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COMMEMORAZIONE DEI CADUTI DEL

GRAPPA
Tenuta dalla Dr.Sonia Residori, storica, componente del Direttivo
dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età contemporanea della
provincia di Vicenza
Bassano del Grappa, Teatro Astra, 27 settembre 2008

I.

Il rastrellamento del Grappa, contrariamente alla versione diffusa e


accettata da decenni anche dalla storiografia ufficiale, non fu
un’operazione militare, ma un massacro di uomini indifesi, in parte
partigiani combattenti che si erano arresi o consegnati spontaneamente,
in parte civili inermi, padri di famiglia e ragazzi.
Tra il 20 e il 27 settembre 1944, sul Grappa, quindi, non avvenne un
combattimento sanguinoso tra tedeschi e partigiani, ma solo alcuni
scontri armati, con un numero esiguo di perdite. Le forze della
Resistenza, infatti, non disponevano di armi adeguate e neppure di
munizioni sufficienti per fronteggiare un rastrellamento messo in atto da
migliaia di uomini e, dopo un breve tentativo per contrastare il nemico,
dovettero abbandonare il terreno. La maggior parte dei partigiani riuscì a
sganciarsi e, superando i posti di blocco disposti attorno al massiccio, a
trovare un nascondiglio o a tornare a casa.
I tedeschi intendevano “bonificare” la zona del Grappa dai “banditi”, per
la costruzione della Blau Linie, una linea fortificata che doveva fermare
l’avanzata delle truppe alleate sulle Prealpi, e a questo scopo, secondo i
documenti, il generale Wilhelm Harster, comandante della Polizia di
sicurezza e del Servizio di sicurezza per l’Italia (BdS), aveva ordinato di
uccidere 30 uomini per ogni villaggio situato ai piedi del Grappa.
Dal momento che i partigiani erano sfuggiti attraverso le maglie dei
rastrellatori, il tenente delle SS Herbert Andorfer, comandante di
un’unità mobile, il Kommando Andorfer, ufficiale già esperto in pratiche
di sterminio per aver “gasato” oltre 5000 ebrei a Belgrado nel 1941,
mise in atto un piano crudele. Il Comando tedesco s’impegnò a
condonare le pene previste per i renitenti: coloro che si fossero
presentati spontaneamente sarebbero stati arruolati nella Flak Italien
oppure mandati a lavorare per i tedeschi nell’Organizzazione Todt.
Queste disposizioni furono diffuse con tutti i mezzi disponibili: i
manifesti murali, il megafono, l’opera persuasiva di vicini e conoscenti
di parte fascista, le visite dei brigatisti italiani di casa in casa.
La popolazione accolse il provvedimento come la liberazione da un
incubo e i familiari dei partigiani e dei renitenti, sfuggiti alla caccia

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delle pattuglie dei rastrellatori, convinsero i ragazzi ad uscire dai
nascondigli, scongiurandoli di presentarsi spontaneamente al comando
tedesco, e in alcuni casi li accompagnarono essi stessi.
Si trattò di un progetto infame: nazisti e fascisti uccisero fisicamente i
giovani o giovanissimi uomini e moralmente tutti quei padri, madri e
sorelle che, avendo convinto i propri cari a presentarsi, vissero negli
anni a venire con il senso di colpa di essere stati la causa della morte del
proprio figlio o fratello (Cesare Longo, Armando Benacchio, Silvio
Martinello, Pietro Bosa, Ferdinando Brian, Francesco Caron, Attilio
Donazzan, Angelo Ferraro, Fiorenzo Puglierin, Gio Batta Romeo,
Ferruccio Zen).
Per il massacro del Grappa le truppe tedesche non seguirono il modello
di sterminio nazionalsocialista che coinvolgeva tutta la popolazione,
donne, anziani e bambini. Fu applicato il criterio della matrice maschile
della guerra, secondo l’interpretazione del conflitto come scontro
militare tra maschi, e furono uccisi centinaia di uomini e di giovani atti
alle armi, in quanto guerrieri potenziali, mediante il sistema
dell’esecuzione ordinata con fucilazione o impiccagione (Ferruccio
Toniazzo, Maurizio Bergamini, Annibale Biasion, Attilio Bernardi,
Guerrino Ruini, ignoto carabiniere di Potenza).
Per alcuni giorni, in tutti i paesi della fascia pedemontana del Grappa, si
susseguirono fucilazioni e impiccagioni di giovani uomini, secondo
l’estro o le attitudini dei rastrellatori, mentre un numero rilevante veniva
inviato nei campi di concentramento tedeschi dopo una sommaria
selezione.
Alcune esecuzioni furono precedute da tormenti e bastonature, ma anche
da torture o sevizie come nel campanile di Cavaso del Tomba (Ferruccio
Silvi, Leo Menegozzo, Gino Ceccato) o nell’osteria di Arten trasformata
in tribunale (Antonio Boschieri, Zuelo Benincasa, Bortolo Camonico,
Luigi Campigotto, Rino Torresan, Guido Todesco). Le stesse uccisioni
furono seguite o alternate dall’incendio delle abitazioni, anche di intere
frazioni come Schievenin, e dal saccheggio di case che permetteva ai
rastrellatori di riempire le tasche e lo stomaco.
Il massacro fu eseguito secondo una vena creativa della crudeltà umana,
che non escludeva interamente pianificazione e razionalità. La messa in
scena e l’ostentazione dei cadaveri dei nemici uccisi fucilati o impiccati
non furono dettate dall’impulso di un momento, da una vendetta
“spontanea”, anzi erano marcatamente intenzionali (Gilberto Carlesso,
Marcello Zilio, Guerrino Dissegna, Matteo Scalco, Michele Ancona,
Girolamo Binotto, Mirto Andrighetti, Ermenegildo Metti, Carmine
D’Innocenzo, Giuseppe Ardito, marinaio sconosciuto, Alfredo Ballestin).
L’esibizione delle vittime, tesa a terrorizzare la popolazione che doveva
considerare colpevoli i partigiani per aver provocato la “giusta reazione”
dei nazisti, s’intrecciò con la prassi opposta della loro sparizione, della

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cancellazione di ogni traccia della loro morte, con esecuzioni quasi
clandestine.
Il 22 settembre 1944 mentre Lodovico Todesco, comandante della
brigata Italia Libera Campo Croce, cadeva in combattimento, la madre
Paolina e la sorella Ester venivano arrestate e caricate a forza su un
camion militare per essere deportate in Germania. Di loro non si ebbe
più alcuna notizia, scomparse nel nulla. Secondo la testimonianza di un
soldato austriaco le due donne non furono portate lontano, ma uccise e il
loro corpo occultato nel cemento di una delle tante piramidi anticarro
fatte costruire dai tedeschi della Todt a Cismon del Grappa.
Anna Giglioli, la moglie incinta del ten. Angelo Valle, proprio per il
fatto di essere l’unica donna destinata all’esecuzione, fu giustiziata di
notte e seppellita in fretta, in una bassa fossa acquitrinosa.
Anche le fucilazioni all’interno della caserma Reatto avvennero quasi di
nascosto e rimasero occultate fino al novembre del 1945, quando le
salme di tutti i caduti furono riesumate (Mario Gattoni, Pio Ricci,
Manlio Chirco, Giuseppe Chirco, Guido Pinarello, Giuseppe Romeo,
Arturo Zen, Giovanni Favero, Emilio Boaretto, sette ignoti).
Soltanto per la disperata tenacia dei padri degli uccisi fu possibile
ricostruire nel dopoguerra quanto era successo quel mattino del 24
settembre 1944. Carlo Gattoni, il padre del quindicenne Mario,
concludeva il suo atto di accusa contro Alfredo Perillo, con una formale
denuncia «per vilipendio di cadavere e per tentato occultamento essendo
risultato che ai fucilati […] vennero fatti indossare sopra i propri abiti
borghesi dei pantaloni lunghi di tela da militari onde renderne più
difficile il riconoscimento (infatti le salme si presentavano tutte con
uguali caratteristiche di vestiario) ed inoltre essendo accertato che a
fucilazione avvenuta le vittime vennero sepolte nella fogna della
caserma “E. Reatto” ove rimasero per circa 10 giorni avanti di venire
inumate nel cimitero di S. Croce di Bassano del Grappa, causando così
una più rapida decomposizione delle salme che si poterono solo in parte
riconoscere dopo accurati esami sulle misere spoglie e con indicibile
strazio dei singoli congiunti […]».
Anche in questo caso il messaggio era diretto alla popolazione:
seppellendo le vittime nella fogna per accelerarne la decomposizione e
renderne difficile il riconoscimento, oppure, ancora, di notte,
anonimamente, nelle fosse comuni, il nazismo dimostrava di essere
capace di annullare fisicamente i nemici fino a farli svanire nel nulla.
Nel massacro la divisione del lavoro della violenza dà a molti la
possibilità di abbandonarsi alle proprie inclinazioni. L’unico dovere di
ognuno è quello di contribuire con tutte le proprie forze alla violenza,
per questo i plotoni di esecuzione della caserma Reatto sono composti da
italiani e tedeschi alternati e dello stesso plotone fanno parte le diverse
specialità della Repubblica sociale. Una divisione del lavoro alla quale
partecipano anche gli “altri” della truppa, coloro che oziano nei pressi

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della morte, spettatori indolenti o entusiasti, come le compagnie della
Tagliamento dei giovanissimi volontari di Salò, quelli della Camilluccia
che assistono alla fucilazione dei 20, tra partigiani e alleati, avvenuta a
Carpané presso la stazione ferroviaria (Angelo Valle, Alfredo Tosin,
Filippo Bianchi, Giuseppe Mocellin, Virgilio Versa, Matteo Gheno,
Pietro Boaria, Federico Fiorese, Luigi Ferrarsi, Antonio Bellò, Angelo
Bosio).
Solo alla fine, tutti gli assassini si raggruppano in un luogo «per
festeggiare insieme il trionfo del lavoro eseguito». Domenico
Martinello, padre di Silvio, uno dei ragazzi di Pove impiccati a Bassano,
affermò nella sua deposizione che i fascisti del paese con quelli di
Valdagno «banchettarono insieme la sera del martedì col pollame
rapinato alla famiglia Bennacchio», il cui figlio era stato impiccato.
Pietro Trevisan, durante il processo contro i maggiori responsabili
italiani del rastrellamento, raccontò in aula che alla sera, dopo
l’impiccagione dei 31 giovani di Bassano, si svolse un banchetto al
quale parteciparono tedeschi e brigatisti. Festeggiarono nei loro soliti
locali di ritrovo, il Caffè Centrale e il ristorante “al Cardellino”.

II.

Il massacro del Grappa ebbe termine martedì 26 settembre 1944 a


Bassano, quando 31 tra partigiani e civili, furono impiccati agli alberi
delle vie cittadine, con il cartello “Bandito” sul petto (Giovanni Cocco,
Gastone Bragagnolo, Giuseppe Bizzotto, Luigi Stefanin, Albino
Vedovotto).
L’esecuzione, allestita su tre vie alberate della cittadina trasformate in
improvvisati patiboli, fu eseguita da giovani volontari di Salò, ex
Fiamme bianche dislocate alla Flak Italien di Bassano del Grappa. I
ragazzi, tutti sui 17 anni, addossavano il camion sotto le piante,
afferravano il laccio, lo infilavano al collo della vittima che
scaraventavano dal camion e andavano avanti (Leonida De Rossi, Ignoto,
Francesco Cervellin, Giovanni Cervellin, Giuseppe Giuliani, Carlo Fila).
Talvolta davano due violenti strappi alle gambe della vittima per
affrettarne la morte (Mario Aliprandi, Girolamo Moretto, Ignoto)
Secondo la testimonianza del prof. Rino Borin, a dirigere
l’impiccagione, vi era un componente del Kommando Andorfer, il
vicebrigadiere SS cecoslovacco, Karl-Franz Tausch, nato a Olmuetz il 9
ottobre 1922.
Alcuni mesi fa, avuta notizia della possibile esistenza in vita sia di
Andorfer che di Tausch, gli Istituti storici per lo studio della Resistenza

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e dell’età contemporanea di Vicenza e di Treviso hanno presentato
formale richiesta alla Procura Militare perché finalmente, dopo oltre 60
anni, siano accertate le responsabilità degli esecutori del massacro
avvenuto a Bassano del Grappa il 26 settembre del 1944.
Ora Herbert Andorfer ha 97 anni, Karl-Franz Tausch, invece, ne ha quasi
86 e vive tranquillamente nella sua villetta a Langen, in Germania.
Ormai sono due anziani signori che fra non molto dovranno rendere
conto del loro operato ad un’Autorità ben più grande di quella umana.
Questo era quanto avevo scritto nel preparare la relazione di oggi. Tre
giorni fa ho ricevuto la comunicazione che Andorfer, dopo essere
resuscitato varie volte, è ufficialmente deceduto nel 2003 e ieri
pomeriggio ho avuto la conferma che Tausch si è suicidato con un colpo
di rivoltella alla testa dopo aver letto il lungo articolo pubblicato da un
giornalista tedesco sul Frankfurter Rundschau. Ieri sera avrei dovuto
cambiare questa parte della relazione in rapporto alla mutata situazione,
ma poiché la cerimonia di stamani è per ricordare le vittime, il
patrimonio di valori di cui ci hanno lasciato eredi, e non i carnefici,
Andorfer, Tausch e la morte violenta di quest’ultimo, ho voluto lasciare
il testo inalterato.
Qualcuno potrebbe affermare che, data l’avanzata età, essi avevano il
diritto di morire serenamente o, in ogni caso, di essere lasciati in pace:
che senso aveva metterli davanti alle proprie responsabilità dopo 60
anni?
E poi, perché ancora ricordare uno dei circa 400 massacri compiuti da
nazisti e fascisti, uno degli infiniti massacri di questo secolo appena
trascorso?
Le risposte non sono e non possono essere semplici.
Il rastrellamento del Grappa non fu un’operazione militare, ma un
massacro di inermi, che nel dopoguerra si trasformò in una gigantesca
menzogna e in un’enorme ingiustizia. Gli esecutori negarono ogni loro
responsabilità, alcuni reparti non furono neppure processati e, alla fine,
nessuno scontò la pena per quanto aveva commesso. Le vittime, oltre al
massacro, subirono l’ingiustizia dell’assenza di giustizia. Pertanto
restituire alla verità ciò che accadde oltre sessant’anni fa, conferisce un
po’ di giustizia a chi ha dovuto tanto soffrire per la sua mancanza.
Il nome di coloro che furono appesi ai lecci e lasciati penzolare per ore,
pronunciato ad alta voce nelle aule dei tribunali, scritto a caratteri
cubitali sulla carta stampata, ripetuto di bocca in bocca, può risarcire le
vittime strappandole all'oblio e restituendole alla memoria della verità
(Giuseppe Moretto, Bortolo Busnardo, Ignoto, Pietro Citton, Emilio
Seghetto, Giacomo Bertapelle).
Come gli individui non possono costruirsi una specifica identità e
autonomia senza fare i conti con la propria storia individuale, così la
collettività non può rimuovere il proprio passato, la propria storia senza
conseguenze assai gravi.

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«Per quanto possa essere un’esperienza dolorosa» scriveva nel 1999
l’arcivescovo Desmond Tutu, presidente della Commissione sudafricana
“Verità e riconciliazione”, «non possiamo permettere che le ferite del
passato arrivino a suppurazione. Devono essere aperte. Devono essere
pulite. Devono essere spalmate di balsamo perché possano guarire.
Questo non significa essere ossessionati dal passato. Significa
preoccuparsi che il passato sia affrontato in modo adeguato per il bene
del futuro».
In questi ultimi anni si è parlato molto di pacificazione con il passato,
ma pacificazione ed oblio non sono la stessa cosa, bensì due modi
assolutamente opposti di rapportarsi al passato. L'oblio porta alla
cancellazione di quanto è avvenuto, invece la riconciliazione parte
necessariamente dalla memoria e non può prescindere dal
riconoscimento della verità e delle responsabilità. L'oblio nega e
rimuove le responsabilità; la riconciliazione si costruisce
sull'accettazione e l'individuazione delle responsabilità.
Nel nostro Paese sotto la parola "riconciliazione" si nasconde spesso la
tentazione dell'amnesia e dell’oblio, con la ricorrente proposta di
"riconciliazione" tra partigiani e repubblichini, attraverso il
riconoscimento della “buona fede” che tende a fare degli uni e degli altri
un sol fascio, dimenticando responsabilità e colpe.
E’ possibile che la maggior parte dei giovani che nel periodo ‘43-‘45 si
sono schierati, rischiando volontariamente la propria vita, fossero in
buona fede, convinti gli uni e gli altri di difendere la causa più giusta.
Ma la buona fede è una categoria morale, etica, utile per ricostruire la
biografia dei singoli uomini. Quando si ricostruisce la biografia di una
nazione, quando si fa la storia di un paese, si deve guardare ai progetti
per i quali gli uomini hanno combattuto, non alle ragioni individuali
delle scelte di campo. Nella seconda guerra mondiale si sono
contrapposti due progetti: uno era quello nazista, che voleva ridisegnare
il mondo secondo una gerarchia delle razze e stabilire quali popoli
avevano diritto a detenere il potere nel mondo e quali no; l’altro era
quello degli alleati, che perseguivano obiettivi sociali e politici diversi,
ma che trovarono il denominatore comune nell’opposizione al progetto
nazista. Al di là di qualsiasi considerazione sulle storie personali dei
ragazzi di Salò e sulla pietà per i caduti di tutte le guerre, di qualsiasi
guerra, non si può dimenticare che le formazioni partigiane, gli internati
militari, le forze regolari del Regno del Sud, tutti i ragazzi impiccati e
fucilati che oggi ricordiamo, stavano dalla parte degli alleati, dalla parte
della democrazia e della libertà, mentre il fascismo di Salò stava dalla
parte di Hitler, del nazismo, dei campi di concentramento: questo resta il
dato storico di fondo che nessuno potrà mai cambiare.
E' tempo ormai di accettare coraggiosamente tutto il nostro passato,
qualsiasi esso sia, per costruire ponti fra gli uomini invece di muri che
dividono. È necessario che la memoria diventi strumento di coscienza

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civile nel presente, che ognuno si assuma la responsabilità della propria
storia, anche di quella che ha preceduto la nostra vita.
Dopo oltre sessant’anni, ragazzi della Resistenza e ragazzi di Salò sono
ancora pieni di rancore per quanto è accaduto nel passato. Dovremmo
chiederci se non possa essere anche questo un’ultima vittoria del
nazismo, quella di privarci del buon uso della memoria, quella di
impedire l’elaborazione del lutto e la riconciliazione fra gli uomini.
Ognuno di noi deve tentare, per riprendere l'immagine del vescovo Tutu,
di guarire le ferite invece di farle suppurare, lavorare per la verità e la
memoria, non per esacerbare gli odi, ma pacificare l’uomo con se stesso.
Vorrei terminare questa mia esposizione con le parole di una grande
donna, Etty Hillesum, tratte dal suo diario:
«Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata
trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio
contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato
quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga
in amore se non è chiedere troppo ... Sono una persona felice e lodo
questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo
anno di guerra». Etty è morta ad Auschwitz nel 1943 .

Settembre 2008

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