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Considerato in diritto
generale da una vasta categoria di impieghi pubblici, debba essere dichiarata incostituzionale per
l'irrimediabile contrasto in cui si pone con l'art. 51, il quale proclama l'accesso agli uffici pubblici e
alle cariche elettive degli appartenenti all'uno e all'altro sesso in condizioni di eguaglianza. Questo
principio é stato già interpretato dalla Corte nel senso che la diversità di sesso, in sé e per sé
considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa, non può comportare, cioè,
un trattamento diverso degli appartenenti all'uno o all'altro sesso davanti alla legge. Una norma che
questo facesse violerebbe un principio fondamentale della Costituzione, quello posto dall'art. 3, del
quale la norma dell'art. 51 é non soltanto una specificazione, ma anche una conferma.
2. - Senonché, l'Avvocatura dello Stato ritiene che la Corte abbia dato dell'art. 51
un'interpretazione che consentirebbe al legislatore di stabilire esclusioni o ammissioni a pubblici
uffici, muovendo dall'appartenenza all'uno o all'altro sesso di coloro che aspirano ad accedervi. Ma
non é questa, così genericamente definita, la portata della sentenza n. 56 del 26 settembre 1958.
L'art. 51 o, più esattamente, l'inciso "secondo i requisiti stabiliti dalla legge" non sta punto a
significare che il legislatore ordinario possa, senza limiti alla sua discrezionalità, dettare norme
attinenti al requisito del sesso, ma vuol dire soltanto che il legislatore può assumere, in casi
determinati e senza infrangere il principio fondamentale dell'eguaglianza, l'appartenenza all'uno o
all'altro sesso come requisito attitudinario, come condizione, cioè, che faccia presumere, senza
bisogno di ulteriori prove, l'idoneità degli appartenenti a un sesso a ricoprire questo o quell'ufficio
pubblico: un'idoneità che manca agli appartenenti all'altro sesso o é in possesso di costoro in misura
minore, tale da far ritenere che, in conseguenza di codesta mancanza, l'efficace e regolare
svolgimento dell'attività pubblica ne debba soffrire. Ora che questo non sia il caso della norma
impugnata é di tutta evidenza. In essa, infatti, il sesso femminile é assunto come tale a fondamento
di incapacità o di minore capacità, non già a requisito di idoneità attitudinale, per una categoria
amplissima di pubblici uffici (e, ch'é più, di incerta definizione e, in conseguenza, di vaghi confini),
in via di regola, non già in via di eccezione e con riferimento concreto a particolari situazioni,
ponendosi, anzi, in via d'eccezione e con rinvio alla legge, il caso di ammissione delle donne a
taluno degli uffici ricompresi nella categoria generale di esclusione. La sua illegittimità
costituzionale é pertanto evidente al lume della giurisprudenza di questa Corte.
Con che, peraltro, si é anche detto come il legislatore possa intervenire a regolare
l'ammissione ai pubblici impieghi in ragione dell'appartenenza all'uno o all'altro sesso, per dare
all'intera materia la necessaria disciplina richiesta dal sopravvenuto precetto costituzionale.
3. - Stando così le cose, la questione intorno alla quale si sono affaticate le parti, perde ogni
rilievo nel presente giudizio. Poco importa, infatti, ricercare la legittimità di una disposizione che
attribuisce al potere regolamentare la potestà di elencare gli uffici che "implichino l'esercizio di
diritti e di potestà politiche" e che pertanto respingono da sé le donne, quando é in primo luogo
illegittima la norma, della quale quella disposizione é parte inscindibile, che esclude le donne da
quella categoria di uffici pubblici e in ragione di siffatta esclusione. E poco importa, in
conseguenza, esaminare il quesito proposto dalla difesa della dottoressa Oliva se e come una norma
di procedimento o una norma attributiva di competenze possa assumere il valore e l'efficacia di una
norma sostanziale e, in quanto tale, spiegare i suoi effetti anche in confronto di norme anteriori
all'entrata in vigore della Costituzione. Né, infine, la Corte può pronunciarsi sull'altro quesito -
proposto dall'Avvocatura dello Stato -, che é della validità di un regolamento emanato in base a una
norma promulgata prima dell'entrata in vigore della Costituzione e poi dichiarata illegittima, quesito
che é di competenza del giudice amministrativo.
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Eguaglianza
dichiara l'illegittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 7 della legge 17 luglio
1919, n. 1176, che esclude le donne da tutti gli uffici pubblici che implicano l'esercizio di diritti e di
potestà politiche, in riferimento all'art. 51, primo comma, della Costituzione.
Considerato in diritto
sistema della legislazione rimarrebbe ancorato alla visione, riduttiva e ormai superata dalla scienza
pedagogica, di un istituto volto a supplire la famiglia e ad accentuare il ruolo della donna quale
unica responsabile dell'educazione infantile. Come dimostrerebbero le più avanzate indagini
scientifiche, questo primo grado dell'istruzione serve invece ad inserire il bambino nella società
offrendogli un ambiente nuovo e diverso rispetto alla cerchia familiare. Pur quando, poi, la scuola
fosse qui considerata come mera proiezione della famiglia, l'insegnante dovrebbe poter rispecchiare
anche la figura del padre, importante per l'educazione dei figli quanto quella materna. Questo tipo di
scuola esigerebbe, in conclusione, quella compiutezza e pluralità di esperienze e di orientamenti,
che può essere solo assicurata da docenti di ambo i sessi. Il giudice a quo osserva che, del resto,
depone in tal senso la generale tendenza della legislazione, negli ultimi anni sempre più largamente
ispirata ai precetti degli artt. 3 e 51 Cost.; ed in proposito ricorda il disposto della legge 9 dicembre
del 1977 n. 903 ("Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro"), che, all'art. 1, vieta
"qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro". Analoga
preoccupazione, "per evidenti ragioni storico- sociali", non avrebbe tuttavia ispirato il legislatore
con riguardo al caso di specie.
3. - L'Avvocatura dello Stato, va preliminarmente osservato, chiede alla Corte, in
considerazione del testé richiamato art. 1 della legge n. 903 del 1977, e dell'art. 19 della stessa
legge, che dichiara abrogate tutte le disposizioni incompatibili, di rimettere gli atti del giudizio al
giudice a quo, perché riesamini la questione in relazione a detto ius superveniens. L'istanza non può
essere accolta. Come si é or ora visto, il TAR delle Marche ha già tenuto conto della statuizione in
discorso, e ne ha peraltro ritenuto l'inapplicabilità alla specie. Questa conclusione va condivisa, dal
momento che la legge n. 903 del 1977 non abbraccia retroattivamente - né all'art. 1, né all'art. 19 - il
caso da cui trae origine il presente giudizio.
Detto ciò, giova alla corretta indagine della questione stabilire, prima di tutto, quale
normativa sia dedotta in controversia. Il giudice a quo ha denunziato l'intero complesso delle norme
che regolano la frequenza della scuola magistrale, l'ammissione ai relativi esami di abilitazione e
l'attività didattica nella scuola del grado preparatorio, per poi censurare, "in particolare", le singole
disposizioni, sopra indicate al n. 1. Ora, é chiaro che l'indagine rimessa alla Corte deve ritenersi
limitata a queste ultime statuizioni, che nell'ordinanza di rimessione sono puntualmente individuate.
Rispetto alle altre, attratte in blocco nella censura, difettano gli estremi della rilevante e rituale
identificazione delle norme, che possono costituire oggetto del presente giudizio di costituzionalità.
Va peraltro osservato che, a rigor di termini, la sola norma della quale il giudice a quo é chiamato a
fare immediata applicazione é quella che, nella specie, vieta l'ammissione dei candidati di sesso
maschile agli esami di abilitazione all'insegnamento nelle scuole del grado preparatorio (art. 6 del
T. U. del 1933). Senonché questa e le altre singole disposizioni censurate (artt. 39 e 41 R.D. n. 577
del 1928 e successive modificazioni; art. 1 legge 3 aprile 1958, n. 470; art. 9 legge n. 444 del 1968),
risultano, nella prospettiva in cui é posta la questione, strette da un nesso logico necessario, che
giustifica la loro congiunta denuncia in questa sede. Viene invero dedotto che l'esclusione dei
"privatisti" di sesso maschile dagli esami di abilitazione é stata disposta, precisamente ed
esclusivamente, in ragione delle altre norme discriminatrici, le quali riservano alle donne prima la
frequenza della scuola magistrale, poi l'insegnamento nella scuola materna. Detti esami di
abilitazione hanno luogo alla fine (del ciclo triennale) dell'una scuola, e servono al conseguimento
del titolo, che abilita all'attività didattica nell'altra. Si tratta allora, in definitiva, di sindacare il
criterio discretivo, sul quale sono ordinate a sistema le disposizioni che impediscono l'accesso dei
cittadini maschi al corpo insegnante della scuola materna. La questione é fondata, per le
considerazioni di seguito svolte.
4. - Ingiustificata, in primo luogo, é l'esclusione degli allievi maschi dalla frequenza delle
scuole magistrali, giacché non può certo presumersi che alcun discente sia, in funzione del sesso,
inidoneo all'ordine o al tipo di studi qui considerato. La norma che determina la censurata
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Eguaglianza
discriminazione confligge dunque con il principio di eguaglianza, prima ancora che con il precetto
dell'art. 34 Cost., in forza del quale "la scuola é aperta a tutti". Lesiva dell'art. 3 Cost. é poi, a pari
titolo, la statuizione che si riferisce alle sole privatiste, e così esclude implicitamente dagli esami di
abilitazione i candidati dell'altro sesso. Essa non trae, va precisato, alcun razionale supporto
nemmeno dall'essere, come si diceva, intimamente connessa con l'altra norma, che per la scuola
materna contempla soltanto insegnanti donne. Anche la soluzione adottata a quest'ultimo proposito
dal legislatore é, infatti, incompatibile col principio di eguaglianza.
5.- Quanto si é or ora affermato risulta chiaro, solo che si consideri come l'istruzione del
grado preparatorio sia collocata nel quadro della scuola statale. Il fatto che essa sia vocata ad
operare in una sfera, nella quale possono riflettersi altri valori costituzionalmente garantiti, diversi
da quelli che ineriscono alla scuola - quali, per esempio, la famiglia e il diritto-dovere dei genitori di
educare ed istruire i figli (art. 30, primo comma, Cost.), o la tutela dell'infanzia (art. 31, secondo
comma, Cost.) - nulla toglie alla sua funzione educativa e formatrice: semmai, ne rischiara
l'importanza, del resto attestata dalla lunga esperienza che anche all'estero si é fatta di scuole
analoghe alla materna (Ecole maternelle francese, Kindergarten statunitense, Nursery o Infant
School britannica), e dal costante interesse della scienza pedagogica ai problemi della
corrispondente fascia dell'età infantile. Ai sensi della legge n. 444 del 1968, che ne ha configurato
l'assetto, la scuola materna statale "accoglie i bambini nell'età pre-scolastica dai 3 ai 6 anni e si
propone fini di educazione e di sviluppo della personalità infantile, di assistenza e di preparazione
della scuola dell'obbligo, integrando l'opera della famiglia". Gli orientamenti dell'attività educativa,
adottati con decreto del Presidente della Repubblica (10 settembre 1969, n. 647) in conformità ed
attuazione dell'art. 2 della stessa legge, stabiliscono che l'insegnante promuove e dirige con libertà
di metodo lo sviluppo della personalità del bambino nelle molteplici sfere dell'educazione
(religiosa, affettiva, morale e sociale, intellettuale, fisica e sanitaria), nel gioco, nell'attività
costruttiva e di vita pratica, e nell'espressione grafico - pittorica e plastica. Il modello di scuola ivi
disegnato deve inoltre rispondere agli odierni bisogni della collettività. Non occorre indagare le basi
scientifiche di queste prescrizioni, perché si veda che nulla impedisce di affidare i risultati
prefigurati dal legislatore anche all'opera degli insegnanti maschi: una volta, beninteso, che questi
siano provvisti della preparazione specialistica e della esperienza professionale, prescritte per il
conseguimento del relativo titolo abilitante. La presenza di una componente maschile nel corpo
insegnante può anzi arricchire la scuola materna del contributo di più varie risorse educative e di
una maggiore apertura di tutta l'attività didattica alla realtà sociale.
6. - A ciò si aggiunge che lo stesso legislatore ha con altre e più recenti norme disatteso
qualsiasi presunzione, la quale valga nella specie a giustificare - in punto di requisiti attitudinali -
l'esclusione dei cittadini maschi dall'istruzione e dall'insegnamento. Cade qui opportuno ricordare la
legge n. 903 del 1977. Si é già avvertito che le sue previsioni non toccano il caso in esame (v. sopra,
n. 3). Non vi é dubbio, tuttavia, che, sul piano temporale in cui spiegano effetto, esse siano venute
ad adeguare l'assetto dei rapporti di lavoro alla parità di trattamento fra uomo e donna: e questo
criterio, sancito in via generale, esclude secondo dottrina e giurisprudenza anche le ingiustificate
disparità di disciplina, che operino ai danni del lavoratore maschio.
Così, appunto, é stata intesa, nell'ambito che qui interessa, dall'amministrazione la disciplina
a detta legge sopravvenuta. La legge 9 agosto 1978, n. 463, che reca tra l'altro "misure per
l'immissione in ruolo del personale precario nelle scuole materne", dispone, all'art. 10, settimo
comma: "gli insegnanti elementari iscritti nelle graduatorie provinciali permanenti possono
chiedere" - nei limiti dei posti vacanti e disponibili, e per ciascuno degli anni ivi indicati - "di essere
nominati nel ruolo degli insegnanti delle scuole materne statali della provincia". Tale disposizione é
stata applicata agli insegnanti di ambo i sessi (cfr. circolari nn. 191 dell'8 agosto 1978 e 273 del 10
novembre 1979 del Ministero della Pubblica Istruzione - Servizio per la scuola materna),
nell'evidente presupposto che sia caduta la preclusione prima prevista nei confronti del personale
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Eguaglianza
maschile. Lo stesso può dirsi di quanto attualmente dispongono le ordinanze del Ministro per la
Pubblica Istruzione, che del settore scolastico in considerazione si occupano sotto vario riguardo:
trasferimenti, passaggi di ruolo ed assegnazioni provvisorie di sede degli insegnanti di scuola
materna statale (per l'anno scolastico 1983-84: n. 64, prot. n. 1531 del 24 febbraio 1983); scrutini
finali ed esami di idoneità integrativi e di abilitazione nella scuola magistrale: 18 febbraio 1983 (cfr.
spec., riguardo ai privatisti, il paragrafo 11); nomina degli insegnanti non di ruolo nelle scuole
materne statali (per gli anni scolastici 1982-83, 1983-84: n. 134, prot. n. 3485 del 4 maggio 1982);
concorsi ordinari per esami e titoli per il conseguimento dell'abilitazione all'insegnamento nella
scuola materna, nonché per l'accesso ai ruoli provinciali del personale docente della scuola materna
statale (n. 272, prot. n. 5947 del 3 settembre 1982); concorsi ordinari per esami e titoli a posti di
insegnante di ruolo di scuola materna statale (n. 272, prot. n. 12045, del 10 novembre 1979; n. 97,
prot. n. 4835, del 12 aprile 1976). In tutti questi provvedimenti ministeriali il sesso femminile non
figura fra i requisiti stabiliti ai fini dell'attività didattica, o dell'ammissione a concorsi od esami. Ai
cittadini maschi é, dunque, ora consentito di frequentare le scuole magistrali e di insegnare nelle
scuole materne statali. Il successivo adeguamento della legislazione e della prassi amministrativa al
criterio della parità dei sessi avvalora, in conclusione, il risultato sopra raggiunto: le statuizioni
discriminatrici oggetto del presente giudizio sono prive di effettiva giustificazione.
7. - Le osservazioni che precedono impongono altresì di dichiarare, ex art. 27 della legge 11
marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale degli artt. 8, 10, 11, secondo comma, 18, terzo
comma, 19, 20, 28 della citata legge n. 444 del 1968, per la parte in cui si riferiscono alle
insegnanti, invece che al corpo docente di ambo i sessi. Sempre in via conseguenziale, deve essere
dichiarata l'illegittimità costituzionale delle disposizioni particolari, contenute nell'art. 9 della citata
legge n.463 del 1978, sul funzionamento delle scuole materne statali, nella parte in cui il termine
"insegnanti" é ivi adoperato esclusivamente al femminile.
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Eguaglianza
Considerato in diritto
1. - Il Pretore di La Spezia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1052, secondo
comma, del codice civile, in riferimento agli artt. 2, 3, secondo comma, 32 e 42, secondo comma,
della Costituzione, "nella parte in cui non consente di costituire la servitù di cui al primo comma in
favore di edifici di civile abitazione, al fine di garantire un adeguato accesso alla via pubblica per
mutilati ed invalidi con difficoltà di deambulazione".
La norma denunciata contrasterebbe infatti, ad avviso del rimettente, con il principio di
eguaglianza in senso sostanziale e sarebbe altresì lesiva, nei confronti dei portatori di handicap, sia
del diritto inviolabile ad una normale vita di relazione, sia del diritto alla salute, inteso come
interesse del singolo e della collettività alla eliminazione delle discriminazioni dipendenti dalle
situazioni invalidanti. Essa inoltre, consentendo la costituzione di servitù coattiva di passaggio a
favore di fondo non intercluso solo per finalità produttive e non anche in relazione alle esigenze di
vita degli invalidi, si porrebbe in contrasto con la funzione sociale del diritto di proprietà.
2. - Va preliminarmente disattesa l'eccezione di irrilevanza e, quindi, di inammissibilità della
questione sollevata dall'Avvocatura generale in base all'assunto che l'orto, su cui dovrebbe nella
specie costituirsi la servitù coattiva di passaggio, sarebbe, come le "case, i cortili, i giardini e le aie
ad esse attinenti", un bene esente da siffatta servitù ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 1051 cod.
civ.
Contrariamente a quanto ritenuto dall'Avvocatura, l'esenzione stabilita da tale norma,
essendo intesa ad evitare l'eccessiva onerosità che, avuto riguardo alla destinazione abitativa degli
immobili, deriverebbe dall'imposizione del passaggio a carico di essi, va, infatti, rigorosamente
circoscritta alle case e a quegli immobili, come appunto i cortili, i giardini e le aie, che alle case
sono legati da un vincolo pertinenziale. Mentre del tutto estranei allo scopo ed alla previsione della
norma devono considerarsi gli orti, intendendosi per tali, secondo il significato comune del termine,
quei fondi agricoli, di modeste dimensioni, destinati a soddisfare le esigenze alimentari del
coltivatore e dei suoi familiari e privi, in relazione alla loro vocazione tipicamente agricola, del
carattere di accessorietà alla casa di abitazione.
La qualificazione in concreto del fondo come orto nel senso precisato, piuttosto che come
giardino o aia, costituisce poi questione di fatto rimessa alla esclusiva valutazione del giudice a quo.
Sicchè, anche sotto tale aspetto, l'eccezione d'inammissibilità della questione risulta priva di
fondamento.
3. - Nel merito, la questione é fondata.
4. - L’art. 1052 cod. civ. disciplina l’ipotesi di costituzione di passaggio coattivo a favore di
fondo non intercluso, che cioé abbia un proprio accesso alla via pubblica, tuttavia inadatto o
insufficiente ai bisogni del fondo e non ampliabile.
Va premesso che l’"ampliabilità" di cui alla citata disposizione deve essere intesa, secondo
la giurisprudenza di legittimità, non in senso letterale, cioé con riferimento alla sola larghezza del
passaggio, ma nel più ampio e generico significato di riducibilità a sufficienza e adeguatezza.
L’accesso alla pubblica via va, d’altro canto, considerato non ampliabile non soltanto quando il suo
adeguamento sia materialmente impossibile, ma anche quando risulti eccessivamente oneroso o
difficoltoso, secondo la disposizione di cui al primo comma dell’art. 1051 cod. civ., ritenuta dalla
giurisprudenza applicabile alla fattispecie disciplinata dall’art. 1052 in virtù dell’espresso richiamo
contenuto in quest’ultima norma e della evidente identità di situazione e di ratio giustificatrice.
La concessione del passaggio coattivo é subordinata, dalla norma denunciata, non solo alla
inadeguatezza dell’accesso alla via pubblica e alla sua non ampliabilità, ma anche alla sussistenza di
una ulteriore condizione, rappresentata dalla circostanza che la domanda risponda "alle esigenze
della agricoltura o dell’industria".
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Con tale disposizione - ignota al codice civile previgente - il legislatore, per il caso di fondo
non intercluso, ha inteso ricollegare la costituzione della servitù coattiva di passaggio non soltanto
alle necessità del fondo (come nel caso di costituzione di servitù a favore di fondo intercluso), ma
anche alla sussistenza in concreto di un interesse generale, all'epoca identificato nelle esigenze
dell'agricoltura o dell'industria. Mentre estranee alla previsione della norma e prive, pertanto, di
ogni rilievo ai fini della costituzione del passaggio coattivo risultano le esigenze abitative, pur se
riferibili a quegli interessi fondamentali della persona la cui tutela é indefettibile.
Ed é in relazione a quest'ultimo aspetto che la norma si pone, come si vedrà, in contrasto con
i principi costituzionali evocati dal rimettente.
5. - Va in proposito ricordato che la più recente legislazione relativa ai portatori di handicap
- in particolare la legge 9 gennaio 1989, n. 13 (Disposizioni per favorire il superamento e
l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati), e la legge 5 febbraio 1992, n. 104
(Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) - non si
é limitata ad innalzare il livello di tutela in favore di tali soggetti, ma ha segnato, come la dottrina
non ha mancato di sottolineare, un radicale mutamento di prospettiva rispetto al modo stesso di
affrontare i problemi delle persone affette da invalidità, considerati ora quali problemi non solo
individuali, ma tali da dover essere assunti dall’intera collettività.
Di tale mutamento di prospettiva é segno evidente l’introduzione di disposizioni generali per
la costruzione degli edifici privati e per la ristrutturazione di quelli preesistenti, intese alla
eliminazione delle barriere architettoniche, indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli
edifici stessi da parte delle persone handicappate.
Risulta, allora, chiaro come la tutela di queste ultime sia potuta divenire uno dei motivi di
fondo della vigente legislazione abitativa attraverso anche (ma non esclusivamente) la fissazione
delle caratteristiche necessarie all'edificio abitativo considerato nella sua oggettività ed astraendo
dalla condizione personale del singolo utilizzatore.
Così, l’accessibilità - che l’art. 2 del d.m. 14 giugno 1989, n. 236 (Prescrizioni tecniche
necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia
residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e della eliminazione delle
barriere architettoniche), definisce come "la possibilità, anche per persone con ridotta o impedita
capacità motoria o sensoriale, di raggiungere l’edificio e le sue singole unità immobiliari e
ambientali, di entrarvi agevolmente e di fruirne spazi e attrezzature in condizioni di adeguata
sicurezza e autonomia" - é divenuta una qualitas essenziale degli edifici privati di nuova
costruzione ad uso di civile abitazione, quale conseguenza dell’affermarsi, nella coscienza sociale,
del dovere collettivo di rimuovere, preventivamente, ogni possibile ostacolo alla esplicazione dei
diritti fondamentali delle persone affette da handicap fisici.
Per quanto riguarda poi gli edifici privati già esistenti, vengono in considerazione, come
espressione dello stesso indirizzo legislativo, gli interventi previsti dall’art. 2 della citata legge n. 13
del 1989, in virtù dei quali é possibile apportare all’immobile condominiale, a spese dell’interessato
ed anche in deroga alle norme sul condominio negli edifici, le modifiche necessarie per renderlo più
comodamente accessibile.
E’ peraltro evidente come la citata normativa possa in concreto risultare del tutto
insufficiente rispetto al fine perseguito, ove le innovazioni necessarie alla piena accessibilità
dell’immobile risultino in concreto impossibili o, come nella specie, eccessivamente onerose o
comunque di difficile realizzazione.
Ed é appunto in relazione a tali ipotesi che la non inclusione della accessibilità
dell’immobile tra le esigenze che, ai sensi dell’art. 1052, secondo comma, cod. civ., possono
legittimare la costituzione della servitù coattiva di passaggio, risulta lesiva di quei principi
costituzionali che, come si é accennato, l'accessibilità dell'abitazione é intesa a realizzare.
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1.— La questione sollevata investe la disciplina risultante dall’art. 119 del codice di
procedura penale per l’ipotesi in cui l’imputato sia sordomuto e sappia leggere e scrivere. La
disposizione prevede che quando un sordomuto "vuole o deve fare dichiarazioni", gli si presentano
per iscritto le domande, gli avvertimenti e le ammonizioni, ed egli risponde per iscritto (comma 1);
mentre solo per il caso in cui il sordomuto non sappia leggere o scrivere si prevede che l’autorità
procedente nomini uno o più interpreti, scelti di preferenza fra le persone abituate a trattare con lui
(comma 2).
Tale disciplina appare al remittente lesiva, da un lato, del diritto di difesa dell’imputato, in
quanto gli impedirebbe di comprendere tutto ciò che avviene nel dibattimento e di valutare se e
quando rendere dichiarazioni spontanee a norma dell’art. 494 dello stesso codice, e dunque di
partecipare coscientemente al dibattimento; dall’altro lato, del principio di eguaglianza, in quanto
realizzerebbe una irragionevole differenza di trattamento rispetto alla ipotesi dell’imputato
sordomuto che non sappia leggere e scrivere (in relazione alla quale si prevede la nomina di
interpreti), nonchè rispetto a quelle dell’imputato che non conosca la lingua italiana (per cui l’art.
143 cod. proc. pen. prevede l’assistenza gratuita di un interprete), e dell’imputato che non sia in
grado di partecipare coscientemente al procedimento a causa del suo stato mentale (nel qual caso
l’art. 71 cod. proc. pen. prevede la sospensione del procedimento e la nomina di un curatore
speciale).
2.— La questione é fondata, sotto il profilo della denunciata violazione dell’art. 24, secondo
comma, della Costituzione.
La garanzia costituzionale del diritto di difesa comprende la effettiva possibilità che la
partecipazione personale dell’imputato al procedimento avvenga in modo consapevole, in ispecie –
per quanto qui rileva – nelle fasi che l’ordinamento affida al principio dell’oralità: il che comporta
la possibilità effettiva sia di percepire, comprendendone il significato linguistico, le espressioni orali
dell’autorità procedente e degli altri protagonisti del procedimento, sia di esprimersi a sua volta
essendone percepito e compreso (cfr. sentenza n. 9 del 1982 e, da ultimo, sentenza n. 10 del 1993).
Senza la garanzia di tale possibilità, infatti, resterebbe irrimediabilmente compromesso,
nelle fasi processuali dominate dall’oralità, il diritto dell’accusato di essere messo personalmente,
immediatamente e compiutamente a conoscenza di quanto avviene nel processo che lo riguarda, e
così non solo dell’accusa mossagli, ma anche degli elementi sui quali essa si basa, delle vicende
istruttorie e probatorie che intervengono via via a corroborarla o a smentirla, delle affermazioni e
delle determinazioni espresse dalle altre parti e dall’autorità procedente; nonchè, conseguentemente,
il diritto dell’imputato di svolgere la propria attività difensiva, anche in forma di autodifesa,
conformandola, adattandola e sviluppandola in correlazione continua con le esigenze che egli stesso
ravvisi e colga a seconda dell’andamento della procedura, ovvero comunicando con il proprio
difensore.
Questa Corte ha infatti costantemente affermato che "la peculiare natura del processo penale
e degli interessi in esso coinvolti richiede la possibilità della diretta e personale partecipazione
dell’imputato", onde l’autodifesa, che "ha riguardo a quel complesso di attività mediante le quali
l’imputato é posto in grado di influire sullo sviluppo dialettico del processo", costituisce "diritto
primario dell’imputato, immanente a tutto l’iter processuale, dalla fase istruttoria a quella di
giudizio" (sentenza n. 99 del 1975; e cfr. anche sentenze n. 205 del 1971, n. 186 del 1973).
3.— Se normalmente questi diritti dell’accusato sono resi effettivi attraverso la garanzia
della possibilità di presenziare alle udienze (salvo esserne allontanato solo se ne impedisce il
regolare svolgimento: art. 475 cod. proc. pen.) e di rendere "in ogni stato del dibattimento" le
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dichiarazioni che egli ritiene opportune, purchè si riferiscano all’oggetto dell’imputazione e non
intralcino l’istruzione dibattimentale (art. 494 cod. proc. pen.), avendo per ultimo la parola (art. 523,
comma 5, cod. proc. pen.), nonchè attraverso la "facoltà di conferire con il proprio difensore tutte le
volte che lo desideri, tranne che durante l’interrogatorio o prima di rispondere a domande rivoltegli"
(sentenza n. 9 del 1982; e cfr. anche sentenza n. 216 del 1996), forme speciali di tutela sono
richieste allorquando l’accusato, a causa di sue particolari condizioni personali, non sia in grado di
comprendere i discorsi altrui o di esprimersi essendo compreso.
La più comune di tali condizioni é rappresentata dalla non conoscenza della lingua in cui si
svolge il processo, ed é per questo che le norme delle convenzioni internazionali sui diritti
prevedono espressamente fra i diritti dell’accusato quello di "farsi assistere gratuitamente da un
interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza" (art. 6, n. 3, lettera e, della
convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; e
analogamente art. 14, comma 3, lettera f, del patto internazionale di New York relativo ai diritti
civili e politici del 19 dicembre 1966).
Allo stesso modo il legislatore italiano del codice ha preso in specifica considerazione la
situazione dell’imputato che non conosce la lingua italiana, statuendo che egli "ha diritto di farsi
assistere gratuitamente da un interprete al fine di potere comprendere l’accusa contro di lui
formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa" (art. 143, comma 1, cod. proc. pen.).
Disposizione, quest’ultima, che correttamente configura il ricorso all’interprete non già come un
mero strumento tecnico a disposizione del giudice per consentire o facilitare lo svolgimento del
processo in presenza di persone che non parlino o non comprendano l’italiano, ma come oggetto di
un diritto individuale dell’imputato, diretto a consentirgli quella partecipazione cosciente al
procedimento che, come si é detto, é parte ineliminabile del diritto di difesa; e per questo anche é
stata intesa da questa Corte come suscettibile di essere applicata con la massima espansione, in
funzione della sua ratio (sentenza n. 10 del 1993).
Nulla di simile é invece previsto dalla legge per le persone che siano impedite di parlare o di
ascoltare, ovvero sia di parlare che di ascoltare, da un loro handicap fisico (sordità, mutismo,
sordomutismo), per i diritti delle quali tuttavia si pongono le stesse esigenze di tutela. Il legislatore
ha bensì preso in considerazione tale situazione, ma a fini insieme più generici e più limitati: infatti
l’art. 119, comma 1, del codice di procedura penale prevede che "quando un sordo, un muto o un
sordomuto vuole o deve fare dichiarazioni", si usi lo scritto da parte dell’interessato che non parli e
per rivolgere "le domande, gli avvertimenti e le ammonizioni" all’interessato che non senta; mentre
l’art. 119, comma 2, prevede che – nelle medesime ipotesi – se il sordo, il muto e il sordomuto non
sa leggere o scrivere, "l’autorità procedente nomina uno o più interpreti, scelti di preferenza fra le
persone abituate a trattare con lui".
Tali previsioni non riguardano solo l’imputato, ma qualsiasi persona che sia chiamata o
abilitata, nel processo, a rendere dichiarazioni; e contemplano però solo il caso in cui tale persona –
e dunque anche l’imputato – voglia o debba rendere dichiarazioni, non occupandosi in alcun modo
della possibilità per l’imputato di seguire tutto ciò che avviene nel processo, indipendentemente
dalle domande, dagli avvertimenti e dalle ammonizioni a lui rivolte. D’altra parte tali norme
considerano il ricorso allo scritto come rimedio sufficiente a sopperire al difetto dell’udito e della
parola, onde riservano la nomina di uno o più interpreti al solo caso in cui la persona non sappia
leggere o scrivere: non tenendo conto della differenza sostanziale che vi é fra il potere percepire ed
esprimersi immediatamente e direttamente, sia pure con la mediazione di un interprete, e l’essere
messi in grado solo di percepire e di esprimersi attraverso lo scritto. Più in generale, si tratta di
previsioni normative dettate nell’ottica di rendere possibile lo svolgimento del processo quando ad
esso partecipi una persona portatrice di siffatti handicap, piuttosto che in quella della garanzia dei
diritti dell’imputato.
11
Eguaglianza
4.— E’ dunque palese l’insufficienza delle disposizioni di cui all’art. 119 cod. proc. pen. a
soddisfare le esigenze di garanzia effettiva del diritto di difesa dell’imputato sordo o sordomuto (ma
anche dell’imputato muto che sappia leggere e scrivere, al quale é reso possibile di comunicare solo
mediante lo scritto): sia sotto il profilo della omessa considerazione delle esigenze di comprensione
e di comunicazione proprie dell’imputato al di là della sola ipotesi in cui egli debba o voglia rendere
dichiarazioni, e più in generale delle esigenze che derivano dal diritto dell’imputato a partecipare
consapevolmente al procedimento; sia sotto il profilo della esclusione della assistenza di un
interprete quando l’imputato sappia leggere e scrivere.
La lacuna va colmata attraverso una pronuncia di illegittimità costituzionale di tipo
"additivo" che estenda, agli imputati che si trovino nelle condizioni di cui all’art. 119 cod. proc.
pen., la forma di tutela già prevista dall’art. 143 dello stesso codice per l’imputato che non conosce
la lingua italiana, con l’ulteriore precisazione che l’interprete, secondo la regola già presente
nell’art. 119, comma 2, dovrà essere scelto di preferenza fra le persone abituate a trattare con la
persona interessata, elemento questo destinato a facilitare ulteriormente la comunicazione. Per ogni
altro aspetto della disciplina varrà, in forza del rinvio all’art. 119 contenuto nell’art. 143, comma 2,
quanto disposto in generale in tema di interprete che assiste l’imputato: mentre resta ferma, per
l’imputato che si trovi nelle predette condizioni, la facoltà di avvalersi dello scritto, secondo le
previsioni dell’art. 119, comma 1, del codice.
Resta assorbito ogni altro profilo della questione.
dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 119 del codice di procedura penale nella parte
in cui non prevede che l’imputato sordo, muto o sordomuto, indipendentemente dal fatto che sappia
o meno leggere e scrivere, ha diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete, scelto di
preferenza fra le persone abituate a trattare con lui, al fine di potere comprendere l’accusa contro di
lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14
luglio 1999.
Considerato in diritto
13
Eguaglianza
In vista della realizzazione di tali fini, l'impugnato art. 2 individua, quali soggetti che
possono accedere ai benefici indicati in altre disposizioni della stessa legge, le società cooperative e
di persone costituite in misura non inferiore al sessanta per cento da donne, le società di capitali le
cui quote di partecipazione appartengano in misura non inferiore ai due terzi a donne e i cui organi
di amministrazione siano costituiti per almeno i due terzi da donne, le imprese individuali gestite da
donne operanti nei settori dell'industria, dell'artigianato, dell'agricoltura, del commercio, del turismo
e dei servizi (lettera a). Lo stesso articolo, alla lettera b), aggiunge che ai medesimi benefici
possono accedere le imprese o i loro consorzi, le associazioni, gli enti, le società di promozione
imprenditoriale, anche a capitale misto pubblico e privato, i centri di formazione imprenditoriale o
eroganti servizi di consulenza e di assistenza tecnica e manageriale riservati, per una quota non
inferiore al settanta per cento, a donne.
In relazione alle distinte categorie di soggetti indicati nelle due lettere dell'art. 2, l'art. 4
determina, poi, le agevolazioni di cui quei soggetti possono beneficiare. Le società e le imprese
indicati nella lettera a), semprechè siano costituite dopo l'entrata in vigore della legge n.215 del
1992, possono usufruire di contributi in conto capitale fino al cinquanta per cento delle spese per
impianti e attrezzature sostenute per l'avvio dell'impresa ovvero per l'acquisto di attività
commerciali e turistiche o di attività nel settore dell'industria, dell'artigianato, del commercio o dei
servizi, nonchè per i progetti aziendali connessi all'introduzione di qualificazione e di innovazione
attinenti ai prodotti, alle tecnologie o all'organizzazione.
Inoltre, gli stessi soggetti ora considerati possono beneficiare di contributi fino al trenta per
cento delle spese sostenute per l'acquisizione di servizi destinati all'aumento della produttività,
all'innovazione organizzativa, al trasferimento delle tecnologie, alla ricerca di nuovi mercati per il
collocamento dei prodotti, all'acquisizione di nuove tecniche di produzione, di gestione e di
commercializzazione, nonchè per lo sviluppo di sistemi di qualità.
I soggetti indicati nell'art. 2, lettera b), possono usufruire, a norma dell'art. 4, terzo comma,
di contributi fino al cinquanta per cento delle spese sostenute per le attività descritte dallo stesso
art.2.
Infine, l'art. 8 dispone che ai soggetti indicati nell'art. 2, lettera a), possono essere concessi
finanziamenti agevolati, di importo non superiore a trecento milioni e di durata non superiore a
cinque anni, ad un tasso di interesse pari al cinquanta per cento del tasso di riferimento in vigore per
il settore cui appartiene l'impresa beneficiaria.
2.2.- Dalla descrizione ora compiuta si desume che le disposizioni impugnate prevedono
incentivazioni finanziarie a favore di imprese a prevalente partecipazione femminile ovvero a
favore di istituzioni volte a promuovere l'imprenditorialità femminile, al chiaro scopo di agevolarne
lo sviluppo, con riferimento ai momenti più importanti del ciclo produttivo, nei vari settori
merceologici in cui operano. Si tratta, più precisamente, di interventi di carattere positivo diretti a
colmare o, comunque, ad attenuare un evidente squilibrio a sfavore delle donne, che, a causa di
discriminazioni accumulatesi nel corso della storia passata per il dominio di determinati
comportamenti sociali e modelli culturali, ha portato a favorire le persone di sesso maschile
nell'occupazione delle posizioni di imprenditore o di dirigente d'azienda.
In altri termini, le finalità perseguite dalle disposizioni impugnate sono svolgimento
immediato del dovere fondamentale - che l'art. 3, secondo comma, della Costituzione assegna alla
Repubblica - di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la
libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Le
"azioni positive", infatti, sono il più potente strumento a disposizione del legislatore, che, nel
rispetto della libertà e dell'autonomia dei singoli individui, tende a innalzare la soglia di partenza
per le singole categorie di persone socialmente svantaggiate - fondamentalmente quelle
riconducibili ai divieti di discriminazione espressi nel primo comma dello stesso art. 3 (sesso, razza,
14
Eguaglianza
lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali) - al fine di assicurare alle
categorie medesime uno statuto effettivo di pari opportunità di inserimento sociale, economico e
politico.
Nel caso di specie, le "azioni positive" disciplinate dalle disposizioni impugnate sono dirette
a superare il rischio che diversità di carattere naturale o biologico si trasformino arbitrariamente in
discriminazioni di destino sociale. A tal fine è prevista, in relazione a un settore di attività
caratterizzato da una composizione personale che rivela un manifesto squilibrio a danno dei soggetti
di sesso femminile, l'adozione di un trattamento di favore nei confronti di una categoria di persone,
le donne, che, sulla base di una non irragionevole valutazione operata dal legislatore, hanno subìto
in passato discriminazioni di ordine sociale e culturale e, tuttora, sono soggette al pericolo di
analoghe discriminazioni.
Trattandosi di misure dirette a trasformare una situazione di effettiva disparità di condizioni
in una connotata da una sostanziale parità di opportunità, le "azioni positive" comportano l'adozione
di discipline giuridiche differenziate a favore delle categorie sociali svantaggiate, anche in deroga al
generale principio di formale parità di trattamento, stabilito nell'art. 3, primo comma, della
Costituzione. Ma tali differenziazioni, proprio perchè presuppongono l'esistenza storica di
discriminazioni attinenti al ruolo sociale di determinate categorie di persone e proprio perchè sono
dirette a superare discriminazioni afferenti a condizioni personali (sesso) in ragione della garanzia
effettiva del valore costituzionale primario della "pari dignità sociale", esigono che la loro
attuazione non possa subire difformità o deroghe in relazione alle diverse aree geografiche e
politiche del Paese.
Infatti, se ne fosse messa in pericolo l'applicazione uniforme su tutto il territorio nazionale, il
rischio che le "azioni positive" si trasformino in fattori (aggiuntivi) di disparità di trattamento, non
più giustificate dall'imperativo costituzionale di riequilibrare posizioni di svantaggio sociale legate
alla condizione personale dell'essere donna, sarebbe di tutta evidenza.
Ciò non toglie che nel programma di "azioni positive" previsto, in conformità alla precisa
indicazione costituzionale che ne affida il compito alla "Repubblica", siano coinvolti anche soggetti
pubblici diversi dallo Stato (regioni e province autonome). Ma un coinvolgimento del genere, come
la Corte non ha mai mancato di affermare (v., da ultimo, sent. n. 281 del 1992), è
costituzionalmente possibile soltanto all'interno di un quadro diretto a garantire un'effettiva
coerenza di obiettivi e di comportamenti.
2.3.- Sulla base delle suesposte motivazioni vanno rigettati i dubbi di legittimità
costituzionale sollevati dalle ricorrenti nei confronti degli artt. 2, 4 e 8 della legge n. 215 del 1992.
Analogamente a quanto si riscontra nella più recente legislazione sociale (sulla quale questa
Corte si è già pronunziata: v. sentt. nn.75, 202, 281 e 406 del 1992), le disposizioni impugnate
pongono una disciplina positivamente differenziata in dipendenza di fattori direttamente attinenti a
qualità soggettive delle categorie di persone considerate, e non già in ragione delle attività da esse
svolte. Questo carattere della disciplina impugnata testimonia la portata generale della stessa, nel
senso che contiene misure concernenti le imprese condotte da donne o a prevalente partecipazione
femminile, senza riguardo ai particolari settori materiali nei quali queste operano.
Tali settori, infatti, sono presi in considerazione dal legislatore unicamente al fine di
specificare la natura imprenditoriale delle attività e non già a quello di privilegiare taluni settori
materiali e di riservare ad essi soltanto il superamento delle discriminazioni che si intendono
eliminare.
Quanto affermato non porta ad escludere che l'attuazione delle "azioni positive" a favore
dell'imprenditoria femminile possa in concreto interferire con le politiche di incentivazione che le
regioni o le province autonome promuovono nei settori materiali affidati alle loro competenze. Tale
incidenza indiretta, secondo il costante orientamento di questa Corte (v., da ultimo, sentt. nn. 281,
366 e 406 del 1992), non può tuttavia costituire motivo di illegittimità costituzionale, ma esige,
15
Eguaglianza
[...]
riuniti i giudizi,
- dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 6, secondo comma, della legge 25 febbraio
1992, n. 215 (Azioni positive per l'imprenditoria femminile), nella parte in cui non prevede un
meccanismo di cooperazione tra lo Stato, le regioni e le province autonome in relazione all'esercizio
del potere del Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato concernente la concessione
delle agevolazioni alle imprese condotte da donne o a prevalente partecipazione femminile allorchè
queste ultime operino nell'ambito dei settori materiali affidati alle competenze delle regioni e delle
province autonome;
- dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 4, 6, primo
comma, e 8 della legge 25 febbraio 1992, n. 215, sollevate, con i ricorsi indicati in epigrafe, dalla
Provincia autonoma di Trento, in riferimento agli artt. 8, nn. 9, 18, 20, 21 e 29;9, nn. 3, 7 e 8; 15 e
16, del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), e relative norme
di attuazione, e dalla Regione Lombardia, in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione;
- dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 della legge 25
febbraio 1992, n.215, sollevata, con i ricorsi indicati in epigrafe, dalla Provincia autonoma di
Trento, per violazione della propria autonomia organizzativa e dell'art. 81, quarto comma, della
Costituzione, e dalla Regione Lombardia, per violazione della propria autonomia organizzativa e
dell'art.81, quarto comma, della Costituzione, in connessione con l'art. 109 del d.P.R.24 luglio 1977,
n. 616, l'art. 27 della legge 5 agosto 1978, n. 468 e l'art. 3, sesto comma, della legge 14 giugno
1990, n.158.
16
Eguaglianza
Considerato in diritto
concludere che nel caso non sussiste quella totale mancanza di plausibilità nelle argomentazioni del
giudice a quo in presenza della qua le soltanto si può pervenire, in ipotesi del genere, a una
pronunzia d'inammissibilità.
3.- La questione è fondata.
L'art. 3, primo comma, della Costituzione pone un principio avente un valore fondante, e
perciò inviolabile, diretto a garantire l'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e a vietare
che il sesso - al pari della razza, della lingua, della religione, delle opinioni politiche e delle
condizioni personali e sociali - costituisca fonte di qualsivoglia discriminazione nel trattamento
giuridico delle persone. Il secondo comma dello stesso art. 3 della Costituzione - oltre a stabilire un
autonomo principio di eguaglianza "sostanziale" e di parità delle opportunità fra tutti i cittadini nella
vita sociale, economica e politica - esprime un criterio interpretativo che si riflette anche sulla
latitudine e sull'attuazione da dare al principio di eguaglianza "formale", nel senso che ne qualifica
la garanzia in relazione ai risultati effettivi prodotti o producibili nei concreti rapporti della vita,
grazie al primario imperativo costituzionale di rimuovere i limiti "di fatto" all'eguaglianza (e alla
libertà) e di perseguire l'obiettivo finale della "piena" autodeterminazione della persona e quello
della "effettiva" partecipazione alla vita comunitaria.
Il principio di eguaglianza - con il conseguente divieto di discriminazione, diretta o indiretta,
in base al sesso - ha una generale applicazione nei rapporti della vita, considerati nella loro concreta
conformazione. La Costituzione, comunque, conferisce uno specifico risalto a determinate
applicazioni di quel principio in ordine alle relazioni sociali ritenute più significative. Con
riferimento ai rapporti di lavoro, l'art.37 della Costituzione ribadisce il principio di parità di
trattamento fra uomo e donna. Inoltre, l'art. 51 della Costituzione sottolinea lo stesso principio in
relazione all'accesso agli uffici pubblici. Ma, una volta riconosciuto il diritto alla parità di
trattamento fra uomo e donna, la stessa Costituzione prevede, all'art. 37, che il legislatore, nel dare
attuazione a quel diritto, sia tenuto a bilanciarlo con altri valori costituzionali e, in particolare, con
quelli connessi alle norme che tutelano la maternità e i "diritti della famiglia", in modo che sia
assicurato alla donna il diritto-dovere di adempiere alla sua essenziale funzione familiare (v.
sentenze n. 210 e n. 137 del 1986 e n.123 del 1969).
In definitiva, fermo restando il particolare ruolo sociale della donna in riferimento ai valori
costituzionali positivamente collegati a quel ruolo (maternità, famiglia, etc.), dall'insieme dei
principi appena ricordati deriva il divieto - significativamente enunciato in termini analoghi anche
in ambito europeo (v. artt. 2 e 3 della direttiva CEE n. 76/207 del 9 febbraio 1976) - volto a
impedire qualsiasi discriminazione basata sul sesso in relazione alle condizioni di accesso nel posto
di lavoro e, in particolare, nei pubblici uffici.
4.- Il principio di eguaglianza comporta che a una categoria di persone, definita secondo
caratteristiche identiche o ragionevolmente omogenee in relazione al fine obiettivo cui è indirizzata
la disciplina normativa considerata, deve essere imputato un trattamento giuridico identico od
omogeneo, ragionevolmente commisurato alle caratteristiche essenziali in ragione delle quali è stata
definita quella determinata categoria di persone. Al contrario, ove i soggetti considerati da una certa
norma, diretta a disciplinare una determinata fattispecie, diano luogo a una classe di persone dotate
di caratteristiche non omogenee rispetto al fine obiettivo perseguito con il trattamento giuridico ad
essi riservato, quest'ultimo sarà conforme al principio di eguaglianza soltanto nel caso che risulti
ragionevolmente differenziato in relazione alle distinte caratteristiche proprie delle sottocategorie di
persone che quella classe compongono.
In breve, il principio di eguaglianza pone al giudice di costituzionalità l'esigenza di
verificare che non sussista violazione di alcuno dei seguenti criteri: a) la correttezza della
classificazione operata dal legislatore in relazione ai soggetti considerati, tenuto conto della
disciplina normativa apprestata; b) la previsione da parte dello stesso legislatore di un trattamento
giuridico omogeneo, ragionevolmente commisurato alle caratteristiche essenziali della classe (o
18
Eguaglianza
delle classi) di persone cui quel trattamento è riferito; c) la proporzionalità del trattamento giuridico
previsto rispetto alla classificazione operata dal legislatore, tenendo conto del fine obiettivo insito
nella disciplina normativa considerata: proporzionalità che va esaminata in relazione agli effetti
pratici prodotti o producibili nei concreti rapporti della vita.
5.- La disposizione contestata si inserisce in un articolo di legge (provinciale) diretto a
stabilire i requisiti particolari per l'accesso alle carriere direttiva e di concetto del ruolo tecnico del
servizio antincendi della Provincia autonoma di Trento. Più precisamente, essa è specificamente
rivolta a prevedere come criterio di selezione nel relativo concorso pubblico il possesso da parte dei
candidati - tanto se di sesso maschile, quanto se di sesso femminile - di una determinata statura
minima (pari a metri 1,65). La previsione di tale requisito fisico non è contestata in sè, in ragione
del fatto che il personale considerato, pur se è destinato a svolgere normalmente funzioni direttive o
impiegatizie, può tuttavia essere adibito, in determinate circostanze, anche a compiti operativi,
compiti che, per le caratteristiche delle attività di cui constano, esigono nei soggetti chiamati ad
espletarli una certa prestanza fisica. Ciò che si contesta, invece, è che la previsione di una statura
minima identica per gli uomini e per le donne costituirebbe un'irragionevole sottoposizione a un
trattamento giuridico uniforme di categorie di persone caratterizzate, in base ai dati desumibili da
una media statistica, da stature differenti. Con la conseguenza che le candidate al concorso pubblico
precedentemente ricordato sarebbero penalizzate in ragione del sesso, dovendo subire, in
conseguenza della disposizione contestata, quella che l'art. 4, secondo comma, della legge n.125 del
1991 definisce una "discriminazione indiretta".
La fondatezza della doglianza deriva dalla corretta applicazione al caso di specie dei criteri
di giudizio, indicati al punto precedente, riconducibili al principio di eguaglianza. Nel condizionare
la partecipazione al concorso pubblico sopra detto al possesso del requisito fisico di una determinata
statura minima, identica per gli uomini e per le donne, il legislatore provinciale ha individuato come
destinataria del precetto normativo contestato una generalità di cittadini, senza distinguere
all'interno della categoria le persone di sesso femminile da quelle di sesso maschile. Tale
classificazione risponde evidentemente a una valutazione legislativa che è basata su un presupposto
di fatto erroneo, vale a dire l'insussistenza di una statura fisica mediamente differenziata tra uomo e
donna, ovvero è fondata su una valutazione altrettanto erronea, concernente la supposta irrilevanza,
ai fini del trattamento giuridico (uniforme) previsto, della differenza di statura fisica ipoteticamente
ritenuta come sussistente nella realtà naturale.
Nel primo caso, la violazione del principio di eguaglianza, stabilito dall'art. 3, primo comma,
della Costituzione, è indubitabile, per aver il legislatore classificato una categoria di persone in
relazione a caratteristiche fisiche non rispondenti all'ordine naturale, avuto presente che il fine
obiettivo della disciplina normativa in esame è quello di selezionare l'accesso al posto di lavoro
sulla base di criteri attinenti alla statura fisica.
Non meno evidente è la violazione dello stesso principio costituzionale nel secondo caso: in
quest'ultima ipotesi, infatti, l'aver previsto un requisito fisico identico per l'uno e per l'altro sesso sul
presupposto della irrilevanza, ai fini dell'accesso al posto di lavoro, della diversità di statura fisica
tra l'uomo e la donna - mediamente consistente, come risulta da rilevazioni antropometriche, in una
differenza considerevole a sfavore delle persone di sesso femminile - comporta la produzione
sistematica di effetti concreti proporzionalmente più svantaggiosi per i candidati di sesso femminile,
proprio in ragione del loro sesso. In altri termini, l'adozione di un trattamento giuri dico uniforme -
cioé la previsione di un requisito fisico per l'accesso al posto di lavoro, che è identico per gli uomini
e per le donne, - è causa di una "discriminazione indiretta" a sfavore delle persone di sesso
femminile, poichè svantaggia queste ultime in modo proporzionalmente maggiore rispetto agli
uomini, in considerazione di una differenza fisica statisticamente riscontrabile e obiettivamente
dipendente dal sesso. NOZIONE DI DISCRIMINAZIONE INDIRETTA
19
Eguaglianza
6.- La violazione, da parte della disposizione di legge contestata, del principio costituzionale
di eguaglianza rende superfluo l'esame della compatibilità della stessa disposizione in riferimento
agli altri parametri invocati dal giudice a quo.
Allo stesso modo è superfluo prendere in considerazione la direttiva della Comunità
Economica Europea n. 76/207, precedentemente citata, per il fatto che, limitatamente agli articoli
rilevanti per la fattispecie ora esaminata (artt. 2 e 3), la direttiva in questione, per un verso, pone un
principio analogo a quello contenuto negli artt. 3, 37 e 51 della Costituzione (v. artt. 2, primo
comma; 3, primo comma) e, per altro verso, stabilisce indirizzi rivolti agli Stati membri affinchè
questi ultimi, nell'adozione della disciplina normativa nazionale conseguente, si conformino al
principio sopra enunciato (v. artt. 2, secondo, terzo e quarto comma; 3, secondo comma).
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, n.2, della legge della Provincia autonoma di
Trento 15 febbraio 1980, n. 3 (Norme concernenti il trasferimento alla Provincia autonoma di
Trento del personale della Regione Trentino-Alto Adige addetto agli uffici dell'ispettorato
provinciale del servizio antincendi e di quello appartenente al corpo permanente dei vigili del fuoco
di Trento e altre disposizioni riguardanti il personale provinciale), nella parte in cui prevede, tra i
requisiti per l'accesso alle carriere direttive e di concetto del ruolo tecnico del servizio antincendi
della Provincia di Trento, il possesso di una statura fisica minima indifferenziata per uomini e
donne.
Considerato in diritto
1. - Il Consiglio di Stato ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 51, primo
comma, e 97, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 12,
ultimo comma, della legge 2 aprile 1968, n. 482 (Disciplina generale delle assunzioni obbligatorie
presso le pubbliche amministrazioni e le aziende private).
La norma impugnata prevede che "Nei concorsi a posti delle carriere direttive e di concetto o
parificati, gli appartenenti alle categorie indicate nel precedente titolo, che abbiano conseguito
l'idoneità, verranno inclusi nell'ordine di graduatoria tra i vincitori fino a che non sia stata raggiunta
la percentuale del 15 per cento dei posti in organico".
2. - Il remittente premette che nel giudizio al suo esame la ricorrente ha impugnato il
provvedimento con il quale, ad esito di un concorso pubblico, non é stata inclusa nella graduatoria
dei vincitori, essendo stato assunto in sua vece, in applicazione della norma impugnata, un invalido
civile che si era classificato dopo di lei.
Tale disciplina, a suo avviso, si pone in contrasto con gli artt. 3, primo comma, 97, ultimo
comma, e 51, primo comma, della Costituzione, poichè la scelta secondo l'ordine della graduatoria
di merito, nella quale la regola del concorso consiste, viene alterata senza razionale giustificazione,
privilegiando ingiustamente il concorrente appartenente alla categoria protetta rispetto agli altri.
Il meccanismo concorsuale, espone il giudice a quo, é un procedimento che assolve alla
duplice funzione di accertare l'idoneità degli aspiranti e di assumerli secondo l'ordine di graduatoria,
così perseguendo l'interesse pubblico alla scelta dei candidati migliori. In questi termini non può più
giustificarsi l’istituto della riserva dei posti - oggi avulso da situazioni di emergenza quali quelle del
20
Eguaglianza
periodo postbellico - che fa preferire l'appartenente alle categorie protette rispetto al candidato,
giudicato migliore, che lo precede in graduatoria.
3. - Sotto un ulteriore profilo, infine, emergerebbe la violazione degli artt. 51 e 97 della
Costituzione.
Ad avviso del remittente, l’art. 97 con l’inciso "salvo i casi stabiliti dalla legge" consente di
derogare alla regola del concorso pubblico: ciò significa che in determinati casi é possibile
nominare un pubblico impiegato con procedura diversa, mentre non é legittimo, una volta scelta la
via concorsuale, introdurre deroghe all’interno della medesima, perchè così facendo si darebbe
luogo ad una sorta di commistione tra le due diverse procedure (assunzione diretta e assunzione per
concorso) che, viceversa, si escludono l’un l’altra.
4. - La questione non é fondata.
Occorre premettere che la norma impugnata si colloca nel quadro dell'ampio intervento
operato dal legislatore a favore degli invalidi di guerra all'indomani del primo conflitto mondiale,
introducendo, in quel tempo, l'istituto della loro assunzione obbligatoria presso le pubbliche
amministrazioni e le aziende private.
Tale disciplina é stata successivamente estesa, con diverse modalità di tutela, ad altre
categorie ritenute meritevoli di particolare protezione con singole e specifiche leggi, fino ad arrivare
alla legge n. 482 del 1968, che ha ridisciplinato organicamente la materia.
Questa Corte ha già avuto occasione di pronunciarsi, sotto altri profili, sulla legittimità di
tali previsioni legislative, affermando che esse trovano base e giustificazione nel disposto di cui
all'art. 38 della Costituzione, e dichiarandole coerenti sia con il dettato del secondo comma dell'art.
3 della Costituzione - in quanto dirette a rimuovere gli ostacoli che impediscono l'effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione economica e sociale del Paese - sia con il
principio informatore dell'art. 4 della Costituzione in quanto promuovono e attuano le condizioni
che rendono possibile a persone appartenenti a particolari categorie svantaggiate, che siano in
possesso di attitudini lavorative e professionali, l’inserimento nell'ambiente del lavoro dal quale
altrimenti potrebbero restare escluse (sentenza n. 38 del 1960).
La disposizione censurata, valutata alla luce di tali principi, non può ritenersi nè
irragionevole nè priva di giustificazione, in quanto diretta ad assolvere un onere e un compito della
collettività al fine di consentire a detti beneficiari, in base a condizioni e criteri prestabiliti (sentenza
n. 279 del 1983), un più agevole reperimento di una occupazione, pur nei limiti di percentuali
prefissate in rapporto ai posti in organico per ciascuna qualifica, nel contemperamento delle
esigenze della pubblica amministrazione per la migliore selezione dei propri impiegati con quelle di
tutela delle categorie protette.
Il legislatore, per le qualifiche più elevate, ha riservato la percentuale del 15 per cento dei
posti in organico agli appartenenti alle categorie protette, i quali per altro possono accedervi solo
dopo aver superato le prove concorsuali in posizione di parità rispetto agli altri concorrenti. Essi,
una volta dichiarati idonei, qualora la percentuale dei posti riservati non sia già completa, verranno
preferiti nell’ordine di assunzione.
Anche in riferimento al secondo profilo sollevato dal remittente, non pare a questa Corte
che, sulla base degli invocati parametri costituzionali, resti preclusa al legislatore la possibilità di
introdurre nella procedura concorsuale prescelta, a favore di alcune categorie svantaggiate, deroghe
suscettibili di realizzare quella particolare tutela che detta normativa intende perseguire: tale
sistema, lungi dall’essere irragionevole o lesivo di quanto disposto dall’art. 97 della Costituzione, é
con esso coerente ed anzi costituisce attuazione del fondamentale principio sancito dall’art. 3,
secondo comma, della Costituzione.
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, ultimo comma,
della legge 2 aprile 1968, n. 482 (Disciplina generale delle assunzioni obbligatorie presso le
pubbliche amministrazioni e le aziende private), sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma,
51, primo comma, e 97, terzo comma, della Costituzione, dal Consiglio di Stato con l’ordinanza in
epigrafe.
Considerato in diritto
1. -- La questione di legittimità costituzionale investe la norma relativa al divario di età tra
coniugi adottanti ed adottato, fissato in non più di quaranta anni dalla disciplina dell'adozione dei
minori. La Corte di cassazione ritiene che l'art. 6 della legge 4 maggio 1983, n. 184, che stabilisce
tale requisito, operante anche per l'adozione di minori stranieri in forza degli artt. 30 e 32 della
stessa legge, possa essere in contrasto con gli artt. 2, 3 e 31 della Costituzione. Il dubbio di
legittimità costituzionale è formulato per la rigidità della regola, che non consente al giudice di
tenere conto, quale circoscritto ed eccezionale motivo di ammissibilità della dichiarazione di
efficacia del provvedimento straniero di adozione, del superamento, da parte di uno solo dei coniugi
adottanti, del limite di età di quaranta anni tra adottante ed adottato, in maniera tale che sia
comunque rispettata la differenza biologica naturale ovvero ordinaria tra genitori e figli.
2. -- La questione, prospettata nei confronti del combinato disposto degli artt. 6, 30 e 32
della legge n. 184 del 1983 in un caso che riguarda l'adozione di un minore straniero, è tuttavia da
considerare riferita all'art. 6, secondo comma, della stessa legge, che stabilisce il requisito, generale
e comune tanto all'adozione nazionale che a quella internazionale, del divario di età tra coniugi
adottanti e minore adottato.
22
Eguaglianza
Difatti il legislatore, nel disciplinare l'adozione dei minori, ha stabilito, tra le disposizioni
generali della legge n. 184 del 1983, alcuni requisiti comuni per l'adozione, sia quando essa è
direttamente disposta dal giudice nazionale, sia quando, per i minori stranieri, è disposta dallo
stesso giudice, ma sul presupposto di un provvedimento di adozione emesso in altri Paesi e che solo
così può acquistare efficacia in Italia.
L'unificazione dei requisiti risponde ad un principio al quale si ispira l'intera legge n. 184
del 1983: quello della pari protezione dei minori e quindi della omogeneità di disciplina sostanziale
per la loro adozione, tanto che siano italiani quanto stranieri, evitando, in danno di questi ultimi,
discriminazioni ed abusi (sentenza n. 536 del 1989).
Questo principio risponde all'esigenza di una comune e generale salvaguardia della
personalità e dei diritti del minore, e trova fondamento nella garanzia costituzionale della dignità
della persona e nella speciale protezione dell'infanzia (artt. 2 e 31 della Costituzione). Il medesimo
principio ispira le norme internazionali che richiedono, per l'adozione all'estero, garanzie e norme
equivalenti a quelle previste per l'adozione nazionale (art. 21 della convenzione sui diritti del
fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176).
Tra i requisiti comuni alle due forme di adozione, nazionale ed internazionale, l'età degli
adottanti, rispetto a quella degli adottandi, ha un rilievo non secondario. Essa è presa in
considerazione anche dalla convenzione europea in materia di adozione di minori, che prevede la
regola generale di una differenza di età, tra adottante e adottato, non diversa da quella che intercorre
di solito tra genitori e figli (art. 8 della convenzione di Strasburgo firmata il 24 aprile 1967, resa
esecutiva con legge 22 maggio 1974, n. 357).
L'adozione di minori è, difatti, destinata a far cessare ogni rapporto tra la famiglia di origine
e l'adottato, il quale viene definitivamente inserito nella famiglia di accoglienza, assumendo in essa
la condizione giuridica di figlio legittimo. La famiglia di accoglienza è chiamata, quindi, ad
assolvere una funzione completamente sostitutiva della famiglia di origine e deve, pertanto, avere
tutti i requisiti di una famiglia nella quale ordinariamente avviene l'accoglienza della nascita,
l'assistenza e l'educazione del fanciullo. Così si spiega il divario di età tra genitori adottivi e minore
adottato, che deve essere conforme a tale modello.
3. -- Il legislatore ha ritenuto, facendo uso della discrezionalità che gli è propria, di stabilire,
sia nel minimo che nel massimo (rispettivamente in diciotto e quaranta anni), il divario di età tra
adottanti e adottando in modo rispondente alle finalità peculiari dell'adozione legittimante e tenendo
conto delle condizioni sociali nelle quali l'istituto è destinato ad operare.
Non viene ora posta in discussione la regola, ragionevolmente stabilita dal legislatore,
ma la sua assolutezza, tale da non tollerare eccezione alcuna anche quando l'adozione
risponda al preminente interesse del minore e la specifica famiglia di accoglienza, giudicata
idonea, sia la sola che possa soddisfare tale interesse, ma sia superato il divario di età
rigidamente previsto, pur rimanendo tale divario compreso in quello che di solito può
intercorrere tra genitori e figli, sicché l'adozione non può essere disposta ed in concreto ne
deriva un danno per il minore stesso.
Questa Corte ha già ritenuto che la regola del divario massimo di età tra adottante e
adottato non può essere così assoluta da non poter essere ragionevolmente intaccata, in casi
rigorosamente circoscritti ed eccezionali, per consentire l'affermazione di interessi, attinenti al
minore ed alla famiglia, che trovano radicamento e protezione costituzionale, la cui esistenza
in concreto sia rimessa al rigoroso accertamento giudiziale (sentenza n. 148 del 1992).
Sotto questo profilo non viene in considerazione l'interesse dei coniugi ad avere figli
legittimi di derivazione adottiva. Né, per gli aspetti considerati, il limite di età stabilito dalla
disposizione denunciata per l'adozione di minori può essere valutato in relazione all'interesse ed alla
posizione dell'adottante, giacché l'intero sistema dell'adozione di minori è eminentemente incentrato
sulla valutazione e sulla protezione della personalità e dell'interesse del fanciullo, alla cui
23
Eguaglianza
accoglienza è preordinato lo stesso apprezzamento dell'idoneità della famiglia adottiva, e quindi dei
requisiti richiesti ai suoi componenti.
Occorre, invece, considerare l'interesse e la protezione del minore, che l'ordinanza di
rimessione prospetta quali elementi del giudizio di legittimità costituzionale, facendo riferimento
agli artt. 2 e 31 della Costituzione.
4. -- In continuità con la precedente giurisprudenza costituzionale, relativa al superamento
dell'assoluta rigidità delle prescrizioni normative, quanto alla differenza di età tra coniugi
adottanti ed adottando (sentenze n. 183 del 1988, n. 44 del 1990, n. 148 del 1992), deve essere
riconosciuta la possibilità che il giudice valuti, con rigoroso accertamento, l'eccezionale necessità
di consentire, nell'esclusivo interesse del minore, che questi sia inserito nella famiglia di
accoglienza che, sola, può soddisfare tale suo interesse, anche quando, pur rimanendo nella
differenza di età che può solitamente intercorrere tra genitori e figli, l'età del coniuge adottante si
discosti in modo ragionevolmente contenuto dal massimo di quaranta anni, legislativamente
previsto.
Tuttavia, affinché non si trasformi in una regola, la cui fissazione è invece rimessa alla
discrezionalità del legislatore, l'eccezione deve rispondere ad un criterio di necessità in
relazione ai principi ed ai valori costituzionali assunti quale parametro di valutazione della
legittimità costituzionale della disposizione denunciata (artt. 2 e 31 della Costituzione).
Nel contesto di un istituto preordinato ad assicurare al minore in stato di abbandono una
famiglia di accoglienza idonea ad assolvere pienamente la funzione di solidarietà propria della
famiglia legittima, la necessità della deroga al criterio rigido del divario di età (fissato dall'art. 6,
secondo comma, della legge n. 184 del 1983) si verifica quando l'inserimento in quella specifica
famiglia adottiva risponde al preminente interesse del minore e dalla mancata adozione deriva un
danno grave e non altrimenti evitabile per lo stesso.
La questione è dunque, in questi limiti, fondata.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 6, secondo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184
(Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori), nella parte in cui non prevede che il giudice
possa disporre l'adozione, valutando esclusivamente l'interesse del minore, quando l'età di uno dei
coniugi adottanti superi di oltre quaranta anni l'età dell'adottando, pur rimanendo la differenza di età
compresa in quella che di solito intercorre tra genitori e figli, se dalla mancata adozione deriva un
danno grave e non altrimenti evitabile per il minore.
Considerato in diritto
1.— Il Tribunale di Milano, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita, in riferimento agli
articoli 2, 3, 27, terzo comma, 30 e 31 della Costituzione, della legittimità costituzionale
dell’articolo 569 del codice penale, «nella parte in cui prevede l’applicazione automatica della pena
accessoria della perdita della potestà genitoriale a seguito della commissione del reato di cui all’art.
567 c. p.».
Il rimettente premette di essere chiamato a giudicare una donna, «imputata del reato p. e p.
dall’art. 567, secondo comma, c. p., per avere alterato lo stato civile della figlia neonata M. N. nella
formazione dell’atto di nascita, mediante false attestazioni consistite nel dichiararla come figlia
naturale, sapendola legittima in quanto concepita in costanza di matrimonio con E. N. S.»; ed
aggiunge che, nella fase degli atti preliminari, la parte offesa minorenne, tramite curatore speciale,
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Eguaglianza
intendere «ogni essere umano avente un’età inferiore a diciotto anni, salvo se abbia raggiunto prima
la maturità in virtù della legislazione applicabile», ai sensi dell’art. 1 della Convenzione stessa),
fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio
1991, n. 176, dispone nell’art. 3, primo comma, che «In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di
competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità
amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una
considerazione preminente».
La Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, adottata dal Consiglio
d’Europa a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 20 marzo 2003, n.
77, nel disciplinare il processo decisionale nei procedimenti riguardanti un minore, detta le modalità
cui l’autorità giudiziaria deve conformarsi «prima di giungere a qualunque decisione», stabilendo
(tra l’altro) che l’autorità stessa deve acquisire «informazioni sufficienti al fine di prendere una
decisione nell’interesse superiore del minore». La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, nell’art. 24, comma
secondo, prescrive che «In tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o
da istituzioni private, l’interesse superiore del minore deve essere considerato preminente»; e il
comma terzo del medesimo articolo aggiunge che «Il minore ha diritto di intrattenere regolarmente
relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo
interesse».
Come si vede, nell’ordinamento internazionale è principio acquisito che in ogni atto
comunque riguardante un minore deve tenersi presente il suo interesse, considerato preminente. E
non diverso è l’indirizzo dell’ordinamento interno, nel quale l’interesse morale e materiale del
minore ha assunto carattere di piena centralità, specialmente dopo la riforma attuata con legge 19
maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia), e dopo la riforma dell’adozione realizzata con
la legge 4 maggio 1983, n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori), come
modificata dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, cui hanno fatto seguito una serie di leggi speciali che
hanno introdotto forme di tutela sempre più incisiva dei diritti del minore.
3.1.— Ciò posto, si deve osservare che la legge non dà una definizione della potestà
genitoriale, ma nell’art. 147 cod. civ. prevede i doveri dei coniugi verso i figli, individuandoli come
obblighi di «mantenere, istruire ed educare la prole, tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione
naturale e delle aspirazioni dei figli». La norma ripete la formula dell’art. 30, primo comma, Cost.
(«È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del
matrimonio») e dal combinato disposto delle due disposizioni si evince il nucleo di detta potestà,
che si collega all’obbligo dei genitori di assicurare ai figli un completo percorso educativo,
garantendo loro il benessere, la salute e la crescita anche spirituali, secondo le possibilità socio-
economiche dei genitori stessi.
È evidente, dunque, che la potestà genitoriale, se correttamente esercitata, risponde all’
interesse morale e materiale del minore, il quale, dunque, è inevitabilmente coinvolto da una
statuizione che di quella potestà sancisca la perdita.
È possibile, e la stessa Costituzione lo prevede (art. 30, secondo comma), che uno o
entrambi i genitori si rivelino incapaci di assolvere i loro compiti, con conseguente necessità per il
legislatore di disporre interventi sostitutivi (artt. 330 e seguenti cod. civ.). E del pari è possibile che
la condotta di uno o di entrambi i genitori sia idonea ad integrare gli estremi di un reato, in relazione
al quale il legislatore, nel ragionevole esercizio della sua discrezionalità, ritenga che, in caso di
condanna, si debba rendere applicabile la pena accessoria della perdita della potestà.
Tuttavia, proprio perché la pronunzia di decadenza va ad incidere sull’interesse del
minore sopra indicato, non è conforme al principio di ragionevolezza, e contrasta quindi con il
dettato dell’art. 3 Cost., il disposto della norma censurata che, ignorando il detto interesse,
statuisce la perdita della potestà sulla base di un mero automatismo, che preclude al giudice
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Eguaglianza
ogni possibilità di valutazione e di bilanciamento, nel caso concreto, tra l’interesse stesso e la
necessità di applicare comunque la pena accessoria in ragione della natura e delle
caratteristiche dell’episodio criminoso, tali da giustificare la detta applicazione appunto a
tutela di quell’interesse.
La violazione del principio di ragionevolezza, che consegue all’automatismo previsto
dalla norma censurata, deve essere affermata anche alla luce dei caratteri propri del delitto di cui
all’art. 567, secondo comma, cod. pen. Infatti, quest’ultimo, diversamente da altre ipotesi criminose
in danno di minori, non reca in sé una presunzione assoluta di pregiudizio per i loro interessi morali
e materiali, tale da indurre a ravvisare sempre l’inidoneità del genitore all’esercizio della potestà
genitoriale.
È ragionevole, pertanto, affermare che il giudice possa valutare, nel caso concreto, la
sussistenza di detta idoneità in funzione della tutela dell’interesse del minore.
In senso contrario non giova richiamare l’ordinanza di questa Corte n. 723 del 1988, che
dichiarò la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della norma qui
censurata, in riferimento all’art. 30 Cost. Invero, la citata decisione fu adottata sulla base di un
parametro diverso da quello qui evocato e seguendo un percorso argomentativo che non poteva
tenere conto del quadro normativo dianzi menzionato, perché in larga parte non ancora intervenuto.
Pertanto, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 569 cod. pen., nella
parte in cui prevede che, in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di
alterazione di stato di cui all’art. 567, secondo comma, cod. pen., debba conseguire
automaticamente la perdita della potestà genitoriale, così precludendo al giudice ogni possibilità di
valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto.
Ogni altro profilo resta assorbito.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 569 del codice penale, nella parte in cui stabilisce
che, in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di alterazione di stato, previsto
dall’articolo 567, secondo comma, del codice penale, consegua di diritto la perdita della potestà
genitoriale, così precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel
caso concreto.
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