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La grafica e l’impaginazione sono state curate da Italo Curzio, Roma

Le foto dal n. l al n. 10 sono state eseguite da


Fausto Cintura,
quelle dal n. 11 al n. 150 sono state eseguite da
Giulio Romano Pirozzi.

© Copyright 1983 by Carlo Delfino Editore – P.za d’Italia 11, Sassari.


Prefazione
Ho avuto modo di interessarmi e di scrivere sovente dell’artigianato e del
folklore figurato della Sardegna, alla luce soprattutto dell’ambiente architet-
tonico, costituito da case e da chiese, poichè anche il grosso dell’attività
costruttiva nell’Isola, è essenzialmente arte popolare, non dovuta cioè a sin-
gole personalità, ma prodotto di un vasto e lento processo corale.
Nel 1935, venne pubblicato il bel volume “Arte sarda” di G.V. Arata e G.
Biasi, riccamente illustrato, un’esauriente rassegna, in tempo di piena euforia
folkloristica, che stava, tra l’altro, equivocando sugli autentici valori delle arti
popolari. Il libro portò una notevole schiarita nella confusione, grazie al
notevole, selezionato materiale raccolto e all’autorità degli autori. E trascor-
so da allora quasi mezzo secolo, il libro, che era diventato una rarità bibli-
ografica, è stato di recente ristampato. Ho pensato di riunire le mie anno-
tazioni sparse in libri e riviste in un volume organico che, partendo da quest’-
opera che ritengo fondamentale e facendo tesoro delle conoscenze ed espe-
rienze dell’ultimo quarantennio, offrise un quadro completo dell’artigianato
di qualità fino ad oggi. Non soltanto storia, dunque, se storia si può chiamare
la ricucitura delle incerte vicende che si perdono in un grandissimo arco di
tempo, ma anche la registrazione di quanto si è dimostrato ancora valido.
Se nel passato non ci furono vere scuole, ma si verificarono periodiche
spinte da parte di persone colte, nobildonne e prelati, oggi esistono scuole,
enti e provvidenze in favore dell’artigianato, che senza dubbio hanno pro-
clastinato il suo declino, non solo, ma almeno in determinati campi, come
quello dei tessuti, l’hanno vivificato con un notevole, sensibile apporto di
modernità. Numerosi sono gli artisti che oggi affiancano gli artigiani veri e
propri, ma è doveroso ricordarne due, di indiscussa competenza, Eugenio
Tavolara, che non è più, ed Ubaldo Badas, i quali sollecitarono anche la
creazione dell’ISOLA, il benemerito Ente regionale preposto all’artigianato.
Partendo dall’architettura rustica, “tutta fatta a mano”, si contribuisce a
chiarir meglio il rapporto tra architettura e artigianato, sia come svolgimento
storico, sia come validità di quest’ultimo nell’arredo domestico.

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I Sardi, non soltanto quelli dei centri minori, ma anche quelli di città,
hanno conservato una mentalità artigiana: vogliono ancora la casa individ-
uale, tutta per sè, esprimono desideri, sostanzialmente improntati a ricordi
artigianeschi, al campomastro, che mantiene un prestigio di sapienza arti-
giana, col quale collaborano scalpellini, falegnami, fabbri, decoratori, ossia
quei “maestri” che riteniamo i veri artigiani. Tutti costoro, con alla testa il
capomastro –nonostante l’introduzione di tecniche e di materiali nuovi – sono
ancora più vicini all’artigianato che all’industria: per la stragrande maggio-
ranza dei casi, le case sarde sono, come si diceva, “fatte a mano”, poggiando
su una esperienza artigiana.
Nell’architettura della casa – così varia da contrada a contrada dell’Isola
–la fantasia gioca entro schemi planimetrici e misurati spazi tradizionali e,
s’intende, entro limiti, piuttosto angusti, di economia. Quando pensiamo alla
casa, pensiamo a noi stessi dentro ad essa, assieme a quei determinati arredi,
a quegli oggetti che sono ormai nel sangue. La tradizione è in sostanza la nos-
tra inerzia, la quale – si sa, – tende alla conservazione delle forme, anche
quando è scomparso il bisogno che l’aveva determinato. Basti pensare alla
persistenza delle lo/le campidanesi, ambienti di filtro, disimpegno e sog-
giorno che caratterizzano quelle dimore, nate come tettoie per la protezione
del bestiame addossate alla casa, e alla sopravvivenza del tipico cassone, di
cui ogni sardo è ancor oggi geloso, anche se le destinazioni che ad esso
attribuisce non sono proprio più quelle originarie, ed al “tappeto”, che nel
passato non è stato mai tappeto, ma coperta da letto o copricassa. La soprav-
vivenza delle forme è più forte delle primarie ragioni pratiche: fenomeno
questo comune a molti popoli, ma più spiccatamente accentuato in Sardegna;
e pertanto, noi, anche quando possediamo una casa veramente moderna, non
possiamo fare a meno di decorarla con manufatti del nostro artigianato: tap-
peti, arazzi, ceramiche, canestri ......
Un manufatto di artigianato non si può intendere in assoluto, facendo
astrazione dell’ambiente che dovrà ospitano: così lo concepisce sempre
l’artefice e lo sente sostanzialmente l’amatore, che trova subito una sua col-
locazione, anche se talvolta non è proprio quella per cui venne creato.
La casa sarda è un meraviglioso prodotto di artigianato, che costituisce
un tutt’uno con le cose che contiene, integrate, in un passato ancora recente,
dai costumi degli abitatori. Basterà osservare che gli umili materiali sono
identici: l’argilla del muratore, per i mattoni crudi, e quella del figulo, che
forniva doccioni, acroteri, brocche ed orci; il ginepro e il castagno erano le
essenze comuni per orditura di tetti, assiti, scale e mobili. Gli intagli delle

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piantane, delle colonne e dei capitelli delle logge campidanesi e delle colon-
nine delle balconate montanare erano simili, perchè scalpellini ed intagliatori
appartengono alla stessa famigla: gli uni e gli altri hanno ripreso, elaboran-
doli, motivi di architetture antiche chiesastiche. Certe forme sono state indus-
trializzate: le tegole di Sill e di Segariu rivelano il timbro della mano, ma le
brocche di Oristano, Assémini e Dorgali, che ricalcano antichissimi modelli,
sembrano viceversa fatte a stampo. Si usavano gli stessi tipi di porta e di
finestra nelle singole contrade, e gli striscioni di legno intagliato o graffito
venivano venduti a metraggio, con motivi senza principio e senza fine. I
muratori ricorrono ancora ad accorgimenti spesso geniali ed hanno il gusto
del particolare (basta pensare ai fantasiosi comignoli, che hanno il valore di
trofei per solennizzare la ultimazione della fabbrica), propri dell’artigiano.
Quel senso di gaiezza che si avverte nelle case campidanesi, non appena
varcato la soglia del portale che immette nel giardino fiorito, si avverte all’in-
terno della dimora per l’originalità dell’arredamento.
Dopo la casa, in Sardegna, viene per importanza, la chiesa: per essa l’ar-
tigiano ha compiuto lavori in collaborazione, spesso, con artefici forestieri.
Ha prestato la sua opera all’erezione di magnifici altari lignei intagliati e
dorati, soprattutto nel Settecento; ha creato sedie e panche priorali, mobili per
cori e sagrestie, crocifissi e simulacri di legno. E meravigliosa è stata anche
per le chiese l’opera degli argentari e delle donne, che ricamarono paramen-
ti sacri e tovaglie d’altare.
L’artigianato in Sardegna era occupazione di tutti, un’autentica passione,
non sempre dettata da necessità. Non si spiegherebbe altrimenti il notevole
apporto della donna che certamente non tesseva a scopo di lucro. Si pensi alla
sua intelligente operosità: alla cestineria, alle trifle e alle tele ricamate, alla
cura amorevole del cortile–giardino, articolato con ordine e gusto tutto arti-
gianesco, alla confezione del pane e dei dolci fatta con religiosità, adoperan-
do stampi mirabilmente intagliari e una raffinata coltelleria, si pensi alla fan-
tasiosa modellazione della palma che dovrà per un anno decorare la spalliera
del letto, accanto al crocifisso severo, e ravvolta di nodosi rosari. Ma il cap-
olavoro della donna sarda è costituito da tappeto: esso è la più bella deco-
razione della casa, ed è singolare il fatto che i motivi prevalentemente geo-
metrici si riscontrino nei paesi di montagna, dove la casa è d’una geometria
meno rigorosa, mentre quelli di colore smagliante, di minuto e prezioso dis-
egno, sono nati entro i grigii murati delle pianure meridionali, là dove le case
sono di composizione più larga e cadenzata.

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Negli ultimi decenni molti modi artigianali sono ormai scomparsi del tutto;
dagli anni Trenta, allorchè il Biasi e l’Arata coglievano gli ultimi sprazzi di una
vita serena ma cristallizzata, il progresso nell’Isola ha fatto passi veramente da
gigante. La fatica dei due autori ha soprattutto un pregevole valore documen-
tario. Le raccolte etnografiche erano allora, si pùò dire, in embrione. Oggi
esistono varie raccolte pubbliche, donate da collezionisti privati: la sezione etno-
grafica del Museo nazionale di Sassari (collezioni Castoldi – Bertolio e
Clemente), il Museo della vita e delle tradizioni popolari sarde di Nuoro ed il
Museo delle Arti e tradizioni popolari di Roma. Tutti ben lungi dal rappresentare
l’imponente attività artigiana dell’Isola. Si attendono ancora le sistemazioni di
altre eccellenti collezioni, quali la Manconi–Passino e quelle di Amilcare Dallay
(solo parzialmente esposta nel Museo di Sassari) e di Luigi Cocco.

Nel periodo compreso tra la fine della Grande Guerra e gli inizi degli
anni Trenta, periodo contrassegnato da esaltazione delle qualità tradizionali
dell’Isola, si verificarono certe deviazioni del gusto. Basti dire che si confuse
il risultato dell’esposizione al fumo del cassone tenuto a lungo in cucina (“sa
domo de su fumu”, la stanza del fumo), con il colore di esso che nero non era
mai stato. Anzichè sangue d’agnello e succhi vegetali, impiegarono vernici
gli inventori e i seguaci del cosidetto “stile sardo”, nero e lugubre. I motivi
d’intaglio, ch’erano stati sempre ben dosati, dilagarono nella casa, soprattut-
to quello della gallinella e dell’uccello, ripetuti monotonamente fino
all’ossessione: nei tavoli, nelle sedie, nei letti, negli armadi, nella suppellet-
tile e persino nelle cornici di quadri che i Sardi non ebbero mai. Nato come
filiazione del liberty, lo “stile sardo” ebbe successo per l’applicazione steroti-
pata di elementi floreali, d’intaglio, più o meno stilizzati. E dalla casa passò
agli ambienti di rappresentanza dei palazzi pubblici, incoraggiato da buro-
crati forestieri, che della Sardegna tutto ignoravano. Oggi si lamentano le
aberrazioni, forse maggiori, che popolano i numerosi empori di souvenirs, le
quali non hanno niente a che fare con l’autentico artigianato sardo.
Il vero stile sardo è quello della casa del villaggio; l’interpretazione e la
trasposizione di elementi rustici nel mobilio della casa cittadina fu ed è un
grosso equivoco, determinante un inquinamento del gusto.
Il cassone nuziale, l’unico mobile veramente sardo, quello autentico, di
belle proporzioni, di buona partitura e decorazione appropriata, come tutti gli
oggetti di autentica arte, sta bene dovunque. Così, nella casa moderna, stan-
no bene le forme pure, genuine, di terracotta, ceramica, paglia e giunco: sia

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quelle che conservano la primaria distinazione, sia quelle essenzialmente
decorative, ricche di colore, come i tappeti e gli arazzi.
La casa sarda dimostra chiaramente che la sua bellezza scaturisce da una
necessità realizzata col minimo dispendio di energia: lo dimostrano i dosati
ambienti ed i mobili; è il taglio solenne di questi e allo stesso tempo la loro
semplicità ed essenzialità che li rende attuali. La severità non va confusa
colla tetraggine: chè il nero è impiegato solo come necessario contrappunto,
distribuito sempre nella giusta misura sia nei tappeti (i quali non si può dire
che non siano piuttosto vivaci), sia nei cestini.
Con la riproduzione fedele di antichi modelli e con la creazione di nuovi
dovuti alla interpretazione di artisti d’oggi, la cui attività è volta all’arredo
della casa e che dai primi si diparte, fino ad affrontare una scala inusitata
(grandi tappeti di Sarule e di Nule, che ben possono inserirsi in altri temi mod-
erni di architettura, oltre la casa), e con moduli affatto nuovi (cestineria, anzi-
tutto, terracotta, ceramica, legni intagliati), si può dar luogo a un arredo di
classe. Allorchè la nota folkloristica sisappia mantenere in sordina, le forme
pure ed essenziali si inseriscono felicemente in qualunque ambiente moderno.
Necessariamente, questo rinnovamento del gusto che si avverte in una
dignità generale, impone un adeguato aggiornamento in estensione per i nuovi
compiti che l’artigianato deve assolvere (e i già ricordati empori di souvenirs
ne sono la riprova). Dopo le esperienze invero non felici, degli anni in cui
imperversava il folklore, svolte su temi scaturiti al primo ingresso nell’Isola di
involuzioni stilistiche, più che con la presenza di forme architettoniche, per
l’influenza di certo gusto letterario, oggi, come si diceva, per merito degli
artisti, come ebbe a verificarsi certamente nel passato, anche se non sono tra-
mandati nomi di artefici di spiccata personalità, l’artigianato sardo ed il gusto
generale rinnovato sono preparati per l’inserimento di valide forme di arredo
e decorazione in un moderna architettura, non più essa artigianesca.

Fra le arti popolari europee, le produzioni di artigianato sardo si sono


forse conservate le più pure: esse presentano, tutte, il timbro peculiare e
inconfondibile della regione, suscitando sensazioni particolari, sia dal punto
di vista visivo che tattile.
L’arte popolare isolana, di cui si scorge un fondo lontano nelle manifes-
tazioni della civiltà nuragica, ha beneficiato di flussi dei periodi succedutisi,
in particolare quelli bizantino, romanico, rinascimentale e neo–classico,
nonchè di periodi più recenti.

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Le espressioni di pittura popolare sono, si può dire, pressocchè inesisten-
ti, perchè non poterono avere riferimenti alla quasi assente pittura colta; a ciò
aggiungasi la congeniale preferenza del disegno al colore, nonchè per le
immagini aniconiche. La plastica ebbe invece esempi con continuità, a partire
dai bronzetti nuragici, fino alle sculture puniche e romane, agli ornati bizanti-
ni e romanici; gli scalpellini catalani costituirono un’autentica scuola, sia per
gli scalpellini che per gli intagliatori. Ha avuto un notevole sviluppo la plasti-
ca figulina e la plastica effimera (pani di festa, dolci, ex–voto di cera, ecc.).
Il colore, tuttavia, non è stato assente: si pensi ai costumi e ai tappeti, i
quali sono di tipo orientale sia per la tecnica che per la lavorazione, ma gen-
uinamente sardi. I tappeti delle collezioni risalgono al più al sec. XVIII; essi
ripetono motivi più antichi, che venivano tramandati da madre in figlia, i quali
sono comuni anche ad altri popoli, motivi geometrici, rabeschi (mutuati forse
tramite la Spagna) e motivi derivati dall’arte antica delle colture succedutesi.
L’arte popolare come produzione autonoma non esiste; l’artigianato di
qualità, anche se sembra un’attivitàschiettamente individuale, è frutto di col-
laborazione. Il fatto più evidente oggi è dato da quei grandi tappeti che
escono da un unico telaio, ove lavorano contemporaneamente fino a sei tes-
sitrici, battendo lo stesso ritmo. Il lavoro delle artigiane (una volta erano tutte,
indistintamente, le donne sarde), emana un soffio di personalità, contro l’ap-
parente uniformità determinata dal rispetto assoluto del ritmo: si pensi alla
varietà dei tappeti, delle trifle e delle tele ricamate, delle infinite sfumature
della cestineria.
E in virtù della rigida osservanza dell’utilità funzionale posta a costume,
che quando l’artigiano–artista ha avuto a portata di mano un gagliardo pezzo
di legno di pero, o una zucca singolare o un bel corno, ha creato ancora cose
egregie e valide, pur concedendo libertà alla propria fantasia, quasi come un
divertimento, per fare un dono prezioso all’amico o agli sposi (una fiaschet-
ta, una tabacchiera, un corno da caccia, un vassoio). I vasellai che fabbrica-
vano i manufatti come fatti a stampo, si compiacevano la domenica o negli
altri giorni non lavorativi, di imprimere un diverso ritmo alla ruota figulina,
sfornando quelle anfora fantasiose che non ci stanchiamo di ammirare.
Come nei secoli andati ci sono state le presenze vivificatrici, così gli
artisti o gli artigiani, essi stessi artisti, continuano nel processo degli aggior-
namenti. Il problema non è quello di ripetere all’infinito gli antichi modelli,
ma occorre conservare o ritrovare l’antico linguaggio, per non ricadere nel-
l’equivoco folkloristico di cui si è discorso. Sarebbe un vero peccato che il
patrimonio d’un magistero sensibile andasse perduto, che l’artigianato si

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ritrovasse costretto alla ripetizione di forme, per sopravvivere esso, essendo
ormai da qualche tempo scomparsi i bisogni che quelle forme determinarono
e che integre sopravvissero per singolari vicende storiche in cui l’Isola venne
a trovarsi.
Le illustrazioni del volume sono in gran parte immagini di manufatti
recenti di un artigianato selezionato, mentre si rimanda al citato volume
dell’Arata e del Biasi per le illustrazioni di manufatti più antichi, strettamente
tradizionali. Si è preferito qui offrire un panorama della “nuova tradizione”,
utilizzando l’archivio fotografico dell’I.S.O.L.A., a cui si deve la pubbli-
cazione del volume, ricorrendo il venticinquesimo anno dalla sua istituzione.

Vico Mossa

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ARCHITETTURA RUSTICA
La casa sarda del contado, l’ambiente confortevole della famiglia, era,
fino a non molto tempo addietro, il contenitore delle cose necessarie alla vita
quotidiana, cioè delle produzioni artigianali di cui ci occuperemo. Per questo,
soprattutto, e perchè essa stessa produzione di artigianato, iniziamo con l’anal-
izzare l’architettura domestica come andò lentamente sviluppandosi fino alla
prima metà del presente secolo, allorchè si è verificato un diffuso processo
accelerato di aggiornamento. Dato che da quella svolta non è trascorso molto
tempo e che un buon numero di esemplari di casa tradizionali forma i centri
abitati, appare legittimo usare ancora l’indicativo presente. In Sardegna, le
vicende dell’architettura domestica del contado si indentificano con le vicende
dell’architettura rustica, costituendo essa il grosso dell’attività edificatoria; le
città, d’altra parte, sono poche ed anch’esse, in parte, di origine contadina. Lo
sfondo è quello di una economica agricola e pastorale, singolare e statica, in
cui si crogiuola il villaggio, anch’esso di struttura singolare, in forme sempre
più eccentrate. Con lo spopolamento delle coste, iniziato alla caduta
dell’Impero romano e proseguito sempre più intensamente nei secoli succes-
sivi, si spensero gradatamente le attività marinare e commerciali; salvo la par-
entesi genovesepisana e sporadiche attività estrattive in aree circoscritte,
dall’Alto Medioevo e per lunghi secoli, si può parlare soltanto di una econo-
mia agricolo-pastorale e di attività artigianali ad essa connesse.
L’impianto fenicio–punico delle città nelle coste sud–occidentali non
aveva influito sull’insediamento disperso e sull’architettura delle popolazioni
nuragiche. Un arabesco continuo di muri curvilinei e di costruzioni a pianta
circolare più o meno poderose caratterizzava, infatti, in modo curioso il ter-
ritorio dell’Isola avanti la penetrazione romana: le popolazioni nuragiche
erano giudicate dagli scrittori greci incapaci a edificare città. La vita,
comunque, si svolgeva in prevalenza all’aperto; il nuraghe e la capanna
nuragica servivano come difesa e riparo all’uomo, per proteggere i suoi ani-
mali e le sue cose. Con la dominazione romana, l’arabesco finì per dissolver-
si lentamente nell’intrico dei boschi e delle macchie cespugliose.

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I Romani incoraggiarono la formazione e l’incremento di villae, vici e
pagi nelle zone più fertili, ma per la scarsa entità di organici scavi archeologi-
ci attinenti quel periodo, non ci è dato apprezzare il grado di evoluzione di
quelle costruzioni dell’interno (mentre gli scavi che si stanno effettuando
nelle aree delle antiche città costiere ci attestano di evolute ed opulente
dimore), nè sappiamo, per le stesse ragioni, molto di più circa le forme
architettoniche dei complessi edilizi che sorsero nelle donnicalie medioevali,
di cui ai documenti scritti del tempo, e che reale diffusione e distribuzione
abbiano avuto nel territorio isolano. Poichè non appare verosimile una
degradazione nei secoli che seguirono, se non altro dal punto di vista della
distribuzione degli ambienti, dobbiamo immaginarci quelle costruzioni del
contado elementari, formate da pochi vani gravitanti attorno ad uno più vasto,
la cosidetta “cucina”, quel nucleo cioè della casa monocellulare che si è anda-
to trascinando in alcune zone più depresse, si può dire, fino ai nostri giorni.
Un’evoluzione più avanzata dovette certamente verificarsi nelle pianure
meridionali molto prima rispetto alle zone interne dell’Isola, in quanto le
prime ebbero più frequenti e stabili contatti sin dall’età preromana. Ciò è
dovuto anche al fatto che lo sviluppo della casa del contado è legato all’am-
biente pedologico, che nel Campidano è assai più favorevole che altrove. E
qui che troviamo infatti la più compiuta espressione architettonica, giunta
fino a noi attraverso una lenta, ma progressiva evoluzione.
Le popolazioni dell’interno, degli altipiani e delle montagne, abban-
donarono molto tardi la dimora circolare e sentirono assai più a lungo delle
altre, per fenomeno atavico, la spazialità, interna ed esterna, dei villaggi
nuragici. Il pastore barbaricino si può dire che la senta ancora, giacchè la pin
netta, la dimora temporanea e qualche volta stabile, ricalca la forma delle
capanne circolari che formavano il villaggio attorno alla mole nuragica.
E caratteristica questa proiezione lontana nelle campagne, del villaggio
montanaro: e se da un lato la capanna favorisce l’isolamento individuale, che
al Sardo è congeniale, dall’altro la dobbiamo considerare come un’autentica
appendice del centro abitato, perchè a esso legata socialmente ed economica-
mente. Spesso questa dimora “temporanea” la troviamo in prossimità del vil-
laggio, dove si istituisce l’ovile, cioè il posto di lavoro; il decentramento, più
o meno lontano, è determinato da uno stato di necessità (transumanza): decen-
tramento che invece non riscontriamo mai nelle borgate ad economia agrico-
la, dove troviamo addensati i recinti, che riuniscono assieme uomini, animali
e attrezzi da lavoro, qualsiasi risulti la distanza dai campi da coltivare.
La tendenza ad allontanare i rustici dalla dimora vera e propria, sempre

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però nell’ambito del recinto, l’avvertiamo chiaramente nell’evolversi della
casa di pianura; alla promiscuità subentra man mano la distinzione tra dimo-
ra umana e ambienti, tettoie e steccati per il riparo del bestiame e degli
attrezzi da lavoro, dilatando sempre più il recinto, senza però accennare a
romperlo. Nell’Ottocento si giunge a una purezza della casa, il cui elemento
caratteristico è – come vedremo – la lolla, il portico antistante, che ha avuto
origine dalla tettoia–riparo addossata ad essa per la protezione del bestiame
bovino, ed il cortile, diventato parte inscindibile, architettonicamente, si
trasforma poco per volta in giardino.
La tipologia della casa del contado è in Sardegna oltremodo varia, sì che
resta difficile fare una rigorosa e allo stesso tempo chiara classifica. Ci limi-
tiamo a ricordare soltanto i tipi fondamentali, rimandando a più ampie trat-
tazioni attinenti l’aspetto geografico–insediativo e soffermandoci invece là
dove scorgiamo uno sforzo di quasi–arte. Di arte vera e propria non possiamo
mai parlare, in quanto in Sardegna mancano esempi in cui si senta la presen-
za di personalità, a differenza di quanto è avvenuto in altre regioni italiane
anche per l’architettura del contado. Occorre aggiungere che il termine col
quale spesso si classificano queste espressioni popolari, “architetture sponta-
nee”, è improprio, perchè tutta l’arte è spontanea. Esempi di architettura
rurale o rustica in cui si possa avvertire la presenza dell’architetto, nel pas-
sato non se ne sono avuti o non sono giunti fino a noi; occorre arrivare al pre-
sente secolo. E lecito, però, pensare a uno “spirito ordinatore”, che in vari
periodi del passato, facendo tesoro di pallidi riflessi culturali, abbia con-
tribuito ad elaborare modelli: ripetuti e interpretati dall’estro di “maestri di
muro”, essi possono legittimamente inserirsi in quel corpus di espressioni
popolari, fresche e genuine, denominate architetture mediterranee. La dimo-
ra sarda entra degnamente nel fenomeno costruttivo della casa mediterranea,
anche se per vicende storiche, come già le espressioni architettoniche dell’an-
tica civiltà nuragica, ha avuto uno sviluppo autonomo, anche se la si giudica
inattuale, per non assolvere più la precisa funzione di casa rurale, giusta l’ac-
cezione del termine. Ma essa risulta estremamente interessante se consedera-
ta nel suo ruolo storico, come cellula in evoluzione nel tessuto urbanistico
conservatosi medioevale, il villaggio, improntato ad una economia chiusa, di
autosufficienza e di difesa assieme, determinato da dolorose vicende secolari.
Il più delle volte la casa viene innalzata al posto di un’altra vetusta “stan-
ca di vivere”: e questa insistenza su lotti di antica formazione che con-
tribuisce a rendere stagnante la trama urbanistica. E mentre il villaggio di pia-
nura, pur ricco e vario all’interno dei recinti che lo formano, appare come di

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aspetto stagnante, piuttosto monotono, quelli di collina e di montagna acquis-
tano di vivacità man mano che si elevano di quota, per la disposizione a
quinte, sul terreno accidentato, delle case che si proiettano sulle strade e sulle
piazzette con le aperture, gli sporti, le ampie balconate pensili, i rampanti
delle scale esterne. Essi riflettono anche una vita comunitaria diversa, più
chiusa il primo, più aperta gli altri. Caratteristica comune alla casa di pianu-
ra e a quella di montagna è che esse sono organismi che di rado nascono in
una sola volta, ma si sviluppano con le esigenze, con la crescita delle unità
familiari, in dipendenza di una buona annata. Pertanto, i volumi e le forme
acquistano varietà e la costruzione non risulta mai un’entità geometrica, con-
clusa. E sorprendente lo spazio interno, sia per la misurata articolazione, sia
per la sapiente utilizzazione: specie le dimore più modeste colpiscono per
l’organizzazione di tutto quanto è necessario, che si traduce in un armonico
risultato fra esterno e interno. Foma e funzione si identificano: è questa qual-
ità architettonica fondamentale che rende le dimore sarde ancor piacevoli.
Importanza hanno avuto, necessariamente, i materiali a disposizione: il
mattone crudo, impiegato nelle pianure, povere di materiale litico, ha con-
dizionato le costruzioni in altezza; la varietà delle pietre (tufi calcarei e vul-
canici, basalti, graniti, trachiti, scisti) nelle altre zone ha favorito, oltre le case
in altezza, una varietà di espressione esterna: talvolta, il diverso materiale e
1’ opus bastano a differenziare dimore aventi schemi distributivi pressochè
identici.

Come si è accennato, non conosciamo con esattezza come fossero strut-


turati e articolati i centri agricoli nel periodo giudicale, succeduto alla domi-
nazione romana e all’amministrazione bizantina. Dalla presenza di ruderi di
scarsa entità e dalla documentazione dei condaghes, possiamo solo farci
l’idea della distribuzione planimetrica dei complessi edilizi delle donnicalie,
edificati in vicinanza di chiese, costituiti dalla domus, l’abitazione vera e pro-
pria del maggiorente, da magazzini e dalle pertinenze per la servitù e per gli
addetti ai lavori agricoli, all’allevamento del bestiame e alla lavorazione del
latte, del lino e della lana. Le donnicalie sono espressione del latifondo che
si estrinseca in forme di tipo curtense, dominate spesso dalla presenza d’uno
o più nuraghi adibiti a deposito di derrate, alla guisa di moderni silos.
Dobbiamo immaginare dei corpi di fabbrica semplici, ma non abbiamo –
almeno fin ora – elementi onde poter giudicare circa le qualità architettoniche
di essi, che per altro non dovevano essere dissimili dai nuclei degli odierni

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villaggi. I nomi di Donigala Fenughedu, Donigala Siurgus e della Donigala
ogliastrina denunciano l’origine di detti villaggi da altrettante donnicalie, in
forme di agglomerato andato sempre più addensandosi.
Forse, maggior interesse architettonico presentavano le costruzioni rus-
tiche annesse ai complessi abbaziali, innalzati dagli ordini monastici che pro-
mossero le prime opere di bonifica, come fecero i Camaldolesi a Plaiano
(Sassari) e poi a Saccárgia (Codrongianus) ed i Vallombrosani a Salvenero
(Ploaghe). Anche in queste località, i ruderi sono di modesta entità ed il ricor-
do è costituito, si può dire, soltanto dalle magnifiche chiese sopravvissute.
Dobbiamo, pertanto, documentarci su quanto offrono i villaggi attuali ed
una ricostruzione del processo evolutivo resta ancora agevole farsi attraverso
numerosi esempi cristallizzatisi negli stadi intermedi.
Si individuano nell’Isola, fra numerose forme, cinque tipi fondamentali
di casa, di contadini e di pastori: elementare, con cortile chiuso, con cortile
retrostante, in profondità e in altezza con balconate lignee. Il primo tipo si
trova nelle zone periferiche (Gallura, Anglona, Nurra e regione sassarese,
Sulcis, Sàrrabus), nonchè negli a1tipiani centrali. La casa con cortile chiuso
è tipica del Campidano, con varianti locali nella Trexenta, nella Marmilla, nei
villaggi alla foce del Flumendosa e nell’arco costiero del golfo di Cagliari,
fino a Teulada. Ai confini settentrionali del Campidano si è localizzata la casa
in profondità. In più vasta area, la casa in altezza, caratterizzata da balconate
lignee, è tipica delle borgate montanare (Sardegna centro–orientale, con
incuneamenti nel Montiferro, nel Goceano e in Gallura).
Lungo la valle del Tirso confluiscono tutti e cinque tipi, oltre ad altri
interessanti tipi intermedi di saldatura, elaborati soprattutto nella deco-
razione, per la presenza ivi di ottime pietre e di buoni lapicidi.
Nelle zone periferiche, ad insediamento disperso, la casa elementare è di
estrazione relativamente recente, perchè riferibile a un fenomeno spontaneo
sei–settecentesco (stazzi, cui/i, furriadroxius, baccilÒ. una casa elementare,
ma diversa da quella che dette origini ai diversi tipi, la domus, in quanto carat-
terizzata da una pura linearità e per l’isolamento dalle pertinenze rustiche, dis-
poste attorno, che sono oltremodo singolari nelle diverse zone. La Nurra e la
Gallura in particolare sono ricche di costruzioni accessorie, nelle quali prevale
l’andamento curvilineo, in contrasto col lindo corpo di fabbrica racchiudente
una o più dimore affiancate. E una forma elementare pura, con strutture
murarie semplicissime, dalla quale sporge solo il forno col fumaiolo, in comu-
nicazione all’interno con la casa manna, la camera grande, ossia la “cucina”.
Gli altri ambienti, giustapposti da un lato, sono camere o magazzini.

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La forma elementare antica, che riscontriamo un pò dappertutto e che ha
dato luogo alle forme complesse in tempi e zone diversi, era ed è rimasta
ancora contaminata dai locali per la stabulazione e per il riparo degli attrezzi
agricoli–pastorali. In alcune zone marginali è dato ancora osservare – per un
fenomeno di cristallizzazione – gli stadi che hanno portato alla formazione
della casa isolana. La dimora e i rustici sono disarticolati, il forno a palla o
dal profilo parabolico è isolato, e così il pozzo, attorno all’aia antistante,
recinta da basse muricce a secco; la tettoia–riparo per il bestiame addossata
alla dimora, unicellulare o formata dalla “cucina” e da pochi altri ambienti.
Gradatamente e lentamente, il complesso si è andato organizzando, in
modo da isolarsi completamente dalla strada e dai vicini con muri alti e
ciechi, in lotti quadrangolari tendenti sempre più a dilatarsi e a regolarizzarsi
in forme rettangolari, in guisa che la dimora risultasse a cavallo dei due spazi
liberi, quello retrostante in genere destinato ad orto e quello antistante, più
vasto, a cortile, disponendo i rustici (tettoie) lungo il lato di questo su strada
ed anche sugli altri due lati. Il recinto è in comunicazione con la strada per
mezzo di un unico ingresso carraio, protetto da tettoia all’interno, quasi sem-
pre centinato e di norma a tutto sesto, di misura tale da potervi transitatre il
carro col tettuccio a botte, fatto da canna spaccata e tessuta (Ióscia).
L’originaria tettoia, sorretta da piantane di ginepro, addossata alla dimo-
ra, per la protezione del bestiame bovino, si trasformò gradatamente nella
caratteristica loggia (Io/la), l’ambiente che caratterizza la casa. Il forno venne
sempre più attratto da questa, fino a diventare un’appendice della “cucina”,
che occupa di regola un’estremità del corpo di fabbrica che diaframma i cor-
tili. Altrettanto avvenne per il pozzo, non più scavato in un punto a caso, ma
in prossimità dell’ingresso alla loggia o, molto spesso, in comunione col vici-
no (funtana a mIgias, corruzione dello spagnolo a mIdyas, a metà).
Ciò che sorprende, negli esemplari più progrediti, è il rapporto, voluto o
casuale, col quale il corpo di fabbrica divide il lotto e la correlazione, pres-
sochè costante, tra ampiezza della casa e profondità del cortile anteriore, che
consente sempre a chi varca la soglia del portale, di godere una riposante
prospettiva della casa affacciantesi sul cortile ingentilito da aiuole, linda, ser-
ena e civettuola. Contrasta il muro esterno del recinto, alto, cieco e grigio, per
l’impiego del mattone crudo senza intonaco, col prospetto “interno” della
casa, bianca di calce o arricchita da decorazioni cromatiche, con la zona basa-
mentale chiaroscurata dalla loggia variamente modulata da spartiti architet-
tonici architravati o arcuati. Attraverso esemplari superstiti, soprattutto nelle
borgate attorno a Cagliari, si può osservare lo sviluppo degli elementi

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architettonici: dalle semplici piantane, si è passati ai pilastri lignei intagliati e
decorati con figure di animali e geometriche, dipinti anche a vivaci colori,
poggianti su bassi muretti e sormontati da capitelli a stampella, reggenti le
travi, pur esse decorate, e l’incannucciato fresco del tetto; indi a pilastri in
muratura, prima massicci, poi eleganti, collegati ancora da travature lignee,
ed infine, a spartiti arcuati, a tutto sesto, ribassati, ellitici.
La loggia, che si estende di norma per tutta la lunghezza del corpo di fab-
brica, diaframma la luce intensa che illumina gli ambienti retrostanti a pianter-
reno, costituisce il disimpegno, l’ambiente principale della casa: in essa,
arredata da numerose sedie basse e anticamente da panche, s’incontrano mez-
zadri e amici; le donne tessono e ricamano, i bimbi fanno i primi giochi; si
purgano il grano e i cereali, si ripongono gli incannucciati per il dissecamen-
to dei pomodori, delle mandorle e delle noci, si appendono rosari di uvapassa,
trofei di zucche. Qualche volta, in un angolo è allogato il torchio o si allineano
cilindri di canna tessuta, per il deposito dei cereali, quando la casa non ha un
ambiente apposito od il piano superiore a ciò riservato (sobáriu).
E soprattutto il ritmo achitettonico della loggia, con le innumerevoli mod-
ulazioni del tema, a generare il timbro fondamentale che differenzia la dimora
campidanese da tutte le altre. Altro elemento caratteristico è il forno a palla, a
vista o riparato da tettoria, ubicato nel cortile anteriore o in quello posteriore.
La “cucina” è un ambiente caldo per l’arredo che impegna tutte le pareti;
sussidiaria è la stanza destinata esclusivamente agli utensili di fieno, corbe e
canestri, di varie forme e dimensioni. Sparito del tutto è l’ambiente della
mola, attorno a cui il somarello girava tutto il giorno, battendo il monotono
ritmo domestico. Le camere da letto, da scarse che erano, sono andate sem-
pre più aumentando di numero, e una di esse è riservata sempre all’ospite:
distribuite, prima, solo a pianterreno, poi, in epoca a noi vicina, anche nel
piano superiore, un tempo adibito esclusivamente a deposito di derrate.
Nel secolo XVIII, come risulta da un documento del 1758, la casa della
pianura campidanese aveva raggiunto la sua compiutezza, conservando un
elemento caratteristico, il pendenti i, un corridoio coperto retrostante alla
cucina, che la diaframma dall’orto, ricordo del primo espandersi della domus,
della dimora monocellulare.
Nell’Ottocento e nei primi decenni del presente secolo, la casa ha con-
tinuato a darsi un ordine sempre maggiore, con una migliore organizzazione
dei rustici, guadagnando terreno a favore del giardino, denso e compatto,
nella parte anteriore. La casa, sia la minima del bracciante che quella del
ricco possidente, accentua sempre più il carattere di gaiezza e di signorilità;

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il giardino viene curato con amore e, attraverso gli spiragli del portale, l’es-
plosione dei fiori a primavera fa dimenticare il grigiore dei murati esterni.
Si riteneva che la casa a recinto chiuso del Campidano fosse derivata dal
cavaedium etrusco o dalla casa pompeiana, od anche dal patio spagnolo,
ipotesi quest’ultima che sembrava più verosimile, in quanto la maggior elab-
orazione avvenne in tempi di dominazione aragonese e spagnola: studi recen-
ti hanno però dimostrato che essa si è formata autonomamente, senza sensi-
bili apporti esterni, per gradi, affinando sempre più lo schema.
Per la individuazione dei successivi stadi che, nella lenta evoluzione,
hanno portato alle soluzioni architettoniche giunte fino a noi, sono di buon
ausilio la nomenclatura popolare, la terminologia e l’etimologia in lingua
sarda; fra le voci che ricorrono più di frequente, ricordo domus, che al singo-
lare indica la casa monocellulare, mentre is domus, al plurale (camp.), indica
la casa formata da due o più ambienti; la voce stáulu (portico) indica il riparo
addossato alla dimora per la stabulazione e ricorda l’origine della lo/la (dal-
l’italiano “loggia”); il pandenti (dal latino pandò, ere) ricorda l’embrionale
espansione della dimora monocellulare collegata al cortile. La voce patiu, il
cui uso è ristretto all’area del sassarese, ha indotto qualche studioso a credere
di origine spagnola il cortile con la loggia, mentre in Campidano essa voce è
sconosciuta.
Il villaggio di pianura è pertanto formato da vasti isolati composti da lotti
per la maggior parte quadrangolari profondi, molto ampi, con orientamento
in prevalenza sud–sudest. Il tessuto stradale però non è affatto regolare ed è
facile imbattersi in strade cosidette “saracene”, vicoli ciechi residenziali con-
formati a denti di sega.
Eccezione costituivano le botteghe artigiane, complementari all’attività
agricola: le botteghe del carpentiere, del fabbro, del bottaro, del sellaio, ecc.
prospettavano direttamente su strada, dando vita ad essa, aventi però sempre
il cortile a fianco o retrostante, nel quale era ubicata l’abitazione dell’arti-
giano. Quando il cortile non era sufficientemente grande, in apposito spazio
esterno, in prossimità della bottega del fabbro era il monumentale castello per
ferrare ibuoi eicavalli.
Gli isolati ruotavano attorno alla chiesa parrocchiale, nel cui piazzale si
svolgeva la vita comunitaria, collettiva, mentre il “vicinato” rompeva l’isola-
mento, molte volte apparente, nei recinti chiusi. E se pensiamo all’organiz-
zazione agricola, quale giunse fino al periodo dell’amministrazione piemon-
tese, scorgiamo un’intesa comunitaria che sorprende, in quanto il villaggio
era organizzato, come si è accennato, in forma autarchica, di autosufficienza

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e di difesa assieme, attraverso l’istituzione del vidazzone e del paberi/e. Si ha
anche notizia di una collaborazione edilizia, di mutua assistenza e collabo-
razione nell’innalzare le case.
Nella Marmilla la casa si eleva, in quanto lo consente il suolo di sedime
ed il materiale da costruzione (da rocce calcaree, marnose e basaltiche).
Come nel limitrofo Campidano, è frequente la soluzione con dopppia fila di
stanze, mentre i diversi moduli della lo/la conferiscono alla casa un clima
particolare. Nel Seicento fu influenzata da un’architettura colta, elaborata
nella spaziatura e nella decorazione. Nella vicina Trexenta, invece, si perdono
i valori ritmici del Campidano e della Marmilla, e la costruzione si fa meno
caratterizzata. Nei villaggi del Sárrabus alla foce del Flumendosa (Muravera,
San Vito e Villaputzu) il loggiato è talvolta doppio, servendo quello superi-
ore come disimpegno per la conservazione dei prodotti agricoli.
ATeulada, i lotti hanno il lato più lungo parallelo alla strada, con l’ingres-
so carraio che immette nel cortile rustico distinto dal portaletto che immette
nel piccolo giardino antistante la casa, che si svolge spesso con pianta ad L;
il forno, il pozzo e l’abbeveratorio sono di norma nel cortile rustico, che è
separato dal giardino da un incannucciato o da un basso muretto.
La casa di Cabras e dei villaggi dell’alto Oristanese si differenzia notevol-
mente rispetto a quella del limitrofo Campidano: ha il prospetto su una strada
e cortile retrostante, con passo carraio a un lato. Nel cortile sono tettoie rus-
tiche per gli animali e gli attrezzi da lavoro, il pozzo e il forno, appendice della
cucina. L’ingresso alla casa denuncia un asse di simmetria, rispettato solo al
pianterreno. L’ambiente caratteristico è la “sala”, vasta, centrale, acciottolata
nel mezzo, comunicante col cortile per mezzo d’un piccolo vano, detto picca.
Da una parte è la stanza per ricevere e la cucina, dall’altra due camere o due
alcove. Le costruzioni son anche qui in mattoni crudi, a solo pianterreno o
parzialmente sopraelevate in corrispondenza d’una delle ali che fiancheggiano
la sala. Il gioco volumetrico, frequente, caratterizza la strada. I prospetti sono
semplici, ma ben proporzionati e le piccole aperture sono contornate da mostre
in arenaria del Sinis, finemente chiaroscurate e decorate.
Una singolare appendice di Cabras è costituita dall’agglomerato attorno
alla chiesa ipogeica di San Salvatore, formato da casupole che vengono abi-
tate nei periodi dei lavori agricoli. Le casette, articolate in profondità, sono
dotate anche di cortiletto. E un villaggio temporaneo fra i più estesi, di origine
religiosa (le cumbessIas o muristenes sono tipiche dell’Isola): lo ricordiamo
perchè è dei più antichi, ma l’usanza di soggiornare durante i lavori agricoli in
campagna è estesa a diverse località dell’Isola, dotate di piccole case di cam-

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pagna, che servono anche per un soggiorno estivo–autunnale: come avviene
nell’agro sassarese, nel Bosano e nelle isole di San Pietro e di Sant’Antioco.
La casa in profondità del Montiferro non presenta spiccate qualità
architettoniche, all’infuori della caratteristica planimetria degli ambienti dis-
tribuiti in un lotto stretto e profondo, con cortile retrostante senza comuni-
cazione diretta con la strada: attraverso l’ingresso e la vasta cucina, su una
guida di pietre, passavano il cavallo e l’asino che stabulavano nel cortile. Le
pecore stanno negli ovili (incomincia a far capolino qui la pinnetta del pas-
tore) ed i buoi si tengono in recinti periferici all’abitato. Il pergolato d’uva è
un elemento comune a molte località dell’Isola, sia esso su strada o dalle
parte del cortile. E esterno, frequentissimo, nei villaggi del Montiferro e della
Planárgia ed ombreggia, in prossimità del portaletto d’ingresso, i montatoi,
che servono anche per la siesta.
Dopo la casa campidanese, per carattere e per la vastità dell’area in cui
si è sviluppata, segue in ordine d’interesse la casa montanara sviluppata in
altezza, dotata di ampi loggiati lignei. L’ascendenza di queste strutture è da
ascrivere ai secoli XIV–XV; l’uso dei ballatoi fu introdotto nell’Isola nelle
città di Cagliari e Sassari, dai Pisani.
I villaggi montanari hanno un’economia essenzialmente pastorale e, a
causa del nomadismo dei pastori, per buona parte dell’anno sono popolati da
donne, vecchi e bambini. Il villaggio è formato da strade anguste e tortuose
in pendenza, andato addensandosi per la saldatura di originari piccoli nuclei
staccati, detti “rioni”. La casa si proietta sulla strada, in cerca di sole e di luce;
attraverso le aperture e gli ampi ballatoi filtra la vita della comunità pastorale.
Il fenomeno della transumanza, attestato sin dal Quattrocento da documenti,
determinò una specie di matriarcato, una comunità composta prevalente-
mente da donne, che trovano nella strada e nelle logge, più che nella casa
chiusa, compagnia reciproca, aiuto e difesa.
La presenza della balconata non esclude tuttavia il cortile, pur minimo,
per la catasta della legna, la stalla, gli alveari. A pianterreno era un portico,
detto Iósgia, per il riparo delle capre e dei buoi, elemento che si è trasforma-
to successivamente in un ambiente chiuso; adiacente sta il fándagu, ambiente
adibito a magazzino, stalla per il maiale, ecc. Mentre nelle zone collinari, la
scala è esterna e conferisce sapore alla dimora, in montagna è interna. Al
piano superiore le camere si aprono nei ballatoi: stanze sono adibite alla con-
servazione dei formaggi e dei latticini, disposti su larghe tavole; la cucina,
che è spesso al piano superiore (in comunicazione con la Iósgia mediante
scale), oltre al foghile, il focolare tradizionale, ha il camino, con sedili ai lati.

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Sopra il focolare è sospeso un graticcio di legno, ad altezza d’uomo, per affu-
micare il formaggio. Alle pareti sono in mostra padelle di rame, graticole,
spiedi, paioli, tripodi, canestri e corbe di giunco e di asfodelo, recipienti ed
oggetti di sughero e di cuoio, bisacce e fucili.
In alcuni villaggi, come ad esempio ad Aritzo, il forno aggetta sulla bal-
conata e ha la bocca nella stessa cucina, che talvolta (nel Nuorese) è enorme,
poichè in essa si riceve, si pranza e vi dormono i servi. Però è diffusa anche
la sala, ove campeggia un grande canterano con in alto lo specchio, e molte
sedie attorno. Le case dei nobili e dei maggiorenti hanno portoncino ad arco,
logge in muratura, finestra a mezzaluna.
Che i ballatoi lignei abbiano avuto origine colta, cittadina, è comprova-
to dal modulo dei montanti, dalla finezza d’intaglio e di tornio della colon-
nine. Come la loggia campidanese caratterizza architettonicamente la dimo-
ra, così le balconate lignee, ad uno o più piani, caratterizzano la casa monta-
nara. Le ombre violente sulla massiccia zona basamentale e i chiaroscuri
delle logge modulano le facciate disposte a quinte e, pertanto, il villaggio si
presenta gaio e vario. Note di colore costituiscono le mostre vivaci dipinte
attorno alle aperture (bianco, celestino) ed i vasi di fiori sui ballatoi. I balla-
toi sono quasi scomparsi in questi ultimi anni.
Ai tipi fondamentali esaminati convergono sottotipi e s’intrecciano sche-
mi e modi con una varietà che veramente sorprende: ogni subregione storico-
geografica si può dire che abbia adottato un particolare tipo di dimora.
Accenniamo brevemente alle soluzioni più salienti. La casa ogliastrina, di
derivazione montanara, è sviluppata in altezza, improntata a grande semplic-
ità, perchè priva di sporti e di balconate.
Nel Nuorese e nelle Baronie, in aree circoscritte, rimangono ancora
esemplari di corti collettive. I quartieri bassi della vecchia Sassari, che erano
abitati da contadini, erano strutturati in corti o campi all’uso toscano: nell’in-
tricata maglia urbanistica, si leggono ancor oggi quegli spazi comuni. Nella
Planárgia, la tettatura delle case si distingue da tutte le altre zone dell’inter-
no: i tetti affiancati costituiscono un’eccezione per le case rustiche, qui evi-
dentemente influenzate dal linguaggio marinaro della vicina Bosa.
La forma del palattu, di origine cittadina, tipica del Meilogu e del
Sassarese, si incontra un pò in tutta l’Isola, perchè nei secoli a noi vicini si è
andata generalizzando: è la casa del contadino abbiente, che vuole abbinare
le comodità “cittadine” con le necessità della casa del contado; essa è sempre
dotata di corte retrostante piuttosto vasta. Consta di due ambienti a pianter-
reno e di due ambienti al piano superiore, con scala laterale interna, ma è

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molto frequente anche la composizione simmetrica, con scala centrale nel-
l’ingresso, e due ambienti per lato in entrambi i piani. Da modello han servi-
to le case dei nobili e, salvo per il vasto ambiente d’ingresso, ove si svolge
spesso la scala a tenaglia, per la decorazione attorno alle aperture e la presen-
za di qualche balcone, non presenta qualità architettoniche di rilievo. Di
queste case esistono nel settentrione dell’Isola esemplari del XVIII secolo, e
pertanto, l’introduzione non è così recente come potrebbe sembrare. La stra-
da principale dei villaggi, nell’Ottocento, si andò contornando di case a due
piani, anche nel Campidano, ove per l’attrazione esercitata dall’edilizia della
città di Cagliari, si sostituiscono ai lati dello “stradone” i recinti chiusi.
Come si è accennato, nella valle del Tirso convergono i vari tipi e trovi-
amo un’elaborazione più raffinata nei loggiati (a filo strada) e attorno alle
aperture, dovuta alla presenza di buoni lapicidi, che si trasmettevano il
mestiere da padre in figlio. Il più felice incontro fra la casa di pianura e quel-
la di montagna avviene in Samugheo, ove troviamo aggraziati portali che
immettono nelle corti antistanti, e la dimora, interna, distribuita su due piani,
si arricchisce di balconi e di gentili loggette in muratura, dai quali lo sguardo
raggiunge la strada.
Col muratore collaborano sempre il falegname e il fabbro. Si conservano
ancora graziosi portaletti e finestre; dappertutto, ogni villaggio vanta tipi par-
ticolari di maniglie, di picchiotti, di serrature, di reggipertiche, recanti sim-
boli religiosi e magici: assieme alla croce compaiono il cuore e l’uccello, bat-
tuti sempre con tecnica eccellente.

Abbiamo accennato ai centri temporanei attorno ai celebri santuari, dove


si svolgeva più intensamente per pochi giorni all’anno la vita comunitaria,
quando la popolazione del villaggio si recava alle sagre. Accanto allo svilup-
po dello casa rustica occorre considerare anche molte chiese sorte, architet-
ture senza architetti, in tutto il territorio isolano, dovute all’estro di campi-
mastri. Case e chiese costituiscono gli unici temi architettonici sviluppati
nell’Isola, si può dire, fino ai nostri giorni: sia in forma colta che rustica.
Oltre certi oratori nei centri abitati, che più o meno mutuano schemi e motivi
dalle chiese maggiori, interessano le piccole chiese sparse nelle campagne.
Senza un preciso disegno, esse sono nate per virtù di ricordi, di interpre-
tazioni a distanza e, molte volte, con purità di stile.
Le forme icnografiche sono assai semplici: lo schema più frequente è
quello a una sola navata, dotata o no di abside quadrata o raramente semicir-

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colare. La copertura è in genere risolta a tetto, con travatura a vista e tegole
a coppo; più comunemente, gli arcarecci poggiano su diaframmi arcuati, altre
volte su capriate. Nei rifacimenti e nelle costruzioni sei-settecentesche, è più
usata la volta, a botte o a crociera all’uso aragonese, con manto esterno in
cocciopisto; i coppi, quando vi sono, ricalcano la curva estradossale. La volta
è denunciata a distanza da contrafforti massicci, dai più svariati profili. La
zona presbiteriale è, a seconda dei casi, più alta o più bassa della navata: l’ar-
chitettura talvolta è costituita dal, gioco di questi semplici volumi. Non è rara
la cupola ethisferica o a padiglione, di fogge singolari, col manto di coppi.
Nei santuari e nelle chiesette presso cui si svolgono le sagre, specie in
quelle delle solatie pianure, è presente un portichetto anteriore. Il loggiato
può essere ricavato su un lato o sui due fianchi, o anche tutt’attorno. I pilas-
tri che sorreggono le travi di legno e i piedritti degli archi sono quasi sempre
massicci, ma disposti con bei ritmi.
Il fascino esteriore deriva loro in primo luogo dall’aderenza al paesag-
gio; la limpidezza del cielo e l’incidenza dei raggi solari accentuano la bellez-
za agreste, che è data soprattutto dalla essenzialità delle strutture, dalla purez-
za dei volumi e dei particolari, delle decorazioni ingenue. Le loro forme
acerbe hanno un sapore arcaico e allo stesso tempo moderno.
Sia all’interno che all’esterno, i muri sono spesso irrorati di latte di calce.
Durante i giorni di sagra, si appendevano alle pareti, in bell’ordine, gli sten-
dardi, che i cavalieri recavano in processione dai villaggi. \1î si intrecciano
ancora festoni di mirto e si cospargono di menta e d’altre erbe aromatiche.
Caratteristiche erano le croci nelle piazzette dei villaggi (specie
dell’Oristanese) e nei sagrati delle chiese.
Quel contrasto di rude e di gentile che si avverte in ogni dimora sarda, si
ritrova, con accenti più spiccati, in queste chiese rustiche: quanto di meglio
l’anima pura dei maestri campagnoli ha saputo esprimere, utilizzando pochi
suggerimenti di provenienza colta.

FIGURE 1–10

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1. Assémini, portale d’ingresso a un cortile
2. Assémini, cortile fiorito
3. Assémini, cavallucci di terracotta sul crinale d’un tetto
4. Villasor, pozzo davanti a un loggiato
5. Villasor, cortile fiorito
6. samassi, casa con loggiato
7. Samassi, interno di una “lolla”
8. Abbasanta, antica casa con loggiato su strada
9. Ingresso a una casa montanara
10. Serramanna, chiesa campestre
IL LEGNO E L’INTAGLIO
Un cofanetto in bronzo di età nuragica, rinvenuto presso il nuraghe
Lunghenia di Oschiri ed ora al Museo Archeologico di Cagliari, dotato di
manico e poggiante in modo curioso su due coppie di ruote, riveste partico-
lare interesse, perchè quasi certamente riproduce, in piccola scala, l’arca di
legno tradizionale. Da questo bronzetto si può dedurre, appunto, che il pro-
totipo di essa risale all’età nuragica. Apribile dall’alto, le quattro facce del
cofanetto sono scompartite da risalti orizzontali, che ricordano la struttura
lignea della cassa. L’elaborato ed elegante oggetto, d’altra parte, attesta il
grado raggiunto dall’artigianato, per cui non ci dobbiamo meravigliare affat-
to che in quei lontani tempi fosse stato già creato il mobile domestico anco-
ra ricercato. Sono stati fatti accostamenti con lo stile bizantino provinciale ed
in particolare col sarcofago di Teodosia a Pavia (C. Albizzati). Già nel sec.
XV si distingueva la cassa. sardesca dalle altre; in documenti si parla di cassa
piana, cioè liscia, il che implica che ce ne fossero intagliate. Questa sua anti-
chità è convalidata inoltre dal fatto che tutti i Sardi l’amano più d’ogni altro
mobile di un amore che si potrebbe definire di natura atavica. In ogni casa,
infatti, c’era e c’è ancora almeno un esemplare di cassa nuziale o di piccola
cassa da viaggio.
Data la grande richiesta, col tempo si giunse ad una sorta di industrializ-
zazione delle fasce decorative: i mercanti che percorrevano coi loro nervosi
cavallini tutta l’Isola, vendevano a palmi, della lunghezza richiesta, le strisce di
castagno intagliato dagli artigiani di montagna, strisce che ripetevano motivi
geometrici, e che i falegnami applicavano poi ai paliotti dei cassoni. Il motivo
decorativo, senza principio e senza fine, in opera non risultava mai ben inseri-
to, sia in senso orizzontale che in senso verticale: gli attacchi ortogonali delle
strisce che girano attorno al campo centrale risultano infatti quasi sempre
imperfetti. Ed anche ciò contribuisce a conferire carattere arcaico alla cassa.
L’arca, sempre apribile dall’alto, sollevata dal suolo a mezzo d’una cop-
pia di supporti, col paliotto decorato e le altre facce lisce, serviva per riporvi
un pò di tutto: biancheria, indumenti, coperte ed anche oggetti preziosi.

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Costruita quasi sempre con legno di castagno (Santulussùrgiu, Aritzo,
Désulo, ecc.) oppure in noce ed anche in rovere, era il mobile tipico della casa
ed anche da viaggio (quando si andava alla sagra). Racchiudeva tutta la ric-
chezza della famiglia, pronta anche per spostamenti. Alta, di tipo barbaricino
o piuttosto bassa e lunga, del tipo di Santulussùrgiu, le due forme però
coesistono nelle stesse aree. Il legno era tenuto al naturale o veniva dipinto in
rosso col sangue d’agnello, salvo il campo centrale, dipinto in color verdolino
o turchino con succhi vegetali. Con lo stare molto tempo in cucina, nella
“stanza del fumo”, essa si anneriva. Nacque così, in tempi moderni, l’uso di
dipingerla di nero. Sobria, essenziale, è la ferramenta impiegata. In origine, il
paliotto doveva essere certamente liscio, come le altre facce, poi venne den-
samente decorato da intagli, incavi verticali e semicerchi includenti palmette,
anche su due file, ad elementi sfalsati. Nel campo centrale sono incisi sim-
boli, in genere il sole, contornato da clessidre, uccelli e motivi floreali.
Quando è intesamente decorata la fascia attorno ai bordi, lo specchio cen-
trale è tenuto liscio o viene diviso in due campi. Nel tipo cosidetto di
Santulussùrgiu, gli appoggi sono a foggia di zampa di leone, le modanature di
base sono grosse e alle due estremità sono mensole di forte rilievo e intaglio.
Di dimensioni diverse, i cassoni possono essere alti e stretti, adatti
soprattutto per contenere indumenti, o di forma bassa e allungata. Piccole
casse sono decorate con lievi tocchi d’intaglio.
Il cassone nuziale è l’unico mobile che abbia avuto diffusione in tutta
l’area isolana e, come si è detto, è ancora ricercato sia di nuova fattura che
come pezzo di antiquariato. Può ingannare il modo con cui è fatto l’intaglio,
nel senso che il cassone ritenuto più antico, invece non lo sia: l’artefice ha
continuato con modi medievali, anche quando dall’esterno provenivano soffi
di cultura rinascimentale e barocca.
Nell’Isola non ci sono state scuole e per il fatto di essere stati gli artefici iso-
lati, lontani dai grandi centri di produzione, i modi decorativi sono rimasti bizan-
tineggianti, della tipica scultura a nastro, e il trattamento a punta di coltello, del-
l’arabesco. I monaci, che pur stavano in numerosi monasteri, non dovettero dare
alcun contributo, occupati com’erano in altre attività, soprattutto nell’agricoltura.
I Sardi non videro mai le realizzazioni rinascimentali e barocche sia dell’architet-
tura che della ebanisteria e le sculture conosciute erano solo quelle minuscole dei
capitelli e delle decorazioni nelle chiese romaniche. Sono sempre spartiti e deco-
razioni elementari, ingenue, che accentuano il carattere di arcaicità. Nè seguirono
i suggerimenti gotici che invece si leggono nella ebanisteria delle altre regioni,
anche perchè quello isolano è un goticoaragonese tutto particolare.

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Pur con influenze di modi esterni italiani e spagnoli, il cassone cosidetto
di Santulussùrgiu mantiene nell’intaglio i caratteri regionali. Anche in questo
mobile, l’area barbaricina si è mantenuta incontaminata, ovverosia medievale:
per i motivi tradizionali e per i simboli, per i partiti decorativi e la forma del-
l’intaglio. Anche in esemplari recenti, privi di modanature aggettanti, la deco-
razione si mantiene planare, prevalentemente floreale, con simboli e uccelli
stilizzati. Modi settecenteschi sono talmente fusi con motivi isolani, che diffi-
cilmente si avvertono. L’originalità della cassa si completa col tessuto vivace
che ricopre il coperchio: l’intagliatore e la tessitrice ricorrono agli stessi sim-
boli, ma il colore denso del copricassa smorza la severità dell’arca.
Questo mobile, comune a molte culture, in Sardegna mantiene carattere
di severa originalità: è il mobile autenticamente sardo, e forse anche l’unico.
In alcuni centri (Pattada, Buddusò, ecc.) si trovano, inoltre, esemplari di
casse barocche di derivazione spagnola; recano il paliotto liscio e quattro
colonnine tornite ricoprono gli spigoli.

Altro supporto del cosidetto “tappeto” era il letto, di legno, ma le cui


strutture quasi non si vedevano, celate da coperte, trifle, merletti (tutt’attorno
correva il “giraletto”), velari. Era originale quello del Capo di Sopra, che per
ragioni igieniche, veniva sollevato molto da terra, tanto che talvolta era nec-
essario ricorrere alla scaletta.
La maggior parte degli uomini (giovani e servitù) dormivano però su
stuoie di sala, disposti a raggera con i piedi volti al foghile, il focolare; dopo
il sonno, le stuoie venivano arrotolate, per guadagnar spazio.
Nell’Ottocento si andarono sempre più diffondendo i letti di ferro, aven-
ti le testate riccamente docorate con volute dipinte: a una o a due piazze, era
frequente anche quello cosidetto “francese”, a una piazza e mezza. Dalle città
andarono diffondendosi nei centri dell’interno.
Accanto alletto, si trovava la piccola culla, intagliata.
L’arredo della casa era sobrio per ogni strato sociale: si trattava di
possedere un maggior o minor numero di cassoni, diletti, di sedie, di tavoli e
di canterani; di avere batterie più o meno numerose di cucina: pentole, tega-
mi, graticole, taglieri, schidioni, e la stanza del fieno più o meno fornita di
cestini e di corbe.
Sedie e panche svolgono quasi gli stessi motivi del cassone, ed altrettan-
to dicasi dei rari esemplari di tavoli elaborati. Il tavolo, per la lavorazione del
pane e per desinare, era in genere privo di decorazione d’intaglio; un tavolo

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piccolo e basso serviva per il governo della cucina e per pranzare, chiamato
in Campidano alla spagnola mesi/la. Il tavolo aveva il piano con sporgenza
pronunciata; quello intagliato, di derivazione colta, aveva mensole e deco-
razioni di origine chiesastica. Lo accompagnavano sedie dallo schienale scol-
pito, di color rosso lacca o blu o verde, e con dorature, di introduzione spag-
nola.
La sedia che accompagna la mesi/la, che si fabbrica ancora, bassa, è di
legno bianco (una volta era di legno di fico), decorato col for del melograno,
e impagliata (fattura di Assémini).
Negli altipiani centrali e nel Sassarese, si fanno ancora sgabelli assai
molleggiati e caratteristici, con tronchi di ferula disposti alternativamente per
lato.
Molto diffuse erano le sedie del tipo cappuccinesco, di origine cittadina.

Altre sedie, di derivazione toscana, si trovano soprattutto nelle chiese


della Barbágia. Ma poco resta della suppellettile presbiteriale, già povera
all’origine. Nelle chiese di città, domina un eccletismo d’importazione.
qualche reminiscenza classica assieme ad elementi barocchi di derivazione
spagnola. Sedie e panche possono avere il fondo in legno (più frequente-
mente) oppure impagliato, le spalliere formate da elementi torniti e, ai
fianchi, i poggia–cuscini.
Gli stalli corali attingono all’arte colta, raramente a quella popolare: sono
i prelati che danno i suggerimenti e forse disegni ad ebanisti ed intagliatori;
qualche volta, assieme al monogramma di Cristo, ricompaiono i simboli
tradizionali, i soliti rosoni e le solite palmette. I begli stalli corali d’impronta
artigianesca che esistevano nella chiesa di San Domenico di Cagliari sono
andati distrutti durante i bombardamenti del 1943. Ne possiede ancora
qualche centro, come Désulo, Osilo, Ploaghe e qualche santuario di cam-
pagna, come quello di Bonu Ighinu, presso Mara. Bellissimo è il pulpito
intagliato riccamente della chiesa parrocchiale di Désulo.
L’attività degli intagliatori fu notevole ed eccellente nel Seicento e nel
Settecento, a giudicare dai bellissimi altari lignei intagliati e dorati, specie del
Cagliaritano e del Sassarese, e dai pulpiti, anch’essi intagliati e dorati.
Gli intagliatori accudivano anche alla fattura dei portali e dei portaletti
delle case e delle chiese; alle colonnine sia delle balaustrate dei presbiteri che
dei ballatoi delle case.
Si ribadisce, però, che manufatti barbaricini risalenti al più alla metà del

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secolo XVIII possono apparire di fattura molto più antica, per via della con-
servazione del modo di scolpire e incidere tutto medievale.
La modestia dei Sardi era un modo costante di vita, chiaramente rispec-
chiato dalla sobrietà dell’arredo domestico e chiesastico.

Tornando all’arredamento della casa, non si può tacere di accennare a un fre-


quentissimo mobile pensile, importato, su parastággiu (campidanese, dal
catalano parastatge, scaffale), decorato, come i ripiani del camino e degli
armadietti a muro, – numerosi nelle case sarde – con carta colorata e ritagli-
ata a disegni fantasiosi, che serve da mostra di piatti dipinti.
Funzione parimenti decorativa più che pratica ha l’immancabile spec-
chio, collocato molto in alto, inclinato (in montagna, su in alto al gran “can-
terano di Aritzo”); accanto ad esso, una volta pendevano un candido lino e un
pittoresco bacile.
In casa non mancavano inai alcune macchine, quasi immobili per desti-
nazione: in un angolo del cortile o sul tratto di strada antistante, il carro a
buoi, erede dell’antico plaustro; sotto la loggia, il monumentale torchio per la
pigiatura dell’uva; la mola, azionata dal somarello nella, cucina o in un ambi-
ente particolare a questa attiguo, ed infine il telaio o i telai per la tessitura
nella stanza che fungeva da soggiorno o sotto la loggia. Veniva trasportato tri-
onfalmente nella casa degli sposi. Il carro richiedeva l’opera di un artigiano
specialista, il carpentiere: essenzialmente strutturale, senza alcuna deco-
razione, solenne come un monumento.
Parimenti molto antica, risalente al mondo greco–romano, era la mola,
che non mancava mai. E scomparsa definitivamente, allorchè la legge
impose, nel 1948, di non macinare in casa.
Il telaio poteva avere le piantane e le congiunture orizzontali intagliate:
le prime terminanti di solito con un simbolo, in genere l’uccello del buon
augurio. Gli intagli lo alleggerivano notevolmente.
Complementari al telaio erano i naspi, le rocche, le spole. Nella loro
lavorazione l’artigiano metteva tutto il suo impegno e la sua abilità per offrire
alle gentili tessitrici strumenti personali. Si trovano nelle collezioni e ancora
in molte case, mille motivi di conocchie, di naspi, di fusi e di spole. Assieme
a questi oggetti, si creavano portafusi pensili e supporti per spolette, portafer-
ri da calza, porta–rocche.
Infine, altri manufatti di legno intagliato sono taglieri, vassoi, mestoli,
forchette e cucchiai, bicchieri, reggisettaccio, graziosissimi stampi da pane in

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gran varietà, e sigilli. Recano motivi floreali e vari, come il sole, le stelle, la
croce, colombe e cavalieri.

Il pastore, nella solitudine e nelle lunghe ore di attesa, diventa un eccel-


lente intagliatore: tronchi di rovere, di pero e di altre essenze vengono
aggrediti con l’affilatissimo coltello. Una materia preferita dopo il legno è il
corno: sono nate così le tabacchiere, le fiaschette, i porta-polvere da sparo, i
bicchieri, le pipe, gli uncinetti per lavori donneschi.
La decorazione del corno si scosta sensibilmente dai motivi fin ora ricor-
dati degli altri manufatti; intanto appare, con notevole frequenza, la figura
umana assieme a figure di animali: molto spesso motivi di derivazione
chiesastica. Sovente sono firmati e recano la data.
Bellissimi manici di coltello sono ancora fatti di corno di montone
(Pattada, Santulussùrgiu, Désulo, Dorgali, ecc.).
Una ricca collezione di corni lavorati trovasi nella Sezione etnografica
del Museo Nazionale di Sassari. Naturalmente, non mancano i soliti motivi
floreali, però qui sono più sciolti, meno stilizzati, meno geometrici. Frequente
il crocifisso, ben inquadrato, contornato dal sole e dalla luna.
Altre volte, la materia impiegata è l’avorio (tabacchiere), con trionfo dei
santi più popolari, come San Gavino.
La decorazione è sempre densa, di carattere nastriforme; qualche volta,
le raffigurazioni dei santi sono inquadrate in uno spartito architettonico. Fra
i doni nuziali ricorre il motivo decorativo della coppia (gli sposi). Sono fre-
quenti figure di vescovi, di angeli e demoni, nonchè la Madonna dei Sette
Dolori, traffitta dalle spade.

Dai tempi nuragici, i Sardi si può dire che non abbiano più scolpito a
tutto tondo, anche se hanno sempre intagliato, graffito, inciso. Alcuni si sono
dedicati a scolpire simulacri per le chiese e i lari domestici, ed in Barbagia
(Nuoro, Ottana, Mamoiada), maschere carnevalesche.
I simulacri di legno di pero ritraggono con ingenuità le sembianze
tradizionali dei santi. Nel Settecento è stato famoso un artista–artigiano nati-
vo di Senorbì, Giovanni Antonio Lonis, che ha riempito le chiese della
Trexenta di simulacri e di crocifissi.
Qualche pastore-artigiano sembra attingere da sogni ancestrali forme
fantastiche, che non trovano applicazione nella decorazione di oggetti utili, ai

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quali si dedicano invece altri (vassoi, saliere, taglieri, ecc.). Essi riallacciano
allo spirito dei creatori delle antiche maschere barbaricine, che si producono
ancor oggi, in color legno naturale o dipinte di nero o, parzialmente, di rosso
e di turchino e che sembrano. ricordare una piccola scultura sotto un archet-
to pensile della chiesa di San Lorenzo di Silanus, del XII secolo.
I lavori di intaglio in legno e in corno sono tuttora coltivati egregiamente
dagli artigiani.

FIGURE 11–30

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11. Cassone nuziale, particolare
12. Cassone nuziale, particolare
13. Cassone nuziale
14. Cassone nuziale, particolare
15. Sedia impagliata
16. Mostra di piatti
17. sedie di Assémini
18. Mastello in ginepro
18. Cucchiaio e forchetta in legno
20. Tagliere intagliato
21. Maschera
22. Corno intagliato
23. Scatole in corno con coperchio
24. Bicchiere in corno intagliato
25. Bicchiere in corno
26. Fiaschetta per polvere da sparo, in corno
27. Zucca intagliata
28. Zucca intagliata
29. Fermacarte in steatite
30. Fermacarte in steatite
I METALLI
Il fabbro ferraio non mancava, fino a tempi vicinissimi, in nessun villag-
gio: sua mansione principale era quella del maniscalco, di ferrare, cioè, cav-
alli, asini e buoi, tenuti stretti in monumentali, caratteristici castelli.
Alcuni centri erano e sono tuttora famosi per i morsi di bardatura di cav-
allo e per gli speroni (Abbasanta, Santulussùrgiu, Gavoi).
Ma, oltre a queste fatiche, il fabbro era un collaboratore domestico di
prima grandezza, alla pari del muratore e del falegname. Fabbricava catenac-
ci, fantasiose copriserrature a forma di mostricciatoli, di animali, di cuore con
la croce, maniglie con la placca traforata, battenti di porta a forma di animali
e simboli vari.
In ogni cucina facevano mostra di sè, a guisa di trofei, numerosi schid-
ioni di ogni grandezza, ben allineati, appesi a parete o disposti in caratteristi-
ci portaschidioni. Dove si estrinsecava più la fantasia dell’artefice erano gli
alari per il caminetto, i girarrosti, nonchè le branchie e le lucerne, spesso di
lamiera traforata col simbolo della croce. Altro allineamento era costituito dai
treppiedi, di diversa grandezza. Poi, c’erano le graticole girevoli, le pinze, le
padelle per le caldarroste e piccoli oggetti, come le rotelline dentate, per la
confezione del pane e dei dolci. Dall’Ottocento, il fabbro prese a fabbricare
letti, con le testate elaborate, ricche di volute.
Le due città di Cagliari e di Sassari, soprattutto la prima, sono stati i cen-
tri principali del ferrobattuto. Restano ancora numerose ringhiere di balconi
barocchi e di scale, arreccias, grate di finestre (Campidano), roste, cancelli,
supporti per carrucola soprastanti i pozzi. Si ricordano i preziosi ferrobattuti
della chiesa di San Michele in Cagliari, la cancellata della chiesa di S.
Giorgio di Suelli e una preziosa lampada a forma di cavalletta, nella stessa.
Fra i migliori fabbri sassaresi del Settecento è ricordato il maestro Antonio
Castiglia, che trasmise ai suoi discendenti, fino ai nostri giorni, l’arte del bat-
tiferro.
Il fabbro era spesso anche armaiolo. I coltelli a serramanico richiedono
particolare attenzione, sia per la tempera delle lame che per la preparazione

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del manico, fatto di corna di montone, dopo averlo scelto accuratamente
(ricercato è il corno completamente nero, senza venature). Alcuni centri sono
rimasti famosi: Pattada (si chiamano infatti, genericamente, “coltelli di
Pattada”), Santulussùrgiu, Dorgali, Désulo, Gùspini), dove si fabbricano
anche lucenti forbici d’acciaio per la tosatura delle pecore.
Nei coltelli a serramanico, il manico può essere liscio o lavorato minuta-
mente.
Ogni casa, nell’Isola, vantava e andava gelosa delle armi da caccia, lavo-
rate con finissimo gusto decorativo. Il calcio, se rivestito in avorio, veniva
scolpito; se invece era ricoperto di lama di acciaio o d’argento, veniva cesel-
lato. Preziosi erano i complicati meccanismi.
Fra fucili, sciabole, pugnali, coltelli e relativo armamentario, che costi-
tuiscono numerose collezioni private, è difficile poter stabilire quali siano di
genuina importanza regionale. Sono conservati antichi archibugi dei calci
arabescati con una decorazione densa (intagli in legno, ottone e argento),
minuta. Se non originali essi stessi, sono certamente copie di modelli africani
o moreschi, introdotti durante la dominazione spagnola.
Le armi sarde erano caratterizzate dalla leggerezza. Gli archibugieri
richiedevano le parti grezze dalle fabbriche continentali della Val Trompia, le
montavano e le incidevano.
Centri rinomati di produzione di archibugi erano Tempio e Dorgali; il
primo anche di armi bianche.

Accanto agli oggetti in ferro battuto, nella cucina della casa tradizionale
c’era la mostra del rame sbalzato. Incontrastati maestri specialisti nella lavo-
razione del rame erano e sono ancora i calderai di Isili, per tradizione che si
perde nei secoli (e una volta, anche Gavoi). Non a caso, questi centri operosi
sono prossimi alla miniera di rame di Funtana Raminosa, conosciuta sin dalla
più remota antichità. Gli isilesi trasportano tuttora i loro manufatti in ogni
angolo dell’Isola. La tradizione dei ramai pare ascenda a fonti zigane.
A Sassari, c’e’ ancora la via Ramai, dove anticamente avevano bottega
questi artigiani.
I ramai di Isili fabbricano caldaie di ogni dimensione e un tipo standard
di braciere con la bordatura e la paletta di ottone, che è una lega inossidabile
di rame e di zinco. Il colore dalla tonalità calda del rame battuto, unito alle
forme semplicissime, conferisce pregio a questi manufatti, ancora molto
richiesti. Ma dove i ramai eccellevano era nella costruzione di forme per la

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confezione degli sformati e dei gatò, di disegni fantasiosi, sfaccettati come
cristalli.

L’arte del lattoniere, con l’avanzare del progresso, è stata fra le prime ad
essere sacrificata. Fino a qualche decennio addietro, in ogni paese c’era
almeno un artigiano della latta, oggi il lattoniere è quasi scomparso, con l’im-
missione nel mercato dei recipienti e altri oggetti di materie plastiche, di allu-
minio e altri metalli.
Tutto il giorno la caffettiera giaceva presso il focolare, per trovarsi a por-
tata di mano e poter così offrire la bevanda calda a chiunque entrasse in casa.
La caffettiera poteva essere anche di terracotta, ma in genere, le caffettiere,
con o senza filtro, erano di competenza del lattoniere, d’antica data (perchè il
caffè venne introdotto presto in Sardegna), il quale ne fabbricava di forme
bellissime. Altrettanto varie e sithpatiche erano le forme dei bidoni, degli
oleatori, degli innaffiatori, delle padelle, dei tegami, delle lucerne e delle
lanterne ad olio che venivano appese sotto ai carri. L’artefice rendeva il suo
lavoro sempre più vario, apportando agli oggetti continue varianti, soprattut-
to agli oggetti più piccoli.

FIGURE 31–36

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31. Cavallino poggia spiedo, graticola, spiedo, muflone
32. Bue in ferro
33. Muflone in ferro
34. Capra in ferro
35. Cavallino in ferro
36. Isili, rami
LA CESTINERIA
Visitando il Museo del Cairo o rovistando fra collezioni di reperti delle
civiltà precolombiane, sorprende il constatare che le forme di antichissimi
cestini sono identiche, anche per dimensioni, a quelle che si confezionano
ancora a Ollolai, in Barbágia, e a San Vero Milis, nel Campidano Maggiore.
Allorchè il norvegese Thor Heyerdahl studiava le antiche imbarcazioni
di vimini per tentare l’attraversamento dell’Atlantico (avvenuto nel 1970), si
recò allo stagno di Cabras, nell’Oristanese, per osservare isfassonis, le imbar-
cazioni fatte di piante palustri, che si spingono con una pertica, simili a quelle
che solcavano le acque del Nilo, nell’antico Egitto, ancora usate dai pescatori
dello “stagno”.
Sia che trattasi di scambi avvenuti nella più remota antichità, nel bacino
del Mediterraneo e attraverso l’Atlantico, o dovute a fenomeni di convergen-
za, le forme della cestineria tradizionale isolana ripetono quelle di antichissi-
mi modelli. Un bronzetto nuragico, rinvenuto nel territorio di Villasor e ora
al Museo Archeologico di Cagliari, raffigura chiaramente una donna che reca
sul capo una cesta, sintetizzata da un cordone svolto a spirale, svasata. Altri
bronzetti riproducono forme di corbe e di pissidi, ispirati all’artigianato vimi-
neo; la decorazione dei vasi è infatti a cordoni concentrici sovrapposti, sim-
ulanti cioè la tessitura del giunco e dell’asfodelo; uno in modo particolare ha
una forma interessante di cestino, munito anche di coperchio.
Non vale la pena di indagare a lungo se sia nato prima il cestino di vimi-
ni o il vaso di argilla. Certo, si è portati a credere che sia nato prima il cesti-
no, visto che la sua confezione risulta più semplice di quella del vaso, e che la
spirale è uno dei motivi che ha colpito per primo l’uomo. Il fatto che non siano
giunti fino a noi frammenti di cestini appartenenti ad antiche culture, mentre i
musei di tutto il mondo sono colmi di cocci, non implica affatto attribuire la
priorità all’attività figulina; se mai, riscontriamo impressi nell’argilla dei vasi
motivi propri della cestineria, la spirale appunto, poichè il vaso veniva sago-
mato su un canestro di vimini, come un rudimentale tornio (altre volte veniva
adoperato un pannello di canna tessuta, come si usa fare ancor oggi).

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Canestri e vasi, nelle loro molteplici forme per i diversi usi domestici,
man mano che crescevano le esigenze – pratiche ed estetiche – hanno costi-
tuito assieme il primo arredo domestico.
Non si può fare una distinzione fra forme semplicemente funzionali e
forme decorate, rispondendo esse sempre in primo luogo all’uso pratico, ma
contemporaneamente pensando alla loro grazia: sono forme perfezionate nel
tempo, lentamente, e poi cristallizzatesi. Se ancor oggi ci piacciono i cestini
di Ollolai, privi assolutamente di decorazione, è che rispondono al nostro
gusto di perfezione essenziale; la modernità, cioè, è da intendersi un’as-
trazione fuori del tempo, è quasi sinonimo di universalità.
Se nei musei sardi troviamo forme assai varie di manufatti ceramici, con
o senza decorazione, possiamo immaginare che altrettanto sia accaduto per la
cestineria. Le forme elaborate della ceramica inducono a pensare che sin
dalla più remota antichità anche la cestineria fosse dotata d’un particolare
repertorio decorativo.

Quali sono state, dunque, le esigenze e quali le forme che esse hanno
determinato e che sono giunte fino a noi? In primo luogo, i recipienti per dif-
ferenti contenuti, servivano per il grano e le sue trasformazioni, la farina, la
pasta, il pane. Dalla Ióscia od órriu, il grande recipiente cilindrico per la con-
servazione del grano (e di cereali in genere), si passa al piccolo canestro, piat-
to (pobIna, camp.) per purgano, al canestro più ampio e al crivello per
vagliare la farina e al canestro ancor più grande per le forme di pane,
anch’esse più o meno elaborate. Poi, cestini per la frutta, fresca e secca, e per
la biancheria, per il ricamo.
Le forme sono in funzione anche della materia, sempre umile, a dispo-
sizione. Riscontriamo forme simili in centri di area diversa che impiegano lo
stesso materiale. Forme più propriamente regionali sono quelle del centro
dell’Isola: l’asfodelo è impiegato, infatti, a Ollolai e Olzai (Barbagia di
Ollolai) e a Montresta, FlussIo e Tinnura (Planàrgia), mentre il giunco e la
paglia di grano sono impiegati a San Vero Milis (Campidano Maggiore) e a
Sinnai (Campidano di Cagliari), e la palma nana è impiegata a Castelsardo e
Tergu (Ampurias), a Sorso e Sénnori (Romangia).
I cestini di vimini (in genere, salice od olivastro) e canna spaccata sono
invece comuni a moltissimi centri dell’Isola e le forme non si scostano molto
l’una dall’altra. Questi, a differenza degli altri cestini confezionati da donne
per essere usati da donne, vengono di norma confezionati da uomini, conta-

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dini o pastori e adoperati, appunto, per usi agricoli e pastorali. Fra le materie,
l’asfodelo richiede fatiche maggiori; il taglio a strisce si effettua a giugno; le
quali strisce si stendono ad essicare al sole, in strada, nello spazio fron-
teggiante le case (quasi tutte le case di Tinnura e di Flussio). Dopo dissecate,
vengono selezionate a seconda della tonalità, che varia dal giallo al bruno,
pronte per essere intrecciate secondo la spirale delle forme ed il repertorio
decorativo.
Anche la palma nana (Chamaerops humilis) viene tagliata ed essicata. Il
giunco e la paglia richiedono anch’essi l’essicazione, ma sono d’impiego più
immediato. Le manifatture di San Vero Milis includono anche i crivelli per la
farina, raffinatissimi. Per coprire l’occhiello della spirale dei cestini si
dispone un dischetto di stoffa sgargiante o di broccato (San Vero Milis e
Sinnai).
Per la decorazione, si usano strisce di tonalità diversa: di tonalità bruna
nei cestini di asfodelo; nera o colorata in quelli di San Vero Mills e di
Caste!sardo, mentre a Sinnai si impiega largamente il cotone di color rosso e
qualche volta anche nero. In quest’ultimo centro esistono case arredate
all’antica, con la “stanza del fieno” originaria, zeppa di corbe e canestri. Parte
essenziale dell’arredo muliebre era l’arredo della “stanza del fieno”: spesso
corbe e canestri avevano prima percorso, portati sul capo da fanciulle in cos-
tume, le vie del paese, colmi di doni nuziali. Di queste ceste, tonde e piatte,
molte non venivano mai adoperate; contribuivano solo alla disposizione rit-
mica nella “stanza del fieno” o nella cucina. Esse conferivano colore e calore
all’ambiente, il più caratteristico della casa tradizionale.
La decorazione è ottenuta con elementi che contrastano con la tonalità
giallognola della paglia o della palma nana, elementi ottenuti non con tinte
naturali. Forse, questo modo di decorare non risale a tempi molto antichi ed
è stato mutuato da altre aree d’oltremare: come anche l’impiego del disco di
stoffa sgargiante nel fondo e dei fiocchetti distribuiti con civetteria nel labbro
terminale del manufatto.
Il repertorio decorativo è costituito da motivi geometrici stellari intrec-
ciati, da stilizzazioni floreali e faunistici (l’uccello, il capriolo, il cervetto, il
gatto).
Nel primo quarto del presente secolo, un artista francese fece introdurre
altri motivi nei cestini di Castelsardo, neri e colorati, che accompagnano il
motivo tradizionale del mostro alato, di tonalità bruna.
La cestineria di asfodelo, che basava la decorazione sul motivo dei “rami
di pero”, nel Settecento introdusse il fregio a greca, un suggerimento certa-

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mente della popolazione immigrata a Montresta a metà del secolo, prove-
niente dalla regione di Mayna, la più meridionale del Peloponneso. Si presta
bene, il motivo, per i piccoli manufatti a forma di ciottole e di cofanetti.
In Castelsardo sono dette póntine grandi ceste con coperchio, di forma
cilindrica o panciute come giare, che servivano per la conservazione dei fic-
chi secchi ed anche della biancheria. Era bellissimo, fino a non molti anni
addietro, vedere, sulle soglie o disposte sulle rampe gradonate nell’antico
nucleo di Castelsado, le donne di tutte le età, intente a intrecciare i cestini,
ormai conosciuti in tutto il mondo.
Purtroppo, la grande domanda e la scomparsa dalla campagna castel-
lanese della palma nana, han portato ad imbastardire il prodotto, giacchè alla
palma dalla tonalità calda e vibrante è stata sostituita la sorda refe e, recente-
mente, anche i fili di plastica colorata. Qualche donna anziana lavora ancora
secondo i modi tradizionali nella vicina Tergu, dove la palma nana non è del
tutto scomparsa.
La refe si adopera anche in altre località, come Montresta ed Ittiri. In
quest’ultimo centro, oltre a piccoli cestini d’uso corrente, è stato fatto anche
un ottimo tentativo di confezionare cofanetti e scatole, che ha avuto succes-
so qualche lustro addietro. Nei cestini di Sinnai prevalgono i motivi geo-
metrici e floreali ottenuti – come si è detto – con il cotone in rilievo. Si usano
molto i cofanetti da lavoro, decorati in rosso, oppure in nero, quando la pro-
prietaria è in lutto.
Negli ultimi anni, gli artisti hanno introdotto nuovi modelli, che
riscuotono successo, perchè dilatano le applicazioni pratiche alle esigenze
moderne (portariviste, porta–gomitoli, ecc.).
Anche a San Vero Milis, le artigiane lamentano che il nuovo sistema di
mietere con le mototrebbie non consente più l’utilizzo dei lunghi steli e della
paglia lunga di grano: incentivo, questo, a un inquinamento della produzione,
con l’impiego più facile della refe e dei fili di plastica. Oltre alla forma (che
viene comunque rispettata), le materie tradizionali presentano migliori qual-
ità tattiche e visive, che contribuiscono ad arricchire e a dare sapore al man-
ufatto.
Alle tecniche e allo spirito dei cestini, si riallacciano quei modi di rive-
stire, finemente, i recipienti di vetro, come si fa ancora a San Vero Milis.

I cestini di salice e canna, più generalizzati, presentano varianti interes-


santi in località diverse: la valle del Tirso (ZerfalIu, Zuri, Baroneddu), il

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Bosano, il Sassarese, la bassa Gallura. Il modo di scegliere i rami di vimini e
di tagliare le strisce di canna influisce sul risultato. Cestini di differente
grandezza, piccoli per la merenda dei ragazzi e per la raccolta delle uova,
medii per contenere i panni e la frutta, con o senza manico, fino alle grosse
ceste per deporre i cereali, la lana e la profenda degli animali domestici.
I cestini normali, col manico, sono prodotti dappertutto, ma la forma
varia nel rapporto cesto–manico, nella sagoma del cesto, cilindrico o tronco-
conico o panciuto, ed anche nel rapporto tra salice e canna. Di salice normal-
mente, si fa il fondo, il labbro terminale e il manico, ma viene anche interrot-
ta la superficie verticale di canna con fasce più o meno ampie di salice. Quelli
più antichi, pressochè in tutta l’area isolana, avevano la sagoma dell’ogiva. A
Sassari si fanno ottime ceste di forma rettangolare, per frutta, biancheria, ecc.
Si confezionano anche cestini per bambini, ed altri in scala da bom-
boniera, tagliando fette sottilissime di canna e intrecciandole con grande
pazienza e gusto.
A San Vero Milis si confezionano bellissime misure cilindriche fatte di
solo giunco, strettamenti funzionali, di ottimi rapporti.

FIGURE 37–56

89
37. Castelsardo, cesto in rafia
38. Castelsardo, cesto in rafia
39. Flussio, corbula in asfodelo
40. Flussio, canestro in asfodelo
41. Flussio, cesto in asfodelo
42. Montresta, cesto in asfodelo
43. Montresta, cestone con coperchio
44. Sinnai, canestro in giunco
45. Sinnai, cesto con coperchio, in giunco
46. Sinnai, cesto con coperchio, in giunco
47. Sinnai, cesto con coperchio, in giunco
48. Sinnai, cesto con coperchio, in giunco
49. Sinnai, cesto con coperchio, in giunco
50. Sinnai, canestro in giunco
51. Ollolai, cestino in asfodelo
52. Ollolai, cesto con coperchio in asfodelo
53. S. Vero Milis, fuscella in “zinniga”
54. S. Vero Milis, vetri impagliati
55. Tinnura, cesto in asfodelo
56. Urzulei, cesto in asfodelo
LA CERAMICA
Abbiamo ricordato che è difficile poter stabilire se è nato prima il cesto
di vimini o il vaso di terracotta e che, comunque, entrambi risalgono alla più
remota antichità.
Le forme ceramiche tramandate non sono molte, considerando la varietà,
veramente sorprendente, che ci offrono le colture nuragica e prenuragiche,
come è facile riscontrare osservando i reperti conservati nei musei archeologi-
ci di Cagliari e di Sassari. La produzione è andata via via restringendosi ai mod-
elli essenziali d’uso ancora corrente, tliventando un’industria vera e propria.
Le forme pervenute non sono originarie delle culture della Sardegna pre-
romana; alcuni modelli risalgono ai tempi della Magna Grecia e di Roma. Si sono
fatti convincenti raffronti tra le elaborate brocche oristanesi e quelli di Canosa,
che si trovano al Louvre: è facile pensare a scambi, essendo Oristano l’erede
diretta di Tharros, la fiorente città costiera che aveva un porto molto attivo.
Mentre nelle regioni del continente italiano quest’arte, al pari delle altre,
nel Medioevo decadeva, in Sardegna si conservò integra. I centri attuali di
Teulada e Florinas ricorderebbero nel toponimo romano, Tegula e Figulinas,
antichi centri della terracotta. E accertato che si lavorava la terracotta nella
città di Turns. Ad Olbia era un’attiva officina ceramica che possedeva la lib-
erta Acte, la celebre concubina di Nerone. Ma, forse, sia a Tegula che ad
Olbia si fabbricavano solo manufatti impiegati in edilizia. Oltre al nome,
Figulinas –che fa pensare alla specifica attività artigianale dei terracottai – si
ricorda che a Bánari, un piccolo paese vicinissimo a Florinas, fino a non molti
anni addietro si fabbricavano fornelli di terracotta.
Non si hanno notizie di botteghe o scuole d’arte ceramica in tempi lon-
tani, nè di immigrazione di artisti continentali. Nel periodo romanico è stata
accertata la presenza di maestranze arabe fra quelle che innalzarono le chiese,
ma le scodelle maiolicate impiegate nella decorazione delle facciate erano
importate.
Del 1692 è uno statuto della corporazione oristanese degli alforeros, i
fabbricanti di brocche: era fatto divieto agli appartenenti alla confraternita di

113
fabbricare manufatti di terracotta che non fossero brocche, pentole e mastel-
li. Da testimonianze del secolo scorso, si sa che solo un figulo godeva del
privilegio esclusivo di poter fabbricare mattonelle e tubi di terracotta.
A Cagliari, nei primi anni del Settecento, era fiorente un’officina ceram-
ica: da essa uscirono le graziose mattonelle raffiguranti l’aquila bicipite, che
decorano il presbiterio della chiesa di San Lucifero.
Ma, le numerose formelle figurate impiegate nella pavimentazione e per
rivestimento delle scale della città, soprattutto di Cagliari e di Alghero, nei
secoli XVIII e XIX, erano produzioni d’importazione.
Si continuò, però, nella tradizione dei figuli, fino ai nostri giorni, nei cen-
tri di Oristano, Pabillonis, Decimomannu, Assémini, Villaputzu, Dorgáli e
Siniscola, quasi tutti ancora vivi. Il centro principale è Oristano, che gode
d’un antico prestigio: nel secolo scorso era senz’altro l’industria cittadina
principale, esercitata dai cosidetti con giolargius (stovigliai), che occupavano
un quartiere dei borghi, e lavoravano la creta con metodi primordiali (ruota
figulina), riproducendo forme greche e romane, in virtù dello statuto della
confraternita sopra ricordato.
I manufatti constano di recipienti per acqua, vino od olio: orci con o senza
coperchio, brocche e brocchette, a forma di anfora, di gallinella e di anello,
fiaschette, barilotti, boccali, bicchieri; stoviglie: piatti, tegami, pentole,
cassemole, mastelli, mestoli, caffettiere; orci caratteristici per olive sott’olio e
pomodori secchi; conche di varie dimensioni; recipienti per acquavite; con-
tenitori scalda–grembo e scalda–letto a forma di frate e di suora, sempre in
coppia, con un foro nella testa attraverso cui si versava l’acqua calda; scaldi-
ni e fornelli; cavallucci decorativi da disporre sul crinale dei tetti; doccioni a
forma di leone, tubi pluviali, tazze speciali (tuvus), per le none degli orti.
Una distinzione fra centro e cento, si ha soprattutto nei manufatti deco-
rati: le brocchette basse, a forma di gallinelle, sono tipiche fatture di Dorgali
e di Villaputzu; le piccole anfore decorate da fiorellini sono tipiche di
Assémini, come pure i cavallini da disporre sui tetti; gli scalda–grembo e
soprattutto le grandi anfore figurate sono dei figuli oristanesi; a Siniscola si
fabbricano le anforette sovrapposte, aventi le anse sfalsate.
Una differenza sensibile tra centro e centro si ha per la varietà dell’argilla
impiegata e, di conseguenza, anche per la cottura, impiegando la vernice di
verde ramina. Sono tutte varianti, però, di un unico modo di fare, intendendo
spirito e tecnica.
Al pari della varietà degli oggetti, ricchezza maggiore di forme decora-
tive troviamo nella manifattura oristanese. Una reminiscenza forse romana

114
costituiscono i doccioni figurati che ornavano le parti terminali delle gronde
delle case baronali e dei maggiorenti ed una reminiscenza forse ancora più
antica, l’uso di decorare con cavallucci i tetti, a guisa di acroteri.
Le anfore anulari sono forse di derivazione pugliese, un pò lontane dal
gusto locale. Sono invece originalissimi quei barilotti usati in campagna dai
contadini campidanesi, per contenere acqua o vinello, molto pratici e di
forma caratteristica.
Le grandi anfore che ricordano quelle venute alla luce negli scavi delle
città della Magna Grecia, rielaborate dai figuli oristanesi, recano figurette di
angeli e di santi con cartigli, ritmi di rosari e, nel coperchio, altri santini o la
giudicessa Eleonora d’Arborea o anche teste di gallo. L’euritmia risulta sem-
pre ben pensata e distribuita. Dalle antichissime figurazioni geometriche,
astratte, graffite con rotelle dentate o con un pettinino, si è passati a modi-
fiche naturalistiche, a tutto tondo, mutuando i simboli dal cristianesimo. Le
decorazioni sono improntate a ingenuità e la forma del manufatto, che
risponde a praticità, è sobria e armonica.
Oltre che per l’arredo e la suppellettile domestica, si fabbricavano statu-
ine di terracotta per le chiese. Il Santuario di Sant’Antonio Abate di Orosei –
per esempio – era ricco di figurine disposte, assai graziose, sul crinale del
tetto (provenienti, con tutta probabilità, dalla vicina Dorgali).

Alberto della Marmora, a metà del secolo scorso, aveva spedito al diret-
tore delle manifatture, di Sévres, che le aveva richieste, terraglie sarde: ciò
dimostra l’interesse per queste forme tradizionali, che vennero disposte nel
celebre museo che raccoglie ceramiche di tutto il mondo. Il La Marmora
ricorda inoltre nell’Itinéraire di aver concesso a un figulo oristanese il perme-
sso di fabbricare ceramiche diverse da quelle usuali, in delega allo statuto dei
fabbricanti di brocche, “non senza pensare tuttavia che sarebbe stato difficile
che le terraglie uscite dalle sue mani, potessero eguagliare in grazia ed ele-
ganza, quelle che una tradizione costante o meglio l’abitudine, ha conserva-
to identiche alle brocche del bel tempo di Roma”.
Il La Marmora, se da un lato contribuì a conservare in un museo di fama
internazionale, le forme tradizionali, con quest’atto aministrativo diede
l’avvio ufficiale alla creazione di nuove forme. Le quali, tuttavia, non furono
per la verità molte, continuandosi invece a fabbricare forme collaudate da
secoli: forme che hanno continuato a farsi fino ad oggi, mentre l’unico figu-
lo privilegiato che poteva fabbricare mattonelle e tubi di terracotta fu a un

115
certo punto disturbato dalla concorrenza continentale, indubbiamente più
aggiornata. “Al divieto delle innovazioni – commentava il La Marmora – si
deve certamente la conservazione delle belle forme delle brocche antiche,
greche e romane, che escono ancor oggi dalle vecchie fabbriche”.
La clausola statutaria deve essere stata ispirata con tutta probabilità da
ragioni di semplice concorrenza, poichè stentatamente si riesce a credere
ch’essa abbia influito sulla conservazione delle forme, che per altro non si
discostano molto da quelle degli altri centri figulini, dove gli artigiani non
erano vincolati da statuti corporativi.
Se le forme si sono conservate integre fino a noi è, dunque, un fenome-
no di persistenza, tipica di ogni forma artigianale dell’Isola, dovuto a model-
li che per la loro essenzialità e praticità si sono dimostrati perfetti. Per man-
canza di concorrenza continentale – a causa dell’isolamento – l’arte degli
stovigliai era diventata un’industria vera e propria: allineate ad essicare, le
brocche, tutte eguali, sembrano fatte a stampo.
La ruota figulina, con la sua rudimentale millenaria semplicità, incanta
ancor oggi come un meccanismo magico: una manciata di pasta di argilla, in
virtù del tocco agile della mano e della dosata velocità impressa al tornio dal
piede scalzo, asseconda le più sbrigliate fantasie dell’artefice. La ripro-
duzione in serie come questa delle stoviglie implica di contro rinuncie all’e-
stro e un disciplinato controllo; richiede attenzione e perizia non comuni,
poichè i manufatti sono talmente identici uno all’altro, che sembrano, appun-
to, eseguiti meccanicamente in serie. E se talvolta ci sorprende il riscontro
con forme di oggetti conservati nei musei, è solo ossequio a ciò che è con-
sacrato dall’uso quotidiano. La loro purezza soddisfa il nostro gusto moder-
no unitamente al culto dell’antico, che non è affatto di natura arcaica e nem-
meno del tutto popolaresca, ma come abbiamo visto, colta per non dire
addirittura classica.

I mori di Spagna applicarono la ceramica all’architettura; i Pisani intro-


dussero forse prima in Sardegna che nel continente italiano quei “bacini”
ceramici o scodelle iridescenti per decorare le chiese romaniche, provenienti
molto probabilmente dal traffico mediterraneo arabo–ispano o arabo–siculo.
Dall’esiguo numero di esemplari superstiti, nonchè per mancanza di fonti,
non si può affermare che i Sardi abbiano appreso dai mori di Spagna e dagli
Spagnoli o da altri artigiani continentali, l’arte raffinata della maiolica, che,
d’altra parte, sarebbe rimasta relegata solo a questo genere decorativo. I man-

116
ufatti isolani, prevalentemente brocche e orci, sono verniciati esteriormente
solo in prossimità dell’orlo del collo e all’interno di questo, e soltanto in
anfore particolari la verniciatura è estesa alle altre parti. Essi conservano quel
carattere artigianesco sommario, ben lungi dalla perfezione tecnica delle
scodelle maiolicate; la tonalità dello smalto è quasi sempre tipicamente gial-
lo–verdognola.
Più varia si presenta la produzione oristanese, abbiamo visto, e più ricca
di forme decorative. Gli altri centri figulini hanno prodotto sempre brocche e
mastelli. Per varietà e per tecnica, dopo Oristano, interessa Dorgali, dalle cui
officine sono uscite graziose brocchette a foggia di galline accocolate e belle
anforette con le anse a treccia. E specialmente nella decorazione (in parte ese-
guita a rilievo e in parte a stecca), che scorgiamo una differenziazione.
Mentre i modelli oristanesi sono essenzialmente plastici, nella produzione
dorgalese è palese l’influenza delle incisioni dei manufatti delle culture pre-
romane.
Isolati o disposti a gruppi, i manufatti ceramici sardi costituiscono, uni-
tamente ai cestini, l’arredo più originale della casa, ornano ancora “la stanza
buona”, la sala da ricevere.

All’infuori del ricordato statuto degli stovigliai oristanesi e di un accen-


no alle “fabbriche della Sardegna” nell’opera Les Merveilles de la céramique
del Jacquemart, il primo studio devesi all’Arata.
Una scuola d’arte decorativa, volta soprattutto alla ceramica, istituita
negli anni Venti dal Comune di Oristano ed affidato allo scultore Francesco
Ciusa, ebbe breve e travagliata esistenza. Più fortuna ebbe la Bottega d’arte
ceramica in Cagliari l’organizzazione creata dal ceramista Federico Melis,
che aveva impiantato ad Assémini un’attiva fornace. Allontanatosi il Melis,
cessò di esistere. Essa sviluppò quasi esclusivamente motivi di folklore ed i
prodotti ebbero una tipica fisionomia, dovute anche alla varietà d’argille plas-
tiche locali.
Nel 1949, l’Istituto statale d’arte di Sassari, per interessamento del diret-
tore, pittore Filippo Figari, venne dotato di un moderno laboratorio di ceram-
ica. Nel 1951, venne creato ad Oristano l’Istituto statale d’arte, volto soprat-
tutto all’insegnamento della ceramica.
In virtù delle predette scuole, oggi, gli artisti che si dedicano alla ceram-
ica sono diventati numerosi. La novità più saliente, rispetto a quella del pas-
sato, è costituita dal fatto che l’artigiano–artista indirizza la sua attività alla

117
decorazione architettonica, pur non trascurando la creazione di oggetti
d’arredo. Un sensibile interprete moderno è stato il dorgalese Salvatore
Fancello.
Dalla terracotta in forma industrializzata, si è passati alla ceramica vera
e propria, come tecnica non solo, ma come espressione, che è arte necessari-
amente individuale e, allo stesso tempo, squisitamente artigiana. Anche negli
artisti più spregiudicati è evidente, però, il peso della tradizione, che è
un’eredità di purezza di forme. E da lamentare, d’altra parte, l’invasione nel
mercato di souvenirs (poichè la ceramica si presta più degli altri manufatti),
la cui produzione, anche nei centri antichi figulini, s’inserisce tra la pro-
duzione tradizionale e quella moderna, senza peraltro saper attingere allo
spirito che anima entrambe.

FIGURE 57–70

118
57. Oristano, anfore anulari
58. Oristano, conche
59. Assèmini, theiera
60. Oristano, galletto
61. Oristano, brocchetta
62. gorgali, gallina
63. Oristano, boccale
64. Assémini, oliera
65. Sassari, donna a cavallo
66. Cagliari, gallina e candeliere
67. Oristano, servizio da caffè
68. Cagliari, portafiori
69. Sassari, anfora
70. Sassari, rosario
I TESSUTI E I RICAMI
Al Museo Archeologico di Sassari è annessa una sezione etnografica, a
termine dell` itinerario” che ha inizio coll’eneolitico. Il visitatore è tentato di
collegare i contrappesi di telaio, venuti alla luce nello scavo della cosidetta
ziqqurath di Monte d’Accoddi, risalente all’età del rame, con il normale tela-
io ancora in uso in quasi tutta l’area isolana. Certamente, però, il telaio con i
contrappesi del “luogo alto” era di tipo verticale, giacchè il telaio verticale,
meno complesso, è nato prima di quello orizzontale. Il visitatore è tentato di
collegare altresì i resti di quell’antichissimo telaio con le produzioni artigia-
nali che fanno nelle sale bella mostra di sè. In genere, quando si pensa alla
Sardegna, si pensa a questi suoi prestigiosi manufatti, detti impropriamente
“tappeti”.
Senza volerci spingere tanto indietro nel tempo, la donna sarda non
dovette tardare a tessere qualcosa che non riguardasse esclusivamente gli
indumenti familiari. Il cosidetto “tappeto” non era altro, all’origine, che un
copricassa o un coperta da letto. E poichè i letti, fino al secolo scorso, erano
piuttosto rari, è da pensare che il tema principale fosse la decorazione da
disporre sulla severa arca tradizionale, il cassone nuziale, che custodiva il
piccolo tesoro domestico. Poi c’era la bisaccia, portata da tutti gli uomini,
sulla spalla o a cavallo, e quei ricchi collari per la bardatura a festa dei caval-
li e dei buoi. (Già qualche bronzetto nuragico raffigura il bue o il toro con il
grande collare, forse per il suo carrattere sacrale).
Proporci di svelare le origini di questi manufatti sarebbe certamente una
fatica vana. Si possono intessere raffronti, come è già stato tentato, con ana-
loghe produzioni umbre, abruzzesi e di altre regioni, nelle quali compaiono
analoghi motivi decorativi e certi accostamenti di colori, per altro senza giun-
gere a nulla concludere. È difficile, perfino, il raffronto tra le produzioni delle
varie subregioni, perchè i motivi si intrecciano. Cercheremo di individuare
quali sono i centri di produzione più caratterizzati, ricordando che quest’arte
era un tempo non lontano diffusa in tutta l’area isolana.
Su tutti spiccano, per la fantasia compositiva e la vivacità del colore, due

135
centri della Marmilla. L’esuberante produzione di Mógoro e di Morgongiori
da una lezione di struttura e compostezza rinascimentali, del tempo delle
grandi ancone che inondano di luce le chiese. Se il loro denso, sfavillante cro-
matismo è di gusto che si potrebbe definire postrinascimentale, non di meno
le composizioni non possono dirsi di derivazione barocca, per via, appunto,
del rigore geometrico e della compostezza dell’impianto.
L’Arata, che ha studiato con serietà l’arte popolare della Sardegna, ha
saputo leggere bene in questi manufatti: “I tappeti di Morgongiori sono a cro-
matismi bassi: il rosso bruno con sfumature di turchino si frammischia col
nero e con i gialli, qualche tocco d’oro e d’argento ben distribuito fra i mean-
dri, cosparge di un luccicante tremolio tutta la composizione decorativa. Gli
sprazzi vivissimi e di gustoso effetto si alternano con tonalità scure, come se
il colore passasse dalla gioia alla tristezza”.
Nei manufatti della vicina Mógoro si avverte un crescendo di gaiezza, un
trionfo di colori che ricordano per pastosità le colline infiorite a primavera
(rossi, gialli, turchini, verdi, viola) ei cortili–giardino delle dimore, giardinet-
ti densi, dove si trovano accostati rose, gerani, violaciocche, dalie, zinie,
garofani, gelsomini, gladioli.
I manufatti di Mógoro e di Morgongiori (e, una volta, di altri centri non
da questi distanti, come Santa Giusta e Siamanna, ma in minor misura) sono
i più ricchi di armonie cromatiche e compositive, i più festosi dell’Isola: pro-
babilmente, perchè la geometria non è così rigida come può riscontrarsi in
altre produzioni, sia di centri vicini, come Isili e Senis, o nei tipi “a fiamma”
della lontana Nule. Sembra spontaneo il modo di disporre nelle evanescenti
forme geometriche, coppie speculari di uccelli, di animali, di fiori stilizzati.
La tecnica “ad ago” impegna l’artigiana al telaio orizzontale uniposto,
favorendo le qualità individuali. La riproduzione di antichi modelli, trasmes-
si da madre in figlia, è la classica perfezione alla maniera greca, perfezionan-
do insensibilmente con successivi apporti, un modello accettato per valido,
dominato da ritmi semplici, come nella musica e nelle danze popolari.

Non basta affermare, come si è soliti, che l’origine dei “tappeti” sardi è
orientale, anche perchè diversa è sempre stata in passato, come si è osserva-
to, la destinazione: erano dei copricassa o – come questi della zona di Monte
Arci, in tempi più vicini a noi – delle tele da muro.
Se è vero che i modelli giunsero dalla Persia in Europa dopo il Mille,
nell’Isola non si ebbero contributi successivi da parte di altri popoli come

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accadde in altre regioni italiane, per esempio in Sicilia, ove sostarono Arabi,
Normanni, Svevi. A partire dal XIV secolo, in Sardegna si ebbero influenze
artistiche da una sola parte, la Spagna, che per altro non sembra aver sostan-
zialmente contribuito all’attività tessile come influì invece in altri campi, spe-
cie in quello affine del formarsi di costumi. Comunque, non si ritengono
determinanti per il risultato successivamente raggiunto, nei secoli XVIII e
XIX in modo particolare. La produzione isolana si differenzia nettamente
dalle altre produzioni regionali, sia italiane che spagnole.
Vano è stato, dunque, fino ad oggi, scoprirne le matrici, a differenza di
altre categorie di manufatti di artigianato usuale e artistico.
Se negli esemplari di Morgongiori il fondo è in genere grigio, nei copri-
cassa, nelle tovaglie e tovagliette, sia di Mógoro che di Santa Giusta, il fondo
è chiaro, bianco sporco o caldocrema. La simmetria adottata è sempre secon-
do due assi, longitudinale e trasversale: schema che si. direbbe derivato dalle
bisacce, che erano di uso comune, perchè tutti una volta erano usi cavalcare.
I fiori fantasiosamente stilizzati costituiscono una composizione quasi sem-
pre densa, come la gioiosa esplosione di fiori nella brevissima primavera, e
formano – dolcemente figure concluse con l’esagono e l’ottagono, ma mai
schematicamente rigide. Sono i motivi floreali stessi che concorrono a forma-
re le figure che racchiudono il fiore prescelto per campeggiare trionfalmente
al centro della composizione.
Da una patera o vaso vengono fuori in genere sette rami, con fiori e boc-
cioli, in forma geometrica. Il tema della vite è forse quello trattato più reali-
sticamente, nonostante la difficoltà di esprimere la flessibilità dei tralci. Gli
agnelli e i cervi (che erano un tempo anch’essi molto comuni), ripetuti all’in-
finito, accompagnano gli altri motivi, comuni a tutta l’area isolana, soprat-
tutto nelle fasce terminali dei copricassa e degli arazzi. Il cavallo e il cavalie-
re con la spada, gli sposi a cavallo sono figurazioni comuni, ma prevale qui
una figura singolare di donzella con simboli, i putti e i geni alati (i cosidetti
“vescovi”).
Compaiono simboli attinenti alla tradizione cristiana, quali la colomba,
la spiga, l’uva, il vaso fiorito, la fonte; oppure quelli di tradizione bizantina,
come il pavone (se non addirittura egiziana, mediata da Tharros e dalle altre
città finicio–puniche); così le aquile–bicipiti quasi sempre per ragioni di sim-
metria – le torri, i castelli, i leoni e i grifoni, di derivazione araldica; e non
mancano i cosidetti simboli magici, quali i ricordati geni, il sole, la luna, le
stelle, la clessidra, ecc.
Questo è il repertorio decorativo, comune ad aree diverse. Ma a Mógoro

137
e a Morgongiori hanno prevalenza i fiori, che si prestano meglio al gusto del
tutto ornato, perchè più proprio dell’arazzo, della tela da muro. Rose e rosel-
line e altri piccoli fiori geometrici accompagnano spesso la figura della don-
zella e dei “vescovi”, che fanno ala, quasi levitanti, al motivo principale,
quale il monogramma di Cristo inscritto in losanghe. Ciò è ancor più eviden-
te nella produzione di Santa Giusta, dove il disegno appare più minuto, fili-
forme, con accentuazione verticale, longilinea, dei singoli elementi, trattati
ancor più astrattamente. Si comprende la frequenza dei motivi dei fantastici
castelli e delle torri (era, la Marmilla, una zona di castelli e di torri nuragi-
che), delle chiese, dei cervi, dei cavallini rossi e neri come quelli della vicina
Giara di Gesturi, e del ballo tondo; la frequenza del motivo del ramo di coral-
lo, un pò, perchè anticamente rappresentava un vistoso monile, raro in quei
centri e pertanto prezioso; si comprende meno il motivo dell’aquila e non si
comprende affatto il motivo del pino, che i paesi del Monte Arci non conob-
bero fino a quando apparve, nel secolo scorso, ai lati della strada di Carlo
Felice e di scorta alla linea ferroviaria, tra Uras e Oristano.
Ma tra le mustras, ossia i campionari di motivi, ispirati sempre a simbo-
li religiosi, è interessante e famosa nell’Isola quella peculiare di questa zona,
sa mustra de su Carmine, la corona del Carmelo, che è venerata a Mógoro,
nella bella chiesa omonima del XIV secolo.
L’ambiente storicamente colto dà una ulteriore conferma della localiz-
zazione e della tradizione di questi capolavori casalinghi festosi, nati tra il
severo Monte Arci e le “giare”.

Sia in Marmilla che nel Sassarese è comune il motivo centrale a candela-


bra, mutuato dalla flora e dalla fauna, con un intreccio ed una libera inter-
pretazione tali che non si capisce più lo spunto d’origine, chiamato kataluJ’a.
E un nome di derivazione spagnola–catalana, che a sua volta – secondo Max
Leopold Wagner – potrebbe derivare dall’italiano antico cataluffa, “certo
drappo che si faceva a Venezia”. Un damasco di cotone e lana, Katalufa è pas-
sato ad indicare non il genere del tessuto, ma il motivo decorativo principale
che domina la composizione della fànuga (coperta) e del “tappeto”. Le tessi-
trici di Villanova Monteleone, che confezionano ancora il grande tappeto in
nero e grigio su fondo chiaro, dalle dimensioni di circa due metri per tre, assi-
curano che il motivo è la fedele riproduzione di un antico modello di coper-
ta settecentesca, trasmesso da madre in figlia. E questo fuori di dubbio, ma
occorre aggiungere che è anche uno dei motivi più eleganti che si conoscano,

138
sembra disegnato addirittura oggi, dato il timbro di sorprendente modernità.
Sempre a Villanova Monteleone e in altri centri del Sassarese, del Montiferro
(Santulussùrgiu), ecc. ha avuto largo impiego il motivo dell’ùpupa, la quale
– come è noto – reca una cresta sulla testa. Viene denominato bizzarramente
saluda lu re, per via di quella coroncina sulla testa, ma forse anche per evita-
re quel brutto suo nome, pubùsa, che, oltretutto, in certi paesi è ritenuto un
uccello del malaugurio.
Il copricassa e la coperta sono i manufatti artigianali che sono stati pro-
dotti con ininterrotta continuità; folti gruppi di artigiane sono tuttora operose
in una cinquantina di centri, alcuni dei quali molto attivi.
E un pò arduo, si è detto, distinguere i manufatti provenienti dalla diver-
se aree geografiche per la materia, i motivi decorativi e la gamma cromatica,
anche perchè in molti centri non si è continuato a fare ciò che si faceva una
volta. Le antiche collezioni non ci offrono, neanch’esse, possibilità di indivi-
duazioni sicure. Si fa qui un modesto tentativo, in base soprattutto a quanto
si opera in centri ancora vivi, con rielaborazione di motivi tradizionali “loca-
li”, e che, pertanto, si prestano a un’analisi comparativa.
I centri di montagna presentano di preferenza motivi orizzontali
monocromatici o con l’impiego di pochi colori. In Gallura, dove l’unico cen-
tro ancora vivo è Aggius, i piccoli copricassa e tappetini sono formati da stri-
sce trasversali di diversa ampiezza, impiegando varietà di grigi. Ma si confe-
zionano anche, come anticamente, grandi tappeti dai colori vivaci e ben acco-
stati.
Villanova Monteleone sviluppa in prevalenza strisce con motivi geome-
trici minuti (fressada, tessuto a licei). Più delicati sono quelli della vicina
Ittiri, sia quando si usano motivi geometrici e arabeschi a rilievo (stilizzazio-
ne dell’aquila araldica), bianco su grigio, sia altri motivi, come gallinelle, cer-
vetti, e geometrici. Fattura che si ritrova con poche varianti anche a Òsilo e
Chiaramonti. A Bonorva e a Ploaghe si fanno ottime stoffe per arredamento,
in pezze. Tradizionali sono le decorazioni da parete, a strisce orizzontali e
verticali, larghe, con fondo bianco o colorato, con motivi di cavalieri, di ani-
mali e di fiori a colori vivaci e anche con l’impiego di fili d’oro e d’argento.
Pure motivi orizzontali, di preferenza monocromatici, sono nei manufat-
ti di Santulussùrgiu, di tonalità azzurra o verde o marron. Sono frequenti i
motivi del pavone e della candelabra; frequenti anche i motivi ripetuti a tutto
campo.
A Bolótana, le strisce recano motivi geometrici densi, usando colori forti,
ma delicati.

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Nule, in Goceano, è ancora uno dei centri più attivi. Vi si confezionano i
tappeti di grandi dimensioni: al telaio verticale lavorano contemporaneamen-
te fino a sei tessitrici. Si fanno tappeti con svariati motivi: geometrici, florea-
li, e pavoni, spighe, cavallini, uccelli, palma di corallo, balletti, preferendo
disporre la decorazione densa, calda, al centro del manufatto o a tutto campo.
Vi si continuano a fare ancora tappeti vivacissimi, composti di disegni cosi-
detti “a fiamma” e di motivi geometrici intensamente colorati, che ricordano
i tessuti arabi. Anche nella vicina Osidda, le strisce sono dense di motivi geo-
metrici.
Come a Nule, a Sarule si lavora il grande tappeto col telaio verticale.
Vasto è il repertorio decorativo distribuito preferibilmente in bande orizzonta-
li o verticali: la clessidra, il sole, le stelle e altri simboli, i leoni, la colomba.
I centri attorno al Gennargentu sono caratterizzati da un timbro generale
più omogeneo: Tonara, Gadoni, Busachi, Meana Sardo, Atzara, Samugheo,
Isili. Le produzioni di quest’ultimo centro sono forse le più originali, i tappe-
ti restano in genere nei toni dei suoi manufatti di rame. Le larghe fasce sono
dense di motivi: cavalieri, castelli, grifi, pavoni, balletti, monocromatici,
appunto color rame, o a più colori. A Tonara sono frequenti i campi uniti dai
motivi molto minuti a strisce orizzontali con tonalità forti, piuttosto uniformi.
I tappeti di Samugheo si presentano di tonalità calda, con prevalenza dei gial-
li. Più lontano, ad Orune, i manufatti sono simili a quelli tipici di Tonara, e a
Sédilo, i motivi semplici sono in tinta quasi monocromatica, con prevalenza
di rossi e marron. Il tessuto di Sédilo ricorda la fressada di Villanova
Monteleone.
In Ogliastra, i centri di Barisardo, Ulássai e Villagrande hanno solo di
recente ripreso un’attività che si era spenta, con manufati non particolarmen-
te caratterizzati.
Nel Sárrabus, a San Vito e a Muravera, si ha una ripetizione serrata di
motivi geometrici, e i manufatti ricordano per vivacità gli arazzi di MOgoro e
di Morgongiori. Le coperte da letto sono finemente lavorate, a motivi floreali.
Nell’Oristanese, fra i cui centri eccellevano Santa Giusta, Cabras,
Siamanna e la stessa Oristano, si confezionavano ottime copricasse e tova-
gliette con la distribuzione di ben dosate strisce decorative, dov’erano raffi-
gurati “vescovi” e cavalieri.
Nei copricassa del Capo di Sotto (Campidano, Trexenta, Gerrei, Siurgus,
ecc.) prevale la ripetizione compatta, densa, a tutto campo, di piccoli motivi
geometrici e floreali, riservando figure di animali alle larghe bande terminali.
Nel Sulcis (Sant’Antioco, San Giovanni Suérgiu, Giba) si ripetono in

140
tappeti a strisce motivi di cervi, uomini e uccelli. Sant’Antioco era una volta
specializzato in arazzi e bisacce.
Una tecnica particolare, cosidetta a pibionis (acini d’uva), è applicata
spesso alla coperta da letto: le decorazioni compatte sono a rilievo, e molto
spesso vi appare il nome della tessitrice, il luogo e la data. Centri ancora vivi
sono Busachi, Paulilátino, Ittiri e Pozzomaggiore. Salvo in quest’ultimo cen-
tro, dove si impiegavano anche i colori, le coperte si distinguevano per i moti-
vi floreali minuti, in campo bianco. Non si riscontrano differenze sensibili da
un centro all’altro, salvo Busachi, che propone anche motivi centrali, come
ad esempio sa mustra de su soli (la mostra del sole).

L’arte del ricamo è anch’essa antichissima e ha origini nell’Oriente lon-


tano. In Sardegna è presente sia in casa che in chiesa: in casa, si hanno tova-
glie, tovagliette, asciugamani, “giralettus ‘ e velari negli alti, monumentali
letti di una volta, e camicie spesso bellissime; in chiesa, tovaglie d’altare e
pizzi di paramenti sacri.
Le tecniche vanno dal merletto (bianco su fondo colorato, in genere
rosso ruggine) al filet (a nodi, pizzo di Bosa), al buratto.
Le tele bianche sono ricamate con lane o con sete policrome, in genere a
due tinte, indaco e rosso ruggine o giallo e marrone, che erano un tempo otte-
nute da succhi vegetali. Il ricamo delle tovaglie o è esteso all’intero campo o
limitato alle bordure, con fondo ruggine, od anche il ricamo color ruggine
viene ottenuto su fondo grigio.
I motivi decorativi non si scostano molto da quelli visti nei tappetti e
negli arazzi, forse sono più numerosi: si trovano spesso donzelle che si ten-
gono per mano o il ballo tondo, con l’uomo che si alterna alla donna; ancora
dame dal lungo strascico, castellane, cavalieri, cervi. Frequentissimi sono il
tralcio della vite e il cancorrente, colombelle, simboli araldici, pavoni. Negli
esemplari più antichi, ricorrono assieme il leone, il liocorno e il grifo. Tele
ricamate e ricami a punto croce recano motivi tolti da antiche monete corren-
ti in Sardegna (sa mustra de sjsinu, la mostra del sisino, moneta del periodo
aragonese), putti che reggono cartigli col nome della ricamatrice. La collezio-
ne Dallay, nella sezione etnografica del Museo Nazionale di Sassari, consta
di moltissimi pezzi, non tutti esposti per mancanza di spazio, che sorprendo-
no per la varietà dei motivi.
Gli elementi decorativi religiosi sono passati con disinvoltura nel reper-
torio domestico, come il monogramma di Cristo e teorie di angeli.

141
Motivi floreali assai vivaci, con fili d’oro e d’argento, vengono ricamati
sugli scialli neri, in particolare quelli confezionati e indossati dalle olianesi.
Non è semplice stabilire quando furono introdotti in Sardegna i ricami di
cui si gloriano molte scuole d’arte italiane; ma è innegabile la caratterizzazio-
ne dei merletti sardi, in particolare il filet di Bosa, rispetto alle produzioni
continentali. Anche se elementi decorativi sono stati importati, come il leone,
il grifo e il liocorno, il timbro è peculiare; esso si avverte agevolmente nel
repertorio dei motivi semplici tolti dalla fauna e dalla flora locali, come
abbiamo visto per il sisino e per il corallo.
Forse le donne si compiacevano allorchè potevano acquisire motivi
nuovi, mode nuove, mentre a noi oggi essi appaiono come inquinamenti sti-
listici. Il centro principale, incontrastato, del filet è stato sempre la cittadina
di Bosa: forse perchè le sue produzioni, obbedienti a una rigida impronta
locale, ebbero fortuna anche fuori dell’ambito isolano. Tuttavia, nel presente
secolo si sono verificate delle infiltrazioni che hanno alterato sensibilmente il
carattere del filet bosano, rendendo il manufatto spesso banale, se non di cat-
tivo gusto. Certo, pur lavorandosi ancora il filet, non si vedono più le strade
della cittadina della Planárgia pbpolate di donne, sul limitare delle case,
intente alla lavorazione del filet, come si potevano vedere fino al primo quar-
to del presente secolo.
Un altro centro famoso per i tovagliati delicatissimi è Teulada, dove
anche il fine ricamo faceva parte del costume maschile.
Aghi e fuselli compiono la magia: i motivi vegetali si confondono con la
fauna, diventata anch’essa vegetazione, e s’intrecciano con meandri e arabe-
schi; modi umbri, siciliani e abruzzesi si mescolano con modi locali: la dama
dal lungo strascico non è un motivo solo sardo, così le castellane nel castello
turrito o l’aquila araldica. Ma qui hanno un sapore compositivo diverso.
Contro il verismo di gusto classico, per esempio, della tradizione umbra, le
figure che si tengono per mano, qui hanno un ritmo grave, inconfondibile, del
ballo tondo.
L’arte del merletto è quasi del tutto scomparsa: un’ampia esposizione
etnografica degli antichi modelli dovrebbe incentivare il ritorno a questi pre-
ziosi manufatti, che ornano ancora molte case sarde.

FIGURE 71–116

142
71. Aggius, tappeto “uccelli in grigio”
72. Atzara, particolare di coperta
73. Bolótana, tappeto
74. bonorva, arazzo “broccato e ghirlande”
75. Busachi, bisaccia
76. Gadoni, particolare di tappeto
77. Giba, tappeto “vasi, fiori e tacchini”
78. Isili, arazzo
79. Isili, arazzo
80. Ittiri, tappeto “rombi e fiori”
81. Meana Sardo, particolare di coperta in rosso
82. Mógoro, arazzo
83. Mógoro, particolare di arazzo
84. Mógoro, arazzo 85. Mógoro, arazzo
86. Morgongiori, arazzo 87. Morgongiori, arazzo
88. Morgongiori, arazzo
89. Nule, tappeto “aquile e cervi”
90. Nule, tappeto “balletto” in fondo nero
91. Nule, tappeto tradizionale “a fiamma”
92. Orune, tappeto
93. Osidda, tappeto
94. Ósilo, tappeto
95. Ploaghe, tappeto
96. Pozzomaggiore, coperta
97. Samuhjeo, tappeto
98. Sant’Antioco, bisaccia
99. Santulussurgiu, tappeto
100. San Vito, tappeto
101. Sarule, tappeto “cavalcata in campagna”
102. sarule, particolare di tappeto “uccelli e cervi”
103. Scano Montiferro, stoffa per arredamento
104. Sédilo, particolare di tappetino
105. tonara, particolare di tappeto
106. Villanova Monteleone, tappeto
107. Zeddiani, tappeto “papaveri”
108. Oliena, scialle
109. Oliena, scialle, particolare
110. Oliena, scialle
111. Oliena, scialle
112. Ósilo, scialle
113. Villanova Monteleone, tovagliati
114. Villanova Monteleone, tovagliati
115. Tovagliati ricamati con applicazioni in filet
116. Collare per cavalli
I GIOIELLI
Dai bracciali di pietra e dalle collane di conchiglie della preistoria,
all’oreficeria del mercato fenicio–punico (documentati largamente nei musei
archeologici dell’Isola) fino ai gioielli distribuiti con dovizia sui costumi,
resta ad abundantiam dimostrata la vanità dei Sardi, sia della donna che del-
l’uomo. Assieme alla raffinatezza, talvolta sorprende anche il lusso, come il
complemento di gioielli ai costumi di Quartu Sant’Elena e di SInnai.
Al gusto diffuso del monile ha fatto, sin dall’antichità, riscontro l’attivi-
tà di un artigianato locale attento. Oltre all’interesse per la lavorazione dei
metalli preziosi (fenomeno comune, si può dire, a tutti i popoli), in Sardegna
la presenza di miniere argentifere ha stimolato una folta schiera di artigiani,
come attestano i documenti degli antichi argentieri, che già dal XIV secolo
avevano botteghe fiorenti in Cagliari, Sassari, Oristano, Iglésias. La zecca di
quest’ultima cittadina ha avuto anche un ruolo complementare, in quanto le
monete bellissime ivi coniate sono state largamente adoperate come elemen-
ti decorativi dei costumi, in luogo di bottoni e piastre.
Il grande centro di produzione di gioielli e di vasellame era Cagliari.
L’attuale via Mazzini era detta via Argentari, i quali prima erano riuniti in
Castello, nel Carrer de los Plateros. L’attività si espanse in seguito anche ai
villaggi attorno a Cagliari: Quartu Sant’Elena, Quartucciu, Selárgius, SInnai.
A Sassari, in gran numero sin dal Trecento, avevano le loro botteghe nel-
l’attuale via al Rosello, che conservò fino al 148 il nome di via Argenteria.
Nei documenti antichi si fa sovente cenno ad essi ed al loro glorioso “gre-
mio”. Ma anche nelle cittadine di Alghero e Bosa e nei centri barbaricini si
andò sviluppando la loro arte: centri che nella maggior parte dei casi sono
ancora attivi: Nuoro, Oliena, Dorgali, Gavoi.
Nel 1386, si sa che l’orafo cagliaritano Giovanni di Cione eseguisce una
bellissima croce astile per la Cattedrale di Salemi, in Sicilia: ciò dimostra
come sin da allora fossero famose le botteghe cagliaritane.
Le vicende dell’oreficeria, forse l’attività artigiana preminente nell’Isola,
non sono dissimili dalle altre attività artigiane, ma desta sorpresa il fatto di

189
trovare presenti in Roma – in pieno dominio spagnolo – parecchi orafi sardi,
come sorprende anche nel Tesoro della Cattedrale di Cagliari siano conserva-
ti oggetti di orificeria cinquecentesca, di carattere decisamente italiano
(Leggi facevano allora divieto d’importazione nell’Isola di oggetti d’argente-
ria che non fossero di provenienza spagnola).
I gremi degli argentieri son fra i più antichi: le corporazioni di mestiere
tutelano il lavoro fecondo di questi artigiani, che popolano le chiese di croci
astili, calici, custodie, reliquari. Della seconda metà del Cinquecento e dei
primi anni del Seicento, si conoscono i nomi di vari artisti, fra i quale eccelle
Giovanni Mameli, “maggiorale” del gremio degli argentieri di Cagliari. Noti
erano anche Giovanni Antonio Piccioni, che aveva bottega nel quartiere
cagliaritano di Villanova (è rimasto il nome alla strada), Matteo Manca e
Sisinnio Barrai. Ignazio Serra è autore delle belle cartaglorie custodite nella
chiesa di San Giacomo. Il capolavoro dell’orificeria sarda è costituito dal cro-
cione processionale del Duomo di Cagliari, del Quattrocento. E firmato con la
sigla N. D., per cui non si può stabilife se l’artigiano fosse sardo o immigrato.
Per le botteghe cagliaritane fu un periodo di stasi il Seicento, anche per-
chè la peste del 1652 decimò le maestranze orafe di quella città. Già nel 1610,
però, maestri di Palermo avevano eseguito il grande tabernacolo del Duomo
di Cagliari e maestri spagnoli nel 1635 avevano eseguito il magnifico paliot-
to dell’altare maggiore.
Se abbiamo accennato all’attività” aulica” degli artentieri, è per sottoli-
neare il grande mestiere da essi acquisito durante i secoli; ma la loro attività
ci interessa, soprattutto, per la produzione dei gioielli e degli amuleti, per la
produzione di carattere popolaresco, che è stata particolarmente notevole.
Al metallo prezioso si aggiunge il disegno prezioso: una volta acquisite
le tecniche, l’argentiere e l’orafo si può dire che non abbiano limiti alla loro
creazione.
I gioielli, ornamento complementare sempre presente nei costumi, com-
prendono orecchini, bottoni, anelli, braccialetti, gancere, collane, pendagli,
ciondoli, amuleti, orologi, catene, fibbie.
Dopo il bottone di filigrana, la collana è il gioiello più diffuso, d’oro e
d’argento, talvolta lunghissima, di varia foggia: o formata da elementi diver-
si uno dall’altro, o con la ripetizione di uno solo, al massimo di due elemen-
ti (per esempio, rosette con pietre o perle incastonate e coppie d’aquile aral-
diche); il crocifisso reca ai bracci pendagli e al centro un santino inciso a tutto
tondo. E sorprendente con quanta fantasia sia stato trattato il simbolo della
croce.

190
Le catene, soprattutto quelle provenienti da area barbaricina, decorate
con misurato gusto da figure di cavalieri, cuori e uccelli, sono forse i gioiel-
li che più rispecchiano la sardità di queste produzioni.
Orecchini e anelli di semplice, elegante fattura, raggiungono spesso
anche elaborazioni interessanti, con incastonature di perle e di pietre.
I pendenti di collana recano spesso medaglie con il santo inciso o a tutto
tondo, ed i rosari in filigrana, decorati da rosoni di varia geometria e dal cro-
cifisso elaboratissimo, sono talvolta di grande dimensioni, da appendere a
capo del letto.
Portaprofumi, campanellini e amuleti contro il malocchio completano il
corredo dei gioielli personali; fra gli oggetti di toeletta, si distinguono gli spu-
ligadentes, decorati con perline, mostricciatoli, cavalieri, cuori con putti o
con aquile.

L’attività principale degli argentieri e degli orafi era volta agli oggetti di
abbigliamento, sia femminile che maschile; poi seguiva il vasellame dome-
stico e la suppellettile chiesastica (cartegloria, candelabri, pissidi, calici,
ostensori, reliquari, croci astili, corone, medaglie, crocifissi).
Non è da trascurare neanche il complesso, veramente notevole, degli
ex–voto che tappezzano i celebri santuari: cuori, occhi, arti e putti in lamina
d’Argento. Le Madonne sono cariche di gioielli e di ex–voto, tra cui antichi
rosari molto belli e amuleti legati in argento.
Sorprende, di alcuni tipi, trovare molti esemplari identici: specie gli spu-
ligadentes e le gancere venivano fatti in serie, per fusione. La matrice veniva
eseguita a mano, adoperando il martello e il cesello. Per la riproduzione, si
adoperava l’osso di seppia: dopo averlo asciugato, squadrato e appiattito,
veniva premuto dal modello, che lasciava l’impronta, costituendo il negativo.
Indi, si effettuava la colata sull’osso di seppia e poi si riprendeva la forma col
cesello e la lima.
Fra i metodi di lavorazione del metallo, era praticata la fusione, nel modo
anzidetto, lo sbalzo e l’incisione, ma la più diffusa di tutte era la tecnica della
filigrana. Con accorgimenti, si arrivò alla saldatura perfetta della filigrana.
Si esaltava la brillantezza degli oggetti in oro, immergendoli in una solu-
zione di allume di rocca, sale da cucina e salnitro, in una terrina.
E raro trovare incastonature di pietre preziose. Nella sezione etnografica
del Museo Nazionale di Sassari si trovano smalti, smeraldi e rubini sapiente-
mente incastonati. In genere, le pietre sono di scarso valore, perchè si cerca-

191
vano solo effetti di colore. L’unica pietra da incastro era il granato. Si usava
il vetro colorato e, spesso, la carta stagnola sotto il vetro trasparente.
Le collane si facevano anche col corallo – conosciuto da molto tempo
–con i granatini e con le perle. Dal Settecento si adoperano diffusamente le
perline di mare.
Il corallo fu introdotto nelle gancere da portare attorno al collo, eliminan-
do lastrine fatte a stampo, di cui un tempo erano interamente composte (usate,
per esempio, nel costume di Busachi), poi sostituite del tutto, nel Settecento,
dalla filigrana.
Oltre gli effetti di colore, interessavano spesso gli effetti magici, ricor-
rendo contro il malocchio all”occhio di Santa Lucia”, che è un opercolo di
murice, una conchiglia di mare; contro la iettatura in genere, si usava la pie-
tra nera, un vetro detto sa sabeccia (campidanese).

È da lamentare che per ricavare monili, siano stati impiegati – specie ai


primi del Novecento – gli “scudi” d’argento: assieme a quelli dei Savoia e del
Regno d’Italia, gli argentari fusero i preziosi “scudi” e le monete d’argento di
epoca spagnola. Si fece, cioè, il contrario di quanto si usava nel Medioevo, quan-
do le guerre facevano rastrellare i monili, e si coniava rifondendo i metalli: e la
scarsezza degli esemplari pervenutici dell’alto Medioevo è una delle cause,
infatti, che non consente lo studio comparato dell’orificeria presso i vari popoli.
Dalla caduta dell’Impero romano, si può dire, fino al XII secolo, si nota
in tutto l’Occidente una decadenza in conseguenza dell’impoverimento gene-
rale: corrispondono in Sardegna ai secoli del periodo bizantino e del primo
periodo giudicale.
Non sappiamo se i monasteri, anche nell’Isola, ebbero un ruolo nella for-
mazione degli artigiani. Le correnti di rapporti tra regioni e paesi continenta-
li, avvenute dopo l’XI secolo, in Sardegna non giunsero affatto o giunsero
molto attutite, per via dell’isolamento e della depressione cui essa venne a
trovarsi; l’arte rimase di tono modesto, ma arrivò ad assumere un carattere
decisamente sardo. Gli scambi che vedremo a proposito dei costumi, con la
repubblica di Pisa devono aver influito anche per la formazione artigiana dei
gioiellieri. Nel secolo XIV, erano attivi in Cagliari due argentieri immigrati
pisani, Puccio e Vanni di Guido.
Ma, se il gusto del monile prezioso andò di pari passo con quello dei
costumi, dobbiamo ritenere che il passo maggiore nella diffusione in tutta
l’Isola si ebbe dalla seconda metà del Seicento in poi.

192
La donna sarda, parca in tutto, tiene però alla proprietà dei gioielli, che
trasmette ai propri figli. I gioielli completano decorativamente i costumi: tal-
volta, questi sembrano la struttura portante d’una mostra di gioielli. Sono essi
che distinguono i costumi l’uno dall’altro nello stesso paese, la nota di indi-
vidualità di cui ogni donna si sente gelosa.
Se è difficile cercare di stabilire quali modi appartengano a un determi-
nato popolo sotto il profilo dell’originalità, è arduo indagano per la Sardegna.
La riproduzione degli stessi motivi decorativi non sempre si può spiegare
come fenomeno di convergenza: come ad esempio, spirali e meandri distri-
buiti a formare un identico disegno, pur nelle infinite combinazioni possibi-
li. Per quanto riguarda l’Isola, si può dire che si notano le imitazioni delle
forme importate, italiane e spagnole, che molto spesso inquinano le linee alta-
mente espressive della produzione locale, di sapore ancora di purezza arcai-
ca, sobria e raffinata a un tempo. I classici bottqni gemini in filigrana, da
collo e da polso, che si dice rappresenti il simbolo del seno di Tanit, lo si tro-
vano anche presso altri popoli, ma in Sardegna ha conservato un timbro par-
ticolare. E vano tentare un riallaccio molto antico, a gioielli orientali perve-
nuti attraverso il mercato fenicio–punico: traffico che era stato fiorente, come
attestano le necropoli di Tharros e degli altri centri semitici costieri. E più
verosimile che la tecnica della filigrana sia stata introdotta dal mercato
arabo–ispano, anche se non è improbabile, come si è accennato, che l’abbia-
no importata i Pisani durante il loro periodo egemonico. Risalgono però al
Settecento gli esemplari che ci dicono quale raffinatezza la filigrana sarda
avesse raggiunta. E parimenti al Sei–Settecento risalgono alcuni motivi fre-
quenti, quali i leoni coronati e le aquile araldiche. Gli amorini e le perle rag-
gruppate – caratteristici dell’orificeria campidanese – sono di gusto francese.
Fra le attività artigianali, quella degli orafi e degli argentieri è forse la più
stimolante il senso d’arte, non avendo si può dire, l’artigiano limitazioni di
ordine tecnico: la sua fantasia interpreta e soddisfa la domanda; il limite, è
costituito dal metallo prezioso e dal piccolo formato, non da come l’oggetto
viene confezionato. Gli artigiani sardi acquisirono le tecniche, che andarono
sempre più affinando; nella lavorazione del “filo” d’argento diventarono
addirittura virtuosi, la loro arte raggiunge un timbro schiettamente locale,
regionale, sia per la tecnica acquisita che per il ritmo compositivo, anche se
non sempre di carattere unitario.
Se troviamo miscuglio di elementi, accostamenti di epoche diverse,
gusto e tecniche diversi, si devono alle influenze negative esercitate
dall’Italia e dalla Spagna a discapito dell’unità stilistica che si stava deline-

193
ando in campo regionale. Quanto esiste nelle raccolte pubbliche e private,
non è stato fin ora classificato con criteri scientifici. Come si vedrà per i
costumi, anche per i gioielli è difficile l’attribuzione per regioni. Si riscontra
un gusto eccletico, che accomuna motivi religiosi e profani: accanto al santi-
no e al crocifisso, troviamo il grifo, il putto, l’aquila araldica; è assai ricor-
rente la forma del cuore.
Si può dire che il fondo indigeno si andò via via arricchendo di motivi,
con apporti delle diverse culture: bizantina, romanica, forse araba, rinasci-
mentale, barocca, neo–classica.
Gusto arcaico presentano i piccoli portaprofumi, anche se di produzione
relativamente recente. Gli spuligadentes, che fanno parte degli oggetti di toe-
letta e che si trovano appesi alle cinture, sono per lo più di derivazione spa-
gnolesca. Anche quei tipi di orecchini che simulano grappoletti d’uva, con
l’accostamento di piccole perle, ritenuti comunemente locali, sono comuni ad
altre regioni, così come abbiamo notato che i bottoni d’oro e d’argento hanno
forme che appartengono a un’area europea molto vasta.
In Sardegna, nonostante la religione diffusamente praticata, radicata è la
credenza nella iettatura e nel malocchio; per cui, sono stati adottati numerosi
antidoti: simboli magici, talismani, amuleti e feticci (fenomeno anche questo
comune a tutti i popoli). Qui in Sardegna interessa in modo particolare, per-
chè ha data adito alla creazione di oggetti preziosi che vengono appesi al
collo, soprattutto dei bambini. Essi vengono a formare un unico corpus con
gli altri gioielli.
Concludendo, si può affermare che pur non essendo agevole ricostruire
la storia dei gioielli e degli amuleti, essi si impongono per una impronta for-
temente caratterizzata, che si può senz’altro definire sarda.

FIGURE 117–130

194
117. Spilla in oro, perle e giada africana
118. Spille in oro e perle
119. Spille in oro e perle
120. Spillo con pendente
121. Rosario e collana
122. Cammei, corallo e madreperla con spilla in oro
123. Rosario d’argento e madreperla con medaglione
124. Spillo con pendenti
125. Spille con pendente
126. Spillo con pendente formato da bottoni
127. Spillo con pendente
128. Bottoni in oro
129. Spillo con pendente
130. Spillo con pendente
PRODUZIONI EFFIMERE
Si può dire che in Sardegna sia mancata la grande scultura. Anche con-
siderando le figure al naturale di età nuragica, venute alla luce recentemente
nel Sinis e che i Sardi, ai cui lontani progenitori si devono i prestigiosi bron-
zetti, hanno sempre scalfito, intagliato, inciso, resta quasi un mistero. Nè si
possono considerare vere sculture quelle rare figure di uomini e di animali
espresse dai terracottai. I rari scultori sono tutti del nostro tempo.
Non si può, però negare che i Sardi non abbiano il gusto della plastica,
anche se spesso di natura effimera per la materia adoperata: creta, pasta di
pane, di dolci, di formaggi, palma e cera.
Quando in Campidano si escavano i pozzi per ripulirli e fuoriesce l’ar-
gilla rossiccia, umida e compatta, i terrazzieri si compiacciono comporre
plasticamente figurette nella scala degli antichi bronzetti, per far sorridere i
bimbi: capita di vederne di eccellente fattura. Queste esercitazioni, che non
durano neanche lo spazio di un giorno, sono da considerare veramente un’ar-
te effimera, durano infatti appena il tempo per poterle fotografare. Ci sono,
tuttavia, altre espressioni più durature, cui si dedicano ancora le donne, come
i pani di festa e certi dolci, nonchè gustosi formaggi.
Il pane, sia esso di festa o quotidiano, rappresenta sempre una fatica
accompagnata con amore. Basta osservare, infatti, con quale delicatezza la
massaia esplora la cottura, spingendo delicatamente di quando in quando la
pala dentro il forno, onde non risulti compromesso il coronamento d’una
somma di fatiche: oltre quello dello sposo, le proprie: la battitura, la setaccia-
tura, la formatura. Ha accompagnato ogni atto col canto – il battito del setac-
cio richiede un ritmo particolare – ma ora tace, per l’attesa e la commozione.
Come il terracottaio, durante l’infornata.
La lavorazione della pasta è un ritmo collettivo, le donne cantano soprat-
tutto perchè trovano in questo atto un pretesto di gioia, dando forma, con
amore, alla propria fatica. Essa emula qui l’artigiano, adoperando la materia
plastica che le è consentito governare, la pasta di grano. E si compiace del
vasto e vario corredo dei canestri, per poter disporre delicatamente queste sue

211
effimere creature. Dalla lievitazione alla cottura e alla disposizione ordinata
delle forme dorate nei canestri, è come assolvere a un servizio religioso.
Anche la veglia ha un sapore rituale, e la mondatura del forno con scope for-
mate di particolari erbe aromatiche di campo, colte la sera precedente, è svol-
ta con la stessa accuratezza che ha presieduto alla formatura del pane. E pur
nella ricca gamma di forme del pane quotidiano, siano esse focacce o fogli
croccanti, eccellono le varie forme del bianchissimo pan ‘e sim buia (pan di
semola), confezionato sia per consumo pur esso quotidiano che per partico-
lari ricorrenze e circostanze.
Si fanno forme particolari per le cerimonie: battesimi, cresime, sponsali,
celebrazioni di prime messe, e in particolare ricorrenze dell’anno, come il
capo d’anno, l’Epifania, la Domenica delle Palme, la Pasqua. E comune pres-
socchè a tutta l’area isolana il pane pasquale con l’uovo, cesellato e “verni-
ciato” con spennellature d’acqua tiepida, durante la cottura; è in genere a
forma di coroncina, tutto seghettato di creste dette, in campidanese, pizzicor-
rus, per mezzo di speciali coltellini. Può anche essere a forma di pupazzo o
di navicella, a intagli di fiorami e persino di idoli. Per i bambini, a capodan-
no, si fanno i bastoncelli di Dio, cioè pani a forme di bastone episcopale, di
un bastone animato di bracce e di piedi, seghettato nella parte esterna della
spirale come la cresta del gallo.
In alcuni centri del Logudoro, si confeziona per l’Epifania una schiaccia-
ta, detta sa giuada, adorna di bassorilievi con scene a arnesi agricoli.
Il pane a tondelli intrecciati, come si usa fare con le foglie di palma, è
detto per questo “pane di palma”: il traliccio viene costellato di foglie, rosel-
line, uccellini. Per la domenica della palme, si prepara anche una specie di
trofeo con gli strumenti della “Passione”: a forma di croce, di scalette, di
tenaglie, ecc.
Per le nozze è frequente, oltre la forma della colomba, quelle di cuore, di
mezzaluna, di uccelli. In Logudoro, il pane degli sposi novelli dura a lungo:
su rosoncini si praticano graziosi intagli di forma triangolare, circolare ed
ovoidale. Per le decorazioni, si adoperano piccole pinze dentellate con le
quali si tracciano dei rialzi (pintabai = decora pane), o le forbici.
Specie nei villaggi di montagna, è ancora in uso lo stampo di legno: i
dischetti di pasta ripetono le decorazioni tratte dal cassone nuziale, a guisa di
una piccola opera d’incisione e di intaglio. Ogni villaggio adopera un tipo di
stampo: c’è la ripetizione, in questi casi, quasi meccanica, dei motivi, che
sono geometrici, floreali e simbolici, come il cuore e le fedi intrecciate.
Il pane, a forma circolare, stellare, di croce greca, di quadrifoglio e di

212
varia, polilobata geometria, viene premuto coi timbri di legno, tutto traforato
e trapunto con gusto, con impeccabile simmetria. Poi c’è il pane decorato con
fantasia, a tutto tondo: pesci dalle strane forme, cagnolini, caprioli, uccelli
fantastici, pupazzi, o forme decisamente astratte, o anche gruppi modellati
con somma pazienza e perizia, densi densi, raffiguranti il gregge, scene del-
l’aia, ecc.
Anche il “pane benedetto”, che si distribuisce ai poveri in certe ricorren-
ze festive, ha spesso forme fantasiose, onde appaia più gentile il dono (una
rozza cornacchia è detta sa carro ghedda).
Come presso i ceramisti l’anfora composita, così ha avuto fortuna in
Barbágia, un trofeo di abilità, che assomiglia a un vaso di fiori fatto di pasta
e che è stato forse suggerito dal nénniri, l’erba sacra del venerdì santo. E un
motivo importante di folklore figurato, come certe forme strane di uccelli, di
simboli sacri di fecondità, di lune con croci e candelabri.
Oltre i “decora–pane”, per la modellazione dei pani cerimoniali, le for-
bici e i timbri, si adoperano anche le rotelle dentate e i bottoni di filigrana
delle camicie. Il bambino si accontenta di roari di dadetti croccanti; per la
prima comunione riceverà ostie a forma di calice e di croce, con fiocchi rossi
intrecciati tra le trine di pasta; gli sposi e i sacerdoti conservano per lunghi
anni alcuni esemplari di pane fra i più belli ricevuti nel giorno delle nozze o
per la prima messa, assieme agli altri doni.

Il pane di Natale – la festa più bella dell’anno, che vede la famiglia,


anche quella del pastore nomade, tutta raccolta attorno al focolare – è deco-
rato con noci, noccioline, mandorle. E attorno all’uovo di Pasqua, si svolgo-
no ghirigori fantasiosi: pane lucido, dorato, tutto seghettato e a guglie. A
guisa di fantastici cavallucci marini, quelle forme, disposte nei cestini di asfo-
delo, di palma o di paglia, sembrano delle nature morte. Qui troviamo la fan-
tasia individuale, completamente libera da schemi o da ricordi, veri pezzi di
artigianato.
E le forme di pane biscottato, che è quasi un dolce? Non si sa, infatti,
molto spesso, dove finisca il pane e dove inizi il dolce. La sapa, la ricotta,
l’uva passa sono i termini di passaggio: col pan di sapa, le “formagelle”, le
párdulas, le tiriccas.
Ad un dolce, is pistoccheddus de Serrenti (i biscottini di Serrenti) si dà
molto spesso la forma di uccello, il comune motivo della decorazione del cas-
sone nuziale e dei tappeti, ma a differenza di questo, stilizzato e severo, è di

213
forme spigliate, con la cappa bianca cosparsa di confetti variopinti (trageda).
Il fatto che si sia ricorso all’uccello è spiegabile con la resa efficace del
semplice ritaglio: sia per quelli di grandezza d’una diecina di centimetri che
si confezionavano una volta, sia per quelli di formato minuto che sfornano
oggi. Ma dove veniva prestata la maggior attenzione era il monumentale gatò
di mandorle, il cosidetto (camp.) su cambali, che la priorissa portava con sus-
siego in processione per la festa della Candelora e ne faceva poi omaggio al
parroco. Era quasi sempre un’architettura composita (la torre, il castello, il
nuraghe o anche un santo annicchiato) di mandorle tostate e di zucchero,
dove c’era abbondanza di zucchero, o di mandorle tostate e miele, dove si
produceva il miele.
L’abilità della mano asseconda la fantasia anche nella confezione dei
cavallucci, uccelletti e trecce di cacio.
Queste forme che si rinnovano ogni volta, con fresca fantasia, sono assie-
me al gustoso contenuto, prodotto di autentico artigianato artistico.

Per il periodo della Pasqua, l’artigianato casalingo non si limitava alla


religiosa preparazione dell’erba sacra e alla confezione del lucente pane di
festa con l’uovo, ma si estendeva anche alla lavorazione della palma, che in
certi paesi era riservata a dei veri specialisti. Le palme meglio operate erano
destinate al parroco, ai priori delle confraternite religiose, ai maggiorenti.
La palma operata – anch’essa una fatica effimera – durava tutt’al più un
anno – sembrava una fantasia borrominiana, fatta di intrecci, “cuori” e infioc-
chettamenti. Decorata con pezzetti di stagnola o d’oro in foglia, vi si aggiun-
geva qualche ciuffo di violaciocche e qualche ramoscello d’olivo. E si porta-
va, con grande emulazione e orgoglio, in chiesa a benedire per riportarla poi
a casa e appenderla in capo al letto.
La passione per la plastica, assai diffusa, come è facilmente constatabile
nella lavorazione del pane, si rivelava anche nella scelta degli ex–voto che,
fino a poco tempo fa, si facevano preferibilmente di cera pecie le figure di
bambini, derivati dai putti attraverso il barocco dell’Italia meridionale, sono
frequenti forme che i cerai sardi ripetevano e portavano in copia nelle sagre
religiose. Sono un capitolo notevole della plastica votiva che si estrinsecava
anche con manufatti di altre materie, in primo luogo il legno, l’argilla, il bron-
zo e l’argento.

214
MANUFATTI DI MATERIE VARIE
Fra le umili essenze usate dall’artigianato, non potevano mancare le
piante palustri che, anch’esse abbondanti, allignano sull’orlo degli “stagni”,
specie di quelli numerosi dell’Oristanese. In primo luogo, il biodo, detto alla
latina buda (Typha Angust(folia) e l’erba salla (Rumex Acetosella), con cui si
confezionano ancora le stuoie: un tempo impiegate per riposare, oggi per
pannellature varie e per riporre frutta ad essicare. Il fogliame giallastro, tenu-
to da tre legature di cordicelle nel senso longitudinale, con i bordi liberi, dà
un senso di freschezza. La stuoia presenta anche il vantaggio che, dopo l’uso,
si può arrotolare, occupando poco spazio. Si confeziona ancora a Zeddiani,
Milis, San Vero Milis e Santa Giusta, nella misura ormai standard, di m.
1,70x0,90.
Con un’altra pianta palustre, detta cruccuris (Ampeloderma
Mauritanica), i pescatori di San Giovanni di Sinis e di Mistras confezionano
vaste, magnifiche capanne rettangolari, con la sola apertura d’ingresso, inte-
ressanti per come sono strutturate, ma soprattutto per la decorazione di
entrambe le testate. La forma di esse è antichissima, come parimenti ilfasso-
ni di cui si è già parlato, l’imbarcazione di vimini ancora in uso nello “sta-
gno” di Cabras. I pescatori di Cabras confezionano queste imbarcazioni
anche in piccola scala per i loro bambini e da un pò di tempo sono apprezza-
ti souvenirs.
Si ricollegano a detti manufatti le chiuse di canne palustri e le capannuc-
ce dei guardiani delle peschiere di Mar’e Pontis, nel Sinis, le quali sono
anch’esse opera di eccellente artigianato.
Nella stessa area dell’Oristanese, a Milis, si lavora un’altra essenza, che
ivi cresce gagliarda, la canna, per confezionare ancora stuoie. Un tipo è otte-
nuto con la stessa tecnica della stuoia di biodo, fatto di canne tagliate della
larghezza voluta, un altro tipo è ottenuta con la canna spaccata e tessuta. La
prima si usa per creare zone d’ombra e per deporvi ad essicare pomodori,
mandorle e noci. Della seconda attualmente si confezionano pannelli che di
norma hanno le dimensioni di m. 2,50x1,50 e dim. 1,70x0,90. Questi ultimi,

217
usati per deporvi le arance (Milis produce molti agrumi), sono i più antichi,
come le misure denunciano: la lunghezza, infatti, è la traduzione metrica
della bracciata (passa), mentre i primi servono per la costruzione dei tetti,
come protezione (recente) dei ponti di servizio, ecc. Una volta, coi pannelli
si faceva il tettuccio del carro, per far ombra e riparare dalle intemperie
(quando si andava alle sagre, si stendeva sopra una coperta da letto, altrimen-
ti detta “tappeto”). Si facevano i cilindri–silos per la conservazione del grano
e dei cereali, detti orrios (dal latino horrea). I milesi, in particolare, se ne ser-
vivano per il trasporto degli agrumi sul carro a buoi. Disposto il cilindro in
posizione orizzontale, dentro si ammucchiavano le arance e vi si sistemava
anche il venditore, come è ricordato da un noto acquarello della Raccolta
Luzzietti.
I tessitori di canna (che operavano in vari centri) sono di un’abilità stra-
ordinaria: praticano alla canna due nervosi tagli alle estremità, indi con la
punta affilatissima d’un falcetto praticano un taglio longitudinale assai rapi-
do, l’appoggiano su una pietra levigata murata a pavimento e la battono con
una mazza di legno (il manico è ricavato dallo stesso pezzo), la aprono e la
sbucciano. Questa operazione la eseguono per ultimo (al contrario di quanto
può sembrare ai non esperti), perchè risulta assai più rapida di quando la
canna è intera: il falcetto scorre su una superficie piana anzichè su una super-
ficie di un cilindro di piccolo diametro. Una volta preparate le strisce, si
dispongono a compenso ed infine si tessono a spina di pesce: ed è sorpren-
dente la rapidità con cui nasce il pannello, che viene bordato tutt’attorno,
ripiegando le stesse strisce, affinchè non si sbocconcelli. Poi, i pannelli si
distendono nel cortile o sulla strada, al sole, per ingiallire, e vengono accata-
sti, come si usa fare per i fogli di compensato.
Che la tradizione dei tessitori di canna sia antichissima, lo dimostrano
alcuni manufatti ceramici del periodo nuragico, che si trovano – come si è già
accennato – nei nostri musei: precisamente, quei vasi denominati dagli
archeologi “a stuoia”, perchè si ottenevano facendo ruotare una piccola stuo-
ia tessuta che serviva da appoggio alla creta, per ottenere la forma voluta:
funzione che più tardi è stata meglio disimpegnata dalla ruota figulina. Sul
fondo gli antichi cocci recano ancora l’impronta dell’ordito.

Con le canne, si fabbricavano alcuni giocattoli per i bambini. Equitare in


arundine, cavalcare su cavallucci di canna è una tradizione molto antica. Qui
li ricordiamo per la varietà e la grazia con cui venivano confezionati: o for-

218
mati da due pezzi di canna e da una cordicella (le briglie) oppure da tre pezzi
di canna, di cui il maggiore da cavalcare, e due più piccoli per simulare la
testa, con le orecchiette ben puntute e il taglio della bocca, e allo stesso tempo
le briglie. Il rapporto delle tre aste raggiungeva spesso una rappresentazione
astratta di grande efficacia. Veniva sovente infiocchettato, come si bardavano
i cavalli veri per le processioni.
Un altro giocattolo, fatto essenzialmente di canna, con la sola rotellina
dentata di legno che batteva contro la linguetta petulante, era la “raganella”.
Non era propriamente un giocattolo, ma i ragazzi si divertivano un mondo,
durante la settimana santa, per cacciar via il demonio.
Sempre con le canne, si confezionano ancora gli strumenti musicali a fiato:
i pifferi, gli zuffoli e il tipico strumento isolano, le launeddas, a tre canne.
I ragazzi si divertivano con lo zuffolo ad incantar le lucertole, ma si
divertivano anche e forse più con lo schioppo (scupeta), consistente in un
pezzo di canna della lunghezza di circa cinquanta centimetri, solidale con una
fetta sottile, pur essa di canna, tesa ad arco, la quale nella parte libera scorre-
va in un foro dalla banda opposta; mediante una leggera pressione dell’indi-
ce, essa spingeva il proiettile, un tubetto di canna, di diametro inferiore di
quello della canna dello schioppo. Nella sintesi costruttiva, il grilletto è tut-
t’uno con la cinghia per portare lo schioppo ad armacollo, sicchè la geniale
semplicità del giocattolo è veramente ammirevole.
Le bambine si accontentavano di recare “in processione” lo “stendardo”,
costituito da un’asta lunga, su la cui estremità superiore si disponevano due
stecchi ad X e due altri orizzontali, tenuti reciprocamente per contrasto.
Nel Capo di Sopra, dove abbondano la ferula e l’asfodelo, si facevano i
cavallucci con due tronchi di feruda, e sediette per bambole, adoperando gli
steli di asfodelo, tenuti ad incastro.

Il sughero non ha sollecitato molto la creazione di forme, forse perchè la


materia resta un pò sorda. Solo di recente, assieme a brutti oggetti, su disegni
di artisti sono stati eseguiti anche ottimi modelli, previo trattamento del
sughero. In Gallura, dove se ne produce e se ne lavora in maggior quantità, si
trova un maggior numero di tipi di manufatti. Naturalmente, alludiamo alle
forme tradizionali, non alle aberrazioni–souvenirs degli ultimi anni, intar-
siando il sughero grezzo con quello rifinito.
Del sughero si scelgono le forme naturali più adatte per servire da vasso-
io per gli arrosti; ugualmente si ricavano recipienti cilindrici per vasi da fiori,

219
per contenere latte e liquidi in genere, fra i quali molto diffuso l’uppu, col
lungo manico di legno. Belle le antiche misure, anche per le soluzioni degli
incastri, delle giunture e del bordo. Dai nodi di sughero si fanno rustici bic-
chieri per le cantine, soprattutto per bere acquavite.

E curioso che alla pari del sughero, anche un’altra materia di pregio e
abbondante, il cuoio, non abbia suggerito molte applicazioni. Notevoli con-
cerie erano quelle di Bosa e di Sassari, ricercate per la qualità del cuoio. Ma
si conciava in tutte le case dei pastori ed anche dei contadini.
L’applicazione che ebbe larga diffusione fu la creazione dei finimenti per
cavallo, sia per uso quotidiano che per la bardatura a festa (Serramanna,
Santulussùrgiu) e per alcuni indumenti.
Cinghie larghe e istoriate, fatte a stampo e a colori facevano parte del-
l’abbigliamento maschile; se ne fabbricano ancora, unitamente a portafogli e
portamonete, a Dorgali. Si può dire chç quasi tutte le pelletterie si confezio-
nano ancora in quest’ultimo centro. La produzione, però, è volta a modelli
aggiornati di borse (Pattada, Bosa, Santulussùrgiu, Monserrato).

Le zucche sono state da tempo graffite, onde ottenere borracce per con-
tenere vino o acquavite o per usarle come fiaschette per la polvere da caccia.
Delle svariate forme cucurbitacee, non sono mai state scelte quelle di forme
bizzarre – come si fa oggi, pirografandole malamente – ma quelle di forma
più comune, di sfera schiacciata. Si agganciava una cordicella o una striscio-
lina di cuoio, per portarla a tracolla.
La lavorazone è in genere come quella dei corni incisi: scene religiose,
con figure di santi, scene di caccia ed elementi floreali e geometrici. Il pasto-
re graffiva con grande pazienza, nelle lunghe ore di sosta.

FIGURE 131–140

220
131. Recipiente in sughero e cucchiaio con forchetta in legno
132. Scatola in sugherone
133. Recipiente in sughero
134. Bamboline
135. Donna di Ollolai e uomo di Núoro
136. Girotondo e bambino
137. “Launeddas”
138. Zuffoli
139. Raganelle
140. Báttola
I COSTUMI
Oggi, chi desidera vedere raggruppati i celebri costumi, in numero dav-
vero imponente, non ha che assistere alle sfilate, da molti anni ormai in calen-
dario, che si tengono per la sagra di Sant’Efisio a Cagliari, per la “Cavalcata”
di maggio a Sassari e per la festa del Redentore a Nuoro. Queste sfilate costi-
tuiscono un museo vivo, che si rinnova ogni anno al sole dell’Isola; ma chi
desidera fare un ponderato esame di essi, c’è a Nuoro, sebbene ancora incom-
pleto, il Museo della vita e delle tradizioni popolari sarde. E difficile trovare
ormai i costumi nel loro ambiente naturale, anche nei paesini più sperduti del-
l’interno. In qualche centro barbaricino ci si può ancora imbattere, nei giorni
feriali, in persone anziane che non hanno mai abbandonato il costume di fog-
gia tradizionale e, nei di festivi, in qualche giovane donna in costume, a
Désulo.
Certo, poterli vedere in gran numero nell’ambiente del villaggio o nelle
sagre campestri, come avveniva fono al primo quarto del presente secolo, era
ben altra emozione.
“Ma il nostro timore – scrivevano negli anni Trenta l’Arata e il Biasi –è
che la vita moderna, col suo travolgente impeto che sposta e sgretola valori
con rapidità vertiginosa, faccia sparire anche questa espressione etnografica,
nonostrante lo spirito tradizionale della razza tenti di ritardare quello svilup-
po graduale che trascina uomini e cose in una evoluzione costante e precisa
che, spesso, nessun urto può far, deviare o arrestare. E ciò sarà un grave
danno per l’integrità della nostra Isola e per le caratteristiche fisionomiche
della nostra razza”.
I Sardi sembrano però aver preso coscienza di ciò, se in ogni cassone tra-
dizionale tengono riposto un costume di gala preziosissimo, da indossare per
le grandi sfilate. Rispetto a mezzo secolo addietro, anzi, il patrimonio in
costumi è oggi forse superiore, se si pensi che alcuni centri, dove se l’erano
scordato, se lo sono ricostruito attraverso le documentazioni grafiche e lette-
rarie dell’Ottocento.
Indossati una volta sia dal modesto lavoratore che dal benestante

233
maggiorente in tutti i giorni dell’anno, si può dire che i costumi abbiano dura-
to a lungo, incalzati dal progresso travolgente. Fino alle soglie del nostro
secolo, tutti i centri sardi dovevano apparire gai, come parati a festa: costumi
contro i ferrigni murati montanari e contro il gialliccio dei mattoni crudi, nei
centri di pianura. Da un centro all’altro era una sorpresa: resta infatti da inda-
gare il perchè della differenza dei costumi sgargianti al di qua di un modesto
rilievo e altri invece più austeri una volta superato il colle, o il perchè delle
diverse fogge di copricapo – che costituisce forse l’aspetto più saliente –
come per esempio, tra la cuffietta di Désulo col copricapo muliebre della vici-
na Tonara, del severo fazzolettone giallo delle orgolesi col composto fazzo-
letto delle donne di Nuoro.

Non solo non è semplice, ma è addiritura arduo indagare a quando i


costumi risalgono. Dalle collezioni di stampe ottocentesche e dalle descrizio-
ni entusiastiche degli scrittori che visitarono l’Isola nel secolo XIX, è quasi
impossibile poter risalire alle origini. Si pensi che oggi li vediamo già diver-
si da come appaiono nelle rappresentazioni figurative di allora, tempere,
acquarelli e litografie, quasi tutti ottocenteschi: sono stati, cioè, soggetti a una
continua evoluzione, seppur talvolta lenta; il fatto che gli indumenti muliebri
non siano rimasti cristallizzati, è un fatto squisitamente femminile, come
dimostra anche il raffronto con il costume maschile, che non ha subito sensi-
bili modifiche.
Credo che l’autentica storia, scientificamente credibile, del costume
sardo resti nei desideri di chi si proponga di affrontarlo: esso sembra sfuggi-
re, infatti, a qualsiasi analisi comparativa, come giustamente fece osservare
Francesco Alziator. Uno studio responsabile implica una documentazione
museografica di tutta l’area nazionale non solo, ma anche delle regioni alle
estremità del Mediterraneo, chè soprattutto dalla Spagna diversi costumi
devono essere pervenuti. Si trovano, infatti, qua e là, assieme ad elementi che
possiamo ritenere indigeni, elementi comuni ad altre culture. Questo, per
quanto concerne le origini, che si vorrebbero molto antiche. Ma già nel
Medioevo erano in atto influenze esterne. Si sa che sotto la repubblica, a
Sassari si lavorava panno lombardiscu; antiche carte parlano di tela finissima,
di fustagni rigati, oltre che di orbace. I Barbaricini barattavano i loro prodot-
ti dell’agricoltura e della pastorizia, stoffe, tra cui il costoso broccato, con i
Pisani e con i Genovesi, i quali li acquistavano dai paesi del Mediterraneo
orientale. Nel Cinquecento erano fiorenti alcune fabbriche di stoffa, dato l’ac-

234
cresciuto numero dei filatoi. G. Cossu riferisce che nel Settecento era lodata
la tela di lino tessuta a Sassari, “la più compatta e fina di quante altre tele si
hanno nel regno”. Il Comune di Sassari, con l’intento di formare allievi, nel
1834 incoraggiò e finanziò una fabbrica di “tela a scacchi”, ma l’industria
non diede i risultati sperati e durò poco.
L’arte del conciatore è anch’essa antichissima, e in alcuni centri
dell’Isola la trasformarono in industria fiorente: e anche quest’attività ebbe
influenza sullo sviluppo di alcuni indumenti maschili.
Come è accaduto per altre produzioni artigianali (tele da muro e “tappe-
ti”), già dal punto di vista coloristico e decorativo, è facile il riscontro della
differenza sensibile tra costumi antichi e quelli fino a noi pervenuti. L’orbace
– che resta il tessuto fondamentale per l’abbigliamento – si tingeva con tinte
vegetali, che assumevano tonalità meno vivaci; con l’introduzione di coloran-
ti forniti dall’industria, si ebbe una brillantezza maggiore. Fra le tinte, ha pre-
dominato sempre il rosso scarlatto: risalendo nel tempo, il rosso ricordava il
sangue e il fuoco.
Le dominazioni che si sono succedute hanno dato apporti, e poichè gli
Spagnoli sono stati nell’Isola in unarco di ben quattrocento anni, possiamo
immaginare che buona parte sia stata assoggettata ad influenza spagnola.
Mode e gusti continentali non è possibile non abbiano inciso sul costume
femminile; nobildonne e mogli di funzionari spagnoli devono essere stati i
veicoli di novità della moda, dal Trecento al Settecento.
Già dalla metà del secolo scorso si notava l’imbastardimento dei costu-
mi in prossimità della costa, nel Campidano, nelle due città principali e nella
zona mineraria dell’Iglesiente, poichè si sono verificati ivi più frequenti con-
tatti esterni. Meno contaminati risultavano, ancora nel primo quarto del pre-
sente secolo, i costumi dei centri ricadenti nella fascia orientale dell’Isola
(dalle coste poco accessibili) e della zona centrale. Già una differenza esiste-
va tra il costume di tutti i giorni e quello di gala, più rappresentativo e, per-
tanto, conservandosi meglio, restava più fedele agli antichi modelli, meno
influenzato da mode esterne.

Diamo inizio ad esaminare il costume maschile, che quasi certamente è


il più antico ed il più stabile e quasi sempre unitario. Si presenta, intanto, con
un’unica fisionomia in tutta l’area regionale, con qualche variante locale. E il
costume che il tempo ha selezionato, soprattutto per la praticità, in rapporto
al clima; esso non presenta niente di superfluo e di arbitrario. Il berretto fri-

235
gio è il primo elemento saliente, anche se comune a molti popoli del
Mediterraneo: era portato con disinvoltura in diversi modi, a cecciu o ripie-
gato sul davanti, nelle Barbágie, o con la punta sul petto, in Gallura e nel
Sassarese, o buttato sulle spalle, nell’Ozierese; ed anche di colore diverso dal
nero. La berritta, che in origine era corta, andò allungandosi considerevol-
mente negli ultimi tempi.
In Campidano, attorno alla berritta veniva annodato sul davanti un faz-
zoletto rosso.
Altri elementi originali erano costituiti dalle ragas (dal greco rhacos),
una sorta di corto gonnellino di orbace quasi sempre nero, bordato, con ampia
pieghettatura. Sotto, le larghe braghe di tela bianca, libere al ginocchio o rien-
trate nei borzacchini, del tipo a uosa, in genere con abbottonatura laterale, e
anch’essi di orbace nero, come le scarpe un tempo lunghe e appuntite. Sulla
camicia bianca, un corpetto nero o scarlatto o d’altro colore (corittu o corpet-
tu), adorno di doppi bottoni d’argento, stretto al busto con larga cintura di
cuoio e una sorta di giacca corta o gabanella (gabbanu), munito di cappuc-
cio. Sopra il corittu, poteva esserci il collettu, in genere di cuoio conciato e
trapunto di ricami, terminante in gonnellino e stretto alla vita da una larga
fascia.
Una variante semplificativa era costituita da pantaloni lunghi di orbace o
di velluto (Santulussùrgiu, Paulilátino, ecc.). I pescatori avevano le braghe
libere ed erano scalzi (Cabras). A Cagliari, la guardia d’onore a cavallo, i
cosidetti “miliziani di Sant’Efisio” indossavano il giustacuore scarlatto, con
maniche lunghe e bordato da due strisce nere; berretto rosso, tronco conico,
derivato dal fez.
Una giacca corta, senza maniche, più o meno trapunta di ricami, era di
pelle di agnello e poteva essere indossata in luogo della gabanella, sopra il
corittu. Elemento dei più antichi era la mastrucca, di pelle villosa, comune a
molti popoli del Mediterraneo. Cicerone la chiama “sarda”, per la sua diffu-
sione: indumento pratico e igienico a un tempo, senza maniche, arrivava al
ginocchio, ma spesso scendeva fino ai piedi.
Invece della mast rucca, poteva essere indossato il gabbano di orbace
nero, bordato, lungo anch’esso fino ai piedi; forse, era di derivazione latina.
Nel Campidano veniva indossato il cappottu serenicu (cappotto della sera),
una sopraveste con cappuccio, col rovescio di color scarlatto. Erano varianti
del saccu de coberri, pluriuso, per coperta e giaciglio.
A questo schema fa eccezione il costume maschile di Teulada, nel Sulcis,
centro vivace che era, fino a qualche decennio addietro, uno dei più caratte-

236
rizzati dell’Isola: privo di ragas, i calzoni molto lunghi sotto al ginocchio, del
tipo valenzano–murciano. L’elemento saliente era costituito anche qui dal
copricapo che, invece del berretto frigio usato negli altri centi del
Sulcis–Iglesiente, era costituito da un cappello grigio chiaro a larghe tese, per
il riparo dal sole, certamente anch’esso di origine spagnolesca (sumbreri).
Dalle braghe a campana, con spacco, di orbace o di velluto nero, fuorusciva-
no i borzacchini. La camicia ad ampie maniche aveva un altissimo colletto
inamidato, aperto sul davanti, finemente ricamato. I giustacuore erano borda-
ti di verde e avevano doppia bottoniera, con monete d’argento. Il pettorale
ricamato è comune a molti popoli.
A parte questa variante di Teulada e altre meno importanti di Carloforte
e di La Maddalena, decisamente di tipo genovese, gli indumenti maschili pos-
sono ritenersi autenticamente indigeni; ma è un pò arduo poter individuare le
diverse componenti storiche, senza dubbio molto lontane nel tempo.
Completamento dell’abbigliamento maschile era l’acconciatura dei
capelli: i pastori si lasciavano crescere la barba, i contadini usavano di prefe-
renza la treccia.
Sono anche interessanti, oltre i gioielli, i tipi di cintura e l’arma da taglio
col manico riccamente lavorato, che veniva infilato nella cintura. Con l’avven-
to delle armi da fuoco, alla cintura si sovrappose la cartuccera (carrighera).
Non si può tralasciare di accennare ai costumi delle corporazioni di
mestiere, i gremidi Sassari, di derivazione interamente spagnola. E caratteri-
stico il grande cappello nero di feltro a larghe tese montate sui fianchi; una
secentesca cappa nera scende fino ai piedi e una zimarra piuttosto lunga sta
sopra la giacca a falde corte, nera, e neri sono i calzoni corti, le calze e le scar-
pe, con fibbia. Invece della zimarra, altri indossano il cogliettu, di cuoio gial-
lo. I maggiorali indossano una casacca nera a falde corte, bordata di bianco,
come bianco è l’ampio colletto rigido; la camicia, ricamata, è a collo alto.
Differenti costumi indossavano a Cagliari il rigattiere, il pescatore, il
macellaio, il maiolu (lo studente inurbato, a servizio d’una famiglia).
L’uomo a cavallo col fucile era un figura frequentissima in tutta l’Isola,
come un quadro ottocentesco comune era costituito dalla coppia a cavallo,
uno dei motivi ricorrenti nella decorazione dei tessuti.
Oggi, il costume maschile di montagna si è modernizzato in un tipico
indumento detto, appunto, alla montagnina: giacca di velluto o di fustagno,
berretto alla ciclista e pantaloni alla cavallerizza tenuti da gambali neri. E
quanto resiste di una lunga tradizione, segno della praticità per i lavori agri-
coli e pastorali.

237
Non è da escludere che certe affinità esteriori possano essere state
semplicemente casuali. Sono stati fatti accostamenti, soprattutto per gli indu-
menti femminili, con costumi magiari, dalmati e dei Balcani, che a loro volta
trovano radici nel Mediterraneo orientale (si è pensato anche a Creta). I
costumi della Barbágia ricordano quelli di Corfù e della Macedonia, ornati di
gioielli alla filigrana. Le sottane a fittissime pieghe e i corsetti con maniche a
sbruffi si incontrano anche presso altri popoli.
Anche nel costume femminile è soprattutto il copricapo a costituire l’ele-
mento distintivo. Può essere la pezzuola bianca di lino di derivazione
medioevale, o colorata, o il cappuccio o la cuffietta, o il fazzolettone a manto
ricandente o annodato a cercina o composito, o il velo ricamato a mantiglia.
La bianca camicia ricamata, il corsetto, il giubbotto (gippone), la gonna ed
il grembiule sono le costanti che col mutar di forma e di colore, raggiungono
una varietà veramente sorprendente. Improntati a sobrietà, austerità o a ricca
fantasia, sono sempre mirabili per l’eleganza, gli accordi cromatici, l’euritmia.
I costumi non sono fissi (i più stabili` sono quelli di area barbaricina).
Variano poco strutturalmente, mutano invece le qualità delle stoffe, i colori,
le decorazioni.
L’uso di capovolgere il lembo della gonna sul capo è comune a molti
centri dal costume differenziato, dai paesi dell’Oristanese, a quelli della
Gallura e del Sassarese.
La camicia, più o meno scollata, più o meno ricamata, valorizza sempre
il petto, con la collaborazione dell’attillato corsetto, i cui modelli possono
essere stati tanto italiani che spagnoli. Il corsetto varia notevolmente di forma:
dai centri del Goceano a quelli del Gennargentu, a quelli del Campidano
Maggiore. In questi ultimi costumi, dai colori tendenti al giallo e all’avana, di
tonalità raffinate, un fazzoletto quadrato o una pezzuola di stoffa bianca e fer-
mato dal corsetto, ha contribuito ad attenuare la scollatura della camicia (la
quale, tra corsetto e gonna forma un perfetto toro, tutt’attorno). Furono i padri
gesuiti, tra la fine del Settecento ed il principio dell’Ottocento, a suggerire
questo accorgimento per smorzare l’effetto del petto esuberante, e l’uso si dif-
fuse in altre subregioni. Il corsetto è di velluto nero (Goceano) o di broccato a
fiorami d’oro e di forme diverse, terminante anche a punte, con ampia apertu-
ra sul davanti; il gippone gioca sulle maniche ornate di bottoni a filigrana,
dalle cui aperture escono gli sbuffi di diversa foggia della camicia.
La lunga gonna è più o meno scampanata e pieghettata; la reggono più sot-
togonne e sul davanti è coperta dal grembiule, che è in genere il capo che carat-
terizza maggiormente il costume. Fra i più notevoli, sono quelli delle donne di

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Orgósolo, con ornamentazioni stilizzate. Per le grandi solennità, usano esporli
come un gran pavese, traversalmente alla strada principale del paese, su fili tesi
in alto fra le case, conferendo all’ambiente una vivacità straordinaria e mostran-
do altrettanto straordinaria varietà di motivi. Il grembiule è la parte forse più
originale del costume di Nuoro: di panno scuro, leggermente più corto all’estre-
mità superiore che in quella inferiore, sui quali spicca una fascia larga, dove
piccoli motivi si rincorrono. Gli altri due lati, verticali, sono bordati di colori
vivaci. Al di sopra dell’ampia fascia, sono disposti, con visibile contrasto, delle
piccole palmette stilizzate. Nei giorni di festa venivano indossati unitamente a
un giubotto scarlatto tutto sciolto con spacchetti sulla gonna di lana nera a cre-
spe che, stringendo i fianchi, scendeva fino alla caviglia.
Oltre al grembiule, l’altro elemento che dà tono al costume di Orgósolo
è la benda gialla che avvolge il capo e il mento.
In Ogliastra, il costume è contrassegnato da una cappottina sulla testa,
tenuta ferma da una catenella d’argento passante sotto il mento.
A Ploaghe, l’elemento distintivo è ancora il copricapo: le donne indossa-
no una pezza rettangolare di panno color arancione; quattro pezzuole di raso
azzurro sovrapposte ad essa, delimitano al centro una croce. Questa manti-
glietta è chiamata su manteddu, e compone bene col resto, fatto di raccordi di
rosso, nero e azzurro e pezze scarlatte sul nero della gonna, detta sa tùniga,
con alta banda azzurra.
Le donne di \lìllanova Monteleone, di Ittiri, di Thiesi, di Bonorva e di
altri centri del Logudoro si distinguono per la mantiglia: un grande velo bian-
co ricamato compone col grembiule trasparente sulla gonna.
Le sennoresi indossano sul capo una pezzuola bianca caratteristica, che
spicca sul corsetto dorato e l’ampia gonna pieghettata.
Le osilesi indossano sopra il soggolo monacale, una cappetta monocolo-
re orlata, la cappitta (il costume è cambiato notevolmente dalla fine
dell’Ottocento ad oggi: prima era monacale, la gonna veniva rovesciata sul
capo, si vedevano soltanto gli occhi).
E ancora la pezzuola candida sul capo che distingue il bel costume di
Atzara, in cui spicca il gippone riccamente decorato.
Il costume delle desulesi è caratterizzato dal cappuccio e dalla cuffietta.
In alcuni centri, come Nule, Bitti e Oliena, il copricapo è costituito da un
grande sciallo nero o viola a fiorami; in altri, come ad Anela, il fazzoletto è
piegato sotto mento.
Ma, non rientra nel nostfo assunto fare la descrizione dei numerosi costu-
mi femminili. Basterà ancora dire che come i tessuti, i costumi mostrano un

239
diffuso, innato gusto del colore e dell’euritmia. Sono accordati oppure a con-
trasto, mai stonati. Nello stesso villaggio sussistono diversi modi di vestire:
per nubile, per coniugata, per vedova, e per avvenimenti lieti o tristi.
Anzichè sgargianti, le tinte si trasformano in spente, o viceversa. I con-
trasti cromatici sono sempre vigorosi, brillanti. C’è inoltre da segnalare un
diffuso gusto del particolare.

Facciamo qualche considerazione sulla formazione degli indumenti,


senza per altro avere la pretesa di affrontare un profilo stronco che – come si
è osservato – è tutt’altro che agevole e ancora prematuro, fino a che non verrà
affrontato lo studio etnografico su più vaste aree mediterranee. Un prezioso
contributo ha fornito Francesco Alziator con la presentazione della raccolta
Cominotti e della collezione Luzzietti, indicando quale è la giusta via da
seguire per uno studio scientifico definitivo.
I costumi sardi per gran parte andarono profilandosi nelle sub–regioni
storico–geografiche dell’Isola (Logudoro, Gallura, Goceano, Barbágia,
Ogliastra, Campidano, Sulcis) e attorno alle due città di Cagliari e di Sassari,
oltre ai centri settecenteschi di Carloforte e di La Maddalena.
Centri di diffusione della moda dovettero essere alcune residenze di feu-
datari, soprattutto tra la fine del Seicento e i primi decenni del Settecento: i
soffi di mode nuove continentali trovarono nell’Isola terreno fertile ed i
modelli aulici dovettero suscitare una certa suggestione sui popolani: il sem-
plice, austero vestiario tradizionale si andò sostituendo con fogge di influen-
za aulica, aristocratica, tra le quali la più notevole quella di ascendenza spa-
gnola. Dal Settecento in poi subentrano, con i Savoia, le mode francesi.
Vediamo, ora, tuttavia, di esaminare quei capi di vestiario che sembrano,
invece, denunciare una ascendenza molto più lontana.
I bronzetti ci forniscono una testimonianza molto sommaria della foggia
degli indumenti di età nuragica, i quali si possono interpretare piuttosto poveri.
Sembra, tuttavia, di scorgere il prototipo di uno dei capi più originali del costu-
me maschile, le ragas, in qualcuna di esse figurette. Alcuni altri autori sostengo-
no invece che derivano dall’indumento portato dai soldati romani sotto la lorica.
In altri bronzetti si può, forse, scorgere la prima forma del collettu, se
questo indumento è da individuarsi – come dissertava Francesco Cetti, nel
Cinquecento – nella mastrucca degli antichi, che non coinciderebbe con la
mastrucca che intendiamo oggi, altrimenti detta besti ‘e peddi, la pelliccia. I
calzoni di lino bianco risalirebbero invece a epoca bizantina.

240
La camicia, tenuta sempre larga, abbondante, sia quella del costume
maschile che quella del costume femminile, è certamente derivata dalla tuni-
ca. Oggi, come ci è stato tramandato, i bambini siamo abituati a pensarli sem-
pre vestiti come gli adulti, ma dalla documentazione iconografica ottocente-
sca, la veste quotidiana del bambino era costituita in genere da una camicia a
tunica di lino bianco, stretta sui fianchi.
Nel commento alla famosa terzina di Dante riguardante le donne di
Barbágia, Benvenuto da Imola così si esprimeva: “Nam pro calore et
prava consuetudine (mulieres) vadunt indutae panno lineo albo, excollatae
ita ut ostendant pectus et ubera “. Cioè, egli ha dato un accenno all’indumen-
to particolare. Qualcuno ha ricollegato questa foggia a quelle raffigurate nelle
maioliche micenaiche provenienti dal Cnosso, rappresentanti la cosidetta dea
dei serpenti, dal petto scoperto, tenuto da un corsetto molto stretto alla vita e
recante un breve grembiule sulla lunga gonna a campana.
Nella Cronica di Giovanni Villani (VI, 80), là dove parla dei costumi di
Firenze, Francesco Alziator crede di aver trovato gli elementi di fondo del
costume femminile: “Par di leggere un brano scritto apposta per la Sardegna:
i grossi drappi non possono che essere tessuti di lana, simili all’orbace isola-
no. Le pelli senza fodera, le barrette, la gonna scarlatta stretta, la grossa veste
del cambraggio sono elementi ancora vivi nella tradizione popolare sarda”
(“La collezione Luzzietti”, pag. 15). La materia usata può certamente farsi
risalire al Medioevo e così alcuni capi di abbigliamento, non certo nella fog-
gia come sono giunti fino a noi. Nel Cinquecento e nel Seicento, le fonti let-
terarie dicono che i Sardi vestivano “vilmente”, di “vilissimo panno”
(Sigismondo Asquer), ma parte della popolazione – come abbiamo già ricor-
dato – usava dal tempo dei Pisani e dei Genovesi i broccati e le stoffe prezio-
se. Nei documenti settecenteschi si parla più esplicitamente degli indumenti
indossati dai popolani, facendo distinzione fra costoro e quelli di città, che –
come scriveva Francesco Cetti – “vestono stoffe e forme francesi”.
Il collettu, che può essere derivato dallo spagnolo coleto, a sua volta dal
toscano colletto, può anche avere derivato il nome direttamente, al tempo dei
Pisani, quando – come abbiamo detto – doveva essere da tempo in uso.
Le opere di pittura non sono molte nell’Isola, ma è davvero significativo
se non singolare il fatto che non abbiano stimolato la fantasia dei pittori. Si
conosce solo un quadro, risalente probabilmente al Seicento inoltrato, conser-
vato nella chiesa di San Lussorio di Bórore, il quale contiene figure di popo-
lani in costume. Esso ed alcuni ritratti settecenteschi raffiguranti personaggi in
costume non sono certo sufficienti a dare un panorama, come quello che tra la

241
fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento ci offrono le documen-
tazioni grafiche. Diremo che le prime appaiono come costumi ancora non ben
consolidati e, soprattutto quelli femminili, non così brillanti come si presenta-
no i costumi fino a noi pervenuti. D’altra parte, certi particolari si sono cristal-
lizzati, come le ragas nere e la berritta, parimenti nera, e lunga. A volte le
ragas potevano essere, infatti, di diverso colore e così il berretto frigio. In una,
forse la più antica, raffigurazione del “ballo tondo”, in un bassorilievo della
chiesa di San Pietro di Zuri, dovuta ad Anselmo da Como, appare per la prima
volta la berritta sul capo delle cinque figurine che si tengono per mano.
Fenici e Cartaginesi sono stati, verosimilmente, i primi che introdussero ele-
menti di costumi, modificati durante il lungo periodo romano e, successivamente,
arricchiti da apporti continentali, genovesi, pisani, catalani, spagnoli, piemontesi.
Ma, come si è detto, l’indagine stilistica e i possibili raffronti sfuggono a
qualsiasi analisi nel vasto campo degli indumenti femminili. Si può solo dire
che molti di essi presentano sicure influenze sei–settecentesche, non sono,
cioè, di ascendenza molto antica, come generalmente si crede. Per esempio,
uno dei più famosi, quello di Osilo, ha di antico solo il modo di inquadrare il
viso in una candida benda, mentre tutto il resto ha caratteri settecenteschi.
Il fatto che il vestiario femminile sia sempre composto di due parti (cor-
setto e gonna), non può essere molto antico. La nomenclatura dei capi è quasi
tutta di derivazione spagnola: mantiglia, cossu, giponi, sumbreri, ecc.
(Sciallu deriva invece dal francese châle).
Abbiamo accennato che già gli scrittori dell’Ottocento lamentavano le
infiltrazioni di mode forestiere e la sparizione, fin da allora, addiruttura di
indumenti che si usavano nel Settecento. Il La Marmora fu indotto, nelle edi-
zioni del suo Atlas di costumi (disegnati dal Cominotti) ad apportare modifi-
che, perchè a breve distanza di tempo alcuni centri avevano già mutato indu-
menti, soprattutto la foggia del copricapo ed il rapporto cromatico.
Confrontando le varie tavole tra la fine del Settecento e quelle che seguirono
nell’Ottocento, notiamo la sensibile evoluzione e, ciò che desta maggior
meraviglia, che gli ultimi non sono ancora quelli che sono giunti sino a noi.
Una buona documentazione, fedele, del primo quarto del presente secolo, è
dato dalle tele di Filippo Figari, soprattutto quelle del Palazzo Civico di
Cagliari, e dalle numerose opere sparse di Giuseppe Biasi: i due illustri pitto-
ri fecero in tempo a cogliere e a ritrarre gli ultimi bagliori di una Sardegna
ancora incantata.

FIGURE 141–150

242
141. Costumi di Sénnori
142. Costume di Ósilo
143. Costumi di Ploaghe
144. Costume di Cabras
145. Costume di Santa Giusta
146. Costume di Sinnai
146. Costume di Quartu S. Elena
144. Costume di Tonara
149. Costume di Désulo
150. Costume di Núoro
NOTA BIBLIOGRAFICA

Molte pagine sono state dedicate, dall’Ottocento ad oggi, al folklore figurato della
Sardegna, specie all’architettura rustica, ai costumi e ai tappeti; per la maggior parte, però,
trattasi di scritti di impressione. La prima trattazione organica, sotto il profilo storico–artisti-
co, è stata affrontata egregiamente da G.V. Arata e G. Biasi, nel volume Arte Sarda, publica-
to a Milano nel 1935.
Per la bibliografia sull’architettura rustica, si rimanda al volume dell’autore Architettura
domestica in Sardegna, edito a Cagliari nel 1957. Gli scritti posteriori a questa data sono stati
qui di seguito registrati, seguendo l’ordine alfabetico per autore di tutta la materia trattata:

ALBIZZATI C., Tapinu de mortu, in “Mediterranea”, 1(1927), fase. 9, pag. 14 e segg.


Due archibugi sardi in un museo di Milano, in “Mediterranea”, 11(1928), n. 2, pag. 7 e
segg. Arche di Sardegna, in “Mediterranea”, 111 (1929), fase. 9, pag. 12 e segg.
ALZIATOR F., Decorazione delle casse sarde, in “Mediterranea”, IV(1930), fase. 10, pag. 29
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Costume sardo ecostume miceneo, in “N.B.B.S.”, I, 1955,1V, pag. 1.
A Creta i primi modelli dei costumi sardi, in “L’Unione Sarda”, LXVIII, 1956, n. 202.
Fonti su antichi indumenti sardi, in “N.B.B.S. “, II, n. 9, pag. 10.
Il folklore sardo, Cagliari, 1957.
La raccolta Cominotti, Roma, 1963.
La collezione Luzzietti, Roma, 1963.
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ARATA G.V., Arte rustica sarda: I: Gioielli e utensili intagliati, in “Dedalo”, 1(1920), fase.
10, pag. 698 e segg.
II: Ricami e tappeti, ib., 1(1920), 12, pag. 777 e segg.
III: Mobili e arredi domestici, ib., 11(1921), fase. 2, pag. 130 e segg.
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256
ni di salice e canna” – “Il motivo della greca nella cestineria” – “Il gatò della Candelora
e il miele di Aristeo” – Il Katalufa” – “Erba sacra e palme operate” – “I coltelli di Pattada
e la magia dell’integlio” – “A forma di uccello” – “La zucca graffita”).
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Commissione per la raccolta del materiale folkioristico sardo nominata dal Ministero
dell’Educazione Nazionale), in “Mediterranea”, n. 2, 1932, pag. 59.

258
CENTRI NOTI NELL’ISOLA PER PARTICOLARI
ATTIVITÀ ARTIGIANALI IN PASSATO E OGGI

Le attività scomparse sono in tondo, quelle ancora attuali in corsivo.

ABBASANTA Morsi per bardatura di cavallo.


AGGIUS Tessitura (tappeti e stoffe).
ALGHERO Lavorazione del corallo, oreficeria.
ARITZO Cassoni nuziali, canterani e utensili di castagno.
ASSEMINI Sedie, brocche e stoviglie di terracotta, lavorazione
legni (mobili), pipe di terracotta.
ATZARA Tessitura (tappeti).
BANARI Fornelli di terracotta.
BARISARDO Tessitura (tappeti).
BITTI Tessitura (tappeti).
BOLOTANA Tessitura (tappeti).
BONORVA Tessitura (arazzi e tappeti).
BORONEDDU Oggetti di férula, di salice e canna (cestini).
BORORE Tessitura (coperte e tappeti).
BOSA Oreficeria, lavorazione del legno, filet, nasse, cesti-
neria di salice e canna, lavorazione pelli.
BUDDUSÒ Cassoni e mobili intagliati.
BUDONI Lavorazione ferro.
BUSACHI Tessitura (tappeti).
CABRAS Imbarcazioni di stagno (“fassonis “), capanne di
“cruccuris ‘ ceramica.
CAGLIARI Lavorazione legni, ferro; ceramica, bronzo, argente-
ria e oreficeria, archibugi, ricami.
CALANGIANUS Sugheri lavorati.
CARBONIA Lavorazione ferro.
CASTELSARDO Cestineria di palma nana.

259
CHIARAMONTI Tessitura (tappeti).
CUGLIERI Trine, tele ricamate, lavorazione legni, oggetti di
canna.
DECIMOMANNU Stoviglie e pitali di terracotta.
DESULO Tessitura (orbace), utensili di castagno.
DORGALI Tessitura (tappeti e arazzi), zucche lavorate, cerami-
che, cuoi lavorati, lavorazione legni, coltelli, orefi-
ceria, archibugi.
FLUSSIO Cestineria di asfodelo.
GADONI Tessitura (orbace).
GALTELLI Oggetti di ferula.
GAVOI Speroni e morsi da cavallo, orbace a più colori,
argenteria (rosari), lavorazione sugheri.
GIBA Tessitura (tappeti).
GONNOSNÒ Tessitura (strisce).
IGLESIAS Argenteria
ISILI Tessitura (tappeti), oggeti di cuoio, rami, graticole,
cassoni.
ITTIRI Tessitura (tappeti e coperte), trifle e tele ricamate,
legni intagliati, cestineria di refe.
LURAS Lavorazione sughero.
MACOMER Tessitura (orbace), lavorazione legno (cassoni).
MAMOIADA Legni intagliati, maschere carnevalesche, armi inta-
gliate.
MEANA SARDO Tessitura (arazzi).
MILlS Canna tessuta, oggetti di canna.
MOGORO Tessitura (tappeti, arazzi).
MONSERRATO Lavorazione pelli.
MONTRESTA Cestineria di asfodelo.
MORGONGIORI Tessitura (tappeti, arazzi).
MURAVERA Tessitura (tappeti, bisacce), launeddas.
NULE Tessitura (tappeti giganti, arazzi), ricami.
NUORO Oreficeria, argenteria, legni lavorati, maschere car-
nevalesche, zucche lavorate.
OLBIA Ceramica
OLIENA Ricami.
OLLOLAI Cestineria di asfodelo.
OLZAI Cestineria di asfodelo.

260
ORANI Brocche e brocchette di rame. Lavorazione legno.
ORISTANO Stoviglie di terracotta, ceramica, trifle e tele ricamate.
OROSEI Pipe, lavorazione legno (mobili).
ORUNE Tessitura (orbace).
OSIDDA Tessitura (tappetini di lana).
OSILO Tessitura (orbace, tappeti, bisacce), tovagliati.
OTTANA Legni intagliati, maschere carnevalesche.
PABILLONIS Stoviglie di terracotta.
PATI’ADA Coltelli a serramanico, tosatrici, lavorazione del
legno e del cuoio.
PAULILATINO Tessitura (coperte di lino con tecnica “apibionis”).
PLOAGHE Tessitura (coperte, arazzi), lavorazione legno.
POZZOMAGGIORE Tessitura (tappeti, coperte di lino bianco e di lana
colorata).
QUARTU SANT’ELENA Oreficeria, dolci di pasta di mandorle.
SAMUGHEO Tessuti (tappeti).
SANT’ANTIOCO Tessitura (tappeti), filet, lavorazione bisso.
SANTA GIUSTA Tessitura (coperte, tappeti), tovagliati, palma lavo-
rata.
SAN VERO MILlS Cestineria di giunco (“zinniga “) e paglia.
SAN VITO Tessitura (tappeti e bisacce).
SANTULUSSURGIU Casse nuziali intagliate, tessitura (tappeti e coper-
te), cuoi lavorati, finimenti di cavallo, coltelli e tosa-
trici, morsi per bardatura di cavallo.
SARDARA Tessitura.
SARULE Tessitura (tappeti e tappeti giganti).
SASSARI Ceramica, argenteria, oreficeria, lavorazione del
legno, corni intagliati, pupazzi, cestini di vimini e
canna, zucche lavorate.
SCANO MONTIFERRO Tessitura (coperte tipo Pozzomaggiore, tovagliati).
SELARGIUS Cera, ceramica, lavorazione legni.
SEDILO Tessitura (coperte e tappeti).
SENEGHE Cassapanche intagliate, tovagliati.
SENNORI Cestineria di palma nana, ceramica.
SERRAMANNA Finimenti per cavalli.
SESTU Lavorazione legno.
SIAMANNA Tessitura (tappeti).
SETTIMO S. PIETRO Tessitura (tappeti).

261
SINISCOLA Lavorazione legno, ceramica (terracotta).
SORGONO Lavorazione del legno.
SORSO Cestineria di palma nana.
TADASUNI Lavorazione sugheri.
TEMPIO PAUSANIA Archibugi, armi bianche, oggetti in pelle e in sughero.
TEULADA Pipe, tovagliati e ricami.
TINNURA Cestineria di asfodelo.
TONARA Campanacci, tessitura (coperte e tappeti), lavora-
zione legno, barilotti e fiaschette, cassoni.
TRAMATZA Zucche lavorate.
TRINITA D’AGULTU Cestini di vimini e canna.
ULASSAI Tessitura (tappeti e tende).
VILLAGRANDE Tessitura (bisacce e asciugamani).
VILLANOVA
MONTELEONE Tessitura (coperte e tappeti).
ZEDDIANI Tessitura (coperte di lino), stuoie di biodo, cestine-
ria.

262
Indice delle illustrazioni
1. Assémini, portale d’ingresso a un 38. Castelsardo, cesto in rafia
cortile 39. FlussIo, corbula in asfodelo
2. Assémini, cortile fiorito 40. FlussIo, canestro in asfodelo
3. Assémini, cavallucci di terracotta sul 41. Flussio, cesto in asfodelo
crinale d’un tetto 42. Montresta, cesto in asfodelo
4. Villasor, pozzo davanti a un loggiato 43. Montresta, cestone con coperchio
5. Villasor, cortile fiorito 44. Sínnai, canestro in giunco
6. Samassi, casa con loggiato 45. Sínnai, cesto con coperchio, in giunco
7. Samassi, interno di una “lolla” 46. Sínnai, cesto con coperchio, in giunco
8. Abbasanta, antica casa con loggiato 47. Sínnai, cesto con coperchio, in giunco
su strada 48. Sínnai, cesto con coperchio, in giunco
9. Ingresso a una casa montanara 49. Sínnai, cesto con coperchio, in giunco
10. Serramanna, chiesa campestre 50. Sínnai, canestro in giunco
11. Cassone nuziale, particolare 51. Ollolai, cestino in asfodelo
12. Cassone nuziale, particolare 52. Ollolai, cesto con coperchio, in asfo-
13. Cassone nuziale delo
14. Cassone nuziale, particolare 53. S. Vero Milis, fuscella in “zinniga”
15. Sedia impagliata 54. S. Vero Milis, vetri impagliati
16. Mostra di piatti 55. Tinnura, cesto in asfodelo
17. Sedie di Assémini 56. Urzulei, cesto in asfodelo
18. Mastello in ginepro 57. Oristano, anfore anulari
19. Tagliere intagliato 58. Oristano, conche
20. Cucchiaio e forchetta in legno 59. Assémini, theiera
21. Maschera 60. Oristano, galletto
22. Corno intagliato 61. Oristano, brocchetta
23. Scatole in corno con coperchio 62. Dorgali, gallina
24. Bicchiere in corno intagliato 63. Oristano, boccale
25. Bicchiere in corno 64. Assémini, oliera
26. Fiaschetta per polvere da sparo, in 65. Sassari, donna a cavallo
corno 66. Cagliari, galline e candeliere
27. Zucca intagliata 67. Oristano, servizio da caffè
28. Zucca intagliata 68. Cagliari, portafiori
29. Fermacarte in steatite 69. Sassari, anfora
30. Fermacarte in steatite 70. Sassari, rosario
31. Cavallino poggia spiedo, graticola, 71. Aggius, tappeto “uccelli in grigio”
spiedo, muflone 72. Atzara, particolare di coperta
32. Bueinferro 73. Bolótana, tappeto
33. Muflone in ferro 74. Bonorva, arazzo “broccato e ghirlande”
34. Capra in ferro 75. Busachi, bisaccia
35. Cavallino in ferro 76. Gadoni, particolare di tappeto
36. Isili, rami 77. Giba, tappeto “vasi, fiori e tacchini”
37. Castelsardo, cesto in rafia 78. Isili, arazzo

265
79. Isili, arazzo 115. Tovagliati ricamati con applicazioni
80. Ittiri, tappeto “rombi e fiori” in filet
81. Meana Sardo, particolare di coperta 116. Collare per cavalli
in rosso 117. Spilla in oro, perle e giada africana
82. Mógoro, arazzo 118. Spille in oro e perle
83. MOgoro, particolare di arazzo 119. Spille in oro e perle
84. Mógoro, arazzo 120. Spillo con pendente
85. Mógoro, arazzo 121. Rosario e collana
86. Morgongiori, arazzo 122. Cammei, corallo e madreperla con
87. Morgongiori, arazzo spilla in oro
88. Morgongiori, arazzo 123. Rosario d’argento e madreperla con
89. Nule, tappeto:: “aquile e cervi” medaglione
90. Nule, tappeto balletto” in fondo nero 124. Spillo con pendenti
91. Nule, tappeto tradizionale “a fiam- 125. Spillo con pendente
ma” 126. Spillo con pendente formato da bot-
92. Orune,tappeto toni
93. Qsidda, tappetino 127. Spillo con pendente
94. Osilo, tappeto 128. Bottoni in oro
95. Ploaghe, arazzo 129. Spillo con pendente
96. Pozzomaggiore, coperta 130. Spillo con pendente
97. Samugheo, tappeto 131. Recipiente in sughero e cucchiaio
98. Sant’Antloco, bisaccia con forchetta in legno
99. Santulussùrgiu, tappeto 132. Scatola in sugherone
100. San Vito, tappeto 133. Recipiente di sughero
101. Sarule, tappeto “cavalcata in campa- 134. Bamboline
gna” 135. Donna di Ollolai e uomo di Nuoro
102. Sarule, particolare del tappeto 136. Girotondo e bambino
“uccelli e cervi” 137. “Launeddas”
103. Scano Montiferro, stoffa per arreda- 138. Zuffoli
mento 139. Raganelle
104. Sédilo, particolare di tappetino 140. Báttola
105. Tonara, particolare di tappeto 141. Costumi di Sénnori
106. Villanova Monteleone, tappeto 142. Costume di Osilo
107. Zeddiani, tappeto “papaveri” 143. Costumi di Ploaghe
108. Ohena, scialle 144. Costume di Cabras
109. Oliena, scialle, particolare 145. Costume di Santa Giusta
110. Oliena, scialle 146. Costume di Sinnai
111. Qliena, scialle 147. Costume di Quartu S. Elena
112. Osilo, scialle 148. Costume di Tonara
113. Villanova Monteleone, tovagliati 149. Costume di Désulo
114. Villanova Monteleone, tovagliati 150. Costume di Nuoro

266
Finito di stampare nel mese di settembre 1983
dalla tipo–offset “AD” Roma

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