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Introduzione

Nel suo libro “L’immagine dell’uomo”, G. Mosse si ripropone di percorrere la storia dello stereotipo di virilità
e di come questo sia diventato normativo. In questo percorso, Mosse ricorda che la virilità, sebbene possa
essere trattata come argomento a sé stante, dev’essere sempre relazionata alla società coeva: analizzare l’ideale
virile significa anche parlare di nazionalismo, fascismo, socialismo, comunismo e ideali e meccanismi della
società.
La virilità si proponeva come unico insieme fin dall’inizio: corpo e anima dovevano rappresentare un equilibrio
armonico di apparenza esteriore e virtù interiore. Inoltre, lo stereotipo oggettivizza la natura umana, facilitando
una comprensione immediata e un giudizio rapido.
Sembra possibile, in questo percorso, affiancare la virilità ad alcune parole chiave, strettamente collegate tra
di loro, che ci permettono di comprendere meglio l’affermazione e il radicamento dello stereotipo virile nella
società moderna e non solo.
La prima parola chiave è simbolo: alla stregua di immagini politiche quali la bandiera nazionale, anche il corpo
umano andava assumendo un significato simbolico. Questo avveniva soprattutto alla fine del Settecento,
quando l’Europa occidentale tendeva ad autorappresentarsi attraverso l’immagine visiva, supportata da quelle
scienze che classificavano gli uomini sulla base di una bellezza classica.
La seconda parola chiave, quindi, è nazione: ogni stereotipo rispecchia la società, più largamente intesa, in
particolare le sue norme sociali, alle quali l’individuo si deve conformare, ma anche le sue paure e i suoi
cambiamenti.
Lo stereotipo maschile era però rafforzato da un suo omologo negativo (terzo punto chiave): quest’ultimo
includeva tutti coloro che, nel corpo e/o nel comportamento, non riuscivano o non volevano adattarsi alle
norme sociali, finendo così per enfatizzare per contrasto lo stereotipo maschile.
Collegato a questo punto è il carattere pubblico dello stereotipo (quarto punto chiave): gli invisibili, gli esclusi,
erano visibili agli occhi di tutti, ed è per questo che gli stereotipi acquisivano un rilievo sociale e politico.
Dal momento che si trattava di educare gli occhi di un pubblico vasto, artisti e movimenti sociali e politici
(quinto punto chiave) fecero la loro parte: reduci dell’insegnamento della Rivoluzione francese, che aveva
messo in chiaro come l’appoggio delle masse contasse molto, anch’essi allenavano l’occhio e usavano
immagini visive per farsi conoscere.
L’ultima parola chiave è nazionalismo: movimento nato e sviluppato in parallelo con la mascolinità moderna,
ebbe un ruolo chiave poiché lo stereotipo maschile fu uno dei modi in cui si autorappresentava.
Fu la società stessa a diffondere quell’ideale: tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, la società delle
classi medie contribuì a creare e diffondere uno stereotipo maschile leggermente diverso da quello
aristocratico, più adatto alle esigenze di una nuova società borghese.
Quanto più una società si mostrava tollerante nei confronti della cosiddetta anormalità o legittimava qualcosa
di anticonvenzionale, tanto più lo stereotipo normativo interveniva a tirare le redini.
Non erano solo gli uomini ad incarnare il simbolo pubblico della nazione: anche l’immagine della donna fece
la sua parte. Com’è facilmente intuibile, però, le donne impersonavano le qualità materne della nazione, tra i
valori più cari, ed erano spesso rappresentate con un aspetto sereno e un atteggiamento passivo: anche questo
era uno stereotipo normativo a cui dovevano adeguarsi.
L’autore, nel suo libro, analizza lo stereotipo maschile di stampo aristocratico e la nascita di quello moderno
(borghese) e cerca di capire come sia stato possibile raggiungere questo modello di virilità. Dopo aver preso
in esame i vari controtipi e alcune tipologie di uomini nuovi, si preoccupa di prendere in esame gli strumenti
che la società ottocentesca usò per diffondere la virilità in pratica, dedica un intero capitolo all’uomo fascista
(e nazista) e conclude indagando lo stereotipo maschile nell’età contemporanea.

1: La nascita dello stereotipo

Lo stereotipo moderno della virilità, quello di cui è intriso anche la nostra società, fu edificato durante l’epoca
della società borghese; tuttavia, è impossibile parlare di esso senza prima accennare allo stereotipo mascolino
aristocratico e ai contributi che diede a quello nuovo. Il cambiamento non fu repentino e alcuni tratti furono
destinati a durare nel tempo.
Nella società aristocratica il modello virile a cui l’uomo doveva ispirarsi era quello cavalleresco e il mezzo per
dimostrarlo era il duello.
Inteso come combattimento tra due uomini di fronte a testimoni per difendere l’onore, il duello era già stato
ritualizzato nel XVI secolo: un rito in cui ci si appellava tacitamente al giudizio di Dio. L’onore aristocratico,

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che tanto veniva difeso, era contraddistinto non solo dal coraggio e dal sangue freddo, le due virtù
imprescindibili per difenderlo, ma anche al lignaggio, al sangue e alla discendenza nobiliare. Nella tradizione
cavalleresca l’onore era un attributo individuale, stabilito dalla posizione, dalla reputazione e dalla dignità del
singolo. Il cavaliere doveva anche essere nobilitato dall’amore puro di una donna.
Molte delle qualità di cui doveva essere dotato il cavaliere perfetto, tra cui lealtà, rettitudine, prodezza, sobrietà
e perseveranza, erano straordinariamente adattabili allo stereotipo maschile moderno.
Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento il duello non solo rafforzava il senso di autonomia e di
personalità, ma anche quello di appartenenza ad una determinata classe sociale; questo diventò sempre più
importante nell’Ottocento, a tal punto da diventare parte integrante della vita di ufficiali, studenti, politici e
uomini in affari, ma anche ebrei (controtipi), che lo usavano per dimostrare di essere tutt’altro che vili e poco
virili.
Per quanto riguarda l’aspetto fisico, così fondamentale nello stereotipo moderno, anche in età aristocratica
aveva la sua importanza. Nel medioevo, e agli inizi dell’età moderna, attraverso l’abito si poteva stabilire di
che rango fosse un uomo, e anche la posa virile e cortese aveva un suo peso. Tra la fine del Settecento e l’inzio
dell’Ottocento l’attenzione era concentrata più che altro sul corpo maschile stesso, dando vita ad un modello
di classificazione di bellezza precostituito completamente assente in passato.
Lo stereotipo mascolino racchiudeva al suo interno valori fisici e morali ed enfatizzava la percezione visiva
come mai prima di allora. Poiché la nazione e la società si contendevano l’appoggio delle masse, il modo
migliore era concentrare la loro attenzione su simboli trasparenti e di immediata comprensione: lo stereotipo
divenne quindi un simbolo.
Il collegamento tra corpo e anima era alla base dell’idea di bellezza dello stereotipo moderno e, se nel medioevo
e nella prima età moderna si pensava che il corpo fosse qualcosa di inerte abitato da un’anima vivente, fu
l’Illuminismo settecentesco a produrre la fusione tra corpo e anima.
Tra gli intellettuali che fornirono la propria opinione sul nuovo atteggiamento nei confronti dell’uomo e della
natura, vorrei prenderne in considerazione due, a mio avviso fondamentali per la costruzione del nuovo
stereotipo: Lavater, teorizzatore della fisiognomica, e Wincklemann, sostenitore della bellezza greca come
simbolo di un corretto comportamento morale e modello del nuovo stereotipo.
La fisiognomica fu importante per l’edificazione dello stereotipo moderno perché rappresentava in modo
immediato la coincidenza tra anima e corpo, morale e struttura fisica.
Secondo Lavater, infatti, la vera espressione del corpo erano i lineamenti fisici, come la forma del naso o il
colore degli occhi, e l’amore per il lavoro, la moderazione e l’igiene producevano salute fisica e membra
proporzionate.
Anche la medicina favoriva la coincidenza tra le caratteristiche fisiche e quelle spirituali: secondo questa
disciplina, infatti, la malattia lasciava un segno tanto sul corpo quanto sul carattere, rendendo immediatamente
visibile una condizione che, in precedenza, non poteva essere colta.
Per quanto riguarda il modello della bellezza a cui l’uomo doveva aspirare, l’ideale era quello della Grecia
antica, in particolare la scultura, che poteva essere ammirata nelle collezioni ed essere divulgata da descrizioni
e incisioni.
Wincklemann, bibliotecario di Sassonia da sempre appassionato di cultura greca, si trasferì a Roma nel 1759
e, durante il suo servizio presso il cardinale Albini, catalogò la sua collezione d’arte e scrisse le sue opere.
Le sculture assunte come paradigma da Wincklemann erano quelle di giovani atleti, i cui corpi erano sempre
snelli e ben proporzionati e nella struttura del corpo e del portamento erano esempio di potenza, virilità,
armonia e autocontrollo. Le statue più esemplificative erano quella dell’Apollo del Belvedere, il più bello tra
gli dei, e quella del Laocoonte e dei suoi figli strangolati dai serpenti.
Perché Wincklemann propose come ideale di bellezza l’equilibrio, la proporzione e la moderazione, tre
attributi simbolo di un’anima grande e serena? Perché per lui quelle statue erano proiezione di una bellezza
ideale che vedeva in astratto.
Se già gli antichi greci avevano dato grande importanza al senso della vista, ora la dimensione visiva diventava
addirittura scolarizzata e parte integrante della politica e della vita di ogni giorno. Le opere d’arte divennero
più accessibili, soprattutto nell’Ottocento grazie alla costruzione di musei, e gli edifici pubblici venivano
decorati con affreschi simbolo delle virtù delle città/nazioni.
L’ideale di Wincklemann, dunque, era perfettamente al passo con i tempi e faceva parte di una ricerca di
certezza ed elevazione tipico della nuova società; la ricerca del bello e la sua aspirazione vanno comprese
anche alla luce dei cambiamenti generati dalla rivoluzione industriale.
Il modello proposto da Wincklemann si radicò nella società a tal punto da non essere mai sostituito, seppure
un po’ modificato nel corso dei secoli.

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2 Ginnasti ed eroi, una bellezza virile

Una volta delineato il modello di bellezza, come si poteva raggiungerlo? Wincklemann aveva parlato del
ginnasio greco, dove gli esercizi fisici mettono in rilievo i tratti virili e la bellezza del corpo maschile nella sua
nudità.
La diffusione della ginnastica come strumento per irrobustire un corpo, al quale faceva da contraltare il buon
intelletto, fu un passo avanti fondamentale nella messa a punto della costruzione dello stereotipo.
Il testo di base della ginnastica fu quello di Muth che, insieme all’allievo Jahn, fu il fondatore di una tradizione
che influenzò anche Francia e Italia.
Muth ribadiva il collegamento tra corpo e anima, sottolineando però il primato del corpo. Inoltre, la bellezza
maschile era simbolo di virtù morale e la saldezza morale e l’igiene mentale erano spesso conseguenze della
forza fisica.
Muth era anche sostenitore della necessità di introdurre la ginnastica nel quadro dell’addestramento militare,
argomento che fu accolto con grande favore e che lo spinse ad introdurre, in una pubblicazione successiva alle
guerre napoleoniche, esercizi militari e l’addestramento al tiro; tuttavia, non lo fece volentieri e preferì sempre
tenere distinti gli esercizi militari dalla pratica ginnica. La ginnastica militare rientrava nella categoria
dell’addestramento vero e proprio, mentre i giochi di guerra, in cui di solito si assaltava una fortezza
immaginaria con un bastone (chi lo perdeva veniva espulso), venivano usati per rilassare il corpo e la mente.
Più che Muth, però, è Jahn, il suo successore, ad essere indicato come il fondatore della ginnastica moderna,
più che altro perché probabilmente fu lui ad attribuire alla disciplina un’impronta patriottica che Muth non
aveva.
Per Jahn la ginnastica fu sempre maestra di virilità, attività pubblica e comunitaria che plasmava lo spirito di
corpo della futura élite tedesca.
Lo spirito comunitario dei ginnasti, la tenacia e l’altruismo servivano, secondo Jahn, a plasmare patrioti pronti
ad impugnare le armi e combattere per la Germania in qualsiasi momento. Pur non trascurando l’importanza
dell’estetica della vera mascolinità, Jahn attribuiva alla ginnastica una dimensione onnicomprensiva (fu lui ad
introdurre, infatti, oltre alla scherma anche la danza, il nuoto, l’equitazione e le arti marziali), che non serviva
solo a plasmare corpi sani e belli ma anche (e soprattutto) a creare nuovi tedeschi.
Vorrei sottolineare la dimensione sacrale che Jahn attribuiva alla ginnastica e ai suoi atleti: per esprimere
meglio lo scopo dell’esercizio, Jahn usava la parola Turnen. I ginnasti si allenavano in gruppo, indossavano
abiti identici (fatti per esaltare le linee del corpo), e il Turnplatz, ossia il luogo in cui facevano esercizio, veniva
equiparato ad un santuario, in le leggende degli eroi germanici prendevano vita.
L’esempio di Muth e Jahn portò alla diffusione della ginnastica anche in Italia e in Francia, dove trovò sostegno
soprattutto negli ambienti militari: era da poco stata introdotta la leva obbligatoria e lo stato di salute ed
efficienza delle singole reclute era una preoccupazione prioritaria.
Al di là di come fu accolta nelle diverse nazioni, la ginnastica rimaneva un mezzo per elevarsi a modello della
vera mascolinità; qualunque fosse il suo scopo, la sua enfasi sulla struttura ed il portamento del corpo
confermavano e rafforzavano lo stereotipo maschile.
Per molti autori l’autocontrollo, la moderazione e l’armonia erano qualità non solo greche ma anche cristiane;
l’influenza del cristianesimo nella costruzione della vera virilità non va sottovalutata. Nonostante la società si
stesse progressivamente laicizzando, infatti, la morale era ancora governata dal cristianesimo.
Il pietismo stesso si occupava del problema della mascolinità: secondo questa concezione, Dio avrebbe dato
all’uomo una natura robusta nel corpo e nell’anima atta al compito di difendere e proteggere. Tuttavia, la
tenerezza, virtù maschile e cristiana, avvicinava la virilità evangelica agli attributi femminili, e per questo gli
evangelici stavano spesso sulla difensiva: temevano di essere accusati di debolezza, visto che quel tipo di
manifestazione emotiva era considerata assai poco virile.
L’enfasi sulla tenerezza e la compassione non bastarono ad impedire la comparsa, a metà Ottocento, di un
movimento evangelico, quello inglese, caratterizzato da una mascolinità aggressiva (movimento vigoroso),
che trasformò l’idea di robustezza di corpo e mente in un grido di battaglia contro ogni forma di peccato e
peccatore; una battaglia ingaggiata per difendere la nazione.
Il cristianesimo vigoroso tentava di fondare gli ideali tradizionali della virilità su basi cristiano-evangeliche,
ma le due radici non potevano coesistere, perché la moralità poteva anche essere cristiana, ma la mascolinità
si ispirava al gusto estetico dei greci. Forse l’aspetto esteriore non veniva ben definito, ma ciò non toglie che
l’uomo cristiano dovesse possedere un corpo ben sviluppato.
Alla virilità, quindi, si associavano l’eroismo, la morte, il sacrificio e la disciplina, ma anche l’idea di libertà,
che era al servizio di una causa, la cui dedizione santificava la vita e la morte era il requisito virile, e un corretto

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comportamento morale. La causa superiore a cui si votava l’eroe era, la maggior parte delle volte, la nazione,
la quale fece proprio l’ideale virile: ad esempio, gli eroi della rivoluzione francese combattevano in difesa
della patria e Jahn era pronto a schierare i suoi ginnasti sotto la bandiera tedesca.
Morte, sacrificio e patria si fondevano quindi in una triade che sarebbe rimasta annoverata a lungo tra le prove
della vera virilità. Da quel momento in avanti, virilità e patriottismo sarebbero stati strettamente collegati e fu
sempre il nazionalismo ad esaltare questo stereotipo maschile tra le forme della propria autorappresentazione.

3 Il controtipo

L’edificazione della mascolinità aveva modellato uno stereotipo di grandezza ed autocontrollo che combaciava
perfettamente con l’idea che la società voleva dare di se stessa, ma per farlo aveva bisogno di un ideale di
contrasto nel quale trovare la propria definizione.
Chi era marginalizzato dalla società costituiva un controtipo che rifletteva la condizione inversa della norma
sociale, ossia chi era diverso per origine, religione, lingua o chi veniva considerato asociale per avere
atteggiamenti non conformi alla norma.
Per gli esclusi era difficile la ricerca di un’identità, tanto che, fino a prima dei movimenti di emancipazione
negli ultimi decenni, la scelta era tra la negazione della propria identità e il suo riassorbimento nella norma
accettata. Inoltre, di solito gli esclusi erano persone instabili e prive di radici, come zingari, vagabondi, ebrei,
criminali abituali, pazzi e deviati sessuali.
La stessa sistematizzazione che si applicava allo stereotipo ora veniva usata sul controtipo; l’estraneo era
simbolo di alterazione fisica e morale.
Nel Settecento gli antropologi cominciarono ad usare criteri estetici nel giudizio sulla differenza tra i bianchi
e i cosiddetti popoli primitivi, e ad esaltare con metodi pseudo-scientifici dei confronti cranici e delle misure
facciali la bellezza fisica come attributo della superiorità della specie europea. Qual era dunque il canone
normativo della bruttezza? In sintesi, tutto ciò che era inverso alla bellezza: qualcosa di accidentale, privo di
armonia, una persona la cui struttura fisica non aveva contorni netti e il volto era deturpato da una fisionomia
mobile. La bruttezza era riferita anche alle caratteristiche mentali: ancora una volta, l’uomo esteriore era lo
specchio di quello interiore. L’aspetto disordinato era indice di una mente incapace di controllare le passioni,
l’onore maschile era diventato codardia, l’onestà era assente e la lussuria aveva occupato il posto della purezza.
Anche la medicina diede il suo contributo in questo senso: da sempre sostenitrice del motto mens sana in
corpore sano (una mente sana in un corpo sano), definiva come malati tutti coloro che non si adattavano alla
società costituita. Proprio alla fine del Settecento la medicina cominciava a considerare l’alterazione nervosa
come una malattia, collegata alle condizioni del corpo e secondo il medico inglese Sydenham, le donne erano
più portate all’agitazione mentale a causa della loro costituzione delicata. Gli uomini deboli e malati, quindi,
avevano sempre i nervi a pezzi e, oltre a rischiare l’accusa di essere effeminati, attraverso le condizioni del
corpo e della mente esprimevano l’assenza di virilità.
Salute e malattia erano dunque tra le condizioni che distinguevano l’inserito dall’escluso, poiché sul corpo di
entrambi vi erano segni facilmente riconoscibili.
Per quanto riguarda l’ebreo, si era convinti che la struttura fisica fosse diversa da quella dell’uomo normale e
la differenza si manifestava proprio nelle parti del corpo che più richiamano l’attenzione, ossia naso, piedi,
collo e colore della pelle.
Il naso ebreo divenne simbolo di un carattere inaffidabile, immorale e sospetto; l’ebreo aveva i piedi piatti, un
collo cortissimo, grandi orecchie e incarnato bruno e veniva spesso considerato come un vecchio consumato
dalla vita, in un’epoca in cui erano soprattutto i giovani ad essere apprezzati. Infine, si era convinti che l’ebreo
fosse sporco e che non avesse sufficiente cura del proprio corpo.
Anche gli omosessuali erano considerati una minaccia, più che altro perché si temeva che valicasse la barriera
del sesso: nel Settecento e nell’Ottocento, la distinzione tra uomo e donna doveva essere ben marcata, e un
eventuale superamento di questo confine destava ansia.
In realtà alla fine del Settecento la società diede prova di una certa tolleranza, nel senso che era disponibile a
chiudere un occhio, purché la cosa non fosse troppo lampante. La tolleranza, però, ebbe vita breve e non passò
molto tempo prima che anche gli omosessuali, come gli ebrei, fossero dotati di un corpo brutto e di una mente
perversa. Al massimo si ammetteva che potesse essere proporzionato, ma la sua bellezza era per forza di cose
incompleta.
Se ebrei e omosessuali avevano la possibilità, anche se difficilmente realizzabile, di potersi confondere nella
società e di essere addirittura assimilati, per gli zingari non c’era via di scampo: considerati fin dal Medioevo
una piaga sociale, come gli ebrei venivano accusati di diffondere malattie, essere sporchi, subdoli e disonesti,

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ma mancava una descrizione fisica; fino a quando il nazismo non ne decretò il parziale sterminio, si spostavano
e se ne stavano tra di loro, finendo per essere una presenza quasi scontata.
I pazzi, i criminali e i vagabondi rappresentavano tutto ciò che c’era di opposto alla norma sociale. Soprattutto,
i pazzi rappresentavano le conseguenze dei disturbi nervosi e si attribuivano loro contorsioni e smorfie
continue. I vagabondi, sporchi e disordinati, erano dipinti con lineamenti orrendi: anche loro, come gli altri
esclusi, non avevano lavoro, residenza e famiglia, un comportamento che per niente si adattava alla norma.
Per quanto riguarda le donne, esse non facevano parte degli esclusi ma occupavano un posto ben preciso nella
società. In genere considerate come angeli del focolare, nel tempo si mostrarono anche capaci di tentare e
massacrare gli amanti, la cosiddetta famme fatale di cui Cleopatra sembrava essere l’incarnazione perfetta.
La donna non era un’esclusa, formalmente, ma la percezione di ciò che la distingueva dall’uomo servì alla
causa dello stereotipo maschile.
Per secoli l’ideale di bellezza venne associato alla donna, ma, ora che anche gli uomini potevano rivendicarne
una, il modello maschile tentò di affermarsi come forma superiore di bellezza. In questa sfida esisteva anche
una componente sessuale: per gli uomini la sessualità era un fatto accidentale, per le donne era un obbligo
morale essere casta e moderata. Alla bellezza femminile mancava, infine, un rigore delle forme.
I diversi ideali di bellezza approfondivano la divisione dei sessi, che acquisì una definizione sempre maggiore
sul finire del Settecento.

5 La mascolinità in crisi, i decadenti.

Lo stereotipo della mascolinità moderna si era ormai affermato, esplicitando anche i modi per conseguire
l’autentica virilità, e raggiunse una stabilità tale da rimanere solido, di fronte a innumerevoli attacchi, per tutto
l’Ottocento e anche per buona parte del Novecento.
Uno dei motivi di tale stabilità è che l’ideale virile corrispondeva all’esigenza di ordine e progresso della
società e di un controtipo che ne rafforzasse la fiducia in se stessa. Inoltre, fin dagli esordi l’ideale virile fu
una delle modalità di autorappresentazione del nazionalismo, e questo contribuì a rafforzarne le basi.
Le esigenze della società, il nazionalismo e il processo di stereotipizzazione concorrono a spiegare l’assenza
di tensione drammatica nella storia della mascolinità moderna, anche se fu contrassegnata da alcuni momenti
di svolta ben precisi.
Uno di questi fu la fin du siécle, tra il 1870 e la Grande guerra: a prima vista questo periodo sembra tranquillo,
ma fu proprio in quegli anni che la società si mobilitò contro quelle istanze che mettevano in discussione alcuni
dei suoi presupposti fondamentali e minacciando l’immagine che aveva di se stessa.
In primis, le donne tentavano di spezzare i vincoli del ruolo tradizionale e uomini poco virili e donne poco
femminili si esibivano in modo sfacciato, minacciando quella divisione dei sessi da sempre tanto cara allo
stereotipo mascolino.
Un altro attacco proveniva dalle agitazioni operaie, dall’affermazione del movimento socialista, dalle crisi
economiche prolungate e dalle nuove tecnologie. Ancora, ci si preoccupava del calo demografico e si era
sempre più ossessionati dalla minaccia al benessere individuale.
La virilità veniva spesso discussa in termini medici, dal momento che la medicina era l’unica scienza che
sembrava rispondere alle ansie suscitate dalle malattie. Questo contribuì ad una maggiore apertura della
discussione sulla sfera sessuale: i medici ora ne parlavano e scrivevano con maggiore franchezza e cercavano
di portare in primo piano la cosiddetta devianza e altre manifestazioni patologiche.
La dissolutezza e l’assenza dei giusti freni morali minavano la società alle radici, minacciando di lacerarne il
tessuto; malattia morale e fisica coincidevano perché la prima lasciava tracce visibili sul corpo.
Degenerazione è diverso da decadenza: quest’ultimo termine veniva usato da poeti, ad esempio Baudelaire,
come indice di una nuova sensibilità, un affinamento dei nervi e dei sensi che non sempre veniva concepito
come negativo, e il modello di riferimento era l’androgino. Tuttavia, i due termini furono confusi così a lungo
che, ad un certo punto, diventarono intercambiabili.
La degenerazione e la decadenza venivano definite dai medici come caratteristiche di tutti gli estranei nel
momento stesso in cui essi manifestavano una maggiore sensibilità. Dagli anni novanta in poi, la presenza di
quei “degenerati” si fece sempre più visibile, e questo costituiva ovviamente una sfida costante alla
mascolinità.
Gli omosessuali avevano capito che il decadentismo era in grado di offrire loro un’occasione di ridefinire la
mascolinità: in queste condizioni, la divisione dei sessi era l’ostacolo più grande da superare. Omosessuali e
lesbiche erano accomunati dall’ammirazione per l’androgino, poiché rappresentava l’anima di un sesso

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imprigionata nel corpo dell’altro (tenendo presente le statue greche, era come se la grazia di Adone si fosse
fusa con la bellezza di Elena).
Secondo il decadentismo, l’androginia serviva a sfidare la mascolinità e la femminilità normative e a
legittimare la cosiddetta devianza sessuale: questo superamento della divisione dei sessi era reso possibile dal
culto della bellezza; l’androgino finiva per assumere una funzione liberatoria, era un’alternativa all’ideale
normativo della mascolinità.
Questa nuova visibilità coincise con l’aggressione scatenata contro le norme sociali dall’avanguardia letteraria
e artistica, che si opponeva alle restrizioni imposte alla libera espressione delle emozioni e della sessualità.
Un altro attacco alla mascolinità moderna proveniva da diversi movimenti nudisti, che invitavano chi teneva
all’educazione a spogliarsi dei vestiti per rigenerare il corpo: il sole, la luce e la natura incontaminata lo
avrebbero irrobustito, dandogli forza e salute.
Finché rimaneva astratta, la nudità non poteva creare problemi; ora invece veniva da praticata da gruppi
giovani e nudisti, i quali mettevano quindi in discussione l’immagine della virilità come simbolo della società
rispettabile.
Le donne in quanto tali non parteciparono alla decadenza intesa come sfida al maschio: in linea di massima
esse occupavano il posto di madri ed educatrici, governanti di bambini, fonti di tenerezza e affetto.
Pur essendo considerata alla pari dell’uomo nella sfera privata, una volta uscita di casa la donna diventava
un’estranea, un’avversaria pericolosa e accanita nei confronti della mascolinità moderna.
Il movimento delle donne, nell’insieme, rivolgeva le energie alla conquista di un posto nella vita pubblica; le
femministe moderate e radicali chiedevano il diritto al voto, la parità salariale, nell’educazione e pari
opportunità di promozione e occasioni di lavoro.
Questo fu un evento nuovo: per la prima volta a memoria d’uomo veniva messa in discussione l’egemonia
maschile sulla vita politica e sulle scelte che governavano la società, ma anche la funzione dell’uomo come
simbolo della riconciliazione degli ideali di ordine e progresso.
Le donne che aspiravano ad emanciparsi erano una minaccia per lo stereotipo mascolino non solo perché
attaccavano le funzioni sociali dell’uomo, ma anche perché aspiravano a conquistare un posto fondamentale
della società.

6 Guerrieri e socialisti

La crisi di fine secolo non aveva modificato l’ideale della virilità normativa, e quel che rimaneva degli
atteggiamenti critici fu spazzato via nell’agosto del 1914. La Grande guerra fu un evento prettamente maschile,
nonostante il contributo che forse offrì per una maggiore indipendenza delle donne.
Le caratteristiche della guerra sul fronte occidentale, tra l’altro, favorivano la convinzione che tutto dipendesse
dal cameratismo maschile che univa quei soldati che combattevano, vivevano e morivano insieme nelle trincee.
La prima guerra mondiale non aggiunse nulla allo stereotipo della mascolinità moderna, ma attribuì nuovo
spessore ad alcuni aspetti. Il nesso tra militarismo e mascolinità esisteva da sempre, e con la diffusione della
coscrizione generale, i militari avevano assimilato l’ideale del corpo maschile modellato, ad esempio,
dall’servizio ginnico. Anche l’anelito ad una causa superiore a quella dell’individuo, che ponesse la virilità a
servizio di un ideale, rientrava fin dall’inizio nella definizione della mascolinità. La nazione soddisfaceva
questa esigenza, e fu una presenza costante nella storia della mascolinità moderna.
L’aspirazione ad un carattere nazionale, che aveva impregnato i diversi paesi fin dall’epoca romantica, nel
primo Ottocento tra i suoi obiettivi prioritari assunse la creazione di una virilità vigorosa, pronta a combattere
in difesa della nazione.
Ora il sacrificio per la causa diventava la più alta virtù di cui l’uomo fosse capace. Chi aderiva a una qualche
forma di cristianesimo assimilava forse il sacrificio, e la purificazione attraverso quel conflitto, al sacrificio di
Cristo: le due idee furono strettamente associate per tutta la durata della guerra, anche nelle commemorazioni
dei caduti.
Finita la guerra, la resurrezione dei morti trovò un simbolo nelle croci o nei santuari dei militari, dove i ranghi
serrati delle tombe richiamavano il tema del cameratismo.
Dolore e sofferenza, oltre al sacrificio, costituivano la nuova educazione alla virilità, la quale non era altro che
una versione amplificata della vecchia mascolinità: anche chi non aveva preso parte direttamente alla guerra
la considerava strumentale alla loro battaglia contro la degenerazione fisica e morale.
La guerra aveva un valore terapeutico, anche se proprio i migliori, i più in forma, sarebbero caduti. I vuoti non
avrebbero tardato a colmarsi, perché i sopravvissuti, resi più forti e puri dalla battaglia, avrebbero generato un
numero maggiore di figli, e la nazione vittoriosa avrebbe conquistato nuovi territori, aumentando le sue risorse

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di case e lavoro. La guerra non ridefinì la mascolinità, ma rafforzò molti degli elementi che fin dall’inizio
avevano contribuito alla sua edificazione.
Al di là della realtà sottesa al mito della mascolinità in guerra, al di là delle continuità nell’immagine virile
prima e dopo il conflitto, l’impressione generale era che dalle trincee fosse emerso un nuovo tipo di uomo.
Pur non discostandosi molto la mascolinità dal suo passato, gli effetti degli anni di guerra si fecero comunque
sentire, accelerando i tempi della ricerca di un uomo nuovo, capace di rigenerare una società e una nazione
duramente provate.
Chi era rimasto deluso dalla guerra ipotizzava una mascolinità più morbida ma accettava comunque
l’immagine guerriera; alcuni rifiutarono invece proprio lo stereotipo maschile dominante.
La maggioranza dei delusi dal conflitto aderiva in genere ai movimenti di sinistra, a un socialismo che non
solo rifiutava la guerra ma metteva in discussione la virilità che l’aveva sostenuta.
L’uomo nuovo socialista fu il contrappunto a molti dei requisiti della virilità normativa. Un ideale fondato
sulla solidarietà, sulla rinuncia alla forza, sul rifiuto del nazionalismo come idea purificatrice dell’uomo
moderno. Secondo Adler, la creazione dell’uomo nuovo era un’impresa puramente didattica: la chiave stava
nella filosofia di Kant, nello spirito dell’Illuminismo e nell’adesione incondizionata alle teorie di Marx sulle
società senza classi.
L’uomo nuovo doveva comunque realizzare se stesso al servizio di una causa, la creazione di una società più
umana, e non gli sarebbe stato possibile se prima non avesse educato l’intelletto e il carattere fino a diventare
un essere umano libero e morale.
L’ideale maschile propugnato dai socialisti austriaci si contrapponeva all’immagine guerresca dominante
durante il conflitto appena concluso, negando la superiorità innata del maschio e insistendo sull’eguaglianza
dei sessi. Entrambi, uomo e donna, dovevano contribuire nello stesso modo alla costruzione della società
socialista, dovevano ricevere la stessa educazione per arrivare a quel risultato; avendo la ragione, le donne
avevano le stesse capacità degli uomini.
L’estetica della mascolinità si esprimeva come tutela della salute dei lavoratori, ma anche come risposta
all’immagine di quel ceto così spesso proposta dalla società: gente che viveva nell’oscurità, nella sporcizia,
nel caos.
La gioventù socialista deve addestrare il corpo e la mente, e possedere il senso tradizionale della bellezza virile.
Nel movimento sportivo dei lavoratori la ginnastica ebbe un ruolo non troppo diverso da quello tradizionale,
anche se divenne meno popolare degli sport di squadra.
Le diverse priorità e l’ambivalenza che distinguevano lo sport operaio e la posizione socialista verso il
militarismo della società normativa borghese non si trasferivano sul terreno delle buone maniere e della
moralità: si continuava a sostenere il ruolo della famiglia e, pur ammettendo il divorzio, si deplorava la
permissività sessuale. Nonostante questo, i socialisti prima della guerra e i partiti socialdemocratici nel periodo
successivo tentarono di ammorbidire i contorni della mascolinità tradizionale.
I comunisti, votati ad una lotta di classe non stemperata dalla fede socialista nella democrazia parlamentare,
erano invece i campioni di una mascolinità potente e aggressiva.
L’uomo nuovo socialista di Adler aveva ceduto il passo ad un militante decisamente più mascolino, pronto a
dare il colpo di grazia alla borghesia, la classe che secondo i comunisti era già entrata in declino.
Se da un lato la propaganda sovietica voleva un uomo nuovo combattente senza requie, dall’altro questo
doveva aver interiorizzato le regole della vita di ogni giorno, uguali da millenni, che generano uomini e donne
moralmente puri e belli.
L’uomo bolscevico si discostava comunque per molti versi dall’ideale tradizionale di virilità. Alle donne si
riconosceva l’eguaglianza formale come compagne di lavoro, non più come semplici collaboratrici confinate
tra le mura domestiche. L’occasione di creare un uomo nuovo alternativo alla mascolinità era andata perduta.
Il primo stato socialista non era riuscito a produrre l’uomo idealizzato da Adler e la letteratura proletaria
destinata alle masse si atteneva con straordinaria coerenza alla mascolinità normativa, dimostrando ancora una
volta la forza dello stereotipo e attestando l’irrilevanza dell’immagine alternativa.
Non solo tra i comunisti, ma anche per la maggioranza dei socialdemocratici l’ideale di una virilità nuova e
diversa non si affermò mai davvero, nonostante il tentativo degli intellettuali socialisti di modificare l’indirizzo
della mascolinità normativa. Sotto altre vesti, anche il socialismo riproponeva la norma, ricorrendo persino
all’immagine tradizionale del guerriero.
Per quanto riguarda l’ideale maschile, non ha molta importanza quale tipo di guerra si dovesse combattere, e
non esistevano alternative alla figura del soldato come massima espressione della virilità tradizionale.

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L’idea socialista di una mascolinità unitaria e pacifista fallì non solo in pratica, ma anche in teoria, e nemmeno
l’ideale guerriero riuscì a trionfare perché entrambi erano troppo estremi, troppo in contrasto con la vita
tranquilla a cui ambiva la maggioranza.

7 in società verso uomini normali

Da sempre la società occidentale era governata dagli uomini, ma solo in epoca moderna lo stereotipo della
mascolinità fu istituzionalizzato e saldamente radicato nella struttura dello stato.
L’istruzione contribuì in modo determinante all’istituzionalizzazione dello stereotipo maschile, così come le
associazioni sociali e politiche. Dal primo Ottocento l’educazione alla virilità fu quasi sempre presente
nell’istruzione secondaria: le classi medie dovevano costituire una élite aristocratica in grado di governare lo
stato, e in questo l’educazione alla virilità fu fondamentale.
L’Inghilterra fu il luogo in cui l’educazione alla virilità raggiunse il massimo sviluppo: la cappella e il campo
da gioco venivano spesso indicati come i due centri della vita scolastica, in grado di formare rispettivamente
una giusta moralità e un corpo virile. Anche altre organizzazioni si occupavano di educare i giovani alla virilità,
come i boyscout: più che l’aspetto militare, veniva privilegiato il rispetto per la regola del decoro, che
comportava l’acquisizione di un certo comportamento e di buone abitudini di vita.
Un’altra organizzazione di rilievo era la Boy-Brigade (chiesa anglicana, 1883), che si occupava di organizzare
e disciplinare il tempo libero dei giovani che non andavano né alla scuola domenicale né a quella statale,
trasformandoli in cristiani onesti e coraggiosi.
Anche in Germania l’educazione alla virilità era per molti versi simile a quella dei ragazzi inglesi, e questo si
può notare soprattutto dalle letture: si trattava perlopiù di storie di combattimenti affrontati per una giusta
causa e racconti di vite avventurose con spirito comunitario. Questo tipo di letteratura, però, era spesso crudele
per gli stranieri, dato che spesso ne uscivano malconci e torturati. Nei racconti popolari tedeschi gli eroi erano
duri dal cuore d’oro che proteggevano i più deboli.
Se in Inghilterra il nesso tra patriottismo e militarismo era ancora in buona misura assente, in Germania proprio
le associazioni militari e reducistiche diedero un grande contributo all’istituzionalizzazione e alla diffusione
dello stereotipo maschile.
Le associazioni dei combattenti furono fondate dopo le guerre di liberazione, crebbero rapidamente durante il
periodo di unificazione della Germania e attingevano soprattutto alla piccola borghesia e ai ceti operai: agli
iscritti, che dovevano essere fedeli fino alla morte all’imperatore e alla patria, venivano richieste prove di
coraggio, determinazione e forza di volontà.
In Germania la scuola secondaria superiore (il ginnasio) era molto diversa da quella inglese: mentre in
Inghilterra i giovani imparavano prima a servire gli anziani (studenti più grandi) e poi a comandare (diventando
a loro volta anziani) senza alcun controllo da parte degli insegnanti e imparavano quindi l’autodisciplina, in
Germania i ragazzi erano alle mercé della disciplina severa e rigorosa. Gli insegnanti, pur essendo uomini
qualunque nella vita quotidiana, si credevano infinitamente superiori con gli studenti: non stupisce se i ricordi
peggiori degli studenti erano associati a quelli del ginnasio.
Nel ginnasio contavano l’obbedienza e la disciplina, ma anche il cameratismo che univa studenti contro
oppressori.
L’ideale della mascolinità non serviva solo per far funzionare la società borghese, ma anche per definirla,
insieme alla famiglia: per l’inglese e il tedesco modello, possedere una famiglia era un requisito indispensabile,
specie se volevano evitare l’accusa di omosessualità, sospetto sempre presente nelle società maschiliste.

8 L’uomo nuovo fascista

Speranza del futuro, simbolo della nazione, modello di vita: la virilità svolse una funzione essenziale in tutti i
regimi fascisti.
Il fascismo si limitò ad enfatizzare alcuni aspetti presenti da sempre: il loro ideale derivava dalla Grande guerra,
ma assorbiva anche idee provenienti dalla Gioventù tedesca o dai futuristi italiani.
Con l’inizio del nuovo secolo il nazionalismo italiano assunse una connotazione rivoluzionaria,
antitradizionalista: amava la modernità e l’accelerazione del tempo, resa possibile dalle nuove tecnologie, un
aspetto che invece preoccupava molti loro contemporanei.
I futuristi, insieme avanguardia artistica e movimento politico, credevano in un uomo liberato dal peso della
storia, disciplinato caratterizzato da un modo di agire e un comportamento fondati sul riconoscimento della
rapidità del tempo e sull’amore per lo scontro.

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I nazionalisti erano vicini ai futuristi, credevano nella grandezza delle sorti della patria ed erano intrisi di un
fervore rivoluzionario dal quale sarebbero nati gli uomini nuovi capaci di trasformare l’Italia, e nella potenza
rigeneratrice della guerra.
Anche l’uomo nuovo fascista condivideva alcuni aspetti con il futurismo, tra i quali il dinamismo e il fervore
patriottico, ma conosceva anche la disciplina e l’autocontrollo.
La prima guerra mondiale e le sue conseguenze furono il fattore più importante nel movimento fascista:
l’esperienza del conflitto conduceva alla vera virilità.
Per il fascismo il cameratismo costituiva il paradigma della società e dello stato, ed era questo il sodalizio
maschile sul quale si doveva fondare lo stato. Anzi, quel sodalizio doveva abbracciare la nazione, anche se di
fatto era più rivolto alle organizzazioni: per farne parte occorreva forza di volontà. Un altro aspetto che
caratterizzava l’uomo fascista era la capacità di affrontare la morte senza batter ciglio.
Per quanto riguarda l’aspetto fisico, la bellezza classica venne usata e proposta più volte come simbolo
dell’epoca fascista, però le attività ginniche non insistevano così tanto sulla bellezza. In Italia, lo scopo
principale dell’esercizio fisico consisteva nell’educazione alla disciplina, all’ordine e al corretto portamento,
oltre a considerare lo sport come cameratismo autentico.
Inoltre, in Italia ci si concentrò di più sulle espressioni facciali: Mussolini lo usava come mezzo di
comunicazione. L’immagine di Mussolini come uomo nuovo veniva accuratamente coltivata: ma era
un’immagine pubblica, poco o niente si doveva sapere della sua vita privata.
L’uomo nuovo mussoliniano si ispirava dunque all’esperienza btoanellica e anzi viveva in uno stato di guerra
permanente: sempre in divisa, sempre in marcia, votato all’esercizio fisico e allo sfoggio di virilità, era
costantemente impegnato nella lotta contro il nemico. E fino alla guerra d’Etiopia del 1935 e alle leggi razziali
del 38, il nemico non era una minoranza come gli ebrei o una nazione straniera, ma la minaccia della
degenerazione che rischiava di minare dall’interno le forze della nazione.
Il fascismo costituiva l’espressione più piena della mascolinità moderna, che fece affiorare una tensione, da
sempre presente, tra la famiglia e la mascolinità, e che si poteva risolvere subordinando donne e bambini al
predominio dell’uomo: essi avevano un posto preciso in famiglia, mentre l’uomo attivista ben difficilmente
poteva confinare il suo attivismo votato a una causa superiore entro le mura della casa.
Se ai fascisti italiani si insegnava che gli eroi erano caduti al fronte, la Germania nazista costruì molti dei suoi
riti e cerimonie sulla memoria degli atti di eroismo nel conflitto.
Il nazismo era un grande regime razzista, quale non fu il fascismo nei suoi primi sedici anni, ed è questo il
fattore determinante ella differenza tra i rispettivi ideali maschili. Il razzismo, rapito dall’utopia del sangue e
della patria, non poteva ammettere un futuro indeterminato; inoltre, il suo massimo simbolo era proprio la
forma umana, l’ariano ideale definito e illustrato nei minimi dettagli sulla base di modelli antichi ed
immutabili.
Il razzismo, nato dall’antropologia e dalla speculazione estetica sulla bellezza umana, era estremamente
sensibile all’aspetto esteriore e alla struttura fisica come simboli del valore di ciascuno.
L’esercizio fisico, da sempre fondamentale, doveva servire a modellare il corpo ideale virile, e a formare il
carattere. Nel nazismo questa fissazione assunse forme assolute e di vastissima portata.
L’uomo doveva dimostrarsi capace di far seguire i fatti alle parole, il suo corpo era un dono di Dio, apparteneva
al Volk, che egli è tenuto a proteggere e a difendere; irrobustendo la volontà egli serve il suo popolo. A
quest’inno segue un elenco delle consuete virtù virili: lealtà, onestà, cameratismo, obbedienza, disciplina e
coraggio.
Il corpo maschile nudo della simbologia nazista era ovviamente di derivazione greca: l’ideale ariano veniva
spesso paragonato al tipo greco classico, considerato il modello di mens sana in corpore sano.
Il razzismo tendeva sempre a concretizzare l’astratto: esso preferiva come mezzo di autorappresentazione un
simbolo umano in carne ed ossa.
Il razzismo non ammetteva ambiguità, e dunque gli stereotipi rimanevano fissi e immutabili, anche se il fatto
che ben pochi tedeschi avessero davvero l’aspetto prescritto agli ariani costrinse i teorici della razza a
dichiarare che ciò che contava non era tanto la totale conformità dell’ideale quanto la prevalenza delle
caratteristiche ariane. Capelli biondi e occhi azzurri erano spesso requisiti sufficienti per guadagnarsi l’accesso
alle scuole d’élite e ai gradi superiori del partito.
In tutte le forme di fascismo il controtipo compariva nel consueto ruolo del nemico da debellare, un fattore di
pericolo che però risultava amplificato nell’enfasi nazifascista su tutti gli aspetti più aggressivi della
mascolinità. L’idea della lotta era un elemento fondamentale: quei regimi avevano conquistato il potere nella
legalità, ma per farlo avevano dovuto creare le condizioni di una guerra civile e, una volta al governo,
continuarono la battaglia contro il nemico interno e straniero, reale o immaginario che fosse.

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Debellati i socialisti e i comunisti, il fascismo italiano e i suoi modelli seguaci ebbero qualche difficoltà
nell’identificare quel nemico: si aggredì chiunque insistesse ad imporsi, e non un gruppo di persone
chiaramente definito e distinto.
L’uomo nuovo fascista o nazista non era poi così nuovo, quindi: amplificava e dava un taglio rigido e
aggressivo ad alcuni tratti fondamentali della mascolinità normativa per farne un’arma nella lotta per il
predominio.
Il fascismo e il nazismo portarono alla luce le spaventose potenzialità implicite nella mascolinità moderna
quando essa si riduce a mero bellicismo.
Gli ebrei, invece, erano una comunità ben definita all’interno della nazione, e si prestavano fin troppo bene
all’identificazione con un nemico altrimenti difficile da individuare: ancora una volta il razzismo consentiva
di riconoscere il nemico.
L’ariano non poteva fare a meno dell’ebreo, perché i due concetti erano collegati nella battaglia in cui il primo
doveva impegnarsi per giustificare la propria esistenza.

9 Verso una nuova virilità

La seconda guerra mondiale non comportò alcuna trasformazione immediata nello stereotipo normativo
maschile, ma si limitò ad enfatizzarne alcuni aspetti. Dopo la guerra venne di moda una virilità più dura e si
ripresentò qualche nota di crudeltà, non tanto nello stereotipo quanto in certi fumetti di grande diffusione, pieni
di violenza spesso praticata dagli uomini sulle donne.
Oriente e Occidente condividevano la stessa idea di rispettabilità e della differenza dei sessi, anche se per
qualche tempo l’Europa orientale concesse alle donne maggiori diritti. In Occidente prese invece l’avvio una
lenta trasformazione che avrebbe finito per erodere lo stereotipo normativo maschile, mettendo inoltre in
discussione la tradizionale divisone dei sessi.
Nell’intera Europa occidentale la donna nuova pareva sul punto di trionfare: le donne occupavano ora spazi
pubblici, e anche dentro la famiglia si andava imponendo un maggiore equilibrio nella ripartizione dei diritti
tra l’uomo e la donna.
Questa volta la reazione fu assai meno violenta: la nuova autonomia delle donne trovò vasti consensi anche
tra gli uomini. In alcuni di loro la donna nuova provocava ancora incertezza e paura, e con gli anni novanta si
affermò una letteratura che tentava di rassicurarli individuando una virilità che solo gli uomini potevano
rivendicare come propria.
Ancora una volta, dopo la seconda guerra mondiale furono i giovani a guidare la trasformazione dei
comportamenti e dei codici morali, ma la cultura giovanile era una minaccia di ordine diverso da quella
precedente, perché coinvolgeva tutti gli strati della popolazione e trovava riscontro in molti mezzi di
comunicazione, che offrivano nuove dimensioni alla ricerca di cambiamento, diffondendo immagini
alternative che proponevano variazioni della virilità del tutto ignote prima della guerra.
La cultura popolare aveva contribuito in misura minima sia all’edificazione che alla messa in discussione della
mascolinità normativa; si era sempre mostrata come una forza conservatrice che lasciava l’onere della sfida
alle persone colte. Ora invece anche la musica popolare, con i suoi ritmi, si trasformava in un efficace motore
di cambiamento per il paradigma sobrio e controllato della mascolinità.
Ora la musica popolare invitava il corpo a movimenti selvaggi, appassionati e disarmonici, stimolando ognuno
ad esprimersi liberamente. La ricerca dell’identità personale divenne una motivazione fondamentale.: i giovani
volevano essere se stessi senza curarsi della tradizione.
Dalla fine dell’ottocento l’androgino, l’uomo con organi sessuali maschili o la donna con genitali maschili,
veniva considerato un mostro, una minaccia per entrambi i sessi.
Quarant’anni dopo la seconda guerra mondiale, l’aspetto androgino divenne una moda, e insieme una presa di
posizione contro la mascolinità e la femminilità normative.
Nella corsa al lancio delle mode sempre nuove, anche la pubblicità riprendeva il tema nei giornali e nelle riviste
più diffuse. I modelli non erano transessuali ma uomini che sembravano ormai aver rinunciato a ogni vestigia
dello stereotipo maschile, ottenendone in cambio un vasto successo di pubblico.
La fine del secolo era stata un momento di rottura per la grande visibilità del controtipo, mentre nel periodo
tra le due guerre la vita culturale della Repubblica di Weimar era stata animata da un gran numero di uomini
e donne apertamente omosessuali, e per i partiti di destra la vivace vita notturna omosessuale di Berlino era il
simbolo stesso della degenerazione del sistema repubblicano.

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Negli anni settanta e ottanta si affermò una cultura gay alternativa capace di influire sulla cultura normativa,
interagendo proficuamente con il mondo giovanile, contribuendo a trasmetterne le istanze anche alla società
adulta.

Conclusioni

Ciò che emerge dall’analisi di Mosse è che lo stereotipo della mascolinità esiste dall’età medievale ed
aristocratica e, dalla fine del Settecento, si è stabilizzato, prendendo una forma più o meno definitiva che dura
dall’età moderna. All’uomo sono sempre state attribuite alcune caratteristiche: la virilità, il coraggio, la buona
condotta, la forza (sia fisica che morale), la bellezza.
Secondo l’autore, lo stereotipo che si è radicato nella società moderna dalla Rivoluzione Francese in poi è
talmente profondo e solido che, per quanto sia stato eroso nel corso dei secoli, è ancora vivo e capace di
influenzare la società contemporanea.
Mosse considera lo stereotipo dell’uomo come positivo, un simbolo che la nazione usava a piene mani per
rappresentarsi, il cui potere è rafforzato dal suo omologo negativo, che ingloba tutti coloro che non si adattano
alle norme sociali.
Personalmente, ritengo che lo stereotipo maschile abbia ancora grande rilevanza nella nostra società
contemporanea.
Innanzitutto, ancora oggi l’uomo perfetto viene rappresentato come forte e corretto moralmente, adornato da
quell’ideale cavalleresco di romanticismo e nobiltà d’animo che ancora lo caratterizza. A mio avviso, però,
dietro questa immagine perfetta si cela un aspetto inquietante: l’uomo forte, a volte, si sente potente, e questo
porta a una dose di violenza che utilizza nei confronti di coloro che considera suoi sottoposti, i moderni
controtipi. Con questo intendo riferirmi non solo alla violenza sulle donne da parte degli uomini, ma anche
agli episodi di bullismo che dilagano sempre più nella nostra società: è sufficiente che una persona si senta
minacciata nell’orgoglio per far scattare un meccanismo difensivo che porta a conseguenze disastrose.
Anche lo stereotipo della bellezza continua ad essere molto presente nella nostra società: nell’immaginario
ideale, l’uomo bello è quello che ha un corpo muscoloso e un bel volto.
In questo caso, credo che lo stereotipo si sia radicato a tal punto che il mancato adeguamento ad esso produce
conseguenze spiacevoli. Mi riferisco sempre ai giovani: a volte, i ragazzi che non hanno un fisico tonico
vengono derisi e soffrono per non riuscire a diventare come “gli altri”. Questo vale anche per le ragazze, le
quali spesso cercano di ottenere in tutti i modi un corpo magro e asciutto e dalle forme visibili, magari saltando
i pasti o attenendosi a diete ferree.
La bellezza è importante, se non fondamentale, anche dal punto di vista dell’immagine: non è un caso se nei
negozi di vestiti i modelli all’ingresso sono ragazzi alti e palestrati, mentre in tv le ragazze che circondano il
presentatore sono belle (e semi-svestite).
I controtipi di cui parla Mosse nel suo testo non si sono molto modificati: zingari, omosessuali, donne,
vagabondi, pazzi, criminali continuano ad essere presi di mira. Oserei dire che oggi marocchini, tunisini e
nigeriani sono gli ebrei di allora: tutti coloro che sono diversi dalla concezione occidentale di uomo bianco.
Come un tempo gli ebrei venivano accusati di essere portatori di malattie, oggi queste persone vengono spesso
accusate, a causa delle migrazioni, di essere ladre del lavoro che spetterebbe alla popolazione locale. Inoltre,
spesso vengono considerati spacciatori, drogati, violenti: alcuni di loro sicuramente lo sono, ma generalizzare
in questo modo mi sembra ingiusto, perché gli stessi comportamenti di cui vengono accusati li abbiamo anche
noi (inteso come uomini bianchi).
Gli omosessuali, attualmente, vengono presi di mira un po’ meno rispetto a tempi passati, ma l’idea di due
uomini (o due donne) che sono attratte e che si congiungono carnalmente a volte desta ancora scalpore,
soprattutto se queste persone si scambiano qualche effusione in pubblico. Per quanto riguarda le donne, credo
che le notizie di cronaca nera che escono sulle testate dei giornali ogni giorno parlino chiaro: sono tante le
vittime di violenza, non solo fisica ma anche psicologica. È vero che le donne adesso hanno più libertà nel
vestirsi (vedere una ragazza in jeans o con una felpa da uomo è una scena quasi quotidiana), che sono riuscite
ad avere un posto nella vita pubblica e ad acquisire alcuni diritti fondamentali, come quello del divorzio o
dell’aborto, ma la strada per essere considerate pari all’uomo è ancora lunga.
Lo stereotipo virile della mascolinità è ancora così ben radicato e diffuso nella nostra società e sono convinta
che, per quanti cambiamenti si possano attuare, la strada è lunga.

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