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INTERVISTA A PETER HENRICI 1

INTRODUZIONE: IL PERCORSO FILOSOFICO-TEOLOGICO

Lei è nato nel 1928 e cresciuto a Zurigo, ove ha iniziato gli studi universitari…; ha an-
che avuto qualche contatto, per via della parentela, con Balthasar.
All’università ho cominciato gli studi di filologia classica. Sono stato sempre a Zu-
rigo fino al mio ingresso nella Compagnia di Gesù. Una volta finito il noviziato, ho in-
trapreso il normale curriculum di studi: i tre anni di filosofia (scolastica) dal 1949 al
1952 a Pullach, fino alla licenza; poi i tre anni di magistero dal 1952 al 1955 come ripe-
titore al Collegio Germanico a Roma (durante i quali ho scritto la mia tesi di dottorato e
ho tradotto in tedesco l’Essai sur le mystère de l’histoire di Daniélou); infine quattro
anni di teologia dal 1955 al 1959 dai gesuiti a Lovanio, nel corso dei quali ho ricevuto
l’ordinazione sacerdotale e al termine dei quali ho compiuto la “terza probazione” per la
professione solenne nella Compagnia.
Negli studi, Balthasar di tanto in tanto mi dava una certa spinta, ma raramente l’ho
incontrato; ho letto (o scorso) man mano le sue opere.

Lei ci diceva che in quegli anni Blondel era quasi un “cenno segreto”, nelle case di
studi ecclesiastici, in cui girava ciclostilata…
Questo era nel ’50, quando ho iniziato a leggere l’Action, che mi aveva dato il Pa-
dre Lotz: era ciclostilata perché allora non ce n’erano altre. Poi ho trovato da un con-
fratello brasiliano la riedizione tipografica, che è del 1949. Nel 1952 ho scritto la tesi di
licenza sul “capitolo aggiuntivo” dell’Action, quello che non si trova nella tesi difesa da
Blondel nel 1893.
Per la licenza in teologia, la dissertazione avrei voluto farla sullo Spirito Santo in
Didimo il Cieco, ma poi, anche per guadagnare un po’ di tempo, l’ho fatta sul concetto
di “natura” in Rahner e Balthasar e, come si sa, le discussioni sul “sovrannaturale” era-
no state ispirate proprio dalla filosofia di Blondel.
Già da prima, quando avevo cominciato a leggere l’Action, Balthasar mi aveva
suggerito di compararla con la Fenomenologia dello Spirito. Ed allora è nata l’idea, che
poi Padre Lotz ha accettato come argomento della tesi di dottorato, per un confronto tra
Hegel e Blondel. La tesi l’ho poi difesa in Gregoriana nel 1956 2.

1
L’intervista si è svolta a Roma il 29 aprile 2003 ed è stata rivista dall’autore l’8 marzo 2004. La bi-
bliografia di Peter Henrici (comprendente una dozzina di volumi e quasi duecento articoli) è disponibile
in fascicolo edito dalla Gregoriana nel 1993, oppure (aggiornata al 1998) nella Festscrift a lui dedicata
per il suo 75° anno.
2
Hegel und Blondel. Eine Untersuchung über Form und Sinn der Dialektik in der “Phänomenologie
des Geistes” und der ersten “Action”, Berchmanskolleg, Pullach 1958.
Come è arrivato all’insegnamento della filosofia a Roma, in Gregoriana?
Tra gli scolastici gesuiti io ero “condannato” a insegnare filosofia perché avevo già
conseguito il dottorato in filosofia prima degli studi teologici: sono stato bloccato con
la filosofia; così ero “predestinato” ad insegnarla. Altrimenti avrei senz’altro preferito
dedicarmi alla teologia. Penso che sarei stato miglior teologo che filosofo. Sarei stato un
teologo “filosofo”. Così invece sono stato un filosofo “teologo”.
Dovendo dunque insegnare filosofia, mi sono orientato verso la storia della filoso-
fia moderna perché era quella che aveva a che fare di più con la teologia: e in particola-
re con la teologia protestante, che avevo approfondito durante i miei studi teologici.
A Roma un superiore mi voleva alla Gregoriana, un altro al Collegio Germanico
(tenuto dai gesuiti e destinato ai seminaristi dei paesi germanici che vengono a studiare
a Roma). Col risultato che ho poi fatto entrambe le cose. Così sono stato sei anni al
Germanico come “ripetitore” di filosofia e simultaneamente dal 1960, alla Gregoriana.
Ho cominciato subito ad insegnare tutta la storia della filosofia moderna. Conosce-
vo bene padre Naber, che era cattedratico di storia della filosofia moderna in Gregoriana
e che, pur avendo scritto poco, era un eccellente direttore di tesi. Era anziano e doveva
avere un successore e i superiori avevano pensato a me, perché almeno inizialmente lo
affiancassi. Naber mi ha detto, come Abramo a Lot, che avremmo dovuto dividerci le
competenze e andare in due direzioni diverse. Il corso di storia della filosofia moderna
fu allora diviso in due parti, dal Cinquecento al Settecento e dall’Ottocento al Nove-
cento. Allora conoscevo bene Hegel e Blondel, su cui avevo fatto la tesi, e dunque presi
la seconda parte del corso di storia della filosofia. Ma padre Naber si ammalò e da una
settimana all’altra dovetti prendere anche la prima parte del corso. Così ho iniziato ad
insegnare la filosofia rinascimentale, con tutti quei filosofi di cui fino a pochi giorni
prima conoscevo appena l’esistenza, e di cui andavo leggendo man mano le opere.

Una volta Balthasar le disse che la filosofia si poteva cominciare a studiare davvero
solo dopo averne conseguito la licenza.
Questo è vero; tutto sommato dopo la licenza non ho studiato molta filosofia per-
ché ero totalmente immerso dentro la teologia. Poi quando finalmente si è trovato un
successore per me al Germanico, siccome non avevo mai avuto un periodo per prepa-
rarmi alla docenza, ho ottenuto nel 1966 un anno sabbatico che ho trascorso a Parigi alla
Sorbona per perfezionarmi in storia della filosofia. Mi interessavano le lezioni, che con-
sistevano in letture di testi: ho ascoltato allora Belaval (su Leibniz), Gouhier (su Carte-
sio), Jankélévitch e Jean Wahl. Ricoeur invece era a Nanterre.
Sempre nel 1967 ho scritto una lunga recensione degli studi su Hegel e la teolo-
3
gia . Allora ho letto tutto sul problema teologico in Hegel, ed ero al punto giusto per
l’interpretazione di Hegel. Per il resto è impossibile seguire la bibliografia hegeliana.
Ascolati alcune lezioni del famoso Hyppolite al Collège de France, ma erano noiose e
non dicevano nulla di nuovo. Diressi poi parecchi anni dopo la tesi di Labarrière sulla
struttura della Fenomenologia dello Spirito.

3
Hegel und die Theologie. Ein kritischer Bericht, in “Gregorianum” 1967, p. 706-746.

2
Da allora, lei è rimasto a Roma ininterrottamente fino all’episcopato…
Sì, con qualche semestre sabbatico, come quello in cui ho insegnato a Kinshasa. In
Gregoriana oltre alla “Storia della filosofia moderna” ho insegnato “Filosofia della sto-
ricità” e (all’Istituto di Scienze religiose) “Introduzione alla metafisica”; ho fondato e
curato il curriculum di specializzazione in questioni filosofiche della religione cristiana
nonché il Centro interdisciplinare sulle comunicazioni sociali. Nel 1993 infine sono
stato nominato vescovo ausiliare di Coira e vicario generale con residenza a Zurigo. Dal
2003 risiedo alla Theologische Hochschule di Coira.

L’“ACTION” DI BLONDEL COME ORIZZONTE

BLONDEL COME “MAESTRO”

Dietro ogni riflessione c’è un “segreto”. Si può dire che il “segreto” della sua rifles-
sione sia l’Azione di Blondel, su cui non solo ha dato un particolare contributo stori-
co-filosofico, ma da cui ha anche maturato le sue idee in ambito filosofico, filosofi-
co-teologico e pratico. Inoltre, Blondel è stata una delle radici segrete del rinnova-
mento del pensiero cattolico del Novecento, che ha portato al Concilio Vaticano II.
In generale, nella prima metà del ’900 Blondel era un punto di riferimento per gli
studenti cattolici “che non volevano rinunciare né alla fede né alla ragione”.
Anche per il fatto di essere nato il giorno dei morti, Blondel ha concepito tutta la
sua riflessione come una “meditatio mortis”. Da credente e filosofo ha riflettuto sulla
frase paolina secondo cui i pagani “sono inescusabili”: vale a dire che anch’essi avreb-
bero la possibilità di una conoscenza sufficiente del piano di Dio, per poter fare una
scelta (“opzione”) che per loro sarebbe salvifica.

Mi pare che Blondel le abbia ispirato anche un atteggiamento mediano, contro ogni
“monoforismo” o unilateralismo del pensiero ma anche contro ogni relativismo; e con-
tro sia ogni reazione antimoderna sia ogni deriva modernistica; il tutto però con quel
distacco tipico dello storico del pensiero e senza il travaglio che poi ha avuto Blondel.
Bene, nella riflessione filosofica personale, uno si rifà sempre in modo più o meno
diretto a un “maestro”. Non nascondo che il mio maestro principale sia stato Blondel,
ma ho ricevuto anche molti stimoli da Kant, da Hegel e forse soprattutto da Kierke-
gaard.

Blondel è centrale nel pensiero cattolico contemporaneo, e tuttavia poco conosciuto.


Blondel è l’“innominato” sia nei documenti del Concilio Vaticano II sia in Fides et
Ratio. Eppure ci sono molti accenni indiretti a lui, ma “per allusione”.
Su di lui pesa qualche pregiudizio e qualche incomprensione. Tra i pensatori non
cristiani, Blondel è considerato troppo cristiano; tra quelli cattolici, spesso c’è l’equi-
voco sul “metodo di immanenza” adottato da Blondel (anche se il nome non è suo, ma
gli è stato suggerito da una recensione del Brunschvicg), che spesso viene confuso con
un principio di immanenza, in senso immanentistico.

3
E che dire della differenza tra “primo” e “secondo” Blondel? Lei è sempre stato schie-
rato a favore del primo…
Nella storia della filosofia abbiamo molti casi di autori che hanno avuto due fasi di
pensiero. In alcuni la seconda è un decadimento della prima; in altri la seconda fase è un
ripensamento totale, come per Wittgenstein; in altri ancora è una evoluzione, come per
Kant ed Hegel. In ogni caso, il fatto è che un pensatore non ama ripetersi.
Anche il secondo Blondel contiene cose interessanti, ma il primo è quello che ha
dato il contributo originale, quello che ha avuto grande influsso e ha dato occasione ad
accese discussioni.

L’EDIZIONE CRITICA DEL MATERIALE PREPARATORIO DELL’ACTION

Lei è generalmente conosciuto come studioso blondeliano, ma non tutti sanno del suo
lavoro come editore critico del materiale preparatorio all’“Action” di Blondel, di cui si
poteva fare uno studio genetico. Ne vuole parlare?
La cosa importante era che mentre lavoravo su Blondel, ero entrato in contatto già
dal 1961 con la famiglia Blondel, in occasione di un convegno ad Aix. Nel 1966-1967
avevo frequenti contatti con la famiglia Blondel e ho potuto vedere quello che c’era
nell’archivio in loro possesso. Ho letto i “Carnets intimes” integrali e tutte le
“Notes-Semailles” preparatorie alla tesi del 1893: madame Elisabeth Flory [la figlia di
Blondel] me li ha affidati perché li pubblicassi: era quasi un testamento. Mi misi dunque
all’opera nell’estate del 1967, e ci sto ancora lavorando, dato che posso dedicarmici
solo in margine ad altri impegni.
I problemi di edizione che si ponevano erano analoghi a quelli delle Pensées di Pa-
scal: si trattava prima di tutto di mettere in ordine, possibilmente cronologico, queste
tremila e passa annotazioni, che vanno da tre parole a tre o quattro pagine fitte. Per qua-
si un terzo del materiale tale ordinamento era facile, grazie a una numerazione che
Blondel stesso aveva apposto quando estraeva questi pezzi di carta dalla scatola in cui li
aveva “seppelliti”. Per il resto, un raggruppamento approssimativo era possibile tenendo
conto della qualità della carta su cui erano scritti, perché anche qui Blondel scrupolo-
samente aveva annotato da quando usava tale tipo e colore di carta.
Questo primo lavoro di messa in ordine mi rivelò che soltanto la metà del materiale
presenta un interesse direttamente filosofico; l’altra metà sono schede di semplice rinvio
(ad esempio, ai Carnets intimes, di cui Blondel si serviva per la redazione della sua te-
si). Ma il materiale propriamente filosofico era tanto più interessante: sono annotazioni
prese in occasione di letture, la cui fonte Blondel, purtroppo, soltanto raramente indica-
va. Si trattava dunque di individuare queste letture, il che mi fu possibile per quasi il
novanta per cento delle “notes”, grazie alla magnifica biblioteca (oggi purtroppo disper-
sa) del nostro ex-scolasticato gesuita a Chantilly. Il risultato fu sorprendente: Blondel,
che volentieri ripeteva di aver letto poco, era invece a perfetta conoscenza degli ultimi
sviluppi soprattutto in materia di psicologia e fisiologia (Wundt, Ribot), ma anche di
quelle parti della filosofia, anche straniera, che potevano interessare la sua tesi.
Verso la fine degli anni ’80 il manoscritto delle “Notes-Semailles” di interesse filo-
sofico, con le mie annotazioni sulle fonti, era pronto ed è stato depositato agli “Archives
Maurice Blondel” a Louvain-la-Neuve.

4
Si trattava ora di pubblicarlo, cosa costosa e difficile. Ma nel frattempo la situazio-
ne era mutata: il Padre Raymond Saint-Jean aveva presentato la sua tesi sulla Genèse de
l’Action (elaborata sotto la mia direzione), in cui recensiva tutti i documenti preparatori
all’Action del 1893: di fatto, non esiste probabilmente nessun’altra opera filosofica im-
portante come per l’Action, la cui elaborazione, durata quasi dieci anni, è ancora docu-
mentabile in modo così completo. Inoltre, avevo ottenuto dalla famiglia Blondel il per-
messo di pubblicare in una edizione critica il testo completo dei Carnets intimes, di cui
finora appena i due terzi sono pubblicati. Infine, cosa che risultò decisiva, anche le tec-
niche di pubblicazione si erano sviluppate: la tecnica del CD (o del DVD) permette oggi
di pubblicare migliaia di pagine a poco costo e con l apossibilità di fare confronti di vari
testi. Il modello archetipo di tale tecnica era l’Index Thomisticus, ove un solo CD sosti-
tuisce i 37 volumi dell’edizione cartacea.
Fu così deciso, con l’aiuto del nuovo Centro di studi blondeliani a Magonza e del
Professor Raffelt, che aveva già messo su CD le opere di Blondel, di fare un’edizione
completa su CD di tutto il materiale preparatorio all’Action, ivi compresi i grandi Plans,
non trascrivibili altrimenti, e le cinque successive redazioni del testo. Ancora sto lavo-
rando a questa edizione.

UNA QUADRUPLICE PROSPETTIVA DELLA RIFLESSIONE METAFISICA


[“VERBUM”, “HOMO”, “FACTUM”, “EST”]

I suoi contributi teorici sono intimamente legati ai suoi studi blondeliani e si concen-
trano nel campo della metafisica e in quello della cosiddetta filosofia cristiana, del
rapporto tra filosofia e teologia, e soprattutto in una filosofia dell’essere storico 4.
Quale di questi campi viene prima?
La metafisica.

LA METAFISICA COME META-LINGUISTICA O ONTOLOGIA DEL LINGUAGGIO

Lei ci diceva due cose in apparente contrasto: da una parte riferiva il parere di un pro-
fessore per cui la metafisica si sarebbe potuta fare solo in greco o in tedesco;
dall’altra, sosteneva che si può fare benissimo metafisica in ogni cultura, portandoci ad
esempio la “filosofia bantù”… Che rapporto c’è fra la cultura popolare e la filosofia
riflessa?
Direi che c’è un rapporto tra lingua parlata e ontologia riflessa. Sia il greco che il
tedesco hanno una struttura sintattica abbastanza sviluppata per dare quasi immediata-
mente luogo a una metafisica.
Al Congresso internazionale di Filosofia a Vienna nel 1968, in cui mi avevano af-
fidato la sezione di metafisica, un filosofo inglese, non ricordo più chi, disse: “Il guaio
della filosofia attuale è che si riduce ad essere una grammatica dell’inglese, e purtroppo
la grammatica dell’inglese è poverissima”.

4
Una raccolta di alcuni importanti contributi è Aufbrüche christlichen Denkens, Johannes Verlag,
Einsiedeln 1978.

5
L’articolo sulla filosofia bantù 5 l’avevo scritto invece durante i miei studi di teolo-
gia, nel 1959, perché allora studiavo con quattro confratelli africani e quella era l’âge
d’or della scoperta di una filosofia africana.
Questa seconda cosa ha avuto un seguito negli anni Settanta, quando ero decano
della facoltà di Filosofia della Gregoriana: il Padre Generale mi incaricò di organizzare
un seminario a Villa Cavalletti per i responsabili della formazione filosofica di tutta la
Compagnia. Era un bel gruppo di professori; tra gli altri c’era Scannone. Lì, discutendo
su come si fa la filosofia in tutte le culture da cui provenivano questi professori, fu sot-
tolineato che in quasi tutte le culture esiste una “saggezza popolare”, vera metafisica “in
nuce” che dà risposte sul senso della vita umana e sul cosmo. Adesso, per una discen-
denza lontana, la stessa idea si trova all’inizio della Fides et Ratio: non so se casual-
mente o meno: è un’idea nata lì, che poi ha fatto strada.

LA METAFISICA COME META-ANTROPOLOGIA

Oggi la riflessione metafisica è ancora propriamente una Meta-Fisica o deve essere


piuttosto una Meta-Antropologia?
Ho inventato questa espressione a un congresso filosofico internazionale 6: in ef-
fetti, oggi come oggi non si fa più metafisica, nel senso di una riflessione ulteriore che
parta dalla considerazione della natura, bensì una meta-antropologia, nel senso che la
riflessione parte dall’uomo, dalla sua limitatezza (la morte), dalla sua capacità di comu-
nicazione, dalle sue aspirazioni illimitate…

Questo suo intervento suscitò l’apprensione di Bontadini, che era all’epoca uno dei
massimi rappresentanti della filosofia neoclassica cattolica.
Con Bontadini non mi sono mai inteso, abbiamo sempre litigato. A Gallarate c’era
la fazione agostiniana e blondeliana e poi quella di Milano, più neoscolastica; e io pur
avendo avuto una formazione strettamente neoscolastica a Pullach (però di una neosco-
lastica nettamente marcata da Maréchal), avevo con i miei studi blondeliani e teologici
una sensibilità completamente diversa.

Si può fare una meta-antropologia senza una considerazione dell’uomo dal punto di vi-
sta fisico e scientifico?
Sì, penso che la meta-antropologia dovrebbe partire piuttosto dalla morte e dal pec-
cato, ossia dalla situazione esistenziale… Il limite e lo scacco ci fanno riflettere sulla
vita e sull’essere come dono. Questa è per esempio la prospettiva di Bruaire, che è an-
che hegeliano e blondeliano insieme.

5
Cf Gibt es eine Bantu-Philosophie?, in “Orientierung” 1959, p. 227-230.
6
Cf Meta-fisica o meta-antropologia?, in: Metafisica e Scienze dell’uomo, Borla, Roma 1982, p.
595-606. Cf anche Ontologia e assiologia, ovvero natura e storia, in: Ontologia e assiologia, Morcellia-
na, Brescia 1974, p. 120-127, riedito in tedesco in Aufbrüche, cit.

6
LA METAFISICA DEL FATTO

La sua metafisica del fatto è un po’ tutto il centro di tutta la sua riflessione.
Questo sì: se ho una teoria che è un po’ propria, mia, è quella della dimensione
metafisica del “fatto” 7.

La vuole tratteggiare?
La tratteggio facilmente: sono praticamente tre idee e frasi che mi hanno guidato in
tutta la mia riflessioni.
La prima idea è tratta da quel punto dell’Action in cui Blondel affronta le antinomie
delle scienze naturali (ad esempio, quella tra continuo e discontinuo…); e conclude che
sebbene teoricamente non si risolvano, tuttavia “elles sont résolues en fait”: “di fatto”
sono risolte.
Tutto quello che rimane e vale nella mia tesi di dottorato, mentre il resto riflette
uno stato della ricerca e di conoscenza che ormai è assolutamente superata, è proprio
che questa “soluzione di fatto” è presente in ogni parte dell’Action; anzi, contraddistin-
gue tutta la dialettica blondeliana, che appunto ha tre termini: l’antinomia, l’aporia in-
superabile e il fatto; il che la distingue dalla dialettica hegeliana, che è invece bipolare:
l’uno trapassa nell’altro. Ma è proprio questa terza dimensione, tipicamente blondelia-
na, del “fatto” a celare effettivamente la “presenza” dell’essere.

Si dà un’esperienza metafisica, o piuttosto una dimensione metafisica dell’esperienza?


Non penso che ci sia un’esperienza metafisica, ossia che abbiamo esperienza di-
retta di ciò che è al di là di ogni esperienza possibile (“trascendente”), ma semmai che
in ogni esperienza sia implicita una dimensione metafisica.
La seconda idea che mi ha guidato è espressa da una frase di San Bernardo (nel De
consideratione) citata da Blondel: “Quod factum est, infectum fieri nequit” [“Ciò che è
stato fatto non può diventare non fatto”], ed è tutto sommato il principio di contraddi-
zione quale concretamente lo sperimentiamo nelle nostre azioni.
La terza idea l’ho appresa dal nostro professore di Antico Testamento, padre Lam-
bert, che ripeteva sempre: “Un solo fatto vale più che un Gauri Sankar [una montagna]
di sillogismi”. Lui da storico cercava i fatti…
Tutto questo mi ha mostrato che il fatto è trascendente, ha una trascendenza irrag-
giungibile; da qui si arriva facilmente a quella che sarà la filosofia della storicità: fac-
tum è participio passato di facere e quindi implica uno scorrere del tempo, in cui c’è un
prima e un poi.
Il prima sono le possibilità aperte; il poi è questo quod factum est, infectum fieri
nequit. Allora lì si vede che nel passare dall’avvenire al passato c’è una specie di deci-
sione, che sceglie uno solo tra i molti possibili e lo rende “necessario” (ossia “impossi-
bile che non”).
Con questo sono tornato a una cosa che fin dai miei studi di filologia mi ha sempre
interessato, e se vi fossi rimasto in quel campo, vi avrei (non so come) lavorato: il rap-

7
Cf Die metaphysische Dimension des Faktums, in Akten des XIV. Int. Kongresses f. Philosophie,
Bd. III., Wien 1969, p. 589-595; ripubblicato in Aufbrüche…, cit.

7
porto fra tempora e modi nell’uso dei verbi, perché grammaticalmente i modi spesso si
esprimono con forme temporali. La connessione a livello filosofico è più facile da di-
scutere, ma a livello filologico sarebbe più difficile anche se forse più profonda.

Ad esempio, in italiano esprimiamo le proposizioni condizionali del secondo tipo sia


con il modo congiuntivo, sia con il tempo imperfetto dell’indicativo. Ma non c’è un’a-
poria? Come si ricava un principio come quello di non contraddizione (che per sua
natura è a priori) dall’esperienza della decisione, e quindi a posteriori? Inoltre, noi ri-
caviamo la possibilità dalla realtà, cioè dalla realtà di un fatto si inferisce la sua possi-
bilità (“ab esse ad posse valet illatio”), ma se è possibile non è detto che sia reale.
Ho una certa simpatia per i megarici e per il loro argomento sulle modalità: “nulla
è possibile che non sia (nel passato o nel futuro) attuale”. Ma la possibilità non è
un’astrazione. La possibilità per noi si presenta come una molteplicità di possibili azio-
ni, di possibili decisioni o di possibili accadimenti.
Sottolineo con Blondel la differenza fra prospection e reflexion. Io pre-vedo più
possibilità, ma una sola si realizzerà. Un minuto dopo posso, post factum, dire che ciò
che è accaduto era possibile, dato che si è realizzato. Husserl nel suo studio sul tempo,
la cui redazione poi è di Edith Stein, fa una fenomenologia della memoria, delle sue ri-
tenzioni e protensioni, mostrando che tutta la nostra coscienza temporale sia costituti-
vamente ritenzione. Non condivido questa analisi, anzi direi al contrario che è la proten-
sione ad essere costitutiva per la nostra coscienza. Quando inizio a parlare so cosa dirò,
perché altrimenti non potrei parlare, e con questa protensione mi muovo nel campo
delle possibilità.

Ma questo non riproporrebbe un idealismo?


Non è affatto un idealismo, tutt’al contrario, perché il fatto come “fatto” non è più
ideale o idealistico. Quello che si realizza, si realizza di fatto e infectum fieri nequit.

Questo spiega perché si possa ricavare dal fatto il principio di non contraddizione…
Per i princìpi, l’unico argomento valido è la ritorsione. Ma alla base di tutto c’è il
principio di non contraddizione, che “proviamo” dal “fatto” che non si possono sceglie-
re due cose diverse. Sembrerebbe una presunta dimostrazione induttiva; in realtà
l’esperienza a cui si fa riferimento non è quella empirica; è piuttosto l’orizzonte struttu-
rante da cui ricaviamo tutti i nostri princìpi. Oserei dire che tutti i nostri “a priori” li ri-
caviamo “a posteriori”.

Quindi, questo “fatto” non è il fatto positivo di cui parlano scienziati e storici.
Ma gli scienziati e gli storici spesso col nome di “fatto” indicano nient’altro che un
“fenomeno”, un qualcosa che appare alla loro ricerca. È vero che il fatto è sempre nel-
l’orizzonte di una coscienza che lo coglie, però trascende assolutamente la coscienza; è,
per dirla in termini maréchaliani, la condizione di possibilità dell’essere cosciente.
La coscienza allora riproietta le altre possibilità nel passato constatando che non
sono più possibili. Il nono capitolo del Perihermeneias aristotelico (quello della nauma-
chia) è emblematico: queste riflessioni sui futuri contingenti sono molto interessanti.

8
Questa prospettiva sembra molto vicina a quella di Vico…
Direi che Vico ha visto qualcosa di questo, nel suo assioma “Verum ipsum fac-
tum”: so cosa è vero in quanto lo posso fare. Il che poi è simile al ragionamento più o
meno contemporaneo di Malebranche e dell’Occasionalismo: “È impossibile che sia io
a fare ciò che non saprei come fare”; che però è un paralogismo. Ma è interessante che
abbiano ragionato così: “Noi non possiamo essere causa, per esempio, dei nostri movi-
menti corporali perché non sappiamo come li facciamo”. È la questione dell’inconscio,
che (come ho imparato negli studi a Parigi) era sparito con Cartesio, e che poi penosa-
mente è stato riscoperto con Schopenhauer, Eduard von Hartmann, Charcot, Freud…

LA METAFISICA COME ONTOLOGIA DIALOGALE

Uno dei capitoli della sua “Introduzione alla Metafisica” ha un esordio fulminante:
«“Essere” è un verbo che si coniuga, ed è notevole che la metafisica classica non ne
abbia fatto un uso più ampio» 8. È una prospettiva che non solo permette di rileggere la
metafisica classica e scolastica alla luce della filosofia dialogale contemporanea, ma
anche di capire più a fondo come mai l’essere sia per Tommaso ciò che vi è di più co-
mune e insieme di più incomunicabile tra tutte le cose (noi diciamo “questo è”,
“quest’altro è”, “io sono”…, però riconduciamo tutte queste forme verbali all’infinito
“essere”). Ma cosa vuol dire che “essere” si coniuga personalmente nel tempo?
Ci sono due cose che debbo spiegare prima. La prima è l’opposizione fra doxa e
aletheia (veritas), e oggi si dovrebbe leggere come opposizione tra opinione e fatto; il
fatto sostituisce qui la veritas. E la seconda cosa è che “tò ón pollachôs léghetai”, che io
traduco [anziché “l’ente si dice in diversi modi”]: “si dice in modo diverso che (qualco-
sa) è”. Ho l’impressione che Aristotele ragionasse veramente in modo concreto, lingui-
sticamente.
Noi diciamo “Io sono”, “Questo è”, in senso esistenziale, ma anche in senso copu-
lativo: “Questo è grave”, “Questo è possibile” (“è possibile” è un altro modo di essere
rispetto a: “è di fatto”). Penserei che Aristotele ed anche San Tommaso ragionino sul
verbo…, ma per dirlo potevano usare solo il participio; poi noi interpretiamo il partici-
pio in modo sostantivato mentre loro lo interpretavano in modo verbale. Nella filosofia
neoscolastica si è cominciato ad usare l’infinito “essere” (o la perifrasi “actus essendi”):
in Tommaso si trova l’infinito “esse” in questo senso, ma è raro. In italiano c’è la stessa
difficoltà con “essere”, che è o sostantivo o verbo.

8
Cf Introduzione alla metafisica, Roma, Pontificia Università Gregoriana 1982; p. 127.

9
LA FILOSOFIA DEL TEOLOGO E LA TEOLOGIA DEL (CRISTIANO) FILOSOFO
[“VERBUM CARO FACTUM EST”]

Mi pare molto interessante che la sua prospettiva metafisica sembri offrire una pre-
comprensione filosofica del dogma dell’incarnazione: la metalinguistica rinvia al “Ver-
bum” increato; la meta-antropologia all’“Homo”; la metafisica del fatto e l’ontologia
dialogale al “Factum est” paradossale dell’incarnazione. Abbiamo l’interazione tra la
filosofia del cristiano teologo e la teologia del cristiano filosofo.
Questa è una sua interpretazione.

LA FILOSOFIA (“CRISTIANA E CATTOLICA”) DEL TEOLOGO

Nel credere (teologicamente) e nel pre-pensare o ri-pensare come ipotesi (filosofica-


mente) che “il Verbo si è fatto Uomo” ne scaturisce un nuovo orizzonte di senso, che
permette di ridefinire il rapporto mutuo, nel cristianesimo, di filosofia e teologia 9 senza
cadere nelle pastoie della discussione degli anni Trenta sulla “filosofia cristiana”…
Tali discussioni si possono ripetere indefinitivamente senza approdare a nulla.
Tuttavia si può parlare storicamente di “filosofia cristiana” (e non soltanto di “filosofi
cristiani”).
Per me il punto è proprio qui: oltre al fatto storico del cristianesimo, nel “Verbo
fatto carne” la storicità acquista nel cristianesimo un’importanza (una “assolutezza”,
potremmo dire), che non ha nelle filosofie “pagane”. Alcuni filosofi si sono scandaliz-
zati di questa storicità, come Lessing; altri, come Hegel, l’hanno assorbita in una legge
dialettica necessaria. Ma se la si prende sul serio, essa dischiude un nuovo orizzonte di
senso.
In questa prospettiva la filosofia cristiana è una filosofia in dialogo con la cristolo-
gia. E allora, è possibile fare una Filosofia nella Cristologia: è la prospettiva di padre
Tilliette; ma è anche possibile cercare di sviluppare le condizioni di possibilità filosofi-
che del dogma cristologico. La mia prospettiva è vicina a quella di Tilliette, e tutti e due
c’ispiriamo in questo al “pancristismo” blondeliano: però, mentre Tilliette nella cristo-
logia mette l’accento sulla passione, io invece insisto maggiormente sull’incarnazione.
Peraltro, la “passione” ha un duplice significato: è sofferenza, ma è anche amore.
Non vi è analogia tra il male che è il peccato e il male che è la sofferenza, come Gesù
dice a proposito del cieco nato: “Nessuno ha peccato per questo”; d’altra parte vi è un
certo legame tra sofferenza redentrice e peccato: Dio è talmente appassionato, patito,
dell’uomo da soffrire, patire, per lui e da parte di lui.

9
Cf Panlogismo o Pancristismo?, in: Cristo dei filosofi, Morcelliana, Brescia 1976, p. 113-124; Cri-
stiani filosofi e filosofia cristiana. Osservazioni su un dibattito, in: Il senso della filosofia cristiana, oggi,
Morcelliana, Brescia 1978, p. 295-303. Cf anche L’uomo è “capace” di Dio, nel commento al Catechi-
smo della Chiesa Cattolica a cura di Rino Fisichella, Piemme, Casale Monferrato 1993, p. 591-598.

10
Però come si fa a parlare filosoficamente di ipotesi, o possibilità, di una rivelazione,,
visto che solo teologicamente si può sapere che essa sia reale?
Non ho mai fatto nessuna speculazione filosofica sulla possibilità di una rivelazio-
ne: questo era il tema di una teologia fondamentale ormai antiquata. Ciò che cerco di fa-
re è di ricavare i contenuti filosoficamente importanti da quello che sappiamo di fatto
(nella fede) della rivelazione divina. Tutte le speculazioni su “ciò che avrebbe potuto
essere” si muovono assolutamente nel vuoto.

Ma la filosofia non cristiana sembra, spesso anche agli stessi cristiani, filosoficamente
più stringente e suggestiva di quella cristiana…
Certo, la filosofia non cristiana per necessità deve argomentare in maniera più
stringente; d’altra parte la filosofia cristiana riceve, come dice Fides et Ratio, il
“coraggio della fede”. Comunque, Blondel stesso non ha mai voluto parlare di “filosofia
cristiana”, ma “cattolica”, cioè onnicomprensiva.

Come va intesa questa cattolicità, o globalità, a cui la filosofia deve tendere?


Direi che oltre a un eclettismo deteriore (quello che prende un po’ da una dottrina e
un po’ da un’altra, senza una vera sintesi coerente ed originale) ci dev’essere in filoso-
fia, e in particolare in quella di ispirazione cristiana, un eclettismo superiore che accetta
il vero ovunque si trovi. Nel De veritate, Tommaso riprende il salmo: “Diminutae sunt
veritates a filiis hominum” [“Sono venute meno le verità dai figli dell’uomo”] e spiega
pressappoco così: “Noi umani abbiamo sempre soltanto frammenti di verità; ma come in
ogni frammento di uno specchio infranto vediamo rispecchiata la stessa faccia, così in
questi frammenti troviamo la verità tutta”.

LA TEOLOGIA DEL FILOSOFO

Questo può andar bene filosoficamente: ma teologicamente?


In teologia ancor di più. Le definizioni dogmatiche sono perlopiù espresse in forma
negativa o disciplinare: disciplinano il parlare, anche in vista di poter dire il “fatto”.

Non è questa la difficoltà odierna del pensiero cattolico, incerto tra le tentazioni del
“pensiero debole” e quelle del ricorso prevalente a un “pensiero autoritativo”?
Ciascuno dei due atteggiamenti nasconde l’assolutezza della verità, che proprio
perché absoluta non è rinchiudibile in una formula: noi non possiamo dominarla total-
mente. Uno dice: “Io l’ho trovata”; e l’altro dice: “Non è trovabile”; ma entrambi sba-
gliano. Molto più appropriata è la formula di Ricoeur: “Spero di essere nella verità”. La
verità è sempre più ricca della nostra comprensione di essa.

Qual è lo stato della Teologia oggi, e di quella cattolica rispetto alle altre?
La teologia protestante è speculativamente più elaborata di quella cattolica. Ri-
spetto ai colleghi cattolici, i teologi protestanti perlopiù hanno una maggior conoscenza
biblica, ma anche una maggior forza speculativa; questo sia perché godono general-
mente di una migliore collocazione accademica, con più opportunità di studio e ricerca;
e poi probabilmente perché non hanno un magistero su cui “riposare”.

11
L’ERMENEUTICA DELLA STORICITÀ
[“VERITAS UT FACTUM”]

L’APPROCCIO STORICO IN FILOSOFIA E TEOLOGIA

Lei ha sempre amato definirsi semplicemente come uno “storico del pensiero” (filo-
sofico e teologico); ma alla luce di quanto abbiamo discusso, direi che è un “pensatore
storico”. Quale interazione c’è e ci dev’essere tra i due aspetti?
Come accennavo, l’opposizione antica fra doxa e aletheia oggi si dovrebbe ripen-
sare come opposizione tra opinione e fatto; e il “fatto” è la veritas storica: ciò che di
fatto hanno pensato i grandi filosofi è per noi via alla verità.

Lei nelle lezioni e nei seminari ha sempre molto insistito sull’interpretazione dei testi.
Se in generale i “fatti” sono l’oggetto della storia, il testo filosofico o teologico è il
“fatto” della storia della filosofia o della teologia. Il testo è una tessitura che rimanda
all’universo dei testi. L’autore traspare nel testo, ma mai del tutto.
Il fatto ha senso “a parte post”. Noi non sappiamo ancora del tutto cosa abbia si-
gnificato, ad esempio, l’11 settembre 2001, con gli attacchi terroristici alle Torri ge-
melle; i posteri lo sapranno meglio di noi. Analogamente, in generale, gli interpreti, ve-
nendo più tardi, conoscono le opere meglio dei rispettivi autori ed attori. Il fatto è come
un sasso gettato nell’acqua, che genera cerchi concentrici.

Per questo lei, cercando il “non detto” degli autori e il loro “segreto”, tratteggiava
l’intero pensiero di un autore, anzi un intero movimento di pensiero, in un suo “testo
chiave” 10 (quasi a leggere “il tutto nel frammento”)…
Ci sono testi densi che si possono leggere e rileggere e altri che alla seconda lettura
sono insipidi. Per fare bene storia della filosofia bisogna fare filosofia, bisogna fare lo
stesso che fece l’autore quando scriveva. È d’altra parte, per far bene filosofia è neces-
sario fare storia della filosofia, sia per entrare nel fatto del pensiero, sia per non
“scoprire ogni volta l’acqua calda”.
Nel “raccontare” poi la storia del pensiero, occorre procedere accentuando i tratti
distintivi: è il principio della “caricatura” portato a livello dell’interpretazione dei testi.
Mi sono servito del metodo diacronico per ricostruire il pensiero insito nel testo
dell’autore attraverso la rispettiva storia delle fonti, della redazione, degli effetti e delle
interpretazioni; mi sono servito invece del metodo strutturale (“Form und Sinn”) per pa-
ragonare autori diversi e privi di rapporti di dipendenza diretta: Hegel e Blondel. Questo
è possibile perché la struttura di un testo non è del tutto astratta: la sua tessitura formale
è già, in qualche modo, significato.

10
Cf Testi-chiave del pensiero moderno, 2 vol., PUG, Roma 21989.

12
LA STORIA DELLA FILOSOFIA MODERNA IN PROSPETTIVA TEOLOGICA

Lei ci diceva che la storia della filosofia moderna a partire dal nominalismo poteva es-
sere considerata come una storia del problema della salvezza.
Sta di fatto che il cosiddetto “nominalismo” era la prima filosofia costruita “a fun-
damentis” su una premessa cristiana, occisa la creazione libera del mondo da parte di
Dio. Procedendo da queste premesse, la storia della filosofia moderna è intimamente
intrecciata con la teologia, specialmente quella luterana, ed era quello che mi interessa-
va. Che, come osservava Nietzsche, la filosofia tedesca derivi dalla teologia protestante
è un fatto storico difficilmente negabile.

LA “GUIDA PRATICA” ALL’ATTUAZIONE DELLA VERITÀ


[“VERITATEM FACERE IN CARITATE”]

LA METODOLOGIA

Alla luce di queste riflessioni sull’azione e sul fatto, non stupisce che il suo libro più
fortunato sia la “Guida pratica allo studio” 11, su cui si sono formate generazioni di
studenti (personalmente ne fui conquistato) e che l’opera a cui lei si è maggiormente
dedicato sia quella di direzione della ricerca di tanti dottorandi, che incoraggiava a fa-
re come Giacobbe attraversando l’oscurità, abbandonando i pregiudizi, e afferrando il
proprio oggetto di ricerca fino a riceverne beneficio.
Con la Guida pratica volevo aiutare i principianti a superare le prime difficoltà nel-
la vita universitaria tanto diversa da quella del liceo. Per i dottorandi poi, ogni tesi è
un’avventura a sé: “habent sua fata libelli” e purtroppo “nonumque prematur in annum”.

L’UNIVERSITÀ ECCLESIALE E LA PIÙ AMPIA COMUNITÀ SCIENTIFICA

Come Decano della Facoltà di Filosofia della Gregoriana lei ha potuto in qualche
modo contribuire alla elaborazione di un progetto culturale, secondo una certa idea di
Università 12.
Sono stato decano della facoltà di filosofia della Gregoriana una prima volta dal
1972 al 1978: in quel periodo è stata approntata la riforma degli studi filosofici per la
licenza. È stato attivato il curriculum di specializzazione in questioni filosofiche della
religione cristiana; accanto all’altro curriculum, diretto da padre Wetter, sulla filosofia
marxista.
Già prima, avevo fatto parte di una commissione di pianificazione sul futuro della
Gregoriana, voluta dal padre Arrupe, allora Preposito Generale della Compagnia. Ab-
biamo salvato la Gregoriana, sulla cui possibile soppressione allora si discuteva

11
Cf Guida pratica allo studio, PUG, Roma 31992
12
Cf anche La place de la philosophie dans l’enseignement théologique, in “Gregorianum” 1969, p.
777-802; Le teologie e la filosofia: considerazioni storiche, in: Filosofia e teologie contemporanee, Mor-
celliana, Brescia 1975, p. 140-145.

13
(piuttosto accademicamente, è vero). Tutte le altre commissioni che nel tempo si sono
succedute non hanno aggiunto molto al lavoro fatto allora.
La nostra commissione doveva affrontare il grande momento di un duplice cam-
biamento: quello intorno al Sessantotto, con tanti piani di riforma universitaria che era-
no in giro, e quello dopo il Concilio, con la diminuzione di personale gesuita: c’era chi
voleva che la Compagnia lasciasse la Gregoriana, ma capimmo che così facendo la
Gregoriana sarebbe stata molto meno libera; capimmo che in prospettiva avremmo
avuto più difficoltà a trovare professori gesuiti che a raccogliere le risorse necessarie ad
assumere professori non gesuiti.
La seconda volta sono stato decano dal 1990 al 1993, quando, divenendo vescovo
ausiliare di Coira, ho lasciato l’Università.

Durante il suo secondo decanato, lei fece sì che in facoltà venissero presi alcuni giova-
ni professori non gesuiti, anche laici. Fu in questo contesto che maturò un’idea che ci
affascinò, quella di università non più solo ecclesiastica, ma ecclesiale…
È forse questa una prospettiva che si potrebbe maturare.

Qual è il ruolo delle discipline teologiche nell’idea generale di università degli studi?
Una facoltà di teologia dovrebbe essere (almeno idealmente) in una università
completa degli studi; allo stesso modo una università, anche statale, per essere completa
dovrebbe comprendere una facoltà di teologia, come anche Eric Weil, pur ateo, amava
ripetere.

E come vede adesso l’università ecclesiale e il curriculum degli studi ecclesiastici?


Meglio avere poche cose ben fatte, quelle essenziali da approfondire e quelle in cui
si possa essere davvero competitivi.
Quanto all’insegnamento, dovremmo ridurre i nostri programmi. Il programma ec-
clesiale di formazione filosofica dovrebbe essere improntato a criteri di essenzializza-
zione e approfondimento. Potrebbe essere utile offrire alcuni seminari filosofici fino alla
fine degli studi teologici. Anche la ripresa degli studi filosofici dopo la teologia spesso
si è rivelato fruttuoso.
C’è poi un servizio alla Chiesa che i professori di una università ecclesiale devono
svolgere, perlopiù nel nascondimento, così come ad esempio del padre Gundlach ironi-
camente si diceva che le migliori opere le avesse scritte con lo pseudonimo di
“Pio XII”.

L’università si inserisce nella più ampia comunità scientifica. A tal proposito, lei è stato
a lungo impegnato nel Comitato Direttivo della Federazione Internazionale delle So-
cietà di Filosofia, come pure nel Centro di Studi filosofici di Gallarate (il movimento
che raccoglie i filosofi cattolici italiani): lo attestano le decine di suoi interventi pubbli-
cati negli atti dei rispettivi convegni.
Per la mia esperienza è stato importante essere stato il successore di padre Boyer
nel Direttivo della Federazione Internazionale delle Società di Filosofia, che ha 40
membri e si riunisce una volta l’anno. Era occasione per incontrare i massimi corifei
della filosofia, fra cui c’erano almeno cinque preti cattolici.

14
Sono stato per vari anni impegnato con Gallarate, come aiutante di Padre Giacon,
fondatore del Centro; quando lui è venuto meno, hanno però voluto che il Segretario del
Centro fosse un italiano.

Inoltre, lei è stato regolarmente presente ai Convegni romani organizzati da Castelli, in


cui si confrontavano filosofia e teologia 13, ed è stato coeditore tedesco della rivista
cattolica internazionale “Communio”, per cui ha pubblicato numerose brevi, ma incisi-
ve monografie su concetti fondamentali del cristianesimo, trattati a cavallo tra filosofia
e teologia 14: ad esempio, peccato originale, mistero, Dio dei filosofi…
Sì, anche se molti di questi non sono propriamente miei temi preferiti.

LA COMUNICAZIONE

Un ultimo, ma non meno importante, campo delle sue attività è stato quello delle comu-
nicazioni sociali.
Questo aspetto dei miei studi e del mio insegnamento è iniziato quando il padre
Carlo Maria Martini (allora Rettore della Gregoriana) mi incaricò nel 1980 di fondare in
Gregoriana il Centro interdisciplinare per le comunicazioni sociali (CICS).

Perché proprio lei?


Per due ragioni: già prima si parlava della necessità di fondare un centro per la
formazione alle comunicazioni sociali; e a spingere di più era il rappresentante del Ge-
nerale per le comunicazioni, Padre Bamberger, che era svizzero e spingeva me, suo
connazionale. D’altra parte, per tale fondazione ci voleva una persona che avesse espe-
rienza di decanato, e siccome io ero in scadenza come decano di filosofia e “philosophia
ad omnia utilis”, pensava che un filosofo potesse fare anche questo. Così mi sono messo
a studiare comunicazioni sociali. Anche questo ho cercato di farlo filosoficamente e sto-
ricamente, e così ho imparato quanto fosse importante il concetto di comunicazione sia
in filosofia che in teologia, specialmente in San Tommaso 15.

A sua volta, lo studio delle comunicazioni sociali le è risultato “ad omnia utilis”?
È l’unica cosa dei miei studi che mi sia rimasta come vescovo: sono diventato ve-
scovo responsabile per i media della Svizzera; poi mi hanno eletto presidente della
Commissione Episcopale Europea per i Media (CEEM), che fa parte del Consiglio delle
Conferenze Episcopali Europee.

13
Tali convegni sono stati continuati da Olivetti; tra gli atti, cf Ontologie et Religion. De S. Anselme
à Blondel, in “Archivio di Filosofia” 1990, p. 421-434.
14
I principali contributi sono stati raccolti nel volume Glauben - Denken - Leben, Communio, Köln
1993; molti articoli sono stati tradotti nelle edizioni italiana, francese, spagnola della rivista.
15
Cf Überlegungen zu einer Theologie der Kommunikation, in “Seminarium” 1986, p. 791-801. La
mia stessa tesi (Il concetto di comunicazione […] in Tommaso d’Aquino) è nata da questi insegnamenti.

15
Bisogna puntare di più sulla “comunicazione della Chiesa” (“ad extra”), oppure (“ad
intra”) sulla “comunicazione nella Chiesa”?
Non mi stanco di ripeterlo: la qualità della comunicazione della Chiesa dipende da
quella della comunicazione nella Chiesa. È un punto su cui vorrei che si discutesse di
più. Purtroppo resiste ancora a volte una certa vecchia mentalità ecclesiastica, per cui
vale più il segreto che la trasparenza.
È una lezione che abbiamo imparato anche dal fenomeno degli scandali recenti, so-
prattutto in America. Occorre dire sempre la verità, anche se non sempre occorre, anzi a
volte non è giusto, dirla tutta.
Ma anche nel normale esercizio del discernimento ecclesiale, l’obbedienza
all’autorità non va disgiunta dalla franchezza.

L’EPISCOPATO

Nel 1993 il Papa Giovanni Paolo II, l’ha voluta come Vescovo ausiliare e Vicario Ge-
nerale di Coira (con residenza a Zurigo), per contribuire a stemperare le tensioni in
quella chiesa locale. Il suo motto episcopale (“Virtus in infirmitate”), di ispirazione
paolina, ricorda che il vescovo spesso non ha molti mezzi di potere, ma deve affidarsi
alla potenza di Dio. La filosofia l’ha aiutata nel suo ministero pastorale?
Perlopiù nel senso di “prendere le cose con filosofia”, ossia con una certa distanza
e un po’ di umorismo.

E la “metafisica del fatto” l’ha aiutata nella programmazione pastorale?


Innanzitutto il “fatto” precede spesso la riflessione. Così è stato ad esempio per la
questione dei ministeri laicali, di cui mi sono occupato per la commissione teologica in
Svizzera.
Inoltre, il “fatto” è prospettico. Governare, soprattutto nella Chiesa, non consiste
nell’imporre programmi dall’alto, ma nel cercar di capire la direzione dei venti e la rotta
della nave, per poterla dirigere pragmaticamente a destinazione.
Infine, se le attività passano, i fatti invece restano. Nel mio servizio episcopale mi
sono riproposto soprattutto la realizzazione di piccoli fatti permanenti. Fra questi cito la
realizzazione di una cappella ecumenica alla stazione centrale di Zurigo: il primo anno
ha avuto centomila visitatori; il secondo centocinquantamila; sono tante persone, che
altrimenti forse non avrebbero mai messo piede in una chiesa.

CONCLUSIONE

Quale consegna ci lascia?


Mantenere la fortezza; tenere l’equilibrio; non tacere.

Andrea Di Maio

16

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