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sviluppo del bambino). Questo tema era già stato sollecitato in campo internazionale nel 1997 da
una iniziativa di un Istituto di Biomusicologia con sede a Fiesole e poi da vari incontri successivi
che culminarono con la pubblicazione di un volume edito dal Massachusetts Institute of Technology
(MIT) nel 2000, che prese il titolo di The origins of music (vedi Bibliografia).
A Bologna i due Symposia bolognesi misero in luce anche alcune singolari coincidenze fra i due
processi, filo- e onto- genetici ma noi ci concentreremo da ora in poi solo su questo secondo punto
di vista.
All’inizio del processo ontogenetico di acquisizione della sensazione del flusso temporale
starebbero le interazioni madre/bambino, che si verificano sempre in tutte le culture del mondo nei
primi mesi di vita. Queste interazioni si basano sempre sul principio della ripetizione: la madre
interpella il bambino con la sua voce, con il suo “baby-talk” (che è la modalità vocale con cui gli
adulti si rivolgono ai bambini) e ripete più volte lo stesso pattern vocale. Oppure lo interpella con
un gesto e ripete quel gesto più volte. E il bambino spesso risponde a questi stimoli della madre. Si
tratta in sostanza dei giochi con cui madre e bambino interagiscono reciprocamente. La genesi della
sensazione del tempo nel bambino, secondo l’ipotesi di Imberty, sarebbe legata appunto al processo
della ripetizione gestuale e/o vocale: infatti nell’interazione con la madre (o anche con altri adulti) il
bambino impara gradualmente che il gesto fisico o vocale si ripeterà e attende che si ripeta, e
siccome è un gesto altamente gradito, impara anche a desiderarlo.
Al di là della ripetizione, un secondo aspetto dell’apprendimento è l’attesa-imitazione. Il bambino
sa che il gesto si ripeterà, e non solo lo desidera, ma gradualmente comincia egli stesso a
sollecitarlo, imitando quel gesto gradito, cioè rispondendo con la voce e con il corpo alle
sollecitazioni materne. Un terzo aspetto, infine è la variazione: il bambino impara che in questi
proto-dialoghi la ripetizione non è mai automatica, non avviene dopo lo stesso tempo e non avviene
allo stesso modo. In sostanza capisce che la ripetizione implica variazione e che la variazione è
parte essenziale del rapporto affettivo perché porta con sé effetti di sorpresa. Lo shock della
sorpresa, purché sia accortamente dosato, è elemento essenziale di questo primordiale dialogo.
Al termine di questo processo (che non è ovviamente così semplice come qui è stato descritto e che
ovviamente richiede qualche mese per assestarsi) il bambino ha cominciato ad acquisire la
sensazione del tempo. Non sa che cosa sia il tempo ma ha avuto l’esperienza viva del suo
trascorrere, e questa esperienza si è fissata nella sua memoria. In questa esperienza il tempo ha un
inizio, uno sviluppo (attesa) e una fine: la cosa più importante da sottolineare è che l’esperienza
infantile del tempo è tale in quanto ha una unità temporale interna fortemente direzionata e orientata
a una soddisfazione finale.
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l’emozionalità nello scorrere del tempo, e sono, come Imberty li definisce, “vettori affettivi
dinamici”: possiedono un profilo temporale la cui qualità cinetica caratterizza sostanzialmente
l’esperienza affettiva infantile.
In secondo luogo Stern osserva che le interazioni comunicative, le ripetizioni e le variazioni non
hanno come scopo semplicemente di “imitare” le condotte del partner, poiché l’imitazione, che pure
è presente, ha uno scopo più profondo: quello di trovare e di condividere il “colore” o la “tonalità”
affettiva dell’altro. In sostanza il loro scopo è quello di raggiungere ciò che Stern e Imberty
chiamano un “accordage” affettivo: una sorta di intesa empatica, un accordo reciproco che i partner
sono in grado di riconoscere proprio attraverso la sua modulazione temporale.
Un’altra componente importante della concezione delle proto-esperienze infantili messe in rilievo
da Imberty è offerta dal pensiero di uno psicanalista francese, Didier Anzieu. Secondo quest’ultimo
la situazione globale in cui gli “infanti” sono immersi è quella della percezione sinestesica: di fatto
il loro “sentire” non è orientato da una fonte sensoriale precisa, ma si manifesta indifferentemente
nella visione, nell’udito, nel tatto, nel gusto. In sostanza, ogni gesto sensoriale è permutabile in
qualsiasi altro gesto che abbia le stesse caratteristiche di piacevolezza e di modulazione temporale.
In una situazione, come quella “infantile” dove non esiste ancora una differenza chiara fra il sé e
l’altro, l’identità è una sorta di involucro in cui tutte le sensazioni del mondo esterno e interno si
mescolano in forme indifferenziate. L’involucro termico, l’involucro olfattivo, l’involucro tattile e
soprattutto, per la precocità dell’udito nella vita fetale, l’involucro sonoro, costituiscono un’unità
primordiale del sé in cui, ad esempio, la voce materna e la voce infantile non si differenziano, ma si
rafforzano a vicenda. Lui dice “come in un gioco di specchi o di echi”.
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canto adulto o della ritmicità gestuale degli adulti, sviluppa a poco a poco anche le loro facoltà
musicali, anche se, ovviamente, lo sviluppo della musicalità infantile dipende primariamente dagli
stimoli che i familiari tendono a offrire ai loro figli.
Al punto finale la continuità della melodia si interrompe sia per la presenza di una nota più lunga di
quelle che la precedono e che la seguono, sia per il raggiungimento di una nota con caratteristiche
modali particolari (in questi caso la nota-base del modo di Re), sia per la presenza di una sillaba che
conclude una parola e una frase verbale. In sostanza il cantore avverte in questo caso un ordine
tensivo interno alla melodia che s’interrompe quando si raggiunge la sillaba “-son”. Esistono
ovviamente anche interruzioni meno forti prima di quella finale: quelle indicati dai due trattini
verticali sulla linea del Do, anch’esse determinate da circostanze strutturali simili a quella finale.
Imberty chiama esempi come questi col termine di “schemi d’ordine”: in essi chi compone, esegue
o ascolta, avverte una successione di eventi il cui ordine è dato dalla loro tensione verso un
provvisorio e prevedibile punto finale. Da un punto di vista analitico questi eventi possono essere
ricostruiti in base alle regole stilistiche di ogni determinata musica (per esempio del canto
gregoriano, nell’esempio appena descritto), ma da un punto di vista psicologico questi eventi
vengono sentiti come dotati di una continuità interna che s’interrompe (diventa discontinuità) nel
momento della loro momentanea conclusione. Continuità e discontinuità sono termini di natura
psicologica, ma tutti coloro che fanno musica sanno bene che l’effetto psicologico di continuità è
dato dal modo con cui la frase è stata musicalmente costruita e che i punti di discontinuità sono
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determinati dalle segmentazioni interne che ne scandiscono la forma secondo convenzioni note.
Infatti le regole di costruzione della frase e le segmentazioni della forma sono quelle che vengono
normalmente adottate all’interno di una determinata cultura musicale e che sono riconosciute dai
suoi membri. Per esempio una melodia come quella che abbiamo appena sentito è stata costruita
con regole ritmiche e tonali che erano familiari ai monaci medioevali e che venivano intuitivamente
riconosciute e adottate nei loro riti. In sostanza si tratta di ciò che comunemente in termini musicali
si chiama “fraseggio”.
Anche in musiche più complesse, per esempio in una polifonia del Rinascimento, oppure in
musiche che assumono funzioni diverse (per esempio servono a stimolare movimenti di danza o di
marcia) la situazione del fraseggio (delle sue continuità e discontinuità) resta sostanzialmente la
stessa. E resta la stessa anche in quei tipi di musica che in Europa, dopo il Seicento, perdono
funzioni rituali e diventano musiche esclusivamente strumentali (da ascoltare per il piacere
“estetico” di ascoltarle). Anche in questo caso gli schemi d’ordine continuano a funzionare allo
stesso modo, ossia con quei procedimenti psicologici di continuità e discontinuità, di tensione e di
conclusione, che sono alla base della temporalità umana e che nascono nella prima infanzia come
“schemi motori” della percezione del tempo.
A questo punto della storia musicale, però, cominciano a instaurarsi nella coscienza musicale
europea anche schemi più astratti e complessi che Imberty chiama “schemi di relazione” (o più
precisamente “schemi di relazioni d’ordine”). Con questo termine egli intende uno schema formale
prefissato al quale i compositori si attengono e che anche gli ascoltatori acculturati riescono a
riconoscere e a seguire durante l’ascolto. Ad esempio chi si appresta ad ascoltare un minuetto di una
Suite di Bach per clavicembalo, sa che troverà frasi (o “schemi d’ordine”) di 4 battute e che alla
fine di ogni frase troverà una cadenza che ha la funzione di interrompere la continuità musicale
della frase. Sa anche che dopo un certo numero di frasi troverà una ripresa del tema iniziale. Sa che
a un certo punto verrà introdotta una seconda parte (il Trio) che avrà anch’essa una sua struttura
fraseologica prefissata. E sa che alla fine della seconda parte verrà ripresa la prima parte secondo la
classica forma ABA. In altri termini egli sa che il minuetto è fatto di particolari e prefissati “schemi
di relazione” fra le frasi.
La terminologia che ho usato fino a questo punto, va comunque un po’ precisata: dobbiamo
soprattutto distinguere quella che si usa negli approcci di tipo analitico e quella degli approcci di
tipo psicologico. Nel primo caso siamo abituati a parlare di “fraseggio” mentre nel secondo caso
(che si riferisce all’ascolto e non all’osservazione di una partitura) è più corretto parlare di un
sistema di relazioni fra i flussi musicali (fra le diverse unità di flusso) che la nostra mente
percepisce come schemi d’ordine, o unità temporali, legate ad aspetti di continuità e discontinuità.
Quella poi che in termini analitici chiamiamo “forma musicale”, nella situazione d’ascolto risulta
composta di schemi d’ordine più complessi e conosciuti a priori (pre-formati) che ci aspettiamo di
trovare in un brano di musica di stile già noto.
Ovviamente le forme musicali pre-organizzate che la storia musicale dell’occidente ha immaginato
e proposto da quando esiste una musica strumentale, sono numerose: conosciamo bene le
variazioni, i rondò, la forma sonata e così via. E sappiamo anche che esistono gerarchie all’interno
della forma: ad esempio la distinzione fra le tre parti di un minuetto è gerarchicamente più
importante che la distinzione fra le singole frasi all’interno di ciascuna parte. In sostanza gli
“schemi di relazione d’ordine” fissano dei punti d’arrivo principali e dei punti d’arrivo secondari
(cosa che del resto abbiamo visto anche nel precedente Kyrie). Ciò non significa però che tutta la
musica strumentale sia sempre riconducibile a questi begli schemi, facili da controllare
razionalmente e chiaramente descrivibili.
Chi è abituato ad ascoltare musica sa bene che il controllo sullo scorrere dei suoni non è sempre
agevole: in molti casi, durante l’ascolto, ci si deve accontentare di percepire semplicemente le
singole unità di flusso che danno il senso della tensione motoria, della presenza di punti di
raggiungimento e del piacere di raggiungerli; forse qualche volta si riesce a intuire che uno schema
più generale poteva esistere nella mente del compositore, ma di fatto all’ascolto, non sempre si
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riesce a coglierlo. E chi ascolta musica sa anche bene che molte musiche non sono costruite tenendo
conto di “schemi di relazione d’ordine” prefissati: si pensi ad esempio a una toccata per organo di
Frescobaldi in cui non esiste alcuno schema prefissato, perché la successione degli episodi è
regolata solo dalla fantasia improvvisativa dell’autore. L’imprevedibilità del sistema culturale
barocco si contrappone in questo caso alla geometria del sistema razionalistico dello stile classico.
Abbiamo anche osservato (alla fine della lezione n. 1) che ogni sistema culturale gestisce la musica
secondo regole proprie, e che queste regole non sono sempre le stesse: ad esempio, mentre nei
secoli XVII e XVIII esisteva un implicito accordo fra chi componeva e chi ascoltava, in virtù del
quale le regole compositive cercavano di favorire l’ascolto, nel secoli XIX e XX questo accordo
gradualmente venne meno (perlomeno nell’ambito della musica “colta”) e i compositori tesero
sempre più a comporre musiche la cui forma tendeva a presentare difficoltà agli ascoltatori che non
possedessero una specifica e molto profonda conoscenza delle regole utilizzate.
BIBLIOGRAFIA CITATA