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principi Garin - convegno.qxp 19/09/2011 16.

31 Pagina iii

STORIA E LETTERATURA
R A C C O LTA D I S T U D I E T E S T I

269

EUGENIO GARIN
DAL RINASCIMENTO
ALL’ILLUMINISMO

Atti del Convegno


Firenze, 6-8 marzo 2009

a cura di
OLIVIA CATANORCHI e VALENTINA LEPRI

Premessa di
MICHELE CILIBERTO

ROMA 2011
EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA
EUGENIO GARIN E LEON BATTISTA ALBERTI 49

SEBASTIANO GENTILE

EUGENIO GARIN E LEON BATTISTA ALBERTI*

Nei tanti incontri che ho avuto con Eugenio Garin a partire dal 1979,
anno in cui lo conobbi, inevitabilmente, prima o poi, affiorava il nome
dell’Alberti; e talvolta, in quelle occasioni, ho avuto l’impressione di rice-
vere come un amichevole consiglio: molto più che con altri umanisti,
importanti, sì, ma sicuramente meno coinvolgenti e intriganti, era con
l’Alberti che ci si divertiva ed appassionava davvero, era sull’Alberti che
occorreva riflettere, era nell’Alberti che si doveva ricercare la chiave del
nostro Umanesimo, era l’Alberti, infine, l’autore quattrocentesco che più
di ogni altro meritava di essere studiato, ripreso, coltivato assiduamente
negli anni. Ed è quello che ha fatto lo stesso Garin, con risultati che
hanno radicalmente cambiato l’interpretazione tradizionale dell’Alberti
stesso e dell’Umanesimo in generale. Un Garin che nei confronti dell’Al-
berti, come ha sottolineato recentemente Michele Ciliberto, provava
«profonde consonanze, oltre che intellettuali, esistenziali»1.
Mi sentirei inoltre di dire che le ricerche albertiane di Garin hanno
incarnato nella maniera migliore e più evidente il suo metodo di ricerca,
fondato sull’attenta lettura dei testi e su un continuo scavo delle fonti2.

*
Questo testo è già apparso, sia pure in una redazione e con titolo diversi (‘In
memoriam’. Eugenio Garin e Leon Battista Alberti), su «Albertiana», IX (2006), pp. 3-27.
1
M. Ciliberto. Una meditazione sulla condizione umana. Eugenio Garin interprete del
Rinascimento, «Rivista di storia della filosofia», n.s., LXIII (2008), pp. 653-692: 691
(ristampato con alcune varianti e il titolo Una meditazione sulla condizione umana, in E.
Garin, Interpretazioni del Rinascimento, a cura e con un saggio introduttivo di M.
Ciliberto, 2 voll., vol. I, 1938-1947; vol. II, 1950-1990, Roma, Edizioni di Storia e Lette-
ratura, 2009, vol. I, pp. VII-LIII: LI). Abbrevieremo il titolo di questa raccolta come Garin,
Interpretazioni, distinguendola dal saggio omonimo dello stesso Garin, che citeremo più
avanti (vd. infra, nota 20), per il quale utilizzeremo invece il titolo esteso.
2 Cfr. in generale, da un punto di vista del metodo, E. Garin, La filosofia come sapere

storico. Con un saggio autobiografico, Roma-Bari, Laterza, 19902.


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Un metodo che non escludeva, anzi accettava come un progresso e un


guadagno per la ricerca, mutamenti d’opinione e ripensamenti3.
Questa eventualità era del resto ancor più giustificata in un campo di
studi, come quello umanistico, che certo non brillava, all’epoca in cui
Garin iniziò le sue ricerche, per il numero di testi pubblicati, e che ha
visto successivamente un necessario e graduale ampliarsi delle fonti da
leggere, studiare, interpretare. Gli stessi studi umanistici di Garin proce-
dettero sempre di pari passo, per ovviare alla scarsa reperibilità delle fon-
ti, con la pubblicazione, sia in forma integrale che antologica, di quei
testi che egli riteneva fondamentali, ma che erano rimasti manoscritti o
confinati in incunaboli e cinquecentine4.
Nel caso dell’Alberti volgare, con l’eccezione dei Libri della famiglia, per
i quali disponeva dell’edizione di Girolamo Mancini, pubblicata nel 19085,
Garin inizialmente dovette ricorrere ai volumi ottocenteschi curati da Ani-
cio Bonucci6. Sul fronte dell’Alberti latino lo stesso Mancini nel 1890 aveva

3
Cfr., per esempio, quanto si legge nell’Avvertenza in E. Garin, Umanisti artisti scien-
ziati. Studi sul Rinascimento italiano, Roma, Editori Riuniti, 1989, p. 7: «Il volume si col-
loca idealmente accanto ad alcuni altri in cui, dall’inizio degli anni Cinquanta, sono venuto
via via riunendo i resultati di una lunga indagine. Sentivo, forse, di dover riscattare in
qualche modo le colpe di una sintesi iniziale che, se si fondava su quasi due decenni di
intense letture di fonti, aveva tuttavia il torto di presentare con troppa fiducia come con-
clusioni acquisite quelle che spesso erano ancora ipotesi e programmi. D’altra parte senza
idee ricerca storica non si fa, e se di quelle idee alcune si sono venute modificando via via,
o sono cadute, altre si sono invece venute consolidando e articolando. Così l’immagine di
circa tre secoli di cultura, soprattutto italiana, è venuta almeno in parte mutando, e alcune
grandi figure, valga per tutti Leon Battista Alberti, hanno cambiato volto, nonostante ogni
resistenza e l’affezione di taluni dotti alla conservazione dei luoghi comuni». Il carattere
emblematico che la figura dell’Alberti ebbe per Garin è sottolineato da M. Ciliberto, Il
Rinascimento. Storia di un dibattito, Firenze, La Nuova Italia, 19882, pp. 38-42.
4 Su questa attività di editore e traduttore si veda quanto scrive lo stesso E. Garin,

Sessanta anni dopo, in Id., La filosofia come sapere storico, pp. 117-158: 137-138. Il sag-
gio è stato poi ristampato in Id., Sulla dignità dell’uomo, scritti raccolti in occasione del
novantesimo compleanno, Pisa, Edizioni della Normale, 1999, volume di scarsissima
circolazione, che non ho potuto reperire. Cfr. Bibliografia degli scritti di Eugenio Garin.
1929-1999, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 282, n. 1364. Ringrazio Maurizio Torrini per
avermi procurato una copia di questa pubblicazione, rara quasi quanto la precedente,
consultabile tuttavia anche on-line all’indirizzo: http://www.imss.fi.it/biblio/eegar.html.
5
L. B. Alberti, I libri della famiglia, editi da G. Mancini secondo il manoscritto
riveduto dallo scrittore e collazionato con autorevoli codici, Firenze, Carnesecchi, 1908.
6
Opere volgari di Leon Batt. Alberti per la più parte inedite e tratte dagli autografi,
annotate e illustrate dal Dott. Anicio Bonucci, 5 voll., Firenze, Tip. Galileiana, 1843-1849.
EUGENIO GARIN E LEON BATTISTA ALBERTI 51

pubblicato una silloge di scritti, tra cui alcune Intercenali, la Descriptio urbis
Romæ, la Porcaria coniuratio e alcune epistole7. Per il Momus, invece, sino
al 1942, anno dell’edizione curata da Giuseppe Martini8, era giocoforza ri-
correre al volgarizzamento cinquecentesco di Cosimo Bartoli9. Proprio la
lettura del Momus in lingua originale e la scoperta di una silloge più ampia
delle Intercenali segneranno, come avremo modo di vedere, un profondo
mutamento nell’interpretazione dell’Alberti da parte di Garin.
Nel 1941 esce un volume che rappresenta la prima delle grandi anto-
logie di testi che Garin dedicò all’Umanesimo e al Rinascimento, fatico-
samente messo assieme in un periodo irto di difficoltà, scritto per la col-
lana di «Documenti di Storia e di Pensiero politico» diretta da Gioacchi-
no Volpe, che l’aveva pregato di scrivere un libro che facesse capire cosa
fosse quel Rinascimento «di cui tutti parlano»10. In questa ricca raccolta
di scritti latini (con traduzione) e in volgare sono riportati molti passi
albertiani, dai Libri della famiglia, ma anche dal De cifris, dalle intercena-
li Paupertas e Pontifex, dal De pictura, dal De re ædificatoria, dal Momus
e dalla Porcaria coniuratio. Il Momus, letto nel volgarizzamento del Barto-
li, viene definito «lucianesco» e vi si sottolinea – in conformità con quella
che era allora la lettura gariniana dell’Alberti – la presenza dell’«idea
dell’attività, della ‘virtù’, unica fonte della dignità degli uomini»11.
Del 1942 è la seconda grande antologia di testi umanistici, intitolata
Filosofi italiani del Quattrocento. Vi compare anche l’Alberti, il cui ritrat-
to viene efficacemente tratteggiato nell’Introduzione12, alla quale si ac-

7
Cfr. Leonis Baptistæ Alberti Opera inedita et pauca separatim impressa, Hier. Man-
cini curante, Florentiæ, Sansoni, 1890.
8 L. B. Alberti, Momus o del principe, testo critico, traduzione, introduzione e note a

cura di G. Martini, Bologna, Zanichelli, 1942.


9
Opuscoli morali di Leon Batista Alberti gentil’huomo firentino [sic], ne’ quali si
contengono molti ammaestramenti necessari al viver de l’Huomo, così posto in dignità,
come privato, tradotti, et parte corretti da M. Cosimo Bartoli, In Venetia, appresso Fran-
cesco Franceschi Senese, 1568.
10 E. Garin, Il Rinascimento italiano, Milano, Istituto per gli Studi di Politica Inter-

nazionale, 1941. Si cita dall’Avvertenza, in cui Garin ripercorre le vicende legate a que-
sto suo libro, premessa alla prima e unica ristampa: Milano, Cappelli, 1980, pp. 5-10: 5.
11
Garin, Il Rinascimento italiano, p. 219: «Lucianesco, senza dubbio, il Momus o De
Principe, che L. B. Alberti compose dopo il 1443, forse contro papa Eugenio IV e il
cardinale Vitelleschi; ma, attraverso la reminiscenza classica, vive l’idea dell’attività, del-
la ‘virtù’, unica fonte della dignità degli uomini. Seguo il volgarizzamento di C. Bartoli
non avendo potuto avere il rarissimo testo latino».
12
Vd. Filosofi italiani del Quattrocento, pagine scelte, tradotte e illustrate da E.
Garin, Firenze, Le Monnier, 1942, pp. 38-40.
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compagna una scelta di testi pubblicati nella parte antologica13. Garin


trae dal tardo De iciarchia l’ossatura della sua esposizione del pensiero
albertiano: sulla sete del conoscere propria dell’uomo, sulle gioie della
ricerca, sulla possibilità che ha l’uomo di crearsi un suo mondo e di «ri-
conoscere le ragioni e ordine delle cose, e indi venerare e temere Dio»14;
dai Libri della famiglia l’insistenza sulla virtus, grazie alla quale l’uomo
trova la felicità: «Di qui la mirabile esaltazione che l’Alberti fa dell’uomo
come artefice del suo mondo e della sua sorte, come signore della fortu-
na, creato saldo da Dio a opporsi e a vincere ogni impeto di avversità»15.
Questa esposizione del pensiero albertiano venne poi riproposta, con
alcuni ampliamenti, nella storia della filosofia italiana scritta da Garin per
l’editore Vallardi ed uscita nel 194716, poi riedita nel 1966 per i tipi di
Einaudi, con ancora altre modifiche17. Nel volume vallardiano, a proposito
dell’Alberti, troviamo un’affermazione che non figurava nel libro del 1942:
Le sue opere più grandi non sono né il Teogenio (1434), né il dialogo Della
tranquillità dell’anima, ch’è del 42, né il De iciarchia [...], che è del ’70. L’Alberti
più significativo va cercato nel Momus (1443), in talune Intercoenales e, soprat-
tutto, nei libri Della famiglia e nel De re ædificatoria; va cercato nella larghezza
stessa degli interessi, in questo dilatarsi della vita per farsi partecipe di ogni inte-
resse, di ogni ricerca: l’ampiezza umana che si fa metodo di vita18.

Il secondo periodo venne leggermente modificato, ma in maniera si-


gnificativa, in vista dell’edizione del 1966, divenendo: «L’Alberti più pro-
fondo va cercato nel Momus (1443), in talune Intercoenales, nei libri Della
famiglia e nel De re ædificatoria»19. Le opere menzionate vengono qui
messe sullo stesso piano (e l’ordine di successione fa acquistare rilievo alle
prime due), mentre nella versione precedente quell’«e, soprattutto» met-
teva la Famiglia e il De re ædificatoria su un gradino più alto rispetto alle
altre. Sempre nella Storia del 1966 vi è l’aggiunta di un passo in cui, traen-

13
Ibidem, pp. 246-253.
14
Ibidem, p. 38; per il passo citato vd. L. B. Alberti, Opere volgari, a cura di C.
Grayson, vol. II, Rime e trattati morali, Bari, Laterza, 1966, p. 198.
15
Filosofi italiani, pp. 38-39.
16 E. Garin, La filosofia, vol. I, Milano, Vallardi, 1947, pp. 266-268, 273-274 (note).
17
E. Garin, Storia della filosofia italiana, vol. I, Torino, Einaudi, 1966 (19782), pp.
345-348. L’edizione del 1978, da cui si cita, rispetto a quella del 1966 presenta in più
un’Appendice bibliografica nel vol. III, alle pp. 1353-1428: 1379 (per l’Alberti).
18
Garin, La filosofia, vol. I, p. 266.
19
Garin, Storia della filosofia, vol. I, p. 345.
EUGENIO GARIN E LEON BATTISTA ALBERTI 53

do spunto dal Momus, si pone in rilievo la presenza nell’Alberti di motivi


– quali l’atteggiamento di scherno verso gli dèi, accostato da Garin allo
«spaccio bruniano», e la rappresentazione di un mondo retto più dalla
follia che dalla ragione20 – che rivelano una visione della vita, frutto del-
l’esperienza personale, in cui la fortuna domina; di qui «l’antitesi fra la
sua esaltazione della virtù e la sua constatazione della sconfitta della vir-
tù»21. Singolare appare piuttosto il fatto che dopo avere indicato in quali
opere andasse cercato «l’Alberti più profondo»/«significativo», Garin
abbia comunque mantenuto per gran parte inalterata, anche in quest’ulti-
ma versione, la trattazione contenuta nei Filosofi italiani del 1942.
Di fatto Garin utilizza questa antologia in maniera analoga, non sol-
tanto per l’Alberti, ma per tutti i protagonisti del Quattrocento nei volu-
mi del 1947 e del 1966, apportandovi in genere modifiche, anche soltan-
to stilistiche, e aggiornamenti essenziali, ma senza stravolgere il tessuto
del discorso. Una integrazione che andava fatta, agli occhi di Garin, era
evidentemente quella relativa al Momus, che poteva finalmente leggere
nell’originale latino grazie all’edizione Martini uscita nel 1942, lo stesso
anno della pubblicazione dei Filosofi italiani, che erano stati però ultima-
ti, come risulta dalla nota di presentazione, nell’aprile del 194122.
Tuttavia, nella prima grande sintesi d’insieme di Garin sull’Umanesi-
mo, l’interpretazione del pensiero albertiano non si discosta da quella
presentata nel volume sui filosofi del Quattrocento, restandovi centrale il
valore e il potere della virtù umana. Mi riferisco a L’Umanesimo italiano.
Filosofia e vita civile nel Rinascimento, steso nel 1946, pubblicato in tede-
sco a Berna nel 1947 per l’editore Francke, nello stesso anno della Filoso-
fia vallardiana, ed in italiano per l’editore Laterza la prima volta nel
195223. In quest’opera, destinata a «un pubblico in prevalenza non italia-

20
Per l’accostamento col Bruno cfr. anche E. Garin, Interpretazioni del Rinascimen-
to, in Id., Dal Medioevo al Rinascimento. Due saggi, Firenze, Sansoni, 1950, pp. 61-88,
poi in Id., Medioevo e Rinascimento, 19762 (2a ed. nella «Universale Laterza»; già nella
«Biblioteca di Cultura moderna», 1954 [19663]), pp. 85-100: 91 (rist. in Id., Interpreta-
zioni, vol. II, pp. 3-14: 8).
21
Garin, Storia della filosofia, vol. I, pp. 345-348: 347.
22
Cfr. Filosofi italiani, p. VI.
23 E. Garin, L’Umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, Roma-

Bari, Laterza, 19942, con una importante avvertenza, in cui l’autore ripercorre la storia
della sua opera, a quasi cinquant’anni dalla prima pubblicazione in tedesco per la colla-
na «Ueberliefurung und Auftrag», diretta da Ernesto Grassi con la collaborazione di
Wilhelm Szilasi. Sulle circostanze relative alla pubblicazione di quest’opera si sofferma
54 SEBASTIANO GENTILE

no», coll’obiettivo limitato di porre in rilievo alcuni caratteri essenziali


dell’Umanesimo, Garin non andò oltre nell’intepretazione albertiana che
andava maturando, fermandosi, per così dire, a un’interpretazione del-
l’Alberti anteriore alla ‘scoperta’ del Momus, che non vi viene affatto
menzionato. In questa assenza può aver giocato un ruolo decisivo la vo-
lontà di dare spazio allo spirito civile dell’Umanesimo, a quell’Umanesi-
mo civile che in quel momento allo stesso Garin premeva mettere in rilie-
vo, come risulta dall’Avvertenza e dal sottotitolo (Filosofia e vita civile nel
Rinascimento) che vi aggiunse in occasione della prima edizione italiana.
Anche se si è piuttosto portati a pensare che tale assenza potesse nascere
in realtà dal fatto che Garin ancora non aveva letto approfonditamente il
testo latino del Momus24.
Se andiamo a vedere quali testi dell’Alberti vi sono citati, troviamo l’in-
tercenale Fatum et fortuna, il tardo dialogo in volgare De iciarchia e i libri
Della famiglia. Non si può non rilevare come questa stessa intercenale e la
Famiglia fossero state impiegate per connotare il pensiero albertiano in
maniera assai simile da Giovanni Gentile, in un suo celebre saggio – Il
concetto dell’uomo nel Rinascimento – pubblicato per la prima volta nel
191625, e poi inglobato nel XIV volume delle Opere26 e in quella Storia
della filosofia italiana di cui lo stesso Garin sarebbe stato il curatore27. Un
saggio che evidentemente Garin ebbe ben presente, e non poteva essere
altrimenti, in queste sue prime esposizioni del pensiero albertiano.
Gentile, che vide negli scritti dell’Alberti «una rivendicazione della
libertà dell’uomo dalla cieca forza della natura esterna e del caso, e un
continuo incitamento all’uomo perché vegga nella sua vita l’effetto delle
proprie azioni», si soffermava su Fatum et fortuna e sul fiume della vita
che vi viene raffigurato, sottolineando come soltanto coloro che fanno

in Mezzo secolo dopo, «Belfagor», LIII (1998), pp. 151-159, rist. in Garin, Sulla dignità
dell’uomo.
24
Nella storia vallardiana la citazione bibliografica relativamente a quest’opera
dell’Alberti pare in realtà sommaria, anche rispetto alle altre. Cfr. Garin, La filosofia,
vol. I, p. 274 nota 22: «Il Momus è nella trad. del Bartoli; ed. del testo: Roma, 1520 (ms.
Ottob. Lat. 1424), e di recente, Bologna, 1943 [sic]».
25
G. Gentile, Il concetto dell’uomo nel Rinascimento, «Giornale storico della lettera-
tura italiana», LXVII (1916), pp. 17-75.
26
G. Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, Firenze, Sansoni, 19674 (= Id.,
Opere, vol. XIV), pp. 47-113.
27 G. Gentile, Storia della filosofia italiana, a cura di E. Garin, vol. I, Firenze,

Sansoni, 1969, pp. 229-261.


EUGENIO GARIN E LEON BATTISTA ALBERTI 55

affidamento sulle proprie forze riescono a salvarsi dai flutti, mentre colo-
ro che si lasciano trascinare dalla corrente vanno incontro alla morte;
sempre Gentile citava poi da un’altra intercenale, Defunctus, un passo in
cui vengono stigmatizzati coloro che attribuiscono alla fortuna l’ingiusta
distribuzione dei beni in questa vita e che passivamente attendono una
compensazione che dovrà avvenire nell’altra vita: in realtà, come scrive
l’Alberti, coloro «qui vulgo fortunati dicuntur» lo sono solo perché la
loro fortuna è cresciuta «hominum improbitate aut stultitia»28, ma ciò è
dovuto al fatto che gli uomini non sono in grado di utilizzare fino in
fondo la loro ragione, saggezza e virtù. Gentile passava poi ad esaminare
altri passi assai celebri dei Libri della famiglia – presenti anche nelle ope-
re antologiche di Garin che abbiamo prima ricordato – in cui si mostra
come l’uomo con l’ausilio della virtù sia in grado di sottrarsi al dominio
della fortuna, ad iniziare dal celebre passo del prologo – «tiene gioco la
fortuna solo a chi se gli sottomette»29 – fino a sancire l’impotenza della
fortuna di fronte alla virtù, e terminando con un passo dei Profugiorum
ab erumna libri (Della tranquillità dell’animo), in cui si esorta a non con-
fidare tanto nelle preghiere a Dio quanto nella virtù di ciascuno30.
Sono passi in cui si mostra un Alberti sicuro assertore della capacità
dell’uomo, con la sua volontà e la sua virtù, di essere artefice della sua
sorte a dispetto dei tentativi della fortuna di metterlo in crisi. Sono gli
stessi testi, con l’eccezione di quelli tratti dal Defunctus e dai Profugia,
che ritroviamo nell’Umanesimo italiano: di Fatum et fortuna è qui citato
in realtà un passo in cui le anime ammoniscono il filosofo ‘protagonista’
dell’intercenale a riconoscere i limiti delle sue capacità conoscitive di
fronte ai segreti divini. Ma per il resto anche Garin insiste sul motivo
della virtù che vince la fortuna, sottolineando allo stesso tempo come
l’uomo debba per sua natura essere utile agli altri uomini, calandone l’at-
tività nell’ambito della civile convivenza; convivenza e bene comune che
non devono essere abbandonati neppure per desiderio di conoscenza,
come si legge nel De iciarchia: «chi, per cupidità d’imparare quello che

28
Cfr. Alberti Opera inedita, p. 216; ma vd. ora L. B. Alberti, Intercenales, a cura di
F. Bacchelli – L. D’Ascia, premessa di A. Tenenti, Bologna, Pendragon, 2003, p. 246.
29 L. B. Alberti, I libri della famiglia, a cura di R. Romano – A. Tenenti, nuova

edizione a cura di F. Furlan, Torino, Einaudi, 1994, p. 7 (Prol., 131-132).


30
Cfr. Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, pp. 85-88. Per il passo
albertiano vd. ora L. B. Alberti, Profugiorum ab erumna libri, a cura di G. Ponte, Geno-
va, Tilgher, 1988, pp. 100-101.
56 SEBASTIANO GENTILE

non sa, abbandonasse il padre e gli altri suoi impotenti e destituiti, sareb-
be empio, inumano. L’uomo nacque per essere utile all’uomo»31. In ‘senso
civile’ vengono pure reinterpretati i passi dei Libri della famiglia utilizzati
in precedenza da Gentile e dallo stesso Garin, sottolineando però come
nell’Alberti virtù abbia un
ricchissimo significato […] che è l’agire dell’uomo colto in tutta la sua pienezza
di valore etico e politico, laddove fortuna è il limite dell’accadere fisico, impoten-
te, da solo, a vincolare completamente l’azione umana, che quand’è virtuosa, an-
che se sfortunata, vince sempre, riscattandosi nei confini di quella città umana
dove il valore infelice è non solo santificato, ma resta fecondo nella sua funzione
educatrice32.

L’uomo trova la sua dignità operando nella città terrena e per l’uomo
prudente la fortuna potrà costituire sì un limite alla sua azione, ma su di
essa la virtù riuscirà «sempre trionfatrice, per l’assoluto imperio che essa
ha nel mondo spirituale dell’uomo, ove non le potrà mai essere negata,
pur nella sventura, la gloria e la fecondità perenne di un’efficacia educa-
trice»33.
L’interpretazione che Garin dà dell’Alberti muta radicalmente in un
celebre saggio intitolato Interpretazioni del Rinascimento, uscito la prima
volta nel 195034. Sono pagine giustamente famose, in cui Garin si poneva
il problema di quel «momento cruciale nella storia dell’Occidente» in cui
andranno ricercate le «linee orientatrici essenziali della nostra cultura»;
di quel momento che aveva determinato la caduta di «una veneranda
forma del filosofare», il tramonto di «una annosa immagine del mondo»,
«il funerale solenne, ma funerale, di una nobilissima, ma defunta, inter-
pretazione della realtà»35. Un periodo che segnava «la fine di una sicurez-
za, la nascita di una ricerca tormentata, in una direzione ancora non chia-
ra, proprio perché la rivendicata figura dell’uomo ‘libero’ si poneva al

31
Cit. in Garin, L’Umanesimo italiano, p. 75.
32 Ibidem, p. 77.
33
Ibidem, p. 79. In entrambi, Gentile e Garin, si passa poi ad un confronto del
concetto di virtù in Alberti, Machiavelli e Guicciardini.
34 Già citato supra, alla nota 20. Lo stesso Garin (Sessanta anni dopo, p. 155; passo

cit. infra, pp. 57-58) porrà nel 1950 la ‘svolta’ nella sua interpretazione dell’Alberti. Vd.
anche anche Ciliberto, Il Rinascimento, pp. 38-43.
35 Garin, Interpretazioni del Rinascimento, pp. 85-86 (Garin, Interpretazioni, vol. II,

pp. 3-4).
EUGENIO GARIN E LEON BATTISTA ALBERTI 57

limite della distruzione di ogni direzione, di ogni forma predetermina-


ta»36. Una mancanza di sicurezza, originata dalla scomparsa o dalla messa
in discussione dei punti di riferimento su cui prima si fondava ogni cer-
tezza, che colpisce personaggi fino a poco tempo prima ‘insospettabili’,
sotto questo punto di vista, quali Marsilio Ficino e soprattutto l’Alberti.
Proprio la posizione di quest’ultimo viene come rovesciata. L’Alberti
viene presentato adesso come il testimone consapevole di una scena che
sta cambiando, in una condizione di profonda insicurezza. Rispetto a pri-
ma viene fortemente accentuato il potere della fortuna e parallelamente
viene sminuito quello della virtù umana: non il suo valore, ma il suo pote-
re. La stessa intercenale Fatum et fortuna viene vista con occhi diversi –
non si sfugge alla corrente, che tutto travolge, del fiume dell’esistenza – e
adesso vi «suona insistente il richiamo al fondo oscuro, incerto e insidio-
so della vita, ai limiti invalicabili che chiudono la nostra possibilità di
determinare la nostra sorte»37.
A questa diversa interpretazione dell’Alberti contribuì certamente una
lettura finalmente approfondita del Momus: il personaggio di Momo –
questo essere divino che tutto mette in discussione, sovvertendo sia il
mondo degli uomini sia quello degli dèi – balza definitivamente in primo
piano; e del Momus sono messe in rilievo da Garin certe figure non con-
venzionali: dal pittore, che ‘vede’ più di quanto non facciano i filosofi, al
vagabondo, che solo comprende «il non-valore dei valori consacrati e il
valore di quel che pare follia». Un quadro da cui ben si capisce come per
l’Alberti «il consolante e ben sistemato mondo dei metafisici, e quello non
meno tranquillo e rassicurante degli dèi, siano caduti per sempre»38.
Una visione sempre più pessimistica dell’uomo da parte dell’Alberti
ritroviamo poi in altre pagine di Garin, successive alla scoperta, avvenuta
attorno al 1964, di venticinque nuove intercenali. Così egli descrisse, nel
1990, l’Alberti che emergeva dalla lettura di questi testi appena scoperti:
Nelle mie peregrinazioni fra manoscritti e vecchi libri mi sono più volte im-
battuto in testi singolari, ignorati o ritenuti smarriti, talora importanti. Ho tutta-
via avuto la rara fortuna, nel 1964, di imbattermi, riconoscere e rimettere in cir-
colazione quello che per me è uno dei testi più belli e significativi del Quattro-
cento: un folto gruppo di dialoghi latini (Intercenali) di Leon Battista Alberti, che

36
Ibidem, p. 86 (Garin, Interpretazioni, vol. II, p. 4).
37 Ibidem, p. 89 (Garin, Interpretazioni, vol. II, p. 6).
38
Ibidem, p. 91 (Garin, Interpretazioni, vol. II, p. 8).
58 SEBASTIANO GENTILE

si credevano perduti: un ritrovamento che mi ha largamente ricompensato di


molte faticose ricerche e che nella mia memoria resta legato alla scuola, e ad
alcuni dottissimi allievi e amici del Convento dei Domenicani di Pistoia, al P.
Armando Verde, storico impareggiabile dello Studio Fiorentino nel Rinascimen-
to, al P. Salvatore Camporeale, studioso eccellente del Valla, e non solo del Valla.
Furono loro che mi fecero vedere, e mi chiesero di quel manoscritto senza nome
d’autore della biblioteca del loro convento, e in cui riconobbi subito le pagine
albertiane. Era l’Alberti su cui avevo insistito fino dal ’50, del Momus, del Fatum
et fortuna (che avevo riedito e tradotto), del Defunctus, ma anche del Theogenius:
un Alberti segreto, disincantato, di un pessimismo cupo, che la pacatezza delle
opere più note sembra sottolineare, e che svela quanto complessa e profonda e
alta sia l’ispirazione quattrocentesca. Quell’Alberti poi sempre ha accompagnato
gli ultimi vent’anni dei miei studi sull’età dell’Umanesimo, dalla riflessione sulla
trasfigurazione di Luciano agli studi e alle traduzioni di Erasmo, che sono sempre
più convinto conoscesse questo Alberti, non a caso imitato anche da Ariosto39.

La lettura delle ‘nuove intercenali’, di cui Garin stesso preparò


un’edizione dichiaratamente provvisoria40, lo convinse definitivamente
che quell’Alberti cupo e pessimista, che egli aveva già colto nelle interce-
nali edite dal Mancini, nel Momus e nel Theogenius – opera quest’ultima
che diverrà poi centrale nell’interpretazione gariniana di Alberti – non
era qualcosa di episodico, ma rappresentava un lato costante della perso-
nalità dell’umanista di cui non si poteva non tenere conto. Nelle pagine
dedicate all’Alberti nella Storia delle letteratura italiana pubblicata per la
Garzanti nel 1966, a ridosso della scoperta delle intercenali smarrite,
Garin tuttavia ancora non insiste, come farà in seguito, su questo aspetto
della produzione albertiana41. Ma nel 1970, mostrando come tra le fonti
del Machiavelli dovesse esserci anche il Momus, concludeva chiosando
l’affermazione di Momo, che la vita umana non è che uno scherzo della
natura («ludum esse Naturæ hominum vitam»), con queste parole:
Che questa fosse la professione di fede di Alberti, e non di Momo, conferma-
no tutti i dialoghi latini, dove in un orizzonte costantemente cupo uomini e ani-

39
Garin, Sessanta anni dopo, pp. 155-156.
40
L. B. Alberti, Alcune intercenali inedite, a cura di E. Garin, «Rinascimento», s. II,
IV (1964), pp. 125-258, poi ristampato nei «Quaderni di “Rinascimento”»: L. B.
Alberti, Intercenali inedite, a cura di E. Garin, Firenze, Sansoni, 1965.
41
E. Garin, La letteratura degli umanisti, in Storia della letteratura italiana, sotto la
direzione di E. Cecchi – N. Sapegno, vol. III, Il Quattrocento e l’Ariosto, Milano,
Garzanti, 1966, pp. 7-353: 257-279 e 349-350 (bibliografia).
EUGENIO GARIN E LEON BATTISTA ALBERTI 59

mali lottano senza esclusione di colpi, dove i valori tradizionali non sono che
strumenti ipocriti di un gioco crudele, dove regnano sovrane forza e astuzia42.

Nello stesso saggio Garin lamentava anche il fatto che i più recenti
editori dei Libri della famiglia avessero trascurato l’Alberti latino, senza
preoccuparsi di indagare quale relazione vi fosse tra questo Alberti e l’Al-
berti volgare. Manifestava inoltre la necessità di una nuova interpretazio-
ne dell’Alberti, in cui i diversi aspetti della sua personalità venissero presi
in considerazione superando una frattura che li aveva separati come ap-
partenenti a più persone vissute in ‘mondi’ diversi.
L’occasione per presentare una nuova lettura dell’Alberti venne con il
cinquecentenario della sua morte, una celebrazione a cui Garin partecipò
con contributi fondamentali che poi rifuse nei saggi dedicati all’Alberti
di un suo libro del 1975, Rinascite e rivoluzioni, in cui tentò, direi riu-
scendovi appieno, di tratteggiare la figura dell’Alberti in tutte le sue sfac-
cettature43.
Per Garin una lettura complessiva dell’opera albertiana, latina e vol-
gare, non poteva che mettere in crisi le tante interpretazioni parziali che
fino ad allora ne erano state date44. Risultava difficile accettare ancora
l’idea di un Alberti promotore convinto della superiorità della virtù sulla

42 E. Garin, Aspetti del pensiero di Machiavelli, in Id., Dal Rinascimento all’Illu-

minismo: Studi e ricerche, Pisa, Nistri-Lischi, 1970, e Firenze, Le Lettere, 19932, pp. 43-
72: 65. La citazione dal Momus si può leggere oggi in L. B. Alberti, Momus, English
translation by S. Knight, Latin text edited by V. Brown – S. Knight, Cambridge (MA)-
London, The Harvard University Press, 2003, p. 32.
43
E. Garin, Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo,
Roma-Bari, Laterza, 1975, pp. 131-196 (cap. IV, Studi su Leon Battista Alberti). Vi ven-
gono rifusi i seguenti contributi: Il pensiero di Leon Battista Alberti e la cultura del Quat-
trocento, «Belfagor», XXVII (1972), pp. 501-521; Leon Battista Alberti e il mondo dei
morti, «Giornale critico della filosofia italiana», a. LII (LIV), s. IV, IV (1973), pp. 178-
189 (rist. in Garin, Interpretazioni, pp. 251-262); Il pensiero di Leon Battista Alberti nella
cultura del Rinascimento, in Atti del Convegno internazionale nel V centenario di Leon
Battista Alberti. Roma-Mantova-Firenze, 25-29 aprile 1972, Roma, Accademia Nazionale
dei Lincei, 1974, pp. 21-41; Il pensiero di Leon Battista Alberti: caratteri e contrasti,
«Rinascimento», s. II, XII (1972) [ma 1974], pp. 3-20 (rist. in Garin, Interpretazioni, pp.
233-249). A questi saggi di più ampio respiro s’aggiungono anche due brevi schede
albertiane: Reminiscenze albertiane, «Rivista critica di storia della filosofia», XXVII
(1972), pp. 222-223, e Fonti albertiane, ibidem, XXIX (1974), pp. 90-91.
44 Sui molti volti dell’Alberti si veda anche E. Garin, Presentazione, in Il San

Sebastiano di Leon Battista Alberti, studi di A. Calzona e L. Volpi Gherardini, Firenze,


Olschki, 1994, pp. XI-XIII: XI.
60 SEBASTIANO GENTILE

fortuna, di un Alberti – e Garin cita Carlo Dionisotti – caratterizzato da


«una monumentalità artificiosa, esatta e compatta, senza alcun margine
di dubbio, di ansia speculativa, di slancio o abbandono, con una fiducia
in sé assoluta»45. Un’immagine che poteva forse essere sottoscritta per
certe parti dei Libri della famiglia o del De re ædificatoria; ma lasciava
inspiegata la figura tormentata e angosciata che veniva fuori dalla lettura
della maggior parte delle altre opere latine. E neppure soddisfacevano le
interpretazioni proposte dall’editore principe dell’Alberti volgare, Cecil
Grayson. Questi, nel tentativo di uscire dalla difficoltà, aveva visto nel
pensiero dell’Alberti uno sviluppo graduale, sia pure costellato di crisi,
che, muovendo dagli interessi letterari del De commodis litterarum atque
incommodis, avrebbe via via mitigato l’inquietudine e l’ansia manifesta di
parte delle Intercenali, attraverso una fase intermedia di maturazione rap-
presentata dalla Famiglia, per giungere alla compostezza e alla monu-
mentalità del De re ædificatoria e alla serena pacatezza del De iciarchia;
interpretazione che andava di pari passo con quella di un Alberti che
avrebbe mutato volto, con la sua partenza per Roma, nel 1443, passando,
da preoccupazioni preminentemente morali, all’architettura, pratica e te-
orica, e più in generale a interessi scientifici46.
Se la lettura di Grayson così riassunta appare in qualche modo sem-
plificata, resta la necessità, ribadita con forza da Garin, di evitare inter-
pretazioni che risolvessero nella diacronia le contraddizioni del pensiero
albertiano, oppure che attribuissero alle peculiarità proprie dei diversi
generi letterari, e in particolare del dialogo, la responsabilità di atteggia-
menti che si discostano da un’immagine precostituita e consolidata del-
l’Alberti47; tenendo allo stesso tempo presente come l’umanista fosse an-
che l’autore dei Trivia, in cui teorizzò la possibilità di disputare di uno
stesso argomento in modi diversi e di arrivare a conclusioni anche fra
loro opposte48. Immagine che è poi quella dell’uomo, sereno e fiducioso

45
Garin, Rinascite e rivoluzioni, p. 138. Il passo, tratto da C. Dionisotti, Geografia e
storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, pp. 54-55 (ed. 19803, p. 65), è cit.
anche in E. Garin, Leon Battista Alberti e l’autobiografia, in Concordia discors. Studi su
Niccolò Cusano e l’umanesimo europeo offerti a Giovanni Santinello, a cura di G. Piaia,
Padova, Antenore, 1993, pp. 361-376: 365.
46
Cfr. Garin, Rinascite e rivoluzioni, pp. 134 nota 2, 151 e nota 31, 152-153.
47
Ibidem, p. 163. Garin insiste sul «gusto dell’autore a incarnarsi via via nei vari
personaggi». Perciò «sarebbe un errore identificare Battista in modo esclusivo con que-
sto o con quello degli interlocutori. Egli è sempre l’uno e l’altro».
48
Cfr. ibidem, pp. 138, 163 e 175.
EUGENIO GARIN E LEON BATTISTA ALBERTI 61

nelle sue forze, che con la virtù vince e sottomette la fortuna; immagine
che pone in secondo piano due elementi sempre presenti nell’Alberti:
il ricordo, ossessivo come un incubo, di una amara esperienza giovanile; la consa-
pevolezza dell’assurdità di un mondo in cui, al posto della saggia provvidenza,
imperversa una fortuna cieca, e unica sicurezza è la morte49.

Una soluzione ‘diacronica’ è del resto resa impossibile, per Garin,


dalla cronologia stessa delle opere albertiane, in quanto opere almeno
apparentemente in contrasto, quali le Intercenali e i Libri della famiglia,
oppure il Momus e il De re ædificatoria, risultano composte negli stessi
anni. Ma soprattutto Garin insiste sul Theogenius, la cui datazione, attor-
no al 1440, a ridosso del completamento della Famiglia, era stata motivo
d’imbarazzo per i critici, per il suo «tono particolarmente cupo», che si
contrappone alle pagine più note del II libro del dialogo maggiore, in cui
viene esaltato, citando Aristotele, l’uomo «quasi come un mortale Iddio
felice»50; in particolare su quelle pagine del Theogenius che stigmatizzano
l’uomo profanatore e violatore dei misteri della natura, l’uomo che, unico
tra i mortali, è nemico acerrimo dei suoi simili51.
Sono passi per i quali Garin nel 1974 credette di trovare una fonte nel
frammento di un dialogo ermetico, trasmessoci da Giovanni Stobeo col
titolo di Kóre Kósmou («figlia» o «pupilla del mondo»), in cui Momo e i
quattro elementi si scagliano contro il comportamento degli uomini,
comportamento reputato offensivo e irriguardoso nei confronti degli dèi
stessi e della natura52. Forte è l’analogia tra questo frammento e il Theo-
genius, anche se la difficile reperibilità del testo di Stobeo nel Quattro-
cento rende improbabile una sua effettiva conoscenza da parte dell’Al-
berti. Ma su questo suggestivo argomento, da cui Garin era molto incu-
riosito, vorrei soffermarmi in futuro.
Tornando ora al Ritratto del 1975, Garin batte anche sulle tante pagi-
ne dedicate dall’Alberti alle maschere, alla vita come finzione, a un’esi-
stenza segnata fin dall’inizio dalla condizione di figlio illegittimo e dai
rapporti difficili con la famiglia. Insiste inoltre su una concezione genera-

49
Ibidem, p. 152.
50
Ibidem, pp. 150-151. Per il passo citato vd. Alberti, I libri della famiglia, p. 162 (l.
II, 1784). Il passo aristotelico ci è conservato da Cic., Fin., 3, 40 (= fr. 61 Rose).
51
Garin, Rinascite e rivoluzioni, pp. 147-150.
52
Ibidem, pp. 149-150. L’articolo di Garin a cui si fa riferimento è Fonti albertiane
(vd. supra, nota 43).
62 SEBASTIANO GENTILE

le, d’impronta stoica, filtrata da Cicerone53, che corre attraverso le opere


albertiane: la concezione di una natura razionale, che in un caso almeno
è identificata con Dio54, regolatrice del tutto, che ha sparso ovunque del-
le ragioni seminali, delle scintille, che stanno alla radice della generazione
delle cose e dell’ordine universale. Questa natura è armonia e si esprime
nelle bellezze del creato, ad esempio in quei fiori su cui tante volte ritor-
na l’Alberti55. Una natura che deve essere rispettata e che pone dei limiti
invalicabili alle azioni umane. Limiti e armonia a cui l’uomo si deve atte-
nere (coltivando i semina virtutum infusi in noi dalla natura) e che stanno
alla base sia del comportamento morale, sia della famiglia, sia delle istitu-
zioni, nonché dell’architettura. Un ordine razionale che però si scontra
con una sorta di «hybris, che nessuna dialettica supera, e che si concreta
nella violazione della misura. È il fatale decadere e consumarsi delle cose;
è, prima ancora, lo scatenarsi di forze cieche, di passioni infrenabili: è il
proliferare di una vita che esplode in forme allucinanti»56.
Ma dopo avere tanto insistito sull’Alberti per così dire minore, Garin,
nel saggio successivo, Miseria e grandezza dell’uomo, torna sui Libri della
famiglia, per trovarvi la radice delle contraddizioni che hanno reso l’inter-
pretazione del pensiero dell’umanista così tormentata. Sottolinea ancora
una volta l’importanza di tenere sempre presenti l’esperienza personale
dell’Alberti, il mito di quella famiglia, la «famiglia Alberta», da cui l’uma-
nista si sentiva respinto, ma di cui ricercava in ogni modo l’attenzione e la
stima. Un’opera, la Famiglia, in cui si attenua il pessimismo che pervade
quasi tutti i suoi altri scritti. E ciò si spiega con la finalità stessa del dialo-
go, che si proponeva esplicitamente come «un programma di formazione
umana per i giovani», che diviene «un sogno d’arte impastato di tante
cose reali, ma tutte trasfigurate e connesse, quando pur riesce a connetter-
le, in una sorta di favola morale […] una costruzione fantastica che consa-
pevolmente vuole essere, insieme, un rimprovero e una speranza»57. È una

53
Vd. in particolare Cic., Tusc., III, 1, 2-2, 6. Vd. anche Alberti, Profugiorum ab
erumna libri, p. 24, in cui si rinvia a E. Garin, Educazione umanistica in Italia, Bari,
Laterza, 1949 (19759), pp. 85 e 142.
54
Cfr. Alberti, I libri della famiglia, p. 163 (l. II, 1804-1807): «Fece la natura, cioè
Iddio, l’uomo composto parte celesto e divino, parte sopra ogni mortale cosa
formosissimo e nobilissimo […]».
55
Cfr. Garin, Rinascite e rivoluzioni, pp. 158 e 163.
56 Ibidem, p. 158.
57
Ibidem, p. 166.
EUGENIO GARIN E LEON BATTISTA ALBERTI 63

costruzione, quella della Famiglia, che da un punto di vista ontologico si


fonda sulla natura, identificabile con Dio, e su quegli igniculi che la natu-
ra stessa infonde nell’animo umano, con la funzione di servire da guida
all’uomo nel cammino di una vita virtuosa, che, solo in quanto tale, si
sarebbe posta al riparo dai capricci della fortuna. Allo stesso tempo que-
sti igniculi non hanno solo una funzione morale, ma guidano anche l’uo-
mo di scienza, per esempio l’architetto, che per mezzo di essi conosce
«onde e a che fine siano nate le cose»58.
Questo sostrato razionale rende ancora più stridente il contrasto con
l’irrazionalità, la follia che contraddistingue l’uomo, che rappresenta il
punto di rottura dell’equilibrio razionale, per i suoi comportamenti aber-
ranti nei riguardi della natura. Comportamenti che sembrano in qualche
modo controllabili nella Famiglia grazie alla virtù – la quale, come nota
Garin citando l’Alberti, «altro non è “se none in sé perfetta e ben pro-
dutta natura”»59 – e che invece altrove divengono irrefrenabili, in parti-
colare nel Theogenius, dove l’uomo, nemico a se stesso e ai suoi simili, è
protagonista, nella sua miseria e nella sua irrazionalità, di continui oltrag-
gi nei confronti della natura60. In un mondo retto da regole razionali,
l’uomo, che a queste stesse regole non obbedisce, «esprime l’assurdo e la
follia della vita»61.
Il duplice volto dell’Alberti, nell’interpretazione di Garin, alla fine si
compone, nel riconoscere e nello spiegare le contraddizioni del compor-
tamento umano: all’uomo che segue i precetti della natura divina – e
quindi segue la ragione, e non l’opinione, comportandosi secondo virtù –

58 Ibidem, p. 176. Per il passo citato vd. Alberti, I libri della famiglia, p. 55 (l. I, 1155-
1170): «La natura, ottima constitutrice delle cose, volle nell’uomo non solo che viva palese
e in mezzo degli altri uomini, ma certo ancora pare gli abbia imposto necessità che con
ragionamento e con altri molti modi comunichi e discopra a’ medesimi uomini ogni sua
passione e affezione, e raro patisce in alcuno rimanere o pensiero o fatto ascoso, e non da
qualcuno lato saputo dagli altri. E pare che la natura stessa dal primo dì che qualunque
cosa esce in luce abbia loro iniunte e interserte certe note e segni patentissimi e manifesti,
co’ quali porgano sé tale che gli uomini possano conoscerle quanto bisogna a saperle usare
in quelle utilità sieno state create. E più nell’ingegno e intelletto de’ mortali have ancora
inseminato la natura e inceso una cognizione e lume di infinite e occultissime ragioni di
ferme e propinque cagioni, colle quali conosca onde e a che fine sieno nate le cose».
59
Ibidem, p. 178 (cfr. anche p. 157); per la citazione vd. Alberti, I libri della famiglia,
pp. 55-56 (l. I, 1787-1788).
60
Cfr. ibidem (con rinvii, per il Theogenius, a Alberti, Opere volgari, vol. II, «pp. 92
e sgg.»).
61 Ibidem.
64 SEBASTIANO GENTILE

si confà la lettura consolatoria della Famiglia, che rappresenta appunto


una sorta di utopia del comportamento umano; all’uomo che invece, ab-
bandonata la ragione, partecipa della «follia universale degli uomini»,
mettendosi in contrasto con i precetti della natura, si confà la visione
cupa e pessimistica (e, in quanto fuori dall’utopia, più realistica) della
maggior parte delle altre opere, sia latine che volgari62.
Questa interpretazione torna nell’ultimo articolo che Garin ha dedica-
to interamente all’Alberti, pubblicato nel 1993 in una miscellanea in ono-
re di Giovanni Santinello63. Muovendo dalla ‘riscoperta’ del Momus –
grazie all’edizione Martini del 194264 – Garin accenna ai ‘tanti’ Alberti di
volta in volta individuati dalla critica, dall’Alberti platonico di Cristoforo
Landino in poi, sino a Francesco De Sanctis e a Dionisotti. Viene ribadita
la necessità di una lettura integrale dell’Alberti, in volgare e in latino, che
accosti l’utopia della Famiglia al pessimismo e all’amarezza del Theoge-
nius, su cui ancora una volta Garin insiste65. Tuttavia in questo saggio
l’accento si sposta sull’importanza dell’elemento autobiografico nell’in-
terpretazione dell’Alberti, dalle sue tante osservazioni relative alle ingiu-
rie e alle malvagità ricevute dai suoi nemici, alle difficoltà della sua vita,
alle malattie, all’indifferenza dei congiunti verso la sua opera; e allo stes-
so tempo sui rimedi che l’Alberti stesso proponeva per lenire queste feri-
te che lo avevano così profondamente segnato. E così Garin individua
nell’Autobiografia albertiana lo strumento principale per avvicinarsi alla
comprensione dell’opera dell’umanista, opera che tanto spesso si presen-
ta come «una confessione e una analisi di sé, nello sforzo di delineare una
figura umana in tutti i suoi aspetti, con i momenti di esaltazione e di
sconforto, di orgoglio e di depressione»66. Un Alberti che dialoga e com-
batte con se stesso, in un continuo dibattito interiore mai risolto, dibatti-
to e contrasto che si ritrovano appunto nelle sue opere, che a loro volta
vengono ad assumere un carattere autobiografico. In particolare il con-
trasto tra il Momus e il De re ædificatoria: composti negli stessi anni,

62Cfr. ibidem, pp. 170 e 190. Sulla Famiglia come utopia vd. anche ibidem, p. 166.
63
Garin, Leon Battista Alberti e l’autobiografia (vd. supra, nota 45), dove tra l’altro
riprende la definizione della Famiglia «come una sorta di utopia» (ibidem, p. 365).
64 Cfr. ibidem, p. 361, sulla pubblicazione del Momus nel 1942 come di «un ‘inedito’

di eccezionale valore».
65
Cfr. ibidem, pp. 362-365.
66 Ibidem, p. 373. Per l’autobiografia si veda R. Fubini – A. Menci Gallorini, L’autobio-

grafia di Leon Battista Alberti. Studio e edizione, «Rinascimento», s. II, XII (1972), pp. 21-78.
EUGENIO GARIN E LEON BATTISTA ALBERTI 65

diametralmente opposti nella ispirazione e nei contenuti, follia da un


lato, razionalità dall’altro. Elemento unificatore tra i due scritti, ancora
una volta «una venerazione quasi religiosa della natura»67.
Con questo saggio Garin portava a compimento la sua interpretazione
del pensiero dell’Alberti. Ma non si può non accennare a un aspetto del-
l’Alberti che abbiamo fin qui appena sfiorato, che per Garin rivestiva
un’importanza estrema e che rientra nel problema più generale dei rap-
porti tra Umanesimo e scienza. In numerosi articoli Garin ha infatti so-
stenuto quanto fosse fuorviante nell’interpretazione dell’Umanesimo la
contrapposizione tra umanisti e scienziati; insisteva, al contrario, sull’im-
possibilità di distinguere in certi casi l’umanista e lo scienziato e su come
la ricerca dei testi antichi riguardasse in misura non certo minore i testi
scientifici rispetto a quelli letterari o filosofici68.
La posizione di Garin sui rapporti tra Umanesimo e scienza era già
delineata nel 1952, anno di pubblicazione della versione italiana del suo
Umanesimo italiano, ed esprimeva una concezione in aperto contrasto
con le conclusioni a cui era giunto George Sarton:
Uno storico della scienza, il Sarton, in una postuma polemica contro quei
«presuntuosi dilettanti» che furono gli umanisti, non ha esitato a concludere
per «un indiscutibile regresso così dal punto di vista filosofico che da quello
scientifico. Di fronte allo scolasticismo medievale, ottuso ma onesto, la filosofia
caratteristica di questa età, ossia il neoplatonismo fiorentino, fu un miscuglio
superficiale di idee troppo vaghe per avere un valore reale». Più radicale anco-
ra, uno storico della filosofia come Bruno Nardi ha affermato che, «se vogliamo
risalire davvero alle origini della filosofia moderna, bisogna saltare a pie’ pari il
periodo umanistico»; ed uno storico della letteratura, il Billanovich, ha parlato
di un secolo di «silenzio, solo rotto dalle declinazioni sommesse dei grammati-
ci», mentre «la professione di studi filosofici è […] degradata a prove […] di
acutezza filosofica e retorica», in mezzo a «un disperso disordine intellettuale».
Verrebbe voglia di rispondere che quei grammatici e quei retori si chiamarono
Lorenzo Valla e Leon Battista Alberti; che da quegli ambienti sterili e vuoti
uscirono Niccolò Cusano e Paolo Toscanelli; che la scienza di Leonardo e Ga-
lileo si maturò proprio in quel secolo che converrebbe saltare a pie’ pari; che in

67
Garin, Leon Battista Alberti e l’autobiografia, p. 375.
68
Su Garin storico della scienza non si può che rinviare a M. Torrini, Storia della
filosofia, storia della scienza, in Eugenio Garin. Il percorso storiografico di un maestro del
Novecento. Giornata di studio. Prato, Biblioteca Roncioniana, 4 maggio 2002, a cura di F.
Audisio – A. Savorelli, Firenze, Le Lettere, 2003, pp. 93-113.
66 SEBASTIANO GENTILE

esso è pur venuto su Niccolò Machiavelli, e tutto quel fermento di critiche che
si è espresso, poi, in un Telesio o in un Bacone; che un Erasmo da Rotterdam o
un Montaigne sarebbero difficilmente concepibili senza la cultura quattrocen-
tesca69.

Già si poneva, sia pure in forma appena abbozzata, un nesso innegabi-


le tra cultura quattrocentesca e scienza, evidente soprattutto nei nomi,
per il Quattrocento, dell’Alberti, del Cusano e del Toscanelli, tre perso-
naggi su cui Garin tornerà a insistere in seguito per dimostrare l’inconsi-
stenza della tesi di coloro che consideravano il Quattrocento e l’Umane-
simo come un regresso dal punto di vista scientifico.
Così nel 1961, in una conferenza tenuta a Torino presso la Biblioteca
Filosofica, Garin affrontava nuovamente il tema dei rapporti tra umanisti
e scienza, opponendosi a quanti – in primis Pierre Duhem – sminuivano
o negavano, a favore della scienza medievale, il rilievo avuto dall’Umane-
simo per lo sviluppo scientifico, con i recuperi di Archimede, Platone, la
rilettura di Aristotele, «la ricerca dei geografi antichi, dei medici antichi»;
sottolineando pure come l’accesso alla filosofia, alla matematica, alla
medicina avvenisse attraverso gli studia humanitatis; come nel caso del
medico Antonio Benivieni, il cui studio della letteratura antica si sposava
e coesisteva con la pratica della medicina, «la lezione degli antichi e
l’esperienza diretta»70. Ma accanto alla discussione contro i fautori della
scienza medievale, con la loro visione dell’Umanesimo come di un perio-
do di recessione, che nulla avrebbe portato allo sviluppo scientifico, si
colloca la polemica contro quanti hanno sostenuto (e ancora sostengono)
che gli umanisti, in quanto tali, si dedicassero esclusivamente a studi
grammaticali e retorici; proprio i loro interessi scientifici avrebbero di-
mostrato invece l’insussistenza della «stessa distinzione, fra ‘umanisti’,
‘scienziati’ e ‘filosofi’». Come pure si apriva «la strada a una revisione del

69
Garin, L’Umanesimo italiano, pp. 8-9. Cfr. Torrini, Storia della filosofia, pp. 95-96.
L’Introduzione, da cui è tratto il passo citato, non figura nell’edizione svizzera del 1947;
su quest’ultima vd. supra, pp. 53-54 e nota 23.
70
Cfr. E. Garin, Gli umanisti e la scienza, «Rivista di filosofia», LII (1961), pp. 259-
278, poi in Id., L’età nuova, Napoli, Morano, 1969, pp. 449-475: 462-465. Sul Benivieni
cfr. infra, p. 68, e E. Garin, Gli umanisti e le scienze, «Giornale critico della filosofia
italiana», a. LXX (LXXII), s. VI, XI (1991), pp. 341-356 (già comparso, in una prima
versione, su «La nuova critica», n.s., III-IV [1990], quaderno 15-16, pp. 5-20), poi
riproposto in Id., Il ritorno dei filosofi antichi, ristampa accresciuta del saggio Gli
umanisti e la scienza [sic], Napoli, Bibliopolis, 1994, pp. 105-126: 118.
EUGENIO GARIN E LEON BATTISTA ALBERTI 67

rapporto fra homo faber e homo sapiens. Pippo architetto è ammirato in


tutta la cerchia umanistica, e con lui l’Alberti»71.
Più esplicitamente nel 1964 nello studio d’insieme sul Rinascimento
destinato alla Propyläen-Weltgeschichte, pubblicato nel 1976 da Laterza
col titolo La cultura del Rinascimento, Garin sceglieva proprio l’Alberti
come emblema e caso più significativo di questa convergenza tra artisti,
scienziati e umanisti: amico del Brunelleschi e di Paolo dal Pozzo Tosca-
nelli, l’Alberti era altresì legato a Niccolò Cusano e a Giovanni Regio-
montano, a testimonianza del fatto che «la circolazione di idee fra tecni-
ci, artisti e scienziati è continua»72. E vi ritornava nel 1965, in Scienza e
vita civile nel Rinascimento italiano, sottolineando come proprio «l’attivi-
tà così complessa dell’Alberti» rivelava tutta «l’artificiosità delle troppo
facili contrapposizioni fra letteratura e scienza, fra ‘umanesimo’ e ‘natu-
ralismo’, fra mondo degli artisti e mondo dei dotti»73. E ancora nel 1966
a Pisa, in un discorso tenuto alla Domus Galilæana, ribadiva il significato
di quel gruppo di amici del Toscanelli – il Cusano, l’Alberti, il Brunelle-
schi, il Regiomontano –, mettendo in rilievo proprio l’Alberti quale auto-
re di opere tecnico-scientifiche «all’altezza dello scrittore e del morali-
sta»74. Sull’argomento, e in particolare su questa Firenze umanistica così
aperta e interessata ai testi scientifici, Garin si soffermerà poi nel 1976,
nella prefazione alla edizione italiana del libro di Björnbo sui manoscritti
matematici di San Marco, appartenuti tra l’altro, per una buona parte, a
ser Filippo Pieruzzi, amico fraterno del Toscanelli75. E nella conclusione
– commentando quanto aveva giustamente scritto Paul Rose, a proposito

71
Garin, Gli umanisti e la scienza, pp. 465 sg. Ma cfr. anche Id., Premessa, in Firenze
e la scoperta dell’America. Umanesimo e geografia nel ’400 fiorentino, catalogo a cura di
S. Gentile, Firenze, Olschki, 1992, pp. 11-13.
72
E. Garin, La cultura del Rinascimento. Profilo storico, Bari, Laterza, 1976 (già pub-
blicato in lingua tedesca: Id., Die Kultur der Renaissance, in Propyläen Weltgeschichte, VI,
Berlin-Frankfurt-Wien, Propyläen-Verlag, 1964, pp. 429-534), pp. 146-147.
73
E. Garin, Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, Bari, Laterza, 1965, pp.
XIV-XV.
74
E. Garin, Relazione di sintesi, in Atti del primo convegno internazionale di ricognizio-
ne delle fonti per la storia della scienza italiana: i secoli XIV-XVI, a cura di C. Maccagni,
Firenze, G. Barbèra, 1967, pp. 279-296, poi rist. col titolo Fonti italiane di storia della
scienza (Note per un programma), in Garin, L’età nuova, pp. 477-500: 491-492.
75
E. Garin, Premessa, in A. A. Björnbo, Die mathematischen S. Marcohandschriften
in Florenz, nuova edizione a cura di G. C. Garfagnini, con una premessa di E. Garin,
Pisa, Domus Galilæana, 1976, pp. IX-XIX.
68 SEBASTIANO GENTILE

del fatto che «con tutti i meriti degli umanisti il progresso della matema-
tica si dovette ai matematici, non agli umanisti, e tanto meno ai maghi e
agli astrologi»76 – s’interrogava sulla possibilità di tracciare «la linea di
demarcazione che allora separava i vari campi», su quale fosse «il confine
rigoroso fra il lavoro del filologo e l’approfondimento del matematico»77.
Una linea di demarcazione sempre più difficile da determinare, ma
che era forse superfluo segnare con precisione, tenendo conto che si do-
veva piuttosto spostare l’accento: dalla distinzione fra i vari campi del
sapere al metodo che gli umanisti applicavano ai testi letterari, come a
quelli filosofici o scientifici; bisognava cioè comprendere – come Garin
rilevava già nell’Introduzione all’Umanesimo italiano, del 1952 – che la
soluzione del problema stava nella rinata filologia, divenuta lo strumento
con cui gli umanisti vollero distruggere la filosofia tradizionale, quella
delle grandi sistemazioni scolastiche, sostituendola con «indagini concre-
te, definite, precise, nelle due direzioni delle scienze morali (etica, politi-
ca, economica, estetica, logica, retorica) e delle scienze della natura che,
coltivate iuxta propria principia, al di fuori di ogni vincolo e di ogni aucto-
ritas, hanno in ogni piano quel rigoglio che l’‘onesto’, ma ‘ottuso’ scola-
sticismo ignorò»78. Così in campo scientifico, si vollero
precisare la natura delle malattie o la struttura dei viventi con ‘grammaticale’ pe-
danteria; proprio perché – come insegna il grande Antonio Benivieni – alle scuole
dei ‘grammatici’ avevano imparato un metodo e un modo di affrontare la realtà.
Che è precisamente quell’atteggiamento ‘filologico’ che, come aveva ben visto una
storiografia oggi troppo facilmente disprezzata, costituisce appunto la nuova ‘filo-
sofia’, ossia il nuovo metodo di prospettarsi i problemi, che non va considerato
quindi, come taluno crede, accanto alla filosofia tradizionale, come un aspetto se-
condario della cultura rinascimentale, ma proprio effettivo filosofare79.

In nota Garin rinviava a lavori di Paul Oskar Kristeller, rilevandovi una


prospettiva «classificatoria» dei vari aspetti «della cultura rinascimentale»,
quella prospettiva che non rinvenendo un carattere propriamente speculativo
nel movimento umanistico, lo considerò, quanto agli interessi filosofici, come

76
P. L. Rose, Humanist Culture and Renaissance Mathematics. The Italian Libraries
of the Quattrocento, «Studies in the Renaissance», XX (1973), pp. 46-105: 105.
77 Garin, Premessa, in Björnbo, Die mathematischen S. Marcohandschriften, p. XVIII.
78
Garin, L’Umanesimo italiano, p. 10. Tra virgolette Garin riprende la definizione
riportata supra, p. 65, data da Sarton della Scolastica.
79 Ibidem, p. 11. Sul Benivieni cfr. anche supra, p. 66.
EUGENIO GARIN E LEON BATTISTA ALBERTI 69

un fenomeno di secondo piano rispetto alla cosiddetta filosofia tradizionale80.


Ma non è certo il caso di soffermarsi qui sulla lunga polemica che ha diviso
per tanti anni i due massimi interpreti dell’Umanesimo rinascimentale81.
Pare tuttavia opportuna una breve digressione sull’interpretazione ga-
riniana della filologia come tratto distintivo dell’Umanesimo. Egli vi ri-
torna nella stessa Introduzione all’Umanesimo italiano, sottolineandone la
funzione critica nella lettura e nell’interpretazione del passato:
Ma il punto in cui si concretò quella presa di coscienza fu l’accendersi di una
discussione critica innanzi ai documenti del passato che, indipendentemente da
ogni risultato specifico, permise di stabilire una nostra distanza rispetto a quel
passato: quei settecento anni di tenebre – tanti ne contava Leonardo Bruni – in
cui ottenebrato era lo spirito di critica, in cui sembrava affievolita la consapevo-
lezza della storia come farsi umano. Quel punto di crisi si concretò e prese di-
mensioni precise appunto nella «filologia» umanistica, che è consapevolezza del
passato come tale, e visione mondana della realtà e umana spiegazione della sto-
ria degli uomini82.

Proprio questo passo è stato di recente preso come esempio della con-
cezione dell’Umanesimo di Garin, in un bel volume di Christopher Ce-
lenza83. Per introdurre a un pubblico americano Garin e Kristeller, Ce-
lenza presenta Benedetto Croce e Giovanni Gentile come principali ispi-

80
Cfr. Garin, L’Umanesimo italiano, p. 11 nota 5. Sull’atteggiamento classificatorio
di Kristeller cfr. Ch. S. Celenza, The Lost Italian Renaissance: Humanists, Historians, and
Latin’s Legacy, Baltimore-London, The John Hopkins University Press, 2004, p. 54.
81
Si può rinviare a Garin, Sessanta anni dopo, pp. 146-147, nonché ai testi indicati
alle note 79 e 81. Già nel 1941 comunque Garin (Il Rinascimento italiano, p. 47) scrive-
va: «Il moto umanistico non è stato una parentesi retorica, sterile nelle sue polemiche
filologiche, chiusa in una fallita rinascita di nazionalismo di parole, staccata dalla via
regia del pensiero e della storia moderna. Se così fosse, ben misera cosa sarebbe. Supe-
rata l’antitesi di antichi e moderni, di latini e barbari, trasformati i vecchi materiali in
nuovi edifici, la nuova filologia in nuova filosofia inverante ogni sforzo del pensiero
passato, il Rinascimento rinnovò veramente il miracolo greco conquistando al mondo
una perenne verità di vita».
82
Garin, L’Umanesimo italiano, p. 22.
83
Celenza, The Lost Italian Renaissance, pp. 16-57, in part. le pp. 35-36. Su
Kristeller e Garin, cfr. anche J. Hankins, Two Twentieth-Century Interpreters of Renais-
sance Humanism: Eugenio Garin and Paul Oskar Kristeller, «Comparative Criticism»,
XXIII (2001), pp. 3-19; Id., Renaissance Humanism and Historiography Today, in
Palgrave Advances in Renaissance Historiography, ed. by J. Woolfson, Houndsmills,
Basingstoke-New York, Palgrave Macmillan, 2005, pp. 73-96: 75-80; W. Boutcher, The
Making of the Humane Philosopher: Paul Oskar Kristeller and Twentieth-Century
70 SEBASTIANO GENTILE

ratori dei due più giovani studiosi. In particolare Croce avrebbe privile-
giato una visione storica, diacronica, non metafisica, mentre Gentile una
visione centrata sulla metafisica e sulla sincronia, differenze che si sareb-
bero riflesse rispettivamente in Garin e Kristeller:
Overall, the most important difference between Garin and Kristeller is that
Garin held a predominantly diachronic, historically oriented, immanentist ou-
tlook and Kristeller one of a synchronic, metaphysically oriented, transcendenta-
list idealism84.

Se in linea generale l’interpretazione di Celenza può essere condivisa,


nel caso specifico sopra riportato le ‘filiazioni’ Gentile-Kristeller e Croce-
Garin risultano meno convincenti85. Difatti in quella «storiografia oggi
troppo facilmente disprezzata» – a cui accenna Garin nel primo dei due
passi sopra riportati dell’Introduzione all’Umanesimo italiano – che
avrebbe individuato nella filologia la nuova filosofia dell’Umanesimo,
non va riconosciuto altri che Gentile stesso, il quale tante pagine ha dedi-
cato alla filologia degli umanisti, come del resto Garin aveva scritto più
esplicitamente già nel 1950:
La favola del rinascimento pagano, giustificabile in sede polemica, e spiegabi-
le presso qualche scrittore decadente, ma che solo storici di poco senno potevano
fare propria, cade nell’atto stesso in cui ci facciamo a studiare la profonda serietà
della filologia dell’Umanesimo, che, come già tanto acutamente vide il Gentile, è
il lato essenziale di quella cultura: una filologia, si badi, tanto ricca e complessa
da accogliere in sé ogni posizione critica dell’uomo, e non già pseudo-filosofia di
non filosofi in lotta contro la filosofia, ma l’unica seria, vera, nuova filosofia86.

Centrale sia in Gentile che in Garin l’interpretazione dell’Umanesimo


come filologia; e del resto, più in generale, Gentile stesso non poté non

Intellectual History, in Kristeller Reconsidered: Essays on His Life and Scholarship, ed. by
J. Monfasani, New York, Italica Press, 2006, pp. 39-70.
84
Celenza, The Lost Italian Renaissance, p. 28.
85
Gli stessi accostamenti sono ripresi, richiamandosi al libro di Celenza, anche dal
suo maestro R. G. Witt, L’umanesimo civile di Eugenio Garin da una prospettiva america-
na, «Giornale critico della filosofia italiana», a. LXXXIV (LXXXVI), s. VII, I (2005),
pp. 40-48, in part. p. 46: «Garin appartiene alla tradizione di Croce, Kristeller è più
vicino a Gentile».
86
Garin, Interpretazioni del Rinascimento, p. 99. Su questo passo si sofferma anche
A. Scazzola, Giovanni Gentile interprete del Rinascimento, Napoli, Vivarium, 2002, p.
208 nota 202.
EUGENIO GARIN E LEON BATTISTA ALBERTI 71

vedere nel più giovane studioso un’affinità di vedute e di metodo, se af-


fidò a lui la continuazione della storia della filosofia vallardiana87.
Proprio nella sua Introduzione alla Storia della filosofia italiana di
Gentile è lo stesso Garin a porre in rilievo alcuni aspetti fondamentali
dell’Umanesimo su cui è fondata l’interpretazione gentiliana, aspetti co-
muni, con gli aggiustamenti opportuni, anche alla sua:
Le pagine [di Gentile] battono senza posa su alcuni concetti fondamentali: sul
valore dell’Umanesimo come momento negativo, distruttore della Scolastica
(«l’Umanesimo caccia di nido la Scolastica […]. Restano le scuole dei frati […] ma
è una filosofia morta»); sul significato positivo della «filologia» umanistica; sul nuovo
concetto dell’uomo; sull’immanentismo del nuovo pensiero; sul valore decisivo di
Pomponazzi e Machiavelli, di Telesio, Bruno e Campanella, di Leonardo e di Gali-
leo, nella rivoluzione filosofico-scientifica che trionfa fra il Seicento e il Settecento88.

Al di là delle ascendenze gentiliane, per Garin è dunque la nuova filo-


logia, il nuovo metodo critico che distingue quell’età, l’elemento di coe-
sione tra letteratura, filosofia, arte e scienza; coesione che si attuò in un
dialogo continuo e fecondo tra i vari campi dello scibile, che rappresentò
la vera novità di quell’epoca e che gettò le basi per la costituzione di una

87 Cfr. Garin, La filosofia, vol. I, p. V: «Nel 1949 Giovanni Gentile propose che, a
completamento della Sua vallardiana Filosofia, che intendeva condurre fino a tutto il ’400,
io compilassi un secondo volume, dal ’500 a tutto l’800 secondo i criteri e nei limiti stabiliti
per la collezione dei “Generi Letterari”. Io terminavo sulla fine del ’42 l’opera mia; Gio-
vanni Gentile non completò mai il primo volume»; cfr. Id., Sessanta anni dopo, p. 144;
Colloqui con Eugenio Garin. Un intellettuale del Novecento, a cura di R. Cassigoli, Firenze,
Le Lettere, 2000, pp. 17-18. Sui rapporti tra Garin e Gentile riguardo all’interpretazione
del Rinascimento vd. Tra scienza e storia: percorsi del neostoricismo italiano: Eugenio Garin,
Paolo Rossi, Sergio Moravia, a cura di F. Cambi, Milano, Unicopli, 1992, p. 46 nota 57; M.
Capati, Cantimori, Contini, Garin. Crisi di una cultura idealistica, Bologna, Il Mulino, 1997,
pp. 73-105 (cap. III, Eugenio Garin), in part. le pp. 85-89; Scazzola, Giovanni Gentile,
passim. Ma si terrà anche conto di quanto su Gentile e il Rinascimento ha scritto lo stesso
Garin in molti suoi contributi, tra cui ricorderemo almeno i primi due, dall’identico titolo,
specificamente dedicati all’argomento: Giovanni Gentile interprete del Rinascimento, «La
Rinascita», VII (1944), pp. 63-70; Giovanni Gentile interprete del Rinascimento, «Giornale
critico della filosofia italiana», a. XXVI, s. III, I (1947), pp. 117-128 (rist. in Giovanni
Gentile. La vita e il pensiero, Firenze, Sansoni, 1948, pp. 207-220). Più in generale sulla
formazione di Garin e sui suoi rapporti con Gentile si veda C. Cesa, Momenti della forma-
zione di uno storico della filosofia (1929-1947), in Eugenio Garin. Il percorso storiografico di
un maestro del Novecento, pp. 15-34. Da tenersi presente anche E. Garin, Intervista sull’in-
tellettuale, a cura di M. Ajello, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 22-30 e 48-51.
88 E. Garin, Introduzione, in Gentile, Storia della filosofia italiana, vol. I, pp. XIII-LI: XLVIII.
72 SEBASTIANO GENTILE

«nuova ‘biblioteca’», di una nuova enciclopedia del sapere89. E a propo-


sito degli artisti Garin, in un saggio su Brunelleschi pubblicato in Umani-
sti artisti scienzati, del 1989, enunciava la necessità di
dissipare due immagini tanto assurde quanto dure a morire: 1. della separazione,
e magari contrapposizione, fra le varie arti e discipline, fra scienze e studia huma-
nitatis; 2. dell’artista quale artigiano di cultura scarsa o inferiore. Si chiamino
Alberti o Brunelleschi, Leonardo o Michelangelo, questi artisti del Quattrocento
e del Cinquecento sono spesso grandi scienziati e pensatori, uomini saturi di cul-
tura, la cui opera ha fatto progredire scienze e tecniche90.

Garin può così deplorare più apertamente che altrove «la stupida
tesi» secondo cui «nei secoli d’oro del Rinascimento artistico-letterario, il
pensiero filosofico e scientifico avesse avuto una battuta d’arresto»91; in
realtà era avvenuto tutt’altro, e ciò in virtù di un continuo scambio, alla
pari, tra artisti, umanisti, scienziati, uniti da un «linguaggio corrente, un
sentire comune: il richiamo alla misura, alla ragione, che fa correre paral-
lele la pagina del moralista e del politico, dell’architetto e del fisico, del-
l’astronomo e del metafisico» dove «gli antichi sono maestri di un meto-
do fatto di esperienza e ragione»92; un metodo la cui applicazione è par-
ticolarmente evidente nella Firenze del Toscanelli, di Antonio Manetti,
del Traversari, del Brunelleschi e dell’Alberti.
Non sorprende, a questo punto, quel che Garin ebbe a scrivere in una
lettera a Renzo Cassigoli, che lo aveva citato a proposito del Brunelleschi
in un un suo articolo:
Desidero dirle grazie per la citazione (su «Mattina» di oggi 11 giugno) di quel
testo di Brunelleschi. È più di mezzo secolo che insisto su quella convergenza
«umanisti-artisti-scienziati». La grandezza del Rinascimento è tutta lì93.

89 Sulla nuova ‘biblioteca’ si veda in particolare Garin, Il ritorno dei filosofi antichi, in

part. pp. 11-52 (cap. I, Per una ‘nuova’ biblioteca, pp. 11-30; e cap. II, Nuovi testi e nuove
traduzioni, pp. 31-52). Vd. anche Colloqui con Eugenio Garin, pp. 21-22: «Procedendo a
ritroso ho incontrato il Quattrocento italiano. Mi convinsi allora che non si trattava di un
rinnovamento solo letterario ma di tutta l’enciclopedia del sapere: quello che noi chiamia-
mo ‘Umanesimo’, insomma, stabiliva nuovi rapporti fra le diverse discipline», e i passi,
tratti dallo stesso volume, cit. più sotto nel testo.
90
E. Garin, Filippo Brunelleschi e la cultura del Quattrocento, in Id., Umanisti artisti
scienziati, pp. 153-169: 154-155.
91
Ibidem, p. 155.
92 Ibidem, p. 159.
93
Colloqui con Eugenio Garin, p. 85. Si tratta di una lettera di Garin a Cassigoli del
EUGENIO GARIN E LEON BATTISTA ALBERTI 73

E il personaggio che meglio di ogni altro incarna in sé questa «conver-


genza», i molteplici interessi dei protagonisti di quell’epoca, la tendenza
che la pervade verso la rifondazione di una nuova enciclopedia del sapere
basata sul nuovo metodo umanistico, che contempli in sé ogni aspetto
della vita umana, è proprio l’Alberti, come Garin ebbe modo di sottoli-
neare in una intervista allo stesso Cassigoli:
Per l’uomo nuovo di cui il Rinascimento parla, non ci sono due culture. La
cultura è una: l’arte, la scienza della natura, lo studio della letteratura. A parte il
libro che dedicai a Pico della Mirandola, uno degli autori che ho più amato e
ammirato è Leon Battista Alberti, matematico, architetto, scienziato, artista. Un
uomo che esprime questo senso nuovo, diverso dell’enciclopedia del sapere. Leon
Battista Alberti, Leonardo da Vinci, questo è l’Umanesimo. […] Con il mio studio
sull’Umanesimo, insomma, voglio sostenere che la verità rivoluzionaria portata dal
Rinascimento italiano è in questa fusione straordinaria fra arte, letteratura, scienza
che apre l’enciclopedia del sapere a una diversa visione del mondo94.

L’Alberti, dunque, simboleggia per Garin l’espressione più compiuta


dell’Umanesimo, il personaggio che meglio lo rappresenta nella sua es-
senza; un autore che per più di mezzo secolo lo ha accompagnato nei
suoi studi, da cui non ha saputo mai distaccarsi, sul quale è sempre ritor-
nato, il cui ritratto più di ogni altro egli ha contribuito a ridisegnare,
ridisegnando con lui una sempre più convincente, convinta e coerente
visione dell’Umanesimo. Una interpretazione – dell’Alberti e dell’Uma-
nesimo – che nei suoi continui aggiustamenti è la migliore applicazione
di quel metodo storico che Garin stesso ha teorizzato, sottolineandone
tra l’altro un aspetto che si potrebbe adattare al suo rapporto con l’Al-
berti: «le pagine della storia non recano mai la parola fine»95.

20 giugno 1996. Potrebbe tuttavia esservi un errore, forse di trascrizione, dal momento
che l’articolo a cui fa riferimento Garin (R. Cassigoli, La sindrome di Firenze, «Mattina»,
Supplemento de «l’Unità», anno II, n. 137) è effettivamente dell’11 giugno 1996. Il testo
cit. da Cassigoli nell’articolo proviene da Garin, Filippo Brunelleschi, p. 165.
94
Ibidem, p. 22.
95
E. Garin, Osservazioni preliminari a una storia della filosofia, «Giornale critico
della filosofia italiana», a. XXXVIII, s. III, XIII (1959), pp. 1-55, rist. in Id., La filosofia
come sapere storico, pp. 33-86: 79. Cfr. supra, p. 50 e nota 3.
74 SEBASTIANO GENTILE
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www.storiaeletteratura.it

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