non vale distinguere tra is ed ough)- come risposta del
legislatore ad un problema percepito nella società.
In altri termini, secondo l’insegnamento tradizionale, la
comunità a fini generali, o comunità politica, ha come compito il
perseguimento del bene comune, di quel bene che se non è
esclusivo di alcuno è proprio di ciascuno. Chi, per diversi modi, è
chiamato a fissare le regole della comunità è in realtà chiamato ad
individuare il problemi che ostacolano il percorso della comunità.
La norma vuole essere la risposta (più o meno riuscita) ad un
problema percepito. Si può allora dire, riprendendo Platone, che lo
spessore politico del governante si misura nell’attitudine di
individuare i problemi della comunità; e possiamo aggiungere che il
suo spessore giuridico si misura sulla capacità di tradurre in norme
la soluzione di quei problemi.
Affrontare la norma è per prima cosa chiedersi di quale
problema essa vuol essere la risposta. Si tratta cioè di applicare alle
norme il procedimento elentico (èlenkos) consigliato dagli antichi,
alla ricerca di quella che è la ragion d’essere dell’oggetto di
indagine: per quale motivo è stata formulata quella norma? Quali
esigenze hanno indotto la sua adozione? Il solo tentativo di risposta
a queste domande aiuta a cogliere la ratio della norma, intesa
appunto come ragion d’essere della norma, come aristotelica causa
della sua esistenza.
In modo speculare si individua anche il tèlos della norma, il
suo scopo, la risposta che si è voluta dare al problema. Capito cioè
quale problema aveva indotto la nascita della norma, occorre fare il
passo successivo e chiedersi come la norma vuol far fronte a quel
problema, quale è il suo scopo, il suo obbiettivo, il suo fine: il tèlos.
Si è collocata allora la norma in un ordine, tra un prius ed un
posterius, in un embrione di sistema,774 tra quella che è la sua

774
A questo punto il discorso dovrebbe affrontare il problema dell’ordine e
del sistema, per parlare dell’ordinamento giuridico. Sennonché una trattazione
che volesse almeno dar conto delle principali questioni supera l’economia di
questo lavoro, per diventare oggetto di un ponderoso studio a parte. Molti sono i
contributi sul punto della dottrina meno recente, ma tesa alla ricerca del principio:

298
provenienza e quella che è la sua direzione. E proprio tra prius e
posterius, tra problema di cui vuol essere risposta e/o attuazione di
un principio (ratio) e obbiettivo con cui si vuol risolvere quel
problema (tèlos) la norma comincia a svelarsi, cominciando già a
scartare tutti quei significati che pur potendo appartenere
linguisticamente al senso palese della parola, giuridicamente
sarebbero inidonei a risolvere il problema, quando non addirittura
fuorvianti. Si consente così anche di ovviare al lapusus calami del
legislatore, che magari usa come sinonimi i termini “bimensile” e
“bimestrale”.
Procedendo ancora, la norma si pone come perseguimento di
un obbiettivo che serve ad ovviare o risolvere il problema da cui ha
avuto scaturigine l’intervento del legislatore. Parallelamente, nella
risposta ai problemi, l’attività del legislatore non è libera nel senso
moderno del termine775, ma è guidata dall’attuazione dei principi

da quelli di B. BRUGI, L’analogia di diritto e il cosiddetto giudice legislatore, in


Dir. Comm., 1916, I, p. 262-75; G. DEL VECCHIO, Sui principi generali del
diritto, Archivio Giuridico LXXXV, 1921, p. 33-90, ora in Studi sul diritto, vol. I,
Milano 1958, p. 207-270; V. MICELI, I principi generali di diritto, in Riv. dir.
civ., 1923, p. 23-42; V. RAGUSA, L’araba fenice, ovvero dei principi generali del
diritto, Roma, 1924; M. ROTONDI, Equità e principi generali del diritto, in Riv.
dir. civ., 1924, p. 266-275; E. BETTI, Sui principi generali del nuovo ordine
giuridico, in Riv. dir. comm., 1940, I, p. 217-223; G. LAZZARO, L’interpretazione
sistematica della legge, Torino, 1965, M. MAZZIOTTI DI CELSO, Lezioni di diritto
costituzionale, parte I, Milano, 1993, p. 25 - 27, che definisce l’ordinamento quel
complesso coerente di norme che organizzano una determinata società. Critico su
quest’ultima costruzione “weberiana”, D. CASTELLANO, La verità della politica,
Napoli, 2002, p. 26. Da ultimo lo studio di V. VELLUZZI, Interpretazione
sistematica e prassi giurisprudenziale, Torino, 2002, che, riprendendo
quest’ultimo studio, compila e sintetizza con prudenza le diverse posizioni, senza
tuttavia proporre un criterio che elevi l’insieme a sistema. Individua con lucidità
la chiave di volta del problema nella distinzione tra ordinatio ed ordinatum F.
GENTILE, Ordinamento giuridico: tra virtualità e realtà, II ed. ampliata, Padova,
2001.
775
Si tratta della prospettiva malamente definita antropocentrica che
sostituisce all’uomo vocato alla socialità delle tradizione classica, l’individuo che
si pretende l’unico, quindi consumatore di tutti i beni di cui è in grado di
appropriarsi, negatore “dell’altro” e quindi del diritto che sull’alterità si fonda.
L’esaltazione del dogma della libertà, anche sotto le miti spoglie tematizzate da

299
generali, spesso (anche se non sempre) precipitati nella carta
costituzionale. Vi sono cioè eventi della realtà che richiedono il
repentino intervento del legislatore, così come vi è un’attività, che
potremmo dire ordinaria, ove il legislatore è chiamato ad esplicitare
e dare attuazione ai disposti costituzionali, adottando disposizioni
che rimuovano gli ostacoli alla piena esplicazione dei principi o ne
costituiscano strumento attuativo; in tale ipotesi, il problema di cui
la norma ambisce essere soluzione è l’attuazione o la specificazione
di un principio fondamentale, per esempio: come rispondo
all’esigenza di garantire la libertà dell’insegnamento (art. 33 Cost.)?
Tuttavia, in un caso come nell’altro, l’opera del legislatore si
concreta nell’esplicitare principi generali cogliendone aspetti
peculiari. Anche nel primo caso, infatti, la posizione del problema
deve avvenire nel quadro dei principi: è la prima operazione grazie
alla quale ogni problema può essere ricondotto fin da subito in
termini giuridici. Peraltro la seconda eventualità è più frequente
della prima, nel senso che l’attività legislativa è quasi interamente
assorbita dalla necessità di esplicitare principi.
A ben vedere, infatti, il più delle volte, il problema che una
norma è chiamata a risolvere consiste nell’attuazione di un principio
generale dell’ordinamento, magari precipitato anche nella Carta
fondamentale. In altri termini la ragion d’essere e lo scopo del
legislatore consistono proprio nell’esplicitare un principio
costituzionale, disegnandone la disciplina operativa con
disposizioni di immediata e più diretta operatività. La tutela della
salute, la funzione sociale della proprietà, il principio di capacità
contributiva, pur immediatamente efficaci, necessitano di norme
che, in attuazione di quei principi indichino direttamente ai cittadini
o all’amministrazione i comportamenti da tenere in determinate
fattispecie. Per esempio, ambiscono a sviluppare il principio

Kant, sradica il singolo dal ruolo che ha nell’ordine delle cose, por porlo
infelicemente fuori dall’ordine, cone le tristi conseguenze –spesso non percepite
dai giuristi- su cui si rinvia a D. CASTELLANO, La libertà soggettiva, Napoli,
1984, specialmente p. 87 e ss; nonché IDEM, La razionalità della politica, Napoli,
1993, p. 57; IDEM, L’ordine della politica, Napoli, 1997; IDEM, La verità della
politica, Napoli, 2002, specialmente p. 69, 92 e 154.

300
costituzionale della tutela della salute, in ossequio al principio di
eguaglianza sostanziale di cui all’articolo 3, l’istituzione del
servizio sanitario nazionale, introdotto con legge n. 833/78, rivisto
con i D.lgs. n.552/92, 517/93 e 229/99. Quest’operazione di ricerca
del problema e dello scopo, della ratio e del tèlos della norma
assicura fin da subito la conformità dell’interpretazione ai disposti
costituzionali, come raccomanda la Corte,776 oppure ne evidenzia la
contrarietà, avvertendo subito l’interprete che non può assegnare
grande affidamento su quel disposto, verosimilmente destinato a
cadere. Ma è anche il primo passo di un procedimento ermeneutico
che muove dai principi per giungere a definire il significato delle
parole, proprio secondo quella lettura “capovolta” dell’articolo 12
sommariamente illustrata sopra. Lettura “capovolta” che trova
allora la sua legittimazione anche positiva, oltre che logica, nella
necessità di condurre le operazioni ermeneutiche in aderenza ai
principi costituzionali. Se si vuole, la stessa costituzionalità
dell’articolo 12 impone la sua lettura “capovolta”, onde evitare che
l’applicazione diretta del senso linguistico delle parole produca
l’incostituzionalità della norma interpretanda in conseguenza di un
errore grammaticale del legislatore che altera, per esempio, il

776
Com’è noto, in più occasioni, fin dall’inizio del suo magistero, la Corte
costituzionale ha avuto modo di ricordare che fra più interpretazioni possibili, si
deve espungere quella che porterebbe all’incostituzionalità della norma,
favorendo quella che meglio tiene conto dei principi, espressi ed inespressi, della
Costituzione, in modo da risolvere le questioni di nomofilachia in via
interpretativa, riservando al giudice delle leggi quei contrasti che non possono
essere risolti in altro modo se non espungendo in via diretta una norma, ovvero
manipolandone il testo con sentenze additive o interpretative di accoglimento o di
rigetto. Cfr. C. cost. 23.6.1953, n. 3, in Giur. cost., 1956, p. 568; 2.7.1956, n. 8, in
Giur. cost., 1956, p. 602; 26.1.1957, n. 24, in Giur. cost., 1957, p. 373. Sul punto,
fra i molti, B. CARAVITA DI TORITTO, La modifica dell’efficacia temporale delle
sentenze della Corte costituzionale: limiti pratici e teorici, in AA.VV., Effetti
temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con riferimento alle
esperienze straniere, Atti del seminario di studi tenuto al Palazzo della Consulta
il 23 e 24 novembre 1988, Milano, 1989, p. 243; altresì, N. ZANON, La Corte, il
legislatore ordinario e quello di revisione, ovvero del diritto all’”ultima parola”
al cospetto delle decisioni d’incostituzionalità, in Giur. cost., 1998, p. 3169;
altresì, M. BARBERIS, L’evoluzione nel diritto, Torino, 1998.

301
principio di eguaglianza: il “bimensile” – “bimestrale” di cui si è
detto.
Colto il problema rilevato dal legislatore, cui vuol far fronte la
norma, in attuazione di un principio, occorre fare il passo
successivo ed individuare, come la norma intenda rispondere al
problema, quale sia il suo scopo, il suo fine, il suo tèlos: in sostanza
quale è il bene verso cui si dirige, il valore che intende proteggere.
Se ne deduce una sorta di primogenitura del criterio teleologico,
cioè del bene protetto dalla norma, che da tempo ha trovato ampio
credito nella dottrina penalistica. Il riferimento al bene tutelato dalla
norma è infatti ulteriore piano di riscontro della conformità ai
principi (e quindi anche della costituzionalità) della norma, che
potrebbe avvenire nel modo seguente. È da premettere che
specialmente in area germanica si è parlato di interpretazione
teleologica oggettiva e soggettiva,777 laddove quest’ultima si riduce,
a ben vedere, all’intenzione del legislatore, mentre la prima fa
riferimento ad una volontà sganciata dai soggetti che hanno
concorso alla sua produzione. Siffatte concezioni
dell’interpretazione teleologica ci sembrano riduttive e non rendono
ragione delle potenzialità del criterio. Occorre allora collegarlo con
quanto si è venuto sostenendo fin ad ora. Se la norma è la soluzione
voluta dal legislatore per un problema che ha individuato, la norma
di pone in attuazione di un principio e come suo scopo mira a
perseguire o tutelare un certo bene particolare. Questo è cioè che è
stato voluto (in concreto) dal legislatore nel momento genetico delle
norma, ovvero ciò che avrebbe dovuto essere voluto dal legislatore
in attuazione di questo o quel principio costituzionale.778 Sta
777
Cfr. R. ALEXY, Theorie der juristischen Argumentation: die Theorie
des rationalen Diskurses als Theorie der juristischen Begrundung, Frankfurt (a
M.), 1978, p. 190 e ss.; nonché K. LARENZ, Methodenlehre der
Rechtswissenschaft, V ed., Berlin, 1983, della cui I ed. (1960) esiste una
traduzione italiana, non a caso, limitata alla parte storica, Storia del metodo della
scienza giuridica, Milano, 1966. Per un’acurata ricostruzione del pensiero di
Alexy rinvio a G. BONGIOVANNI, Teorie costituzionalistiche del diritto. Morale,
diritto e interpretazione in R. Alexy e R. Dworkin, Bologna 2000.
778
In senso più ampio, si veda la “seria e divertita” monografia di M.
BERTOLISSI, Identità e crisi dello Stato costituzionale in Italia, Padova, 2002,

302
insomma all’interprete individuare quello che era o avrebbe dovuto
essere la risposta a quel problema. Attività politica, si dirà. E sia,
poiché questa è in fondo ciò che ineludibilmente è anche chiamato a
fare l’interprete, studioso, patrono o giudice, nella consapevolezza
che il diritto non è mera tèkne, ma un arte, propria della filosofia
pratica aristotelica. Alla corte costituzionale, infine, valutare se una
certa norma si configura come vera attuazione di un principio,
senza violarne altri, giudicando sulle suggestioni che l’interprete,
con le diverse procedure previste, le sottopone.779
Possiamo allora sintetizzare così: la ratio della norma è un
problema percepito dal legislatore che ostacola il perseguimento del
bene della comunità e/o l’esplicazione di un principio fondamentale
in risposta ad un problema; il suo scopo o tèlos è il perseguimento
di quell’obbiettivo o la tutela di quel bene che consente il
superamento del problema originario. Per fare degli esempi, la
risposta al problema della disoccupazione viene individuato in una
norma che riduca la pressione fiscale delle imprese, che trova la sua
ratio nell’art. 35 Costituzione sul diritto al lavoro e nell’art. 53 sul
principio di capacità contributiva; lo scopo o tèlos è la creazioni di
nuovi posti di lavoro.
Siamo allora venuti ad definire una ratio ed un tèlos che
caratterizzano un disposizione normativa,780 cioè due elementi non

specialmente p. 1 e 311, nonché p. 206, dove, a proposito della Corte dei conti,
parla espressamente di “sindacato sull’eccesso di potere legislativo”. Cfr. altresì
G. ALPA – A. GUARNIERI – P.G. MONATERI – A. PASCUZZI – R. SACCO, Le fonti
non scritte e l’interpretazione, in R. Sacco (a cura di), Trattato di diritto civile,
Torino, 1999.
779
Per il ruolo latu sensu politico della Corte costituzionale, nella
creazione e sviluppo di nuove forme di sentenze (additive, interpretative di rigetto
e di accoglimento, manipolative, fino alle sostitutive), si veda l’analisi lucida ed
elegante di L. A. MAZZAROLLI, Il giudice delle leggi tra predeterminazione
costituzionale e creatività, Padova, 2000, specialmente pag. 55 e ss. Con taglio
diverso, l’interpretazione e declinazione ideologica dei principi costituzionali da
parte della Corte sono annotate negli scritti dell’ultimo ventennio da P.G.
GRASSO, Costituzione e secolarizzazione, Padova, 2002, specialmente p. 255.
780
Pur avendo chiaro l’insegnamento di Benvenuti che, meglio di altri,
distingue proposizione normativa da norma, i termini sono da noi trattati come
sinonimi. Propugnatore della distinzione tra disposizione normativa e norma è

303
volatili -a differenza del significato fatto palese dalle parole usate
dal legislatore- che consentono di porre in relazione una norma con
le altre, confrontandole per ciò che hanno in comune e per ciò che
hanno di diverso, secondo il principio di identità e differenza, non
contraddizione e terzo escluso.781 Cioè quel procedimento
conoscitivo, come detto sopra, che fa dell’analogia, della possibilità
di intessere una relazione tra tue termini, il proprio motore di
ricerca.
Non solo. Viene così a trovare giustificazione la lettura
“rovesciata” dell’articolo 12 della preleggi, dacché la stessa ricerca
del senso proprio delle parole non può che passare attraverso la
comprensione del principio che sta a monte, del problema di cui la
norma ambisce ad essere soluzione. Si tratta di ricostruire quanto
più precisamente quel contesto solo entro il quale il testo ha un
significato fatto palese dalle parole. E solo così si capirà se “una
pasta” significa una brioche o un piatto di maccheroni. In altre
parole, non vi è formalistica violazione dell’articolo 12 della
preleggi, poiché per dare un significato palese alle parole, non si
può che guardare al contesto e questo è dato (anche) tramite un
procedimento elentico, che consenta di capire di quale problema
quella norma vuol essere risposta. Solo per tale scopo si muove dai
principi generali, affinando progressivamente la norma nel cogliere

oggi in Italia Riccardo Guastini, il quale però è stato condotto ad introdurre


indirettamente un terzo elemento tra disposizioni e norme sulla scorta della
distinzione tra proposizioni normative non interpretate e proposizioni frutto di
prima interpretazione. Cfr. da ultimo R. GUASTINI, Realismo ed antirealismo
nella teoria dell’interpretazione, in Ragion pratica, 17, 2001, p. 43-52, che
corregge la formulazione da lui stesso resa in IDEM, Dalle fonti alle norme,
Torino, 1992, accogliendo implicitamente la critica mossagli da P. BECCHI,
Enunciati, significati, norme. Argomenti per una critica dell’ideologia
neoscettica, in P. Comanducci – R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 1999,
Torino, 2000, p. 1 – 17. Per altro verso, cfr. A. PIZZORUSSO, Il controllo sull’uso
della discrezionalità legislativa, in AA.VV., Strumenti e tecniche di giudizio della
Corte costituzionale, Atti del convengo di Trieste, 26-28 maggio 1986, Milano,
1988, p. 71 e ss.
781
Abbiamo già avuto modo di illustrare perché riteniamo preferibile
questa dizione del procedimento conoscitivo enucleato da Platone e sistemato da
Aristotele consegnandolo alla storia del pensiero. Cfr. supra, al § 5.1.1.

304
quale era o avrebbe dovuto essere l’intenzione del legislatore per
risolvere quel determinato problema in attuazione o nel rispetto di
quel determinato principio.
Infine, ci sembra che venga superata la difficoltà della volontà
del legislatore; e possiamo così sciogliere un debito contratto al
principio di questo capitolo. Qual’era o avrebbe dovuto essere la
volontà del legislatore? Spetta all’interprete ricostruirla,782 aprendo
però subito alle difficoltà su volontà storica od effettiva, legislatore
odierno o quello che dei tempi in cui la norma ha preso vita. Noi
crediamo utile parlare di volontà presunta del legislatore,783
superando situazioni, paradossali quanto accadute, sullo stato
mentale del legislatore,784 spesso in tutt’altro affaccendato.785 È
782
Com’è noto, minima rilevanza è tradizionalmente accordata ai lavori
preparatori e comunque a criteri testuali, muovendo dal presupposto logico che la
volontà sia sempre e solo ricavabile dal testo; in questo modo si esclude a priori
la possibilità di una volontà simulata del legislatore, estendendo il criterio
civilistico dell’irrilevanza dei motivi nella formazione della volontà. In realtà,
diciamo nella nota successiva, questi elementi possono e debbono essere
recuperati quali indizi, eventualmente precisi e concordanti, per presupporre la
volontà del legislatore, superando il formalismo positivista, pur rimanendo nel
solco della tradizione giuridica. Già profetico L. PALADIN, Osservazioni sulla
discrezionalità e sull’eccesso di potere del legislatore ordinario, in Riv. trim dir,
pub., 1956, p. 993; in altro senso, V. VILLA, L’intenzione del legislatore nell’art.
12 delle disposizioni preliminari, in F. VIOLA - M. URSO, Interpretazione ed
applicazione del diritto tra scienza e politica, Palermo, 1974, p. 125 – 138.
783
Non presupposta, cioè una volontà ipoteticamente assunta per poter
dedurre “scientificamente” ma in realtà del tutto apoditticamente le conclusioni
interpretative utili nel singolo caso. La volontà di cui parliamo è presunta, nel
senso giuridico del termine, cioè provata per indizi e ritenuta valida fino a prova
contraria. Secondo quanto anticipato alla nota precedente, gli indizi sono allora i
lavori preparatori, la relazione di presentazione, il dibattito parlamentare.
Cfr. sul punto A. PIZZORUSSO, Il controllo sull’uso della discrezionalità
legislativa, in AA.VV., Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale,
Atti del convengo di Trieste, 26-28 maggio 1986, Milano, 1988, p. 71 e ss.; R.
PINARDI, La Corte, i giudici e il legislatore. Il problema degli effetti temporali
delle sentenze d’incostituzionalità, Milano, 1993. Infine, la suggestiva
monografia di R. BIFULCO, La responsabilità dello Stato per atti legislativi,
Padova, 1999, specialmente p. 237 e ss.
784
Si ricorderà il redente fatto che ha colpito la stessa Camera alta a
Westminster, ove un suo giovane componente aveva l’abitudine di fumare

305
dunque più conveniente ricercare quella che è stata o avrebbe
dovuto essere stata la volontà del legislatore di fronte a quel tale
problema ed in attuazione di quel certo principio. Si dirà che in tal
modo si soggettivizza la volontà del legislatore facendola dipendere
dall’interprete. La dipendenza dall’interpretate non sarebbe
comunque una novità, giacché tutti i criteri fin ora enucleati
cripticamente portano in questa direzione. Al contrario con la tesi
qui sostenuta, la volontà si oggettivizza, sottraendola (questo sì) alle
contingenze del legislatore,786 procedendo alla ricostruzione tramite

prodotti non provenienti dai monopoli. Viene però da chiedersi l’effetto di siffatto
fumo passivo in aula, che –ricordiamolo- ha anche funzioni giurisdizionali in
ultima istanza. Sovvengono le dissacranti osservazioni di Bentham (su cui F.
ZANUSO, Utopia e utilità. Saggio sul pensiero filosofico – giuridico di Jeremy
Bentham, Padova, 1989) e del suo allievo J. AUSTIN, Lectures on Jurisprudence
or The Philosophy of Positive Law, London, 1879.
785
Il divieto dell’uso del cellulare in aula è l’ultimo tentativo in ordine di
tempo adottato da Camera e Senato per evitare interferenze nel voto dall’esterno e
mantenere l’attenzione dei parlamentari sui lavori, nel momento in cui esercitano
la funzione di “rappresentanti” della nazione. Per quest’aspetto sia consentito
rinviare a M. M. FRACANZANI, Il problema della rappresentanza nella dottrina
dello Stato, Padova, 2000, p. 434.
786
Per un verso G. ZACCARIA, L’arte dell’interpretazione, Padova, 1990,
p. 47, rileva come anche due prospettive pressoché contrapposte nei metodi, quali
l’Ecole de l’éxegèse e la Begriffenjurisprudenz, concepiscano l’interpretazione
come attività “conoscitiva di un oggetto già determinato”, pur se, aggiungiamo, si
tratti di un ricorrente tentativo di riferire ad altra e sopraordinata entità quello che
è solo il prodotto di una propria attività più o meno scientificamente fondata,
riprendendo una consuetudine inaugurata dagli aruspici e prima ancora. Più
approfonditamente M. A. CATTANEO, Illuminismo e legislazione, Milano, 1966,
p. 158-164, in cui l’autore chiarifica la diversa origine culturale delle due
teoriche, rilevandone nel contempo le affinità soprattutto nel metodo. La
diversità, comunque, delle due scuole rimane del tutto evidente: la
Begriffsjurisprudenz ebbe la sua origine nella Scuola Storica del diritto, corrente
giuridica essenzialmente anti-giusnaturalistica, anti-illuministica, anti-
rivoluzionaria, anti-codicistica. Savigny esalta l’aspetto tecnico del diritto dato
dall’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ricusando il primato della legge,
punto fermo della Scuola dell’Esegesi. È interessante rilevare, anche se
incidentalmente, come la logica di partenza della Scuola Storica fosse il
Volksgeist. E se tale momento politico risulta chiaro negli intenti di Savigny,
quindi esaltando lo spirito sottile dell’empiria rivolta all’interpretazione

306
dell’essere, non si comprende come gli esiti di tale dottrina abbiano svuotato tale
programma. Il voler ricondurre la realtà sull’elemento tecnico del diritto
nell’elevazione del ruolo dello scienziato del diritto, spezza l’assunto di partenza.
Non è logico giustificare il concetto scientifico, il cui fondamento è il giudizio
ipotetico-convenzionale-operativo, in base al Volksgeist che fonda le sue radici su
basi sociali e concretamente naturali. L’ossimoro appare evidente. Non
meraviglia quindi lo stallo che tale movimento ebbe negli anni a venire su questo
punto e il conseguente frequente affiancamento con la Scuola dell’Esegesi con
cui, all’origine, nulla aveva in comune. Per la consueta puntualità, si veda anche
P. BECCHI, La polemica sulla codificazione fra Thibaut e Savigny. Significato e
limiti di una chiave interpretativa, in Materiali per una storia della cultura
giuridica, Milano, 1987, p. 376 ss.
Senza negare l’apporto dell’interprete, pur condotto secondo criteri
otnologicamente fondati, a noi preme mantenere la consapevolezza della
distinzione felicemente espressa da Gény tra donné et construit, con tutte le
relative difficoltà del definire il donné. Nella sua opera, Gény “contrapponeva
alla pedissequa esegesi dei testi legislativi la libre recherche scientifique,
attraverso la quale il giurista avrebbe dovuto ricavare la regola giuridica
direttamente dal diritto vivente nei rapporti sociali. «Il diritto è cosa troppo
complessa e mobile -scriveva Gény- perché un individuo o un’assemblea ,
ancorché investiti di autorità sovrana, possano pretendere di fissarne d’un sol
colpo i precetti in modo da soddisfare a tutte le esigenze della vita giuridica»”.
Cfr. N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino, 1960, p. 140. Per non
cadere in contraddizione bisognerebbe ritenere, come non stentano a fare altri
all’interno della corrente antiformalista, che l’intenzione di chi ha formato la
legge non può essere che un elemento dell’interpretazione di questa, la quale, non
derivando dalla volontà di un individuo o di un gruppo, ma essendo l’espressione
del diritto, che il legislatore riconosce e non crea, si separa dalla volontà di chi
l’ha emanata (il quale non è colui che l’ha creata), per vivere di una vita propria.
E così la sua applicazione, piuttosto che essere dominata in modo inflessibile da
quella volontà, dev’essere sempre corrispondente a tutte le condizioni della vita
sociale che agiscono e reagiscono sulla vita del diritto, non può cristallizzarsi
nelle formule legislative, ma deve elaborarsi nella dinamica del diritto. Questo
principio è così forte che finisce per imporsi allo stesso Gény, il quale non può
non riconoscere che, in qualche caso, l’interpretazione della legge debba variare
col tempo della sua applicazione, quando, cioè: “i rapporti sociali, le circostanze
economiche che hanno determinato la legge, che ne sono state, anzi, le
condizioni, siano venute a mancare o a trasformarsi.... giacché trovandosi la
prescrizione iniziale della legge, condizionata da certi elementi essenziali, si può
dire che questi elementi stessi ne limitano necessariamente l’effetto nel senso che,
la regola, tale, qual è stata voluta e formulata, resti inapplicabile a uno stato di
cose, assolutamente differente da quello che il legislatore aveva in vista.”Cfr. F.

307
GENY, Méthode d’interprétation et sources en droit privé positif, Paris, 1900, p.
230, n. 98 e 238-239, n. 99. Ancora, nella teoria di Gény, si muove, osserva
Degni, dal principio che il diritto debba soddisfare, innanzitutto, alle necessità
della vita sociale. (Ecco la connessione tra diritto e realtà, che abbiamo visto
sostenuta da Tullio Ascarelli, supra §2.1.) Affermato questo principio, se ne
devono ammettere tutte le conseguenze (non come fa invece Gény), e la volontà
del legislatore, per quanto chiara nel regolamento di taluni rapporti ed istituti
giuridici, non può essere mantenuta, quando si rivela inadeguata alle esigenze del
loro ordinamento. Affermare che la legge debba essere interpretata, come ogni
altro atto della volontà umana, sempre nello stesso senso, cioè quello che ad essa
ha attribuito il suo autore, senza tener conto delle circostanze posteriori che ne
hanno potuto modificare la portata e gli scopi, significa disconoscere la fecondità
del principio, che si pone a base del sistema, significa negare l’evoluzione del
diritto nell’ordinamento di quei rapporti su cui si è fermata la volontà del
legislatore. Cfr. F. DEGNI, L’interpretazione della legge, Napoli, 1909, p. 207. Si
tratta, dunque, della critica che il Degni muove a Gény, che, da un lato lascia nel
dominio della legge ciò che deriva da essa, rispettando, perciò, l’intenzione del
legislatore (diritto come volontà), dall’altro, rigettando la finzione che la legge
debba in sè contenere la disciplina di tutti i rapporti, e combattendo l’abuso delle
astrazioni logiche, riconosce, accanto alla legge, altre fonti parallele di diritto che,
nascendo spontaneamente dalla natura delle cose, debbano regolare, per sè stesse,
tutte le nuove manifestazioni della vita sociale. Si è visto, quindi, come Gény
certo consideri la legge atto di volontà del legislatore, per lo meno laddove essa
dispone. Eppure quest’autore accetta anche il principio che il diritto debba
soddisfare alle necessità della vita sociale. Si è posta in luce, quindi, la stridente
contraddizione che deriva nella sua teoria dall’accettazione di quel principio e
contemporaneamente dell’assoluto rispetto, laddove espressa, della volontà del
legislatore. E da osservare comunque che, ove non provveda il legislatore,
sovviene la volontà dell’interprete, ma si tratta di interprete legittimato, il giudice,
e pertanto la sua volontà è legge solo perchè “autorizzata”: non si esce, dunque,
con la critica di Gény al legalismo e formalismo, dalla concezione positivistica.
Per non cadere in contraddizione, nota Degni, bisognerebbe ritenere, come non
stentano a fare altri all’interno della corrente, che l’intenzione di chi ha formato la
legge non può essere che un elemento dell’interpretazione di questa, la quale, non
derivando dalla volontà di un individuo o di un gruppo, ma essendo l’espressione
del diritto, che il legislatore riconosce e non crea, si separa dalla volontà di chi
l’ha emanata (il quale non è colui che l’ha creata), per vivere di una vita propria.
E così la sua applicazione, piuttosto che essere dominata in modo inflessibile da
quella volontà, dev’essere sempre corrispondente a tutte le condizioni della vita
sociale che agiscono e reagiscono sulla vita del diritto, non può cristallizzarsi
nelle formule legislative, ma deve elaborarsi nella dinamica del diritto. Questo
principio è così vero che finisce per imporsi allo stesso Gény, il quale non può

308
il problema (oggettivo) ed il principio generale (oggettivo) per dare
un senso compiuto (e costituzionale) alla norma.
Infine, così inquadrata, mediante tèlos e ratio, la norma trova
un suo posto nell’ordine che proprio tramite tèloi e rationes si viene
edificando: emerge cioè quel sistema ordinato di norme che è
l’ordinamento giuridico.787 Tramite la propria ragion d’essere ed il

non riconoscere che, in qualche caso, l’interpretazione della legge debba variare
col tempo della sua applicazione, quando, cioè: “i rapporti sociali, le circostanze
economiche che hanno determinato la legge, che ne sono state, anzi, le
condizioni, siano venute a mancare o a trasformarsi.... giacchè trovandosi la
prescrizione iniziale della legge, condizionata da certi elementi essenziali, si può
dire che questi elementi stessi ne limitano necessariamente l’effetto nel senso che,
la regola, tale, qual è stata voluta e formulata, resti inapplicabile a uno stato di
cose, assolutamente differente da quello che il legislatore aveva in vista.”, cfr. F.
GÉNY, Méthode d’interprétation et sources en droit privé positif, Paris, 1900, p.
238-239, n. 99. Evidentemente Gény, per rimanere coerente al principio
informatore del suo metodo, è stato condotto a questa affermazione, la quale, in
verità, pare, come giustamente ha osservato il Degni, inconciliabile coll’altro
principio, secondo cui l’intenzione del legislatore dovrebbe sempre essere
rispettata. Per meglio riassumere la posizione di quest’autore, si ricordi che egli si
pone dallo stesso punto di vista del metodo giuridico tradizionale, ma se ne
allontana sostanzialmente in ciò, che, mentre quello, coi mezzi che gli forniscono
la logica interna e gli elementi esteriori, che hanno influito sulla formazione delle
leggi, ed avvalendosi del sistema delle costruzioni giuridiche, mira a ricercare la
volontà del legislatore, anche nell’ordinamento di quei rapporti che, in realtà,
eccedono tale volontà, egli, invece, si ferma alla volontà concreta e reale che la
legge racchiude. L’interprete, insomma, deve inchinarsi ad essa, ma, quando si
tratta di rapporti che effettivamente il legislatore non ha contemplati, s’impone la
necessità di riconoscere nell’interprete un’attività più larga
che,indipendentemente dalla legge, che, a questo riguardo, non esiste, gli
permetta di determinarne l’ordinamento giuridico, di ricercare qual è il nuovo
diritto e dichiararlo. Accanto alla legge scritta, e in sostituzione di essa, perciò,
egli ammette altre fonti di diritto positivo.
Si ricordi la posizione di Gény, che se riconosce la necessità che il diritto
debba soddisfare alle esigenze della vita sociale, d’altro canto vuole il rispetto
assoluto della volontà della legge che definisce una volontà che emana da un
uomo o da un gruppo di uomini condensata in una formula. Cfr. F. GENY,
Méthode d’interprétation en droit privé positif cit., p. 230, n. 98.
787
Interessante confrontare le divere prospettive di N. BOBBIO, Teoria
dell’ordinamento giuridico, Torino., 1960, e di F. GENTILE, Ordinamento
giuridico: tra virtualità e realtà, II ed. ampliata, Padova, 2001.

309
proprio scopo le norme trovano un loro ordine, operando in co-
attività.788 Infatti, il duplice elemento discretivo, del principio
costituzionale (o dei principi costituzionali) di cui ambisce essere
attuazione e del bene che intende tutelare, quale risposta ad un
problema individuato dal legislatore, consentono al giurista di por
mano a quell’operazione di mettere ordine, già felicemente
indicata789 come ordinatio per distinguerla dal suo prodotto,
l’ordinatum. E non si deve mancar di sottolineare come delle due, la
prima costituisca il vero nerbo dell’ordinamento giuridico: non
tanto l’insieme affastellato delle norme, quanto la capacità di
riconoscere ragion d’essere e scopo di ognuna eleva l’ammassato
indistinto a sistema ordinato, fornendo al marinaio-giurista gli
strumenti per navigarvi proficuamente, piuttosto che stordirlo con
nozioni, nel tentativo di fargli vedere tutto il mare.
Abbiamo ripetuto a sazietà come l’analogia costituisca una
manifestazione particolarmente prossima a quello che si ritiene il

788
Mi vedo costretto ad adottare questa versione grafica per sottolineare la
duplice valenza delle norme riunite a sistema, nel senso di norme che agiscono
l’una per mezzo delle altre, sia nel senso che, proprio per questo, sono coattive
nel senso di cogenti. L’assonanza rammenta un tema kelseniano, enunciato più
volte ed in diverse forme dal più famoso neokantiano Marburgo. Tuttavia, l’idea
che il diritto non sia altro che un insieme di imperativi per cui la violazione di uno
si ponga come condizione per l’applicazione di un altro, emerge già chiara
quando ancora la dogmatica tedesca non aveva raggiunto l’organicismo di
Laband e Jellinek. Emblematico come Thon apra la sua opera affermando
perentoriamente “das gesammte Recht einer Gemeinschaft ist nichts als ein
Complex von Imperativen”, “L’intero diritto di una società non è altro che un
complesso di imperativi”, sicché la violazione degli uni sia condizione di
efficacia per l’applicazione degli altri. Così A. THON, Rechtsnorm und subjectives
Recht. Untersuchungen zur allgemeinen Rechtslehre, Weimar, 1878, p. 8, con
grassetto nel testo. Lo speciale sistema di co-attività delineato da Thon trova forse
la sua radice teoretica in K. BINDING, Die Normen, vol I, Leipzig, 1872. Cfr.
altresì A. RAVÀ, Il diritto come norma tecnica, Cagliari, 1911, p.71.
789
Come già ricordato più volte supra, la distinzione si deve a F. GENTILE,
Ordinamento giuridico: tra virtualità e realtà, II ed. ampliata, Padova, 2001.
L’accento sull’operazione del mettere ordine, come riconoscimento dell’esistenza
di un ordine, è posto anche dal poco noto L. VON BERTALANFFY, General system
theory: foundations, development, applications, New York, 1968, di cui segnalo
una traduzione italiana, Milano 1971, rivista nel 1983.

310
procedimento archetipico della nostra mente, dico il movimento
dialettico che procede nella conoscenza operando tra due termini
per identità e differenza, non contraddizione e terzo escluso: è
quello che abbiamo chiamato l’ipoteca analogica. Ora, proprio
questo consente di operare con l’analogia legis, senza cadere nelle
ambiguità che hanno finito per rendere inviso quando non
provocatorio questo strumento, in realtà necessario sia in
prospettiva positivista che antipositivista. Invero, procedere per
analogia senza aver chiaro quale sia il criterio discretivo tra le
norme conduce a ritener applicabili questa o quella in ragione di un
mutevole, inconscio, sguardo a questo o quell’aspetto delle norme.
Al contrario, minor arbitrio sembra assicurare il riferimento a quelli
che abbiamo individuato come gli elementi caratteristici di una
norma: di quella principio vuol essere specificazione e verso quale
bene si dirige in risposta di quale problema.
Si potrebbe allora sintetizzare che “problema analogo, norma
analoga”. Più precisamente la norma “analoga” da applicare si
desume guardando la sua ratio ed il suo tèlos, cioè ricercando quella
norma che –ad un indagine dialettica per identità e differenza, non
contraddizione e terzo escluso- più forti presenti i legami di
principio e di scopo con il caso che si deve risolvere. Solo ove si
individui identico principio da specificare e identità di bene da
proteggere per risolvere il problema che ha originato la fattispecie si
potrà dire di aver elementi tali da poter sostenere con qualche buon
argomento, anche in sede processuale, l’applicabilità della norma
così individuata al caso occorso.
Abbiamo così anche distinto l’analogia legis dalla analogia
juris: nella prima i termini da ricercare sono due ratio et tèlos; nella
seconda, non essendovi un’esplicita norma per casi analoghi, non è
stato percepito il problema o non vi è stato tentativo di darne riposta
con una norma fornita di un suo scopo; e pertanto si deve ricercare
il principio generale di cui la soluzione della fattispecie concreta
sarà attuazione.
Si noti, poi che il procedimento per l’analogia appena
descritto appare uno sviluppo logico e naturale del procedimento di
interpretazione della legge, riassunto all’inizio di questo capitolo.

311
Resta ora la parte più difficile, la distinzione tra la strada
appena tracciata per l’analogia da una strada per l’interpretazione
estensiva. Ed anche in questo caso, vogliamo cercare
dialetticamente la caratteristica della norma eccezionale.
Norme eccezionali, sono evidentemente norme che fanno
eccezione a regola generale, si parte quindi da una definizione in
negativo che presuppone prima l’accertamento della norma
generale. Il criterio non quantitativo, ma qualitativo come
compressione di un principio: a ben guardare le norme eccezionali
sono in numero maggiore delle norme generali, proprio perché
queste ultime -valendo per la maggior parte dei casi- coprono la
maggior parte delle fattispecie possibili. Al contrario, la norma
eccezionale copre casi più ridotti e, quindi, mentre per fissare una
regola occorre una sola norma generale, per porvi dei limiti
necessitano una o più norme eccezionali. Ancora, se il criterio fosse
solamente qualitativo, occorrerebbe tenere la somma algebrica di
tutte le norme che dispongono in un senso e di tutte quelle che
indicano una prescrizione contraria; con la conseguenza che per la
frenetica attività del legislatore una norma potrebbe trovarsi “in
maggioranza” o “in minoranza” e passare così da generale ad
eccezionale e viceversa, mutando il regime di regole
d’interpretazione cui è soggetta.
Come si è anticipato la ragion d’essere della norma
eccezionale riposa sulla necessità di porre un limite ad un principio
esplicato in una o più norme generali, a tutela di un altro principio
per salvaguardare un bene specifico. La norma eccezionale sorge
dalla necessità di contemperare i principi o di porli in gerarchia
ordinata. Il problema si sposta allora all’ordine dei principi, cui non
si applica però l’articolo 12: per quanto controversa sia la loro
natura appare chiaro che non si tratta di norme ma di fonti di
norme.790 In ogni caso, però, anche la mera operazione del porre

790
Si veda A. BELVEDERE, Le clausole generali tra interpretazione e
produzione di norme, in Politica del diritto, 1988, p. 631 – 653. Oltre ai
contributi più risalenti, citati alla nota 774, la difficoltà nel collocare i principi è
testimoniata dagli scritti di S. COTTA, I principi generali del diritto:
considerazioni filosofiche, in Riv. dir. civ., 1991, I, p. 496; N. BOBBIO, voce

312
ordine si presenta più facile, minore essendo il numero delle
variabili; inoltre, sotto il profilo sostanziale, si può contare su un
consenso diffuso nell’ordine generale dei principi: nel dare la
precedenza alla persona sui beni, al lavoro sulla proprietà passiva,
seppure già l’armonia si rompe quando si fanno concorrere per
esempio la libertà personale con l’interesse della comunità. La
provocazione ci aiuta a capire che la scelta è ancora una volta
politica nel senso forte del termine, cioè rappresenta il grado di
consapevolezza di una comunità in un certo momento.791 Alla
sensibilità politica del legislatore ed al controllo della Corte
costituzionale, dunque, l’ordine di attuazione normativa dei
principi, che è ordine nei principi.
Tuttavia, il problema cui una norma è chiamata a rispondere
può essere anche un’altra norma, alla quale appare necessario porre
dei limiti, spesso solo in un secondo momento rispetto alla data di
entrata in vigore; una norma che salvaguardi delle peculiarità
sottraendole alla regola generale: una norma eccezionale. Il prius –
norma generale ed il posterius – scopo della norma eccezionale

Lacune del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, IX, 1963, p. 423; IDEM, voce
Principi generali del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, 1966, XIII; G.R.
CARRIO, Principi di diritto e positivismo giuridico, Bologna 1970, ora in R.
GUASTINI, Problemi di teoria del diritto, Bologna, 1980, pp. 75-94; G. ALPA, I
principi generali, in Trattato di diritto privato, Milano, 1993, p. 33 e ss.; A.
SCHIAVELLO, Riflessioni sulla distinzione rules/principles nell’opera di Ronald
Dworkin, in Riv. int. fil. dir., 1995, p. 162; V. FROSINI, Sull’interpretazione dei
principi generali del diritto, in Riv. internaz. fil. del diritto 1995, p. 853; G. OPPO,
Sui principi generali del diritto privato, in Riv. dir. civ., 1991, I, p. 492. Peraltro,
a noi sembra che si tratti di un falso problema: essendo collocati comunque al
vertice nella gerarchia delle fonti risulta superfluo chiedersi se si tratti delle
norme più generali o di fonti di produzione. Cfr. A. CERRI, Appunti sul concorso
conflittuale di diverse norme della Costituzione, in Giur. cost., 1976, I, p. 272 e
ss.; IDEM, Il “principio” come fattore di orientamento interpretativo e come
valore “privilegiato”: spunti ed ipotesi per una distinzione, in Giur. cost., 1987,
p. 1806. Da ultimo, sembra aderire a questa posizione anche P. BECCHI, Giuristi e
principi, Genova, 2000.
791
Con le parole di apertura – chiusura di U. PAGALLO, Alle fonti del
diritto. Mito, scienza, filosofia, Torino 2002, possiamo dire che veramente “Alle
fonti del diritto ritroviamo il “nodo del riconoscimento che presiede
all’interazione comunicativa degli uomini”.

313
costituiscono già un primo esempio di sistema giuridico, cioè di
insieme co-attivo di norme, nel duplice senso già detto di norme che
operano insieme e che (anche per questo) sono cogenti.
In base all’art. 14 le norme eccezionali si applicano solo ai
casi in esse considerati. È dunque ammessa l’estensione, ma non il
passaggio dal problema di cui sono risposta ad un altro problema.
La vera natura dell’eccezionalità risiede non nel solo tèlos, che può
essere comune ad altre norma, non nella sola ratio, ché la
compressione di quel dato principio può essere comune anche ad
altre norme, ma nella combinazione dell’uno e dell’altra.
Il limite dell’estensione sta nella ragione stessa
dell’eccezionalità: perché si è dovuta introdurre quella determinata
norma? Per limitare la portata di un’altra. La ratio riposa
nell’esigenza di comprimere un determinato principio per far posto
ad un altro. Il tèlos consiste nel proteggere un bene che sarebbe
altrimenti travolto dalla disciplina generale, una peculiarità
meritevole di tutela in base ad un altro principio generale o per
miglior specificazione del medesimo principio di cui vuole essere
attuazione la stessa norma generale derogata dalla norma
eccezionale.
Abbiamo sopra sintetizzato il fondamento dell’analogia
nell’equazione problema analogo = norma analoga, cioè
l’applicabilità di una norma per analogia è ammessa ove il caso da
risolvere sorga dal medesimo problema di cui ha voluto essere
risposta la norma espressa; la fattispecie da regolare abbisogna della
medesima ratio e dello stesso tèlos; ed è per questo, per la
comunanza di questi due elementi, che la norma espressa può essere
analogicamente applicata anche al caso non specificamente
regolato.792

792
Giova ripetere che tèlos e ratio non esauriscono gli aspetti
caratterizzanti la norma: due norme con identico tèlos e ratio non sono la stessa
norma, potendovi essere altri elementi precipui, quali l’applicazione temporale o
spaziale che differenziano l’una dall’altra. Per un diverso tentativo di ricostruire il
carattere eccezionale della norma, cfr. R. PINARDI, “incostituzionalità
sopravvenuta” e natura “eccezionale” della normativa denunciata (a margine di

314
Se questo è il fondamento dell’analogia legis, allora la norma
eccezionale non può essere applicata ad un problema analogo a
quello per la quale è stata prevista. In altri termini, la definizione di
interpretazione estensiva è data a contrariis da quella di analogia.
Ci sembra allora che acquisti un senso nuovo (e il termine va
usato con cautela dopo oltre duecentocinquanta pagine spese sui
problemi dell’interpretazione) l’affermazione tradizionale per cui se
analogia è passaggio da un problema ad un altro (individuandosi
l’uno e l’altro mediante procedimento dialettico di confronto dei
rispettivi ratio e tèlos), l’estensione spinge il momento teleologico
fino alla massima risposta del problema che aveva originato la
norma, ma non va oltre.793

un’altra pronuncia di accoglimento solo parzialmente retroattiva), in Giur. cost.,


1991, p. 1236 e ss.
793
Questa costruzione viene incontro anche alla posizione cara ai penalisti
che ambiscono a dilatare l’eccezione alla norma incriminatrice speciale
(eccezione a norma eccezionale!) avvalendosi del principio del favor rei. Tra i
molti, mi limito a richiamare il valore di G. BELLAVISTA, L’interpretazione della
legge penale, Milano 1936 (rist. 1975); di G. VASSALLI, La legge penale e la sua
interpretazione, il reato e la responsabilità penale, le pene e le misure di
sicurezza, 2 vol, Milano, 1997, nonché in altra prospettiva R. R INALDI,
L’analogia e l’interpretazione estensiva nell’applicazione della legge penale, in
Riv. it. dir. proc. pen. 1994, p. 195.

315
Indice della giurisprudenza citata
(in ordine cronologico)

1. Cassazione civile, sez. I., 18.Tribunale Milano,


10.8.1934 15.5.1978
2. Corte d’Appello Roma, 19.Cons. Stato, sez. IV,
10.1.1939 4.7.1978 n. 701
3. Cassazione penale, sez. un, 20.Tribunale Palermo,
7.2.1948 12.7.1978
4. Cassazione civile, sez. III, 21.Pretura Milano,
22.6.1948 n. 975 31.10.1978
5. Cassazione civile, sez. III, 22.Pretura Ottaviano,
27.7.1948 n. 1255 28.3.1979
6. Cassazione civile, sez. un, 23.Cons. Stato, sez IV,
25.6.1949 n. 1592 27.9.1979 n. 738
7. Cassazione civile, sez. II., 24.Cassazione civile, sez. lav,
14.7.1949 n. 1801 4.12.1979, n. 6307
8. Corte cost., 23.6.1956, n. 3 25.Cassazione penale, sez. V,
9. Corte cost., 2.7.1956, n. 8 sent. 8.1.1980
10.Corte cost. 26.1.1957, n. 26.Cassazione penale, sez. III,
24 11.1.1980
11.Cassazione civile, sez. I., 27.T.A.R. Calabria, sez.
8.8.1959 n. 2500 Catanzaro, 18.1.1980 n. 2
12.Corte cost., 27.5.1961, n. 28.Cassazione penale, sez. I,
27 25.2.1980
13.Cassazione civile, sez. I., 29.Cassazione civile,
3.7.1967 n. 1621 17.3.1980 n. 1772
14.Corte cost., 19.12.1968, n. 30.Corte cost., 22.4.1980, n.
126 62
15.Corte cost., 19.12.1968, n. 31.Corte cost., 5.5.1980 n. 68
127 32.T.A.R Campania,
16.Cassazione penale, sez. I, 11.6.1980, n. 445
7.3.1977 33.Cassazione civile, sez. lav,
17.Cassazione penale, sez. I, 6.11.1980, n. 5968
14.4.1978 34.Corte cost., 10.2.1981 n.22

316
35.Cassazione civile, sez. lav, 53.Cassazione civile, sez. lav,
28.3.1981 n. 1800 19.6.1985, n. 3609
36.Cassazione civile, sez. lav 54.Cassazione civile, sez. I,
9.4.1981, n. 2067 21.10.1985, n. 5171
37.Pretura Milano, 21.9.1981 55.Corte d’Appello Reggio
38.Cassazione civile, sez. III, Calabria, 22.1.1986
9.7.1982, n. 4095 56.Tribunale Roma
39.Tribunale Torino, 3.9.1982 ,18.4.1986
40.Cassazione civile, sez. lav., 57.Cons. G. Amm. Sicilia,
1.10.1982, n. 769 26.7.1986, n. 109
41.Cassazione penale, sez. V, 58.Cons. G. Amm. Sicilia,
12.10.1982 28.8.1986, n. 129
42.T.A.R. Molise 6.12.1982, 59.Cassazione civile, sez. lav,
n. 217 27.10.1986, n. 6294
43.T.A.R. Emilia Romagna, 60.Cassazione civile, sez. II,
sez. Bologna, 18.12.1982 11.11.1986, n. 6584.
n. 643 61.Cassazione penale, sez. I,
44.Cassazione civile, sez. lav., 27.11.1986
9.5.1983 n. 3168 62.Cassazione civile, sez. lav.,
45.Cassazione civile, 17.1.1987, n. 383
13.5.1983 n. 3275 63.Cassazione civile, sez. I,
46.Cassazione penale, sez. IV, 26.5.1987, n. 4710
13.6.1983 64.T.A.R. Lazio, sez.I,
47.Cassazione civile, 16.10.1987, n. 1651
3.12.1983 n. 7248 65.Comm. imposte prov.le,
48.Cons. Stato, a. plen. sez. I, Firenze, 28.10.1987
16.12.1983, n. 27 n. 443
49.T.A.R. Lazio sez. II, sent. 66.Cassazione penale, sez. V,
20.12.1983 n. 1269 24.2.1989
50.Cassazione penale, sez. I, 67.Cassazione civile, sez. lav,
20.10.1984 18.3.1989, n. 1381
51.Cassazione civile, sez. lav, 68.Cons. Stato, sez. VI,
4.2.1985, n. 732 15.4.1989, n. 422
52.Cons. Stato, a. plen., 69.Cassazione civile, sez. lav,
12.2.1985 n. 2 12.5.1989, n. 2178

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70.Cassazione civil,e sez. un, 88.Cassazione civile, sez. lav.,
17.5.1989, n. 2336 30.7.1991, n. 7279
71.Cassazione civile, sez. 89.Cassazione civile, sez. lav.,
unite, 30.5.1989, n. 2631 3.10.1991, n. 10304
72.Corte cost. 25.7.1989 n. 90.T.R.G.A., sez. Trento,
427 2.12.1991 n. 410
73.Cassazione civile, sez. lav, 91.Cassazione civile, sez. II,
25.10.1989, n. 4373 16.12.1991, n. 13519
74.Cassazione civile, sez. lav, 92.Cassazione penal,e sez. I,
2.2.1990, n. 689 11.2.1992
75.Cons. Stato, sez. V, 93.Cassazione penale, sez. I,
27.2.1990, n. 217 6.3.1992
76.Tribunale Catanzaro, 94.Cassazione penale, sez. IV,
24.4.1990 11.3.1992
77.Cassazione penale, sez. I, 95.Consiglio di Stato sez. V,
21.5.1990 14.10.1992, n.987
78.Cassazione civile, sez. un, 96.Pretura Milano,
14.6.1990, n. 5777 10.11.1992
79.Cassazione civile, sez. lav., 97.Cassazione penale, sez. III,
24.7.1990, n. 7494 2.12.1992
80.Cassazione penale, sez. VI, 98.Cassazione penale, sez. I,
15.10.1990 12.1.1993
81.Cons. Stato, sez. V, 99.Cassazione civile, sez. lav,
26.10.1990, n. 731 26.2.1993, n. 2404
82.Cassazione civile, sez. lav, 100.Cassazione penale, sez.
21.11.1990 n. 11210 VI, 2.4.1993
83.Cons. G. Amm. Sicilia, 101.Cassazione penale, sez.
26.3.1991 n. 99 IV, 10.6.1993
84.Cassazione civile, sez. I, 102.Cassazione civile, sez. I,
19.4.1991, n. 4234 8.7.1993, n. 7514
85.Cassazione civile, sez. II, 103.Cassazione penale, sez. I,
16.5.1991, n. 2991 10.11.1993
86.T.A.R. Toscana, sez. I, 104.Cassazione penale, sez.
30.5.1991 n. 314 un, 19.1.1994
87.Cassazione penale, sez. V, 105.Cassazione penale, sez.
3.7.1991 III 23.1.1994

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106.Cassazione penale, sez. I, 124.Cassazione civile, sez.
17.2.1994 lav, 27.10.1995, n. 11154
107.Comm. centr. imposte 125.Cassazione civile, sez.
sez. IX, 16.3.1994, n. 733 lav., 13.4.1996, n. 3495
108.Cassazione civile, sez. I, 126.Corte cost., 23.1.1997, n.
17.3.1994, n. 2574 10
109.Cass. Civ. sez. lav., 127.T.A.R. Liguria, sez. II,
15.4.1994, n. 3556 15.1.-14.2.1997 n. 57
110.Corte d’Appello Brescia, 128.Corte cost., 5.3.1998, n.
4.5.1994 40
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112.Pretura Milano, 130.Corte cost., 2.11.1998, n.
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