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Sommario 3

Sommario

Sergio Botta, teSSa Canella, aleSSandro Saggioro, Editoriale . . . 7

Sezione monografiCa / theme SeCtion

teSSa Canella,
............ 11

lorenzo Verderame,
.............................................. 23

angelo Colonna,
..................... 42

marianna ferrara,
.................................. 74

Stephan feuChtwang,
.. 107

andrea de BenedettiS,
rpc) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121

giuSeppina paola ViSCardi, Erro lungo la casa dall’ampia porta di


Hades

..................................................................................... 135

raChele duBBini, Santuario della stele agora


......................................... 158

marta miatto,
....................... 169

arduino maiuri, Acherusia templa alta Orci


................................................. 182

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4 Sommario
gianluCa de SanCtiS, In effossa terra
............................................ 198
elena mazzetto, Tlacochcalco

...................................................................... 226
paolo taViani,
................................................ 245
faBio CuSimano, Claustrum praefert paradisum.
....................... 258
paola marone, ................... 282
giulia marotta, communio sanctorum.

ii . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 300
monia ChieS,

.......................................................................... 318
Valentina Simeoni,
place-making
............................................................................ 341
Valerio SalVatore SeVerino,
............... 374
matteo BenuSSi,
.... 391

reCenSioni / reViewS

F. Sardella,
[Mario Prayer], p. 411 - I. Becci - M. Burchardt - J. Casanova (eds.),
[Maria Chiara Giorda], p. 415 - J.A. Jiménez Sánchez,
[Ana Alonso Venero], p. 418 - F. De Simini,
[Marianna Ferrara], p. 423 - C. Calame - B. Lincoln (eds.),
[Alessandro Testa], p. 426.

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198 Gianluca De SanctiS

Gianluca De SanctiS
In effossa terra
Sacrifici di fondazione, sepolture rituali e vie di accesso per
l’aldilà

Il pozzo si trova proprio al confine tra la fine del prato e l’i-


nizio del bosco. L’erba nasconde ingegnosamente quel buco
scuro, dal diametro di circa un metro che si spalanca nel suolo.
Non ha attorno né una recinzione, né un parapetto. Non è altro
che un buco aperto nel terreno. Il suo orlo di pietra sbiadito
dalle intemperie, ha acquistato uno strano colore biancastro,
e in alcuni punti è spaccato o frantumato. Si possono vedere
piccole lucertole verdi infilarsi agili tra le fenditure. Anche
se ci si sporge e si prova a guardare nel buco, non si riesce a
vedere niente. Si capisce solo che è paurosamente profondo.
Profondo al di là di ogni immaginazione. E in quel buco si
annida il buio, un buio così fitto che sembra concentrare tutte
le varietà di tenebra che esistono al mondo.
Haruki Murakami, Tokyo Blues - Norwegian Wood

1. «Vivi obruti»

Sallustio racconta che i Cartaginesi e i Cirenei, da lungo tempo in


conflitto tra loro per questioni di confine, decisero di risolvere la que-
stione attraverso una singolare “gara di corsa” o “di marcia” tra campioni
scelti: il giorno stabilito dei legati sarebbero partiti dalle rispettive città e
il luogo in cui si fossero incontrati sarebbe stato da allora in poi rispettato
da entrambe le comunità come communis finis. Lo scontro armato viene
dunque sostituito da un agone, secondo un modulo culturale ampiamen-
te diffuso nel mondo antico1. I Cartaginesi inviano due fratelli chiamati
Fileni che si dimostrano di gran lunga più veloci dei loro avversari. I
Cirenei dal canto loro, temendo la punizione che li avrebbe attesi una
volta tornati in patria, non trovano di meglio che accusare i rivali di essere
partiti in anticipo rispetto al tempo stabilito. Di fronte alla malafede dei
Greci che non smettono di recriminare (criminari) e confondere la que-
stione (conturbare rem), i Fileni offrono ai loro interlocutori la possibilità
di formulare un nuovo accordo (aliam condicionem), purché fosse equo.
La proposta avanzata dai Greci è un capolavoro di perfidia: che i vincitori
accettino di essere sepolti vivi nel luogo che rivendicavano come confine
per il loro popolo, oppure che concedessero loro di avanzare fin dove

Si veda in proposito A. Brelich, Guerre, agoni e culti nella Grecia arcaica, Habelt, Bonn
1

1961; R. Oniga, Il confine conteso, Edipuglia, Bari 1990, pp. 65-72.

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avessero voluto alla stessa condizione (ut vel illi, quos finis populo suo pe-
terent, ibi vivi obruerentur, vel eadem condicione sese quem in locum vellent
processuros). Messi di fronte a questa terribile necessità, i due fratelli ac-
cettano e si fanno seppellire vivi sul posto, là dove più tardi i Cartaginesi
costruiranno delle are in loro onore2.
Ora, nonostante l’assenza di un contesto e di un linguaggio propria-
mente religioso, la morte dei Fileni sembra fortemente connotata in senso
rituale. La vivisepoltura infatti è la sorte che spetta generalmente alle
vittime dei cosiddetti “sacrifici di fondazione”3. Con questo termine si è
soliti indicare il sacrificio compiuto in occasione della costruzione di una
qualche opera (città, fortezza, edificio, ponte, etc.) al fine di assicurarle
stabilità e durata. Parallelamente a ciò che accade nei sacrifici agrari, in
cui la vittima viene “fissata” seminandone i pezzi4, nei sacrifici di costru-
zione il corpo o una sua parte (più frequentemente la testa) viene sepolto
2
Sallustio, Bellum Iugurthinum 79, 2-10: «Qua tempestate Carthaginienses pleraque Africa
imperitabant, Cyrenenses quoque magni atque opulenti fuere. Ager in medio harenosus, una specie;
neque flumen neque mons erat qui finis eorum discerneret, quae res eos in magno diuturnoque bello
inter se habuit. Postquam utrimque legiones, item classes saepe fusae fugataeque et alteri alteros
aliquantum adtriverant, veriti ne mox victos victoresque defessos alius adgrederetur, per indutias
sponsionem faciunt uti certo die legati domo proficiscerentur: quo in loco inter se obvii fuissent,
is communis utriusque populi finis haberetur. Igitur Carthagine duo fratres missi, quibus nomen
Philaenis erat, maturavere iter pergere; Cyrenenses tardius iere. Id socordiane an casu adciderit
parum cognovi. Ceterum solet in illis locis tempestas haud secus atque in mari retinere; nam ubi per
loca aequalia et nuda gignentium ventus coortus harenam humo excitavit, ea magna vi agitata ora
oculosque inplere solet: ita prospectu inpedito morari iter. Postquam Cyrenenses aliquanto poste-
riores se esse vident et ob rem corruptam domi poenas metuont, criminari Carthaginiensis ante tem-
pus domo digressos, conturbare rem, denique omnia malle quam victi abire. Sed quom Poeni aliam
condicionem, tantummodo aequam, peterent, Graeci optionem Carthaginiensium faciunt ut vel illi,
quos finis populo suo peterent, ibi vivi obruerentur, vel eadem condicione sese quem in locum vellent
processuros. Philaeni, condicione probata, seque vitamque suam rei publicae condonavere: ita vivi
obruti. Carthaginienses in eo loco Philaenis fratribus aras consecravere, aliique illis domi honores
instituti. Nunc ad rem redeo». Lo stesso episodio è riferito con leggere varianti da Pomponio
Mela, Chorographia i, 7, Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri v, 6, ext.
4, e da Egesippo, De bello Iudaico et urbis Hierosolymitanae excidio ii, 9, 1, p. 153 Ussani. Per
i paralleli nella letteratura antica e le varianti del racconto nella cultura medievale e nel folclore
cfr. R. Oniga, op. cit., pp. 47-85; per una analisi storico-religiosa dell’episodio S. Ribichini, I
fratelli Fileni e i confini del territorio cartaginese, in Atti del II Congresso internazionale di
studi fenici e punici, vol. i, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma 1991, pp. 393-400, con
bibliografia precedente; per gli aspetti topografici, cfr. G. Abitino, I confini della Libia antica e
le aree dei Fileni, in «Rivista Geografica Italiana» 86 (1979), pp. 54-72; S. Corsi, Il sacrificio
dei fratelli Fileni: un episodio fra storia e geografia, in «Acta Classica Universitatis Scientia-
rum Debreceniensis» 33 (1997), pp. 83-89; O. Devillers, Regards romains sur les autels des
frères Philènes, in «Africa romana» 13 (1998), pp. 119-144.
3
S. Thompson, Motif-Index of Folk Literature: A Classification of Narrative Elements in
Folktales, Ballads, Myths, Fables, and Mediaeval Romances, Exempla, Fabliaux, Jest-Books,
and Local Legends, vol. v, Indiana University Press, Bloomington-Copenhagen 1955-1958, p.
318: «S 261: Foundation Sacrifice. A human being buried alive at the foundation of building
or bridge»; così anche A. Brelich, Presupposti del sacrificio umano, Editori Riuniti, Roma
2006, p. 137.
4
Sui sacrifici agrari, cfr. H. Hubert - M. Mauss, Essai sur la nature et la fonction du sa-

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o murato nelle fondamenta. L’effetto che ci si attende dal rito può essere
ottenuto anche aspergendo le pietre di fondazione con il sangue della vit-
tima. In qualche caso poi il sacrificio può essere incruento: è sufficiente
seppellire nelle fondamenta qualcosa che abbia un valore (primizie o cibo
di altro genere, denaro, pietre preziose, etc.). Si tratta di un motivo che ha
avuto un larga diffusione nel folclore. Nella tradizione popolare europea,
infatti, sopravvive l’idea che la riuscita di una fondazione debba richiede-
re una vittima umana. A questo genere di credenze appartengono le bal-
late balcaniche studiate da Mircea Eliade, che raccontano di capomastri
impegnati nella costruzione di una casa o di un ponte che non riescono a
portare a termine il lavoro fino a quando, nelle fondamenta della costru-
zione, non viene murata viva la sposa di uno di loro:
«Tra le varianti bulgare, la più lunga racconta come Mastro Manole costruisca da
dieci anni una fortezza senza poterla terminare. Comprendendo che è necessario
un sacrificio, il maestro chiede che tutti giurino di murare la prima sposa che giun-
gerà l’indomani con il pranzo. Lui solo tiene fede al giuramento, sebbene spinga
la moglie a spulare nove sacchi di grano e a portarli al mulino e a imbiancare
la casa e solo dopo aver fatto tutto ciò a venire da lui. Tuttavia quando la sposa
giunge alla fortezza – era infatti una donna laboriosa e obbediente al marito – il
maestro le dice che l’anello di matrimonio gli è sfuggito nella fossa delle fonda-
menta. Rendendosi conto di essere murata viva, la donna comincia a piangere e a
gridare. Dopo averla murata il maestro non ha più il coraggio di ritornare a casa e
di guardare negli occhi i suoi bambini. [...] In altre varianti, il finale consiste nella
richiesta della moglie che le si lasci il seno non murato per poter allattare il bambi-
no. Ma vi sono anche delle versioni in cui la donna maledice il ponte augurandogli
di tremare o maledice il marito “che non goda di nessuna fortuna”»5.

I casi, documentati in particolare dalla letteratura etnografica, sono


numerosi e qui sarà sufficiente fare solo pochi esempi6. Tra i più interessan-

crifice (1898), poi in M. Mauss, Œuvres, vol. i, Éditions de Minuit, Paris 1968, pp. 273 ss.; A.
Brelich, Presupposti del sacrificio umano, cit., p. 137.
5
M. Eliade, I riti del costruire, Jaca Book, Milano 1990, p. 24 (ed. or., Comentarii la
-
diana del sacrificio, cfr. C. Grottanelli, Il sacrificio, Laterza, Roma - Bari 1999, pp. 8-10, e
105-107.
6
T.P. Wiseman, Remus: A Roman Myth, Cambridge University Press, Cambridge 1995, p.
124, ammette che «explicit examples from the Graeco-Roman world are not easy to come by».
Lascio dunque volontariamente e necessariamente da parte la questione relativa al significato
delle sepolture rinvenute alle fondamenta del cosiddetto “muro di Romolo”, alle pendici set-
tentrionali del Palatino; cfr. in proposito A. Carandini, Res sanctae e res religiosae, in Id. - R.
Cappelli (ed.), Roma, Romolo, Remo e la fondazione della città, Quasar, Roma 2000, p. 293.
Sull’interpretazione della morte di Remo come sacrificio di fondazione mi basti il rimando
a G. De Sanctis, Il salto proibito. La morte di Remo e il primo comandamento della città,
in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» 75 (2009), pp. 63-85. Per altri casi P. Carafa,
Uccisioni rituali e sacrifici umani nella topografia di Roma, in «Scienze dell’Antichità» 14,2
(2007/2008), pp. 667-704.

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ti vi sono quelli registrati agli inizi dello scorso secolo da Edmond Doutté
nel suo libro dedicato allo studio della magia e della religione delle popo-
lazioni nordafricane, relativi alla persistenza di pratiche rituali in cui alcuni
animali vengono sacrificati per la fondazione di edifici o per consacrare il
limite di una proprietà7. Sacrifici di questo tipo erano attestati, almeno fino
a qualche tempo fa, anche in Europa. Scrive James George Frazer:
«In the modern Greece when the foundation of a new building is being laid, it
is the custom to kill a cock, a ram, or a lamb, and to let its blood flow on the
foundation-stone, under which the animal is afterwards buried. The object of the
sacrifice is to give strength and stability to the building. But sometimes, instead
of killing an animal, the builder entices a man to the foundation-stone, secretly
measures his body, or a part of it, or his shadow, and buries the measure under
the foundation-stone; or he lays the foundation-stone upon the man’s shadow. It
is believed that the man will die within the year»8.

Per quanto riguarda più specificatamente il sacrificio di fondazione di


un confine lo stesso Frazer cita, questa volta nel suo commento ai Fasti di
Ovidio, un curioso cerimoniale in uso presso le tribù bantu dei Wachag-
ga (Kilimandjaro) di cui aveva trovato notizia nell’opera del missionario
tedesco Bruno Gutmann:
«With these sacrifices at boundaries [Terminalia] we may compare a sacrifice
which two chiefs of the same tribe (the Wachagga) are recorded to have made at
the settling of the boundary between their lands. A young girl and a lamb were
buried alive at the spot, and over their bodies the treaty concerning the boundary
was ratified and curses pronounced on whosoever should violate it»9.

Come nella storia raccontata da Sallustio, anche in questo caso il con-


fine viene sancito attraverso una morte per seppellimento. A questo pro-
posito vale la pena citare lo strano rituale agreste a cui Pausania dice di
aver assistito a Metana, in Argolide, per contrastare gli effetti del libeccio
sulle viti in fiore:

10
.

7
E. Doutté, Magie et religion dans l’Afrique du Nord, Typographie Adolphe Jourdan,
Alger 1909, pp. 488-489.
8
J.G. Frazer, The Golden Bough. A Study in Magic and Religion, Part iii: Taboo and the
Perils of the Soul, Macmillan, London 19113, p. 89.
9
J.G. Frazer, Publi Ovidi Nasonis Fastorum Libri Sex (ed. with a trans. and comm. by
J.G. Frazer), Macmillan, London 1929, p. 488. L’opera di Gutmann da cui Frazer aveva tratto
la notizia era Das Recht der Dschagga, Beck, Munich 1926, p. 434.
10
Pausania, Descriptio Graeciae ii, 34, 2-3. Si vedano i paralleli etnografici raccolti e

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Come ha mostrato Renato Oniga, la particolarità di questo caso con-
siste nella “combinazione” di più procedure rituali:
«Il motivo prevalente è senza dubbio quello del cerchio magico, destinato a pro-
teggere dagli influssi nefasti ciò che è racchiuso al suo interno. Ma sono presenti
anche altri elementi, come la vittima tagliata in due, ed evidentemente anche la
corsa in direzioni opposte, che mira a delimitare un confine: per di più la corsa
si conclude con il seppellimento di una vittima nel punto di incontro tra i due
“cursori”»11.

Il parallelo più interessante è tuttavia rappresentato da un altro caso


di autoimmolazione, documentato in un testo agiografico risalente al vii
secolo d.C. L’anonimo redattore della Vita di S. Columcille (S. Colomba),
monaco irlandese del vi secolo, racconta infatti che in occasione della
fondazione della chiesa di Hy in Scozia (Isole Ebridi), il santo disse ai
suoi discepoli che era opportuno, per “mettere radici” in quell’isola, che
uno di loro «andasse sotto terra per consacrarla»:
«Columkille said, then to his people: “it would be well for us that our roots
should pass into the earth here”. And he said to them: “It is permitted to you
that some one of you go under the earth of this island to consecrate it”. Odhran
arose quickly, and thus spoke: “If you accept me, said he, I am ready for that”.
“O Odhran” said Columcille, “you shall receive the reward of this: no request
shall be granted to any one at my tomb, unless ask of thee”. Odhran then went to
heaven. He (Colum) founded the church of Hy then»12.

Si è discusso molto sulle ragioni per cui la stabilità, la durata, l’invio-


labilità di una costruzione umana dovrebbero essere assicurate da una si-
mile modalità di sacrificio. In altre parole: perché proprio la vivisepoltura?
Secondo alcuni lo scopo che si prefigge questo genere di rituali è la cre-
azione di uno spirito guardiano: la vittima, “consegnata” ancora viva alla
terra diverrebbe, in seguito alla morte, uno spirito guardiano o una sorta
di genius loci13. Altri invece ritengono che il sacrificio sia indirizzato alle
utilizzati da J.G. Frazer, Pausanias’s Description of Greece, vol. iii, Biblio and Tannen, New
York 1965, pp. 288-289.
11
R. Oniga, op. cit., p. 85.
12
W. Reeves, The Life of St. Columba, Founder of Hy, University Press for the Irish
Archaeological and Celtic Society, Dublin 1857, p. 203 (il corsivo è nostro). L’episodio, già
noto a E. Westermarck, Origin and Development of the Moral Ideas, vol. i, Macmillan, London
1906, p. 462, e J. Vendryes, La religion des Celtes, Leroux, Paris 1948, p. 317, è ricordato da
G. Cocchiara, Il ponte di Arta e i sacrifici di costruzione (1950), poi in Id., Il Paese di Cucca-
gna, Bollati Boringhieri, Torino 1980, pp. 84-125: p. 105, e A. Seppilli, Sacralità dell’acqua e
sacrilegio dei ponti, Sellerio, Palermo 1979, p. 238.
13
E.B. Tylor, Primitive culture. Researches into the Development of Mythology, Philo-
sphy, Religion, Language, Art and Custom, Murray, London 1871, pp. 160 ss.; H. Hubert - M.
Mauss, Essai sur la nature et la fonction du sacrifice, cit., p. 271 nota 376; A. Brelich, Pre-
supposti del sacrificio umano, cit., pp. 66-71; W. Burkert, Homo necans. Antropologia del sa-
crificio cruento nella Grecia antica, Bollati Boringhieri, Torino 1981, pp. 46, 211 nota 39 (ed.

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divinità del luogo a titolo di risarcimento per l’intervento che gli uomini si
apprestano a compiere in uno spazio di loro pertinenza14. Entrambe le ipo-
tesi sono plausibili e ben argomentate dai loro sostenitori. Probabilmente
non è necessario trovare una risposta univoca, capace di spiegare tutte le
occorrenze. Ogni sacrificio, e dunque anche quello di fondazione, va letto
e interpretato alla luce del contesto culturale di cui fa parte.
Per quanto riguarda il caso dei Fileni dovremmo tener presente che il
nostro informatore non appartiene alla stessa cultura del racconto e che
dunque legge e interpreta le antichità puniche utilizzando le proprie cate-
gorie interpretative, quelle proprie di un cittadino romano. Quello che più
colpisce Sallustio in questa leggenda eziologica è evidentemente la virtus
dei due protagonisti, capaci di sacrificare la propria vita pur di allargare
il territorio della loro città. E poiché il valore di ciò che viene sacrificato
serve a misurare il valore di ciò per cui il sacrificio viene compiuto, il
seppellimento che accettano di subire i due fratelli ci dice implicitamente
quanto per i Cartaginesi la posta in gioco dovesse essere alta. Dobbiamo
sottolineare a questo punto che per Sallustio la richiesta dei Cirenei e
la conseguente accettazione da parte dei Fileni non sembra costituire un
particolare problema interpretativo. In altre parole, l’autore sembra rico-
noscere la necessità dell’essere sepolti vivi per fondare il nuovo confine.
Evidentemente la sua cultura gli forniva gli strumenti per poter compren-
dere tale necessità.
Si tratta allora di individuare qual è l’idea che determina la logica del
racconto e rende necessario un simile epilogo. Potremmo formularla in
questo modo: la morte di un individuo può sancire un punto di confine
in modo definitivo più di ogni altro argomento; tanto più se il corpo resta
legato al luogo della morte, se, come nel caso dei due fratelli cartagine-
si, viene piantato nel terreno, insomma se viene utilizzato come segno
di confine (terminus). In effetti, come suggerisce Renato Oniga, i Fileni
sembrano comportarsi come dei termini, o per lo meno ne assumono la
funzione:
«Dapprima essi avanzano a partire dalla loro città, per accrescere il dominio di
essa; poi con la loro morte per infissione, rimangono legati alla terra in modo
definitivo fornendo così il riscontro sotterraneo, quali vittime di fondazione, per
le arae che segnavano il confine»15.

or. Homo Necans. Interpretationen altgriechischer Opferriten und Mythen, de Gruyter, Berlin
1972); L.M. Lombardi Satriani - M. Meligrana, Il ponte di San Giacomo, Sellerio, Palermo
1989, pp. 479 ss.; P. Fedeli, Il carme 17 di Catullo e i sacrifici edilizi, in AA.VV., Studi di Filo-
logia Classica in onore di G. Monaco, vol. ii, Palumbo, Palermo 1991, pp. 707-722; si veda da
ultimo T. Braccini, Prima di Dracula. Archeologia del vampiro, Il Mulino, Bologna 2011, pp.
107-109, che analizza la figura dello stoicheion diffusa in area greca e balcanica.
14
P. Sartori, Über das Bauopfer, in «Zeitschrift für Ethnologie» 30 (1898), pp. 1-54; E.
Westermarck, op. cit., p. 464; A. Seppilli, op. cit., p. 237 nota 11.
15
R. Oniga, op. cit., p. 106.

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204 Gianluca De SanctiS
Questa lettura trova un riscontro interessante nel mito romano di Ci-
pus, laddove il protagonista, un generale romano reduce da una fortunata
campagna militare, è l’eroe eponimo di un tipo particolare di terminus, il
cippus appunto, distinto dagli altri per il fatto di avere l’estremità supe-
riore a forma di forcella. Nel racconto di Ovidio, infatti, il generale vede
nascere improvvisamente sulla sua testa un paio di corna; gli indovini
consultati sul significato del prodigio gli predicono che egli sarebbe di-
venuto re se mai fosse rientrato a Roma; Cipus, da buon romano, rifiuta
l’occasione offertagli dalla sorte e dopo aver convocato il senato e il po-
polo fuori della città, salito su una tribuna da campo, espone la propria
triste vicenda e l’intenzione di andare in esilio per salvare Roma dalla
minaccia di una nuova monarchia; in cambio di un così alto rifiuto, rice-
verà un vasto appezzamento di terra in cui trascorrere il resto della vita16.
Il mito, è evidente, implica l’identificazione fra il personaggio e il segno
di confine; Cipus, che proviene dall’esterno, non può rientrare a Roma,
ma, in quanto personificazione di un terminus, solo allontanarsene; esso
infatti è allo stesso tempo un segno di confine e un segno di possesso; se
un terminus entrasse nell’Urbs provenendo dall’esterno, la città avreb-
be un nuovo padrone (nel caso specifico un comandante diverrebbe re);
per questo un terminus può e deve esclusivamente allontanarsi da Roma,
perché la sua presenza materializza i confini di Roma, ma è contempora-
neamente manifestazione della prolatio imperii17. Come i Fileni sacrifi-
cano la propria vita per spostare in avanti, a scapito di Cirene, il confine
del territorio cartaginese, così Cipus sceglie l’esilio pur di non imporre
alla patria una regalità che egli stesso non può che rifiutare. In entrambi
i racconti gli eroi si allontanano dalla città legando indissolubilmente il
proprio destino ai confini dello stato, comportandosi insomma come dei
veri e propri termini, il cui sacrificio è indispensabile al bene della civitas.
Se tuttavia Cipus è costretto all’esilio perpetuo, i Fileni vanno inve-
ce incontro ad una sorte ben più crudele; a causa delle rimostranze dei
rivali, per convalidare il successo ottenuto nella “corsa per il confine”
accettano di essere sepolti vivi sul posto. La vivisepoltura appare dun-
que necessaria alla “sacralizzazione” del nuovo confine; senza di essa la
terra fra Cartaginesi e Cirenei continuerebbe ad esser contesa, fluttuante,
incerta. Quella morte invece imprime un ordine allo spazio, garantisce la
stabilità degli accordi e la certezza che saranno rispettati in futuro. Cosa

16
Ovidio, Metamorpheseon libri xv, 565-621; Valerio Massimo, Factorum et dictorum
memorabilium libri v, 6, 3; per un’analisi storico-letteraria di questo racconto, cfr. G.K. Ga-
linsky, The Cipus episode in Ovid’s «Metamorphoses», in «Transactions and Proceedings of
the American Philological Association» 98 (1967), pp. 181-191, e A. Barchiesi, Il poeta e il
principe, Laterza, Roma - Bari 1994, pp. 251-252.
17
G. Piccaluga, Terminus. I segni di confine della religione romana, Edizioni dell’Ateneo,
Roma 1974, pp. 213-227; R. Oniga, op. cit., p. 105.

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In effossa terra 205
ha dunque di così particolare questo tipo di vivisepoltura? Qual è il suo
significato culturale?
Una possibile risposta risiede nella identificazione dei due protagoni-
sti con i segni di confine. Perché un terminus possa entrare in funzione e
svolgere adeguatamente il proprio ruolo di divisore dello spazio antropi-
co è necessario che venga piantato nel terreno e consacrato attraverso un
preciso rituale. I dettagli ci sono forniti da Siculo Flacco in una pagina del
suo trattato Sulla condizione dei terreni:
«In fossis autem in quibus eos posituri erant, sacrificio facto hostiaque immolata
atque incensa facibus ardentibus, in fossa cooperti sanguinem instillabant, eo-
que tura et fruges iactabant. Favos quoque et vinum, aliaque quibus consuetudo
est Termini sacrum fieri, in fossis adiciebant. Consumptisque igne omnibus dapi-
bus super calentes reliquias lapides conlocabant atque ita diligenti cura confir-
mabant. Adiectis saxorum fragminibus, circum calcabant, quo firmius starent.
Tale ergo sacrificium domini inter quos fines dirimebantur faciebant»18.

Dunque, per costruire l’identità di un terminus è indispensabile un


rito sacrificale. D’altra parte anche i Fileni, come abbiamo visto, sono
costretti a “sacrificare” la propria vita per tramutarsi nei termini della
loro città. Valerio Massimo coglie bene questo aspetto quando dice: «Qui,
quoniam patriae quam vitae suae terminos longiores esse statuerunt, ma-
gna cum laude iacent, manibus et ossibus suis dilatato Punico imperio»19.
Si direbbe, insomma, che non si possa fondare un confine senza un sacri-
ficio. Ma chi è il destinatario di questo sacrificio?
Nonostante il sapore funebre di questo rituale, il fatto che qui il san-
gue dell’hostia immolata venga versato nella fossa prima che venga ada-
giato il cippo di confine, in modo da lambirne la base, lascia presumere
che il referente del sacrificio sia lo stesso cippo di confine. Del resto non
dobbiamo dimenticarci che ogni terminus, a partire dal momento in cui
viene istallato, non è più un semplice oggetto culturale, ma una sorta di
immagine divina: a partire da quel momento, infatti, esso diventa, come
dice Ovidio, un indicium del dio Terminus, una manifestazione concreta
della sua potenza (numen)20. In virtù di questa identificazione i Romani si
aspettavano dai singoli cippi terminali lo stesso comportamento tenuto da

18
Siculo Flacco, De condicione agrorum 58-62, in Gromatici Veteres. p. 141 Lachmann.
19
Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri v, 6, ext. 4. Per un confron-
to tra il testo di Sallustio e quello di Valerio Massimo, cfr. S. Ribichini, op. cit., p. 397.
20
Ovidio, Fastorum libri ii, 640. Sul dio Terminus, oltre G. Piccaluga, op. cit., cfr. G.
Sanctis, Qui terminum exarasset..., in «Studi Italiani di Filologia Classica» serie 4,3 (2005),
pp. 73-101; per un’analisi semiotica di terminus, cfr. G. Pucci, Terminus. Per una semiotica
dei confini nel mondo romano, in G. Manetti (ed.), Knowledge through Signs. Ancient Semiotic
Theories and Practices, Brepols, Bologna 1996, pp. 295-307; per un confronto con il mondo
indoeuropeo, R. Woodard, Indo-European Sacred Space. Vedic and Roman Cult, University of
Illinois Press, Urbana - Chicago 2006, pp. 59-95.

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206 Gianluca De SanctiS
Terminus in occasione della costruzione del tempio di Iuppiter Optimus
Maximus, ossia fermezza e imparzialità di giudizio21. Ma perché il tran-
sfert funzioni è necessario innanzitutto “vincere” l’inorganicità della ma-
teria. Il rito serve a questo, a costruire significati ulteriori, a fare in modo
che le cose siano più di quello che sembrano. Destinare un sacrificio ad
una pietra presuppone l’attribuzione alla pietra di uno stato mentale, di
una volontà, della necessita di cure etc.; in altre parole significa animarla,
infonderle un barlume di vita. Non è un caso che i morti vengano evocati
con il sangue. Le anime evocate da Ulisse nella Nekyia omerica sono
attirate dal sangue delle vittime che è stato versato per loro nella fossa
( ); esse hanno bisogno di berlo per recuperare, momentaneamen-
te, la propria memoria, la propria identità e con essa la facoltà di parlare22.
I morti in effetti hanno qualcosa in comune con la materia inorganica, e la
pietra in particolare. La morte viene spesso definita nei termini di una pie-
trificazione – Pindaro ad esempio definisce la morte «di pietra» (
)23. Non c’è da stupirsi:
«In quanto dura, arida e rigida, la pietra può apparire come un’essicazione del
vivo, che è ricco d’umori, flessuoso, pieno di linfa finché è nel fiore dell’età.
Già la vecchiaia è, per i Greci, un essiccarsi: il giovane è simile ad una pianta,
piena di succo nella sua verdezza, ma che diventa secca e appassisce col tempo
[...]. Del resto, le psychái dei morti sono assetate. Solo abbeverandole dei diversi
liquori di vita, è possibile attirarle alla luce restituendo loro per un breve momen-
to, insieme con il ricordo e il pensiero, un vago riflesso dell’antica vitalità»24.

È facile a questo punto capire l’origine delle credenze relative alla ca-
pacità vivificante del sangue: il sangue è la sostanza in cui si concentra la
vita25, ed è pertanto considerato capace di veicolarla, di trasmetterla alle

21
Livio, Ab Urbe condita libri i, 55, 3-7; Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae iii,
69, 3-6; Lattanzio, Divinae institutiones i, 20.
22
Omero, Odyssia xi, 23-50. Sulla concezione dei morti nel mondo omerico, E. Canta-
rella, Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 146-150.
23
Pindaro, Pitica 10, 48.
24
J.-P. Vernant, Figurazione dell’invisibile e categoria psicologica del “doppio”, in Id.,
Mito e pensiero presso i Greci. Studi di psicologia storica, Einaudi, Torino 2001, pp. 344-358;
353-354 (ed. or. Figuration de l’invisible et catégorie psychologique du double: le kolossós, in
Id., Mythe et pensée chez les Grecs. Études de psychologie historique, Maspero, Paris 1965).
Sulle rappresentazioni della morte, cfr. R.B. Onians, Le origini del pensiero occidentale. Intor-
no al corpo, la mente, l’anima, il mondo, il tempo e il destino, Adelphi, Milano 1998, pp. 321-
341 (ed. or. The Origins of European Thought. About the Body, the Mind, the Soul, the World,
Time, and Fate, Cambridge University Press, Cambridge 1951).
25
Gia Empedocle, secondo la testimonianza di Cicerone, Tusculanae disputationes i,19,9,
riteneva che l’anima risiedesse nel sangue («Empedocles animum esse censet cordi suffusum
sanguinem»); per l’idea, evidentemente correlata, secondo cui il sangue sarebbe sede della vita
cfr. Servio, Ad Aeneidem v, 79: «ad sanguinis imitationem, in quo est sedes animae»; Servio,
Ad Aeneidem iii, 67: «sanguis enim velut animae possessio est, unde exsangues mortui dicun-
tur». Per il lessico e i significati del sangue nella cultura romana, F. Mencacci, Sanguis/cruor.

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In effossa terra 207
cose con le quali viene in contatto, la terra stessa, gli spiriti che la abitano,
i segni della cultura che vi sono impressi. I Fileni muoiono perché non
potrebbero fare altrimenti: per divenire termini, materialmente e spiritual-
mente, non possono che impegnare «i propri Mani e le proprie ossa»26.

2. «In patentes terrae hiatus»

Esistono a Roma altri casi riguardanti il sacrificio volontario che sem-


brano in qualche modo imparentati con quello dei Fileni. Sull’origine del
lacus Curtius circolavano diverse versioni. Livio ne riferisce due: nella
prima Mettius Curtius è un cavaliere sabino, che nel momento decisivo
dello scontro fra Romani e Sabini, si slancia nella pianura del foro contro
i nemici per dare l’esempio e incitare i compagni timorosi rimasti as-
serragliati sul Campidoglio; Romolo cum globo ferocissimorum iuvenum
gli corre incontro per respingerne l’assalto; il cavallo allora, costretto a
deviare la corsa e spaventato dalla grida degli inseguitori, finisce con il
cacciarsi in una piccola palude (il futuro lacus Curtius), dal quale Mettius
riuscirà a liberarsi solo con estrema fatica27.
Nella seconda versione, riportata con leggere differenze anche da
Varrone, Valerio Massimo e Plinio, egli è invece un cavaliere romano
protagonista di una singolare forma di devotio28. Siamo nell’anno 362

Designazioni linguistiche e classificazione antropologica del sangue nella cultura romana,


in «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici» 17 (1986), pp. 25-92. Sulla forza
vivificante del sangue nel folklore, cfr. L.M. Lombardi Satriani - M. Meligrana, Il ponte di San
Giacomo, cit., pp. 387-431.
26
Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri v, 6, ext. 4. Nel mondo
greco tombe ed altari di eroi funzionavano spesso da segni di confine e indicatori territoriali. Si
veda in proposito la documentazione raccolta da G. Daverio Rocchi, Frontiera e confini nella
Grecia antica, L’«Erma» di Bretschneider, Roma 1988, pp. 54 ss.
27
Livio, Ab Urbe condita libri i, 12, 8-10.
28
Livio, Ab Urbe condita libri vii, 6, 1-6: «Eodem anno, seu motu terrae seu qua vi
alia, forum medium ferme specu vasto conlapsum in immensam altitudinem dicitur; neque
eam voraginem coniectu terrae, cum pro se quisque gereret, expleri potuisse, priusquam deum
monitu quaeri coeptum quo plurimum populus Romanus posset; id enim illi loco dicandum
vates canebant, si rem publicam Romanam perpetuam esse vellent. Tum M. Curtium, iuvenem
bello egregium, castigasse ferunt dubitantes an ullum magis Romanum bonum quam arma vir-
tusque esset, et silentio facto templa deorum immortalium, quae foro imminent, Capitoliumque
intuentem et manus nunc in caelum, nunc in patentes terrae hiatus ad deos manes porrigentem,
se devovisse; equo deinde quam poterat maxime exornato insidentem, armatum se in specum
immisisse; donaque ac fruges super eum a multitudine virorum ac mulierum congestas la-
cumque Curtium non ab antiquo illo T. Tati milite Curtio Mettio sed ab hoc appellatum. Cura
non deesset, si qua ad verum via inquirentem ferret: nunc fama rerum standum est, ubi certam
derogat vetustas fidem; et lacus nomen ab hac recentiore insignitius fabula est». Per le altre
versioni della storia, Varrone, De lingua Latina v, 148; Valerio Massimo, Factorum et dic-
torum memorabilium libri v, 6, 2; Plinio, Naturalis historia xv, 78; Dionigi di Alicarnasso,
Antiquitates Romanae xiv, 11. Sul mito di Marcus Curtius, si veda W. Basanoff, Devotio de M.
Curtius eques, in «Latomus» 8 (1949), pp. 31-36; J. Poucet, Recherches sur la légende sabine

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208 Gianluca De SanctiS
a.C. Poiché nel Foro si era improvvisamente spalancata una voragine che
-
-
crata a quel luogo la cosa più preziosa che il popolo romano possedeva
(quo plurimum populus Romanus posset); mentre alcuni si domandavano
se mai vi fosse qualcosa di più grande delle armi o del valore, il giovane
Marcus Curtius, uno dei più valenti cavalieri dell’esercito, avendo com-
preso che il bene più grande per un cittadino romano erano le armi e il
valore (arma virtusque), si precipitò armato con il suo cavallo in quella
vasta bocca apertasi nel terreno. Solo allora, racconta Valerio Massimo, la
terra si richiuse come appagata da quella giovane vita (continuoque terra
pristinum habitum recuperavit). Livio riferisce inoltre che, al momento
del salto nella fossa, gli uomini e le donne lì riuniti ammassarono sul
corpo del ragazzo doni e primizie (donaque ac fruges)29.
Questa seconda versione sull’origine del Lacus Curtius è stata messa
in relazione con la procedura, anch’essa descritta con dovizia di parti-
colari da Livio, messa in atto nel caso in cui il devotus non fosse morto,
come avrebbe dovuto, nel corso della battaglia:
«Si is homo qui devotus est moritur, probe factum videri; ni moritur, tum signum
septem pedes altum aut maius in terram defodi et piaculum [hostia] caedi; ubi
illud signum defossum erit, eo magistratum Romanum escendere fas non esse»30.

Si tratta evidentemente di un vero e proprio atto di consegna a quelle


divinità alle quali il devotus scampato alla morte era, sin dal principio,
destinato, vale a dire gli dèi Mani e Tellus31. Questo signum dunque fun-
ziona come un kolossós; è una sorta di “doppio”, un’immagine che non si
limita a raffigurare la persona rappresentata, ma che pretende di sostitu-
irla concretamente, di prenderne il posto nella realtà: in effetti il signum

des origines de Rome, Editions de l’Universite Lovanium, Louvin-Kinshasa 1967, pp. 241 ss.;
H.S. Versnel, Two types of Roman devotio, in «Mnemosyne» 29 (1976), pp. 365-410. Sulla
fortuna iconografica del mito, M. Berbara, Civic self-offering: Some Renaissance representa-
tions of Marcus Curtius, in K.A.E. Enenkel - J.L. De Jong - J. De Landtsheer (eds.), Recreating
Ancient History: Episodes from the Greek and Roman Past in the Arts and Literature of the
Early Modern Period, Brill, Leiden 2001, pp. 148-165.
29
Livio, Ab Urbe condita libri vii, 6, 5. Lo stesso particolare e riferito anche da Valerio
Massimo che ne precisa la ragione: «super quem universi cives honoris gratia certatim fruges
iniecerunt».
30
Livio, Ab Urbe condita libri viii, 10, 12; sull’argomento, cfr. M.A. Cavallaro, Duride,
i «Fasti Capitolini» e la tradizione storiografica sulle «devotiones» dei Decii, in «Annuario
della Scuola archeologica di Atene» 38 (1976), pp. 261-316: pp. 280-285.
31
A. Fraschetti, Le sepolture rituali del foro Boario, in Le délit religieux dans la cité an-
tique (Table ronde de l’École Française de Rome, 6-7 Avril 1978), École Française de Rome,
Rome 1981, pp. 51-115: p. 74. Sul signum come sostituto funzionale, per esempio nel rituale
degli Argei, cfr. G. Capdeville, Sobstitution des victimes dans le sacrificies d’animaux à Rome,
in «Mélanges de l’École Francaise de Rome: Antiquité» 81 (1971), pp. 283-323: pp. 290-291.

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sepolto, facendo le veci del devotus, rappresentandolo come morto, gli
permette di restare in vita32.
Letta in questa prospettiva anche la corsa del giovane Marcus Curtius
in patentes terrae hiatus si configura come una sorta di autoconsegna al
mondo infero. Poco prima di gettarsi nell’abisso, infatti, egli invoca gli
dèi Mani non diversamente da quanto fa il generale romano che, nell’in-
certezza della battaglia, impegna con le divinità infere la propria vita per
garantire la vittoria del suo esercito:
«Silentio facto templa deorum immortalium, quae foro imminent, Capitoliumque
intuentem et manus nunc in caelum, nunc in patentes terrae hiatus ad deos ma-
nes porrigentem, se devovisse»33.

Del resto, nella tradizione varroniana risalente a Procilio, il responso


degli aruspici interrogati sulla misteriosa voragine apertasi nel Foro non
lascia adito a dubbi: il dio dei Mani esigeva come sacrificio espiatorio che
il più valoroso dei cittadini romani fosse sepolto in quel luogo: «deum
Manium postilionem postulare, id est civem fortissimum eo demitti»34.
Le analogie con il racconto sallustiano sono evidenti35. Innanzitutto
entrambi i racconti ruotano intorno al medesimo tema culturale: la ne-
cessità di conquistare, o riconquistare, uno spazio che è, o che è dive-
nuto improvvisamente, “controverso”. Nonostante le apparenze, anche
la soluzione adottata sembra sostanzialmente la stessa: sia i due fratelli
cartaginesi che il giovane cavaliere romano si lasciano “ingoiare” ancora
32
Sulla nozione di kolossós, cfr. J.-P. Vernant, Figurazione dell’invisibile e categoria psi-
cologica del “doppio”, cit.; per l’accostamento del signum con il kolossós, cfr. H.S. Versnel,
Self-sacrifice, compensation, and the anonymous gods, in J.-P. Vernant et al. (eds.), Le sacrifice
dans l’antiquité (“Entretiens sur l’antiquité classique”, 27), Foundation Hardt, Genève 1980,
pp. 135-194: p. 158.
33
Livio, Ab Urbe condita libri vii, 4.
34
Varrone, De lingua Latina v, 148.
35
La morte di Marcus Curtius può essere messa in parallelo, per alcuni aspetti, anche con
quella di Turnus Herdonius, anch’essa legata all’origine di un luogo, il Lacus Turni, e forte-
mente connotata in senso rituale: secondo Livio, Ab Urbe condita libri i, 51, 9, che parla di no-
vum genus leti, egli sarebbe stato gettato nella sorgente Ferentina con il capo coperto da un gra-
ticcio pieno di sassi in modo da rimanere sommerso nell’acqua e dunque annegare («ut indicta
causa, novo genere leti, deiectus ad caput aquae Ferentinae crate superne iniecta saxisque
congestis mergeretur»); Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae iv, 48, 2 riferisce inve-
ce che venne gettato in una specie di baratro e sepolto vivo:
. Sull’argomento C.
Ampolo, Un supplizio arcaico: l’uccisione di Turnus Herdonius, in Du châtiment dans la cité.
Supplices corporels et peine de mort dans le monde antique. Table ronde de Rome (9-11 novem-
bre 1982), École Française de Rome, Rome 1984, pp. 91-96; E. Cantarella, I supplizi capitali in
Grecia e a Roma. Origini e funzioni della pena di morte nell’antichità classica, Rizzoli, Milano
1991, pp. 255-257, ha sostenuto in maniera convincente l’omogeneità funzionale delle due
versioni: «L’elemento unificante delle due tradizioni è evidentissimo: nell’acqua o nella terra,
il corpo raggiungeva le profondità misteriose ove abitavano gli dèi, realizzando gli estremi di
un’esecuzione sacrale, resa ancor più evidente, nel caso di Turno, sia della scelta del luogo in
cui venne attuata, sia dalle particolarissime modalità che la caratterizzarono».

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vivi dalla terra, convinti che questa morte possa garantire alle rispettive
città, nel primo caso, la fine della lunga contesa con Cirene, nel secondo,
la ricomposizione della pax deorum e con essa la piena riacquisizione di
una parte del suolo urbano. In virtù di questo gesto i tre giovani saranno
ricordati dai loro concittadini come degli eroi36.
Detto questo, dobbiamo resistere alla tentazione di spingere le analo-
gie tra i due racconti oltre il dovuto, ed interpretare ad esempio la storia di
Marcus Curtius come un mito trasfigurante in senso eroico la morte di un
individuo che in realtà fu sepolto vivo per placare la sete degli dèi Mani37.
Ciò presupporrebbe che il mito romano sia stato costruito (da chi?) per
mascherare o nascondere una realtà ben diversa ed evidentemente scomo-
da da ricordare (un sacrificio umano), che andava per l’appunto rimossa.
Ma così facendo, inevitabilmente, finiremmo per sottovalutare la “signi-
ficatività” dei miti, ossia la loro capacità di dare un senso alla storia, di
incidere sulla psicologia collettiva, di veicolare valori e modelli di com-
portamento, in una parola di fare cultura38.
Del resto, nella comparazione le differenze sono importanti almeno
quanto le consonanze. Se queste ultime mettono in evidenza le costanti,
i principi comuni, le altre ci rivelano invece la specificità di una cultura,
la sua originalità39. Dunque, quello che distingue maggiormente la fabula
romana da quella punica riferitaci da Sallustio, è la presenza di un refe-
rente divino al quale è indirizzato il sacrificio. Mentre infatti la vita di
Marcus Curtius è chiaramente destinata al dio degli inferi o agli dèi Mani,
quella dei Fileni non sembra destinata ad alcun essere sovrannaturale, ma
semplicemente funzionale alla fondazione del confine. Si tratta di una dif-
ferenza sostanziale che, applicando le categorie brelichiane, ci porterebbe
a considerare il primo come un caso di sacrificio umano, il secondo come
un caso di uccisione rituale. Inoltre, mentre nella storia dei Fileni sono i

36
Sul luogo della morte sorgono degli altari: nei pressi del Lacus Curtius esisteva fino
al 46 a.C. un’ara che commemorava il gesto del giovane cavaliere romano (Plinio, Naturalis
historia xv, 78); le are dei Fileni ubicate nella parte più interna del golfo della Sirte, sono men-
zionate da storici e geografi antichi (dal periplo dello Pseudo Scilace alla Tabula Peutingeria-
na); per una rassegna completa delle fonti antiche e medievali che registrano il sito delle are e
sulla persistenza del suo valore culturale attraverso le epoche, rimando al dettagliato commento
di R. Oniga, op. cit., pp. 111-150. Per la localizzazione del monumento nei pressi di Graret Gser
et-Trab, cfr. G. Abitino, op. cit., pp. 62-64.
37
F. Coarelli, Il foro romano, Quasar, Roma 1983, p. 298, interpreta il Lacus Curtius, così
come pure la tomba di Acca Larenzia e l’area dei Doliola, come un «monumento commemo-
rativo, l’heroon collettivo legato alla celebrazione (avvenuta certamente in casi di eccezionale
crisi della comunità) di sacrifici umani offerti alle divinità infere del vicino Velabro».
38
Sulla “significatività” dei miti romani, cfr. M. Bettini, Racconti romani “che sono li-
li’u”, Introduzione a L. Ferro - M. Monteleone, Miti romani, Einaudi, Torino 2010, pp. v-xxix.
39
Sull’importanza del leggere le differenze, K. Kluckhohn, Lo specchio dell’uomo, Gar-
zanti, Milano 1973 (ed. or. Mirror for Man, McGraw Hill, New York 1949). Per quanto riguar-
da l’ambito antichistico M. Bettini, Comparare i Romani. Per una antropologia del mondo
antico, in «Studi italiani di Filologia classica», Suppl. 7, serie 4 (2009), pp. 1-47.

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In effossa terra 211
Cirenei ad avanzare la richiesta che conduce i Fileni a lasciarsi seppellire
vivi in mezzo al deserto, a Roma, dove il referente è sovrannaturale, è la
terra che si apre spontaneamente sotto gli occhi dei cittadini in un’ampia
e profonda voragine (ferme specu vasto … in immensam altitudinem).
Ora, l’origine sovrannaturale di questa fossa, il suo aspetto quasi ani-
mato e vorace (in patentes terrae hiatus), ma soprattutto il fatto che essa
venga utilizzata dal devotus come una via per raggiungere da vivo il mon-
do dei morti, ci riconducono, inevitabilmente, alla nozione di mundus40.
Dovendo necessariamente prescindere dai problemi di ordine topografico
e filologico, discussi ancora recentemente dalla critica moderna, sarà suf-
ficiente ricordare che questo pozzo, la cui parte inferiore era consacrata
agli dèi Mani, veniva aperto solo tre giorni all’anno (il 24 agosto, il 5
ottobre e l’8 novembre), durante i quali la collettività era soggetta a speci-
fiche interdizioni rituali41. Secondo Varrone, citato da Macrobio, «quando
il mundus viene aperto è come se si spalancassero le porte delle tristi
divinità infere (mundus cum patet, deorum tristium atque inferum quasi
ianua patet). Per questo la religione vieta (religiosum est) non soltanto di
scontrarsi in battaglia, ma anche di procedere alla leva militare, di partire
per la guerra, di salpare con la nave o di prender moglie per cercare di
aver figli»42. La ragione, come spiega poco prima lo stesso Macrobio, è
che questo luogo era considerato una sorta di accesso agli inferi e dunque,
quando veniva aperto, il mondo dei vivi e quello dei morti entravano,
seppur momentaneamente, in comunicazione tra loro:

40
La bibliografia sul mundus è divenuta ormai sterminata; si veda almeno S. Weinstock,
Mundus patet, in «Mitteilungen des deutschen archeologischen Instituts. Römische Abteilung»
45 (1930), pp. 111-123; H. Le Bonniec, Le culte de Cérès à Rome. Des origines à la fin de la
République, Klincksieck, Paris 1958, pp. 175-184; B. Albanese, Bidental, mundus, ostium Orci
nella categoria delle res religiosae, in «Jus» 20 (1969), pp. 205-249; P. Catalano, Aspetti spaziali
del sistema giuridico romano, in H. Temporini - W. Haase (eds.), Aufstieg und Nidergang der
römischen Welt ii/16.1, W. de Gruyter, Berlin - New York 1978, pp. 440-553; A. Magdelain, Le
pomerium archaïque et le mundus (1976/1977), poi in Id., Jus Imperium Auctoritas. Études de
droit romain, École Française de Rome, Rome 1990, pp. 279-303; F. Coarelli, Il foro romano,
cit., pp. 199-226; C. Dognini, Mundus. Etruria e Oriente in un’istituzione romana, Congedo,
Roma 2000. Più recentemente C. Deroux, Le mundus: images modernes et textes anciens, in P.A.
Deproost - A. Meurant (eds.), Images d’origines. Origines d’une image. Hommages à Jacques
Poucet, Academia-Bruylant - Presses universitaires de Louvain, Louvaine-la-Neuve 2004, pp.
125-137; M. Humm, Le mundus et le Comitium: représentations symboliques de l’espace de
la cité, in «Histoire urbaine» 10 (2004), pp. 43-61, F. Calisti, Il «Mundus», l’«Umbilicus» e il
simbolismo del centro a Roma, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» 31 (2007), pp. 51-
78; M. Bettini, Missing Cosmogonies. The Roman Case?, in «Archiv für Religionsgeschichte»
13 (2011), pp. 69-92; G. De Sanctis, «Urbigonia». Sulle tracce di Romolo e del suo aratro, in «I
Quaderni del Ramo d’Oro on line», numero speciale (2012), pp. 105-135.
41
Festo, De verborum significatu, pp. 144-146 Lindsay.
42
Macrobio, Saturnalia i, 16, 18: «Unde et Varro ita scribit: mundus cum patet, deorum
tristium atque inferum quasi ianua patet. Propterea non modo proelium committi, verum etiam
dilectum rei militaris causa habere et militem proficisci, navem solvere, uxorem, liberum quae-
rendorum causa ducere religiosum est».

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212 Gianluca De SanctiS
«Non è lecito dar battaglia in occasione della festa di Giove Laziare, quando
cioè si celebrano le ferie latine, nei giorni dei Saturnali e quando il mundus viene
aperto (cum mundus patet); questo perché non si riteneva opportuno dare inizio
ad una guerra né durante le feste latine, anniversario della tregua anticamente
conclusa fra il popolo romano ed i Latini, né durante le feste di Saturno, che si
crede governò senza guerra, e neppure quando veniva aperto il mundus, perché è
consacrato al padre Dite e a Proserpina e reputavano fosse meglio partire per la
guerra quando la bocca di Plutone era chiusa (meliusque occlusa Plutonis fauce
eundum ad praelium putaverunt)»43.

Molto probabilmente il coperchio che teneva sigillato il mundus negli


altri giorni dell’anno era il cosiddetto lapis manalis, la «pietra dei Mani»,
di cui parla una glossa di Paolo Diacono, non a caso definito ostium Orci,
«porta dell’Oltretomba»44. Il mundus, insomma, era percepito come una
sorta di terribile inghiottitoio, come una bocca affamata di vite umane,
proprio come la voragine apertasi improvvisamente nel foro e rimargina-
tasi grazie al sacrificio di Marcus Curtius45.

3. «Sub terram vivi demissi»

Dobbiamo rilevare a questo punto che esisteva a Roma almeno un


altro luogo in cui la gente finiva ancora viva sotto terra. Si tratta di una
fossa, probabilmente una sorta di cripta, situata nel foro Boario, dunque
fuori dal pomerium, in cui per ben tre volte, nel 228, nel 216 e poi ancora
nel 113 a.C., in ottemperanza ad un responso dei Libri Sibillini vennero
sepolti vivi una coppia di Galli e una coppia di Greci46. Livio, dalla cui
testimonianza traspare chiaramente quel clima di terrore religioso scate-

43
Macrobio, Saturnalia i, 16, 16-17: «Nam cum Latiar, hoc est Latinarum sollemne, con-
cipitur, item diebus Saturnaliorum, sed et cum Mundus patet, nefas est proelium sumere: quia
nec Latinarum tempore, quo publice quondam induciae inter populum Romanum Latinosque
firmatae sunt, inchoari bellum decebat, nec Saturni festo, qui sine ullo tumultu bellico creditur
imperasse, nec patente Mundo, quod sacrum Diti patri et Proserpinae dicatum est: meliusque
occlusa Plutonis fauce eundum ad proelium putaverunt».
44
Paolo Diacono, Festi epitome, p. 128 Lindsay: «Manalem Lapidem putabant esse
ostium Orci, per quod animae inferorum ad superos manarent, qui dicuntur manes». Sul lapis
manalis, cfr. F. Bomer, Der sogenannte Lapis Manalis, in «Archiv für Religionswissenschaft»
33 (1936), pp. 270-281. Sull’orco, come luogo e signore dell’oltretomba, cfr. T. Braccini, In-
dagine sull’orco. Miti e storie del divoratore di bambini, Il Mulino, Bologna 2013, pp. 23-28.
45
Secondo A. Piganiol, Recherches sur les jeux romains. Notes d’archéologie et d’histoire
religieuse, Librairie Istra, Strasbourg 1923, p. 8, tutto il suolo di Roma era disseminato di boc-
che infernali, di vie sotterranee capaci di mettere in comunicazione il mondo dei vivi e quello
dei morti: oltre al Lacus Curtius, andrebbero annoverati in questa lista l’ara di Conso, la fossa
del Tarentum e la grotta del Lupercale.
46
Per il 228 a.C., si vedano Plutarco, Vita Marcelli 3, 6-7; Orosio, Historiae adversus
paganos iv, 13, 3, che parla in proposito di sacrilega sacrificia; Giovanni Tzetzes, Scholia
in Lycophronis Alexandriam 602, ed. E. Scheer, Weidmann, Berlin 1908; per il 216, si veda
Livio, Ab Urbe condita libri xxii, 57, 6; per il 113, si veda Plutarco, Quaestiones Romanae 83.

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In effossa terra 213
natosi a Roma in seguito alla sconfitta di Canne, afferma che si trattava
di un sacrificio non solo straordinario ma anche «molto poco romano»:
«Interim ex fatalibus libris sacrificia aliquot extraordinaria facta, inter quae
Gallus et Galla, Graecus et Graeca in foro bovario sub terram vivi demissi sunt
in locum saxo consaeptum, iam ante hostiis humanis, minime Romano sacro,
imbutum»47.

Si è molto discusso sull’origine, la natura (“sacrifici umani” o “ucci-


sioni rituali”?) e le finalità di queste cerimonie48. Secondo Augusto Fra-
schetti il rito, pur essendo percepito dai contemporanei come piaculum
47
Livio, Ab Urbe condita libri xxii, 57, 6. Plutarco (Vita Marcelli 3, 6) sembra consi-
derare questo rito di origine straniera. Lo studio fondamentale su questi riti resta quello di A.
Fraschetti, Le sepolture rituali del foro Boario, cit., pp. 51-115 con bibliografia precedente; si
veda anche E. Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e a Roma, cit., pp. 247-249. Tutte le te-
stimonianze riguardo il minime Romanum sacrum appartengono ad un’epoca in cui il sacrificio
umano e considerato proprio dei soli barbari; difficile attribuire un valore cronologico preciso
alla generica aetas in Plinio, Naturalis historia xxviii,12: «Boario vero in foro Graecum Gra-
ecamque defossos aut aliarum gentium, cum quibus tum res esset, etiam nostra aetas vidit»;
che con questa espressione Plinio non intenda riferirsi alla sua generazione, ma evidentemente
ad epoche remote della storia romana, mi pare dimostrato dalla notizia, riportata dallo stesso
autore, Naturalis historia xxx, 12, secondo cui ancora fino al 97 a.C. si celebravano sacrifici
mostruosi che prevedevano l’immolazione di vittime umane: «dclvII demum anno urbis Cn
Cornelio Lentulo P. Licinio Crasso consulibus senatusconsultum factum est, ne homo immola-
retur, palamque fit, in tempus illut sacra prodigiosa celebrata»; ma anche dal ruolo orgogliosa-
mente rivendicato da Plinio ai Romani nell’aver estirpato questo tipo di monstra dalla cultura
druidica: «Nec satis aestimari posset, quantum Romanis debeatur, qui sustulere monstra, in
quibus hominem occidere religiosissimum erat, mandi vero etiam saluberrimum» (ibi, 13).
Sul senatoconsulto del 97, A.M. Eckstein, Human sacrifice and fear of military disaster in Re-
publican Rome, in «American Journal of Ancient History» 7 (1982), pp. 69-95: p. 93 nota 59.
48
La discussione sui sacrifici umani a Roma e molto ampia; si veda F. Schwenn, Die
Menschenopfer bei den Griechen und Römern, Topelmann, Giessen 1915; V. Groh, Sacrifizi
umani nell’antica religione romana, in «Athenaeum» 11 (1933), pp. 240-249; P. Arnold, Les
sacrifices humains et la devotio à Rome, in «Ogam» 9 (1957), pp. 27-36; la questione è stata
riaffrontata piu di recente da C. Grottanelli, Ideologia del sacrificio umano, in «Archiv für
Religiongeschichte» 1 (1999), pp. 41-59; M. Di Fazio, Sacrifici umani e uccisioni rituali nel
mondo etrusco, in «Rendiconti dell’Accademia dei Lincei», serie 9,12 (2001), pp. 435-505;
F. Van Haeperen, Mises à mort rituelles et violences politiques à Rome sous la République et
sous l’Empire, in «Res Antiquae» 2 (2005), pp. 327-346; Id., Sacrifices humains et mises à
mort rituelles à Rome: quelques observations, in A. Musin - X. Rousseaux - F. Vesentini (eds.),
Violence, conciliation et répression. Recherches sur l’histoire du crime de l’Antiquité au xxIe
siècle, Presses Universitaires de Louvain, Louvain 2008, pp. 243-262; F. Prescendi, Décrire et
comprendre le sacrifice. Les réflexions des Romains sur leur propre religion à partir de la lit-
térature antiquaire, Franz Steiner Verlag, Stuttgart 2007, pp. 170-203; Id., Le sacrifice humain:
une affaire des autres! A propos du martyre de saint Dasius, in F. Prescendi - Y. Volokhine
(eds.), Dans le laboratoire de l’historien des religions: Mélanges offerts à Philippe Borgeaud,
Labor et Fides, Genève 2011, pp. 345-357; G. De Sanctis, La religione a Roma, Carocci, Roma
2012, pp. 89-108. Per il mondo greco soprattutto, cfr. D.D. Hughes, Human Sacrifice in Ancient
Greece, Routledge, London - New York 1991, e P. Bonnechere, Le sacrifice humain en Grèce
ancienne, Centre International d’Étude de la Religion Grecque Antique, Athènes - Liège 1994.
Il tema del sacrificio umano continua ad essere oggetto di grande attenzione da parte degli
studiosi moderni; per un aggiornamento si vedano i contributi raccolti nel volume curato da

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espiatorio ordinato dai Libri Sibillini in seguito all’apparizione di porten-
ta, conservava tuttavia il significato più profondo di sterminio rituale di
due stirpi esterne alla terra Italia, la cui nozione originaria era secondo
Appiano49, ancora all’epoca della seconda guerra punica, fondamental-
mente cisappenninica:
«Galli e Greci, nationes estranee alla terra Italia e che solo in quanto tali pos-
sono provocare bella externa, attraverso il seppellimento delle due coppie si in-
tendono espulsi dal mondo dei vivi e consegnati nel loro complesso al mondo
dei morti. Da un esame degli elementi costitutivi del rito, questa sembra imporsi
come la sua connotazione profonda ed originaria: una connotazione, dunque, di
ordine annientatorio, e dove lo sterminio, grazie alla presenza delle coppie, si
intende esso stesso come definitivo nel momento in cui si vuole impedire, espel-
lendo le due coppie dal mondo dei vivi, ogni loro possibile e futura progenie»50.

Attraverso la morte per seppellimento si intendeva dunque consegna-


re al mondo infero e alle sue divinità i rappresentanti di due éthne consi-
derati non solo culturalmente estranei alla koiné italica, ma storicamente
pericolosi per il popolo romano51.
Dominique Briquel ritiene invece che le sepolture del Foro Boario
debbano essere intese come una simbolica presa di possesso da parte dei
Galli e dei Greci52. Quest’interpretazione, già formulata da Angelo Bre-
lich e recentemente riproposta da Renato Oniga53, si basa su un passo di
Zonara:

Francesca Prescendi e Agnes A. Nagy, Sacrifices humains: dossiers, discours, comparaisons.


Actes du colloque tenu à l’Université de Genève, 19-20 mai 2011, Brepols, Turnhout 2013.
49
Appiano, Annibalica 8, 34; sull’interpretazione di questo passo e le connessioni storico-
culturali con il seppellimento delle due coppie nel foro Boario, indispensabili le osservazioni
di S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, vol. ii, Laterza, Roma - Bari 1966, pp. 216 ss.
50
A. Fraschetti, Le sepolture rituali del foro Boario, cit., p. 112. Sul significato delle
sepoltura come forma di consacrazione alle divinità infere aveva già insistito C. Bémont, Les
enterrés vivants du Forum Boarium. Essai d’interprétation, in «Mélanges d’archéologie et
d’histoire» 72 (1960), pp. 133-145: pp. 136-137: «Si l’on se réfère à la tradition la plus courante
sur les lieux et les modes de sacrifice, il s’agit d’une consécration des victimes à des divinités
infernales».
51
A. Fraschetti, Le sepolture rituali del foro Boario, cit., pp. 71-72; 136-137. Sulla stessa
linea interpretativa, cfr. E. Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e a Roma, cit., pp. 247-249;
N. Saliou, Minime Romano sacro, à propos des sacrifices humains à Rome à l’époque républi-
caine, in «Dialogues d’histoire ancienne» 26 (2000), pp. 119-128.
52
D. Briquel, Les enterrés vivants de Brindes, in A. Balland et al. (eds.), L’Italie préro-
maine et la Rome républicaine. Mélanges offerts a Jacques Heurgon, vol. i, École Française de
Rome, Rome 1976, pp. 65-88. L’autore francese rispose poi alle proposte avanzate da Augusto
Fraschetti in Id., Des propositions nouvelles sur le rituel d’ensevelissement de Grecs et de Gau-
lois au Forum Boarium, in «Revue des Études Latines» 59 (1981), pp. 30-37.
53
A. Brelich, Presupposti del sacrificio umano, cit., p. 94, che lo considerava un tipico
caso di “morte rituale”; R. Oniga, op. cit., p. 92; solidale con l’ipotesi di Briquel anche S. Ri-
bichini, op. cit., pp. 398-399.

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In effossa terra 215
«Poiché un tempo un oracolo aveva predetto ai Romani che Galli e Greci avreb-
bero occupato la città, due Galli e due Greci, maschio e femmina, vennero sepolti
vivi nel foro affinché ciò che era stato predetto sembrasse effettivamente essersi
compiuto e poiché si riteneva che le coppie inumate avessero preso possesso di
una parte della città»54.

La tesi di Briquel si appoggia inoltre ad un parallelo etnologico già


colto dalla letteratura bizantina: secondo Tzetzes, in seguito alla morte di
Diomede, dal momento che un oracolo aveva annunciato ai Daunii che
gli Etoli si sarebbero impadroniti della loro regione, questi non esitarono
a seppellire vivi gli ambasciatori sbarcati a Brindisi, proprio come fecero
i Romani con i Galli e i Greci quando a Roma si diffuse l’oracolo di cui
parla Zonara55. In entrambi i casi, secondo le fonti, la sepoltura avrebbe lo
scopo di eludere l’oracolo, disinnescandone il contenuto altamente distrut-
tivo attraverso una sua realizzazione puramente formale; espediente que-
sto, spesso praticato dagli antichi, che non potendo opporsi alla volontà
divina cercarono almeno con l’astuzia di piegarla verso esiti monitorabili.
Entrambe le soluzioni proposte – sterminio rituale volto a respinge-
re la minaccia portata dalle nationes esterne alla terra Italia o sacrificio
simboleggiante una fittizia e astuta presa di possesso del suolo da parte
degli éthne rappresentati dalle due coppie sepolte vive nel Foro Boario –
appaiono plausibili.
Vi e tuttavia una notizia fornitaci da una fonte tardoantica che credo
possa dirimere definitivamente la questione.
Olimpiodoro di Tebe racconta che nel 421 d.C. tre statue d’argen-
to raffiguranti dei barbari con le mani legate dietro la schiena vennero
disseppellite in Tracia per ordine dell’imperatore Costanzo e che poco
dopo, prima i Goti, poi gli Unni e infine i Sarmati oltrepassarono il limes
illirico, invadendo così i fines del popolo Romano56. Nella formulazione
dell’autore i due eventi, apparentemente incongruenti, sono invece messi
in relazione tra loro, come se l’uno fosse la conseguenza dell’altro. Olim-
piodoro, infatti, condanna il provvedimento imperiale circa il disseppelli-
mento dei tre simulacri, ritenendo implicitamente che questo abbia scate-
nato la successiva invasione di Goti, Unni e Sarmati. Evidentemente egli
riteneva che le tre statue fossero in qualche modo capaci di veicolare il
destino di quei tre popoli: fin tanto che i loro simulacri d’argento fossero
54
Zonara, Chronicon viii, 19, 9; per una esauriente discussione su questo passo, rimando
a A. Fraschetti, Le sepolture rituali del foro Boario, cit., pp. 59 ss.
55
Giovanni Tzetzes, Scolia in Lycophronis Alexandriam 602, cit.
56
Olimpiodoro di Tebe, fr. 27, pp. 190-193 ed. Blockley 1983. Su questo testo P. Bro-
cato, Le prime mura, in A. Carandini - P. Carafa (eds.), Palatium e Sacra Via, vol. i: Prima
delle mura, l’età delle mura, e l’età delle case arcaiche [= «Bollettino di Archeologia» 31-34
(1995)], Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2000, pp. 152-159: in part. Gli aspetti ritua-
li, p. 156; si veda in proposito anche G. Marasco, La magia e la guerra, in «Jahrbuch zu Kultur
und Geschichte des ersten Jahrtausends n. Chr.» 1 (2004), pp. 83-132: pp. 101-102.

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rimasti imprigionati nel sottosuolo, Goti, Unni e Sarmati non avrebbero
potuto nuocere all’impero; qualora invece fossero stati riportati alla luce,
Roma avrebbe corso un grave pericolo. La funzione di questi simulacri
sembra dunque sostanzialmente simile a quella del signum rappresentante
il devotus scampato alla morte; attraverso il loro interramento si intende-
va consacrare alle divinità infere le popolazioni che esse stavano a rap-
presentare. Si tratterebbe in sostanza di una forma particolare di devotio,
poiché in questo caso il signum offerto agli dèi del sottosuolo non è quello
di un generale o di un soldato romano che ha sacrificato volontariamente
la propria vita per il bene della comunità, ma quello di un nemico che si
intende eliminare o tenere lontano dai propri confini.
Ora, se questa è la logica che spiega il seppellimento dei simulacri,
possiamo presumere che la stessa logica fosse operante anche nel caso in
cui ad essere seppellito fosse un individuo in carne ed ossa. Attraverso la
vivisepoltura delle due coppie di Galli e di Greci nel Foro Boario proba-
bilmente i Romani si aspettavano di ottenere lo stesso risultato che secoli
più tardi si prefiggevano di raggiungere i loro discendenti con il seppel-
limento di statue apotropaiche, vale a dire l’annientamento del nemico
attraverso la sua consacrazione alle divinità del sottosuolo57.
A questo proposito vale la pena ricordare che Macrobio cita la formu-
la di una devotio, assai diversa da quella compiuta da Publius Decius Mus
e resa celebre dal racconto liviano58, trovata nel libro v delle Curiosità di
Sammonico Sereno, nella quale i generali e i dittatori – gli unici magi-
strati in grado di farlo – “votavano” agli dèi inferi non se stessi o un loro
sottoposto, ma le città e gli eserciti nemici:
«Ego vicarios pro me fide magistratuque meo pro populo Romano exercitibus
legionibusque nostris do devoveo, ut me meamque fidem imperiumque legiones
exercitumque nostrum bene salvos siritis esse»59.

57
Plutarco, Quaestiones Romanae 83, parla in proposito di demoni bizzarri e stranieri
( ). È probabile che la praecatio recitata per l’occasione
dal magister del collegio dei quindecemviri (Plinio, Naturalis historia xxviii, 12), fosse una
formule di consacrazione.
58
Livio, Ab Urbe condita libri viii, 9, 1-13. Sulla devotio dei Decii, cfr. L. Deubner, Die
Devotion der Decier, in «Archiv für Religionswissenschaft» 8 (1904-1905), pp. 66-88; W.
Soltau, Die Devotion der Decier, in «Philosophisches Wörterbuch» 30 (1910), pp. 1461-1464;
L.F. Janssen, Some unexplored aspects of “devotio Deciana”, in «Mnemosyne» 34 (1981), pp.
358-375; C.A. Barton, The Sorrows of the Ancient Romans: The Gladiator and the Monster,
Princeton University Press, Princeton, nj 1996, pp. 40-46; G.M. Masselli, La leggenda dei
Decii: un percorso fra storia, religione e magia, in «Aufidus» 39 (1999), pp. 7 -37; L. Sacco,
Devotio, in «Studi Romani» 52 (2004), pp. 312-352, con amplia bibliografia.
59
Macrobio, Saturnalia iii, 9, 10-12. Sulla distinzione tra questa devotio e quella praticata
dai Decii, cfr. G. Wissowa, s.v. “devotio”, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswis-
senschaft, vol. v, Metzler, Stuttgart 1905, coll. 277-280, specialmente col. 279; H.S. Versnel,
Two types of Roman devotion, cit.; L. Sacco, op. cit., pp. 331-335.

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In effossa terra 217
In questo caso, dunque, sono i nemici a fare da vicarii, ad essere sacri-
ficati agli dèi inferi al posto dell’imperator, delle sue legioni e dell’intero
popolo romano. Ma, se effettivamente era possibile devovere un’intera
città nemica e il suo esercito, si potrebbe supporre, seguendo lo schema
di sostituzioni valido per la devotio Deciana, che fosse ugualmente pos-
sibile, per lo meno in alcune circostanze, sostituire l’intera collettività dei
nemici con dei suoi rappresentanti e, all’occorrenza, questi stessi rappre-
sentanti con dei signa60. Stiamo dicendo, in altre parole, che i seppelli-
menti delle due coppie di Galli e di Greci nel foro Boario e quello delle
tre statue argentee lungo il confine dell’Illirico potrebbero costituire degli
esempi concreti, cioè storicamente attestati, di ulteriori moduli operativi
della cosiddetta devotio hostium61. Del resto, ciò che caratterizza la de-
votio rispetto alle altre forme di votum è il fatto che l’oggetto consacrato
viene “consegnato” anticipatamente rispetto al conseguimento del bene-
ficio richiesto, in modo tale da costringere gli dèi ad esaudire la preghie-
ra del richiedente62. Ora, poiché tale preghiera è indirizzata alle divinità
dell’oltretomba, la consegna si intende formalmente realizzata attraverso
la morte del devotus o in alternativa mediante l’interramento di un suo
signum. Evidentemente si riteneva che fosse attraverso questa modalità
che gli dèi Mani e Tellus, ossia le potenze infere invocate al momento
dell’enunciazione della formula, entrassero concretamente in possesso di
ciò che veniva loro destinato. A questo proposito George Wissowa faceva
notare che il prefisso de- potrebbe avere nel caso del verbo de-voveo il si-
gnificato di “giù”, “verso il basso”, “sotto”, e dunque indicare la direzio-
ne spaziale che prende l’offerta63. Anche se non è possibile determinare
con precisione il significato originario di questo prefisso – si è sostenuto

60
Sul meccanismo della sostituzione rituale si veda soprattutto G. Capdeville, Substitu-
tion de victimes dans les sacrifices d’animaux à Rome, cit., pp. 283-323, e W. Burkert, Mito
e rituale in Grecia, Laterza, Roma - Bari 1987, pp. 95-123 (ed. or. Structure and History in
Greek Mythology and Ritual, University of California Press, Berkeley 1979); per una panora-
mica più ampia, non limitata alla sola cultura greca o romana, cfr. C. Grottanelli, Il sacrificio,
cit., pp. 55-66.
61
L’ipotesi che i seppellimenti del foro Boario fossero una forma di devotio era già stata
formulata, seppure molto velocemente, da L. Preller, Römische Mythologie, Weidmann, Berlin
18652, pp. 468-469.
62
Sull’aspetto contrattualistico della devotio, cfr. A. Bouché-Leclercq, s.v. “devotio”, in
Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, vol. ii/1, Hachette, Paris 1892, pp. 113-119;
G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, Bech, München 19122, pp. 380 ss.; P. Poccetti,
Lingue speciali e pratiche di magia nelle lingue classiche, in R. Bombi (ed.), Lingue speciali
e interferenza. Atti del Convegno Seminariale Udine, 16-17 maggio 1994, il Calamo, Roma
1995, pp. 255-273: p. 267; S.H. Versnel, Self-Sacrifice, Compensation, and the Anonymous
Gods, cit.; G.M. Masselli, Il rancore dell’esule. Ovidio, l’Ibis e i modi dell’invettiva, Edipuglia,
Bari 2002, pp. 108-112, con bibliografia precedente.
63
G. Wissowa, s.v. “devotio”, cit., col. 277. A questo proposito S.H. Versnel, Two types
of Roman devotion, cit., p. 375, nota: «In all devotio-formulae it is the gods of underworld to
whom the prayer is addressed and the object dedicated».

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218 Gianluca De SanctiS
con buone argomentazione che come in de-dicare esso debba piuttosto
indicare «separazione», «abbandono»64 –, tuttavia «yet it is an established
fact that in the terminology of magic the element de- is always associated
with the gods of netherworld»65.
Se la nostra ipotesi è corretta avremmo dunque a che fare con diverse
forme di uno stesso schema rituale. Nella forma descritta da Livio (devotio
ducis) il generale romano si immola per salvare il proprio esercito e il po-
polo romano, ma può farsi sostituire da un soldato semplice, il quale a sua
volta, se riesce a scampare alla morte, può essere sostituito da un signum
che lo rappresenta. In quella riferita da Macrobio (devotio hostium) e che
sarebbe stata utilizzata contro le città di Turi, Fregelle, Gavi, Veio, Fidene,
ma anche contro Cartagine e Corinto e in molte altre occasioni al di fuori
dei confini dell’Italia66, il generale romano invece consacra direttamente
come suo sostituto la stessa città e il popolo dei nemici; infine vi è il caso
in cui, ad essere consacrati/votati agli dèi inferi, sono dei rappresentanti
del popolo nemico (la coppia di Galli e di Greci) o dei loro simulacri (le
statue d’argento di cui parla Olimpiodoro). Il ricorso all’una piuttosto che
ad un’altra tipologia di devotio dipendeva evidentemente dalle necessità
imposte dalle circostanze, il rischio di perdere una battaglia, le difficoltà di
un assedio, o la minaccia di una conquista. Si tratta in ogni caso di rispo-
ste ad una situazione di incertezza e angoscia collettiva, spesso preparata
o accentuata dal manifestarsi di prodigia. In particolare, alle “sepolture
rituali” si ricorreva quando era Roma, o più tardi il suo impero, a subi-
re la minaccia di una invasione straniera. Dal punto di vista simbolico
seppellire significa eliminare dalla terra, ossia “sterminare”, allontanare
dai propri confini. Se il seppellimento delle due coppie nel Foro Boario
doveva proibire l’ingresso a Roma dei Galli e dei Greci, parallelamente il
seppellimento delle tre statue d’argento intendeva scongiurare l’ingresso
all’interno dei confini dell’impero romano dei popoli da esse rappresentati.

4. «Vivae obruebantur»

Prima di chiudere questo nostro breve dossier sulle morti per seppel-
limento dobbiamo prendere in esame un ultimo caso, quello delle Vestali
condannate per incesto67. Anche la vestale colpevole è destinata, infatti,
64
H. Fugier, Recherches sur l’expression du sacré dans la langue latine, Les Belles Let-
tres, Paris 1963, p. 50.
65
S.H. Versnel, Two types of Roman devotion, cit., p. 376.
66
Macrobio, Saturnalia iii, 9, 13.
67
Sulle Vestali e il loro statuto giuridico, cfr. soprattutto G. Giannelli, Il sacerdozio delle
Vestali romane, Galletti e Cocci, Firenze 1913; R. Schilling, Vestales et vierges chrétiennes
dans la Rome antique, in «Revue des sciences religieuses» 35 (1961), pp. 113-129, poi in Id.,
Rites, cultes, dieux de Rome, Klincksieck, Paris 1979, pp. 166-182; F. Guizzi, Aspetti giuridici
del sacerdozio romano. Il sacerdozio di Vesta, Jovene, Napoli 1968; M. Beard, The sexual

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In effossa terra 219
alla vivisepoltura. Tuttavia mentre le due coppie di Galli e di Greci devo-
no essere sepolte nel foro Boario, cioè al di fuori della città, come avviene
a Roma per qualunque cadavere, il luogo predisposto ad accogliere il
corpo ormai corrotto della vestale incesta si trova invece all’interno del
pomerium, nei pressi della porta Collina; in un’area liminare quindi ma
pur sempre interna ai limiti sacri dell’Urbs ( )68. Servio
ricorda che era prerogativa delle Vestali, anche se colpevoli, essere se-
polte intra urbem in campo Scelerato, come più tardi sarà concesso agli
imperatori69. Questo privilegio straordinario va evidentemente connesso
con il loro statuto religioso: in quanto consacrate a Vesta o, piuttosto, in
quanto “di Vesta” – si ricordi la formula della captio nella lex Papia citata
da Gellio ut eam pontifex maximus capiat eaque Vestae fiat70 –, il loro
sepolcro, anche se nocentes, non può collocarsi al di là della città, ma a
causa dell’empietà commessa, deve essere sospinto ai limiti dello spa-
zio urbano, in una zona marginale che pur visualizzando la gravità della
colpa tuttavia non violi un privilegio connaturato al loro status71. Inoltre,
se non abbiamo notizie precise circa il luogo in cui venivano sepolte le
due coppie di Galli e di Greci nel Foro Boario, il cubicolo sotterraneo nel
quale veniva reclusa la vestale incesta è descritto con dovizia di dettagli
da Plutarco:
-
-
-

72.

La presenza di questa sorta di “corredo” indicherebbe dunque la vo-


lontà da parte della città di allontanare da sé la responsabilità di uccidere
la vestale. Dionigi di Alicarnasso ha compreso la reale natura degli ogget-

status of Vestal Virgins, in «Journal of Roman Studies» 70 (1980), pp. 12-27; A. Staples, From
Good Goddess to Vestal Virgins. Sex and Category in Roman Religion, Routledge, London -
New York 1998; M.C. Martini, Le Vestali: un sacerdozio funzionale al «cosmo» romano, La-
tomus, Bruxelles 2004; N. Mekacher, Die Vestaliche Jungfrauen in der römischen Kaiserzeit,
Reichert, Wiesbaden 2006; R.L. Wildfang, Rome’s Vestal Virgins: A Study of Rome’s Vestal
Priestesses in the Late Republic and Early Empire, Routledge, London - New York 2006.
68
Plutarco, Vita Numae 10,3-7; Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae ii, 67, 4.
69
Servio, ad Aeneidem xi, 206: «Etiam nocentes virgines Vestae licet vivae, tamen intra
urbem in campo Scelerato obruebantur».
70
Gellio, Noctes Atticae i, 12, 11. In proposito, cfr. F. Guizzi, op. cit., pp. 62-63.
71
A. Fraschetti, La sepoltura delle Vestali e la Città, in Du châtiment dans la cité. Sup-
plices corporels et peine de mort dans le monde antique, cit., pp. 97-129: p. 124.
72
Plutarco, Vita Numae 10, 4-5.

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220 Gianluca De SanctiS
ti quando li definisce : oggetti appartenenti al corredo
funebre che di norma accompagna il morto73. L’ambiguità di questa rap-
presentazione in cui la vestale ancora viva viene trattata come fosse già
morta è stata spiegata con la necessità da parte della città di omologare
morte sociale e morte reale. La vestale incesta, infatti, come prigioniera
di un corpo irrimediabilmente corrotto, è già morta per la comunità: la
sua lettiga (definita o ) è un vero e proprio feretro coper-
to esternamente e stretto con cinghie, come ad impedire che gli sguardi
degli astanti penetrino all’interno; il corteo che l’accompagna alla por-
ta Collina dove verrà sepolta è un corteo funebre, una vera e propria
nella descrizione di Dionigi. Plutarco afferma che quando la
lettiga in cui è reclusa la vestale attraversa il Foro tutti si ritraggono in
silenzio e l’accompagnano muti con una terribile costernazione: «[n]on
c’è spettacolo più agghiacciante, né giorno più lugubre per la città»74.
Infine, una volta giunti sul luogo, la vestale è fatta scendere dalla lettiga,
ma è velata ( ) perché il pontefice massimo che officia
il rito non può essere contaminato dalla vista di un cadavere. Tutta la
cerimonia è descritta quindi nei termini di un funus e la stessa vestale
colpevole è trattata come fosse già morta:
«Esclusa e rifiutata con orrore, quasi fosse un prodigio vivente, non solo dalla
civitas religiosa dei sacerdoti, ma anche dalla Città dei vivi che ha contaminato e
su cui ha attratto l’ira divina, essa – ripetiamo: socialmente già morta – non può
che essere consegnata a quello stesso mondo dei morti cui ormai implicitamente
appartiene»75.

Si tratta di una differenza sostanziale rispetto ai seppellimenti del


Foro Boario. È vero, apparentemente le due cerimonie sembrano propor-
si lo stesso risultato: fare in modo che i soggetti coinvolti entrassero vivi
nel regno dei morti; le ragioni tuttavia, sono profondamente diverse: le
due coppie di Galli e di Greci vengono seppellite vive perché sono offerte
in sacrificio alle potenze infere76; la vestale, perché la città, che pure ha il
dovere di punirla, non ha il coraggio di ucciderla e allora “finge” che ella
sia già morta77. Il primo è un sacrificio espiatorio messo in atto attraverso

73
Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae ii, 67, 4.
74
Plutarco, Vita Numae 10, 6:
.
75
A. Fraschetti, La sepoltura delle Vestali e la Città, cit. p. 126.
76
La vivisepoltura sembra essere stata praticata a questo scopo anche presso altre culture.
Erodoto, Historiae vii, 114, 2, testimonia che questa pratica era nota anche al mondo persiano:
Amestri, la moglie di Serse ormai vecchia, infatti, avrebbe fatto seppellire vivi quattordici fan-
ciulli persiani per ingraziarsi «la divinità che si dice abiti sottoterra» (
).
77
Sulla “finzione” che anima i riti e l’antropologia del “come se”, cfr. F. Remotti, Antro-
pologia dello spazio, del tempo e del potere, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. 113-124.

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In effossa terra 221
l’annientamento simbolico dei popoli nemici di Roma – in questo senso
esso presenta forti analogie con la devotio78 –, il secondo, pur presentando
le caratteristiche del piaculum79, è al tempo stesso un rito funebre e un
castigo, o meglio un rito funebre che nel suo svolgersi, nel suo realiz-
zarsi produce, mette in atto, il castigo. Un castigo che va spiegato alla
luce del particolare statuto delle sacerdotesse incestae, ormai veicolo di
contaminazione per l’intera comunità80. Un castigo che, giustamente, è
stato messo in relazione con la punizione riservata alle donne adultere o
colpevoli di aver bevuto vino, fatte morire di inedia dai padri o dai mariti
nelle loro stesse case:
«Come abbiamo visto le Vestali non venivano sepolte nella nuda terra: venivano
sepolte in una stanza sotterranea illuminata da una fiaccola, fornita di un letto e
di un minimo di provviste alimentari. In altre parole, in una casa sotterranea, in
un ambiente che ricreava lo spazio riservato in vita alle donne. L’analogia tra la
loro morte e il castigo domestico è di tutta evidenza e non è certo dovuta al caso.
Il dovere di castità delle Vestali era la proiezione nel campo sacrale dell’analogo
dovere di tutte le donne, esattamente come i loro compiti rituali erano la proie-
zione dei compiti domestici femminili»81.

Quella della vestale, dunque, era una morte lenta e silenziosa, atroce
e persino “dolce” nelle sue modalità, ma soprattutto “invisibile”, realiz-
zata attraverso un’operazione rituale molto complessa dal punto di vista
simbolico, che si prefiggeva non soltanto di punire, ma anche di far scom-
parire agli occhi della città il corpo infetto. La lungo la scala
che la conduce nella stanza sotterranea sancisce di fatto il suo ingresso nel

78
C. Bémont, op. cit., p. 145 nota 2: «Le rite ainsi compris ne serait pas sans présenter des
resemblances avec la devotio du peuple étranger, telle du moins qu’elle apparaît dans Macrobe,
Sat. xii, 9. En effet, dans la formule qui nous est transmise, seuls sont dévoués les étrangers,
sans sacrifice, comme dans le cas de Decius Mus, d’un représentant de l’armée romaine».
79
A. Fraschetti, La sepoltura delle Vestali e la Città, cit., p. 113.
80
La verginità della vestale era ritenuta un requisito indispensabile e imprescindibile
per il corretto funzionamento della vita religiosa romana. Una vestale che avesse infranto il
voto di castità contaminava i sacra; per la vestale Opimia si dice, infatti, che
(Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae viii, 89, 4). Sul-
la verginità della vestale come espressione rituale dell’integrità di Roma, cfr. A. Staples, From
Good Goddess to Vestal Virgins. Sex and Category in Roman Religion, cit. Per quanto riguarda
il caso di Tarpeia, considerata vestale da una parte della tradizione, riteniamo condivisibili le
perplessità a suo tempo avanzate da A. Fraschetti, La sepoltura delle Vestali e la Città, cit., p.
98: «La saga di Tarpeia con le sue varianti e le sue diverse sfumature, proprio per queste varian-
ti e queste sfumature che investono direttamente lo statuto della fanciulla, è tale da non dover
essere inclusa nel nostro dossier. In un simile contesto, si aggiunga solo che in un settore della
tradizione antica Tarpeia può essere rappresentata tanto più facilmente come vestale grazie
forse anche al suo tipo di morte: ancora una volta per seppellimento, benché un seppellimento
operato nel caso specifico di Tarpeia non sotto terra né dai suoi concittadini, ma attraverso gli
scudi dei nemici che la sovrastano e la ricoprono».
81
E. Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e a Roma, cit., p. 138. Sulla morte per inedia,
Plinio, Naturalis historia xiv, 13, 89.

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mondo dei morti; questo cubicolo non è altro che una tomba. Qualcosa di
molto diverso rispetto al locum saxo consaeptum dove venivano invece
sepolte le due coppie di Galli e di Greci nel Foro Boario82. È giunto il
momento di osservare meglio la natura di questo luogo.

5. In effossa terra. Conclusioni

Una glossa tratta dal compendio di Paolo Diacono al vocabolario di


Festo può forse fornirci la chiave di interpretazione dei rituali finora esa-
minati:
«Altaria ab altitudine sunt dicta, quod antiqui diis celestis in aedificiis a terra
exaltatis sacra faciebant; diis terrestribus in terra; diis infernalibus in effossa
terra»83.

Ogni divinità possiede dunque, in conformità alla propria “natura”,


celeste, terrestre o infera, luoghi specifici per i sacra a lei destinati84. Ser-
vio, commentando Eneide iii, 134, precisa che queste fosse scavate nel
terreno in cui si fanno sacrifici agli dèi inferi si chiamano mundi85. Se
diamo credito a questa informazione, che tuttavia non trova riscontro nel
resto della documentazione a nostra disposizione, dovremmo ammettere
che mundus era un termine generico utilizzato per indicare un certo tipo
di cavità sotterranea, e che dunque il mundus Cereris che veniva aper-
to tre volte all’anno era soltanto il più famoso di questi pozzi infernali.
Senza addentrarci ulteriormente in questa direzione occorre dire che il
passaggio dal singolare al plurale, dal nome proprio al nome generico,
potrebbe fornire una possibile spiegazione delle diverse tradizioni conflu-
ite intorno al mundus e ai relativi problemi topografici. Se poi dovessimo
indicare il prototipo del mundus, potremmo scegliere il profondo
circa mezzo metro che Ulisse scava su indicazione di Circe per entrare in
comunicazione con il regno dei morti86.

82
C. Bémont, op. cit., p. 135, ritiene che anche in questo caso si tratti di una camera sotter-
ranea, poiché Livio, Ab Urbe condita libri xxxix, 50, usa lo stesso vocabolario per descrivere
il deposito del denaro pubblico in cui i Messeni rinchiusero Filopemene: «Admonent deinde
quidam esse thesaurum publicum sub terra, saxo quadrato saeptum. Eo vinctus demittitur, et
saxum ingens, quo operitur, machina super impositum est».
83
Paolo Diacono, Festi epitome, p. 27 Lindsay. Una formulazione simile in Porfirio, De
antro nympharum 6.
84
Si veda ad esempio la formula recitata dal pater patratus nel caso in cui le richieste
del popolo romano non siano state soddisfatte in Livio, Ab Urbe condita libri i, 32: «Audi,
Iuppiter, et tu, Iane Quirine, dique omnes caelestes, vosque terrestres vosque inferni, audite;
ego vos testor».
85
Servio, Ad Aeneidem iii, 134: «Quidam aras superorum deorum volunt esse, medioxi-
morum id est marinorum focos, inferorum vero mundos».
86
Omero, Odyssia xi, 25. Anche il mundus scavato da Romolo nei pressi del Comizio
nel racconto di Plutarco, Vita Romuli 11, 1-2, è un :

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In effossa terra 223
Ora, poiché i mundi si qualificano come porte di accesso al mondo dei
morti – si ricordi che nella definizione di Macrobio il mundus è definito
deorum tristium atque inferum quasi ianua –, potremmo definire mundi
sia la voragine apertasi nel Foro nella quale si getta Marcus Curtius, sia il
locum saxo consaeptum nel campo Boario, dove, come abbiamo visto, i
Romani seppellivano vivi esseri umani in momenti di particolare gravità
per le sorti della res publica, sia la fossa nella quale veniva interrato il si-
gnum rappresentante il devotus scampato al suo destino. Ma al di là della
questione terminologica, quello che ci preme mettere in evidenza è il fatto
che queste fosse siano pensate come delle vie di accesso per l’aldilà. È at-
traverso di esse, infatti, che le divinità del sottosuolo entrano in possesso
di ciò che viene loro destinato.
Questa credenza riflette evidentemente un’immagine del mondo fatta
di corrispondenze e analogie, di parallelismi spaziali, di piani che si op-
pongono e riflettono87. Insomma, la geografia sacrale dell’uomo romano
sembra costruita sull’idea di una forte simmetria topografica tra i diversi
“piani” del mondo. Come dunque le arae o gli altaria, per il fatto di esse-
re edifici rialzati dal suolo, sono i luoghi adibiti ai sacrifici in onore degli
dei superi, così le fossae o i mundi, in quanto buche scavate nel terreno,
si qualificano come gli spazi più appropriati per le cerimonie indirizzate
agli dei inferi.
Che la terra fosse popolata di divinità non meno di quanto lo fosse la
volta celeste doveva essere un’idea fortemente radicata nella coscienza
dell’uomo antico. Si pensi al dio Tages, la cui apparizione, almeno nel
racconto di Cicerone, sarebbe stata provocata dal fatto che il bubulcus
aveva tracciato nel terreno un solco più profondo del normale (cum terra
araretur et sulcus altius impressus)88. Per assicurarsi la benevolenza o
la complicità di questi potenti abitanti del sottosuolo i Romani ricorre-

. Sul mundus romuleo, cfr. soprattutto A. Mastrocinque,


«Roma quadrata», in «Mélanges de l’École Française de Rome Antiquité» 110 (1998), pp. 681-
697; F. Humm, op. cit.; G. De Sanctis, «Urbigonia». Sulle tracce di Romolo e del suo aratro,
cit. Per un riscontro archeologico si vedano le “fosse” (ben 129) a destinazione cultuale rinve-
nute presso l’antico vicus di Falacrinae in V. Gasparini, Sacrificare “in effossa terra”: i foci di
Falacrinae, in R. Cascino - V. Gasparini (eds.), Falacrinae. Le origini di Vespasiano. Catalogo
della mostra (Cittareale, 18 luglio 2009 - 10 gennaio 2010), Quasar, Roma 2009, pp. 59-62.
87
È sufficiente a riguardo rinviare alla nozione di templum che, come spiega Varrone, De
lingua Latina vii, 6, può essere utilizzata sia per indicare una superficie celeste, terrestre o
infera. Cfr. in proposito M. Bettini, Missing Cosmogonies. The Roman Case?, cit., p. 82: «In
this regard, the idea of joining within one cultural configuration the three levels of underworld,
terrestrial world and the heavens, seems to be a very Roman way of hinking: the notion of tem-
plum “defined area” was also apparently used of celestial, terrestrial, as well as infernal spaces».
88
Cicerone, De divinatione ii, 23; cfr. anche Ovidio, Metamorpheseon libri xv, 533-559;
Paolo Diacono, Festi epitome, p. 492 Lindsay; Censorino, De die natali 4, 13.

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224 Gianluca De SanctiS
vano a riti e sacrifici antichissimi la cui origine e spesso il significato si
erano perduti nel tempo, ma che, ciononostante, continuavano ad essere
celebrati, perché la fiducia nel loro potere propiziatorio non era incrinata
dalla mancanza di una comprensione razionale. Perché un rito funzioni è
necessario innanzitutto credere che esso funzioni. Proviamo a tirare le fila
di quanto detto fin qui. Seppellire vivo un individuo non significa sem-
plicemente ucciderlo; la morte è una conseguenza, un effetto secondario,
ma certamente non lo scopo primario della vivisepoltura. Se, dunque, i
Romani a volte sono ricorsi ad una simile procedura rituale è perché, evi-
dentemente, ritenevano che essa potesse costituire la “soluzione” adatta
a risolvere un certo tipo di “problemi”. È opportuno utilizzare il plurale
(“problemi”), poiché, come ho cercato di mostrare, almeno i casi docu-
mentati per via letteraria non si lasciano riassorbire all’interno di un’u-
nica categoria interpretativa. Se la storia dei Fileni sembra obbedire alla
logica del “sacrificio di fondazione” – i corpi dei due fratelli vengono,
infatti, utilizzati come dei termini per segnare e stabilizzare il confine tra
Cartagine e Cirene – la vivisepoltura alla quale erano destinate le Vestali
incestae, è al tempo stesso un rito espiatorio e un castigo. Per quanto
riguarda invece il caso delle due coppie di Galli e di Greci sepolti vivi
nel Foro Boario, si tratta, come suggeriscono alcune consonanze, più vol-
te rilevate dalla critica moderna, con la procedura della devotio, di veri
e propri atti di consegna alle potenze infere, realizzati simbolicamente
mediante la “deposizione” delle hostiae humanae in una apposita fossa
sacrificale (un mundus?).
Quello della vivisepoltura si rivela essere, dunque, un rito “polisemi-
co”, che può assumere diversi significati, in relazione ai diversi contesti
culturali e religiosi, ma che può anche esprimere più funzioni contempo-
raneamente all’interno del medesimo contesto (si pensi ancora una volta
al caso delle Vestali, in cui effettivamente non sembra possibile distingue-
re l’intento espiatorio da quello punitivo). In ogni caso, questo genere di
pratiche, oltre a far luce su alcuni meccanismi costitutivi del linguaggio
del sacrificio, ci aiutano a comprendere meglio anche l’idea che i Romani
avevano dello spazio: la terra veniva pensata non soltanto come una su-
perficie da lavorare, sulla quale imprimere i segni della propria cultura,
ma anche come una membrana sottile che separava il mondo dei vivi da
quello dei morti; una membrana che si immaginava permeabile, che, in
determinate circostanze e attraverso specifiche procedure rituali, poteva
essere utilizzata per mettere in comunicazione i due piani della realtà, e
guadagnare così gli dèi inferi alle cause della città e del popolo romano.

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In effossa terra 225
ABSTRACT

La morte per seppellimento, che conta diversi casi non solo all’in-
terno della cultura romana, non è certo una morte casuale, e possiede
dunque una specifica valenza culturale. Seppellire vivo un individuo non
significa semplicemente ucciderlo; la morte è una conseguenza, non il
fine della vivisepoltura. Se alcuni casi possono essere classificati come
“sacrifici di fondazione” – la vittima o una sua parte viene inumata per
conferire stabilità e durata alla nuova costruzione – altri hanno piuttosto
il sapore dell’esecuzione – si pensi alla punizione che attende la vesta-
le incesta –, altri ancora si configurano invece come dei veri e propri
atti di consegna alle potenze infere realizzati attraverso la deposizione
dell’offerta in buche appositamente scavate nel terreno (mundi). Questo
genere di pratiche, oltre a far luce su alcuni meccanismi costitutivi del
linguaggio del sacrificio, come quello della sostituzione rituale, mostra-
no quanto per i Romani fosse tenue e permeabile il confine che separava
il mondo dei vivi da quello dei morti.

Death by burial, which counts several cases, not only within Roman
culture, is not a random killing, and therefore has a specific cultural
value. Burying a living person does not simply mean to kill him, death
is a consequence, not the aim of live burial. While some cases can be
classified as “foundation sacrifices” – the victim or a part of his body is
interred in order to give stability and durability to the new construction
– others have almost the flavor of an execution – think of the punishment
that awaits the vestal incesta – others instead are configured as real acts
of surrender to the powers of the underworld, achieved through the de-
position of the offer made in specially dug holes in the ground (mundi).
These kinds of practices, in addition to shedding light on some constitu-
tive mechanisms of the language of sacrifice such as the ritual substitu-
tion, show how for the Romans the border that separated the world of the
living from that of the dead was tenuous and permeable.

KEYWORDS

sacrificio di fondazione, Marcus Curtius, devotio, sacrificio umano, mundus


foundation sacrifice, Marcus Curtius, devotio, human sacrifice, mundus

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