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Bergson

Henri Bergson nacque a Parigi nel 1859 da famiglia ebrea. Studiò alla Scuola Normale e conseguì il
dottorato in filosofia nel 1889 con due dissertazioni, una in latino e l’altra in francese. Quest’ultima,
il Saggio sui dati immediati della coscienza, fu pubblicata nello stesso anno ed ebbe un grande
successo. La seconda opera importante, Materia e memoria, apparve nel 1896 ed ebbe una
notevole influenza su William James (del pragmatismo americano) e su Marcel Proust (di cui
Bergson sposò una cugina). Tre anni dopo, Bergson venne chiamato ad insegnare al Collège de
France. Il filosofo continuò a scrivere e a mietere successi : Introduzione alla metafisica (1903),
L’evoluzione creatrice (1907), Durata e simultaneità (1922). Divenuto accademico di Francia, nel 1928
gli fu conferito il premio Nobel per la letteratura. La sua ultima opera importante è del 1932 : Le
due fonti della morale e della religione. Negli ultimi anni di vita egli si avvicinò al cattolicesimo, senza
tuttavia abbracciarlo ufficialmente per solidarietà con la comunità ebraica ormai oggetto delle
persecuzioni naziste. Morì a Parigi, ancora occupata dai Tedeschi, nel 1941.

Henri Bergson è stato considerato il filosofo francese più importante del suo tempo. Il suo influsso
è stato notevole sulla filosofia del primo Novecento ed anche in campo più genericamente culturale
(si pensi a Proust e alla concezione del tempo): è stato il primo filosofo che ebbe il Nobel per la
letteratura nel 1928. Il pensiero di Bergson ha come suo presupposto la ridefinizione dei rispettivi
ordini di competenza della scienza e della filosofia. Egli dichiara infatti che il suo tentativo è duplice
: da un lato quello di purificare la scienza dallo scientismo, ossia da una metafisica che si
maschera da conoscenza scientifica positiva, e dall’altro quello di liberare la filosofia da una
concezione di se stessa che non ne salva l’originalità, in quanto la riduce ad una sorta di super-
scienza, il cui compito si risolverebbe nel sintetizzare i risultati delle scienze positive, portandoli ad
un livello di generalizzazione.

Negli anni giovanili, Bergson si entusiasmò per la teoria evoluzionistica di HERBERT SPENCER
(1820-1903), al punto che egli non voleva far altro che perfezionare e consolidare i Primi principi
(1862) di Spencer (è il primo volume dell’opera Sistema di filosofia sintetica, in cui la teoria
dell’evoluzione è presentata come una grandiosa metafisica dell’universo, che dà luogo ad una
concezione ottimistica del divenire, visto come un inarrestabile progresso). Ma fu proprio
riflettendo su queste tematiche che Bergson si accorse che il Positivismo non mantiene affatto la
promessa di fedeltà ai fatti, come appare ad es. nella trattazione del problema del tempo.

La concezione del tempo


Alla concezione scientifica, meccanica sfugge il tempo dell’esperienza concreta. Nel Saggio sui dati
immediati della coscienza (1889), Bergson sostiene che il tempo è considerato dalla meccanica come
una serie di istanti uno accanto all’altro : è un tempo spazializzato ed anche reversibile, perché
possiamo tornare indietro e ripetere infinite volte lo stesso esperimento. Inoltre per la meccanica
ogni momento è esterno all’altro ed è uguale all’altro : un istante si sussegue ad un altro, e non
c’è un istante più intenso o più importante di un altro. Il tempo vissuto invece dall’esperienza
concreta è totalmente diverso. Se la spazialità è la caratteristica delle cose, la durata è la
caratteristica della coscienza. Durata vuol dire che l’io vive il presente e nel presente con la
memoria del passato e l’anticipazione del futuro. Passato e futuro possono vivere soltanto in una
coscienza che li salda nel presente. La durata vissuta non è quindi il tempo spazializzato della
meccanica. Si badi : il tempo spazializzato funziona bene per le finalità pratiche della scienza, ma
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la scienza è del tutto inadeguata per l’esame dei dati concreti della coscienza.

La libertà
All’idea della durata, quale fondamentale caratteristica della coscienza, Bergson lega la sua difesa
della libertà e la sua critica al determinismo, se esso presume di poter spiegare la vita della
coscienza. La vita della coscienza non è divisibile in stati separati e distinti, l’io è una unità in
divenire. E quindi dove nulla vi è di identico, non vi è nulla di prevedibile. Se la vita dell’io è presa
nel suo flusso ininterrotto, allora si può scorgere che alcuni atti nascono dalla totalità della
personalità e, proprio per questo, sono liberi : “Siamo liberi quando i nostri atti scaturiscono da
tutta la nostra personalità, quando la esprimono, quando hanno con essa quella indefinibile
rassomiglianza che si trova talora tra l’artista e la sua opera”. La libertà non è quindi definibile,
giacché ogni definizione è il risultato di un’analisi, la quale implica la trasformazione di un processo
in una “cosa”; mentre la libertà è qualcosa di cui noi siamo immediatamente consapevoli ma che
non può essere dimostrata. Siccome poi essa è propria dell’io profondo, non sempre noi siamo
veramente liberi nel nostro agire, anzi spesso è l’io superficiale che predomina : l’io cioè che
subisce le varie determinazioni, tra le quali hanno particolare incidenza le pressioni sociali.

Memoria, ricordo, percezione


In Materia e memoria (1896), Bergson cerca di “cogliere più chiaramente la distinzione del corpo e
dello spirito e di penetrare più intimamente nel meccanismo della loro unione”. Contro quelli che
riducono lo spirito a materia o che considerano gli stati mentali e quelli cerebrali come due diversi
modi di riferirsi allo stesso processo, Bergson ribadisce che il cervello non spiega lo spirito e che
“in una coscienza umana c’è infinitamente di più che nel cervello corrispondente”. Egli distingue a
questo proposito tra memoria, ricordo e percezione. La memoria coincide in pratica con la stessa
coscienza e non può essere collocata spazialmente nel cervello. La memoria, per realizzarsi, ha
bisogno dei meccanismi legati al corpo, ma essa è indipendente dal corpo stesso, così che ad es.
una lesione del cervello non colpisce propriamente la coscienza ma i ricordi, i collegamenti tra la
coscienza e la realtà (la coscienza resta intatta anche se perde il contatto con le cose). Da questa
memoria spirituale, che è la durata della coscienza, si distingue appunto il ricordo. La funzione del
cervello consiste nel far filtrare solo quei ricordi che possono interessare l’azione da compiersi. Il
cervello, in altri termini, passa solo una parte molto piccola di quello che è il processo della
coscienza. La percezione è, per Bergson, “l’azione possibile del nostro corpo sugli altri corpi”. Con
tale definizione egli intende dire che la percezione non ha un carattere puramente conoscitivo ma
pratico, operativo perché percepire significa modificare la realtà materiale in base alle esigenze
del nostro corpo, cioè in pratica agire.

L’evoluzione creatrice
Ne L’evoluzione creatrice (1907), Bergson elabora una “visione del mondo” che sintetizza il suo
pensiero. Al pari della vita della coscienza, la vita biologica non è una macchina che si ripete,
sempre identica a se stessa, bensì è continua ed incessante novità, è creazione, imprevedibilità, è
vita sempre nuova che, inglobando e conservando l’intero passato, cresce su se stessa. La nozione
di evoluzione creatrice permette a Bergson di andare al di là del meccanicismo e del finalismo,
giacché la vita è vista come “una realtà che si stacca nettamente sulla materia bruta”. La vita –
abbiamo detto – è creazione libera e imprevedibile, è slancio vitale, mentre la materia non è altro
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che il momento dell’arresto di quello slancio vitale. La vita è continua creazione di forme, dove
quel che viene dopo non è una semplice ricombinazione degli elementi che c’erano prima; essa è
azione che di continuo si crea e si arricchisce, mentre la materia è azione che si dissolve e si
logora, che si depotenzia e si degrada. In altri termini, la materia è slancio vitale degradato,
slancio che ha perduto di creatività; è un riflusso dello slancio vitale che, a partire da una originaria
unità, si irraggia e ricade in una molteplicità di elementi, il cui slancio e creatività vanno
spegnendosi. L’evoluzione creatrice, dunque, non è un processo uniforme. Essa dà origine alla vita
vegetale, a quella animale e a quella razionale. Non si tratta di tre gradi successivi di una
medesima tendenza, ma di tre tendenze divergenti, di una attività che si è divisa nel suo sviluppo :
il mondo vegetale è caratterizzato dalla fissità e dalla insensibilità, mentre nel mondo animale si
trovano la mobilità e la coscienza, con prevalenza della vita istintiva di alcune specie e di quella
intelligente in altre. Anche se Bergson considera praticamente ogni animale dotato della coscienza
(“Sarebbe assurdo rifiutare la coscienza ad un animale, perché non ha cervello, quanto dichiararlo
incapace di nutrirsi perché non ha stomaco”), vi sono naturalmente molte differenze tra l’uomo e
gli altri animali, ed una non trascurabile è quella tra istinto e intelligenza.

Istinto, intelligenza, intuizione


L’istinto, dice Bergson, è necessariamente specializzato, non essendo che l’utilizzazione di uno
strumento determinato; in altre parole, è la facoltà di usare e anche di costruire strumenti organici
cioè che sono parti dell’organismo stesso. L’intelligenza è invece la facoltà di riuscire a fabbricare
oggetti artificiali, in particolare degli utensili per fare degli altri utensili, e di variarne
indefinitamente la fabbricazione, il che gli animali non riescono a fare. Così l’uomo, per Bergson.,
prima di essere sapiens, è soprattutto homo faber. Se l’intelligenza è consapevole, conosce i rapporti
tra le cose, distaccandosi dalla realtà immediata, può anche prevedere quella futura. Per ragioni
pratiche, dunque, l’intelligenza analizza e astrae, classifica, distingue e frantuma la durata reale.
Però “mille fotografie di Parigi non sono Parigi”. Dunque né l’intelligenza né tantomeno l’istinto ci
danno la vera realtà : “ci sono cose che soltanto l’intelligenza è capace di cercare, ma che da sé
non troverà mai; soltanto l’istinto potrebbe scoprirle, ma esso non le cercherà mai”.
Fortunatamente per l’uomo, egli possiede anche l’intuizione : essa è immediata come l’istinto e
consapevole come l’intelligenza. L’intuizione è “la visione dello spirito da parte dello spirito”.
L’intelligenza gira attorno all’oggetto, ma non entra in esso, come fa l’intuizione. Ed è sempre
l’intuizione che ci svela la durata della coscienza e il tempo reale, e che ci rende consapevoli di
quella libertà che siamo noi stessi.

Scienza e filosofia
La scienza usa come strumento l’intelligenza, e proprio per questo mira al controllo concettuale e
pratico dell’ambiente in cui l’uomo vive. La filosofia, al contrario, intesa come metafisica, si serve
dell’intuizione e “riserva per sé lo spirito”. Non si tratta di svalutare la scienza a favore della
filosofia, ma di tenere presente che esse ci offrono due mondi diversi : la scienza ci dà un mondo
costruito in forma di simboli, senza del quale non si potrebbe vivere, giacché si può agire solo in
un mondo in cui le cose sono distinte; la filosofia ci dà la coscienza della realtà, come continuo
flusso del divenire; essa intuisce e così ci fa entrare in contatto diretto con le cose e con
quell’essenza della vita che è la durata. D’altronde entrambe sono in relazione tra loro : la scienza
può fornire verifiche per la metafisica, mentre quest’ultima può, proprio perché basata
sull’intuizione, aiutare la scienza a correggere i suoi errori. Né tutto nella filosofia si riduce ad

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intuizione, giacché uno sforzo di riflessione rimane necessario per afferrare il contenuto
dell’intuizione stessa. Per questo la filosofia non può fare a meno del lavoro di concettualizzazione
e del linguaggio, ed essa si instaura proprio sul continuo rimando tra intuizione ed espressione.
Anche nella forma più alta di intuizione come quella di cui godono i mistici, l’uso del linguaggio,
anche se immaginoso, diviene la via più appropriata per comunicare qualche cosa agli altri delle
esperienze avute.

Società e religione
Bergson dedica la sua ultima opera, Le due fonti della morale e della religione (1932) al tema della
creatività morale e religiosa dell’uomo. Le norme morali hanno due origini: o la pressione sociale
oppure lo slancio d’amore. Nel primo caso, le norme sono appunto il frutto della pressione sociale,
esprimono le esigenze della vita associata. L’individuo, in genere, segue la via che trova già
battuta dagli altri e codificata nelle norme della sua società; si adegua alle regole di questa, ne
esalta gli ideali e cerca di conformarvisi. Alla base della società c’è solo l’abitudine di contrarre
abitudini. Questa morale dell’obbligazione è tipica di una società chiusa, dove l’individuo agisce
come parte di un tutto, e questo tutto è un gruppo determinato come la nazione, la famiglia o il
club. Esiste poi anche la morale della società aperta. E tale è la morale del cristianesimo, dei saggi
della Grecia e dei profeti di Israele. tale morale è l’opera creatrice di eroi morali che vanno al di là
dei valori del gruppo cui appartengono per guardare all’uomo in quanto uomo, all’intera umanità. Il
fondamento della morale aperta è la persona creatrice; il fine ne è l’umanità; il suo contenuto è
l’amore verso tutti gli uomini; la sua caratteristica è l’innovazione morale, capace di rompere gli
schemi fissi delle società chiuse.

Anche nella vita religiosa Bergson distingue una religione statica e una religione dinamica. La
religione statica è quella basata su miti e favole. Essa, con le sue favole, miti e superstizioni,
rafforza i legami sociali tra l’uomo e i suoi simili; inoltre dà la speranza nell’immortalità, offre
all’uomo l’idea di una difesa contro l’imprevedibilità e la precarietà del futuro, gli dà il senso di una
protezione soprannaturale e la credenza di poter influire sulla realtà, specialmente quando la
scienza e la tecnica risultano impotenti. Ma non è l’unica forma di religione. Vi è anche la religione
dinamica o aperta, che è quella dei mistici. Il misticismo è “una presa di contatto e, di
conseguenza, una coincidenza parziale, con lo sforzo creatore, che la vita manifesta. Questo sforzo
è di Dio, se non è Dio stesso… Dio è amore ed oggetto di amore : qui è tutto il misticismo”.
L’esperienza del divino come amore deve tradursi in una operosità che mira a promuovere la
creatività dell’uomo e l’amore per i propri simili. Di qui, a giudizio di Bergson, la differenza tra
misticismo orientale e quello cristiano. Mentre il primo è contemplativo e non crede all’efficacia
dell’azione, il secondo (quello di San Paolo, S. Francesco, S. Teresa, S. Caterina, S. Giovanna
d’Arco ecc.) è un superiore punto di slancio per l’azione del mondo. L’amore di Dio diventa, così,
amore per tutta l’umanità. Oltre a ciò, è solo l’esperienza mistica, secondo Bergson, che può
fornire l’unica prova per dimostrare l’esistenza di Dio : l’accordo tra i mistici delle varie religioni
indica appunto l’esistenza reale di quell’essere col quale l’estasi mistica mette in contatto.
L’umanità odierna, conclude Bergson, ha urgente bisogno di genî mistici. Il potere dell’uomo sul
mondo, grazie alle scienze, si è ingrandito a dismisura. Ebbene, tutto ciò “attende un supplemento
di anima e la meccanica esigerebbe una mistica”, visto che l’universo ha come sua funzione
essenziale quella di essere una macchina per fare dèi.

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Heidegger

Martin Heidegger nacque a Messkirch, nel Baden, il 26 Settembre 1889. Si laureò in filosofia a
Friburgo nel 1913. Fu assistente di Husserl per molti anni. Nel 1923 diventò professore a
Marburgo. Nel 1927 pubblicò Essere e tempo. L'anno successivo fu chiamato a succedere ad Husserl
alla cattedra di Friburgo. Nel 1929 pubblicò la prolusione ufficiale col titolo Che cos'è la metafisica?.
Nel 1933 fu nominato rettore dell'università di Friburgo e aderì al partito nazista. Si dimise però
dall'incarico l'anno successivo per dissensi col governo e smise di occuparsi di politica. Continuò a
pubblicare molte opere che segnano la filosofia del Novecento: Kant e il problema della metafisica,
L'essenza del fondamento, Introduzione alla metafisica, Sentieri interrotti, Nietzsche, La dottrina platonica
sulla verità, Lettera sull'umanismo, In cammino verso il linguaggio ecc. Morì a Messkirch il 26 Maggio
1976.

ssere e tempo, l'opera che nel 1927 impose Heidegger all'attenzione del mondo filosofico e non,
porta come epigrafe un passo del Sofista di Platone (244a), in cui si dice che, nonostante
l'apparente ovvietà del concetto, il termine essere è ben lungi dal significare qualcosa di chiaro,
che non abbia bisogno di un'indagine approfondita. Come ai tempi di Platone, anche per noi la
nozione di essere è solo apparentemente ovvia, per cui - conclude Heidegger - è necessario
riproporre il problema dell'essere. Il primo problema è ovviamente quello di determinare quale
possa essere l'ente che deve essere interrogato, cioè al quale la domanda sull'essere sia
specificamente rivolta. Questo ente non è altro che l'uomo, che Heidegger indica con la parola
Esserci (Dasein). Interrogando dunque l'Esserci, possiamo cercare che cosa sia l'essere e sperare di
trovarne il senso. Ma il modo di essere tipico dell'Esserci è l'esistenza. Allora la filosofia dovrà in
primo luogo essere un'anali dell'esistenza, ovvero una analitica esistenziale che sarà la strada
preliminare da percorrere per poi fondare l'ontologia, cioè la scoperta del senso dell'essere.

L’analitica esistenziale
Con questo viene già data una caratteristica fondamentale dell'esistenza: la comprensione
dell'essere è una possibilità dell'esistenza (che, come abbiamo già detto, è l'essere tipico
dell'Esserci, cioè dell'uomo). La struttura invece fondamentale dell'esistenza è di essere
trascendenza. E il termine verso cui l'Esserci trascende, è il mondo, per cui la trascendenza è
definita più esattamente come essere-nel-mondo. Trascendere verso il mondo significa fare del
mondo stesso il progetto dei possibili atteggiamenti e azioni dell'uomo. L'uomo ha bisogno del
mondo e delle cose che lo costituiscono, e che sono la realtà-utènsile, cioè i mezzi della sua vita e
della sua azione. Essere nel mondo vorrà allora dire prendersi cura delle cose che gli occorrono:
mutarle, manipolarle ecc. L'essere di queste cose consiste nel servire come strumenti per l'uomo,
nell'essere utilizzabili. L'utilizzabilità è così per Heidegger la caratteristica fondamentale delle cose
del mondo.

L'esistenza non è solo apertura verso il mondo ma anche verso gli altri. Il rapporto tra l'uomo e gli
altri Esserci è un aver cura degli altri. Ma tale rapporto può assumere due diverse forme: può
sottrarre agli altri le loro cure (forma inautentica di coesistenza), oppure può aiutarli ad essere
liberi di assumersi le proprie cure (forma autentica di coesistenza). Per comprendersi, l'uomo può
assumere come punto di partenza sé stesso oppure il mondo e gli altri. Nel primo caso, si ha una

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comprensione autentica, nel secondo caso una comprensione inautentica. Quest'ultima è il
fondamento dell'esistenza anonima, del si dice, si fa, dove tutto è livellato, convenzionale.
Nell'esistenza anonima il linguaggio diventa chiacchiera inconsistente; inoltre un'esistenza così
vuota cerca naturalmente di riempirsi, ed è perciò morbosamente protesa verso il nuovo:
la curiosità per le apparenze è l'altro suo carattere dominante. Tutto ciò però - si badi - non
implica una condanna moralistica dell'esistenza anonima perché l'analitica esistenziale di Heidegger
non vuole dare giudizi di valore. Essa si limita a riconoscere che l'esistenza anonima è uno dei
possibili poter essere dell'uomo. Alla sua base c'è la deiezione (Verfallen), per cui l'essere umano
cade a livello delle cose nel mondo; l'uomo è gettato nel mondo in mezzo agli altri, è un Esserci tra
tanti altri. L'esistenza è un essere possibile cioè un progettarsi in avanti; ma questo progettarsi
non fa che ricadere all'indietro, su ciò che l'esistenza è già, di fatto. Tale è la struttura circolare e
conclusa dell'essere dell'uomo, che possiamo adesso chiamare anche Cura: essa è appunto l'essere
dell'Esserci, nella sua unità di esistenza, deiezione e fatticità (o effettività: l'uomo è quello che è,
diverso dalle cose).

La morte
Vi è però anche la possibilità dell'esistenza autentica, a cui l'uomo è richiamato dalla voce della
coscienza. A che cosa lo richiama la voce della coscienza? Essa lo richiama a riconoscere
l'annullamento ultimo di tutte le sue possibilità, e cioè lo richiama a riconoscere la morte. La
morte, dice Heidegger, è per l'uomo la possibilità “più propria, incondizionata, certa e come tale
indeterminata e insuperabile“. Solo se l'uomo riconosce la possibilità della morte e la assume su di
sé con una decisione anticipatrice, l'uomo può trovare il suo essere autentico. Mentre l'esistenza
banale è una fuga di fronte alla morte, la voce della coscienza chiama l'uomo all'essere-per-la-
morte, cioè alla decisione anticipatrice che consiste nel vivere-per-la-morte. Questo vuol dire
comprendere l'impossibilità dell'esistenza in quanto tale. Ad essa si accompagna una tonalità
emotiva che Heidegger chiama angoscia. Con l'angoscia, l'uomo “si sente in presenza del nulla,
dell'impossibilità possibile della sua esistenza”. Essa pone l'uomo di fronte al nulla, e il nulla si
presenta nella sua potenza di annientamento. L'angoscia fa vedere all'uomo l'insignificanza e la
nullità dei fini che gli vengono proposti nella sua esistenza quotidiana, e gli offre la possibilità di
rimanere fedele a quelli inerenti alla situazione in cui viene a trovarsi. Poiché questa situazione è
un coesistere con gli altri, fra le cose del mondo, l'esistenza autentica dà all'uomo la possibilità di
rimanere fedele al destino della comunità cui appartiene. In altri termini, la libertà per l'uomo
consiste nello scegliere e nell'accettare la sua situazione e nel rimanerle fedele. Per l'uomo vi è
anche un tempo autentico ed un tempo inautentico: il primo è dato dalla paura, dall'ora; mentre il
secondo è dato dalla decisione anticipatrice di vivere per la morte (per cui il futuro è per Heidegger
la dimensione temporale fondamentale), dall'angoscia e dalla ripetizione (nel senso della ri-scelta
delle possibilità che sono state). Il tempo così non si aggiunge all'essere dell'uomo ma l'essere è il
tempo. L'essere dell'uomo ha trovato il suo senso nel tempo. Il tempo è il senso dell'essere:
questo è quanto il titolo dell'opera di Heidegger può suggerire.

La metafisica e l’oblio dell’essere


Arrivato a questo punto, però, Heidegger deve riconoscere che non ha ancora trovato l'essere e
tanto meno il suo senso. Il senso dell'essere non può essere trovato interrogando un ente, sia pure
l'uomo, l'Esserci, “ciò che noi stessi sempre siamo“, come dice Heidegger. L'unico risultato positivo
che può derivare dall'analitica esistenziale è stato quello di scoprire che l'essere di cui si cerca il
senso non è l'essere di un ente. Ecco perché Essere e tempo è stato interrotto da Heidegger.

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Infatti maanca della seconda parte, di carattere storico, e manca soprattutto della terza sezione
della prima parte. La risposta che Heidegger dà nella Lettera sull'umanismo (1947), chiarisce il
perché della lacuna: le sezioni non vennero scritte perché il pensiero fallì quando si trattò di dire
adeguatamente la svolta (Kehre) a cui stava arrivando. Il linguaggio della metafisica non era più in
grado di esprimere il rapporto con l'essere.

Ricordo, a questo proposito, che anche se Essere e tempo fu salutato all'inizio come il più
importante documento della filosofia esistenzialistica, esso non voleva affatto essere tale.
Heidegger stesso ribadirà più volte: “Le mie tendenze filosofiche non possono essere classificate
come 'Filosofia dell'esistenza'. La questione che mi preoccupa non è quella dell'esistenza dell'uomo,
ma quella dell'essere nel suo insieme e in quanto tale” (cf. Lettera sull'umanismo, 1947).

Il termine metafisica è usato da Heidegger per indicare tutto il pensiero occidentale che non ha
saputo riconoscere l'essere. Certo, fin dagli inizi parla dell'essere e ricerca l'essere, ma ha
gradualmente confuso l'essere con le cose, dimenticando la differenza ontologica tra l'essere e gli
enti. In altre parole, il pensiero occidentale ha pensato l'essere attribuendogli qualche caratteristica
particolare, oppure l'ha pensato come il carattere comune di tutti gli enti , come una sorta di
concetto generale ed astratto (fino ad arrivare alla vanificazione del concetto stesso di essere, ad
es. in Hegel, che nella sua Logica rovescia l'essere nel nulla). L'essere è stato pensato sovente
come semplice presenza, come cosa. Da qui, secondo Heidegger, il graduale oblio dell'essere che
caratterizza la storia della metafisica occidentale. La metafisica è giunta alla sua fine col pensiero
di Nietzsche. Questi, parlando di nichilismo, indica che l'essere è scomparso: l'Occidente, dice
Heidegger, è la terra della metafisica come la terra del tramonto dell'essere. La tecnica moderna o,
meglio, la mentalità tecnologica è il fenomeno che esprimere il venire a fine della metafisica. Non
vi è oggi alcun ente davvero misterioso, tutto è dato per conosciuto o per conoscibile attraverso i
metodi razionali; la mentalità corrente è quella che conosce la cosa solo in ciò che essa ha di
funzionale. Il pensiero stesso non è diventato altro che una escogitazione tecnica, strumento esso
stesso per la soluzione dei problemi. Ma forse è proprio in questa situazione di estrema povertà di
pensiero, questo tempo di povertà (dürftige Zeit), che è possibile andare oltre ed uscire dall'oblio
dell'essere. Ciò esclude che il problema del superamento della metafisica possa essere inteso come
il problema di riuscire a parlare finalmente di quello che la metafisica ha sempre taciuto, cioè
dell'essere. È invece anzitutto la ricerca di un modo nuovo di esercitare il pensiero stesso, che non
si consideri più, nei confronti dell'essere, come elaborazione di concetti adeguati, cioè veri nel
senso di conformità al dato . A questo proposito, si pensi che la nozione comune di verità è quella
che intende la verità come conformità o adeguazione della proposizione alla cosa (adaequatio rei et
intellectus). Quando cerchiamo la verità, ci sforziamo di adeguarci alla cosa, cioè assumiamo la
cosa come norma. Ma questo modo di rapportarsi alla cosa presuppone per Heidegger un'apertura
più originaria, che è un essere-aperto alla cosa come tale. L'aprirsi alla cosa così come essa è, è un
atto di libertà: l'essenza della verità è la libertà. La verità è intesa da Heidegger come originaria
apertura e svelamento, come suggerisce l'etimologia greca della parola: essa è a-letheia, non-
velamento.

La svolta
La svolta (Kehre) di Heidegger consiste nell'instaurare un rapporto diverso tra pensiero ed essere.
Egli descrive questo rapporto in base al doppio significato che ha il genitivo nella espressione
“pensiero dell'essere”. Il pensiero può essere pensiero dell'essere in senso oggettivo, cioè
comprende l'essere: non ci può essere infatti comprensione e conoscenza dell'ente se non c'è,

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preliminarmente, una comprensione dell'essere. Oppure il pensiero può pensare l'essere soltanto
perché è dell'essere anzitutto in senso soggettivo, cioè gli appartiene. L'essere allora non potrà più
essere pensato metafisicamente come presenza, ma viene inteso come luce, come illuminazione,
nel senso che è proprio della luce lasciar apparire le cose proprio perché essa non appare
direttamente. Così è dell'essere: fa apparire gli enti, lascia sussistere la storia, solo in quanto a sua
volta si cela, si nasconde.

Se l'essere può rivelarsi attraverso le cose e gli eventi, l'uomo può coglierlo solo se si abbandona
allo svelamento dell'essere come tale. Ma lo svelamento dell'essere non può mai essere totale o
diretto. L'esistenza è allora stare alla luce dell'essere, per cui l'uomo diventa il pastore dell'essere
e la sua dignità consiste “nell'essere chiamato dall'essere stesso a far la guardia alla sua verità”. In
quanto l'uomo pensa, non può fare altro che “lasciare che l'essere sia”. L'uomo deve mettersi in
ascolto del linguaggio dell'essere e affidarsi ad esso. L'essere parla all'uomo attraverso il linguaggio
o, meglio ancora, attraverso la sua forma più autentica, che è la poesia. La poesia è intesa da
Heidegger come annuncio, appello, ed usa l'uomo come suo messaggero. L'uomo deve ascoltare il
linguaggio nella sua originaria poeticità, cioè nella sua forza fondante e creativa.

In quanto è ascolto del linguaggio, il pensiero è ermeneutica. Ermeneutica, cioè interpretazione,


incontro con il linguaggio, è allora la stessa esistenza nella sua dimensione più autentica.
L'ermeneutica a cui pensa Heidegger è quella che è capace di interpretare la parola senza
consumarla o esaurirla, rispettandola nella sua natura. In questo senso va anche intesa l'insistenza
di Heidegger su nozioni come quella di silenzio e di ascolto del silenzio. Il che non è da vedere
come misticismo, ma corrisponde al riconoscimento che l'appello a cui rispondiamo deve essere
lasciato valere come appello: il pensiero ermeneutico intende proprio lasciar essere altro
l'altro.

Concludo con alcune osservazioni riguardanti il problema di Dio. In primo luogo non si confonda
l'essere di cui Heidegger parla con Dio e tantomeno col Dio cristiano. “L'essere non è Dio né un
fondamento del mondo”, dice chiaramento Heidegger nella Lettera sull'umanismo. Ma questa non
vuole essere una dichiarazione di ateismo o di indifferentismo. Anzi Heidegger ritiene che “solo a
partire dall'essenza del sacro va pensata l'essenza della divinità”. In altre parole, Heidegger lascia
aperta la porta al problema di Dio. Egli riconosce soltanto che l'uomo contemporaneo non può
porsi tale problema se non ponendosi in quella dimensione in cui una domanda simile possa essere
posta. Questa è appunto la dimensione del sacro, che però resta chiusa, secondo Heidegger, se
non si è illuminati e aperti all'Essere. Il che oggi non accade e può darsi che una caratteristica
dell'età contemporanea sia proprio quella della chiusura alle dimensioni del sacro. Però “la
sdivinizzazione esclude così poco la religiosità che è proprio attraverso la sdivinizzazione che il
rapporto agli Dèi si trasforma in esperienza vissuta religiosa” (cf. Sentieri interrotti).

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