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Monika Poettinger

MERCANTI E MAGI:

PENSIERO ECONOMICO ED IMMAGINE DEL MERCANTE A FIRENZE NEL QUATTROCENTO

Working Paper

2012

Carlo Gavazzeni, Ricordi, Roma (Villa Medici, Mercurio), 2011,

Museo Nazionale dell’Ermitage, San Pietroburgo


1. INTRODUZIONE

Per i fiorentini del Quattrocento i rapporti economici erano regolati da precetti morali sanciti
istituzionalmente dal governo cittadino o dal corpus teologico della scolastica, volgarizzato dagli ordini
minori. La storia del pensiero economico di questo periodo, dunque, si è soprattutto preoccupata di
studiare la variazione nel tempo di tali precetti, cercandovi una spia dell’affrancamento dell’homo
oeconomicus dalla servitù religiosa, del prevalere della razionalità capitalistica su quella medievale.
L’accurata disamina delle questioni del giusto prezzo, dell’usura e del giusto salario da parte dei predicatori
francescani e domenicani sarebbero, in questo senso, la spia del soffocante impedimento che la religione,
cattolica, poneva al libero esprimersi del mercato, ma anche, proprio a Firenze nel Quattrocento, del
cumularsi di eccezioni e scappatoie che permettevano ai mercanti di prosperare nei traffici nonostante la
contrarietà di fondo della Chiesa a riconoscere alla moneta un ruolo economico fruttifero ed allo scambio
una sua giustizia intrinseca.

La recente scoperta che i predicatori fiorentini del Quattrocento avrebbero semplicemente ripreso,
temperandole, tesi ben precedenti, rende discutibile questa visione evoluzionista e positivista. Il pensiero
economico, insomma, non avrebbe marciato di pari passo con il favoleggiato espandersi dell’economia di
mercato su una linea del tempo che vuole il finire, proprio con il Quattrocento, del medioevo e l’inizio
dell’età moderna. E’, allora, necessario ripensare la formulazione del pensiero economico fiorentino del
Quattrocento, soprattutto quello espresso dagli ordini minori, inquadrandolo nel mutare vorticoso
dell’assetto istituzionale, della struttura sociale, della vita economica della città. Non solo di idee si trattava
in quel tempo ed in quel luogo: i precetti di teologi e predicatori su questioni economiche erano parte
integrante dell’impalcatura normativa sulla quale si reggeva la vita cittadina.

In questo senso l’affannoso cercare, da parte di pastori preoccupati della salute spirituale del proprio
gregge, di ricostruire tramite precetti morali l’assenza di regole o il diffuso disattendere regole oramai
considerate obsolete, è uno specchio della profonda crisi istituzionale che colse Firenze nella seconda metà
del Quattrocento. Crisi alla quale si cercò soluzione non affrancando l’homo oeconomicus, ma piuttosto
allontanando definitivamente i mercanti dal governo della città. Si sanciva così una rottura tra interesse
privato e bene comune che perdurerà fino al Settecento della favola delle api di Bernard de Mandeville e
della mano invisibile di Adam Smith.

Di seguito si cercherà di inquadrare il pensiero economico del Quattrocento fiorentino proprio alla luce
dell’evoluzione, nella teoria come nella pratica, del complesso rapporto tra attività privata volta al profitto
ed attività pubblica volta al bene comune. Dapprima si esporranno le considerazioni in questo senso dei
teologi e filosofi del tempo, per poi verificare, con l’analisi iconografica della figura dei Magi, quanto i
mercanti del tempo si riconoscessero nel ruolo di produttori di ricchezza privata e pubblica. La crisi di

2
questo modello valoriale e del corrispettivo assetto istituzionale sarà, infine, analizzata nelle sue cause e
nelle sue conseguenze, anche per il successivo pensiero economico.

2. RINASCIMENTO ED ECONOMIA

Si può parlare di pensiero economico innovativo a Firenze durante il Rinascimento? Esiste insomma una
rinascita anche nel pensiero economico? Joseph Schumpeter definiva il Rinascimento come la sostituzione
del borghese al cavaliere nel trasmettere all’intera società la propria razionalità, i propri abiti mentali ed il
proprio schema valoriale1. Il pensiero economico avrebbe dovuto di riflesso abbandonare le posizioni
medievali, la negativa valutazione di commerci e attività bancarie, abbracciando la centralità del momento
economico nel processo storico. In questo senso Schumpeter considerava Sant’Antonino da Firenze,
domenicano del convento di S. Marco, arcivescovo della città dal 1446 e confidente di Cosimo de Medici, “il
primo uomo al quale si possa attribuire una visione generale del processo economico”2, stesso giudizio da
Edgar Salin3 e Amintore Fanfani4. Ricerche filologiche accurate hanno tuttavia evidenziato come
Sant’Antonino avesse in realtà ripreso, anche e soprattutto in ambito economico, autori ed argomentazioni
a lui ben precedenti5. Come affermava Schumpeter stesso, insomma, la germinazione delle teorie
economiche successive era da ricercarsi in Aristotele e nei testi scolastici, tanto quanto la mentalità
capitalistica era già presente nei traffici medievali. L’idea di una rottura rinascimentale del pensiero
economico sarebbe dunque solo la conseguenza della tipizzazione ideale di termini quali feudalesimo e
capitalismo, un artificio storiografico.

Se di continuità storica si trattava, tuttavia, Sant’Antonino anche non predicando un pensiero originale,
rappresentò pur sempre la divulgazione a livello popolare di una teologia umanista6 che recepiva lo schema
valoriale della borghesia mercantile fiorentina. Tanto che, se l’origine delle concezioni più innovative è da
far risalire al francescano Pier di Giovanni Olivi, nato nel 1248 in Provenza e nel 1287 lettore di Teologia a S.
Croce a Firenze, le sue opere furono severamente proibite e condannate alle fiamme, mentre le successive
rielaborazioni di Bernardino da Siena e Antonino da Firenze conobbero ampia fortuna. Nel Quattrocento,
dunque, cambiò, se non la teorizzazione economica, il rapporto tra pratica economica e valutazione
religiosa della stessa. Tra Olivi e Antonino gli ordini monastici fiorentini avevano stretto rapporti privilegiati
con la classe mercantile in nome di un bene comune che aveva voluto trasformare Firenze in una città

1
Joseph Alois Schumpeter, Storia dell’analisi economica, vol. I, Dai primordi al 1790, Bollati Boringhieri, 2003, p. 98.
2
Joseph Alois Schumpeter, Storia dell’analisi economica, vol. I, Dai primordi al 1790, Bollati Boringhieri, 2003, p. 117.
3
Edgar Salin, Geschichte der Volkswirtschaftslehre,Springer Verlag, Berlin, 2007, pp.24ssgg.
4
Amintore Fanfani, Origini dello spirito capitalistico in Italia, Vita e Pensiero, Milano, 1933, p.112.
5
Amleto Spicciani, Sant’Antonino, San Bernardino e Pier Giovanni Olivi nel pensiero economico medievale, in Ovidio
Capitani, Una economia politica nel Medioevo, Patron Editore, Bologna, 1987, pp 93-120.
6
Amos Edelheit, Ficino, Pico and Savonarola. The evolution of Humanist Theology 1461/2-1498, Brill, Leiden-Boston,
2008.
3
ideale, in una Gerusalemme celeste7. La predicazione francescana e domenicana non poteva non riflettere
questa santa alleanza.

Come negare l’utilità della mercatura, della banca quando da tali attività risultava la glorificazione di Dio
attraverso un’arte impareggiabile che rappresentava la virtù religiosa e ne incoraggiava la pratica? Ecco
dunque che si fece strada un’idea rivoluzionaria, che la moneta non fosse più solo un mezzo di scambio,
una res quae usu consumuntur e quindi di per sé infruttifera, sulla quale non era lecito richiedere interesse,
ma che essa, qualora investita nella mercatura, portasse in sé il germe di un valore futuro superiore a
quello presente, fosse, insomma, capitale. E’ la dibattuta giustificazione dell’interesse in base al principio
del lucrum cessans che, ribadiva Antonino, come prima di lui Pier Francesco Olivi e Bernardino da Siena,
valeva solo nel caso si parlasse di moneta “per modum capitalis, ut scilicet in persona tradentis
emptionibus et mercationibus deputetur”8.

Il tempo era insomma diventato denaro, perlomeno il tempo dei mercanti che sapevano rendere la moneta
fruttifera trasformandola in capitale. Un seme dello spirito del capitalismo questo, però, ancora immerso in
un tempo, una cultura nei quali la ricerca del guadagno e l’attività mercantile trovavano giustificazione solo
in quanto volti al bene comune e non all’interesse personale. Una valutazione etica non solo mutuata da
testi sacri e trattati teologici ma anche dai classici amati dagli umanisti9. Per ottenere riconoscimento
sociale ed aspirare alla guida della società fiorentina, guadagnando al contempo il favore divino10, i
banchieri ed i mercanti fiorentini dovevano così imparare ad esercitare la virtù della magnificenza,
volgendo il proprio denaro al bene comune11. Non bastava che essi evitassero l’accusa di usura
trasformando il mutuo in cambio ed il prestito in contratto di società12: dovevano dedicarsi alle opere di
bene, sovvenzionare ospedali e ricoveri, abbellire chiese, contribuire all’evangelizzazione della popolazione

7
La predicazione domenicana che utilizzava il concetto di bene comune in relazione ai miglioramenti urbanistici della
città risaliva a Remigio de’ Girolamo e Giordano di Pisa. Al proposito si veda: Peter Howard, Preaching Magnificence in
Renaissance Florence, Renaissance Quarterly, vol. 61, n.2, pp.325-369.
8
Antonino da Firenze,Summa theologica, a cura di P. e G. Ballerini, I-IV, Veronae 1740-1741, pars II, tit. I, cap. VII, par.
XVI.
9
Le uniche analisi che si occupino di un pensiero economico laico nel Rinascimento fiorentino sono quelle di Maria
Luisa Pesante. Maria Luisa Pesante, Un pensiero economico laico?, in Franco Franceschi, Richard A. Goldthwaite,
Reinhold C. Mueller (a cura di), Il Rinascimento italiano e l’Europa, vol IV, Commercio e cultura mercantile, Angelo
Colla editore, Treviso, 2007, pp. 71-104.
10
“Et bona quidem temporalia, etsi minima sint respectu aliorum, tamen bona sunt a Deo: et ut dicit philosophus,
organice deserviunt felicitati, idest instrumentaliter, quia sunt tamquam media ad perficiendum aliqua opera virtuosa.
Sunt autem hujsmodi tripartita: videlicet divitiae seu substantia temporalis, honorificentiae seu gloria mundialis,
presidentiae et libertas humanalis”. Antonino da Firenze,Summa theologica, a cura di P. e G. Ballerini, I-IV, Veronae
1740-1741 I:VII:III, §I, col 5333C.
11
“nam, ut dictum est, ad magnificentiam pertinet aliquid facere magnum, habito respectu ad res divinas vel
communes, quibus debet magnificus intendere (…)”.Antonino da Firenze, Summa theologica, a cura di P. e G. Ballerini,
I-IV, Veronae 1740-1741, IV:III:V, §II, col. 86 A-B.
12
Raymond De Roover, Il banco Medici dalle origini al declino (1397-1494), Firenze, La Nuova Italia Editrice, p.18.
4
cittadina13. Solo a questo scopo la moneta diventava strumento di virtù: “duas esse virtutes circa pecuniam
vel usum ejus, scilicet liberalitatem et magnificentiam”14. Nel Quattrocento fiorentino il dilemma del
rapporto tra vizi privati e pubblica virtù fu dunque risolto spostando l’attenzione dall’acquisizione della
ricchezza al suo uso, dall’origine del profitto al consumo. Una sorta di damnatio magnificentiae che
spingeva il popolo grasso ad una gara di dispendio senza pari almeno per i risultati che ebbe sul profilo
urbano della città e sulla produzione di opere d’arte.

3. MERCANTI E MAGI

Quanto davvero i mercanti fiorentini si riconoscessero nel ruolo di artefici di ricchezza non solo privata ma
pubblica, non ultimo ad uso politico, si evince chiaramente dal loro rappresentarsi, per tutto il
Quattrocento, tramite l’immagine biblica dei Magi. I Magi, dipinti su commissione di questi mecenati come
re, sapienti ed ambasciatori del lusso orientale, incarnavano perfettamente l’ideale rinascimentale della
magnificentia inginocchiata ai piedi di Cristo. Alla straordinaria fioritura di opere d’arte aventi a soggetto
l’Adorazione dei Magi15 corrispose la lenta trasformazione della Cavalcata dei Magi, organizzata dalla
Compagnia de’ Magi almeno dall’ultimo decennio del Trecento, da rappresentazione sacra in processione
religiosa ed infine vera e propria festa cittadina, sfoggio di potere della classe dirigente mercantile16:
parabola che seguì di pari passo quella del potere oligarchico del popolo grasso a Firenze, dalla
restaurazione seguita alla rivolta di Ciompi fino a Girolamo Savonarola.

Un fatto altrimenti curioso dà conto di come proprio al sorgere del Quattrocento i Magi diventassero a
Firenze il simbolo del rapporto tra fede e denaro: quando nel 1416 si trattò di finanziare le spese ingenti
sostenute dalla Compagnia de’ Magi per la preparazione della Cavalcata, la Signoria si risolse a farlo
levando una tassa aggiuntiva sugli ebrei che praticavano legalmente l’usura a Firenze. Come a dire che
persino l’“exercitium fenoris seu usure aut mutui”17 poteva essere legittimato una volta che parte del

13
“Simpliciter tamen ad magnificum pertinet sumtus facere respectu rerum communium et divinarum, ubi cadit
magnitudo expensarum. Talis autem magnitudo non adest nisi divitibus et potentibus, quibus, ut dicit Ambrosius,
superabundantia datur a Deo, ut meritum bonae dispensationis acquirant. Ad hoc enim praefecit Deus divites et
potentes pauperibus, ut eis provideant non solum quantum ad usus proprios, sed etiam communes; puta in faciendo
hospitalia, templa et ecclesias communes, quod maxime pertinet ad principes et praelatos, qui praecipue debent
intendere magnum in ordine ad honorem Dei et utilitatem eorum, qui ejus cultui deputantur”. Antonino da Firenze,
Summa theologica, a cura di P. e G. Ballerini, I-IV, Veronae 1740-1741, IV:III:V, §II, col. 86B.
14
Antonino da Firenze, Summa theologica, a cura di P. e G. Ballerini, I-IV, Veronae 1740-1741, IV:III:IV, col. 80D.
15
Martha Hale Shackford, The Magi in Florence: An Aspect of the Renaissance, Studies in Philology, Vol. 20, No. 4
(Oct., 1923), pp. 377-387.
16
Rab Hatfield, The Compagnia de’ Magi, Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, vol. 33, 1970, pp. 107-161.
17
Il decreto legislativo è citato da Rab Hatfield, The Compagnia de’ Magi, Journal of the Warburg and Courtauld
Institutes, vol. 33, 1970, p. 145.
5
profitto che ne derivava fosse volto al bene comune, in questo caso il finanziamento di una “laudabile
opus” quale la Cavalcata, dedicata “ad honorem Dei et famam civitatis”18.

Oltre al suo compito istituzionale, la Compagnia de’ Magi aveva sicuramente anche un ruolo politico, tanto
che, nonostante i finanziamenti pubblici ottenuti, nel 1419 essa fu revocata insieme alle altre confraternite
laiche fiorentine per il sospetto di esser causa di disordini e divisioni nella cittadinanza. Fino al 1426,
quando un’apposita commissione chiarì la Compagnia dalle accuse, non si tennero dunque Cavalcate de’
Magi, ma ugualmente la pittura ci mostra come l’acquisizione di tale soggetto nell’immaginario popolare
fiorentino come rappresentazione sacra di ricchezza e potere fosse oramai compiuta. Palla di Noferi Strozzi,
secondo i dati del Catasto del 1427 mercante più ricco di Firenze, letterato e caposaldo del potere cittadino,
commissionò infatti nel 1420 a Gentile da Fabriano una pala d’altare avente a soggetto proprio
l’Adorazione dei Magi (Fig. 1). L’immagine era destinata alla cappella di famiglia che Lorenzo Ghiberti
portava a compimento in quegli anni nella chiesa di Santa Trinita. Lo stile gotico internazionale di Gentile
ben si adattava al lusso che doveva emanare dal soggetto scelto. Nella pala i Magi erano rivestiti di broccati
d’oro dai fini arabeschi, ornati di corone scintillanti e cinture preziose, esattamente come ci si aspettava da
principi di quei favolosi paesi orientali dai quali giungevano in Italia e dall’Italia in Europa le merci più
preziose19. In prima fila, nel corteo che da Gerusalemme muoveva a Betlemme, lo stesso Palla Strozzi e,
probabilmente, il figlio: la famiglia così si rappresentava nelle sue caratteristiche principali, la ricchezza, la
sapienza ed il potere, doni posti al servizio della fede.

Paolo di Matteo Pietrobuoni descrivendo la Cavalcata organizzata dalla Compagnia de’ Magi nel 1428, in
occasione della festa di S. Giovanni, patrono di Firenze, ne sottolineava la ricchezza degli ornamenti quasi
descrivesse la pala di Gentile da Fabriano: “E in fra ll’altre belle, notabile et piacevole chose fu ornato otto
cavagli covertj di seta con otto paggi di seta vestitj et con perle e ornamentj di divise et con ischudi, e visi
loro angelichi, l’uno ietro all’altro col livrea cavalchando. E dietro a lloro in su bello e grande cavallo uno
anticho con barba biancha vestito di brocchato d’oro di chermusi et uno cappelletto di chermusi aghuzzato
pieno di grosse perle et con altrj ornamentj di grandissima valuta, a ghuisa d’uno re chuomo tra’
Christianj”20. Quanto a dare ragione di tanta ricchezza del vestire, in una Firenze nella quale erano appena
state reintrodotte, con scarso successo, le leggi suntuarie, Paolo Pietrobuoni semplicemente aggiungeva:
“Volendosi ornare per degnità che tengha nollo può avanzare d’ornamento nel vestire”. Così S. Antonino
avrebbe scritto di lì a poco: “et ideo magnificus non intendit principaliter facere sumtus in his, quae

18
Ibid.
19
Era chiaramente una mitizzazione quella che associava nella mente dei fiorentini del Quattrocento la ricchezza
all’Oriente. L’Europa aveva da tempo imparato a sostituire alle importazioni di beni di lusso orientali, produzioni
pregiate a livello locale ed erano in realtà queste ad essere rappresentate nelle pale degli artisti. Tanto che, in
occasione del Concilio di Firenze, la popolazione rimase delusa dall’abbigliamento delle delegazioni orientali, dimesso
rispetto a quello sfoggiato della classe dirigente fiorentina.
20
Citato da Rab Hatfield, The Compagnia de’ Magi, Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, vol. 33, 1970, p.
146.
6
pertinent ad ejus personam, nisi talia essent, quae de se habent aliquam magnitudinem, et requiruntur
solemniter agi, sicut sunt ea, quae semel vel raro fiunt, ut nuptiae, militiae et hujusmodi; vel etiam quae
sunt diu permanentia, ut conveniens habitatio domus: taliae nim magnifice prosequitur magnificus”21.

Fig. 1 Gentile da Fabriano, 1423, Galleria degli Uffizi, Firenze.

21
Antonino da Firenze, Summa theologica, a cura di P. e G. Ballerini, I-IV, Veronae 1740-1741, IV:III:V,§II, col 86A-B.
7
Trattando con tanta dovizia di particolari della virtù della magnificentia, Antonino aveva in mente il suo
benefattore, Cosimo de’ Medici, la larghezza delle sue elargizioni, la ristrutturazione della Badia Fiesolana e
del convento di S. Marco, l’edificazione del palazzo di via Larga. Ricordando nelle sue Chronicae
l’acquisizione di San Marco, Antonino non poteva essere più chiaro: “Sumpta igitur possessione conventus,
Cosmas, ut vir magnificus [monasterium] cepit hedificare”. Il costo di tanta magnificentia fu quantificato da
Lorenzo il Magnifico per il periodo tra il 1434 ed il 1471 nella “somma incredibile” di 663.755 fiorini, spesa
in “muraglie, limosine e gravezze”22. Non pochi furono i malumori generati dalla politica di dispendio di
Cosimo ed oltre la difesa di Antonino, fu necessario anche l’intervento di Timoteo Maffei, Alberto
Avogadri23 e del giovane Marsilio Ficino per sopirli. Per accreditare pubblicamente le enormi spese
medicee come uso virtuoso della moneta in favore del bene comune, Cosimo non si limitò alla campagna a
stampa dei canonici e letterati appena ricordati, ma ricorse anche alle arti visive. A questo scopo, bandito
Palla Strozzi al suo rientro a Firenze nel 1434, per rappresentare sé stesso e la sua famiglia Cosimo si
appropriò proprio della simbologia dei Magi. Nel nuovo convento di S. Marco, che oltre ad ospitare i
domenicani di Antonino fu nuovamente sede della Compagnia de’ Magi, il Beato Angelico dipinse
un’Adorazione dei Magi proprio nella cella dedicata a Cosimo, mentre nel 1859 fu un suo allievo, Benozzo
Gozzoli, a dipingere lo stesso soggetto nella cappella del nuovo palazzo mediceo di via Larga.

Quest’ultima Cavalcata dei Magi presentava una straordinaria evoluzione rispetto alla pala Strozzi ed altre
Adorazioni coeve nelle quali i committenti erano mescolati al corteo: Benozzo Gozzoli dipinse nelle vesti dei
Magi tre generazioni della famiglia Medici, Lorenzo il Magnifico, il padre Piero il Gottoso ed il nonno Cosimo
il Vecchio. Una caratteristica, questa, comune anche all’Adorazione dei Magi commissionata da Giovanni
del Lama per la sua cappella funebre in Santa Maria Novella e dipinta da Botticelli tra il 1475 ed il 1476.
Botticelli attribuì ai Magi le sembianze di Cosimo il Vecchio e dei suoi figli Piero e Giovanni, mentre Lorenzo
ed il fratello minore Giuliano li seguivano nel corteo. L’uso pittorico dei Magi per presentare la successione
dinastica della famiglia Medici corrispose a Firenze all’ultimo e definitivo cambiamento della
rappresentazione della Cavalcata de’ Magi. Una descrizione tramandataci da fra Giovanni di Carlo di una
Cavalcata della fine degli anni ’60 24 riporta, infatti, oltre all’incredibile sfarzo, come i figli della classe
dirigente. organizzati in tre cortei che da diversi quartieri convergevano alla reggia di Erode sontuosamente

22
Raymond De Roover, Il banco Medici dalle origini al declino (1397-1494), Firenze, La Nuova Italia Editrice, p.539.
23
Tra il 1454 ed il 1456, Timoteo Maffei, canonico regolare lateranense, arcivescovo di Milano, scrisse un dialogo
intitolato “In magnificentiae Cosmi Medicei Fiorentini detradores”. Qualche anno più tardi Alberto Avogadri scrisse il
“De religione et magnificentia illustris Cosmi Medices Florentini”. Al proposito si veda: Alessandro Polcri, L'etica del
perfetto cittadino : la magnificenza a Firenze tra Cosimo de' Medici, Timoteo Maffei e Marsilio Ficino, Interpres. rivista
di studi quattrocenteschi. Volume 26, 2007, pp. 195-223.
24
Citato da Rab Hatfield, The Compagnia de’ Magi, Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, vol. 33, 1970, pp.
148-151.
8
ricostruita in San Marco, rappresentassero i loro stessi padri come in un’ambasceria ad un sovrano
straniero e dimostrassero così la loro capacità successoria25.

Fig. 2 Sandro Botticelli, 1475 circa, Galleria degli Uffizi, Firenze

25
“Confinxerant autem optimates omnes ac civitatis primarios, quasi hos pro legatorum honore misisset Herodes, qui
eos ad regem perducerent; cuius quidem civium expressionis tanta fuit civibus veris conformitas, ut vix credibile
videretur. Namque eorum facies vultusque larvis ita exculpserant, ut paulominus a veris djstarent. Siquidm eorum
vestimenta, ipsimet filij sumpserant, quibus tunc utebantur, eorumque gestus omnes didicerant, singulos eorum actus
et modos miro modo fingentes. Pulchrum vero erat veros cives, qui ad publicas edes confluxerant, semet intuerj
confictos, tanta spetie et procedentium pompa, ut regiam magnificentiam et amplissimum civitatis senatum, quam
egregie pre se ferrent».
Rab Hatfield, The Compagnia de’ Magi, Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, vol. 33, 1970, p. 150.
9
Non solo la Cavalcata era oramai diventata un’occasione ostentativa per il partito mediceo al potere, anche
la Compagnia si era trasformata in uno strumento di aggregazione per i fedeli seguaci dei Medici, attraverso
il quale il loro sistema clientelare si estendeva fino all’ambito religioso. Testimonianza del nuovo ruolo di
guida religiosa assunto dai Medici è una lettera che Gentile de Becchi scrisse da Roma a Lorenzo il
Magnifico nel 1467, assicurandogli come i cardinali del collegio del Papa avrebbero concesso “per tua
intercessione dj’ cento de indulgentia”26 a chiunque frequentasse le riunioni della Compagnia de’ Magi, alle
quali ci si poteva anche comunicare secondo un’ulteriore dispensa papale. La Compagnia andava così pian
piano sostituendosi alla chiesa parrocchiale come luogo per esercitare il culto e riunire la comunità dei
credenti, una risposta laica alla percepita vacuità dei riti della Chiesa tradizionale. La religione di cui i Medici
volevano essere esempio e guida, che diffondevano tramite le riunioni della Compagnia tra i propri seguaci
e nel popolo fiorentino, non era, però quella della rivelazione cristiana. Ancora una volta l’immagine dei
Magi era emblematica in tal senso. Nel suo “De stella Magorum” del 1482 Marsilio Ficino, infatti,
trasformando la stella in un ambasciatore angelico, volle dimostrare la possibilità di una rivelazione divina
rivolta in epoca pre-cristiana a sapienti e sacerdoti pagani27. Si accreditava così quella prisca theologia che
eguagliava alla rivelazione cristiana quella di profeti e filosofi della tradizione egiziana, persiana e greca:
“Sicut nos docent prisci theologi: Zoroaster, Mercurius, Orpheus, Aglaophemus, Pythagoras, Plato, quorum
vestigia sequitur plurimum physicus Aristoteles”28. Per Ficino la crisi religiosa, sentita profondamente a
Firenze nella seconda metà del Quattrocento, doveva essere superata proprio recuperando una religiosità
ascetica, basata sulla pietas ed il culto religioso, in opposizione alla tradizione scolastica ed aristotelica.

Rappresentandosi come Magi i Medici non solo dunque ostentavano ricchezza e potere temporale, ma si
assumevano anche il compito di recuperare la tradizione filosofica e mistica pre-cristiana, raccordandola
con la successiva rivelazione cristiana. Tale valenza del ruolo dei Magi è rappresentata nell’Adorazione del
Botticelli laddove il corteo dei Magi muove a Betlemme non da una immaginaria Gerusalemme, ma da
rovine classiche, simbolo dell’antichità pagana. Tra l’altro, filosofi neoplatonici e letterati erano presenti, al
seguito dei Medici, sia nella Cavalcata di Benozzo Gozzoli che nell’opera di Botticelli. Accanto ai potenti
alleati della famiglia, simboli del suo potere temporale, Ficino stesso, Poliziano, Pico della Mirandola,
Giovanni Argiropulo ed i fratelli Pulci rappresentavano allora la rinascita spirituale che i Medici volevano
diffondere in Firenze anche grazie alla Confraternita de’ Magi. Non a caso negli anni ’60 ed ancora di più
dalla congiura dei Pazzi in avanti la Compagnia diventerà sempre più una congregazione di culto,
allontanandosi dall’originario compito di organizzare la Cavalcata, spettacolo che si andava rarefacendo nel

26
Rab Hatfield, The Compagnia de’ Magi, Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, vol. 33, 1970, p. 151.
27
Si veda Stephen M. Buhler, Marsilio Ficino's De stella magorum and Renaissance Views of the Magi, Renaissance
Quarterly, Vol. 43, No. 2 (Summer, 1990), pp. 348-371.
28
Marsilio Ficino, Platonic Theolgy, vol. II, The I Tatti Renaissance Library, Harvard, 2002, pp.124-25.
10
tempo. Nella Compagnia predicheranno in questi decenni anche i filosofi dell’Accademia platonica29, a
dimostrazione di come i Medici avessero davvero l’intento di ricondurre in un unico alveo la tradizione di
pensiero classica ed una nuova religiosità mistica ed ascetica.

Dell’originario mercante era rimasto poco in questa complessa e simbolica rappresentazione dei Magi di
fine Quattrocento. Oramai dominavano i significati politici e religiosi ed il mercante che, facendo
germogliare il denaro in bene comune, arricchiva la città materialmente e spiritualmente non era più il
fulcro del governo cittadino. Così si spiega come un frate, che con la mercatura non aveva niente a che fare,
interpretando l’amore mistico di Ficino nel richiamo ad una religiosità elementare e purificata da riti vuoti
di significato, ed esprimendo in profezie la rivelazione divina di cui voleva essere tramite, potè facilmente
sostituirsi ai Medici, rivendicando il potere temporale e spirituale che Firenze attribuiva ai Magi. Tanto è
vero che nel tempo di Savonarola della figura dei Magi rimase solo la ritualità del potere. La Compagnia de’
Magi, che aveva voluto arrogare ai laici mercanti un ruolo religioso, venne sciolta immediatamente dopo la
cacciata dei Medici nel 1494 ed i suoi luoghi di aggregazione reclamati per le attività conventuali. Solo
quando si trattò di rendere omaggio al potere di Savonarola, come ricordava Luca Landucci, fu scelto
proprio il giorno dell’Epifania, finanche dopo la bolla di scomunica: “a dì 6 di giennaio 1497, andò la Signoria
di Firenze a offerire a San Marco, e baciorono la mano a Frate Girolamo all’altare, e non sanza grande
maraviglia de’ più intendenti e non tanto degli avversari, quanto degli amici del frate. Fu el dì della
Pifania”30. Richiamandosi un’ultima volta alla figura dei Magi, la Signoria riconosceva così a Savonarola un
potere temporale e religioso posto sì a servizio della rivelazione cristiana, ma slegato dalla gerarchia
ecclesiale; un potere che oramai non aveva più la sua origine nel capitale, ricchezza mercantile volta al bene
comune.

29
Tra i sermoni di cui è rimasta memoria quello sul Corpo di Cristo tenuto da Donato Acciaiuoli il 13 Aprile 1468,
quello sul corpo di Cristo tenuto da Cristoforo Landino, quello sull’Ultima Cena tenuto da Filippo Pandolfini l’11 Aprile
1476, quello di Filippo Carducci sulla Penitenza del 30 Aprile 1485, quello di Bernardo d’Alamanno de’ Medici sulla
Crocifissione, quello di Giorgio Antonio Vespucci sulla Crocifissione, quello di Giovanni Nesi sulla Carità del 23 Marzo
1485/86. Il testo di questi sermoni è riportato da Rab Hatfield, The Compagnia de’ Magi, Journal of the Warburg and
Courtauld Institutes, vol. 33, 1970, pp. 153-161.
30
Luca Landucci, Diario Fiorentino dal 1450 al 1516, Firenze, Sansoni, 1883, p.161.
11
Fig 3. Baccio Baldini, Il pianeta Mercurio, 1460 ca. (British Museum, Prints & Drawings Department, 1845,
0825.475)

12
4 CRISI ECONOMICA E CRISI MORALE

Con Savonarola finiva il protettorato quattrocentesco della mercatura su Firenze. Andava a scomparire
quella città che ancora nel 1460 Baccio Baldini rappresentava, in una delle sue celebri incisioni dei Pianeti,
come nata sotto il segno di Mercurio, Dio romano dei mercanti31 (fig.3). Unica ad avere uno scenario
urbano, la tavola Baldiniana di Mercurio riassume simbolicamente tutte le caratteristiche di una Firenze
mercantile nella quale ancora il profitto si armonizzava con il bene comune. Al centro della tavola una
piazza in fronte alla sua chiesa, come quelle del Trecento fiorentino, volute dai frati degli ordini minori per
predicare al popolo. Una coppia vi passeggia a braccetto, simbolo di armonia e pace, doni di Mercurio e
fonte di prosperità per i commerci. Tra i palazzi che contornano la piazza una loggia uguale a quella che tra
il 1376 e il 1382 era stata edificata in Piazza della Signoria perché il popolo potesse testimoniare le
cerimonie ufficiali della Repubblica fiorentina e partecipare alle assemblee. Nella via che mena alla piazza,
poi, un oste a tavola con il suo elegantissimo avventore, uno scultore all’opera su un busto, il cliente di una
ricca bottega di oreficeria. Nei palazzi, infine, studiosi, musicisti, artigiani al lavoro ed un garzone ad
operare il complesso meccanismo di un orologio. Baldini rappresentava così il fiorire di Firenze per i doni di
Mercurio: eloquenza nelle trattative diplomatiche come commerciali, intelligenza speculativa nella
matematica e nella musica, e intelligenza pratica nell’attitudine artistica ed artigianale. Al centro della
tavola i Magi, simbolo ancora una volta del legame tra conoscenza, ricchezza e rivelazione divina, degni
Signori della Città.

Cosa aveva incrinato irreparabilmente quest’immagine di prosperità ed armonia, questo motore di crescita
economica? Mercurio aveva istigato le sue aquile a volare lontano da Firenze, oppure Firenze aveva
rinnegato Mercurio?

Una delle tesi più accreditate dai contemporanei sulle ragioni della crisi istituzionale e religiosa della
seconda metà del Quattrocento era il venir meno del delicato rapporto tra vizio privato e pubblica virtù
costruito da mercanti ed ordini monastici fiorentini in quasi un secolo di storia. La ragione di tale rottura
era, ad esempio, chiaramente espressa nel 1478 da Fra Giovanni di Carlo dei Berlinghieri, domenicano di
Santa Maria Novella: i mercanti non erano più quelli di una volta, eccedevano nel lusso ad uso personale a
scapito del bene comune. Così lamentava il domenicano: “Itaque, omnia sua in edificiis conferentes multa
aureum milia imprudenter muris committunt, que, si negociationibus applicarent, et sibi et ceteris omnibus
plurimum commodi et utilitatis afferent. Age vero, quod superbus ille apparatus in tectis, et in civitate et
agris, haud nisi summa impensa et sumptu quam maximo fieri vel conservari potest, nec absque iniuria et
sumptu quam maximo fieri vel conservari potest, nec absque iniuria et oppressione multorum. At
antiquorum tanta solertia et probitas fuit, ut et domu in urbe honestam et ruri sue conditioni parem habere

31
Gianluca Belli, Gli spazi del mercante e dell’artefice nella Firenze del Quattrocento, in: Donata Battilotti, Gianluca
Belli e Amedeo Belluzzi, Nati sotto Mercurio. Le architetture del mercante nel Rinascimento fiorentino, Firenze,
Edizioni Polistampa, pp. 7-72.
13
curarent, nec regias domos, nec tam variam superlectilem postularent. Quanta etiam in victu luxuria sit,
satis impromptu est. Quis namque dabitur, qui non se famulo pedissequa, varioque vestium apparatu
aratioque- ut dicunt- panno, convivio splendido, frequentibus conpotationibus cotidianaque refectione
domi non se existimet dignum? Ergo Metellos plurimos, Scipiones Maximos multos domi habemus. Mallem
autem Fabritios, Decios vel Camillos aut Curtios, qui se pro patrie salute ingentibus periculis obiectarunt.
Proinde optimates omnes, quilibet vero civitatis primarius est, ac quisque summis in civitate viris semet
arbitratur merito comparandum. Hinc igitur omnium labes et confusio rerum progreditur, hinc civitatis ordo
omnis ammittitur, quem in vario personarum genere positum esse scimus; hinc urgia, hinc dissensiones,
hinc civiles discordie, ad extremum hinc profecto intestina oriuntur in civitatibus bella»32

Il prevalere dell’interesse privato nella classe dirigente mercantile sarebbe dunque stata l’origine delle lotte
intestine tra le grandi famiglie fiorentine, ma anche della rottura dell’armonia di interessi con il popolo
minuto. Una deriva morale cui molti attribuivano pure la rovinosa crisi del banco de’ Medici sotto la
direzione di Lorenzo il Magnifico33. I problemi di Firenze erano allora uno specchio dei problemi dell’azienda
medicea. La virtus magnificentiae, mutata in damnatio, aveva spinto i soci, soverchiandone l’onestà, ad una
gara di dissipazione che aveva minato irreparabilmente la profittabilità delle filiali del Banco. Sprecato in
inutili spese, il capitale dei mercanti non portava più frutto. I Fiorentini, voltate le spalle a Mercurio, ne
avevano perso irrimediabilmente i doni.

E’ indubbio che il clima culturale del Quattrocento fiorentino, immerso in quella contabilità escatologica per
la quale le azioni e le intenzioni acquisivano valore morale solo in quanto riferite al giudizio divino,
facilmente spingeva a ricercare come causa di crisi economiche e istituzionali una qualche mancanza
morale della quale le difficoltà rappresentavano la meritata punizione divina. Facile altrimenti anche
inferire, nei termini della più moderna diatriba sull’origine dello spirito del capitalismo, che seppur
Antonino aveva parlato del denaro dei mercanti fiorentini del Quattrocento come di capitale, i mercanti
stessi non potessero esser definiti capitalisti, poiché il loro lavoro non era ricompensa a sé stesso e non
provavano maggior soddisfazione ad investire piuttosto che a consumare. L’attività economica non era,
insomma, fine a sé stessa e la razionalità allora prevalente non aveva fini economici, ma piuttosto politici e
religiosi. Di sistema amministrativo, in senso weberiano, si sarebbe trattato e non di accumulazione
capitalistica. Il profitto era, appunto, servo del bene comune e non viceversa. Da qui, alla fine del
Quattrocento, il fallire del Banco mediceo, nell’amministrazione del quale considerazioni politiche spesso
avevano prevalso su quelle economiche, da qui il ritorno all’ascesi nella pratica religiosa e l’allontanamento

32
Citato da Salvatore I. Camporeale, Giovanni Caroli e le “Vitae Fratrum S. M. Novellae”. Umanesimo e crisi religiosa
(1460-1480), MD, n.12, 1981, p. 257.
33
Raymond De Roover, Il banco Medici dalle origini al declino (1397-1494), Firenze, La Nuova Italia Editrice, pp.519-
44.
14
del denaro dalla sua funzione mercantile e produttiva. Come potevano, d’altra parte, i Magi rappresentare
l’ideal-tipo weberiano del capitalista razionale?

Nel giudizio dei contemporanei, dunque, l’origine della crisi quattrocentesca era lo sguardo dei fiorentini
non abbastanza rivolto verso il Cielo; la critica weberiana, invece, era di uno sguardo ancora troppo rivolto
al Cielo perché la crescita economica acquisisse tratti moderni, abbandonando le ciclicità malthusiane. In
entrambi i casi un problema dello spirito avrebbe generato quelli politici ed economici.

Solo più di recente è stata avanzata34 e verificata in innumerevoli studi dai risultati altamente controversi35
la possibilità che le percepite criticità della società fiorentina della seconda metà del Quattrocento fossero
conseguenza e non causa di una stagnazione che si sarebbe protratta per più di un secolo a partire dalla
grande peste. Le condizioni economiche, insomma, avrebbero determinato in buona misura la percepita
inadeguatezza istituzionale e la crisi religiosa.

La valutazione della reale esistenza e consistenza di tale crisi economica è, tuttavia, difficile perché da un
lato i dati statistici sono insufficienti per dare una risposta univoca ed incontrovertibile alla questione,
dall’altra i contemporanei, come sottolineato, difficilmente attribuivano ai fatti economici un ruolo centrale
nel processo storico. Vero è che quando Lorenzo il Magnifico nel 1481 si lamentava che: “al presente non
osservo l’ordine di mio padre del ’69, per essere gran differenzia da quel tempo a questo et per aver
ricievuto molti danni in diversi mia traffichi (…)”36, dipingeva una situazione nella quale, indubbiamente, il
capitale, non trovando impieghi remunerativi quanto in passato, stentava a generare profitti sufficienti a
ripagare quanti affidavano i propri denari ai Medici aspettandosi un rendimento ben superiore al dieci per
cento. Questo era una conseguenza di cause contingenti: della caduta di Costantinopoli, della successiva
guerra tra Venezia ed i turchi, del variare improvviso delle rotte commerciali dovuto alla difficoltà nel
reperire materie prime necessarie alle attività manifatturiere toscane; ma anche del mutato rapporto tra i
fattori produttivi, capitale e lavoro, seguito alla peste di metà Trecento. La drastica diminuzione della
popolazione aveva allora reso il lavoro scarso ed il capitale abbondante in un clima generale di grave
riduzione della produzione. Il lavoro era improvvisamente divenuto, perché scarso, più remunerativo,
migliorando le condizioni di vita dei sopravvissuti. Anche l’agricoltura, non più costretta alle terre marginali,
avrebbe nel tempo aumentato le rese. Chi invece aveva sofferto della diminuzione della produzione erano,
appunto, i traffici e gli impieghi di capitale. Il capitale più abbondante e meno richiesto rendeva meno: i
banchi fiorentini quattrocenteschi non raggiunsero più le dimensioni di quelli trecenteschi, diminuendo
drasticamente di numero. Fra il 1422 ed il 1470 i banchi grossi che operavano a livello internazionale

34
Robert S. Lopez and Harry A. Miskimin, The Economic Depression of the Renaissance, Economic History Review,
n.14, 1962, pp. 408-26.
35
Per una valutazione storiografica del problema si veda: Judith C. Brown, Prosperity or Hard Times in Renaissance
Italy?, Renaissance Quarterly, Vol. 42, N. 4, 1989, pp. 761-780.
36
Raymond De Roover, Il banco Medici dalle origini al declino (1397-1494), Firenze, La Nuova Italia Editrice, p.541.
15
scesero da 72 a 3337. Anche l’attività della zecca non raggiungese mai più i livelli straordinari degli anni ’40
del Trecento38. La manifattura non costituiva una valida alternativa agli impieghi nel commercio rarefatto.
Dopo la peste la domanda di beni di consumo si era ridotta quantitativamente, spostandosi al contempo su
una fascia di prodotti di maggior qualità in conseguenza del migliorato reddito pro-capite della
popolazione. Questa domanda era facilmente soddisfatta da una produzione di buona qualità che non
necessitava ancora della meccanizzazione dei processi. Non errato calcolo economico, dunque, né la
sovraimposizione di considerazioni politiche, ma piuttosto la scarsità di impieghi alternativi avrebbe spinto i
Medici a scegliere di investire, con alto rischio, nel finanziamento della guerra delle due rose e delle
campagne militari di Francesco Sforza. Per le stesse ragioni per le quali falliva il Banco dei Medici si sarebbe
contratto l’intero settore bancario fiorentino, mentre fiorivano l’agricoltura, con colture dall’alto valore
aggiunto rivolte al mercato, la manifattura locale e l’artigianato di qualità. A queste attività si sarebbero
rivolti nei secoli a venire i capitali fiorentini e lì si sarebbero sviluppate le future classi dirigenti.

All’opposto di questa tesi si può, ovviamente, anche asserire, e lo fa parte della storiografia recente39, che
non vi sia stata alcuna contrazione, ma sia addirittura rilevabile una crescita nell’economia fiorentina del
Quattrocento. Le variazioni demografiche, le guerre continue, i fallimenti bancari ripetuti avrebbero
dunque stimolato e non arrestato la capacità innovativa degli imprenditori fiorentini, spingendoli ad
adattare la struttura organizzativa delle imprese, ad estendere le reti mercantili di approvvigionamento e di
vendita, a raccogliere capitale e diminuire i rischi tramite l’accomandita, ad investire in nuovi settori, a
conquistare nuovi mercati. Ovviamente, data questa realtà economica, la crisi delle strutture repubblicane
della città toscana non troverebbe più né fondamento né conseguenza in alcuna crisi o stagnazione dei
traffici: nessun legame vi sarebbe tra economia ed istituzioni, tra spirito e materialità. Del perché in mezzo
a tanta abbondanza e tanto spirito capitalistico, a Sant’Antonino non abbia fatto seguito alcuna originale
formulazione del pensiero economico, almeno fino alle considerazioni degli agronomi ed economi
settecenteschi, nemmeno Goldthwaite, autorevole voce di questa tesi storiografica, sa tuttavia dare
conto40

Che di crisi, di stagnazione o di estrema variabilità delle condizioni economiche si sia trattato, rimane
dunque ancora da chiarire se ed in quale modo questi cambiamenti nell’economia fiorentina possano avere
influito sulla percezione che i contemporanei avevano della crisi istituzionale quattrocentesca e sulla
teorizzazione economica; quanto, insomma, siano davvero state le condizioni economiche, quali che
fossero, a determinare lo spirito del tempo e non viceversa. Non vi è dubbio che il diverso rapporto di forza
37
Raymond De Roover, Il banco Medici dalle origini al declino (1397-1494), Firenze, La Nuova Italia Editrice, p.543.
38
Richard A. Goldthwaite, The Economy of Renaissance Florence, The John Hopkins University Press, Baltimora, 2009,
pp.52-53.
39
Il contributo più autorevole a sostegno di questa tesi è: Richard A. Goldthwaite, The Economy of Renaissance
Florence, The John Hopkins University Press, Baltimora, 2009.
40
Richard A. Goldthwaite, The Economy of Renaissance Florence, The John Hopkins University Press, Baltimora, 2009,
pp.590-94.
16
tra capitale e lavoro dopo la peste trecentesca, lo spostarsi della reddittività tra i settori produttivi, il
rafforzarsi del popolo minuto sfociato nella rivolta dei Ciompi, il rarefarsi della classe dirigente mercantile
impegnata in reti geograficamente sempre più disperse e l’espandersi di una classe imprenditoriale e
manifatturiera localizzata sul territorio scompaginarono gli equilibri sociali e politici della Firenze
quattrocentesca. Di tutto ciò nelle cronache contemporanee, impermeabili alle valutazioni economiche,
rimane, appunto, il senso di precarietà e di inadeguatezza delle istituzioni.

Quando gli istituti medievali che regolavano i rapporti economici fino al Trecento persero rilevanza, essi
furono sostituiti dall’alleanza tra potere mercantile ed ordini religiosi di cui si è detto. Nasceva così la
Firenze raffigurata da Baldini, nella quale a regolare i rapporti economici erano unicamente i precetti morali
della Chiesa. Sant’Antonino non guardava la realtà a lui contemporanea con gli occhi dell’economista che
analizza le variabili economiche ed il loro interagire all’interno di un sistema, ma come pastore che vuole
salvare la salute morale del suo gregge da un secolo nel quale i rapporti economici non erano più
istituzionalizzati. Quanto la Firenze mercantile si reggesse su un quadro istituzionale fragile, basato sulla
virtù morale dei suoi componenti, lo testimoniò negli anni ’20 del Quattrocento Anselmo Calderoni, araldo
prima del Conte di Urbino e poi della Signoria di Firenze, tessendo in versi le lodi della sua città:

“Comincio a’ diecimila cittadini


governator di quell’alma cittade
ch’ogniun con sua virtù reggeria ‘l mondo,
con infinito numer di fiorini,
con l’altro popol, ch’è gran quantitade,
uniti per lo stato lor giocondo,
veri amici di Dio. E non m’ascondo:
di chiese e di spedal v’è sì gran novero,
che creder no ‘l potria chi no ‘l vedesse,
con limosine spesse,
perché sia bene steso a ogni povero,
maritando donzelle assai in disparte:
per Dio, et basti a questa prima parte.
Poi, per mantener ben lor libertade,
ti vo’ contar quattro ordini che egl’ànno,
in fra gli altri durabili in eterno.
Primo del Monte di quella Cittade,
ch’ogni danajo che al Comun prestato ànno,
rianno il merto, s’io ben ver discerno.
Secondario è lo specchio d’un quaderno,
ch’al termin non pagando la gravezza,
v’è scritto su, et odi per che indizio:
che, sendo tratto a ufizio,
si strama e priva con gran rigidezza;
onde ciascun, per non perder l’onore,
paga prima che aspetti tal furore.
Terzo si chiama dar la petizione:
che s’un possente oppressasse il minore,
ricorrer possi a piè la Signoria;
17
e se quel poveretto à la ragione,
e’ si forma un processo a quel maggiore,
per modo tal che torna presto al quia.
L’ordine quarto ch’à la citta pia
sono e divieti, opera bona molta:
che d’una gesta e d’una compagnia
non voglion che ne sia
d’ufici dentro mai più ch’un per volta;
e molti altri divieti, sì che tocca
la parte a tutti, e nessun apre bocca.41
Calderoni descriveva una Firenze sì socialmente divisa in due classi, quella mercantile al potere che
raccoglieva un quarto circa della popolazione cittadina ed il popolo minuto, ma anche unita dall’infinito
numero di fiorini: una prosperità economica che, grazie alla virtù della classe mercantile, generava una
messe di opere pie, benessere diffuso e fede religiosa. A reggere l’armonia di questa Firenze quattro sole
regole dal valore supposto eterno: che i soldi forzosamente prelevati dal Comune fossero restituiti ai
cittadini con gli interessi; che i debiti dovessero essere sempre pagati a meno di pene severissime; che
l’equilibrio di potere tra i cittadini fosse garantito dal sistema della petizione per la quale un appartenente
al popolo minuto poteva chiedere giustizia di un torto subito da una delle famiglie al potere direttamente
alla Signoria; che non si potessero cumulare cariche ed uffici in modo che ad ognuno toccasse la sua parte.

Proprio le regole eterne di Calderoni, tuttavia, vennero disattese nella seconda parte del Quattrocento. Il
rarefarsi della classe oligarchica mercantile, divisa al suo interno e decimata da scontri, esili e congiure e
non in ultimo dalla necessità di estendere i commerci con reti sempre più ampie, il ripetersi di crisi
finanziarie, spesso usate a scopo politico o aggravate dalla mancanza di sbocchi produttivi al capitale e la
concentrazione del potere nelle mani della fazione medicea resero l’assetto istituzionale repubblicano e le
norme morali sulle quali era basato obsoleti. I conti spesso non si pareggiavano ed il Monte per primo
riusciva solo a ripagare gli interessi sui prestiti forzosi comminati ai cittadini; il catasto, che avrebbe dovuto
garantire una certa giustizia impositiva, veniva a più riprese abolito; i Medici stessi si resero colpevoli di
malversazioni, le cariche pubbliche si trasformarono in un feudo delle famiglie vicine al potere e nemmeno
la religione venne risparmiata da questa furia di controllo ed accentramento. Della Gerusalemme celeste
voluta ed edificata dai fiorentini rimaneva ben poco. Girolamo Savonarola aveva facile gioco nel preferirle
“una casa di polvere”42 e Fra Giovanni di Carlo dei Berlinghieri, che pure fu uno dei suoi principali avversari,
rappresentava la crisi del suo ordine e della sua città con i toni apocalittici della caduta di Troia: le mura

41
Francesco Flamini, La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi del Magnifico, Pisa, Tipografia Nistri, 1891,
pp.73-75.
42
Girolamo Savonarola Vincenzo Romano, Prediche sopra Ruth e Michea, Volume 1, Edizione nazionale delle opere di
Girolamo Savonarola, A. Belardetti, 1962, p.300.
18
crollavano perché erano state malamente costruite proprio da coloro che avrebbero dovuto difenderle43.
Nel 1480 Baldovino de’ Baldovini, notaio “immerso – a suo dire - nel secolaresco vivere”, scriveva:

“Cerchi, legha et scriva chi vuole le fiorentine istorie in che modo con quanta fatica et industria la ciptà
nostra sia diventata grande et il fiorentino nome per le universe parte del mondo maravigliosamente
disteso; e’ grandi, richi et potenti ciptadini ch’ella ha hauto, le varie et diverse mutatione, le guerre, le
bactaglie, e pericoli, le peste et come nel meço delle fatiche amplificata sia. Ma noi diriçando gli sguardi
nostri al cielo [l...] a dio dove egli è andare. Habbiendo passato la maggior parte di questa nostra mortale
vita la quale quanto più crescie più scema, quanto più va innanzi più torna adrieto et pensando e’ mali, le
fatiche e gli affanni del misero mondo, el quale chi lama non lo cognoscie et trovandoci in tempestoso mare
tra periculosissimi scogli, raccogliamo hora mai le vele et le sarte et lasciando l’altitudine de’ pelaghi e
grandi navicamenti sospiriamo a lito, raguardiamo in che modo conducere possiamo la navicella nostra a
porto di salute et fra’ sudori del cammino aspro et duro parliamo co’ sancti, intendiamo le liete novelle
della superna patria. Gustiamo le dolcezze della vera filosofia et doctrina sancta, stiamo attenti alle
meraviglie del padre et creatore nostro acciò non erriamo la via et ragionando, ragionando ci troviamo
pervenuti al desiderato luogho non solamente sança fatica ma allegramente”44.

All’instabilità delle condizioni economiche, al rinnovato sconvolgimento delle istituzioni, fragili per non
esser garantite se non dalla moralità cristiana, Firenze reagiva abbandonando la vita attiva per la vita
contemplativa. Così, tanti giovani delle famiglie dell’oligarchia mercantile seguirono il richiamo di
Savonarola e lasciarono i traffici per prendere i voti. Un’ultima Adorazione dei Magi, quella dipinta da
Leonardo nel 1482 (fig.4), dà conto di questo ritorno ad una religione ascetica, ammantata di povertà. I
Magi stavolta sono vecchi rivestiti di umili panni ed alla minaccia delle guerre, rappresentate in alto a
destra dallo scontro tra cavalieri, si risponde con la ricostruzione del tempio, a sinistra, su rinnovate basi di
fede. Completamente assente l’apparato simbolico mercantile: la ricchezza delle vesti, il corteo sfarzoso, le
corone simbolo del potere temporale, ma anche un qualsiasi accenno alle tesi ficiniane, alla prisca
theologia od alla sapienza ermetica.

Mercurio volgeva il suo sguardo ed il suo carro lontano da Firenze, a quelle coste atlantiche ove, con la
scoperta dell’America, Olandesi ed Inglesi attendevano i suoi doni di prosperità e sapienza. Nello stesso
tempo nel quale il Fiorino perdeva il ruolo di moneta d’oro dell’occidente cristiano, nello stesso tempo nel
quale i Fugger ed i genovesi strapparono ai banchieri toscani i più lucrosi affari bancari e mercantili, Firenze,
paga della reddittività della attività in essere e del suo innegabile e generale benessere, ripiegava

43
“At ii inremisso studio fila revolvunt, ii diram fatorum sortem in se ipsos legunt, ii presidia diruunt, qui illa omni
diligentia cofirmare debuissent. Non ergo deum iure, non sydera, non ad extremum nos ipsos accusare quisquam
potest”. Salvatore I. Camporeale, Giovanni Caroli Dal "Liber dierum" alle "Vite fratrum", MD 16 (1985), p.222.
44
Biblioteca Riccardiana di Firenze, Mss. Riccardi 1333. Citato da Maria Pia Paoli, S. Antonino «vere pastor ac bonus
pastor»:storia e mito di un modello, in: Gian Carlo Garfagnini e Giuseppe Picone (a cura di), Verso Savonarola.
Misticismo, profezia, empiti riformistici fra Medioevo ed Età moderna, Firenze, Sismel, 1999, p.86.
19
lentamente su una economia prevalentemente artigianale e agricola, con un occhio sempre rivolto al cielo
ed alla salvezza dell’anima. Garantiti i bisogni, il sistema economico amministrativo, nell’accezione
weberiana, aveva raggiunto il suo fine e non se ne poneva altri, men che mai l’accumulazione. Se il capitale,
dunque, è nato tra le mani dei mercanti fiorentini, il capitalismo sicuramente no. Posti di fronte
all’irreparabile separazione tra il vizio privato del profitto e la virtù pubblica, i fiorentini del Quattrocento
reagirono con le preghiere, non con l’analisi economica, che per questo non conoscerà avanzamenti
originali e significativi fino alla fine del Settecento.

4 CONCLUSIONI

L’intreccio indissolubile tra economia e morale civile e religiosa a Firenze nel Quattrocento si espresse
iconograficamente nella figura dei Magi, saggi nati sotto il segno di Mercurio, dotati di potere temporale e
spirituale. Attraverso le vicende di questo soggetto pittorico e della coeva rappresentazione sacra della
Cavalcata de’ Magi è possibile seguire la trasformazione dell’oligarchia mercantile fiorentina da
ordinamento istituzionale basato sul connubio tra capitale e bene comune nella Signoria assolutistica e
clientelare dei Medici. Nello scorrere del Quattrocento Firenze, Repubblica de’ Magi45, perse le sue
fondamenta: la redistribuzione del reddito secondo il pubblico interesse, quel numero infinito di fiorini che
dai profitti mercantili si riversava su tutta la popolazione, e la libertà degli istituti repubblicani, strutturati,
secondo Calderoni, “sì che tocca la parte a tutti”.

Il tentativo di Sant’ Antonino di codificare in precetti morali la giustizia negli scambi, nei rapporti di lavoro e
nei contratti monetari, di giustificare il dispendio mediceo con la virtù della magnificentia, giungeva quando
oramai vi era una diffusa percezione dell’inadeguatezza delle istituzioni cittadine ad affrontare i dissidi
interni e le guerre esterne, dell’impossibilità di conciliare l’interesse privato con quello pubblico. La risposta
ai problemi politici, alla variabilità economica e sociale fu un cambiamento istituzionale che escludeva il
capitale dal governo della res publica, chiudendo anche la stagione più innovativa della riflessione
economica degli ordini minori.

45
Così Donato Acciaiuoli definiva la Compagnia de’Magi comparandone la struttura istituzionale a quella di Firenze.
Rab Hatfield, The Compagnia de’ Magi, Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, vol. 33, 1970, p. 139.
20
Fig. 4 Leonardo da Vinci, Adorazione dei Magi, 1481-1482, Galleria degli Uffizi, Firenze

21

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