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INTRODUZIONE

DEL CURATORE

Il mio primo incontro con questo studio di Marc Haven, sicuramente la sua opera più bella ed
importante, nonché la più amata dai sinceri cercatori di quella che i Fedeli d’Amore chiamavano la
Sapienza Santa, avvenne alla fine della mia adolescenza. Trovai questo studio biografico sul
Maestro Sconosciuto per quello che giudicai essere un benigno dono del Cielo e dei Numi. Lo
rinven-ni in quella che era stata, ai primi del Novecento, la biblioteca dell’esoterista fiorentino
Arturo Reghini, mio concittadino. Di Arturo Reghini, ermetista e profondo conoscitore della
Sapienza italica pitagorica, cultore appassionato della tradizione classica medi-terranea, egizia,
ellenica, e soprattutto romana, della quale era innamorato, mi parlò più volte, nei vari incontri che
avevamo frequentemente, Massimo Scaligero, che di lui fu grande amico e col quale aveva condiviso
tante esperienze e idee. Massimo lo stimava profondamente non tanto per la sua illimitata
erudizione e per il suo acume dialettico, quanto per la sua statura spirituale, per il suo coraggio, per
le eccezionali esperienze interiori, per la fedeltà incrollabile, che aveva per il sentiero spirituale da
lui scelto.
Scoprii che Arturo Reghini si era occupato molto di Cagliostro sulla cui figura – e soprattutto sul
suo insegnamento – aveva scritto pagine memorabili e coraggiose all’epoca in cui, nel 1925, aveva
fondato la rivista di studi iniziatici Ignis come espressione del gruppo pitagorico e romano che
attorno a lui si raccoglieva. La rivista Ignis ebbe vita effimera a causa dell’agitazione politica
dell’epoca e delle persecuzioni alle quali venivano sottoposte a quel tempo, in varie forme, le
correnti esoteriche, ma, nell’unico anno di vita di essa, Arturo Reghini, che celandosi sotto vari
pseudonimi scriveva la maggior parte degli articoli, ritornò insistentemente sulla figura di
Cagliostro, quasi in ogni numero, illustrando e spiegando il suo sistema egiziano, commentando
alcune sue pagine, ma soprattutto difendendo a spada tratta, contro le calunnie e le diffamazioni dei
detrattori di parte avversa – numerosi in ogni epoca – l’onorabilità del suo nome, la luminosità e
l’altezza della sua missione spirituale: ermetica e rosicruciana.
Nelle pagine di Ignis, Reghini si servì criticamente di quanto poté trarre come informazioni da un
grosso manoscritto che origina-riamente era servito ai membri del Tribunale della Santa
Inquisizione nel processo intentato a Cagliostro che essi identificavano, a ragione o a torto, con
Giuseppe Balsamo. Si tratta di un volume manoscritto rilegato, recante come titolo Raccolta di
scritture legali riguardanti il processo di Giuseppe Balsamo detto Alessandro Conte di Cagliostro e
di P. Francesco Giuseppe da S. Maurizio Cappuccino, innanzi al Tribunale del S. Uffizio di Roma, di
quasi 800 pagine e del quale la V Scrittura (pp. 121-141) contiene il vero e proprio Ristretto del
Processo di Cagliostro. Questo manoscritto, rilegato nel 1790, venne segnalato per la prima volta da
Alessandro Ade-mollo nel N. 175 della Rassegna Settimanale, anno VII (1881), e quattro anni dopo
venne acquistato dallo Stato Italiano, nel 1885, e attualmente si trova con la segnatura Mss. 245 nel
fondo manoscritti della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele di Roma.
Come dimostra Arturo Reghini (Ignis N. 1-2, pp. 5 e sgg.), Mgr. Barbéri, ‘Procuratore Fiscale
generale del Governo ammesso già d’ordine al giuramento segreto del S. Uffizio sin dal dì 11
gennaio 1790 attesa l’indole e la qualità della presente causa e per il buon ordine della medesima’,
e che fu assistente dell’Abate Giuseppe Lelli durante il processo, adoperò questo manoscritto
attingendovi a piene mani per la redazione del suo Compendio della vita e delle gesta di Giuseppe
Balsamo denominato il Conte di Cagliostro, Roma, 1791, nella Stamperia della Camera Apostolica:
testo che ebbe varie edizioni italiane e che venne rapidamente tradotto in francese, in tedesco, in
spagnolo. Mgr. Barbéri durante il processo di Cagliostro funzionò da Notaro e ricevette, alla fine del
processo contro questi, l’incarico di scrivere il famigerato Compendio al precipuo scopo di
demolirne la figura e deformarne l’azione sino alla caricatura.
Reghini dimostrò la perfetta malafede di Mgr. Barbéri confron-tando il suddetto manoscritto con il
Compendio da lui scritto. Che Mgr. Barbéri abbia usato il manoscritto è dimostrato dalle numerose
pagine di esso riportate di peso nel Compendio. Nello scrivere il Compendio destinato al pubblico,
Mgr. Barbéri altera regolarmente le notizie riportate nel Manoscritto 245, che invece non era
destinato ad esser reso pubblico, e Reghini dimostra quest’opera di cosciente falsificazione facendo
un confronto puntuale di molti passi dei due scritti. La conclusione ch’egli ne trae è che: «Il
confronto tra le carte manoscritte e le pagine del Barbéri riesce assai istruttivo perché mostra a
quale criterio si è attenuto il compilato-re del “Compendio”, tacendo, svisando, falsando ed anche
inven-tando secondo l’opportunità. Ma indipendentemente dalla fatica particolare del Barbéri,
risulta dal Mss. con quale fanatica incom-prensione, preconcetta ostilità e determinato proposito
venne condotto il processo.» (ibidem p. 7). Fu una reazione dettata da gelido odio e da paura.
Infatti: «La Chiesa di Roma sentì quale pericolo rappresentava per essa l’opera di Cagliostro e,
quando lo ebbe a ti-ro, non fece molti complimenti. Lo condannò, lo diffamò e forse anche lo
uccise.» (ibidem p. 9).
Arturo Reghini, come abbiamo visto, si servì criticamente del Mss. 245, ma la sua conoscenza più
profonda di Cagliostro, egli la trasse dallo studio attento e devoto del Maestro Sconosciuto. Di Marc
Haven e della biografia cagliostriana da lui scritta, Arturo Reghini tessé in scritti, in lettere, in
colloqui con amici, i più grandi elogi, e per chi conosca bene la vita e l’opera del pitagorico
fiorentino, e soprattutto la sua famosa, addirittura proverbiale, morda-cità toscana, ciò è altamente
significativo. Gli dispiacque soltanto che Marc Haven non avesse potuto sfruttare per il suo Maestro
Sco-nosciuto, per difficoltà logistiche e motivi di salute, la conoscenza dell’esistenza del Mss. 245.
Sicuramente se avesse potuto studiar-lo a fondo ne avrebbe tratto materiale utile per il suo libro.
Nell’incontro con l’opera di Marc Haven, con mio grande stupore venni afferrato, nel leggere,
dalla sottile, potente, eppur non costringente, segreta ‘magia’ del libro. Con foga giovanile, pieno di
meraviglia e di gioia, lessi – anzi, sarebbe più esatto dire: divorai – più e più volte le pagine del
Maestro Sconosciuto, vivendo ogni volta tutte le tensioni, le lacerazioni, gli scioglimenti, le
illuminazioni improvvise che quella lettura avvincente poteva suscitare in un’anima assetata di
sapienza, alla ricerca di quel sentiero della conoscenza che vuol condurre l’uomo all’Iniziazione, ad
una superiore, cosciente, libera vita spirituale.
Tornai spesso a quella lettura non tanto allo scopo di ‘sapere’ o ‘ricordare’ qualcosa, quanto per
rinnovare ogni volta quello stupore, quella meraviglia dell’anima che nasce dalla vivente imme-
desimazione nel tessuto luminoso di quei pensieri, sperimentan-doli ogni volta nella loro freschezza
e nella loro vitalità dinamica, come fosse sempre la prima volta.
Arte meravigliosa, anzi miracolosa, è quella che permette ogni volta di suscitare novellamente la
vita dell’anima, di vivere così intensamente nell’atto della conoscenza i pensieri e le immagini, sì da
scuotere l’anima dal suo sonno comatoso e dalla paralisi traendo-la da una cecità e sordità
immemori delle realtà spirituali alla percezione della Luce e della Parola spirituale. È come
riaccendere una fiamma vivificatrice in un’anima altrimenti spenta e morente.
E questo fu, appunto, lo scopo che Marc Haven si propose nell’accingersi ad un’impresa così
temeraria sotto ogni aspetto come quella di scrivere il Maestro Sconosciuto. Voleva che il suo fosse
un libro risvegliatore e risanatore, anzi rigeneratore.
Impresa temeraria e bella quella di scrivere per indicare al poco consapevole uomo moderno,
giocato e manovrato dal potere illudente della Grande Mâyâ sino all’ubriacatura o alla narcosi o alla
disperazione, quell’arte meravigliosa e miracolosa che è l’arte del meditare: arte sottilissima e
difficile, la sola che possa cogliere o accogliere – nella breve eternità di un lampo abbagliante del
Pensiero Vivente – l’inafferrabile realtà dello spirito, più sfuggente ed inafferrabile dello stesso
Mercurio dei Filosofi, alla cui ricerca tanto si affaticavano gli Alchimisti. E sagacemente il nostro
Autore non ci dà un’esposizione del ‘pensiero’ di Cagliostro, ossia un’altra ‘dottrina’ che lo stesso
Cagliostro si guardò bene dal dare, bensì ci offre generosamente l’indicazione di un intenso operare
interiore, vòlto alla resurrezione o alla rigenerazione non solo dell’anima, ma dell’uomo intero.
Questa rigenerazione, o palingenesi, come la chiamavano gli antichi Misteri, e che Marc Haven
mostrerà essere triplice: ‘intellettuale’ o spirituale, ‘morale’ o animica e ‘fisica’ o corporea, era lo
scopo precipuo del Rito Egiziano di Cagliostro e di coloro che tentavano di percorrerne l’arduo
sentiero. In realtà questa triplice rigenerazione o palingenesi è sempre stata motivo di esistenza e
mèta di ogni Iniziazione autentica.
La figura di Cagliostro ha dato origine ad una vasta letteratura il cui studio richiede tempo,
tenacia e fatica, trattandosi veramente, nella maggior parte dei casi, di una rudis et indigesta moles.
Chi volesse seriamente e onestamente affrontarla si renderebbe rapidamente conto che quella
letteratura è costituita nella quasi totalità da testi, di varie epoche, che sono soltanto una caotica
congerie di superficialità, di invidiose falsità e, soprattutto, di malafede. Il Compendio di Mgr.
Barbéri è solo un caso fra tanti, anche se in fatto di malafede è un caso addirittura esemplare.
Periodicamente una tale letteratura conosce una sorta di revival e nuovi autori si aggiungono alla
non breve lista di coloro che per fini interessati di mondano successo e di lucro, o per puro odio
teologico ossia confessionale, o ideologico, si fanno un dovere di vomitare le loro menzogne e le loro
vuote fantasie ad un pubblico superficiale, avido consumatore di nuove sensazioni, di eccitanti
emozioni, indifferente al contenuto di verità o falsità di ciò che, come una fiction o una telenovela, è
invitato a divorare velocemente, senza riflettere, senza porsi domande.
Non è facile orientarsi nel dedalo di tale sterminata letteratura, nella quale è tuttavia possibile
trovare qualche raro, onesto, autore. E nemmeno è facile nei singoli autori trascegliere le notizie
vere, storicamente valide e preziose, dalle calunnie, dalle gratuite affermazioni, da ciò che con
grande disinvoltura è stato inventato di sana pianta. Occorre come con un vaglio separare il grano
buono dall’inutile pula e dal nocivo loglio. Non è facile trovare questa mystica vannus, come veniva
chiamato il vaglio nei Misteri di Eleusi. Questa opera di sapiente discernimento dell’essenziale e del
reale dall’inessenziale contingente e dall’irreale illusorio apparente, è stata compiuta in maniera
magistrale proprio da Marc Haven, che ha letteralmente ‘arato’ e vagliato migliaia di documenti,
analiz-zandoli con metodo scientifico e arte sottile, traendo elementi positivi persino dai libelli di
autori avversi. Egli invita il lettore vo-lenteroso a seguirlo nella ricerca della verità, ad
accompagnarlo nello sforzo di affinare lo sguardo spirituale e di risvegliare quell’organo di interiore
certezza e di percezione della verità che i sapienti di tutte le epoche hanno identificato nel ‘cuore’.
Il seguirlo nella descrizione delle tappe dell’apostolato ermetico e rosicruciano di Cagliostro non
sarà infruttuosa fatica, perché ri-pagherà ad abundantiam l’impegno profuso con intuizioni ed
illuminazioni che si mostreranno feconde nel corso del personale cammino spirituale scelto. Nel
descrivere il cammino spirituale di Cagliostro, il nostro Autore vuole descrivere in maniera
volutamente fluida e non sistematica – cioè senza scadere in una ‘dottrina’ cri-stallizzata in formule
rigide – le prove, i cimenti, il clima nel quale deve vivere il cercatore spirituale che aspiri a
percorrere il difficile sentiero dell’Iniziazione. Ne descrive le tappe, le esigenze, le essenziali
caratteristiche, le inevitabili difficoltà, i pericoli, la luminosa mèta.
Vi è un solo grande pericolo che può eventualmente fermare il lettore nel procedere alla scoperta
del mondo assolutamente nuovo cui questo libro vuol condurre ed è la paura: paura dei sommo-
vimenti interiori che la percezione di una troppo intensa luce spirituale provoca, paura delle scelte
radicali che scaturiscono necessariamente come conseguenze logiche dalla improvvisa, abrupta,
percezione della verità sul mondo, sugli altri, su se stessi, paura di dover lottare contro la
pietrificante inerzia interiore, paura di dover affrontare quel mostro divoratore che è l’altrui
opinione, la ‘pubblica opinione’ volgare o accademica, di fronte alla quale tutti idolatricamente
s’inchinano tementi e riverenti. È la paura dalla quale nasce quella che Massimo Scaligero
chiamava «l’immane potenza del convenzionale», che nei molti infrange ogni anelito verso
l’Assoluto e trascina, talvolta anche i migliori, tra i miasmi in-tossicanti dei pregiudizi, giù nel
putrido pantano della volgarità.
Contro questa ‘immane potenza del convenzionale’ Cagliostro dovette audacemente lottare ad
ogni tappa della sua missione ermetica e rosicruciana. La incontrò, come mostrerà il libro di Marc
Haven, ad ogni passo del suo cammino perché la paura domina senza residui l’uomo ‘naturale’,
ossia l’elemento umano-troppo umano in lui, e lo spinge a scegliere la comodità della via egoica al
fine di permettere la continuazione indisturbata del suo servaggio radicale ad un’animalità che
degrada l’essenza spirituale dell’uomo. Ed è la scelta che fanno tutti, la scelta apparentemente più
facile, la scelta volgare: la scelta di rimanere schiavi di un’ottene-brante ignoranza, schiavi della
brama, della paura, dell’avversione. Condizione di ottusità interiore, di inerte opacità dell’anima, di
sordità del cuore, che rende insensibili e indifferenti al mistero dell’universo e del proprio essere,
anestetizzati e narcotizzati di fronte alla tragicità dell’esistere e all’angoscia del vivere.
Questa natura umano-animale vorrebbe permanere eternamente uguale a se stessa e per questo
motivo avversa ogni possibilità di cambiamento sostanziale del proprio stato, concedendo al
massimo un tiepido e superficiale rivolgersi, come consolazione o come divagazione, ad una formale
religiosità esteriore, ad un misticismo sentimentale, ad un comodo pseudo-esoterismo. Ma si tratta
appunto, nella maggior parte dei casi, di un pavido e fiacco tentativo, per nulla convinto, destinato a
non incidere significativamente sull’andazzo abituale, perché nel profondo di sé non si vuol
cambiare nulla e a tale scopo è stata scelta la via egoica. Scelta, come abbiamo visto, determinata
proprio dalla paura, dalla paura di rinunciare all’attaccamento a quel niente che si è, paura di
perdere la brama, quella brama che viene sempre delusa nella illusoria ricerca di un inafferrabile
appagamento. Paura di veder dissolversi e morire questa a noi troppo cara natura mortale, che noi
non siamo, ma alla quale spasmodicamente c’identifichiamo e che lentamente ci uc-cide, e per
questa paura di morire restare, paradossalmente, volga-ri, animali, inevitabilmente e ottusamente
mortali.
Contro la via egoica della paura, Cagliostro audacemente indicò la via eroica, quella più scomoda
e difficile: additò la via del coraggio che affronta il limite che normalmente, come una muraglia in-
sormontabile, arresta la pavidità umana e fa desistere dal procedere oltre. È la Via che esige il
coraggio di conoscere oltre l’apparire che nasconde la vera essenza dell’uomo, di riconoscere la sua
natura autentica, originaria, che è spirituale, luminosa e immortale e non volgare, animale,
stupidamente arrogante o vigliaccamente paurosa, soggetta alle alterne e non significanti vicende
della fortuna e del caso, ottusamente indolente o selvaggiamente agitata, ma soprattutto mortale.
Per Cagliostro quella del cosiddetto uomo ‘naturale’ è la caricaturale contraffazione dello spirituale
e immortale uomo delle origini.
Ma questa luminosa immortalità spirituale, che l’uomo ha smarrito e può riconquistare, non è un
gratuito dono che la fatalità of-fra all’ignavia e alla comodità d’una pavida natura: è conquista,
ascesi, ossia sforzo attivo per portarsi oltre le condizioni della labile caducità umana. Sforzo attivo e
aspra lotta per riconquistare lo stato primordiale smarrito dall’uomo delle origini e realizzare la
triplice rigenerazione dello spirito, dell’anima e del corpo attraverso il dissolvimento, la morte e la
trasformazione di ciò che nell’uomo attuale è mortale. Perciò Cagliostro così ammoniva i discepoli
nel corso dell’iniziazione al suo Rito Egiziano:
«Qui agnoscit mortem, cognoscit artem»,
ossia chi conosca attivamente il processo di morte e dissolvimento dell’inferiore, caduca, natura
animale, conosce pure l’ermetica Arte Regia della rigenerazione spirituale e fisica che porta alla
nascita dell’Uomo Immortale. In modo simile ammoniva l’antico detto rosicruciano:
«Chi non muore prima di morire,
andrà in rovina dopo la morte».
Perciò chi, dopo severa preparazione, giungeva ad affrontare la prova cruciale, doveva dire a se
stesso:
«Il mio cuore non trema!»
Questo messaggio spirituale, questo appello energico al risveglio e al coraggio animico, la
scuotente azione indicatrice e solleci-tatrice di Cagliostro non potevano non trovare sul loro
sentiero gli ostacoli più temibili negli uomini e nelle istituzioni, per il fatto che la natura umano-
animale teme e odia ogni impulso che da fuori la solleciti a sottrarsi al suo letargo comatoso, a
risvegliarsi, a trasformarsi nobilitandosi, a riconquistare, rigenerandosi, lo stato primordiale nel
quale in origine l’uomo era luminosamente uno con il Divino e che egli ha smarrito in conseguenza
della sua caduta nella frantumazione in un’illusoria molteplicità materiale. L’uomo viene facilmente
giocato dalla sua stessa natura, che si esprime nel temperamento, nel carattere, nei moti oscuri ma
potenti che si agi-tano nella parte non cosciente della sua anima. Questa ‘natura’ che sordamente o
rabbiosamente avversa ogni sostanziale trasformazione del proprio stato, deve essere
destabilizzata, disgregata, de-composta, dissolta, per permettere l’azione in profondità dello spirito
che deve liberarsi dalla costrizione materiale, ritrovare lo smarrito stato primordiale di unione col
Divino e riplasmare l’inferiore natura in armonia con la Sopranatura. Ma l’infida natura traditri-ce
illude facilmente e gioca il poco consapevole essere umano a lei soggetto persino col farlo deviare
dal suo cammino, divergere dalla sua vera mèta, facendolo volgere verso un superficiale e comodo
misticismo sentimentale od un facile, troppo facile per essere vero, esoterismo senza autentica
tensione e capacità di trasformazione interiore.
Gli antichi Gnostici chiamavano questa infida natura, velenosamente insinuatesi nell’anima
dell’uomo, «spirito contraffatto» e la concepivano come un’entità menzognera che «abita» sin dalla
nascita l’essere umano che, analogamente al «cattivo pilota» della visione spirituale egizia, gli
ottenebra la visione della realtà spirituale, gli fa vedere «reale» l’illudente apparenza materiale,
gl’intossi-ca l’anima paralizzandone l’intima forza e lo spinge come in uno stato di stordimento, di
ubriacatura, di «mania», ad azioni folli e caotiche, dettate dalla paura, dal desiderio di
autoaffermazione, dalla brama di possesso e di godimento, dall’avversione. Questo «spirito
contraffatto», che arriva a giocare l’essere umano nelle sue più legittime esigenze, agisce in lui
come un vero e proprio «doppio arimanico» tendente a sostituirsi e a scalzare il suo vero Io
spirituale, ad asservirlo a quello che gli antichi persiani chiamavano ‘Signore dell’Oscuro Pensiero’,
Angra Mainyush o Ahrimane.
L’azione di Cagliostro ebbe l’audacia di voler giungere all’essenza della condizione umana e di
affrontare radicalmente il suo male, proponendo non un mero ‘sapere’, bensì l’azione interiore
trasformatrice, l’eroica via dell’Iniziazione nella quale il discepolo trascende l’avvilimento della
frantumazione e della dispersione del suo essere nella molteplicità materiale, ritorna ‘uno’,
riconquista lo smarrito stato primordiale raffigurato nella edenica condizione delle origini, nella
saturnia Età dell’Oro. E la prova decisiva di questa via eroica era emblematicamente raffigurata nel
sigillo di Cagliostro, ove il frutto dell’albero della vita del Paradiso terrestre o Eden, che conferisce
all’uomo l’immortalità, è raffigurato dal pomo tenuto in bocca dal serpente disegnato a forma di S e
trafitto nel centro da una freccia che con le due estremità tocca la testa e la coda del serpe,
congiungendole e formando così una figura a 8 o a lemniscata. Come noto, l’Albero della Vita si
trovava insieme al-l’Albero della scienza del bene e del male al centro del Paradiso terrestre dal
quale Adamo ed Eva, la prima coppia, vennero scaccia-ti. Il frutto dell’Albero della Vita nella
tradizione alchemica ed ermetica veniva identificato nella Prima Materia o Agente Universale o al
primo e secondo lignum vitae. Questo frutto, o Prima Materia o secondo legno di vita (concesso
all’uomo dopo la cacciata dall’Eden in sostituzione del primo perduto), è capace di restituire
all’uomo immortalità, sapienza e forza, ma egli deve superare il serpente che morde il pomo. Questa
la prova cruciale e suprema.
Superamento talmente radicale della condizione di caduta dell’uomo ‘naturale’, che nel Rito
Egiziano la donna che procedeva nel sentiero spirituale ad un certo punto doveva, in un’apposita
cerimonia, colpire e decapitare l’antico serpente.
Questo atto simbolico, dal profondo significato iniziatico, le permetteva poi di giungere a
pronunciare le parole: «Ego sum Ho-mo», le cui lettere iniziali, E.S.H., venivano incise in un gioiello
che da quel momento ella avrebbe portato su di sé. La donna e l’uomo, vincendo il serpente e
superando la caducità mortale, ritrovano nello stato primordiale riconquistato la pienezza
complementare del loro essere sino a ricostituire al di là della differenziazione ses-suale materiale,
conseguenza precipua della condizione di caduta, l’unità dell’Androgine Celeste.
Si tratta di un sentiero spirituale che esige, per essere percorso, un alto tenore morale e
conoscitivo, una purezza ieratica ed un coraggio guerriero, da via templare. Una via nella quale
venga coltivata al contempo l’Arte Regale e quella Sacerdotale, giacché è necessario ricreare la
sintesi unitiva di ciò che si scisse nella dilace-rante caduta dell’Uomo Primordiale. La realizzazione
dell’Androgine Celeste, come nell’ideale dell’Amor Platonico ellenico e rinascimentale, resta la più
alta speranza di conseguimento da parte dell’uomo non stordito e annientato dalla sua
unidimensionale identificazione nel sensibile e aspirante alla reintegrazione nel suo stato «antico e
primitivo».
Atto temerario e inaudito fu giudicato quello di voler portare, sia pure con tutte le cautele
necessarie in campo iniziatico e nelle forme possibili nel XVIII secolo, una concreta via di
conoscenza indistintamente all’uomo e alla donna. Essi non venivano più considerati in uno stato di
minorità spirituale da porre sotto tutela, come nella decadente religiosità tradizionale, ma capaci di
percorrere l’arduo sentiero dell’Iniziazione reintegrandosi androginica-mente nell’Uno, e
realizzando, ognuno di loro, quelle che nel Rituale Egiziano sono chiamate le «Nozze del Sole e
della Luna».
È facile intuire che tanta sfrontata audacia suscitò lo sdegno e il gelido odio di individui e
istituzioni. La rabbiosa inimicizia, che dopo la sua morte – o meglio il suo assassinio – giungerà ad
attuare nei confronti di Cagliostro una vera e propria damnatio memo-riae e riuscirà a produrre il
singolare fenomeno – invero stupefacente – di coagulare contro di lui una vasta «Santa Alleanza» di
personalità ed istituzioni, che di per sé sarebbero state in lotta mortale tra loro per contrapposti
interessi materiali, politici e – si fa per dire – “spirituali”. In quella che Socrate e Platone
chiamavano la «comunanza dei malvagi», si ritrovarono spalla a spalla, uniti e concordi, coloro che
avrebbero dovuto essere tra loro nemici irri-ducibili – e lo erano –, ma che contro Cagliostro furono
capaci di coalizzarsi spregiudicatamente per sradicare un impulso spirituale giudicato pericoloso
per il mantenimento di quella stagnante condizione di generale ignoranza spirituale nella quale
potevano esercitare il loro potere. Contro Cagliostro, per spazzarne via l’opera, insozzarne il nome e
la memoria, annientarne la persona, si coalizzarono una Chiesa despiritualizzata ed una Massoneria
profanizzata, rinnovando così in forma inaspettata il dantesco triste amplesso di Pietro e Cesare.
Ma qual’era la situazione spirituale generale nel XVIII secolo, soprattutto in Francia ed in Italia,
situazione nella quale Cagliostro fu veramente Vox clamantis in deserto?
Una Chiesa, ormai priva di Misteri e di Gnosi, ossia di conoscenza diretta delle realtà spirituali,
sprofondata in una corruzione morale cronica, diffusa ad ogni livello, prostituiva spesso quella che
avrebbe dovuto essere l’Arte Sacerdotale a strumento di red-dito o di carriera personale e di
arricchimento di casta. Un basso clero, sprofondato generalmente nell’ignoranza più crassa e nella
superstizione più grossolana e fanatica, viveva per lo più in un’inerte indigenza, cercando di
sopravvivere come poteva. All’Alto Clero era invece riservato il ‘Gran Gioco del Potere’, nonché l’au-
toindulgenza di chi può concedersi trasgressivamente di gustare ogni piacere che sia possibile
trarre con navigata spregiudicatezza dalle occasioni e dalle esperienze della vita. E spregiudicati
erano anche i mezzi da usare alla bisogna per conservare influenza, pri-vilegi e soprattutto potere.
Naturalmente vi erano delle eccezioni – è giusto riconoscerlo – e in talune cerchie, alquanto
ristrette, venivano coltivate forme dell’Antica Sapienza, superando i limiti confessionali in una
Conoscenza Spirituale talmente universale che avrebbe potuto ben chiamarsi Unità Trascendente
delle Religioni e dell’Esoterismo. Ma si trattava, appunto, di eccezioni seppur luminose, che non
cambia-vano lo stato di fatto generale, e queste stesse cerchie dovevano stare molto, ma molto
attente a velare adeguatamente il sapere ermetico posseduto e a non incorrere imprudentemente
nella rabbiosa azione repressiva della sempre occhiuta Curia Romana. Tuttavia vedremo dal libro di
Marc Haven e dall’appendice storica ad esso aggiunta, come da queste cerchie Cagliostro ebbe
accoglienza, appoggio ed aiuto in importanti momenti della sua missione.
La Massoneria a sua volta, banalizzata, profanizzata, ridotta in molti casi ad un divertente gioco di
società per nobili annoiati e bons vivants, o a strumento di cospirazione e agitazione politica per i
nascenti gruppi rivoluzionari la cui azione avrebbe cambiato violentemente e radicalmente il volto
del Vecchio e del Nuovo Mondo, aveva già largamente perduto il contenuto di sapienza iniziatica e
si avviava verso quell’involuzione degenerativa le cui espressioni conclamate sono attualmente sotto
gli occhi di tutti. I suoi adepti, smarrita in gran parte l’Arte Reale, nulla più comprendevano di
simboli e cerimonie rituali, che pure si traevano dall’anti-ca Misteriosofia del Mondo Classico come
sua ultima eco in un mondo immemore di cosa significasse ancora l’Iniziazione e quali fossero le vie
percorribili dall’uomo al fine di giungere ad una diretta esperienza del Mondo Spirituale.
Anche qui vi erano eccezioni notevoli ed alcuni Iniziati autentici tentarono di risvegliare il fuoco
ermetico che covava pur sempre sotto la cenere. Il loro generoso – e coraggioso – tentativo ebbe nei
vari casi risultanze diverse: a volte riuscì, a volte no. Ma in generale possiamo dire che sordità
interiore, opacità delle anime, e le conseguenze sempre più massicce di un fatale ciclo di
involuzione spirituale resero dal punto di vista generale e contingente i loro tentativi – che pure in
determinati luoghi e con persone scelte, adeguatamente preparate, ebbero successo – di portata
limitata. Ma da un punto di vista superiore, che non soggiace alla pragmatica logica umana, furono
tentativi di importanza estrema dai quali scaturirono semi fecondi consapevolmente gettati in
grembo al divenire, semi che avrebbero atteso il momento propizio per germo-gliare e dar frutto
allorché sarebbe terminata l’Età Oscura, quella che la metafisica indiana chiama Kaliyuga, trascorsa
la quale è possibile riaprire una nuova èra di progressiva spiritualizzazione dell’uomo e del mondo.
Contro questa stagnante, per non dire putrescente, situazione spirituale di un Ancien Régime,
ormai agonizzante, Cagliostro agì con temeraria audacia, fendendo come con la folgore le torbide e
soffocanti nubi oscuranti ogni visione e azione spirituale. Ciò non poteva non suscitargli contro, per
i motivi anzidetti, nemici numerosi ed agguerriti, che implacabilmente lo combatterono con ogni
mezzo. A questo proposito sono calzanti le parole di uno studioso, esoterista dall’anima pura e
sapiente, scritte decenni fa ad un amico: «… Cagliostro (che è stato ammirevolmente riabilitato
dalla bella biografia che gli ha consacrato il Dr. Marc Haven), questo illustre Istruttore, aveva
invitato i Filaleti a bruciare tutti i loro archivi effimeri e le loro liturgie incomplete, al fine di
ricevere la sola ed unica dottrina edificatrice dell’Illuminazione. Questi massoni non ne fecero di
niente e in seguito lo combatterono, unendo così i loro attacchi a quelli del S. Uffizio».
Si trattava, come spesso nell’agire di Cagliostro, che non conosceva compiacenti diplomazie e
tatticismi, di una rude terapia radicale, di sapore – ci si passi l’accostamento – molto zen, che
difficilmente poteva essere accettata da quei Filaleti che, stando al nome che si erano scelti,
avrebbero dovuto essere ‘amanti della Verità’, ma che invece ne temevano l’incandescenza
purificatrice e ri-generatrice.
Da sempre l’intellettualismo erudito, astratto e sterile, che con infiniti pretesti rifugge
dall’impegno ascetico richiesto da una via di realizzazione spirituale, è uno strumento largamente
usato dalla comodità della ‘via egoica’ per far deviare il ricercatore poco consapevole verso
l’intricata palude di un ‘collezionismo esoterico’ fine a se stesso, facendogli perdere tempo, forza e
occasioni interiori. Normalmente la carriera di questi «chiacchieroni dello spirito» – così li chiamava
un autentico Maestro di vita interiore come Giovanni Colazza – sempre molto ‘in’ e ‘up-to-date’, li
conduce inevitabilmente ad impantanarsi nei vari «Club di lettura e conversazione», nei quali
potranno sfogare le loro pulsioni istintive e la loro vanità in faticose e inconcludenti lotte di vuote
parole con i loro pari.
Ma l’azione di Cagliostro non incontrò solo inimicizie e avversione. Furono molti, uomini potenti o
semplici popolani, studiosi o persone prive di cultura, che lo ascoltarono aprendo la loro anima alla
sua parola vivificatrice. Tutti loro ebbero per lui parole di sincera ammirazione e sentimenti di
profonda gratitudine per quanto egli donò come azione terapeutica o come sapienza spirituale.
Taluni di costoro vollero unirsi a lui come discepoli a Maestro, chiedendogli di guidarli sul sentiero
dell’Iniziazione. Ciò che venne donato loro non andò perduto, ma, in alcuni casi per vie segrete, in
altri lungo sentieri più palesi seppur ‘discreti’, si trasmise come fiamma che accenda fiamma,
trovando in diversi tempi e luoghi le espressioni atte a manifestare nella diversità delle forme
l’unicità del suo contenuto di eternità.
Molti furono i discepoli, che rimanendo per lo più anonimi, as-solsero il compito assegnato loro
dal Maestro. Discepoli o semplici beneficati che si tennero fuori dalle polemiche sollevate ad arte
dalla parte avversa, che non si fecero impressionare dal letame gettato su Cagliostro specialmente
dopo il processo romano, quando ormai non poteva più parlare. Discepoli e amici che rimasero
coraggiosamente devoti alla sua memoria e fedeli testimoni di ciò che l’occhio del cuore aveva
mostrato loro come verità su di lui.
Quest’opera di Marc Haven, oltre che sapiente, è coraggiosa e generosa. Per quasi cent’anni è
stata saccheggiata vergognosamente in Italia e all’estero, ma non si può dire che, soprattutto in
Italia, essa sia stata veramente conosciuta. È un’opera dalla documentazione ricchissima che mostra
quanta dedizione, quanta tenacia e fatica abbia richiesto al nostro Autore il raccoglierla, il valutarla,
il trascegliere da essa quanto era necessario alla sua ricerca.
È giunto il momento che il Maestro Sconosciuto veda la luce nella nostra lingua per porgere ai
cercatori della Sapienza Santa un’indicazione e un aiuto, e anche per contrapporre ancora una volta
alle vergognose menzogne della parte avversa nonché alle molte, troppe, blasfeme profanazioni
avvenute, la parola ammonitrice della Verità.
Alla fine del testo di Marc Haven è stata aggiunta un’appendice, oggi necessaria, nella quale
vengono integrate le notizie da lui riportate con altre che finora era opportuno restassero velate. È
stato approfondito in particolar modo il periodo italiano di Cagliostro che Marc Haven, pur nella sua
sovrabbondante documentazione, ha dovuto forzatamente trattare solo per rapidi cenni. Del resto vi
è da dire che ai suoi tempi non era facile reperire materiale documentario. Erano necessari tempo e
lunghi viaggi. Non sempre Archivi e Biblioteche, specie se privati, erano resi accessibili allo
studioso. Era necessario, inoltre, trascrivere a mano i documenti rinvenuti. In taluni casi si trattava
di documenti poco noti o dimenticati o del tutto ignorati. Date le difficoltà su accennate e la povertà
dei mezzi a sua disposizione, stupisce constatare la ricchezza della documentazione raccolta dal
nostro Autore.
È importante conoscere più approfonditamente le vicende della vita di Cagliostro svoltasi in Italia,
perché la sua azione spirituale e quella della corrente occulta alla quale egli apparteneva avrà
un’influenza decisiva sui destini d’Italia in special modo dopo la sua morte. Tema che per la sua
natura delicata e le inevitabili implicazioni richiederà ulteriori ricerche e approfondimenti.
Ho voluto anteporre al libro vero e proprio una breve biografia di Marc Haven non solo per
rendere un doveroso omaggio alla sua figura di sapiente ricercatore e di asceta, e pagare così un
gioioso debito di gratitudine nei suoi confronti, ma anche perché la sua figura merita di essere
conosciuta e la sua vita presenta alcune vicende personali che lo connettono nella maniera più bella
e profonda al contenuto vivente del libro del quale egli è autore.

Marc Haven: l’asceta adamantino.


INTRODUZIONE

CAGLIOSTRO E L’ALTA MAGIA

Cagliostro! Quale nome può evocare più interesse, maggiore curiosità? Quale nome è conosciuto
quanto quello? Rivolgetevi a persone del popolo, senza cultura, poi a degli eruditi, a gente di
mondo; parlate loro di Simon Mago, di Cornelio Agrippa, dello stesso Paracelso; alcuni, forse, ne
avranno udito qualcosa; ma per la maggior parte di loro saranno nomi sconosciuti, che non risve-
gliano in loro alcun ricordo. Poi, parlate di Cagliostro, e vedete la differenza; lo conosceranno tutti,
poco o molto, in bene o in male; ma, per gl’ignoranti come per i dotti, Cagliostro sarà qualcuno: sarà
l’uomo che prediceva i numeri vincenti alla lotteria, il mago che evocava i morti, che guariva
gl’incurabili, che dirigeva i destini dei prìncipi, forse quelli dei popoli; sarà l’alchimista,
l’ipnotizzatore, il gran maestro della Massoneria. Con questo o quel titolo, sotto una veste o sotto
un’altra, Cagliostro è un personaggio conosciuto. Figuier ha fatto giustissimamente notare: ogni
ermetista, ogni taumaturgo ha la sua specialità, il suo genere particolare; Cagliostro, invece,
possedeva i poteri straordinari attribuiti a tutti, e non uno dei rami delle scienze segrete gli era
estraneo; in tutti, egli compiva delle meraviglie; tutti i gruppi si richiamano a lui. Inoltre, egli ha
giocato, se non un ruolo politico, certuni lo negano, almeno un ruolo importante in un mondo nel
quale si tessevano e si disface-vano gl’intrighi politici.
Inoltre, Cagliostro non è lontano da noi. Mentre un Apollonio di Tiana, un Alberto Magno, un
Nostradamus, si perdono già nella notte dei tempi, lui è nostro predecessore immediato. Il processo
della Collana, la Rivoluzione Francese, datano da ieri; il magnetismo, la Massoneria hanno circa un
secolo di esistenza; la loro evoluzione rapida, il loro sviluppo è l’opera di due o tre generazioni
appena e i nostri nonni erano contemporanei di Cagliostro; essi possono parlarcene, aver conosciuto
suoi discepoli e conservare, di lui o di loro, tradizioni orali che mantengono la freschezza e il fascino
delle tradizioni personali.
E, malgrado ciò, Cagliostro, del quale tutti amano parlare, rimane misterioso. Avendo avuto, al
suo tempo, tanti nemici quanti ammiratori, egli subisce lo scontro di opinioni contraddittorie. Si
discute ancora aspramente dei suoi atti; il che vuol dire che la sua memoria viene attaccata senza
riguardi, la critica preferendo sempre distruggere i suoi antichi altari piuttosto che costruirne di
nuovi. Gli storici, soprattutto, lo trattano malissimo: intrigante, impostore, prestigiatore, Cagliostro
non è, per loro, che un avventuriero smarrito in mezzo agli avvenimenti della fine del XVIII secolo.
Gli occultisti stessi, desiderosi di scoprirsi avi celebri, non avendo generalmente gran luce
personale da far risplendere, e che dovrebbero difendere Cagliostro, non parlano di lui che con
prudenza, per paura di compromettersi. Ne fanno, a seconda della loro scuola, un ermetista, un
inviato segreto dei Templari, o, semplicemente, un medium guaritore. Questa divergenza di
opinioni, tra sedicenti adepti d’una medesima dottrina, non ha nulla che debba sorprendere.
L’occultismo non è, in effetti, né una dottrina precisa, né una setta omogenea; è un gruppo fittizio,
nel quale s’incontrano spiriti d’ogni genere, dal più greve positivista fino al più sottile mi-stico; molti
ignoranti, vanitosi di qualche lettura incompresa; alcuni ambiziosi, un piccolo numero di eruditi ai
quali il tormento dell’unità non lascia riposo, veri ebrei erranti del sapere; e, ancor più rari, alcuni
esseri di buona volontà, i migliori, che cercano lì come lo farebbero altrove, un lavoro utile da fare
per Dio e per gli uomini. Tutte queste persone si affiancano, fraternizzano pomposamente, si
separano con strepito, passano dall’entusiasmo più vivo per gli uni e per gli altri ai rancori più
feroci; le loro beatificazioni sono impreviste quanto le loro scomuniche, e altrettanto chiassose.
È un mercato generale, piuttosto che un tempio. Come potrebbe, tutta questa gente, avere su una
questione, su Cagliostro, per esempio, un’opinione comune?
Forse mi si troverà severo; ma dopo venticinque anni che vivo in mezzo agli occultisti, avendo
visto sette d’ogni tipo e d’ogni livello, mi sembra che un solo punto le accosti, che un solo tratto sia
loro comune. Tutti, quale che siano le loro apparenze, le loro dichiarazioni di princìpi, ricercano il
fenomeno, tutti vogliono acquistare poteri eccezionali sulla materia, sulla vita, o, almeno, persua-
dersi e persuadere gli altri di possederli. È questa curiosità interessata, questa voglia di dominare
sugli altri, che riunì un tempo una folla di discepoli attorno al potente Cagliostro; sono questi stessi
sentimenti che, ai nostri giorni, radunano ugualmente, attorno ad alcuni maestri meno qualificati,
tanti spiriti disparati, sotto il nome di occultisti.
Studiare Cagliostro, è dunque fare la psicologia degli occultisti, perché i suoi adepti furono
persone d’ogni paese e di culture di-versissime, ed è fare questo esame senza urtare nessuno, senza
sve-gliare sentimenti ostili presso il tale o il tal altro che potrebbe cre-dersi preso di mira nelle sue
credenze o nei suoi interessi, come nel caso in cui facessimo questo lavoro sugli occultisti
contemporanei.
È altresì scrutare la natura intima della magia sotto tutte le for-me; poiché nessuno – i suoi stessi
nemici lo riconoscono – ha realizzato più compiutamente di lui il tipo del mago, nessuno ha fatto
altrettanto continuamente, altrettanto pubblicamente, opera di taumaturgo. Tentare uno studio a
priori della magia sarebbe perdersi in un campo speculativo che sfugge ad ogni critica, ma senza
interesse per la maggior parte delle persone; compulsare gli archivi del passato, analizzare
un’esistenza e fatti precisi, invece, è il solo metodo suscettibile di illuminarci su questo argomento,
di per-metterci di avvicinare la verità. Prendendo, come oggetto di studio, Cagliostro, la sua vita, i
suoi insegnamenti, i suoi atti, facciamo, per quanto possibile scientificamente, l’esame del miracolo
e del mistero.
Ma il miracolo è uno scherzo, ma non esiste più mistero, gride-ranno in coro i tre quarti della
gente! Protesta infantile, semplice spavalderia sotto la quale l’uomo nasconde spesso il suo terrore
dell’ignoto. Il miracolo e il mistero vi circondano, vi spiano, brava gente, e voi lo sentite bene, la
sera quando vi addormentate, la mattina al vostro risveglio, in ogni istante in cui il vostro cuore
batte o il vostro pensiero si agita; in ognuna delle vostre emozioni segrete, o artisti; in ognuno degli
avvenimenti imprevisti, gente di mondo, attorno ad ognuna delle vostre imprese, uomini d’affari,
dietro ognuna delle vostre esperienze, scienziati.
Quello che è uno scherzo, quello che non esiste, sono le folli spiegazioni che vi date per tentare di
rassicurarvi, sotto una forma di dogma scientifico o religioso. Negate pure il mistero, negate il
mondo sconosciuto dello spirito, negate il miracolo, come volete, oggi! Verrà un’ora grave della vita,
una sera agitata, nelle quali troverete un altro linguaggio, in cui confesserete il vostro dubbio, in cui
cercherete a tastoni qualche roccia che non trema. Fino a quel momento, che voi opponiate
negazioni o sistemi fantasiosi alla misteriosa realtà, non disturba granché il corso della natura, ma
non diminuisce affatto l’inquietudine profonda che portate in fondo ai vostri cuori.
Queste riflessioni mi hanno spinto alquanto a pubblicare il mio studio su Cagliostro; pensavo a
tutte le spiegazioni illusorie che se ne dànno; sentivo soprattutto quale irresistibile attrazione il
meraviglioso ha per ogni anima umana, quali angoscianti domande essa si pone, quando,
all’improvviso, senza una ragione apparente si solleva il sipario.
Emerge un avvenimento, che forza l’attenzione; tutto cambia: il mondo appare nuovo; tutte le
convenzioni precedenti, tutti i sistemi ammessi sino ad allora, crollano. Una vertigine afferra la
mente, la prepara a tutte le debolezze. Pronto a qualsiasi infatuazione, cerca, tremante, attorno a sé
l’artefice di quel miracolo, il genio da sedurre con umili offerte, il diavolo da scongiurare con
violenti esorcismi.
Allo stesso modo, fra le montagne, il viaggiatore assiste talvolta ad inquietanti apparizioni.
Quando per qualche ascensione dell’indomani, questi ha raggiunto, la sera, uno di quegli chalet
perduti nelle nevi nei quali si deve attendere l’aurora, spesso, nella febbre del cammino, non
potendo restare coricato, egli anticipa l’ora della partenza, si alza e viene a sedersi nelle tenebre,
davanti alla porta del rifugio. Un silenzio assoluto, una notte senza luna, l’avvolgono pesantemente
con i loro veli impenetrabili. A malapena da lontano, in taluni momenti, a tratti, ode la pietra che
rotola sul fianco della montagna sotto il piede del camoscio, le gocce d’acqua che cadono sulla
roccia al ruscello. Tutto è nero, senza forma, senza vita. Alcuni esseri lo circondano, forse, muti
osservatori, nascosti nell’ombra; se tenta di trapassare l’oscurità, di scoprire delle forme, delle
fughe d’ombra, dei limiti nelle masse oscure che lo astringono, è a forza d’attenzione; e ciò che
crede percepire spesso non è che l’opera della sua febbrile immaginazione…. Il tempo passa – ha
forse dormito? – all’improvviso, il cielo si ri-schiara. Dalle profondità, dove ristagnavano le tenebre,
sorgono picchi, valli, foreste; sul cielo le cime si stagliano, i ghiacciai diventano iridescenti. Là dove
l’ombra s’ispessiva in un blocco impenetrabile, mille forme si delineano e prendono rilievo. È un
mondo che sorge dal nulla, è una ri-creazione. Con i sensi confusi, abbagliato, l’uomo è pronto a
cadere in ginocchio cercando nel cielo illuminato l’artefice di quella magia, sia esso angelo o sole,
per adorarlo e accostarlo.
E, tuttavia, che è accaduto? Ben poca cosa: un raggio di sole ha attraversato la notte e tutto è
cambiato. Il Cielo ha inviato sulla terra, verso il povero essere cieco, un po’ di quella forza che nel
fir-mamento si chiama luce, nel mondo morale verità, e questo nulla ha prodotto la meravigliosa
esplosione d’una luce di realtà nel cuore dell’uomo e sulla terra.
Mi ricordo di aver assistito, un mattino, sulle Alpi, a quell’abba-gliante incantesimo. Che è mai
una tavola che si muove, un po’ di piombo mutato in oro, una guarigione inattesa o gli esercizi d’un
ipnotizzatore di fronte a quella magica evocazione d’un mondo che sorge dalle tenebre? Questo
miracolo quotidiano, se vi riflettiamo, può istruirci su molti altri fenomeni, che consideriamo come
più strani perché sono più rari; esso porta con sé il segreto di tutte le grandi manifestazioni che
hanno profondamente turbato certe epoche e sconvolto tante menti. Meditandolo, si sono illuminati
in me molti pensieri sul mondo spirituale, sull’alta magia, sui taumaturghi, sulle loro parole e i loro
atti e, molto spesso, scrivendo il mio libro su Cagliostro, mi sono ricordato di quelle rivelazioni che il
Mattino mi ha fatto sulla Montagna.

Dr. Marc Haven


PREFAZIONE

Rammento sempre un articolo di giornale, apparso nel XX secolo, che riportava la biografia di un
contemporaneo, corredata dalla riproduzione della sua fotografia. Chi, volendo occuparsi del
personaggio in questione, ritroverà tra cento anni il giornale, potrà fare a meno di classificare
quell’articolo tra i suoi più importanti documenti? Ebbene, la fotografia era quella di uno
sconosciuto, che neppure somigliava all’eroe della storia, e la biografia faceva nascere a
Costantinopoli, in un harem, colui che aveva visto la luce, figlio di semplici coltivatori, in un
villaggio, in Francia. Fortu-natamente ho dimenticato il resto.
Questo ricordo mi ha perseguitato mentre studiavo Cagliostro; se errori simili possono stamparsi
ai nostri giorni e diffondersi così facilmente, se noi viviamo in mezzo agli avvenimenti
contemporanei senza poterne apprezzare il carattere, spesso senza neppure averne conoscenza, in
quale nebbia di illusioni, in quale mondo di fantasia dobbiamo essere immersi relativamente al
passato?
Quando ci si occupa di un uomo che ha giocato nella storia un ruolo anche appena importante, ci
si trova in presenza di difficoltà grandissime che provengono dalla lontananza, dal partito preso,
dalle opinioni ammesse. La parzialità dei contemporanei assume tanto più importanza per il fatto
che il tempo, trascor-rendo, rende il controllo sempre più impossibile, un’opinione generale, il più
delle volte quella del libro più attraente o più diffuso, si consolida e, da quel momento, ogni
scrittore portato a parlare del fatto storico o dell’uomo che lasciò un nome, si at-terrà a quel
giudizio, secondo lui definitivo, perché la massa a poco a poco l’ha sanzionato con la sua pigrizia e
la sua credulità.
È ciò che è accaduto per Cagliostro, e per lui più che per chiunque altro; poiché, già fin dalla sua
epoca, coloro che lo vedevano agire, che l’osservavano e l’interrogavano, quando erano spiriti pon-
derati e filosofici, confessavano che era impossibile portare un giudizio su di lui(1); certuni lo
veneravano come un dio; altri lo odiavano come il peggior nemico dell’umanità(2). Nessuno ha
suscitato più dedizione, nessuno ha suscitato più furori, e nessuna personalità è rimasta più
enigmatica persino per i suoi intimi, persino per i magistrati ai quali spettò il pesante compito di
giudicarlo.
Così su di lui, più che su ogni altro, le calunnie si sono accumulate, le leggende hanno avuto libero
corso. Venivano diffuse già durante la sua vita: dopo la sua morte, gli odii religiosi, che sono i più
tenaci e sopravvivono alla tomba, lo hanno perseguitato. Gli storici sono stati colpiti dalla brusca
apparizione di quest’uomo alla vigilia della Rivoluzione; ma, non trovando alcun risultato evidente e
immediato ai suoi atti, niente che spiegasse il suo ruolo, rinun-ciando a comprenderlo, lo hanno
presto abbandonato come un personaggio episodico senza importanza; la letteratura se ne è im-
padronita, e, infine, si è imposta un’opinione che può ritrovarsi oggi in tutti i libri e che, a forza di
venire riprodotta, è divenuta classica. Sottratto alla storia per divenire un tipo leggendario, mezzo
stregone e mezzo prestigiatore, truffatore brillante e buffone, il conte di Cagliostro è un
personaggio che viene classificato fra Robert Macaire e Pulcinella nel Museo delle Marionette(3).
E molti se ne accontentano: basta loro conoscere l’affascinante Cagliostro di Gerard De Nerval o
l’impressionante mago di Alessandro Dumas; ma coloro che hanno talvolta ascoltato parole di vita,
che hanno sentito – fosse pure per una sola ora – un mondo di misteri circondarli, non possono
accontentarsi di questo concetto superficiale; costoro chiedono di più. Per ritrovare, se è possibile,
il vero Cagliostro, per acquisire una conoscenza più adeguata del suo spirito, cosa dunque possiam
fare?
Anzitutto rivolgerci a sorgenti migliori. Che cosa esiste su Cagliostro? In primo luogo vi sono, e in
gran numero, opuscoli diffusi, sia dai suoi avversari nei processi ch’gli ebbe a sostenere e, in
particolare, in occasione di quello della Collana; sia dai nemici personali ch’egli aveva saputo farsi
con la sua grande libertà di parola, e con l’originalità dei suoi atti; sia infine dal Sant’Uffizio che,
all’atto della sua cattura, sapendo di aver posto la mano su uno dei capi, palesi o segreti, della
massoneria, ha voluto fare un doppio colpo: da una parte, infangare per sempre la memoria di
questo rappresentante delle idee liberali, che ribollivano allora in molti cervelli, e dall’altra far
ricadere sull’intero ordine il discredito gettato sul gran maestro del rito egiziano.
La Vita di Giuseppe Balsamo, pubblicata a cura del Sant’Uffizio come un’apologia della sua azione
inquisitoriale, è un capolavoro di odio e di ipocrisia, i libelli dei signori Sachi e Morande, di M.me de
la Motte impallidiscono a fianco di quella requisitoria(4); e tuttavia questi tre personaggi non
avevano risparmiato Cagliostro.
Ma, perfezionata dal Sant’Uffizio, l’opera prende un’altra ampiezza: tutto quello che poteva
essere raccolto di più diffamatorio negli autori precitati vi si ritrova unito a tutti quei particolari
compromettenti, che l’inquisizione con promesse e torture potrà strappare a Cagliostro e a sua
moglie(5).
E, se a questo si aggiunge tutto ciò che, nel 1791, l’immaginazione dei preti italiani, atterriti dalla
Rivoluzione francese, poteva inventare contro la massoneria in generale ed in particolare contro il
fondatore di un rito mistico, si potrà avere un’idea della violenza di quel libello. L’abilità colla quale
l’autore, giocando sulle parole, confonde volutamente religione e cattolicesimo, ateismo ed
eterodossia, liberalismo e scetticismo, fa sì che il lettore, insensibilmente, sia portato a seguirlo, ad
adottare le sue conclusioni, se non va cauto e non scopre l’astuzia.
Non soltanto il libro è un’odiosa requisitoria, non soltanto pul-lula di errori in ciò che è
verificabile(6), e di invenzioni nelle parti impossibili da controllare, ma per di più, nello sviluppo
delle sue tesi, l’autore cade in contraddizioni tali che saltano agli occhi e il traduttore francese
dell’opera, benché ostile a Cagliostro, non avendo per lui altro che ironia e disprezzo, non ha potuto
impedirsi, in certi punti, di segnalare le contraddizioni alle quali si ri-bella la giustizia e perfino il
buon senso(7).
Dunque, quasi nulla da attingere dalla Vita di Giuseppe Balsamo, nulla di più che dai precedenti
libelli; e, se capiterà di citarli, dovremo farlo con molte precauzioni. Diremo lo stesso delle altre
biografie, isolate o intercalate in opere generali(8) che, per la parte documentaria, si basano tutte
sul libercolo, tessuto di menzogne e di sciocchezze, che la Camera Apostolica ha fatto stampare a
Roma. La pubblicazione dei documenti Fontaine da parte dell’erudito Campardon(9) ha spinto alcuni
scrittori ad occuparsi di Cagliostro, Funck-Brentano l’ha fatto per primo, e con imparzialità. Un
autore moderno(10) ha ripreso il soggetto, ma il suo libro, al contrario del precedente, è
un’imitazione degli antichi libelli e tutto pervaso dallo stesso spirito di odio, che dettò la Vita di G.
Balsamo al padre gesuita Marcello.
D’altra parte, dobbiamo eliminare, per arrivare ad un Cagliostro vero, i costumi e le decorazioni
delle quali i romanzieri hanno so-vraccaricato il personaggio. Alexandre Dumas, Gérard de Nerval, J.
de Saint-Félix(11), per sviluppare un tipo già meraviglioso per conto suo, hanno aggiunto alla sua vita
e alle tradizioni correnti rimaste su di lui, tratti che appartengono ad altri personaggi della storia o
della leggenda. Già dall’epoca di Cagliostro alcuni cronisti accumulavano a piacere l’inverosimile
sul meraviglioso. È così che in vari libelli dell’epoca si trova il seguente racconto:
«Cagliostro si arrestò con un grido di sorpresa innanzi a un crocefisso scolpito in legno: non
poteva comprendere come l’artista, che certamente non aveva veduto il Cristo, avesse potuto
realizzare una somiglianza così perfetta.
— Avete dunque conosciuto il Cristo?
— Eravamo nei migliori rapporti. Quante volte abbiamo pas-seggiato insieme sulla sabbia umida
in riva al lago di Tiberiade. La sua voce era di un’infinita dolcezza… Ma non ha voluto credermi: ha
corso lungo le spiagge del mare; ha raccolto una banda di lazzaroni, di pescatori, di cenciosi: ha
predicato — e mal gliene è incolto!
E voltandosi verso il domestico:
— Ricordi quella sera a Gerusalemme in cui fu crocefisso Gesù? Ma il domestico con una profonda
riverenza:
— No, signore, il signore sa bene che sono al suo servizio solo da 1.500 anni»(12).
Queste storie, quella del ringiovanimento della cameriera ritornata fanciulla, quella del convito
delle ombre(13), circolavano ai suoi tempi. De Gleichen, da uomo onesto, spiega che si trattava di
satire di burloni(14): gli uni, del tutto consapevolmente, cercavano di uccidere con il ridicolo il
prestigio che circondava l’uomo dai poteri eccezionali; altri confondevano in buona fede le storie, e,
dal momento che Cagliostro era alchimista e guaritore, ciò era sufficiente perché gli si attribuissero
le trasmutazioni d’un cavalier Borri, le opere d’un Gualdo o i terribili misteri dello spirito
Gablidone(15).
Infine i suoi stessi discepoli ed ammiratori, nei quali la credulità eliminava ogni giudizio,
accettavano con entusiasmo ogni nuova storia e la propagavano deformandola ancora di più(16).
Da tutte queste leggende, da queste esagerazioni e da queste gof-faggini è stato costruito a poco a
poco il personaggio mitico del mago Cagliostro: i letterati che l’hanno ricevuto già sfigurato, l’hanno
alterato ulteriormente e dobbiamo tener conto di ciò. Non che abbiamo da ricercare dei documenti
presso i romanzieri, ma perché non è con l’immagine preconcetta del loro Cagliostro di fantasia
davanti agli occhi che dobbiamo affrontare il nostro studio, e anche perché non bisogna dimenticare
che, già nei racconti dei contemporanei, questa deformazione del personaggio comincia a pro-dursi.
Abbiamo visto tutto quello che dobbiamo respingere come in-fetto di errori, calunnie e leggende
che, sfortunatamente, hanno ispirato da sole la maggior parte degli scrittori; restiamo in presenza:
1° delle informazioni date, degli apprezzamenti da testimoni competenti, persone che hanno
vissuto nella sua intimità, che an-notavano la sera le impressioni delle loro visite a Cagliostro(17).
2° dei documenti conservati in occasione delle inchieste ufficia-li; questi ultimi documenti
potranno fornirci dati e testi preziosis-simi(18).
3° delle corrispondenze personali, lettere pubbliche, richieste e memorie diverse scritte da
Cagliostro, o sotto il suo controllo diretto(19), e che sono state sistematicamente trascurate. La sua
Memoria contro il Procuratore generale, in particolare, è stata ridico-lizzata e incompresa; il
pubblico letterato l’ha considerata come un vano romanzo e disdegnata. E tuttavia se i critici, più
accorti, si fossero sforzati di penetrare il senso di tali scritti, di separare i fatti e i simboli, avrebbero
visto che Cagliostro vi si rivelava altrettanto chiaramente che nei suoi atti, e che le pagine tanto
screditate illu-minavano singolarmente molti lati oscuri del loro eroe.
Testi ufficiali, riferimenti di contemporanei imparziali, lettere e istanze scritte da Cagliostro, ecco
dunque le sole fonti, poco abbondanti, ma chiare e sane, ove debba attingere un critico scrupo-loso,
desideroso di ristabilire, nella sua forma e nella sua luce verace, la figura cosi interessante del
profeta della Rivoluzione, del guaritore degli incurabili, dell’amico di Lavater, del maestro del
Cardinale di Rohan.
Tale non è stata, sfortunatamente, la condotta degli storici; essi si sono attenuti ai libelli, cosi
numerosi, cosi ricchi di cronache scandalose, così divertenti da citare. Ciò è bastato loro; non hanno
cercato oltre; e se alcuni hanno interrogato le difese di Cagliostro o i ricordi di osservatori
contemporanei, ciò fu fiaccamente e con uno spirito già prevenuto(20).
Così, né le biografie piene degli stessi errori e delle stesse calunnie, né i cenni superficiali inseriti
qua e là, né persino le pagine consacrate a Cagliostro da spiriti più illuminati, dànno di lui un’idea
approssimativa. Odioso truffatore, ingenuo illuminato, delicato manipolatore di anime, tanghero
grossolano, ci vengono presentati, al posto di quello di Cagliostro, cento personaggi diversi, che
hanno poco a che fare con i suoi atti, e dei quali nessuno può soddisfare la mente; inoltre, lo stesso
autore, a qualche rigo di distanza, non teme di dipingercelo sotto tratti assolutamente contrad-
dittori! Il buon senso si rivolta a leggere quelle stupidagini.
È dunque tutto da rifare e una vita di Cagliostro, altrimenti concepita, s’impone storicamente. Ed
è tentando di studiare questo personaggio per crearmi una convinzione che ho scorto la necessita di
nuove ricerche, e, devo dichiararlo, penetrando più da presso gli avvenimenti della vita ed il
carattere di quest’uomo, l’ho veduto ingrandirsi ed illuminarsi agli occhi miei; mi sono sentito,
perciò, spinto a parlare di lui da un altro sentimento che da un mero interesse di curiosità; mi son
creduto in dovere di farlo.
EPILOGO

IL MAESTRO SCONOSCIUTO

Che importavano ai suoi discepoli le ore di sonno di Cagliostro? Che importano, alla storia, i giorni
muti della sua infanzia?
Egli appariva, asciugando i pianti, risollevando i feriti della vita, dando al viaggiatore smarrito la
forza e il coraggio di camminare fino all’alba, seminando nelle tenebre la gioia e la bellezza, illumi-
nando cieli eroici, glorioso coppiere della bevanda d’immortalità. Ecco ciò che importa all’umanità,
ciò di cui la terra si ricorda; sono questi i diamanti che la natura nascondeva preziosamente nel suo
seno e che segneranno eternamente ognuno degli atti della sua vita. Queste lettere di luce, le si
posson leggere; queste voci della terra, le si possono udire; esse parlano di lui. Se i nostri occhi
sono ancora molto offuscati e le nostre orecchie molto inesperte per riceverne la testimonianza,
almeno non sarà a frasi di gazzettieri, a rapporti di poliziotti, che domanderemo il suo nome, i suoi
titoli e la sua stirpe.
È Cagliostro stesso che ce li dirà: facciamo passare dinanzi a noi i quadri di questa esistenza
meravigliosa, che abbiam tentato di ristabilire nella loro veritiera luce, questi dieci anni di
insegnamento, di beneficenza e di martirio; evochiamo quelle folle in ginocchio, quei grandi della
terra, così piccoli di fronte a lui; rivediamo quest’essere tanto sublime nell’amore che nella
saggezza, e, alla luce di questa visione luminosa, riprendiamo le pagine, così odiosamente
ridicolizzate, nelle quali Cagliostro ci ha parlato di sé(903): ecco che cosa vi leggeremo:
«Io non sono di nessuna epoca né d’alcun luogo; al di fuori del tempo e dello spazio, il mio essere
spirituale vive la sua eterna esistenza, e, se m’immergo nel mio pensiero risalendo il corso delle età,
se estendo il mio spirito verso un modo di esistenza lontano da quello che voi percepite, io divento
colui che desidero. Parteci-pando coscientemente all’essere assoluto, regolo la mia azione secondo
l’ambiente che mi circonda. Il mio nome è quello della mia funzione e io lo scelgo, così come la mia
funzione, perché sono li-bero; il mio paese è quello dove fisso momentaneamente i miei passi.
Datatevi da ieri, se volete, o allungandovi degli anni vissuti da antenati che vi furono estranei; o da
domani, per l’orgoglio illusorio di una grandezza che non sarà forse mai la vostra. Io, io sono colui
che è.
«Non ho che un padre: diverse circostanze della mia vita mi hanno fatto sospettare a questo
riguardo grandi e commoventi verità; ma i misteri di questa origine, e i rapporti che mi uniscono a
questo padre sconosciuto, sono e restano i miei segreti. Coloro che saranno chiamati a indovinarli, a
intravederli, come io l’ho fatto, mi comprendono e mi approvano. Quanto al luogo, all’ora, dove il
mio corpo materiale, circa quarant’anni fa, si formò su questa ter-ra; quanto alla famiglia che io ho
scelta per questo, io voglio igno-rarla, non voglio ricordarmi del passato per non aumentare le
responsabilità già pesanti di coloro i quali mi hanno conosciuto, poiché è scritto: «Tu non farai
cadere il cieco. Io non sono nato dalla carne, né dalla volontà dell’uomo: sono nato dallo spirito. Il
mio nome, quello che è mi appartiene ed è mio, quello che ho scelto per apparire in mezzo a voi,
ecco quel ch’io reclamo. Quello con il quale mi chiamarono alla mia nascita, quello che mi han dato
nella mia giovinezza, quelli sotto i quali, in altri tempi e luoghi, io fui conosciuto, li ho abbandonati,
come avrei abbandonato vesti fuorimo-da e ormai inutili.
«Eccomi: sono nobile e viaggiatore; io parlo, e la vostra anima freme riconoscendo antiche parole;
una voce, che è in voi, e che aveva taciuto da molto tempo, risponde all’appello della mia; io agisco,
e la pace ritorna nei vostri cuori, la salute nei vostri corpi, la speranza e il coraggio nelle vostre
anime. Tutti gli uomini sono miei fratelli; tutti i paesi mi sono cari; io li percorro perché, ovunque, lo
Spirito possa discendere e trovare una strada verso di voi. Io non domando ai Re, di cui rispetto la
potenza, che l’ospitalità sulle loro terre, e, quand’essa mi è accordata, passo, facendo attorno a me
il maggior bene possibile; ma non faccio che passare. Non sono un nobile viaggiatore?
«Come il vento del Sud(904), come la rifulgente luce del Mezzo-giorno che caratterizza la piena
conoscenza delle cose e la comunione attiva con Dio, io vengo verso il Nord, verso la bruma e il
freddo, abbandonando ovunque al mio passaggio qualche parti-cella di me stesso, spendendomi,
diminuendomi ad ogni sosta, ma lasciandovi un po’ di luce, un po’ di calore, un po’ di forza, fino a
quando io non sia infine fermato e fissato definitivamente al termine della mia carriera, all’ora in cui
la rosa fiorirà sulla croce. Io sono Cagliostro.
«Perché vi occorre qualcosa di più? Se voi foste figli di Dio, se la vostra anima non fosse così vana
e così curiosa, voi avreste già compreso!
«Ma vi occorrono dettagli, segni e parabole: dunque, ascoltate! Risaliamo molto lontano nel
passato, poiché lo volete.
«Ogni luce viene dall’Oriente; ogni iniziazione, dall’Egitto; io ho avuto tre anni come voi, poi sette
anni, poi l’età d’uomo, e, a partire da questa età, non ho più contato. Tre settenari di anni fanno
ventuno anni e realizzano la pienezza dello sviluppo umano. Nella mia prima infanzia, sotto la legge
del rigore e della giustizia(905), ho sofferto in esilio, come Israele tra le nazioni straniere. Ma come
Israele aveva con sé la presenza di Dio, come un Metatron lo vegliava nei suoi sentieri, allo stesso
modo un angelo possente vegliava su di me, dirigeva i miei atti, illuminava la mia anima,
sviluppando le forze latenti in me(906). Lui era il mio maestro e la mia guida.
«La mia ragione si formava e si precisava; io mi interrogavo, mi studiavo e prendevo coscienza di
tutto ciò che mi circondava; ho fatto dei viaggi, diversi viaggi, tanto attorno alla camera delle mie
riflessioni che nei templi e nelle quattro parti del mondo; ma quando volevo penetrare l’origine del
mio essere e salire verso Dio, in uno slancio della mia anima, allora, la mia ragione impotente
taceva, e mi lasciava in balìa delle mie congetture.
«Un amore che mi attirava verso ogni creatura in una maniera impulsiva, un’ambizione
irresistibile, un sentimento profondo dei miei diritti ad ogni cosa dalla terra al cielo, mi spingevano
e mi gettavano verso la vita, e l’esperienza progressiva delle mie forze, della loro sfera d’azione, del
loro gioco e dei loro limiti: fu la lotta ch’io ebbi a sostenere contro le potenze del mondo(907); fui
abbandonato e tentato nel deserto; ho lottato con l’angelo come Jacobbe, con gli uomini e con i
dèmoni, e questi, vinti, m’insegnarono i segreti che concernono il dominio delle tenebre, onde io
non potessi mai smarrirmi in alcuna delle vie dalle quali non si ritorna.
«Un giorno — dopo quanti viaggi e anni! — il Cielo esaudì i miei sforzi: si ricordò del suo servitore
e, rivestito di abiti nuziali, ebbi la grazia di essere ammesso, come Mosè, davanti all’Eterno(908). Da
allora io ricevetti, con un nome nuovo, una missione unica.
«Libero e signore della vita non pensai che a impiegarla per l’opera di Dio. Sapevo che Egli
confermava i miei atti e le mie parole, come io confermavo il suo nome e il suo regno sulla terra. Ci
sono esseri che non hanno più angeli custodi(909); io fui di quelli.
«Ecco la mia infanzia, la mia giovinezza, così come il vostro spirito inquieto e desideroso di parole
la reclama; ma ch’essa sia durata più o meno anni, ch’essa sia trascorsa al paese dei vostri padri o
in altre contrade, che importa a voi? Non sono io un uomo libero? Giudicate i miei costumi, vale a
dire le mie azioni; dite se esse sono buone, dite se ne avete viste di più potenti, e, perciò, non oc-
cupatevi della mia nazionalità, del mio rango e della mia religione.
«Se, proseguendo il corso felice dei suoi viaggi, qualcuno tra voi arrivi mai un giorno a toccar
quelle terre d’Oriente che mi han visto nascere, ch’egli si ricordi soltanto di me, che pronunci il mio
nome, e i servitori di mio padre apriranno davanti a lui le porte della città santa. Allora, che ritorni a
dire ai suoi fratelli se io ho abusato fra voi di un prestigio menzognero, se ho preso nelle vostre
dimore qualche cosa che non mi apparteneva!».
CAGLIOSTRO E L’ITALIA. LA NASCITA DEL RITO EGIZIANO

Felix qui potuit rerum cognoscere causas


Atque metus omnes et inesorabile fatum
Subiecit pedibus, strepitumque Acherontis avari!(*)
P. Virgili Maronis, Georgicae, II, 490-492

È naturale, per chi voglia risalire alle origini del Rito Egiziano, rievocare l’immagine, ad un tempo
mitica e vera, dell’Egitto, terra sacra rappresentante, sin dalla più remota antichità, agli occhi
dell’intero mondo mediterraneo, il Santuario dell’Iniziazione, l’Arcana Arca delle Tradizioni e della
Sapienza. Ed è noto come gli stessi greci si sentissero nostalgicamente attratti da quella magica
terra al punto che personaggi mitici e storici come Orfeo, Cècrope, Omero, Licurgo, Solone, Talete,
Democrito, Pitagora, Erodoto, Platone, Plutarco – per citarne solo alcuni – attraversassero il mare
per cercare ivi, lontano dalla propria patria, l’ammaestramento prezioso sui Supremi Veri della
Religione, dell’Arte, della Scienza, e financo i princìpi dell’ordinamento e della legislazione sociale.
Non stupisce, quindi, che la fama dell’Egitto, terra madre di sapienza, abbia permeato le varie
espressioni di quella Tradizione Mediterranea che costituisce l’anima nascosta e feconda
dell’autentica spiritualità dell’Occidente. Fama che è perdurata intatta sino alle soglie dell’attuale
nuovo millennio, il quale, tra le dilacera-zioni di un antico mondo al suo tramonto, cerca di risolvere
l’eterno enigma che la Sfinge della Sapienza Arcana gli pone dinanzi, e dal cui scioglimento soltanto
dipende la possibilità d’una resurrezione e d’un futuro per l’uomo attuale, sprofondato nell’illusorio
e pur potente non-essere della materia, dimentico degli Dèi e della propria originaria, smarrita
grandezza. La ricerca di quest’Arcana Sapienza, schiudente il varco ad una più alta vita spirituale,
degna dell’«Uomo Vero», è sempre stata – per i pochi – la ricerca no-stalgica della Scienza Occulta,
dell’Arcana Scienza dell’occulto mondo smarrito dall’uomo caduto.
La fine della regale teocrazia egizia, causata dall’invasione per-siana di Cambise, non comportò
affatto il dissolversi della possente spiritualità che l’aveva generata. La stessa conquista dell’Egitto
da parte di Alessandro, e l’instaurazione dopo la sua morte della dinastia macedone dei Lagìdi nella
valle del Nilo, non solo non provocò il vanificarsi del mondo spirituale egiziano, ma operò
addirittura in maniera vivificante nei confronti di questo, malgrado il fatale incedere di un ciclo
progressivo di oscuramento e di irrigi-dimento spirituale. La sapienza iniziatica egizia, che ispirò,
pla-smò, pervase ogni aspetto della vita individuale e sociale dell’Egitto, sino a creare quello che
R.A. Schwaller de Lubicz chiamò «il miracolo egiziano», non andò smarrita al tramontare del mondo
classico e non venne semplicemente riscoperta, col risorgere dell’interesse erudito e accademico, in
seguito alle geniali scoperte di Champollion e alla nascita dell’Egittologia scientifica. Non vi fu,
dunque, soltanto un ricollegamento puramente «ideale», seppur legittimo da parte di coloro che
vollero richiamarsi, come cercatori spirituali, alla sapienza dell’antico Egitto. In realtà, questa
sapienza iniziatica egizia, sia pure sotto la veste ellenizzata dell’Er-metismo, non vide mai
estinguersi, nel corso di oltre venti secoli, la fiamma che l’animava, né mai interrompersi la catena
vivente d’una mirabile trasmissione – vera aurea catena Hermetis – per quanto segreta e arcana
potesse essere una tale trasmissione.
Lo stesso mondo romano, già profondamente permeato d’in-flussi orfico-pitagorici, ellenistici ed
egizi sin dall’epoca repubbli-cana, subentrato a partire da Augusto alla dinastia macedone dei
Tolomei Lagìdi nel dominio dell’Egitto, si volle consapevole erede del mondo egiziano al punto che si
giunse a parlare di un «traci-mare delle acque del Tevere nel Nilo» e a raffigurare, per esempio, in
monete dell’epoca di Adriano, il Dio Tevere e il Dio Nilo nell’atto di stringersi fraternamente la
mano. E, indubbiamente, la spiritualità egiziana giunse molto presto in Italia e a Roma, ove fu
profondamente sentita – anche a livello popolare – sino a diventare nel corso dei secoli, e lo era
ancora in pieno Ottocento, elemento leggendario all’interno di cerchie ermetiche, pitagoriche,
rosicruciane e, a partire dal XVIII secolo, persino massoniche.
Dopo il definitivo sommergersi dell’antico Egitto, sotto la distruttiva marea, prima cristiana e poi
islamica, si rivelerà prezioso il fatto che proprio in Italia si fosse da secoli trapiantata, in forme
varie, la spiritualità egizia: come religione, come arte, come sapienza iniziatica. Si può quindi dire
che venisse in qualche modo demandato all’Italia, novella Egitto, come per decreto d’una Celeste
Provvidenza, il sacro officio di mantenere viva, seppur nascosta, la fiamma e, a partire dal
Rinascimento, di spanderla in seno alla civiltà europea. In Campania, già fin dal 105 a.C. circa,
abbiamo i templi di Iside a Pompei e a Pozzuoli, e già fin dall’80 a. C. – ai tempi di Silla – nella stessa
Roma, secondo la testimonianza di Apuleio, si era costituito un collegio di Pastòfori, votati al culto
isiaco. Culto che gl’imperatori Caligola e Claudio favorirono assai. Fu sotto Caligola che alla fedele
sposa di Osiride a Roma venne costruito l’Iseo Campense. La protezione imperiale nei confronti dei
culti egizi proseguì con i Flavi. Adriano fece costruire, nella sua villa di Tivoli, il Canopo (dal nome
di un sobborgo di Alessandria ove si ergeva il tempio di Serapide) che tanti reperti di arte egiziana
ci ha trasmesso. Caracalla elevò ad Iside un tempio sul Celio ed uno sul Quirinale. La Regio III di
Roma prese il nome di Isis et Serapis. Il culto di Iside ebbe il suo culmine sotto la dinastia dei Severi
nel III secolo e fu solo a partire dall’epoca di Costantino che cominciò, sotto i colpi di dure
persecuzioni, a decadere come influenza e a scomparire dalla scena apparente della storia.
Di particolare interesse sarà per noi il trapiantarsi dei culti egizi, nella forma da essi assunti
dall’epoca Alessandrina, nella regione campana e in particolar modo a Napoli e nelle zone costiere
ve-suviane. Certamente, questo è un fatto ben noto da moltissimo tempo agli storici. Meno noto,
invece, è il fatto che, in realtà, si trattò del radicarsi, profondo ed efficace, di un’elevata influenza
spirituale la quale, a prescindere dalle vicende storiche ed esteriori che determinarono il
tramontare della religiosità classica antica e, spesso, l’estirpazione violenta dei suoi culti, riuscì a
trasmettersi ininterrottamente nei secoli, «come fiamma che accenda fiamma» ad opera di ierofanti
ed iniziati, costituenti un Collegium sacro, perpetuante nell’Arca Arcana della Tradizione
quell’imperitura scienza dell’Iniziazione, «onde l’uom s’eterna».
Notizie, tradizioni, talvolta leggende, tutte tramandate, oral-mente, per secoli, all’interno di
cerchie napoletane, parlano dell’immigrazione di un’intera colonia alessandrina di egiziani e di
greci, trapiantatasi a Napoli nella zona dell’attuale Piazzetta Nilo, ove si formò il quartiere nominato
per questo dai romani Regio Ni-lensis. Questa colonia, recante con sé i propri usi, la propria
religiosità e i propri culti, nel tempo andò assimilandosi alla locale popolazione di origine greco-
italica. Ma, nonostante l’assimilazione etnica e la violenta dispersione dei culti pagani, avvenuta a
partire dall’epoca costantiniana, secondo le suddette tradizioni – e anche secondo chi scrive –
continuò occultamente a sussistere e a vivere l’anima o l’archetipo agente di quella comunità,
operante sapien-zialmente e magicamente a perpetuare l’arcano dell’Iniziazione.
Quest’anima o archetipo celeste agì invisibilmente, dando talvolta segno di sé e della sua azione in
momenti cruciali della storia.
Ovviamente, una tale ininterrotta continuità, celata dietro la parvenza della storia, è un atto dello
Spirito, e sia l’essenza che la modalità d’azione del Collegio iniziatico suddetto appartengono
all’ineffabilità dello Spirito e non possono essere profanamente còlte da chi guardi esclusivamente
attraverso i vetri offuscanti della mera erudizione storicistica, la quale è capace – costituzional-
mente – di afferrare non atti dello spirito, ma solo fatti materiali, grossolanamente sensibili, ossia
unicamente il cadavere, la disani-mata spoglia di ciò che ormai è stato abbandonato dallo Spirito.
Purtuttavia, l’erudizione classica e storica possono talvolta offrire dati, notizie relative a vicende
varie, utili a ricostruire un quadro delle contingenze storiche, nelle quali lo Spirito vivo lasciò la sua
impronta. Ma è soltanto l’atto dello Spirito quello che può «leggere» la propria azione nei fatti della
storia, la quale, come mera apparenza, slegata dalla visione spirituale, è solo una mâyâ illusoria.
L’emergere di tale azione spirituale, spesso enigmatica sul piano dell’apparire quanto inafferrabile
sul piano delle cause occulte, è chiaramente e concretamente avvertibile nello svolgersi di taluni
eventi storici e nell’operare di alcuni personaggi che a vario titolo manifesteranno l’influenza di tale
azione. Cagliostro ne è un esempio emblematico, ed una manifestazione del suo agire è la nascita
del Rito Egiziano.
Ma l’emergere della figura di Cagliostro non è un fatto isolato, slegato da altre manifestazioni che
quell’influenza genererà nella vita culturale e sociale del suo tempo. Ad esempio, l’illuminismo
napoletano, accogliendo l’eredità di Gian Battista Vico e proseguendo nel solco da lui tracciato, si
differenziò moltissimo da quello d’Oltralpe, in special modo con figure come il Genovesi, il Filangieri
ed un Mario Pagano, il quale, ispirandosi alla visione «classica» dei suoi predecessori, l’ampliò e
l’approfondì in una concezione del mondo e in una visione storica e spirituale dalla facies
esplicitamente «egizia».
Può esser visto come una «segnatura» d’un superiore destino il fatto che due personalità
luminose, due grandi italiani: Giordano Bruno e Tommaso Campanella, compirono i loro studi
giovanili, nei quali si formarono all’amore per la tradizione pitagorica e pla-tonica, nel convento di
S. Domenico Maggiore, situato nelle im-mediate adiacenze di Piazzetta Nilo, presso la quale si
trovano altresì i palazzi gentilizi delle famiglie de’ Sangro e d’Aquino Caramanico, che somma
importanza ebbero per quella aurea catena Hermetis che, nei millenni, ci ha trasmesso la sapienza
egizia, famiglie che ebbero grande importanza nella vita e nella missione di Cagliostro.
La tradizione filosofica e sapienziale che, a partire dal Rinascimento, si era manifestata attraverso
circoli, cenacoli, accademie – tra le quali, importantissima fu l’Accademia dei Segreti di Gian
Battista della Porta – nel Settecento assunse forma anche massonica. I contatti tra gli ambienti
ermetici napoletani e quelli latomistici – nella fattispecie inglesi, francesi e olandesi – furono
precoci. Risa-le, infatti, al 1728 il sorgere a Napoli di un’officina che sarà d’importanza notevole
nella storia della massoneria italiana in generale e di quella «egiziana» in particolare: la Loggia
“Perfetta Unione”. Questa è la prima loggia italiana di cui si abbia notizia certa, ben anteriore alla
loggia fiorentina fondata dal Duca di Sackville, un decennio dopo, alla quale parteciparono il medico
«pitagorico» Antonio Cocchi e il poeta Tommaso Crudeli, ma frequentata in massima parte dalla
colonia inglese di Firenze. La “Perfetta Unione” ebbe caratteristiche prettamente italiche e lo
dimostrò.
Nel febbraio o nel marzo 1728, venne rivolta una richiesta, una petition, al Gran Maestro della
Gran Loggia di Londra, Lord Henry Hare Coleraine, con domanda di poter costituire un’officina a
Napoli. Il Gran Maestro Lord Coleraine tramite una deputa-tion, sottoscritta da tutti i dignitari della
Gran Loggia il giorno 22 maggio 1728 (il documento porta la data dell’11 maggio in quanto in
Inghilterra vigeva ancora il calendario giuliano), autorizzò i fratelli Giorgio Olivares e Francesco
Xaverio Gemignani a costituire a Napoli l’officina suddetta, che venne quindi ritualmente installata
col nome di Loggia“Perfetta Unione”. Fin qui poteva trattarsi di un caso come tanti altri. A
quell’epoca, gl’Inglesi fondavano logge un po’ dappertutto, persino in Asia. Generalmente si trattava
di logge a carattere più che altro conviviale, oppure dedite alla beneficenza. La nuova officina
napoletana mostrò, invece, di possedere sin dal principio un carattere accentuatamente esoterico,
rifa-centesi ai Misteri Classici dell’antichità, come si può evincere dal suo sigillo, fortunosamente
pervenutoci, nel quale è presente una complessa simbologia ermetica di evidente sapore
«egiziano». I simboli e le allegorie presenti in questo sigillo, datato Anno Lucis 1728, rimandano
esplicitamente alla tradizione ermetica alessandrina e più in generale alla tradizione misterica
classica, trasmessa ininterrottamente attraverso i secoli. A questa trasmissione, infatti, alludono le
parole del motto incise nel sigillo, tratto dal poema di Lucrezio: Qui quasi cursores vitae lampada
tradunt. Ossia, vi sono, nella vita, corridori che, come gli antichi tedofori olimpici, portano una face
accesa e la trasmettono a coloro che a loro volta, cor-rendo, la porteranno ad altri.
La simbologia degli emblemi presenti nel sigillo – la sfinge, la pi-ramide, l’acacia, il sole
meridiano, etc. – alludono alla Grande Opera dell’Arte Regia alchemica ed è evidente che l’aspetto
massonico della nuova loggia non era, per i sodali napoletani, che il velo consapevolmente scelto
per ri-velare (nell’ambiguo duplice senso del termine) l’antica sapienza in una cerchia ristretta, che
aveva per loro la funzione di un vivaio nel quale coltivare e trascegliere neofiti adeguatamente
preparati per il difficile cammino dell’Iniziazione. Stando a quanto ci è giunto per via della suddetta
tradizione orale, fu proprio all’interno di quella loggia che venne ela-borata quella sintesi di
Ermetismo alessandrino e di Alchìmia rosicruciana, che si ritroverà nella dottrina, nei rituali e nella
no-menclatura dei gradi del Rito di Misraïm seu Aegypti.
Personalità preminente della loggia “Perfetta Unione” sarà Raimondo di Sangro, principe di
Sansevero e duca di Torremaggiore (ove nacque nel 1710), figura luminosa d’iniziato rosicruciano,
amico e discepolo del Conte di Saint-Germain. Secondo varie notizie pervenuteci, egli venne iniziato
in massoneria il 24 maggio 1737, a Parigi, nella loggia del Duca di Villeroy, nella quale poco tempo
dopo, nel luglio del 1737 – presentato dal veneziano N.H. Filippo Farsetti – venne iniziato anche il
principe Gennaro Càrafa Cantelmo Stuart della Roccella. I due principi, tornati in Italia, non
tardarono ad affiliarsi alla loggia “Perfetta Unione” di Napoli, all’interno della quale, nel 1744,
Raimondo di Sangro venne elevato alla carica di Maestro Venerabile e, alcuni anni dopo, – il 20
luglio 1750 – a quella di Gran Maestro dell’Ordine Massonico, nel neo-fondato Grande Oriente
Napoletano. Suo amico e discepolo fu il barone Henry Théodore Tschoudy che trascrisse
l’insegnamento ricevuto nella sua famosa opera L’Étoile Flamboyante, del 1766, all’interno della
quale si trovano il Catechismo ermetico-massonico e l’Ode alchemica, scritti a partire dalla dottrina
e dalle opere di due ermetisti seicenteschi: il Cosmopolita e il marchese Francesco Maria Santinelli,
che con Napoli ebbe molteplici legami e dalla cui Lux Obnubilata la suddetta Ode era tratta.
Secondo lo storico del Risorgimento Renato Soriga si deve proprio all’entourage del principe
Raimondo di Sangro l’elaborazione, intorno al 1747, di un Rito massonico «egiziano» col nome di
Rito di Misraïm o Mizraim, dall’antico nome biblico dell’Egitto e del suo fondatore. Infatti il Soriga
così scrive ne Le società segrete, l’e-migrazione politica e i primi moti per l’indipendenza, Modena,
So-liani, 1942, p. 14:

«… mentre verso il 1745 per opera più che altro delle truppe straniere al servizio di Carlo
III, si organizzava una Gran Loggia in Napoli, sotto il Gran Magistrato di Raimondo di
Sangro, Principe di Sansevero, curioso spirito di transizione, metà alchimista e metà
scienziato, al cui entourage è forse dovuta la prima elaborazione di un nuovo rito massonico
di carattere templare detto di Mizraïm, come risulta da un catechismo per il grado di
apprendista filosofo sublime sconosciuto, dovuto alla penna del Barone Luigi (sic) Teodoro
di Tschudy, nipote del maresciallo omonimo, che in Napoli comandava un reggimento a lui
intitolato».

Lo stesso Soriga riporta, in un’intelligente nota a piè della medesima pagina, le seguenti preziose
informazioni:

«Cfr. L’Étoile Flamboyante ou la Société des Franc-Maçons considé-rée sous tous les
aspects. À l’Orient, chez Le Silence, 1785, Vol. II, p. 29, ove lo Tschudy riferisce un discorso
pronunciato in Napoli nella loggia del Principe di Sansevero. Il catechismo dei filosofi
sconosciuti sino a pag. 120 e 143; l’ode di cui riproduco una strofa è a pag. 183. La prima
edizione dell’opera predetta è del 1766.
In correlazione a questo catechismo, così poetava un anonimo poeta meridionale, ponendo
in rima una sua arruffata cosmologia alchemico massonica:
«O del divino Hermete,
Emoli figli, a cui l’arte paterna
Fa che la Natura appar senza alcun velo,
Voi Sol, Sol voi sapete
Come mai fabbricò la Terra e’l Cielo
Dell’indistinto Cahos la mano eterna.
La grand’opera vostra
Chiaramente vi mostra
Che Dio nel modo istesso, onde è prodotto
Il fisico elissir, compose il tutto».

Ricerche accurate, svolte in archivi particolari, attestano la fondazione da parte del principe
Raimondo di Sangro di Sansevero di un Antiquus Ordo Aegypti, nel quale operò il Rito di Misraïm
seu Aegypti, il 10 dicembre 1747. La stessa data viene riportata nei documenti di Giovan Battista
Pessina, capo di un Rito riformato di Misraïm a Napoli nella seconda metà dell’Ottocento. Viene
riportata anche da Eduardo Frosini, fondatore del Rito Filosofico Italiano negli Annali del R.F.I.,
pubblicati nel 1915. Infine identica data viene confermata da John Yarker, figura preminente del
Rito di Misraïm in Inghilterra, che la riporta nella sua rivista ufficiale The Kneph. Vol. II, n° 14,
febbraio 1882. La notizia può essere ritenuta certa in quanto si trova pure su alcuni diplomi
settecente-schi dell’Antiquus Ordo Aegypti.
Fu poco tempo dopo questa data che Raimondo di Sangro venne eletto, nel luglio del 1750, Gran
Maestro dell’Ordine a Napoli. Sono note le vicende che portarono, nel luglio 1751, allo scioglimento
delle logge napoletane e alle dimissioni del Principe dalla carica magistrale in seguito alla bolla
antimassonica In providas di papa Benedetto XIV e all’editto conseguente del re di Napoli Carlo III.
Ricerche fatte da vari studiosi in seguito a fortunati ritrova-menti, hanno dimostrato la formazione
da parte del Principe di Sangro di una loggia segreta, ad indirizzo chiaramente ermetico e
rosicruciano, chiamata “Rosa d’Ordine Magno”, loggia clandestina che si riuniva nel suo palazzo, e
la connessione con la medesima, in quel periodo di persecuzione, del latitante ed esule barone di
Tschudy. Quel che ci preme chiarire è che all’interno della desangriana loggia “Perfetta Unione”, su
insegnamento diretto del Principe, vennero elaborati tre o quattro Alti Gradi, denominati Arcana
Arcanorum, formanti la Scala o Regime di Napoli, gradi che vennero associati al Rito di Misraïm del
quale andarono a costituire il vertice della gerarchia del Rito.
In seguito, a partire dal 1767, ritroviamo la loggia “Perfetta Unione” lavorare sotto l’egida del
duca Vincenzo di Sangro, figlio di Raimondo (che morirà nel 1771). Vincenzo di Sangro, in virtù
della patente di fondazione della “Perfetta Unione”, trasmessagli da suo padre, assunse il titolo di
Gran Maestro, Supremo Architetto della Libera Muratoria dei Regni di Napoli e di Sicilia e
manterrà la loggia paterna fuori dalle varie Obbedienze che nel Regno operavano spesso in
reciproca aspra contesa. In questo periodo, appare per la prima volta a Napoli, in compagnia del
Cavaliere d’Aquino, cugino del principe Raimondo di Sangro, Alessandro, conte di Cagliostro, che
frequenterà la “Perfetta Unione”, conoscerà il principe Raimondo di Sangro e si legherà con
fraterna amicizia a suo figlio Vincenzo di Sangro. Fu proprio a Napoli, all’interno della “Perfetta
Unione”, che Cagliostro trarrà l’egizianismo del proprio Rito. Della “Perfetta Unione” egli reggerà
pure, per breve periodo, nel 1783, il maglietto di Maestro Venerabile. I rapporti di Cagliostro con la
loggia desangriana rimasero sempre molto stretti e cordiali, al punto che persino nel 1789, durante
la permanenza del Gran Cofto a Roma, in momenti quindi assai pericolosi, vi furono rapporti
epistolari tra lui e vari fratelli della “Perfetta Unione”, sino a poco prima del suo arresto.
Sotto l’egida di Vincenzo di Sangro, vissuto sino al 1790 – morì, ancor giovane, pochi mesi dopo
l’arresto di Cagliostro, in circostanze che fecero pensare ad un suo avvelenamento – la loggia
attraversò varie vicende, raccogliendo nel suo seno le migliori menti dell’aristocrazia e della cultura
illuministica napoletana, all’epoca una delle più feconde e apprezzate d’Europa. In questo periodo,
la “Perfetta Unione”, completamente distaccata dalle obbedienze massoniche formaliste, evolverà a
massoneria mista, concedendo l’iniziazione muratoria alle donne. In effetti, più che di semplice
massoneria, bisognerebbe parlare di una vera e propria Scho-la iniziatica a carattere ermetico. Del
resto, lo stesso Cagliostro, ancor prima della fondazione a Parigi, nel 1785, delle logge d’adozione
del Rito Egiziano, concederà l’iniziazione «egiziana» alle donne sia a Mitau che a Strasburgo, ove
formerà logge «miste».
La prima apparizione di Cagliostro avvenne a Malta, nel 1766, e forse a Malta avvenne la
trasformazione profonda della sua personalità, sì da far emergere la sua individualità spirituale più
profonda. Egli affermava: «Sono nato a Malta» e a Malta assunse per la prima volta il nome di
Cagliostro. A Malta fu ospite del Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri Ospitalieri, Manuel Pinto de
Fonseca, profondo conoscitore dell’Ermetismo e dell’Alchìmia, il cui elevato rango spirituale ci è
stato confermato da recenti ricerche. Fu il Gran Maestro de Fonseca che presentò il giovane
Cagliostro al quasi coetaneo Cavaliere d’Aquino, come lo chiama Cagliostro nel suo Memoriale e
negli interrogatori subìti in occasione del Processo della Collana. Fu a Malta che Cagliostro venne
iniziato all’interno di una loggia massonica formata da Cavalieri di Malta.
Gastone Ventura, nel suo libro I Riti massonici di Misraïm e di Memphis, Roma, 2a ed. 1980,
identificando Cagliostro con Giuseppe Balsamo sulla scorta del Photiadès, autore fortemente
irridente e ostile a Cagliostro, così scrive a pag. 28:

«Né il Photiadès, pur così attento e documentato, né altri biografi (o ritenuti tali) di
Cagliostro si sono mai dati la briga di sapere chi era effettivamente il principe di
Caramanico, e cioè il Gran Maestro nazionale della Massoneria nel Regno di Napoli e che
suo cugino, il principe Raimondo di Sangro di San Severo (titolo poi passato ai d’Aquino) era
il Gran Maestro di quella napoletana.
Balsamo (che aveva appreso Kabbalah e altre branche dell’occultismo da quegli che egli
indica come il suo precettore e maestro, Althotas, da alcuni definito, sempre senza prove,
come un avventuriero greco o levantino) nel suo primo viaggio a Malta, nel 1766 e 67,
sarebbe stato ricevuto massone nella loggia Discrezione e armonia, fondata nell’isola nel
1738, e poi ricostituita nel 1789 con patente numero 539 della Gran Loggia d’Inghilterra. A
questa loggia avrebbe appartenuto anche il cavaliere d’Aquino. Rituali e documenti della
loggia sarebbero stati portati a Napoli nel 1767 e ad essi sarebbero stati aggiunti, a opera
del d’Aquino, e, forse, dal Balsamo grazie ai sugge-rimenti di Althotas, tre gradi denominati
Arcana Arcanorum e noti, poi, in Francia e nel Belgio come Scala o Regime di Napoli».

In un’altra sua opera, Cagliostro, un uomo del suo tempo, Roma, Atanòr, 1976, Gastone Ventura
scrive alle pp. 78-79:

«Ho accennato che il Cavalier d’Aquino era il fratello minore del Principe di Caramanico,
il quale oltre ad essere uno dei favoriti della Regina Maria Carolina di Napoli era anche il
viceré di Sicilia il Gran Maestro della massoneria del regno napoletano.
Nessun biografo (o ritenuto tale) di Cagliostro, ha preso in considerazione un fatto del
genere.
Balsamo, che aveva sviluppato la sua passione giovanile per le scienze occulte alla scuola
di quegli che egli indica con un nome iniziatico, Althotas (così come indica se stesso con un
altro nome iniziatico, quello di Acharat) proprio colui che egli dice suo protettore, era stato
ricevuto massone nella loggia “Discrezione e armonia” fondata a Malta nel 1738 e poi
ricostituita nel 1789 con patente numero 539 della Gran Loggia d’Inghilterra. A questa
loggia, durante il suo soggiorno a Malta, assieme ad altri Cavalieri avrebbe appartenuto il
Cavalier d’Aquino».

Marc Haven ha dimostrato quanto sia incerta e problematica l’identificazione di Cagliostro con
Giuseppe Balsamo. Per il resto, il discorso di Ventura è importante, anche se necessita di alcune cor-
rezioni e precisazioni, che faremo nelle pagine che seguiranno. Il principe di Caramanico, fratello
maggiore del Cavalier d’Aquino, era Francesco Maria Venanzio d’Aquino, nato a Napoli il 27
febbraio 1738, sposatosi a 29 anni, il 12 maggio 1767, con Vittoria Guevara di Bovino e Suardo,
vedova del duca di Maddaloni. All’epoca citata dal Ventura egli non era ancora viceré di Sicilia: in
realtà lo sarà molto più tardi. Prima verrà inviato a Londra come ambasciatore del Regno di Napoli,
nel 1781: in tale viaggio verrà accompagnato dal suo fratello minore Luigi – questo il nome del
Cavaliere d’Aquino – e il viaggio fu l’occasione per quest’ultimo per incontrare, strada facendo,
Cagliostro a Strasburgo e rievocare le passate esperienze maltesi e napoletane.
Ecco come riferisce l’episodio Dényse Dalbian, nel suo Le comte de Cagliostro, Paris, Laffont,
1983, p. 19:

«Benché si fosse nel secolo dei lumi, queste teorie [di Cagliostro sulla religione naturale]
non mancavano di urtare un gran numero di persone – in particolar modo l’abate Georgel –,
mentre i seguaci dei philosophes s’irritavano a sentirlo invocare il Grande Iddio o la potenza
degli angeli, e dicevano di lui che non era altro che un missio-nario paracelsiano, un
arcanista. A coloro che stimava degni di essere iniziati, egli si era fatto conoscere come il
capo supremo d’un rito segreto – il Rito Egiziano nel quale solo i massoni erano ammessi.
«Certamente, nei racconti che Cagliostro faceva dei suoi viaggi, l’immaginazione si
mescolava strettamente alla realtà. Ma i più scettici dovettero arrendersi all’evidenza – non
tutto era fantasioso in ciò ch’egli raccontava. E così un bel giorno si vide apparire a
Strasburgo il Cavaliere Luigi d’Aquino, della famiglia dei principi di Caramanico, il quale nel
corso d’uno dei suoi viaggi fece espressamente deviazione per l’Alsazia allo scopo di venire
a salutare il conte di Cagliostro, del quale i giornali gli avevano rivelato la presenza in
Francia. Egli aveva conosciuto Cagliostro in un periodo in cui questi non innalzava ancora
un titolo nobiliare ed attraversava ore difficili. Ma in ogni caso egli si guardò bene dal
diffondere la minima reminiscenza sfavorevole al suo amico. «Il Cavaliere d’Aquino, scriverà
più tardi Cagliostro, ha visto i Capi della Città, ai quali ha potuto dire ciò che sapeva del
soggiorno ch’io avevo fatto a Malta, e della distinzione con la quale il Gran Maestro Pinto mi
aveva trattato». Vi fu pure un certo conte Gevuski d’origine polacca, anche lui di passaggio
a Strasburgo, che riconobbe Cagliostro e se ne andò a raccontare ovunque le meraviglie che
egli aveva visto operare poco tempo prima a Varsavia».
La notizia del viaggio del cavaliere Luigi d’Aquino, che accompagnava suo fratello Francesco,
principe di Caramanico, con sosta a Strasburgo, nel 1781, oltre che da Dényse Dalbian, autrice
ostile a Cagliostro ma ricca d’informazioni, ci viene confermata dal già citato Photiadès, in Les vies
du comte de Cagliostro, Paris, Grasset, 1932, p. 234:

«La Provvidenza non volle affatto che il taumaturgo mancasse di forza per sopportare fino
in fondo tante vessazioni e oltraggi. Rien-trando una sera alla propria abitazione, in Rue des
Écrivains, ebbe la sorpresa di trovarvi l’essere che più amava al mondo, il cavaliere
d’Aquino. Questo venerabile gentiluomo, avendo saputo dai giornali del soggiorno di
Cagliostro a Strasburgo, si era imposto espressamente quel lungo e faticoso viaggio da
Napoli in Alsazia per rinserrare i nodi dell’antica amicizia. Il cavaliere visitò i capi della
città. Disse loro, a ciascuno, ciò che pensava di Cagliostro e testimoniò la distinzione con la
quale egli l’aveva sempre visto trattare in Italia…».

Quindi Cagliostro era ben conosciuto dai fratelli d’Aquino, sia da Luigi che da Francesco.
Quest’ultimo, dopo aver retto l’ambasciata di Napoli a Londra a partire dal 1781, resse,
praticamente per un solo anno, l’ambasciata napoletana di Parigi, nel 1785, quindi proprio nel
periodo parigino di Cagliostro, nel quale dopo aver fondato a Lione la Loggia Madre del Rito
Egiziano La Sagesse Triomphante, fondò a Parigi la Loggia d’Adozione Iside, riservata alle donne.
Nel 1786 Francesco d’Aquino venne nominato Viceré di Sicilia, carica che mantenne sino al 9
gennaio 1795, allorché morì a Palermo a soli 57 anni di età. Varie circostanze legate alla sua morte –
era ancora relativamente giovane – fecero pensare anche nel suo caso ad un veneficio. Quel che è
certo è che con lo scoppio della rivoluzione in Francia, anche nel Regno di Napoli si radica-lizzarono
posizioni tra i reazionari conservatori, legati all’Ancien Régime, alla monarchia borbonica, alla
Regina Maria Carolina, le cui posizioni, specialmente dopo l’esecuzione a Parigi di sua sorella Maria
Antonietta, si erano involute nel reazionarismo più intransigente, e l’intellettualità illuministica,
riformista e liberale, simpatizzante non tanto per il giacobinismo d’Oltralpe, quanto per un
rinnovamento statuale ed una rigenerazione sociale, che ebbero il primo eroico ed infelice tentativo
di realizzazione nella creazione della Repubblica Napoletana del 1799, che tanti martiri dette alla
causa della Rinascita dell’Italia. Molti dei martiri, inviati al patibolo, dopo la caduta della
Repubblica, da Ferdinando IV e da Maria Carolina, erano amici di Francesco d’Aquino e di
Cagliostro. Nel 1795, il primo ministro Acton era ostilissimo a Francesco d’Aquino, del quale
conosceva le simpatie umanitarie e riformiste e che accusava di aver ispirato o sostenuto in Sicilia
rivolte contro l’assolutismo e la diffusione di idee rivoluzionarie. Tant’è che lo storico G. E. Di Blasi,
contemporaneo di quegli eventi, non esclu-se nella sua Storia cronologica dei Viceré Luogotenenti e
Presidenti nel Regno di Sicilia, edita a Palermo nel 1842, il delitto di veneficio: «Rallegratasi
Palermo al rivederlo, ma ben per poco, che la tristezza dell’animo del viceré ricadendo sul corpo
affralito dall’ultima malattia, lo condusse rapidamente al sepolcro la notte dall’otto al nove gennaio
1795. Fu sì fulminante il colpo che l’uccise all’età di cinquantasette anni, che corsero voci di veleno
propinato-gli o trangugiato volontariamente».
Lo stesso Carlo Francovich, nella sua Storia della massoneria italiana, Firenze, La Nuova Italia,
1974, p. 102, in nota, dopo aver riferito la notizia del Soriga circa l’origine del Rito di Mizraim,
come legata al principe di Sansevero, scrive: «Supposizione attraente, poiché spiegherebbe la
massoneria egiziana di Cagliostro, il quale soggiornò più volte a Napoli, dove ebbe pure un amico e
protettore nel cavaliere d’Aquino. La supposizione non ci sembra però sufficientemente provata». E
poco altre, alle pp. 199-200, aggiunge:

«L’altro grande avventuriero del secolo, che, come Casanova, operava all’ombra delle
logge, il conte di Cagliostro, soggiornò a Napoli più volte e a lungo, dove, come abbiamo
detto, si era legato di amicizia con il Cavaliere d’Aquino, fratello del massimo esponente
della libera muratoria partenopea. La qual cosa, se non altro, dimostra l’interesse che
sussisteva incerti ambienti partenopei per le scienze occulte.
Il primo soggiorno a Napoli di Giuseppe Balsamo, non ancora conte di Cagliostro, risale a
quando doveva avere circa vent’anni, tra il 1760 e il 1765, «ivi – secondo quanto egli stesso
afferma – acquistò amicizia di un principe, molto amante della chimica, che volle seco
portarlo in alcuni suoi feudi in Sicilia». Cagliostro ritornò a Napoli nel 1775-1776 e vi
«dimorò molti mesi – come dice il Compendio – e vi trovò qui gran vantaggio nella sua
professione Chimica, e Cabalistica». Dava infatti lezione «di chimica, spacciando una certa
sua acqua di gioventù, eseguendo alcune operazioni magiche e compiendo più di una truffa»
aggiunge il suo biografo italiano più accre-ditato [n.d.C.: si tratta del Petraccone, autore
ostile, come il Francovich, a Cagliostro, la cui «obbiettività» fu demolita dagli studi su
Cagliostro di Arturo Reghini]. Vi tornò nel 1783 per assistere l’amico morente, il cavaliere
d’Aquino, il cui fratello nel frattempo era divenuto viceré di Sicilia, e vi si trattenne soltanto
tre mesi, perché secondo le sue affermazioni, fu costretto ad abbandonare la città per le
persecuzioni eccitate-gli contro dalla facoltà di medicina. E non è certo un caso se, quando
fu arrestato per ordine del Sant’Uffizio a Roma nel 1789, uno dei più compromessi fu
proprio l’ex Gran Maestro della massoneria napoletana «il principe di San Demetrio Pi-
gnatelli», che trovandosi a Roma frequentava la loggia fondata dal Gran Cofto».

Francesco d’Aquino, fondatore del Real Corpo dei Volontari di Marina, detto dei Liparoti, nel 1768
si ascrisse alla massoneria entrando nella loggia napoletana «de’ Zelanti» (Les Zélés) per poi
trasferirsi, l’anno dopo, a «La Bien Choise» (Well Chosen Lodge), nella quale nel 1773 fu elevato
alla carica di Maestro Venerabile. Nel 1774 costituì, assieme ad altri massoni, la Gran Loggia
Nazionale «Lo Zelo» o «dello Zelo», della quale fu installato Gran Maestro ad vitam». In quel
periodo era presente, per la seconda volta, Cagliostro a Napoli, per cui ebbe modo di approfondirne
la conoscenza e l’amicizia. Nel 1775 a causa della persecuzione antimassonica promossa, per volere
del re Ferdinando IV, dal primo ministro Bernardo Tanucci, Francesco d’Aquino dovette dimettersi
dalla carica di Gran Maestro, anche se rimase sempre, in maniera palese o velata, a seconda dei
tempi e delle circostanze, libero muratore attivo. Infine egli fu Cavaliere Professo dell’Ordine di
Malta, caratteristica comune a molti amici di Cagliostro.
Ma chi era il Cavaliere d’Aquino, fratello minore di Francesco, principe di Caramanico? Si
chiamava, come abbiamo visto, Luigi d’Aquino ed era nato a Napoli il 22 giugno 1739. Come
Cagliostro, aveva profonda sensibilità, carattere indipendente, insofferente d’ogni costrizione.
Studioso di matematica e di chimica, con una passione profonda per le cosiddette «scienze occulte»:
soprattutto per la Filosofia Ermetica, per l’Alchìmia. Entrò in massoneria giovanissimo,
probabilmente negli anni sessanta del settecento nel quale le logge erano più o meno clandestine.
Forse entrò in una loggia, attiva sin dal 1754, dipendente dalla Loggia Madre Scozzese di Marsiglia.
Si trattava, in tal caso, di un sistema massonico fortemente spiritualista ed accentuatamente
ermetico, che da Marsiglia si diffuse in tutto il Mediterraneo, soprattutto in quelle città por-tuali che
ebbero frequenti rapporti marittimi e commerciali con la stessa Marsiglia. Questa caratteristica
renderebbe possibile l’adesione di Luigi d’Aquino ad un’officina di obbedienza «marsigliese»,
intorno al 1763. In seguito passò alla loggia desangriana, secondo quel che scrive Ruggero di
Castiglione ne Il maestro di Cagliostro, Luigi d’Aquino, Roma, Atanòr, 1989, p. 42: «Luigi [d’Aquino]
era ascritto in quello della «Perfetta Unione», autonoma da qualsiasi influenza straniera ed
osservante una ritualità tipicamen-te italica, a carattere egizio-templare (la loggia «Perfetta
Unione» – come più volte citato – aderiva all’Obbedienza di Vincenzo di Sangro che fu coinvolta nel
processo a Cagliostro per la corrispondenza con la loggia romana La Réunion des Amis Sincères)».
Il giovane Luigi d’Aquino entrò il 30 marzo 1765 nell’Ordine di Malta, quale cavaliere professo,
come i suoi fratelli Francesco e Giuseppe Maria. All’inizio del 1776 s’imbarcò per Malta e laggiù
incontrò Cagliostro.
A Malta nacque l’amicizia fraterna tra Cagliostro e Luigi d’Aquino. Cagliostro fu ospitato nel
palazzo magistrale del Gran Maestro Manuel Pinto de Fonseca. E a Malta Cagliostro venne iniziato
in Massoneria in una loggia legata alla suddetta Loggia Madre di Marsiglia. Riprendiamo da
Ruggero di Castiglione, dal citato libro, pp. 31-23:

«A Malta, Giuseppe Balsamo s’attribuì – come ricorda nelle sue «Memorie» – «… per la
prima volta… il nome di Cagliostro». L’isola rappresentò la principale tappa della sua vita: la
svolta per una futura attività, ricca di emozioni, onori, avventure e… rovesci. «Sono nato a
Malta» – come più volte egli dichiara – è infatti un’affermazione che riveste un chiaro
significato di trasmutazione di personalità. Sul-le ceneri del suo passato emerge un «uomo
nuovo» («ri-nato») che, sotto la protezione del Gran Maestro Pinto de Fonseca e dei suoi
cavalieri, avrebbe acquistato una fama internazionale.
Non è estranea inoltre, alla formazione intellettuale del nostro personaggio
l’insegnamento di Luigi d’Aquino; e… i frutti si vedranno ben presto.
Anche a La Valletta la Libera Muratoria era presente. Fin dal 1764, nella città-fortezza,
operava la «Loge de Saint Jean d’Écosse du Secret et de l’Harmonie», riconosciuta dalla più
volte citata «Mère-Loge» di Marsiglia. Tutti i membri dell’officina erano cavalieri
gerosolimitani e in stretti rapporti coi massoni napoletani e siciliani.
Luigi d’Aquino frequentò, senza dubbio, i lavori della loggia maltese, dove prevaleva un
indirizzo dottrinario d’impostazione ermetica e templare. Questo orientamento sapienziale
influenzò – come gli avvenimenti culturali (e non solo culturali) futuri confermeranno – sia il
maestro che il discepolo».

Lasciamo a Ruggero di Castiglione – che fa parte anche lui dell’ampia schiera degli autori ostili ed
irridenti nei confronti del Gran Cofto – la responsabilità dell’identificazione di Cagliostro con il
palermitano Giuseppe Balsamo. E tuttavia, anche i suoi scritti sono ricchi di dati utili, per aver egli
avuto modo di attingere a fonti buone, anche se, proprio per il suo limite personale, non ha mai
potuto attingere all’unica sorgente pura gli elementi decisivi, non tanto per un’informazione
profana, concupita da una bramosa curiosità intellettuale, quanto per una «conoscenza» o
«sapienza sacra» radicalmente trasformatrice del cercatore spirituale. Al passo sopracitato, egli
unisce alcune note, degne di non esser del tutto trascurate. Eccole:

Nota (51) a p. 31: «Cagliostro affermerà, in seguito, che, insieme, al Pinto de Fonseca,
avrebbe eseguito alcuni esperimenti alchemici nel suo laboratorio. Tale asserzione, in parte
veritiera, offre il fianco a qualche dubbio circa eventuali operazioni ermetiche».
Nota (54) a p. 32: «I cavalieri di Malta si ritenevano eredi diretti dell’Ordine dei templari,
in quanto papa Clemente V, dopo la nota soppressione della potente Comunione, aveva
assegnato il 2 maggio 1312 ai cavalieri Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme tutti i
beni appartenenti alla disciolta milizia».

Ruggero di Castiglione mette in dubbio l’appartenenza di Cagliostro alla loggia maltese, cosa
invece affermata da Gastone Ventura, e con ragione. Cagliostro e Luigi d’Aquino furono insieme non
solo nella loggia maltese, ma altresì nell’officina napoletana cui apparteneva Luigi a Napoli. Infatti,
lo stesso Ruggero di Castiglione in un’altra sua opera, Alle sorgenti della Massoneria, Roma, Atanòr,
1988, a p. 104 scrive: «I rapporti di Cagliostro con la confraternita partenopea risalivano all’antica
amicizia con il cavaliere Luigi d’Aquino che, nel 1767, su disposizione del Gran Maestro dell’Ordine
di Malta aveva accompagnato Cagliostro nella capitale meridionale».
Alcune considerazioni interessanti le offre il Ventura in due note importanti, che si trovano a p. 92
del suo Cagliostro, un uomo del suo tempo:

Nota 11: «L’appartenenza di Cagliostro alla loggia maltese è sostenuta anche da Jean
Bricaud nel suo saggio «Cagliostro a Lione» (Hu-mana, Milano, nr. 9 anno 1946). Di ciò fa
un brevissimo cenno anche il Ribadeau-Dumas nella sua opera citata, e anche altri autori
pro-pongono un tal fatto pur sorvolando subito dopo».
Nota 12: «In quell’epoca, a Napoli, una delle loggie (sic) aristocra-tiche, alla quale
probabilmente apparteneva anche Balsamo-Pellegrini, concedeva, dopo i tre gradi della
Massoneria Universale, altri tre gradi segreti detti «Arcana Arcanorum» (Segreto dei
Segreti) poi passati sotto il nome di Scala o Regime di Napoli. Per maggiori notizie
sull’Arcana Arcanorum, cfr.: Ventura, Gastone: I Riti massonici di Misraim e Memphis,
Atanòr, Roma, 1975».

Cagliostro fu tre volte a Napoli. La prima volta, dopo l’incontro a Malta con il Gran Maestro
Manuel Pinto de Fonseca, nel 1766-1767, egli viaggiò in compagnia del suo amico e mèntore, il
cavaliere Luigi d’Aquino, al quale il Gran Maestro lo aveva affidato. Secondo quel che lo stesso
Cagliostro descrive nel suo Memoriale parigino, i due amici visitarono la Sicilia, le isole
dell’Arcipelago greco, il Mediterraneo orientale ed infine approdarono a Napoli, nel 1768. A Napoli,
Cagliostro ebbe modo di conoscere il milieu ermetico e rosicruciano che operava, in condizioni di
semiclandestinità, all’interno della massoneria partenopea. Luigi d’Aquino presentò il giovane
Cagliostro ai Fratelli della Loggia Perfetta Unione, in particolar modo al duca Vincenzo di Sangro e
a suo Padre, il principe Raimondo di Sangro di Sansevero, il rosicruciano amico e discepolo del
conte di Saint-Germain. Il rapporto stretto con la famiglia di Sangro spiega l’accoglienza che
Cagliostro riceverà in Germania da parte delle cerchie della Rosacroce d’Oro e degli ambienti
massonici neotemplari. Poi, dopo una certa permanenza a Napoli, Cagliostro andò a Roma ove,
tramite lettere commendatizie fornitegli dall’Ordine dei Cavalieri di Malta, entrò in rapporto con il
barone di Bretteville, ministro dell’Ordine presso la Santa Sede, col cardinale Orsini, col cardinale
di York, col cardinale Ganganelli, futuro papa Benedetto XIV, con papa Rezzonico, con varie
personalità della nobiltà romana.
La seconda volta, Cagliostro giunse a Napoli nel 1774-1775, sempre assieme al cavaliere Luigi
d’Aquino, provenendo ancora una volta da Malta, ove il balivo Emmanel de Rohan, nipote del futuro
cardinale omonimo amico di Cagliostro, era divenuto Gran Maestro dell’Ordine dopo la morte di
Manuel Pinto de Fonseca, deceduto nel 1773, dopo oltre trent’anni di regno (era stato eletto Gran
Maestro nel 1741). A Napoli Cagliostro poté agire, per un certo tempo, con una certa libertà,
portando nell’ambiente massonico partenopeo il suo insegnamento sull’Alchìmia e la Kabbalah, e
dando in ambiente profano lezioni di fisica, di chimica, di botanica, di medicina spagirica, ottenendo
anche un certo successo di società per le sue profonde conoscenze. Ancora una volta, in questo
periodo, si approfondirono la conoscenza e l’amicizia con Francesco d’Aquino, fratello di Luigi,
presente a Napoli come durante il suo precedente soggiorno. Ancor più stretta divenne, inoltre,
l’amicizia con Vincenzo di Sangro, ora Principe di Sansevero dopo la morte del padre Raimondo e
figura preminente della loggia «egiziaca» Perfetta Unione. Ma nel settembre 1775, dopo il decreto
emanato il giorno 12 dello stesso mese da Ferdinando IV contro la massoneria, su consiglio di Luigi
d’Aquino, Cagliostro partì da Napoli per Marsiglia, ove venne accolto dalla sunnominata Loggia
Madre Scozzese, che, come abbiamo detto, coltivava un «sistema» massonico d’ispirazione
fortemente ermetica e rosicruciana.
A Marsiglia Cagliostro si presenterà con lettere dei Fratelli della Perfetta Unione che lo
accreditavano come «depositario dei segreti delle piramidi». Su questo punto, utili considerazioni ce
le offre il Francovich nella citata Storia della massoneria italiana, alle pp. 436-437, ove dice:

«Fin da giovane Giuseppe Balsamo – come Giacomo Casanova – aveva studiato ed


imparato alcune nozioni di chimica, quale assistente del frate farmacista nel convento di
Caltagirone, dove i genitori lo avevano rinchiuso. (…) Nel 1775, lo ritroviamo a Napoli in
dimesti-chezza – a quanto egli afferma – con il cavaliere d’Aquino, fratello del principe di
Caramanico, che abbiamo incontrato come esponente della massoneria napoletana e che
sarà il successore di Caracciolo nella carica di viceré di Sicilia. A Napoli, insieme al
cavaliere d’Aquino, dà lezioni di chimica per apparire poco dopo come taumaturgo e
depositario dei segreti delle piramidi a Marsiglia.
È probabile che un ulteriore perfezionamento nella chimica e nell’alchimia lo conseguisse
a Malta, dove sembra che Balsamo-Cagliostro soggiornasse per ben due volte. Una prima
volta in epoca anteriore al 1768 e una seconda volta intorno al 1775. E, nell’isola dei
Cavalieri , affermò Cagliostro sia nel processo di Parigi che in quello di Roma, la-vorò nel
laboratorio del Gran Maestro Pinto de Fonseca. La qual cosa non è da escludere a priori,
perché il de Fonseca, che ricoprì la suddetta carica dal 1741al 1773, fu accusato dopo la sua
morte «d’avoir dis-sipé des sommes immenses à la recherche de la pierre philosophale».

Carlo Francovich, autore onesto e generalmente bene informato, è a causa della sua formazione
storica d’ispirazione marxiana fortemente prevenuto e ostile nei confronti di Cagliostro, giungendo
a dare incondizionato credito ad autori come C. Photiadès ed E. Petraccone, dai quali assimila,
senza verifica, vari pregiudizi. Anche lui sostiene l’identità tra Balsamo e Cagliostro per una sorta di
acritica «persuasione» psicologica, quasi universalmente invalsa, che è il risultato di una metodica e
martellante propaganda della parte avversa, soprattutto del famigerato Compendio di Mons.
Giovanni Barbéri. Tuttavia, essendo fondamentalmente uno storico in buona fede, non può esimersi
dal riferire l’esistenza di una diversa valutazione. Infatti, dopo aver scritto a p. 436:

«Naturalmente identifichiamo il sedicente conte con Giuseppe Balsamo come risulta in


modo inoppugnabile da documenti, da testimonianze di contemporanei e dalle sue stesse
contraddizioni»,

non vuol trascurare di aggiungere in nota:

«La storiografia seria non ha dubbi in proposito. Ma esistono alcuni, soprattutto tra i
moderni martinisti, i quali si rifiutano di identificare Cagliostro con Giuseppe Balsamo e
vedono nel fondatore della massoneria egiziana il grande continuatore e rivelatore della
tradizione esoterica. Il più valido sostenitore di questa teoria ed estensore di una dotta
biografia, redatta con questo spirito, è Marc Haven (pseudonimo del martinista dr. Lalande)
con l’opera citata. Cfr. anche F. Ribadeau-Dumas, Cagliostro, Milano, 1968; P. Carpi,
Cagliostro, il taumaturgo, Torino, 1972».

Il che non è poco come concessione ad un altrui valore. Vedremo in seguito come il Francovich ci
fornirà varie notizie preziose sull’ultimo periodo italiano di Cagliostro, notizie che completano lo
studio di Marc Haven.
Secondo Gastone Ventura, la sosta marsigliese di Cagliostro fu importante, come tappa
massonica, precedente il suo arrivo a Londra. Vedi: Cagliostro,un uomo del suo tempo, p. 80:

«Ma è proprio a Marsiglia che Balsamo, frequentando quella loggia madre scozzese, che
concedeva quindici alti gradi, fra cui quello ermetico di Cavaliere del Sole che aveva
notevoli analogie con un rituale dell’Arcana Arcanorum napoletano, indubbiamente noto al
mago, cominciò a pensare ad un proprio rito, informandosi subito sulla prassi da seguire per
ottenere una patente di regolarità».

Circa questo grado, vertice della gerarchia di 18 Alti Gradi del sistema ermetico marsigliese,
sempre il Ventura scrive in una nota a p. 93:

«Il grado del Cavaliere del Sole… è stato sempre considerato uno dei gradi più importanti
della Massoneria speculativa. Nel suo rituale il capo della loggia è chiamato Adamo e il suo
assistente Fratello Verità. Si inseguono sette verità tradizionali ognuna delle quali è
prerogativa di uno dei sette pianeti tradizionali ai quali corrispondono i sette arcan-geli, i 7
scaglioni del tempio, le sette passioni e i sette piaceri della vita, le sette virtù e i sette
peccati capitali. Si insegnano anche i valori filosofici e metafisici del ternario e del
quaternario e si dà al neofita un completo riassunto dell’insegnamento ricevuto nei
precedenti 17 gradi».

Secondo Gastone Ventura – e anche secondo chi scrive – quella di Cagliostro a Londra, nel 1777,
alla loggia Esperance n. 369, alla taverna King’s Head a Soho, non fu una vera e propria iniziazione,
quanto una cerimonia di affiliazione ad una loggia regolarmente riconosciuta dalla Gran Loggia
d’Inghilterra. Infatti, se non fosse stato già iniziato a Malta e a Napoli in una loggia, sia pure non
ufficialmente riconosciuta da Londra, mai la loggia Esperance gli avrebbe concesso in un’unica
tornata, nello stesso giorno, i tre gradi di apprendista, compagno e maestro e quello di maestro
scozzese. Cagliostro, che si preparava al lungo viaggio che lo avrebbe portato ad attraversare tutta
Europa, svolgeva una «missione» di apostolato ermetico e rosicruciano, affidatagli a Napoli. Per tale
missione era importante una patente inglese di regolarità massonica. Missione che lo portò ad un
certo momento a Strasburgo, dove andò a trovarlo il Cavaliere d’Aquino. Gli anni di Strasburgo, il
periodo più lungo nel quale Cagliostro risiedette stabilmente in un luogo, terminarono allorché lo
raggiunse la lettera di Luigi d’Aquino, nella quale lo informava della propria malattia, pericolosa per
la sua vita, e richiedeva con urgenza la sua presenza a Napoli.
Così Cagliostro tornò per la terza volta a Napoli. Partì il 13 giugno 1783 da Strasburgo viaggiando
a tappe forzate nella speranza di giungere in tempo per salvare il suo amico. Dényse Dalbian mette
giustamente in rilievo, che non soltanto la personale salute era nella preoccupazioni di Luigi
d’Aquino. Cagliostro rientrava a Napoli dopo sette anni di lontananza nei quali aveva viaggiato
molto in relazione alla missione di apostolato ermetico e rosicruciano, che gli era stata affidata.
Rientrava a Napoli nella quale trovava una massoneria ancora divisa, operante in semiclandestinità.
Così scrive la Dalbian, a p. 100 della sua opera:

«L’editto che proibiva le logge era del resto sempre in vigore. Ciò nonostante Napoli
rimaneva un focolaio attivo della massoneria e la loggia della Vittoria che, dal 1776, aveva
aderito alla Stretta Osservanza Templare, e quella della Perfetta Unione, che contava
membri così illustri come il Filangieri, le davano un lustro particolare, pur operando nella
clandestinità. Se il cavaliere d’Aquino aveva chiesto a Cagliostro di fargli quest’ultima visita,
forse non era soltanto per ricorrere alle sue cure e rivederlo un’ultima volta, ma anche per
confi-dargli direttive spirituali relative alla loro azione massonica».

Della stessa opinione è Ruggero di Castiglione, che nel suo Il maestro di Cagliostro, Luigi
d’Aquino, alle pp. 48-49 scrive:

«È verosimile, altresì, che Luigi abbia richiamato a sé l’allievo pre-diletto per


trasmettergli il maglietto di Venerabile della sua loggia, la «Perfetta Unione»: incarico che,
in verità, fu assolto per circa due mesi, da agosto a settembre 1783, cioè fino al suo decesso.
Probabilmente questo mandato fu affidato a Cagliostro nel timore, non infon-dato, che
l’officina, in assenza di guida, fosse trascinata alla disgrega-zione dalla tenace concorrenza
delle altre obbedienze e non potesse, quindi, portare a termine il «disegno» massonico da
ambedue intrapreso. Forse Luigi, conscio della gravità del suo male, concesse all’amico
anche l’autorità di nominare, all’interno della loggia, il suo successore».

Più sinteticamente, e meno ipoteticamente, si esprime Carlo Montini, nella sua bella opera
Cagliostro, il grande Cofto, Genova, Alkaest, 1981, p. 60:

«Nella città alsaziana l’aveva raggiunto la notizia che il cavaliere d’Aquino, maestro
dell’Ordine di Malta e suo maestro dopo la morte di Althotas, era gravemente ammalato a
Napoli, ed egli si stava re-cando costì a tappe forzate, sperando di arrivare in tempo per
salvare il suo antico maestro.
Il taumaturgo arrivò a Napoli in agosto, troppo tardi per trovare ancora in vita il cavaliere
d’Aquino, che era morto pochi giorni prima del suo arrivo [n.d.C.: in realtà questo, come
vedremo tra poco, non era vero]. Si fermò a Napoli un paio di mesi, accolto come Venerabile
nella Loggia “La Perfetta Unione”».

Luigi d’Aquino morì il 22 settembre 1783. Cagliostro ritornò in Francia, dirigendosi a Bordeaux ed
iniziando una nuova fase della sua missione, che lo porterà nel 1784 alla fondazione a Lione della
Loggia Madre del Rito Egiziano, la Saggezza Trionfante , e poi nel 1785 a Parigi della Loggia
d’Adozione Iside, con il fine di trasmettere anche alle donne l’iniziazione «egiziana». Comunque,
quello del 1783 fu l’ultimo soggiorno di Cagliostro a Napoli; soggiorno durante il quale ebbe modo
di conoscere alcune personalità invero particolari. La più notevole di esse è senz’altro Dominique
Vivant Denon.
Chi era, dunque, il Vivant Denon? Generalmente egli è noto per il fatto di aver accompagnato
Napoleone nella spedizione d’Egitto, durante la quale iniziò lo studio scientifico e la catalogazione
sistematica degli antichi monumenti egiziani, ch’egli ritrasse con stu-pende tavole a colori nel suo
libro Description de l’Égypte. Fu, inoltre, direttore dei Musei di Francia e, sotto l’Impero, il primo
organizzatore del Louvre, ove fa bella mostra, tra l’altro, una ricchissima sezione d’arte egiziana.
Passò momenti difficili durante la tempesta rivoluzionaria, allorché, imperversando il Terrore, venne
salvato dalla ghigliottina dal tempestivo intervento dell’amico pittore e fratello massone David.
Meno nota, invece, è appunto la sua militanza massonica. Il Vivant Denon fu membro della Loggia
La Parfait Union (o Réunion) di Parigi e, dopo la spedizione d’Egitto, fu tra i fondatori di un Ordine
di massoneria «egiziana» in tre Alti Gradi, l’Ordre Sacré des Sophisiens, creato nel 1801 da ufficiali
dell’Armata d’Egitto. Questo Rito era posto «sotto gli auspici di Horus» ed era retto da un «Grande
Isiarca», che concedeva i gradi di Aspirante, Iniziato e Membro dei Grandi Misteri. Ancora meno
nota è l’amicizia che legò Dominique Vivant Denon a Cagliostro, amicizia antica, risalente proprio
all’ultima permanenza del Gran Cofto a Napoli nel 1783. È certo che il Vivat Denon avesse già
sentito parlare di Cagliostro dal loro comune amico J. B. de la Borde, il futuro Grande Ispettore del
Rito Egiziano, sul quale ci documenta abbondantemente Marc Haven nel suo Il Maestro
Sconosciuto, Cagliostro. Siamo felici di documentare questa amicizia.
Dényse Dalbian ci ragguaglia sull’ultimo soggiorno napoletano di Cagliostro, che descrive con
particolari inediti, soprattutto circa l’amicizia col Vivant Denon. Alle pp. 96-98 del suo Le comte de
Cagliostro, troviamo:

«In assenza dell’ambasciatore, il conte di Clermont d’Amboise, era l’incaricato d’affari,


Vivant Denon, che informava il governo di Versailles sugli intrighi tramati all’ombra del
Vesuvio e dirigeva i servizi d’ambasciata. Escluso dai festeggiamenti della corte a causa
dell’an-tipatia che la Regina provava per lui, egli era felice, per distrarsi, di accogliere gli
stranieri di passaggio e così, dopo aver servito in gennaio da cicerone al duca di Chartres,
fu dall’inizio di settembre, felice (en-chanté) di ricevere all’ambasciata la visita di un
viaggiatore che, se non apparteneva ad una casa principesca, giungeva nondimeno
circondato da un’aura di celebrità misteriosa che valeva bene una corona du-cale. Questo
visitatore era nientemeno che il conte di Cagliostro.
Due mesi e mezzo dopo aver lasciato Strasburgo, egli risaliva così alla superficie. Dove
aveva passato quelle settimane sepolte nel silenzio? Indubbiamente egli era già a Napoli,
poiché lasciò questa città a fine settembre e dichiarò più tardi di avervi soggiornato per
circa tre mesi… Secondo una tradizione ancora viva in Italia, era proprio nel suo palazzo
che il cavaliere d’Aquino lo aveva ricevuto.
Ma Cagliostro aveva trovato il suo amico già al suo estremo e, di fronte ai progressi del
male, si sentiva altrettanto impotente dei medici napoletani chiamati al capezzale del malato
dai parenti di questo. Nei vasti saloni, che i tendaggi tirati cercavano d’isolare dall’afa
esterna, i domestici non camminavano più che in punta di piedi, i visitatori abbassavano la
voce.
Era perché sentiva vicino l’esito fatale che Cagliostro aveva provato il bisogno improvviso
di presentarsi all’ambasciata di Francia per potervi trovare eventualmente una posizione di
ripiego il giorno in cui il suo amico non ci sarebbe più stato ad assicurargli la sua
protezione? Approfittò, inoltre, di quel colloquio per chiedere a Vivant Denon di metterlo in
relazione con persone che sarebbero state desiderose di ricevere le sue cure e poter così
esercitare la medicina, sicuro della discrezione dei pazienti».

Le notizie riportate da Dényse Dalbian, malgrado la sua posizione scettica e irridente, sono di
grande momento, perché durante il suo viaggio a Napoli, nel settembre 1979, ella ebbe modo di
incontrare il conte Alessandro Raimondo d’Aquino di Caramanico, erede sia della famiglia d’Aquino
che di quella de’ Sangro. Durante detto incontro, il conte Alessandro volle rievocare, attingen-do
alle tradizioni ed ai ricordi di famiglia tramandati, il suo ante-nato, il cavaliere Luigi d’Aquino, che
descrisse come un uomo innamorato delle idee liberali, massone «egiziano» e appassionato
d’Alchìmia. La famiglia d’Aquino Caramanico è stata da secoli strettamente imparentata con la
famiglia de’ Sangro e, dopo l’estinzione del ramo originario di quest’ultima a fine Ottocento, essa è
divenuta erede diretta nonché attuale proprietaria del Palazzo gentilizio e della Cappella di
Raimondo di Sangro, quella «Pieta-tella» nei cui marmi il Principe Iniziato profuse generosamente,
sotto il velo simbolico, le allegorie della sua sapienza ermetica.
Così prosegue la Dalbian, nel suo documentare, a p. 100 del suo libro, l’ultimo soggiorno
napoletano del fraterno amico di Luigi d’Aquino:

«Nel dispaccio nel quale Vivant Denon rendeva conto della visita che aveva ricevuto, egli
presentò Cagliostro come «non esser uscito di Francia altro che per prendersi qualche
periodo di riposo e di svago». Cagliostro gli aveva forse nascosto il fine reale del suo viaggio
o lo aveva semplicemente pregato di rimanere discreto su questo punto, per evitare negli
uffici degli Affari Esteri commenti che potessero ricadere sul principe di Caramanico, a
quell’epoca ambasciatore a Londra?».

Si tratta come abbiamo visto del principe Francesco d’Aquino Caramanico, fratello di Luigi, futuro
viceré di Sicilia. Dominique Vivant Denon informava regolarmente Parigi degli avvenimenti notevoli
del Regno di Napoli ed ebbe anche modo di usare parole lusinghiere nei confronti dell’ospite
Cagliostro:

«Il Conte di Cagliostro, Monsignore, celebre per la singolarità della sua maniera d’essere,
raccomandabile per le cure che ha fatte e per la generosità con la quale esercita la
medicina, è qui da qualche gior-no; fino ad ora ha evitato di farsi conoscere e non vuol
vedere altri che l’incaricato degli affari di Francia.
Il soggiorno che ha fatto a Strasburgo, le testimonianze ch’egli ha ricevuto dalle persone
più rispettabili, e i segni d’approvazione del Governo, mi hanno indotto ad accoglierlo».
(Dispaccio n° 63 del 6 settembre 1783, Archives Affaires étrangères. Correspondences Pol.
1783, vol.109, in Dalbian, Op. cit., p. 100)
In un altro dispaccio, il Vivant Denon annuncia al Ministro degli Affari esteri l’avvenuta partenza
da Napoli di Cagliostro. Ma i nemici di Cagliostro già da tempo portavano avanti la loro
macchinazione contro di lui, al punto che il ministro de Vergennes, che pure aveva scritto e firmato
una lettera di raccomandazioni per Cagliostro, rispose al dispaccio di Vivant Denon con parole di
forte biasimo, alle quali lo stesso Vivant Denon rispose a sua volta con parole coraggiose
d’indignazione. Ecco il dispaccio da lui inviato a Parigi:

«Il Conte di Cagliostro del quale ho già avuto l’onore di parlarvi, Monsignore, è partito ieri
per Parigi e sarà arrivato indubbiamente prima della mia lettera. Quell’uomo straordinario
ha continuato a consacrare al riposo il tempo del suo soggiorno a Napoli; ha sempre voluto
non vedere altri che me ed alcuni malati che gli ho fatto incontrare da me in segreto.
Durante questo tempo nel quale l’ho visto varie ore al giorno e nel quale egli è sembrato
avere una grande fiducia in me, sono stato nelle condizioni di ammirare in lui conoscenze
molto singolari, e se ho trovato nel suo carattere troppo gusto per lo straordinario, sono
stato ancor più in quella di plaudere alla sua sensibilità e al suo buon cuore. Infine, nessuno
ha dovuto dolersi di lui, e tutti coloro che gli ho fatto conoscere hanno dovuto lodarlo e lo
rimpiangono…» (Dis-paccio del 28 settembre 1783, Archives Affaires étrangères.
Correspondences Pol. 1783, vol. 109, in Dalbian, Op. cit., p. 101).

Ed ecco invece il testo del ministro in risposta al dispaccio di Vivant Denon:

«Non ero informato, Signore, circa la maniera in cui il preteso C.te di Cagliostro ha
lasciato Strasburgo quando ho ricevuto la vostra lettera del 28 settembre. Attraverso ciò
che mi dite circa i vostri legami con questo personaggio, vedo ch’egli ha creduto
interessante per lui apparire riconosciuto da un uomo legato al ministro di Francia e che voi
avrete forse favorito qualcuna delle sue truffe. Avreste evitato questo inconveniente se vi
foste attenuto nei suoi confronti all’uso essen-zialissimo per ogni persona legata all’estero ai
servizi del Re, di non dare accoglienza se non ai viaggiatori che gli sono raccomandati e dei
quali può rispondere» (Minuta datata da Fontainebleau, il 17 novembre 1783, recante in
margine un’annotazione: «Il Ministro biasi-ma M. Denon per l’accoglienza che ha fatto al
preteso C.te di Cagliostro», ibidem, F° 320, in Dalbian, Op.cit., pp. 101-102)

Ad una tale ‘lavata di capo’ da parte del suo superiore, Denon rispose immediatamente con la
seguente messa a punto:

«Il C.te Cagliostro, Monsignore, è giunto qui con le lettere più lusinghiere di S. Ecc.za il
Cardinale di Rohan, con la copia d’una lettera del Ministro della guerra, indirizzata al
Governatore di Strasburgo, contenente il permesso di uscire dal Regno e di rientravi. I miei
legami con lui sono consistiti nel riceverlo quando è venuto da me. Non sono stato nella
condizione di fare verun passo per lui; e nella circostanza, avrei agito con la circospezione
che deve ispirare un uomo straordinario». (Dispaccio del 6 dicembre 1783, ibidem, F° 340,
in Dalbian, Op.cit., p. 102)

Dobbiamo alle diligenti ricerche di Dényse Dalbian la conoscenza di questi quattro preziosi
documenti, relativi ai rapporti di Cagliostro con Dominique Vivant Denon, durante il suo ultimo
soggiorno napoletano. Ella ci informa, altresì, come il Vivant Denon abbia fatto conoscere a
Cagliostro un personaggio notevole, che avrà una parte importante negli avvenimenti importanti
relativi alla tragedia dell’arresto e del processo di Cagliostro. Si tratta del balì Charles-Abel de
Loras, ricevitore e procuratore generale dell’Ordine dei Cavalieri di Malta a Lione e massone
zelante. Questi viaggiava attraverso i vari stati italiani, dietro incarico del Gran Maestro dell’Ordine,
Emanuele di Rohan, con la missione di ne-goziare accordi riguardanti i beni dell’Ordine in Italia, e
in tale qualità era stato presentato a Napoli, il 7 settembre 1783, alla regina Maria-Carolina, che
annotò l’incontro nel suo diario. L’amicizia del balì de Loras (o Lorras, nei documenti la grafia del
nome è mutevole) con Cagliostro, nonché la comune militanza massonica, possono spiegare
l’accoglienza che questi ebbe, un anno dopo, giungendo a Lione. Comunque la conoscenza e la
simpatia del Vivant Denon nei confronti del Gran Cofto della massoneria egiziana dovevano essere
ben più profondi di quanto non appaiano nelle prudenti righe della corrispondenza ufficiale
dell’ambasciata di Francia a Napoli, poiché ritroveremo il Vivant Denon a Venezia nel 1795, proprio
nella cerchia di quelle persone che si riveleran-no legate a Cagliostro e al Rito Egiziano da lui
fondato, e a Venezia svolgerà un ruolo importante, come agente francese, assieme ad altri massoni
«egiziani», nel passaggio dalla Repubblica aristocratica a quella democratica, aperta alle idee di
rinnovamento in ogni campo. E questo è un fatto ignoto anche alla Dényse Dalbian.
Come si può constatare troviamo continuamente Cavalieri Giovanniti dell’Ordine di Malta in
rapporto stretto con la massoneria in generale e con Cagliostro – e il suo Rito Egiziano – in
particolare. Quello del balì de Loras non è affatto un caso isolato. In effetti, gli Alti Gradi Scozzesi,
gradi cavallereschi di sapore templare o alchemici, furono molto considerati, durante tutto il XVIII
secolo, da molti cavalieri dell’Ordine di S.Giovanni. Ufficialmente l’Ordine si allineava alla più
stretta ortodossia cattolica, per cui la prima loggia maltese, fondata nel 1738, in seguito alla bolla di
Clemente XII, venne sciolta dal Gran Maestro dell’Ordine, Ramon Despuig che con un decreto, nel
1740, proibì le riunioni massoniche. Il suo successore, il Gran Maestro Manuel Pinto de Fonseca,
proscrisse anche lui le assemblee muratorie «sotto pene severe». Ma in pratica le cose andavano
molto diversamente. Infatti, secondo Alexander Meyrick Broadley, nella sua The History of
Freemasonry in the District of Malta Cagliostro, Londra, G. Kenning, 1880, a p. 4: «tale era tuttavia
il potere della nuova fratellanza che essa divenne, in rapporto all’Ordine di S. Giovanni, una sorta di
imperium in impero. Malgrado l’anatema papale e l’editto dei Gran Maestri, la Massoneria continuò
ad esistere e a fiorire».
Abbiamo visto come una loggia, denominata S. Giovanni di Scozia del Segreto e dell’Armonia, sia
stata fondata a Malta nel 1764, con patente concessa dalla Loggia Madre Scozzese di Marsiglia.
L’atteggiamento dei Gran Maestri dell’Ordine di Malta non fu chiarissimo: apparentemente allineati,
ufficialmente, alla rigida ortodossia della Curia romana, che aveva in orrore ogni tolleranza
religiosa ed ogni sincretismo, in realtà lasciarono fiorire con occhio benevolo, per non dire
complice, l’istituzione muratoria nell’isola, tanto più che il sistema scozzese marsigliese era
ardentemente spiritualista, con chiare finalità ermetiche e alchemiche. Il fatto che, ufficialmente, la
loggia maltese venisse sciolta dal governo magistrale nel 1771, non significa nulla, perché le cose
continuarono esattamente come prima. Non è senza importanza, come abbiamo visto, che il Gran
Maestro de Fonseca, l’amico e protettore di Cagliostro, venisse accusato, dopo la sua morte «di aver
dissipato somme immense alla ricerca della pietra filosofale» (Pierre-Jean-Louis-Ovide Doublet,
Mémoires historiques sur l’invasion et l’oc-cupation de Malte, Paris, Firmin Didot, 1883, p.4).
Quanto al suo successore, il Gran Maestro Emmanuel de Rohan, nipote del cardinale di Rohan,
regnò dal 1775 al 1797, secondo quanto riporta il citato A. M. Broadley a p. 5 della sua The History
of Freemasonry in the District of Malta: «sebbene non membro della loggia, tuttavia era Massone;
ma gl’imperativi della politica e i pregiudizi della popolazione gl’impedivano di dichiararlo
apertamente». Ora, il nostro balì Charles-Abel de Loras era Deputato Maestro Venerabile della
loggia del Segreto e dell’Armonia, e nel biennio 1788-1789 ricopriva la carica di Maestro Venerabile
della loggia clandestina romana, La Réunion des Amis Sincères, coinvolta nel processo romano a
Cagliostro.
Gastone Ventura, nel suo Cagliostro, un uomo del suo tempo, alle pp. 52-53, tratta molto
sbrigativamente l’ultimo soggiorno napoletano di Cagliostro:

«Che abbia fatto a Napoli nel 1783 Alessandro di Cagliostro, già Marchese Pellegrini, è un
po’ difficile da sapere. Per sincerarsi sul motivo da lui avanzato per giustificare la sua
improvvisa partenza da Strasburgo e l’imprevedibile suo soggiorno nella città partenopea,
sarebbe necessario andare a consultare gli atti di morte della parrocchia nella quale si
trovavano le case dei d’Aquino per controllare quando morì il fratello del Principe di
Caramanico. Ho fatto qualche ricerca, ma la spesa si è rivelata già impegnativa all’inizio,
ragion per la quale ho lasciato perdere. Secondo la sua Mémoire e il suo interrogatorio alla
Bastiglia nell’agosto del 1785, mentre si trovava a Napoli il mago sarebbe stato riconosciuto
dall’ambasciatore di Sardegna e dall’incaricato d’affari di Francia, il quale ultimo voleva
ch’egli riprendesse a Napoli le sue pratiche mediche. Ma non desiderando incorrere nelle
persecuzioni da parte dei medici patentati, sarebbe partito all’improvviso, deciso a recarsi
in Inghilterra, su una feluca che lo traspor-tò, assieme a Serafina ad Antibes, di dove
attraversò la Francia meridionale, raggiungendo Bordeaux l’otto novembre 1783».

Ora, Gastone Ventura non ebbe modo di approfondire le sue ricerche, in quanto erano molti gli
elementi che gli sfuggivano. In effetti, ignorava la fondazione, nel 1728, della loggia napoletana
Perfetta Unione: ne ignorava le origini e il peculiare carattere «egiziano». Ignorava, in rapporto alla
Perfetta Unione, la funzione e l’azione del principe Raimondo di Sangro di Sansevero, e di come a
lui si debba la codificazione dei quattro gradi segreti dell’Arcana Arcanorum, che passarono nel Rito
di Misraïm seu Aegypti sotto il nome di Regime o Scala Egiziana di Napoli. Gastone Ventura parla
d’una origine maltese dei suddetti gradi, i quali sarebbero stati poi portati da Cagliostro e dal
cavaliere d’Aquino, assieme a rituali e regolamenti, in una loggia aristocratica napoletana, della
quale ignora persino il nome. In realtà, proprio la loggia napoletana Perfetta Unione era la
detentrice originaria dei gradi ermetici dell’Arcana Arcanorum, quale antico retaggio di sapienza,
innestato soltanto nel corso del Settecento su forme rituali massoniche. Ventura ignora come
Vincenzo di Sangro, la cui amicizia con Cagliostro è accertata, abbia continuato a reggere la
Perfetta Unione e che proprio di questa loggia era membro il cavaliere d’Aquino, del quale egli
ignorava il nome di Luigi.
A questo punto ci sembra di avere già apportato le necessarie rettifiche e dato, abbondanti e
documentate, precisazioni su quanto affermato, nelle pagine precedenti, da Gastone Ventura circa i
due periodi maltesi di Cagliostro, i suoi tre soggiorni napoletani e le personalità storiche dei due
fratelli, Francesco d’Aquino, principe di Caramanico, e il Cavaliere Luigi d’Aquino, entrambi
cavalieri professi dell’Ordine di Malta ed aderenti alla massoneria. Tuttavia, pur non godendo di
elevati cespiti e di rendite, essendo anzi spesso costretti – negli attuali chiari di luna, per risolvere il
quotidiano problema del pane, causato all’uomo dalla maledizione bi-blica – ad affidarci
all’illimitata, infinitamente benevola, generosità della Dea della Sapienza, che tra i suoi titoli ha
quello di Prònoia, ossia Provvidenza, vogliamo appagare, sia pure a titolo postumo, la curiosità e
rispondere ai dubbi dell’erudito conte ed ammiraglio Gastone Ventura, comunicando al candido
lettore il risultato di una nostra breve, e assolutamente non costosa, ricerca, traducen-do quanto
scrive Dényse Dalbian a p. 295 del suo Le comte de Cagliostro, alla nota 6, relativa al cap. 13:
«Diamo qui sotto la traduzione dell’atto di morte del cavaliere d’Aquino il cui testo
originale ci è stato comunicato dal conte Alessandro d’Aquino di Caramanico (registri della
Parrocchia Santa Maria, chiesa S. Giuseppe a Chiaia, coll. D. – 5, 1762-1787, fol. 358):
«Settembre 1783 – in questo giorno (22) dopo aver ricevuto i Santissimi Sacra-menti, è
deceduto Sua Eccellenza Monsignore, il Cavaliere Luigi d’Aquino dei Principi di Caramanico
a 44 anni d’età assistito da Padre Gioacchino Zanca Coadiutore ed è stato inumato nella
Chiesa di Santa Maria La Nuova nella tomba della sua nobile famiglia» (della Casa
d’Aquino)».

Il 27 settembre 1783, cinque giorni dopo la morte di Luigi d’Aquino, avvenuta il 22 settembre,
Cagliostro lasciava per sempre Napoli.

***

La tragica vicenda di Cagliostro, esito finale dell’odiosa persecuzione ordita dalla Corte di Francia
e attuata dal suo governo, in solidale complicità col Sant’Uffizio, persecuzione finalizzata a dis-
creditare la sua figura non solo agli occhi degli animi più semplici, ma soprattutto di quelli dei
rappresentanti della cultura, impone di affrontare una vicenda non facile da comprendere per chi
voglia essere, nel conoscere, realmente indipendente da autorità altrui, e si trovi di fronte due
gigantesche personalità, entrambe amate, in aspro conflitto tra loro.
Per ogni ricercatore della verità prima o poi si presenta, sicuramente, una prova decisiva, invero
dura da affrontare. Per taluni essa può presentarsi precocemente sul sentiero personale intrapreso,
per altri più tardi, ma compare sempre, talvolta in circostanze imprevedibili e in momenti
inaspettati. Si tratta, in una forma o nell’altra, della prova che può porre a noi una verità scomoda
per la nostra individuale natura egoica. La natura infingarda e vile che, silenziosamente e
velenosamente, compenetra la nostra interiorità, natura oscura che noi non siamo, ma alla quale noi
morbidamente e voluttuosamente ci identifichiamo – lasciando che essa configuri e muova la vita
della nostra anima – e che vorrebbe volentieri evitar-ci il confronto con una verità talmente
scomoda, da agire destabi-lizzando un antico e scontato servaggio e rendere impossibile il
continuare a chiudere spensieratamente gli occhi di fronte alla caduta della illudente maschera che
prima ricopriva, nascondendocela, la menzogna che dominava nella nostra tramortita
inconsapevolezza.
Di fronte alla Verità, che richiede il sacrificio integrale delle simpatie e delle antipatie personali,
per osare conoscere oltre il limite che paralizza la labile e pavida natura umana, molti – per ignavia
– si accontentano di pensare e di affermare ciò che in buona fede credono essere vero. Ma ciò non
può bastare al cercatore autentico. Questi avverte che non può arrestarsi alla «opinione»
universalmente invalsa, al «si dice», a ciò che è stato pensato da altri e che, senza verifica, egli
dovrebbe semplicemente accogliere come contenuto di verità. L’amore per la verità, e il rispetto
della propria interiore dignità, lo spingono ad investigare con diligenza e ardore per verificare –
come è stato ammonito – se è vero quello che si crede essere vero; a non paventare nessuno sforzo
e nessuna fatica a cercare, ovunque essa si trovi, la verità, non importa quanto difficile, lunga, e
talvolta pericolosa possa essere tale ricerca.
La verità «scomoda» può riguardare una personalità molto amata, vivente o no, da noi
giustamente ammirata per le eccezionali qualità della sua anima, per la sua grandezza spirituale e
umana, per la genialità con la quale essa ha operato creativamente nella cultura, nell’arte, nella
scienza, oppure nell’agire sociale o politico. L’incontrare in una tale personalità un aspetto oscuro
od obliquo, magari espresso in comportamenti umanamente biasimevoli, può spinger-ci o a voler
chiudere gli occhi su tali aspetti, perché temiamo che una tale visione faccia crollare l’oggetto della
nostra ammirazione, oppure può indurci ad una rabbiosa reazione di demolizione irra-zionale di
ogni aspetto – anche luminoso – di quella personalità. Ambedue le reazioni – sia quella codarda che
quella rabbiosa – non sono imputabili a quella personalità, bensì unicamente alla nostra incapacità
di conoscere veramente al di là delle soggettive simpatie e antipatie, dei personali desideri, timori e
delusioni.
Ora, la necessità di affrontare la scomoda verità della posizione e del comportamento di Goethe
nei confronti di Cagliostro, nasce dall’enorme risonanza che ebbero le sue opinioni, accettate acriti-
camente da vasti settori della cultura, e dalla grandissima diffusione che ebbero i suoi scritti in
proposito, la cui influenza dopo oltre due secoli è difficilmente valutabile, tanto essa è estesa e
profonda. Ovviamente, delle sue opinioni si sono serviti, e se ne servono tutt’ora, i demolitori della
figura spirituale di Cagliostro per la loro opera di odiosa ed interessata denigrazione. Pertanto, se
da parte nostra vi sarà, nelle pagine che seguiranno, una estrema severità nei confronti delle parole
e delle azioni dello scrittore del Faust, ciò non accade per volontà denigratrice o per una iconocla-
stica volontà dissacratrice verso la sua figura spirituale, la cui grandiosità, per noi, rimane intatta
malgrado tutti gli aspetti problema-tici indubbiamente mostrati dal suo «apparire» umano esteriore.
Perciò, non soltanto per onorare l’antico principio: «amicus Plato, sed magis amica Veritas» – e noi
tutti, indubbiamente, dobbiamo amare la Verità più dei contingenti, e seducenti, aspetti della
personalità di Goethe –, ma, soprattutto per togliere dalle mani di in-degni e pericolosi avversari
armi ed argomenti contro la figura luminosa di Cagliostro e la sua missione spirituale, dovremo
affrontare la lotta per difendere la verità su di Lui, gettando luce su quanto di obiettivamente falso il
poeta del Faust ha detto e scritto sull’argomento. E al benevolo lettore chiediamo scusa, se la nostra
personale natura, toscanamente portata alla polemica ed all’estre-mismo, ci spingerà nelle pagine
successive ad affondare senza troppi riguardi il tagliente bisturi in questa scabrosa vicenda.
Ed ora affrontiamo quella che potrebbe essere chiamata la «Ve-ridica Historia dei pregiudizi del
Consigliere Aulico Wolfgang Goethe nei confronti del Conte di Cagliostro e di come dimostrò nel suo
viaggio in Sicilia , quanto grande fosse in certi momenti, per vanità, ignoranza ed alterigia, la sua
troppo astuta, spregiudicata e in taluni casi amorale, intelligenza».
Che Goethe abbia avuto nei confronti di Cagliostro, sin dall’inizio, feroci, nonché precoci,
pregiudizi – che si porterà poi dentro, come un’indigesta zavorra, nonostante il tentativo di esorciz-
zarla, come vedremo, attraverso il ricorso all’elaborazione artistica per liberarsi, come lui stesso
confessa, dell’opprimente stato d’animo che gli procurava – è dimostrato, tra l’altro, dalla sua
corrispondenza col mistico zurighese Johann Kaspar Lavater sin dal 1781, ossia sin dal periodo
strasburghese del Gran Cofto. Proprio per questi pregiudizi, per lui irremovibili, Goethe arrivò a
rompere l’amicizia con Lavater. Pregiudizi ch’egli riversò, poi, nelle Con-versazioni con Eckermann
(pubblicate dopo la sua morte, negli anni 1836-1848), nel suo Viaggio in Italia, (che ebbe definitiva
redazione negli anni 1816-1817), negli Annali (1830) e soprattutto nel suo Il Gran Cofto (1791),
opera teatrale nella quale Goethe nei confronti di Cagliostro riuscì a battere cinicamente tutti i
record di cattiveria. Una menzogna interiore che il poeta si portò dietro per quasi cinquant’anni.
Goethe, il quale dopo le vivaci intemperanze giovanili, stile Sturm und Drang, si era ormai ben
accomodato nell’aristocratico ménage della piccola corte di Weimar, rimase violentemente colpito
dall’Affaire du Collier, che fu per lui un aprire il vaso di Pando-ra di tutti i mali che avrebbero
travolto l’Ancien Régime e sconvolto l’Europa per decenni. Egli ne ricevette uno choc così potente
da far temere agli amici per la sua ragione, e scaricò la colpa di tutto su Cagliostro – nonostante che
il Tribunale parigino, il 31 maggio 1786, lo avesse riconosciuto totalmente innocente – con un così
rabbioso e vendicativo rancore che lo porterà persino ad applau-dire all’opera inquisitoriale, per lui
e molti altri altamente merito-ria, del Sant’Uffizio e all’infame Compendio di Monsignor Barbéri.
Negli Annali (Complementi di altre mie confessioni), infatti, Goethe scrive:

«Mi ero appena reinserito [al suo ritorno dal viaggio italiano] nella vita e nella situazione
di Weimar… allorché scoppiò la Rivoluzione francese e catturò l’attenzione del mondo
intero. Sin dal 1785, l’Affaire du Collier aveva fatto su di me un’impressione indescrivibile.
Nell’abisso d’immoralità che si apriva di fronte a me, che colpiva la Corte, la città e lo stato,
mi apparvero, come spettri, le conseguenze più abominevoli e per un certo tempo fui
impotente a sbarazzarmi di quella visione; ebbi allora un comportamento così strano che
alcuni amici, con i quali soggiornavo proprio allora in campagna, allorché ci giunsero le
prime notizie di quella vicenda, mi confessarono molto più tardi, mentre la Rivoluzione era
scoppiata già da molto tempo, che allora io ero apparso loro come un demente. Seguii il
processo con molta attenzione, tentai di raccogliere informazioni in Sicilia riguardo a
Cagliostro e ai suoi e trasformai tutto l’avvenimento, secondo la mia abitudine, per
sbarazzarmi di tutte le riflessioni che aveva fatto nascere in me, in un’opera: «Il Gran
Cofto…».

Egli esprime identici sentimenti nella Campagna di Francia del 1792 (Trad. it. in: Goethe, Opere,
vol. II, Firenze, Sansoni, 1963, p. 1240):

«Già nell’anno 1785 la storia della collana mi atterriva come la testa della Gorgone. Da
quest’inaudita, delittuosa azione vedevo minato il decoro della regalità, lo vedevo già in
precedenza distrutto, e tutti gli avvenimenti che si susseguirono confermarono fin troppo i
miei terribili presentimenti. Li portai con me in Italia e li riportai ancora più acutizzati…
Avevo per molti anni avuto occasione d’imprecare con stizza contro i raggiri di audaci
visionari e di fraudolenti fanatici, meraviglian-domi con disgusto dell’inconcepibile cecità
d’individui insigni di fronte a simili impudenti sfrontatezze. Avevo ora dinnanzi a me le
conseguenze dirette ed indirette di quelle follie in veste di delitti e se-midelitti contro la
regalità: tutte insieme abbastanza efficaci a scuotere il più splendido trono del mondo».

Dopodiché, Goethe ci racconta come, sulla scorta dell’impressione degli eventi, egli scrivesse
appunto il Gran Cofto, nel quale Cagliostro viene dipinto a fosche tinte e caricato delle peggiori
colpe. La rappresentazione teatrale ebbe luogo a Weimar, il 17 dicembre 1791, e in seguito nel
1792. Ma l’effetto sortito fu alquanto diverso dalle aspettative del poeta: i cinque atti della pièce
teatrale, rappresentati sotto la direzione di Goethe, non piacquero né al Granduca, né ai fautori
della Rivoluzione, né agli avversari della medesima. Ecco come lo stesso Goethe racconta il fatto
(alle pp. 1241-1242 del testo citato):

«Ma appunto per il fatto che il lavoro venne rappresentato ottima-mente, produsse un
effetto tanto più sgradevole. Soggetto tremendo e ad un tempo insipido, trattato con
audacia e senza scrupoli, sgo-mentò tutti, nessuno si commosse; la quasi contemporaneità
dell’argomento rese l’impressione ancor più stridente; e poiché si credette ravvisarvi
sfavorevoli allusioni a società segrete, così una larga e rispettabile parte del pubblico si
sentì urtata, mentre la delicata sensibilità femminile inorridiva per un’insolente avventura
amorosa».

Veramente, è la nostra sensibilità quella che inorridisce di fronte al cinismo senza scrupoli di chi
deride, in una commedia caricaturale colui che, innocente, in quei tragici momenti era rinchiuso e
torturato nella Fortezza di S. Leo, nelle orride carceri pontificie. Questa era, invero, la
«contemporaneità dell’argomento»! E, come dice lui stesso: «Da quell’avvenimento, tuttavia, non
trassi alcuna lezione» (Ibidem, p.1242).
Goethe non conobbe mai personalmente Cagliostro, né mai si premurò di farlo. Indicativo è lo
scambio di opinioni tra lui e J. K. Lavater, il quale, partito alquanto prevenuto nei confronti del Gran
Cofto, nel tempo ebbe modo di mutare profondamente le proprie opinioni attraverso la sua
conoscenza diretta. Il 10 febbraio 1781, Lavater scrive a Goethe: «Quindici giorni fa, ero a Stra-
sburgo; ho visto la Forza personificata in Calliostro». Goethe gli risponde: «Tu hai visto Calliostro,
fammi arrivare un po’ più di particolari da Barbara [un’amica del poeta], ne vale la pena credo».
Lavater, il 3 marzo 1781, così scrive: «Calliostro è un essere affatto originale, pieno di forze e, per
certi versi, indescrivibilmente vol-gare; è un astrologo alla Paracelso, un filosofo ermetico, un
arcanista, un antifilosofo, certamente un uomo estremamente solido e notevole… Egli non è
sicuramente sprovvisto di ciarlatanismo, benché non sia un ciarlatano». Più tardi, Lavater giungerà
a vedere in «Calliostro» un essere illuminato dal Cielo, un «santo». Nella lettera del 16 agosto 1781
scrive a Goethe: «Quale che possa essere il carattere morale, medico, «chimico» di Calliostro, la sua
divinazione o la sua veggenza è reale, e non è soggetta ad alcun dubbio. Certamente, egli è in fondo
un Enfant gâté [n. d. C.: ossia un monellaccio] della Grande Natura… ». Goethe a sua volta cercò di
mettere in guardia il suo amico di Zurigo, per esempio in una lettera del 18 marzo 1781, egli scrive:
«È, in ogni modo, un uomo singolare, e dal folle geniale al furfante non vi è che un passo…».
Ancora alla fine della vita, Goethe così si esprimeva col suo segretario, che trascrisse il colloquio
nel suo diario, (Johann Peter Eckermann, Colloqui con il Goethe, Torino, Utet, 1957, vol. II, p. 588):

«Martedì, 17 febbraio 1829. Abbiamo parlato del Gross-Kophta. «Il Lavater – disse il
Goethe – credeva al Cagliostro e ai suoi miracoli. Quando venne smascherato come
imbroglione, il Lavater sosteneva che si trattava di un altro Cagliostro. Il Cagliostro capace
di fare miracoli era per lui persona sacra [n. d. C.: nel testo tedesco è detto heilig: «santa»].
«Lavater era un uomo buono, di cuore, ma era facile ad illudersi alla grossa; la verità vera
e pura non era affar suo; ingannava sé e gli altri. Per questo si arrivò ad una rottura
completa tra lui e me».

Evidentemente, Goethe non poteva giungere in Sicilia con animo più prevenuto e, proprio a causa
dei pregiudizi dei quali era imbevuto, non fu in grado di riconoscere – come vedremo – la fonte che
avrebbe potuto sollevargli il velo sulla grandezza spirituale di Cagliostro e sulla sua missione. Anzi,
fu incline a cercare, per le vie traverse dell’intrallazzo e della macchinazione conferme ai propri
pregiudizi, sino a scendere nel fango di un audace e cinico specu-lare sui sentimenti di persone
semplici e pulite come la madre, la sorella e gli altri famigliari di Giuseppe Balsamo (fosse o meno
egli da identificare con Cagliostro) e ad imbastire una vera e propria impostura: proprio quello che
voleva imputare ad altri.
Goethe, infatti, giunse alle 3 del pomeriggio del 2 aprile 1787 a Palermo, provenendo via mare da
Napoli, da dove era partito quattro giorni prima. Viaggiava, sotto il nome di Johann Philippus
Moeller, commerciante di Lipsia, in compagnia del pittore tedesco Christoph Heinrich Knieps. Poco
prima di partire da Palermo, per visitare il resto della Sicilia, Goethe si fece accompagnare in via
Terra delle Mosche, dal segretario di un avvocato palermitano – vedremo, poi, chi fosse in realtà
costui – e si fece presentare alla madre di Balsamo facendosi conoscere da questa, sotto mentite
spoglie, come Mister Wilton, viaggiatore inglese, sedicente caro amico del figlio. Goethe andò a
visitare Felicita Balsamo il 13 aprile 1787, accompagnato dal suddetto segretario che fungeva anche
da interprete, perché evidentemente l’italiano parlato da quella famiglia palermitana non era
sempre chiarissimo per l’istrionico Mister Wilton, «venuto a portare i saluti del parente lontano, a
recare e chiedere notizie». I parenti di Giuseppe Balsamo si comportarono con grandissima dignità
e disponibilità nei confronti di quello che credevano essere un amico del loro congiunto, non dissero
nulla di male su di lui: espressero soltanto il desiderio che questi si ricor-dasse di loro e il fatto che
speravano di rivederlo. La sorella di Giuseppe Balsamo, Maria Capitummino, vedova e madre di tre
figli, informò ‘Mister Wilton’ del fatto che il fratello Giuseppe le doveva quattordici tarì, per avergli
lei riscattato alcuni gioielli al Mon-te dei pegni. Infine madre e sorella chiesero di poter inviar al
figlio lontano una lettera tramite il visitatore «inglese». Goethe stette al gioco e tornò il giorno
dopo, da solo, a ritirare la lettera. Tornato in Germania farà avere alla famiglia di Giuseppe Balsamo
il rica-vato di una colletta fatta tra amici da lui informati della vicenda. Questi furono tutti i contatti
che Goethe ebbe con la famiglia di Giuseppe Balsamo. Il racconto che ne fece poi nel suo famoso
Viaggio in Italia, negli anni, fu sottoposto a molte revisioni, con aggiunte e soppressioni di vari
particolari. È, tuttavia, lecito dubitare della piena comprensione da parte sua di quanto i familiari di
Balsamo potevano esprimere sul loro congiunto, in quanto lui stesso afferma (Ibidem, p. 732) circa
il colloquio con la madre: «Risposi alle sue domande, e anche le mie risposte dovettero esser
tradotte». Con quanta facilità, o più verosimilmente, difficoltà, abbia potuto cavarsela Goethe, il
giorno dopo, senza interprete, allorché andò da solo a ritirare la lettera da recapitare al congiunto
lontano, è difficile dire. Così come è difficile dire quanta verità vi sia nel racconto di Goethe, poiché
esso non ha altri riscontri che la sua parola, circa eventi nei quali – bisogna pur avere il coraggio di
dirlo – egli ha oggettivamente giocato il ruolo dell’impostore. Le ultime parole che Felicia o Felicita
Bracconieri, vedova di Pietro Balsamo, disse a Goethe furono: «Dite a mio figlio quanto io sia stata
felice d’avere sue notizie; ditegli che io lo stringo al mio cuore. Ogni giorno io prego per lui Dio e la
Vergine. Invio la mia benedizione a lui e a sua moglie e non ho altro desiderio che rivederlo ancora
una volta prima della mia morte con questi occhi che hanno pianto tanto per lui». Sicuramente i
parenti di Balsamo si comportarono nei confronti del visitatore «inglese» con grande apertura
umana, con dignità pur nella loro povertà. Ma, nulla nel racconto di Goethe, prova che Balsamo
fosse Cagliostro, contrariamente a quanto sostenuto per quasi due secoli dai commentatori di parte
avversa.
Goethe, inoltre, alla ricerca di elementi che confermassero le sue personalissime opinioni (leggi:
pregiudizi) era pure andato, come si dice a Firenze, a «bracare» in vari ambienti, prima di andare in
contrada Ballarò a cercare la famiglia Balsamo.
L’anno precedente era partita da Palermo una lettera anonima – si fa per dire – indirizzata al
consigliere del re di Francia e commissario allo Châtelet, a Parigi, Philippe Fontaine. Questa lettera
«anonima» era partita da Palermo il 2 giugno 1786 ed era giunta a destinazione il 3 settembre dello
stesso anno. In essa si riferivano notizie che volevano presentarsi come «rivelazioni» a proposito
della vera identità di Cagliostro. La lettera principiava con le parole: «Il preteso Conte di Cagliostro
è nato a Palermo il 1743 ed è stato battezzato col nome di Giuseppe Balsamo, figlio di Pietro
Balsamo, commerciante, morto nello stesso anno, e di Felicita Bracconieri, sua moglie». L’estensore
della missiva pretendeva di riferire una conversazione avuta con «Antonio Bracconieri, contabile di
M. Jean-François Aubert, negoziante, che riconosceva in Cagliostro il figlio di sua sorella Felicita
Bracconieri che abita con sua figlia Maria Balsamo». Antonio Bracconieri descrisse così suo nipote,
Giuseppe Balsamo: «piccolo, nerissimo, con il naso schiacciato e dal volto brutto, con tuttavia occhi
vividi». Questa descrizione non corrisponde per niente a quelle date da molti che conobbero
Cagliostro, per esempio La Borde o Métra, e nemmeno al busto che lo scultore Houdon fece di lui e
che tutti consideravano somigliantissimo.
In realtà l’«anonimo» estensore della lettera informativa era M. Bernard, suddito francese,
calligrafo e insegnante di lingue a Palermo, delatore di professione e, nel caso in questione,
prezzolato proprio dalla polizia francese. Ma M. Bernard non era l’unico ad essere sul libro paga del
governo francese e quindi strumento della vendetta della corte di Francia contro Cagliostro: vi era
anche il barone Antonio Bivona, avvocato di Francia in Sicilia, il quale si occupò
«professionalmente», ossia prezzolatamente, del caso di Giuseppe Balsamo, che la Corte di Francia
desiderava far credere essere identico a Cagliostro. L’avvocato Bivona ricorse all’impostura: mandò
il proprio segretario-scrivano Giovanni a casa della madre di Balsamo, imbastendo la storia di
un’eredità o di un beneficio per la famiglia, se tramite documenti questa avesse potuto dimostrare il
proprio buon diritto. I famigliari di Giuseppe Balsamo, ingenuamente fiduciosi, si affrettarono a
fornire certificati di battesimo ed altri documenti. Fu lo stesso scrivano Giovanni a confessare a
Goethe come il Bivona e lui avessero messo su la «sceneggiata» ad uso e consumo dei Balsamo. E fu
lo stesso Giovanni ad accompagnare Goethe il primo giorno di visita a casa Balsamo, a consigliarlo e
ad assecondarlo nell’arte di come meglio circuire i famigliari di Giuseppe Balsamo e di cavarne
possibilmente notizie utili. Ma non ne trassero niente. Solo di comportarsi da infami. Ma cotanta
infamia, evidentemente, non poteva bastare a Goethe: egli doveva deridere cinicamente Cagliostro
in una commedia. Doveva soprattutto fare l’esaltazione dell’opera odiosa dell’Inquisizione romana.
Infatti, sempre nel citato Viaggio in Italia (trad. it., Loc. cit., p. 729) così Goethe scriveva ad
edificazione dei suoi fiduciosi lettori, facendo l’elogio delle ignobili menzogne del Compendio di
Mons. Barbéri:

«Chi l’avrebbe detto, che Roma avrebbe una volta tanto contribuito ad illuminare il mondo
e a smascherare una volta per sempre un ciurmadore, come in realtà è avvenuto dopo la
pubblicazione di questo estratto degli atti del processo! Certo ogni persona assennata, che
abbia visto con dolore tanti truffati, semi-truffati o truffatori andare in visibilio per anni ed
anni davanti a quest’uomo e alle sue ciurmerie, sentirsi superiori agli altri grazie i loro
buoni rapporti con lui, e commiserare, se non disprezzare dall’alto della loro tronfia dabbe-
naggine, il buon senso comune».

È mai possibile, a questo punto, attribuire un qualche valore alla testimonianza di Goethe che
pensava che a lui fosse lecito istrio-nescamente fingere, mentire, spacciarsi per altri, promettere a
vuoto, giocare graziosamente coi più sacri sentimenti di persone semplici, scrivere una commedia
sul tutto, ed infine plaudere spregiudicatamente all’opera di menzogna e di sangue del Sant’Uffizio?
Evidentemente Goethe, in questo caso, non cercava la verità, non cercava di conoscere come
stessero realmente le cose, non cercava di «leggere» nelle cose e negli eventi la verità non evidente,
nascosta dietro la parvenza che appaga i più, coloro che si reputano «intelligenti», astuti, abili – e
che molto raramente si rivelano saggi. Goethe che nella ricerca della natura è stato veramente
grande nell’intuire il metodo del «fenomeno puro», deterso dalle deformazio-ni della psiche
soggettiva, che oltre la parvenza ha cercato il «fenomeno primordiale», è stato nei confronti di
Cagliostro infedele a se stesso e al proprio metodo, è stato incapace di attuare la prassi
dell’esperienza pura, di aprirsi senza preconcetti all’«osservazione pura», alla pura percezione di
ciò che aveva di fronte.
Eppure, egli aveva la soluzione vicinissima, ma non ebbe tuttavia occhi per scorgerla, perché
impedito dalla nube oscurante di pregiudizi e poco nobili sentimenti. Arrivato a Palermo il 3 aprile
1787, Goethe si vide recapitare in albergo il giorno di Pasqua, l’8 aprile, un invito a pranzo al
palazzo del viceré. Vi andò presto e nell’attesa si mise a conversare con un anziano cavaliere
dell’Ordine di Malta, facendosi riconoscere da questi come l’autore del Wer-ther, cosa che suscitò la
stupita meraviglia dell’anziano cavaliere. Poi così prosegue, nel suo racconto Goethe (Ibidem, p.
713):

«In quel momento fece il suo ingresso il viceré col suo seguito. Egli si comportò subito con
quella decorosa affabilità, che si addice ad un gentiluomo par suo; ma non poté a meno di
sorridere, quando il cavaliere maltese ebbe espresso anche a lui la sua meraviglia di
vedermi. A tavola il viceré, che mi aveva fatto prendere posto accanto a lui con-versò a
lungo sullo scopo del mio viaggio, assicurandomi che avrebbe dato disposizioni per farmi
vedere tutta Palermo e per agevolarmi in tutti i modi la mia escursione in Sicilia».

Il traduttore italiano pone una nota in calce alla precedente p. 712, nella quale rivela l’identità del
viceré, che noi ormai ben conosciamo:

«Era Francesco d’Aquino, principe di Caramanico, che più d’uno straniero eminente
ricorda per la sua ospitalità affabile e cerimonio-sa. Un ritratto del principe trovasi tuttora
al Palazzo Reale».

Ora, il principe Francesco d’Aquino, viceré di Sicilia, massone e cavaliere professo, come suo
fratello Luigi, dell’Ordine di Malta, avrebbe potuto, più di ogni altro, ragguagliare Goethe su chi
fosse veramente Cagliostro, quale fosse la sua statura morale e spirituale, quale la sua missione.
Avrebbe potuto fargli avere tranquillamente, senza sotterfugi, macchinazioni ed imposture, in
maniera assolutamente legale, quei documenti su Giuseppe Balsamo, per reperire i quali Goethe
dovette ricorrere poi a spie e ad avvocati prezzolati dalla Corte di Francia, dovette presentarsi alla
madre di questo sotto le mentite spoglie di «Mister Wilton», manipolare i sentimenti di lei e dei suoi
famigliari, promettere di eseguire una commissione che in cuor suo non intendeva affatto eseguire,
dovette fingere un’amicizia per Cagliostro, che nei suoi scritti chiamerà, invece, «canaglia»!
Francesco d’Aquino avrebbe potuto spiegare al massone Goethe, come Cagliostro fosse stato
iniziato nella loggia del Segreto e dell’Armonia di Malta, che apparteneva al sistema «scozzese»
della Loggia Madre di Marsiglia. Avrebbe potuto comunicargli che la loggia maltese aveva come
deputato maestro venerabile il Cavaliere Charles-Abel de Loras, Balì dell’Ordine di Malta, nonché
amico e discepolo di Cagliostro, che la loggia di Malta era in comunicazione con quella di Palermo.
Avrebbe potuto presentargli l’oratore della loggia palermitana, il Cavaliere Balì e Ricevitore
dell’Ordine di Malta a Palermo Gioacchino Requesens, amico di suo fratello Luigi e di Cagliostro.
Avrebbe potuto parlargli dei Gran Maestri Manuel Pinto de Fonseca ed Emmanuel de Rohan, nei cui
palazzi Cagliostro fu accolto ed abitò, trattato come un principe.
Francesco d’Aquino, che era a Napoli durante i primi due soggiorni di Cagliostro, avrebbe potuto
descrivere a Goethe i rapporti di questi con la loggia ermetica ed «egiziana» Perfetta Unione,
l’amicizia col principe suo cugino Vincenzo di Sangro. Avrebbe potuto raccontare del soggiorno
parigino di Cagliostro, visto che nel 1785 il principe, ora viceré, reggeva l’ambasciata di Napoli a
Parigi, della considerazione che il duca di Chartres e il principe di Luxembourg-Montmorency –
Gran Protettore del Rito Egiziano – avevano per il Gran Cofto. Avrebbe potuto rassicurare Goethe
sul fatto che Cagliostro col furto della Collana della Regina non c’entrava assolutamente nulla e che
il Parlamento di Parigi, ossia un Tribunale Regio, lo aveva assolto con formula piena.
Ma un angelo deve aver posto la sua mano sugli occhi e sulla bocca del consigliere aulico
Wolfgang Goethe, poiché il suo cuore era chiuso. Goethe non chiese e, giustamente, non ebbe
risposta. Soltanto «ex abundantia cordis os loquitur…».
Anche Trevrizent rimproverò all’ancora puro folle Parzival il non aver posto, alla sua prima andata
al castello del Graal, per mancanza di compassione, la domanda che avrebbe potuto risana-re
Anfortas!

***

Il tribunale del Sant’Uffizio non dimostrò mai che Cagliostro fosse in realtà Balsamo e non lo
condannò affatto per reati comuni – peraltro mai dimostrati – bensì unicamente come seguace della
Massoneria e dell’Ordine degl’Illuminati. Per tali «delitti», avrebbe ben potuto essere condannato lo
stesso Goethe, essendo anche lui massone e illuminato. Cagliostro, invero, fu condannato
esclusivamente in quanto fondatore della Massoneria Egiziana.
Quanto a quest’ultima, vogliamo trascrivere la sintesi che del sistema «egiziano» fa Carlo
Francovich, autore razionalista di formazione marxiana, non certo sospetto di simpatie nei confronti
di Cagliostro e dell’occultismo, alle pp. 439-440 della sua Storia della massoneria in Italia dalle
origini alla rivoluzione francese:

«Difatti anche nella massoneria egiziana si affermava che l’uomo, creato da Dio come
l’essere più perfetto, era in seguito, per colpa del peccato originale, decaduto dalla sua
posizione semidivina a quella di una fragile umanità. Ma con la iniziazione al rito egiziano si
poteva, mediante una graduale prassi risanatrice, raggiungere l’antica purezza e l’antico
potere su tutte le altre creature terrene e celesti. Soltanto che nel rito di Cagliostro la
palingenesi non era unicamente spirituale e non si realizzava con pratiche cultuali come il
battesimo e l’acqua santa e con la discesa dello Spirito Santo; e nemmeno si trattava
soltanto di una rigenerazione morale ed intellettuale, ma si apriva anche la speranza di
realizzare – con complesse pratiche magiche ed una se-verissima quarantena – la completa e
perenne rigenerazione fisica del proprio essere. In altri termini, si poteva conseguire
l’immortalità dell’anima e del corpo.
Nei documenti pervenutici sui riti e le pratiche della massoneria egiziana viene
minutamente descritto il modo di conseguire un così ambìto risultato».

La sintetica descrizione del Francovich è assolutamente esatta, anche se con le sue parole
descrive quel che, per un suo limite interiore, non intende. Ma, questa dottrina della rigenerazione
o della palingenesi, che veniva simbolicamente drammatizzata nei riti d’iniziazione e velata con
allegorie nei catechismi dei vari gradi del Rito Egiziano, non era affatto un’invenzione stravagante
di Cagliostro: apparteneva a tutta la tradizione iniziatica. La si ritrova nell’Ermetismo alessandrino,
nell’Alchìmia rosicruciana, nel sistema kabbalistico degli Eletti Cohen di Martinez de Pasqually, e in
altri consimili «sistemi».
Che cosa avrebbe detto il consigliere aulico Goethe, se il principe Francesco d’Aquino gli avesse
parlato in questi termini della massoneria egiziana di Cagliostro? Stupisce che nessuno, sino ad
oggi, si sia accorto di quanto l’incontro di Goethe con il principe di Caramanico avrebbe potuto
essere illuminante e fecondo per il poeta tedesco, e quanto a volte il destino e l’evoluzione di
un’anima corrano, sul filo di una domanda coraggiosamente posta o ‘stol-tamente’ taciuta.
Per molto tempo ci è sembrata una contraddizione enigmatica quella di un Goethe capace di
elevarsi da un lato alle più alte vette del pensiero e dell’esperienza artistica, sino a toccare, nelle
sue più luminose culminazioni interiori, autentiche esperienze spirituali, e, dall’altro, esser capace
di estremi fraintendimenti nei confronti delle vicende di Cagliostro (ma non solo), che lo porteranno
ad al-linearsi conformisticamente all’«opinione comune», ossia volgare, e a scrivere contro di lui
inaccettabili non verità, tuttora sfruttate da militanti dell’odio teologico confessionale e da agnostici
gazzettieri, professionisti dell’irridente dissacrazione di ogni valore spirituale, che diffondono la loro
oscena letteratura in libri da su-permercato. Ci sembrava quasi impossibile che l’ostinato e non se-
renamente obiettivo avversario di Cagliostro fosse la stessa persona che nel suo viaggio in Italia
scoprì a Venezia l’osso intermascel-lare, intuendo così la metamorfosi degli organismi animali, che
da Palermo scrisse a Herder sulla sua scoperta della pianta primordiale da lui contemplata in
maniera «sensibile-sovrasensibile», attraverso quello che egli stesso chiama «giudizio veggente»,
intuendo la legge della vivente metamorfosi delle piante. Ci appariva paradossale che il Goethe,
sagace indagatore della natura sovrasensibile della luce, della quale i colori sono «azioni e passioni»
– e nei nostri studi di ottica abbiamo avuto la gioia di occuparci teo-ricamente e sperimentalmente
della sua Teoria dei colori –, il poeta dell’Inno alla Natura nel quale egli si rivela ispirato vate orfico,
potesse errare così tragicamente nei confronti di un Iniziato come Cagliostro.
Una pagina importante, che in qualche modo ci ha permesso, se non di sciogliere, almeno di
accostare l’enigma, la trovammo ina-spettatamente in un’opera di Rudolf Steiner, I Misteri
dell’Oriente e del Cristianesimo, ove alla domanda: «Come può, ad esempio, un uomo come Goethe
portare nella sua anima, da un lato, certi Misteri, e dall’altro passioni che lo turbano a volte così
potentemente?», egli risponde:

«Effettivamente: in Goethe, se a tutta prima lo guardiamo così, ci sta dinnanzi ciò che si
può chiamare in senso volgare «una doppia natura». Ad uno sguardo superficiale le due
nature a malapena s’accordano: da un lato la grande anima dai magnanimi sensi, a cui fu
dato di creare talune parti del secondo Faust, e di esprimere taluni profondi misteri
dell’essere umano nella Fiaba del Serpente Verde e della bella Lilia… e dall’altro appare in
Goethe una seconda natura, sotto certi aspetti «umana, troppo umana», la quale tormenta
lui stesso e in più modi lo compenetra di rimorsi. Orbene, nei tempi antichi le due nature
non erano nell’uomo così nettamente spiegate, così scisse. Non era possibile che un uomo,
la cui biografia si potesse descrivere come quella di Goethe, toccasse le alte vette raggiunte
nel secondo Faust o nella Fiaba del Serpente Verde e della bella Lilia, e al tempo stesso si
scindesse a quel modo nella sua anima. Nei tempi passati ciò sarebbe stato impossibile. Si
rese possibile solo nei tempi moderni, dacché nella natura umana una parte dell’anima
divenne incosciente e nell’organismo una parte divenne morta. Poiché la parte rimasta viva
può purificarsi ed elevarsi tanto che in essa si svolga ciò che conduce alla Fiaba del
Serpente Verde e della bella Lilia, mentre il resto rimane esposto agli attacchi del mondo
esteriore. E siccome vi si possono an-nidare le forze che abbiamo caratterizzate, la
consonanza con l’Io superiore dell’uomo può risultare assai scarsa… Questo è l’elemento
misterioso e così difficile a intendersi in nature simili a quella di Goethe. E questo è pure ciò
che porta a espressione tanti enimmi dell’anima umana nell’epoca moderna. Tutto ciò che si
svolge, in fatto di dualismi nella natura umana, tocca anzitutto l’anima razionale o af-fettiva,
e questa è proprio quella che si scinde nelle due «nature», una delle quali può sommergersi
nella materia, l’altra elevarsi allo Spirito… E coloro che conoscono i segreti delle
incarnazioni umane, non si sentiranno punto confondere dal fatto che una tale disarmonia si
possa produrre; perché, a misura che simili casi aumentano, aumenta anche il
discernimento degli uomini, e con ciò viene a cessare l’antico principio autoritario. Onde va
fatto sempre maggior appello al discernimento, per esaminare quanto proviene dai Misteri.
Sarebbe certo più comodo guardare soltanto ai lati esteriori di coloro che sono chiamati ad
insegnare, perché in tal caso si farebbe a meno di esaminare se i fatti ch’essi hanno da
esporre, insegnare e compiere spiritualmente, sieno connessi col sano giudizio umano e con
la logica spassionata. Per quanto non si voglia e non si debba punto difendere il dualismo
della natura umana, ma esigere, nel senso più severo, il dominio dell’anima sopra l’esterno,
pure si deve dire che i fatti accen-nati risultano assolutamente conformi alla realtà
dell’evoluzione moderna».

Goethe stesso espresse poeticamente il dualismo tragico che di-laniava la sua interiorità con i
seguenti versi del Faust, I, :

«Il mio sen due diverse anime serra


e quella vuolsi separar da questa;
la prima coi tenaci organi afferra
il mondo, e stretta con ardor vi resta.
l’altra fugge le tenebre, e la vedi
levarsi altera alle paterne sedi».

Tutto ciò pone ardua prova al cercatore che voglia, oggi, calcare l’irto sentiero dell’Iniziazione,
poiché il mondo attuale non è certamente a dimensione dell’uomo interiore e la moderna civiliz-
zazione – se proprio così vogliamo chiamarla – non fa che raffor-zare e rendere sempre più
inespugnabile la prigione corporea dell’anima, dagli antichi iniziati orfici e pitagorici assimilata alla
tomba dell’anima uccisa. Il mondo antico poteva ancora offrire condizioni esteriori propiziatrici
della trasmutazione interiore, e le stesse prove iniziatiche potevano svolgersi – in quel mondo –
anche attraverso modalità esteriori, che si riflettevano analogicamente sulla rinascita e sul risveglio
dell’uomo interiore che andava liberan-dosi dalla tombale prigione corporea. Ma tutto ciò è ormai
negato – in quella forma – all’attuale neofita alla ricerca della via di realizzazione spirituale e le
prove possono assumere aspetti molto più sottili ed interiori, e presentarsi in forme paradossali e
inaspettate. A tale proposito risultano illuminanti le seguenti parole, tratte dall’opera citata, di
Rudolf Steiner:

«… Nel complesso però, l’Iniziazione dei tempi moderni ha un carattere assai più
interiore, pone esigenze ben più severe all’intimo dell’anima umana, ma in un certo senso
non può più accostarsi in modo immediato all’esterno della natura umana; sicché, molto più
che non nell’Iniziazione antica, l’esterno può venir chiarito e purificato pel fatto che
l’interno si rafforza e domina l’esterno. L’ascesi esteriore, l’al-lenamento esteriore
appartengono molto più alla natura dell’Iniziazione antica; alla natura dell’Iniziazione
moderna appartiene molto di più l’evoluzione immediata dell’anima stessa, così che questa
sviluppi forti energie appunto nella sua interiorità. E siccome le condizioni esteriori sono tali
che nel corso del tempo i morti sedimenti della natura umana, che oggidì possono così
fortemente inquietare l’Iniziato, vengono superati, si deve dire: nel tempo nostro e ancora in
avvenire vi saranno indubbiamente nature simili a quella di Goethe, le quali con una parte
del loro essere ascendono molto in alto, mentre con l’altra rimangono legate all’«umano,
troppo umano».
Queste parole sono in perfetta armonia con quelle che Cagliostro rivolgeva ai suoi discepoli nel
corso della loro iniziazione, parole che si ritrovano nel Rituale egiziano e che già Marc Haven mise
in adeguata evidenza:

«Raddoppiate i vostri sforzi per purificarvi, non attraverso austerità, privazioni o


penitenze esteriori; non è il corpo che si tratta di mortificare e di far soffrire; sono l’anima e
il cuore che occorre rendere buoni e puri, cacciando dalla vostra interiorità tutti i vizi e ac-
cendendovi dell’amore della virtù».

Queste parole suonano ammonitrici, oggi, in un’epoca in cui molti cercano le vie della «facile
forza» e spinti da una sorta di materialismo magico cercano in un magismo equivoco che, lungi
dall’essere teurgia o magia divina, scivola sin troppo facilmente in una magia da serve, oppure nelle
ricette, sedicenti alchemiche, per cuci-nare «omelettes» di dubbia fattura e sapore, i mezzi
«efficaci» per un «rapido» conseguimento della «potenza» e, perché no, dell’«immortalità
olimpica», senza che venga nemmeno posto, o anche solo presagito, il problema della
trasformazione della mediocrità ottusa e semianimale di una natura umana oscura e decadente.
Quanto detto più sopra, ci sembra permetta di accostare con maggiore oggettività la tragedia del
misconoscimento da parte di Goethe della figura e dell’azione di Cagliostro, avendo nel cuore un
sentimento intuitivo delle difficili lotte che imperversarono nell’anima del poeta e della possibilità
concreta che vi è per il cercatore di smarrire il sentiero della realtà nel labirinto delle apparenze
illudenti. Vi è, tuttavia, sempre la possibilità, per la conoscenza folgorante, di trapassare il velo che
ricopre l’Iside e di disperdere la nebbia che impedisce la percezione della vera Realtà. Ma per far
questo bisogna morire prima di morire.

***

Vi è un episodio, davvero poco conosciuto, della vita di Cagliostro, riguardante il suo soggiorno a
Basilea, presso il suo generoso amico e discepolo Jacob Sarrasin, avvenuto dopo la sua partenza da
Londra nel 1787. Evento poco appariscente, e come tale sfuggito a molti studiosi, ma non per
questo meno ricco di significato per chi intenda scrutare in profondità la vita del grande Iniziato. A
poche miglia da Basilea vi è il villaggio di Arlesheim, quasi alle pendici della catena del Giura, una
delle cui cime di massiccio calcare, il Gempen, sovrasta il paese. Si tratta di una zona ricca di
foreste e di acque, a tutt’oggi molto quieta e silente. Cagliostro, che fece diversi soggiorni a Basilea,
usava recarvisi per passare ore in meditazione nella zona dei boschi e delle grotte dell’Eremitage.
Ad Arlesheim Cagliostro entrò in amichevoli rapporti con la Baronessa Balbina von Andlau, la cui
famiglia da tempi remoti era proprietaria della zona e del piccolo castello di Bir-seck, posto all’inizio
della valle. Tradizioni antiche di secoli, tuttora tramandate nella zona, riferiscono dello svolgersi
nella regione, nel IX secolo, degli eventi dei quali parlano le leggende raccolte nella saga del Graal.
Si tratta, invero, di tradizioni molto sug-gestive, tanto più che molte caratteristiche del luogo
ricordano da vicino le descrizioni del Munsalvaesche che Wolfram von Eschenbach fa nel suo
Parsifal. Nella zona vengono tuttora indicate le grotte, che la tradizione locale indica come quelle
dell’eremita Trevrizent e dell’infelice Sigune. Chi scrive ebbe modo, molti anni fa, di visitare più
volte la zona dell’Eremitage di Arlesheim e di sostare a lungo immerso nel silenzio e nella pace del
luogo, circondato dalla magica e fiabesca atmosfera, ancora chiaramente avvertibile nella solitaria
contrada. Per cui fu meraviglia, ma non sorpresa, il trovare, nel corso delle ricerche svolte sulla
figura di Cagliostro, tracce evidenti della sua presenza nella regione di Arlesheim. Il destino
benevolo volle che m’imbattessi nel libro di Werner Greub, Wolfram von Eschenbach und die
Wirklichkeit des Grals (Wolfram von Eschenbach e la realtà del Graal), apparso nel 1974. Werner
Greub è di Riehen, la località confinante con Basilea ove, su una proprietà di Jacob Sarasin e di altri
amici, Cagliostro fece costruire l’edificio dedicato alla pratica della rigenerazione spirituale e fisica
di cui parla Marc Haven. Nelle sue ricerche sulla regione di Arlesheim, anche Greub s’imbatté nella
figura di Cagliostro, che approfondì in rapporto al tema del suo libro. Poiché si tratta di pagine
quasi sconosciute, veramente belle, e non facili da trovare, ne tradurremo le parti più importanti in
relazione alla figura di Cagliostro, sicuri che interesseranno molto il lettore. Così scrive Werner
Greub alle pp. 408-412:

«Per l’indagine della storia spirituale di questo luogo si schiudono ulteriori insospettate
possibilità le quali – viste in relazione al Parzival di Wolfram von Eschenbach – fanno
presumere, che la corrente spirituale, che nel IX secolo è stata indicata come corrente del
Graal, anche in seguito – attraverso tutti i secoli – abbia avuto un Centro nella regione di
Arlesheim. L’indagine della storia di questo luogo, invisibile, ma importante per la storia
spirituale, dovrebbe cominciare cogli anni Ottanta del XVIII secolo, perché su di essi sono
ancora presenti notizie accertate. Venne allora qui costruito da Balbina von Andlau il
Giardino Inglese, il cui architetto, il pittore Lauterberg, venne chiamato dalla moglie del
Conte di Cagliostro da Londra ad Arlesheim. Cagliostro, il discepolo del Conte di Saint-
Germain, aveva a quel tempo fondato a Basilea la loggia Osiride. Sulla fondazione di questa
loggia e sulla sua vera essenza fino ad oggi si è informati pubblicamente solo in modo
superficiale. Nella «Heimatkunde des Dorfes Riehen» di Emil Iselin, se ne parlava ancora
così come su un tale tema si pensava negli anni venti. Malgrado le riserve obbligate che fa
l’Iselin, può essere accertato, che persino attraverso la penna di un attuale scienziato
naturalista e il rifiuto basato sul fraintendimento di un’importante corrente del XVIII secolo,
può ancora essere constatato che la massoneria di quel tempo non poteva essere stata
unicamente una faccenda di alcuni «matti». Importanti grandi personalità di quel tempo
presero parte al «Rinnovamento della Sapienza dei Misteri Egizi» fondato da Cagliostro e
persino i co-fondatori dell’industria tessile della seta di Basilea, ai quali non può essere
affatto negato il senso per le realtà con-crete della vita, accolsero Cagliostro non come un
ciarlatano, in quanto essi poterono conoscerlo personalmente e non soltanto attraverso i
racconti degli avversari. Negli scritti degli avversari del resto Cagliostro non ne esce affatto
bene. Nel suo secolo, egli era talmente famoso che diversi impostori si spacciarono per
Cagliostro. Per la qual cosa, non può essere imputato al vero Cagliostro, tutto quello di cui
possa essersi reso colpevole un falso Cagliostro.
Le particolari facoltà di Cagliostro risvegliarono pure la diffidenza degli invidiosi. Questi si
difesero contro la sua «magia» qualificando-lo come ingannatore o come ciarlatano. D.L.E.
Iselin si studia, malgrado la cattiva fama, di riconoscere quanto più ampiamente possibile le
sue qualità. Egli scrive nell’Heimatkunde des Dorfes Riehen:
«Infine si pensi ad un particolare visitatore, che negli anni 1782-1786 venne molto spesso
a Riehen: il conte Alessandro Cagliostro, uno dei più notevoli avventurieri che la storia
conosca. Naturalmente non era affatto conte; si chiamava semplicemente Giuseppe Balsamo
ed era nato a Palermo. Nella sua gioventù si voleva farlo prete; egli però non si comportò
bene e scappò in Grecia. Da lì si recò poi in Egitto, in Asia e in Turchia. Poi fece un salto
sull’isola di Malta e conobbe il Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri Giovanniti, che a quel
tempo aveva ancora laggiù la sua sede, cosicché ottenne per sé energiche lettere di
raccomandazione. Le utilizzò dapprima a Roma per ogni sorta di ciur-merie; ivi sposò pure
la bella Serafina Feliciani. […].
Subito dopo il suo infruttuoso viaggio a Pietroburgo Cagliostro si recò a Strasburgo e
suscitò laggiù grandissimo scalpore con le sue guarigioni. La salda fede che i sofferenti
riponevano nella sua personalità, palesemente molto impressionante, poté portare alla
scomparsa di talune malattie nervose, sino ad allora inattaccabili. Si deve pure ammettere il
fatto che Cagliostro si fosse conquistato in qualche maniera alcune conoscenze, che a quel
tempo non erano ancora a disposizione dei medici. In breve, Cagliostro realizzò delle
guarigioni. La sua fama si diffuse anche a Basilea, e il fabbricante tessile Jakob Sarrasin
inviò sua moglie da anni gravemente ammalata a Strasburgo al sedicente Conte. Ella rimase
laggiù dall’aprile 1781 al settembre 1782. Suo marito venne spesso a trovarla e si fece
inoltre iniziare nei segreti della sua arte terapeutica. Cagliostro poté pure aiutare realmente
la signora Sarrasin a guarire e così nacque tra lui e Sarrasin una stretta amicizia. Ciò è
tanto più degno di nota in quanto Sarrasin era un uomo spiritualmente elevato e non solo
stava in costante rapporto con i basilesi più colti del suo tempo, ma anche con uomini come
Lavater e Pfeffel. La Weisses Haus (Casa Bianca) che egli aveva costruito al Rheinsprung a
Basilea era un punto di incontro della vita spirituale. Negli anni 1782-1786, non di rado, era
stato ospite in essa anche Cagliostro con sua moglie. Tramite Sarrasin questi aveva
conosciuto Johann Jakob Bischoff, che nel 1781 aveva acquistato il Glöcklihof a Riehen.
Anche Bischoff fu un seguace di Cagliostro e aderì al pari di altri rispettati signori di Basilea
all’Ordine della Massoneria Egiziana. Egli fece edificare secondo le indicazioni di
Cagliostro, sulla sua proprietà nella Baslerstrasse, il villino che ancora esiste.
Ivi ebbero luogo negli anni 1783-1789 le tornate della loggia basilese della sublime
massoneria egiziana con tutta la sua grandiosa magia, a volte proprio sotto la personale
direzione del Gran Cofto, il Conte di Cagliostro. Il grazioso edificio, da allora, è stato al suo
interno in vari modi trasformato, e nulla ricorda più la sua apparizione da lungo tempo
scomparsa se non due piccoli ritratti: Cagliostro, l’avventuriero dalla sguardo
consapevolmente e benevolmente scrutatore e sua moglie, una bellezza meridionale,
contornata di lunghi capelli riccioli.
E così anche Riehen possiede nel suo villino-Cagliostro un modesto monumento di
quell’epoca, intricata in modo soffocante, della fine del XVIII secolo nella quale persino una
parte della classe dominante non trovava più soddisfazione nelle situazioni pubbliche e
cercava la sua gratificazione in esotici giuochi di prestigio. L’insoddisfazione delle grandi
masse popolari però si stava avviando verso un’altra, più pericolosa via d’uscita: incombeva
già la Rivoluzione Francese».
Già da questa descrizione di storia locale del 1923 si nota come – malgrado il pubblico
rifiuto, che ancor oggi tocca il Cagliostro dotato di facoltà sovrannaturali –, nel caso di
questo «rinnovatore dei Misteri egizi» debba essersi trattato di un uomo assolutamente
eccezionale […].
Su Cagliostro, il discepolo del Conte di Saint-Germain, la storia è giunta ad una
conclusione altrettanto poco che con Saint-Germain. Anche Saint-Germain è stato
calunniato. È quindi difficile, riferire su di lui qualcosa in maniera sicura. Se si potessero
analizzare gli archivi della Osiris-Loge di Basilea, potrebbe allora sorgere un’immagine più
obiettiva ed istruttiva circa la grandezza di quell’epoca e l’importanza dell’Eremitage di
Arlesheim – in quanto centro di una corrente spirituale del XVIII secolo – piuttosto che
doversi basare unicamente su ciò che su Cagliostro – la cui moglie era amica di Balbina von
Andlau ed abitò per anni presso di lei – è divenuto pubblicamente noto. Il fatto che
Cagliostro, e rispettivamente sua moglie – la bella Feliciana – abbiano preso parte in
maniera decisiva alla costruzione del Giardino Inglese nella Solitude di Arlesheim, getta
luce sulla circostanza per quale ragione questo luogo in sé invisibile poco prima della
Rivoluzione Francese potesse avere una così vistosa fama e di conseguenza un così grande
afflusso di gente».

Werner Greub prosegue poi descrivendo le grotte dell’Eremitage. Descrive pure come all’entrata
della cappella del castello di Bir-seck della baronessa Balbina von Andlau sia tutt’ora presente un
obelisco ligneo d’origine massonica, sul quale sono presenti una serie di simboli rosicruciani
d’origine medievale. Riporta molte belle scritte allegoriche relative alla sapienza spirituale. Una
delle grotte è detta «Grotta Delfica» e consacrata ad Apollo, un’altra, invece, è chiamata «Tempio
della Verità». Poi vi è una grotta «Grotta di Diogene» ed una di «Diana». Una grotta particolare è
dedi-cata al culto della Dea della Natura, Proserpina.
Porterebbe veramente lontano scrutare a fondo nei misteri dell’Eremitage di Arlesheim, ma – per
quanto seducente possa apparire tale prospettiva – non è possibile farlo in questa sede. Tuttavia è
un fatto notevole che Cagliostro, attraverso la sua amicizia con Balbina von Andlau, abbia
frequentato l’Eremitage di Arlesheim e vi abbia anche operato spiritualmente, oltre che
esteriormente, prendendo parte alla costruzione del Giardino Inglese. La sua fre-quentazione in
queste zone appartate, nelle quali fiorirono secoli prima tradizioni graaliche e rosicruciane, è
storicamente documentata. Chi scrive poté, molti anni fa, penetrare in maniera for-tunosa nella
«Grotta di Proserpina» ed esaminarla, e non dubita del fatto che in quei luoghi e in quegli Spechi
venissero, al tempo di Cagliostro, «celebrati Misteri». Vi sono ancora resti di altari, la statua di
Proserpina, una scala che porta dalla «cripta tombale» alla «Grotta della Resurrezione».
L’impressione interiore, che se ne ha dall’atmosfera spirituale ancora viva, è che in quegli anni di
fine Settecento, in quei luoghi e in quelle grotte venisse ivi celebrato un culto della Natura di sapore
eleusìno e persino orfico, per talune tracce monumentali rimaste d’impronta virgiliana. La sapienza
ermetica e rosicruciana di Cagliostro si congiungeva attraverso la sua azione spirituale e il suo
insegnamento iniziatico, con la sua tradizione graalica presente nella zona, ritrovando così nella
realizzazione dell’ideale dell’Androgine Celeste, l’impresa eroica di Parzival e le «Nozze Chimiche»
di Christian Rosenkreutz.

***

È stato detto che Cagliostro fu respinto, o addirittura ripudiato, dalla massoneria del suo tempo.
Abbiamo avuto modo di mostrare che non fu universalmente così. Gli esseri umani non sono,
naturalmente, affatto tutti uguali, per cui la loro diversa intelligenza, la loro diversa sensibilità,
fanno sì che essi reagiscano nei modi più diversi ad un medesimo fenomeno o evento. E anche nel
caso di Cagliostro fu così. Gli avversari del Gran Cofto misero in evidenza soltanto alcuni momenti
di scontro avuti in luoghi particolari e con personalità particolari. Ma studiosi come B. Ivànoff che
scrisse sulla rivista Transactions of the Quattuor Coronati Lodge un articolo ben documentato,
Cagliostro in Eastern Europe, analizzato poi dallo storico austriaco Helmut Reinhalter nell’articolo
Cagliostro und die Freimaurerei, apparso in AA.VV., Presenza di Cagliostro, Centro Editoriale
Toscano, Firenze, 1994, dimostrano come Cagliostro, dopo la sua affiliazione alla loggia londinese
L’Esperance nel 1777, venne accolto senza alcun problema in innumerevoli logge del con-tinente
europeo, da lui visitate nel corso dei suoi lunghi viaggi. H. Reinhalter mette in evidenza – pp. 580-
581 del libro Presenza di Cagliostro – come i dati della documentazione di Ivànoff non siano stati
mai smentiti, e nemmeno posti in discussione, né dai dignitari né dagli storici della United Lodge of
England.
È stato fatto molto rumore sulla caricatura apparsa sul n° 41 del Courrier de l’Europe del mai
troppo infamato Théveneau de Morande, relativa alla visita di Cagliostro, il 21 novembre 1786, alla
loggia Antiquity di Londra, caricatura riprodotta e poi diffusa in molti esemplari. La caricatura
suddetta sarebbe una prova, per la parte avversa, del rinnegamento di Cagliostro da parte dei
massoni inglesi. Marc Haven giustamente afferma che una tale caricatura non è una prova storica
documentaria, così come, diremmo noi oggi, non lo sono le caricature di Forattini, di Fremura, di
Staino o di Krancic rispetto alla situazione storica attuale: sono soltanto «colore». Ebbene, proprio
Helmut Reinhalter, nel suo breve, ma eccellente articolo, dà la prova storicamente documentata
della stima e dell’accoglienza di Cagliostro in quella loggia. Infatti, sempre a p. 581 leggiamo:

«Nel libro dei verbali della «Lodge of Antiquity» Nr. 2 è annotata una visita di Cagliostro a
Londra, che egli compì con 13 fratelli francesi del Rito Egiziano. Sotto la rubrica «Visitatori»
sono riportati tutti i nomi, ed anche, al di sotto, l’indicazione e la specificazione delle loro
Obbedienze. Come speciale annotazione circa la visita di Cagliostro l’estensore del verbale
riporta: «He indeed received the ho-mage to which he was entitled.».

Ovverosia, Cagliostro venne accolto in loggia con gli onori e gli omaggi che gli spettavano. Si
tratta di una smentita che ha tanto più valore in quanto, sia Ivanoff, che H. Reinhalter, che la
mettono in evidenza, sono autori massonici, tra i pochi attualmente non ostili a Cagliostro.
Nel suo periodo svizzero Cagliostro entrò in cordiali e stretti rapporti con rappresentanti
qualificati della massoneria elvetica. In modo particolare ebbe modo di conoscere dignitari della
loggia zurighese «Modestia cum Libertate», tutt’ora esistente. In effetti il suo nome risulta tra quelli
degli ospiti illustri accolti all’Hotel Schwert («alla Spada») ove a Zurigo teneva allora le sue
assemblee la suddetta loggia. Uno degli ospiti illustri di essa fu Wolfgang Amadeus Mozart, massone
e «illuminato», dalle spiccate tendenze «egiziane» – come del resto molti fratelli della sua loggia –
che espresse in maniera mirabile nella musica del suo Flauto Magico, nel quale molti ritengono la
figura di Sarastro essere ispirata in parte a quella di Cagliostro.
Cagliostro ebbe modo di conoscere Diethelm Lavater, fratello del più famoso Kaspar, e anche su
questo punto vogliamo richiamarci a quanto scrive, nel citato articolo, pp. 581-582, H. Reinhalter:

«Cagliostro era stato dunque iniziato nell’Ordine Massonico da una loggia regolare del
Rito Scozzese e dev’esser stato, inoltre, iniziato la sera stessa anche nei gradi di Compagno
d’Arte, Maestro e Maestro Scozzese.
Che Cagliostro, con il suo occulto sapere, esercitasse un certo fascino non soltanto sui
fratelli massoni, è dimostrato da alcuni documenti. Il massone Lavater divenne uno dei più
accesi devoti di Cagliostro e difese le concezioni di questi, cosa che egli manifestò persino in
uno scritto in sua difesa da lui redatto. Lavater era, in maniera evidente, anche membro del
sistema egiziano della massoneria, un fatto sinora sfuggito alla ricerca su Cagliostro.
Lavater, le cui lettere con molti corrispondenti massoni si trovano nell’archivio di una loggia
zurighese, venne iniziato nell’anno 1765 ad Erlangen nella loggia «Libano ai tre cedri» ed
aderì nel 1767 all’officina «Minerva alle tre palme» all’Oriente di Lipsia, ove del resto egli
conobbe anche Johann Wolfgang von Goethe, il quale pure era massone. In seguito egli la-
vorò molto intensamente nella «Stretta Osservanza», causando nel 1772 l’entrata dell’allora
loggia zurighese «La Discrétion» in questo sistema. Questa loggia assunse poi il nome di
«Modestia cum Libertate». Anche importanti personalità della vita spirituale di allora, come
per es. il distinto cittadino basilese Sarasin, Pfeffel e Jung-Stilling, intrattennero stretti
contatti con Cagliostro, che non qualificarono affatto come ciarlatano, bensì lo stimarono
come figura interessante, dotata di particolari facoltà. Queste valutazioni provengono
soprattutto dai documenti dell’Archivio Sarasin. In esso sono conservate numerose lettere
con fratelli dell’epoca appartenenti alla massoneria egiziana. Punto d’incontro della vita
spirituale era la cosiddetta «Casa Bianca» (Weisses Haus) al Rheinsprung, che Sarasin
aveva allora fatto costruire».

La loggia Minerva alle tre palme di Lipsia, alla quale partecipò Diethelm Lavater, è la stessa che
nel 1778 offrì un banchetto in onore di Cagliostro, in viaggio verso la Curlandia, e nella quale
Cagliostro tenne un importante discorso sull’ortodossia iniziatica.

***

Come riferisce Marc Haven, Cagliostro lasciò la Svizzera il 23 luglio 1788 con l’intenzione di
tornare in Italia. Si fermò un po’ di tempo a Aix-les-Bains per curare i reumatismi articolari di
Serafina con le acque di quelle terme. Poi passò da Torino ove non poté fermarsi per l’opposizione
del governo sardo nei suoi confronti. Infatti, possiamo leggere in un dispaccio inviato il 23 agosto
dal Signor de Lalande a M. de Montmorin, Ministro francese degli Affari Esteri e riportato dal
Photiadès a p. 361 della sua citata opera:

«Il Re di Sardegna ha appena dato una testimonianza dei suoi riguardi nei confronti di
Sua Maestà facendo dare ordine al signor Cagliostro di uscire dai suoi Stati entro le
ventiquattrore… Egli era stato indotto a venire a Torino per esercitarvi la medicina. Ma, non
appena il Re di Sardegna fu informato del suo arrivo, gli fece significare attraverso un
ufficiale del governo di non soggiornare nei suoi Stati. E sulla base delle informazioni certe
che ho avute, che Sua Maestà Sarda si era determinata principalmente a causa di ciò che
era accaduto a Parigi, io ho pregato il primo ufficiale degli affari esteri, che lavora con il Re
suo signore durante l’indisponibilità del ministro, di fare pervenire al Re di Sardegna le
testimonianze di gratitudine di Sua Maestà, persuaso che non sarei stato sconfessato».

Il Photiadès riporta, a p. 362, anche la risposta del ministro degli Affari Esteri francese, scritta il
23 settembre 1788, nella quale si esprime l’apprezzamento da parete del re di Francia per la
«sensibilità» dimostratagli da suo cognato Vittorio Amedeo III, a proposito dell’angheria praticata
nella suddetta occasione dal governo di Torino nei confronti di Cagliostro:
«Signore, siamo stati nella condizione di riunire alcuni documenti sul signor Cagliostro, ed
essi ci hanno fornito la prova che, sin dalla sua tenera giovinezza, egli ha condotto una vita
criminale; che egli non sa di medicina altro che quello che egli ha appreso durante i pochi
mesi nei quali è stato Fratello della Carità, e che, ovunque sia passato, ha adoprato per
sussistere i mezzi più bassi e più punibili. Il Re ha appreso con sensibilità che Sua Maestà
Sarda si è determinata ad interdire i suoi Stati a questo truffatore, dopo la condotta che
questi aveva tenuta in Francia, e voi avete fatto bene ad annunciare in anticipo che Sua
Maestà avrebbe considerato tale procedura come un nuovo segno dell’amicizia di Sua
Maestà Sarda. Ma potete assicurare altresì che ovunque si tollererà il signor Cagliostro,
avranno ragione di pentirsene».

A noi, invece, un tale scritto fornisce la prova che per la Corte di Francia la vicenda del Processo
della Collana non era affatto conclusa. La Corte di Francia, e per essa i suoi solerti ministri, erano
risoluti a perseguitare Cagliostro di paese in paese, di città in città, con un accanimento vendicativo
tanto più inesorabile in quanto il decreto del Parlamento aveva assolto Cagliostro da ogni accusa e
resa palese l’arbitrarietà del suo arresto e della sua detenzione.
Partendo da Torino Cagliostro si diresse verso Genova. Durante la sosta ad Alessandria venne
riconosciuto con stupore da un ufficiale Sardo, de Vos de Nivelit, figlio di una sua paziente
entusiasta e mentre venivano effettuate alcune piccole riparazioni alla carrozza venne amabilmente
intrattenuto dal maggiore Bucher. La breve permanenza a Genova è riportata dal Petraccone in
Cagliostro nella storia e nella leggenda, 2a ed., Milano, 1937, pp. 91-92:

«E infine andò a Genova: «Nella passata settimana – scriveva da Genova in data del 6
settembre il conte Durazzo, ex-ambasciatore cesareo a Venezia – fu qui il celebre Cagliostro
con la signora Serafina, ma non si è trattenuto che pochi giorni. Si è detto che a Torino
abbia avuto consilium abeundi [n.d.C.: ‘consiglio di andarsene’]». E più tardi, in data del 20:
«Sebbene questo paese sia non meno di altri portato per i ciarlatani, pure il signor
Cagliostro vi ha fatto una brevissima dimora, e non so se per insinuazione pubblica o per
effetto della sempre misteriosa sua condotta è vero ch’egli non era qui raccomandato ad
alcuno…».
Ma a Genova, dove la Massoneria aveva vari precedenti, la permanenza, comunque breve
di un uomo come Cagliostro non poteva parer priva d’un significato politico o settario.
… Non deve perciò far meraviglia sentire in che modo l’annalista Gaggero dà notizia
dell’arrivo di Cagliostro: «I capi e gli aderenti delle Logge Massoniche di Francia, scorgendo
che gli affari loro andavano assumendo piega buona anzi che no, deliberarono di mandare
emissari anche in Italia onde estendervi il loro partito, tra i quali il celebre conte di
Cagliostro. Sino a questo punto costui non aveva fatto in Francia che la parte del ciarlatano
raggiratore ed è perciò che venne creduto abilissimo a quest’impresa. Egli partì sul
principio dell’anno tenendo la via del Delfinato e della Savoia. Giunto a Torino e trattenutosi
quivi per brevi momenti, si condusse a Genova, e fu così occulta la sua partenza che penossi
moltissimo a conoscere il luogo ove si fosse diretto. Ma egli si condusse a Roma…». E
altrove: «Egli… era stato spedito dalla Loggia Massonica di Francia per intavolare
corrispondenze ed acquistare proseliti in Italia al partito rivoluzionario… È fama fosse a
stretti colloqui con diversi capi massonici fra’ quali si conta un certo Andrea Repetto, il
quale già da qualche anno, se non mentì la voce, teneva carteggio in Inghilterra, in Francia
e in molte città d’Italia cogli aderenti del partito massonico, al quale vuolsi abbia tratto non
poche persone di rilievo ed in seguito fondasse in Carignano una Loggia Ligure, che in
decorso andò ampliandosi».

Questo Andrea Repetto era il figlio di un tale Domenico Repetto, che già nel 1751 era stato
inquisito dalle autorità dogali, per aver organizzato attività massoniche più o meno clandestine.
Andrea Repetto arrestato già nel 1762, fu nuovamente arrestato nel 1782 sempre per attività
massonica. Nel 1793, membro della loggia Carignano, fu uno di quei massoni d’ispirazione
giacobina in contatto con l’ambasciatore di Francia Tilly. Lo stesso Petraccone, nella nota 77
riportata a p. 146, così c’informa:

«Il medico Andrea Repetto, membro fra i più importanti della Loggia di Carignano, fu
intimo amico di Tilly, inviato nel 1792 dalla Convenzione a Genova, coll’apparente ufficio di
incaricato, ma col segreto fine di eccitare gli animi alla rivolta: in casa sua giungevano,
infatti, da Nizza (e vi furono pure qualche volta sequestrate) molte in-cendiarie
pubblicazioni francesi ch’egli poi distribuiva agli amici e simpatizzanti».

Carlo Francovich a sua volta così commenta, a p. 449, questa brevissima parentesi genovese del
Gran Cofto:

«Se queste notizia, non suffragate invero da alcun’altra fonte, cor-rispondessero a verità,
sarebbe cosa molto interessante, perché ci confermerebbe l’idea di un Cagliostro
incamminato sulla pericolosa via dell’organizzatore politico, dato che il medico Andrea
Repetto sarà effettivamente in seguito, e per un certo momento, un esponente del
giacobinismo ligure».

Ora, in realtà, nulla era più estraneo a Cagliostro dell’avventura politica e bisogna dire che erano
più i massoni, con simpatie giacobine o meno, ad interessarsi alla massoneria egiziana di Cagliostro,
che non questi alle loro operazioni politiche. Sicuramente egli ebbe idee e simpatie di natura
«liberale» ed in certi momenti auspicò una trasformazione della struttura sociale di un putrescente
Ancien Régime in accordo con le nuove idee, ma questo non significa affatto che egli s’impegnasse,
personalmente, a qualsiasi titolo, nell’agitazione politica. A tale proposito, ci sembra necessario, per
comodità del lettore riportare integralmente – malgrado l’inevitabile ripetizione – il testo della
Lettera al popolo francese di Cagliostro, già inserita da Marc Haven nell’VIII capitolo del suo libro:

«Qualcuno mi chiedeva se io sarei ritornato in Francia, nel caso in cui venissero revocate
le proibizioni che me ne tengono lontano. Sicuramente, ho risposto, purché la Bastiglia sia
divenuta una passeggiata pubblica. Lo voglia Iddio! Avete tutto quel che occorre per essere
felici, voialtri Francesi: suolo fecondo, clima dolce, buon cuore, affascinante allegria, genio
e grazie, proprie a tutti, senza eguali nell’arte di piacere, senza maestri nelle altre; non vi
manca, miei buoni amici, che un piccolo punto: ossia quello di dormire sicuri nei vostri letti
quando siete irreprensibili. Ma l’onore! ma le famiglie! Le lettres de cachet sono un male
necessario…. Quanto siete semplici! Vi cullano con delle favole. Persone istruite mi hanno
assicurato che il reclamo di una famiglia era spesso meno efficace per ottenere un ordine di
carcerazione, dell’odio di un usciere o del credito di una moglie infedele. L’onore della
famiglia! E che mai! pensate che tutta una famiglia venga disonorata dal supplizio di uno dei
suoi membri! che pietà! I miei nuovi ospiti la pensano un po’ diversamente; cambiate
opinione infine, e meritate la libertà attraverso la ragione.
È cosa degna dei vostri Parlamenti lavorare a questa felice rivoluzione. Essa non è difficile
che per le anime deboli. Che essa venga ben preparata, ecco tutto il segreto: che essi non
affrettino nulla precipi-tosamente; essi hanno dalla loro il ben inteso interesse dei popoli,
del re, della sua casa; essi abbiano altresì il Tempo, il Tempo primo ministro della verità; il
Tempo, attraverso il quale si estendono e si rinsal-dano le radici del bene come del male; del
coraggio, della pazienza, la forza del leone, la prudenza dell’elefante, la semplicità della
colomba; e questa rivoluzione, così necessaria, sarà pacifica, condizione senza la
quale non ci si deve pensare. Così voi dovrete ai vostri magistrati una felicità della quale
non ha goduto alcun popolo conosciuto, quella di recuperare la vostra libertà senza colpo
ferire, ottenendola dalle mani dei vostri re.
Sì, amico mio, io l’annuncio, regnerà su di voi un principe che por-rà la sua gloria
nell’abolizione delle lettres de cachet, nella convocazione dei vostri Stati Generali, e,
soprattutto, nel ristabilimento della vera religione. Egli sentirà, questo principe amato dal
cielo, che l’abuso del potere è distruttivo, alla lunga, del potere stesso: egli non si
contenterà di essere il primo dei suoi ministri, vorrà diventare il primo dei Francesi. Felice
questo re che emanerà questo editto memo-rabile! felice il cancelliere che lo firmerà! felice
il Parlamento che lo verificherà! Che dico, amico mio, i tempi son forse arrivati: è certo,
almeno, che il vostro sovrano è atto a questa grande opera. Io so ch’egli vi lavorerebbe, se
non ascoltasse altro che il suo cuore: il suo rigore, nei miei confronti, non mi rende cieco
sulle sue virtù».

Certamente molti massoni militarono nelle fila rivoluzionarie, ma furono molti anche i massoni
che avversarono l’ideologia rivoluzionaria ed operarono, politicamente e militarmente, al tentativo
di annientarla.
Da Genova, Cagliostro passò a Venezia. Vi fu chiamato dalla pa-trizia veneziana Cecilia Tron Zen,
figlia di Renier Zen, donna colta, raffinata, attorno alla quale si formò un cenacolo letterario,
filosofico, cui parteciparono personalità molto in vista della Serenissima, e soprattutto personalità
con profondi interessi esoterici.
Un autore, coevo agli eventi narrati, che si rivela una notevole fonte di notizie, sia pure esposte in
maniera molto asistematica, è Marziale Reghellini di Schio, autore dell’opera La Maçonnerie
considerée comme résultat des réligions égyptienne, juive et chrétienne, Paris, 1833, 4voll., il quale
alle pp. 71-72, del vol. III, dice:

«Il Rito dei Rosacroce alchimisti esisteva a Padova alla fine del XVIII secolo. Lo scienziato
Carburi, greco di nazione e professore di chimica, fu uno degli ultimi Saggi di questa
istituzione che scomparve completamente sotto l’occupazione francese»

Marco Carburi, originario delle Isole Ionie, a quel tempo domi-nate da Venezia, fu la personalità
che in qualche modo impulsò e coagulò attorno a sé la ricerca spirituale ed esoterica della terra-
ferma veneziana. Egli insegnava chimica all’università di Padova, aveva viaggiato molto, arrivando
persino a conoscere il celebre veggente Swedenborg nel corso di un’ambasceria, della quale fece
parte, inviata dalla Serenissima in Svezia nel 1765. Carburi coltivò ed impulsò varie scienze occulte:
l’alchìmia, la fisiognomica, il me-smerismo, la teurgia. Sotto la sua guida si formò un ambiente
massonico che non seguì l’indirizzo «inglese», ossia semplicemente umanitario, conviviale ed
egualitario, ma si rivolse a quella massoneria «scozzese», che nei suoi Alti Gradi coltivava lo studio
delle scienze occulte, dell’Ermetismo e dell’Alchìmia rosicruciana, che a Venezia, e in Veneto in
genere avevano una vivace tradizione plu-risecolare. Infatti, ad opera di Marco Carburi, si formò a
Padova un Capitolo della Stretta Osservanza Templare, sin dal 1778, in occasione del passaggio
dell’inviato tedesco von Waechter, che in Italia cercava proseliti all’Obbedienza germanica. Questo
Capitolo prese il nome “di Verona” in ricordo dell’antico priorato templare di quella città. Nel 1780
questo Capitolo templare, sempre ad opera di Marco Carburi, aderì alla riforma della Stretta
Osservanza operata, a partire dalla Francia, da Jean Baptiste Willermoz, che dette luogo alla nascita
del Rito Scozzese Rettificato. Si trattava di un Rito a forte tendenza mistica, con una dottrina
gnostico-kabbalistica e martinistica, per certi versi, molto simile a quella «egiziana» di Cagliostro.
Che Marco Carburi avesse interessi ermetici di tipo «egiziano» è dimostrato dal fatto che, allorché
dovette scegliere nella Stretta Osservanza e nel Rito Scozzese Rettificato – secondo la tradizione in
uso – il suo nomen mysticum, egli volle chiamarsi Marcus, Eques a pyramide!
Alcuni discepoli del Carburi vollero fondare a Venezia, nel 1780, una nuova loggia, dopo che il
governo della Serenissima aveva sciolto nel 1777, la loggia «inglese» Unione, fondata nel 1772. La
nuova officina prese il nome di loggia San Giovanni della Fedeltà ed ebbe sede in Rio Marin. A
questa loggia appartenne il fior fiore del patriziato veneziano, tra cui molti ambasciatori della
Repubblica. Tuttavia, anche questa loggia, scoperta per un evento fortui-to, venne sciolta, nel 1785,
a causa della più che blanda persecuzione esercitata dagli inquisitori veneziani, per la paura che gli
eventi relativi allo scioglimento dell’Ordine degli Illuminati avevano suscitato in tutt’Europa. Questa
loggia risorse nel 1788 e volle, proprio ad opera di Cecilia Tron Zen, del cui cenacolo i fratelli erano
assidui frequentatori, prendere contatto con Cagliostro. Ecco le poche righe con le quali Carlo
Francovich, a p. 449 del suo libro, descrive il fatto:

«Comunque, dopo pochi giorni, Cagliostro lasciò Genova per recarsi a Venezia. Ed anche
sul suo soggiorno in questa città si sa ben poco. Pare che a Venezia in quel tempo si stesse
ricostituendo la loggia sciolta dal Governo nel 1785 e che alcuni componenti di questa, quali
Alessandro Albrizzi, Francesco Battagia e Alvise Pisani, da noi già incontrati, avessero allora
contatti con il Gran Cofto. Ma anche qui la Serenissima, impressionata sia dalla brutta fama
che accompagnava il mago negli ambienti conservatori dopo l’affaire du collier sia dagli
incontri con massoni o ex-massoni locali, decretò il suo sfratto».

Qualcosa di più ci dice il Petraccone, integrato nella 2a edizione dalle aggiunte di Bruno
Cassinelli, nel suo Cagliostro alle pp. 92-93:

«Da Genova Cagliostro passò a Venezia, dove pare trovasse buona accoglienza da vari
patrizi: Alessandro Albrizzi, Francesco Battagia, Alvise Pisani ed altri già componenti di una
loggia massonica, che distrutta nel 1785, per ordine della Serenissima, con gran giubilo del
patriziato conservatore, s’era poi di recente ricostituita. Della dimora di Cagliostro a
Venezia, che dovette essere assai breve e che si può fissare ai primi giorni del settembre
1788, mancano notizie: si sa soltanto che a di lui favore si interessò specialmente Cecilia
Tron, la brillante cognata di Caterina. Nel settembre 1788 scriveva al colto bibliofilo
Amedeo Swajer il già citato conte Durazzo: «Egli (il Cagliostro) non era qui (a Genova)
raccomandato ad alcuno, onde potrebbe la cosa esser differente costì (a Venezia) per certi
riguardi, se, come Ella mi segna, la Sig.ra Cecilia Tron si interessa a di lui favore».

Secondo una tradizione trasmessa in ambienti alquanto ristretti, e secondo ricerche fatte in
archivi particolari, si deve al soggiorno di Cagliostro a Venezia, nel 1788, la nascita – ovvero la
rinascita, se si tiene conto della fondazione napoletana, avvenuta il 10 dicembre 1747, ad opera del
principe Raimondo di Sangro – di un Ordine Egiziano o Rito di Misraïm seu Aegypti, che estrema
importanza avrà, nel secolo successivo, negli eventi del Risorgimento spirituale e civile dell’Italia e
che si diffonderà anche al di fuori d’Italia. Si trattò di un rito massonico ardentemente spiritualista,
la cui élite – i suoi membri non furono mai folla – si dedicherà con passione e diligenza agli studi più
profondi della tradizione esoterica e alla realizzazione dell’Iniziazione, non semplicemente
cerimoniale e simbolica, ma reale.
Marziale Reghellini di Schio, che prese parte come contemporaneo agli eventi in questione, così
scrive nel suo libro Esprit du dogme de la Franc-Maçonnerie, Bruxelles, 1825, pp. 261-262:

«Si ritiene che il Rito di Misraïm, conosciuto sotto il nome di Rito Egiziano, fosse
originario di Venezia; che da lì si sia diffuso nelle sue province, ed in seguito portato nelle
Isole Ionie. Si può constatare, che in questa città è stato conosciuto il Rito Egiziano,
introdotto da Cagliostro, del quale il più zelante dei Fratelli fu S.E. Zuliani.
Il Rito di Misraïm ebbe numerosi capitoli nel regno di Napoli, ed è da lì che si è diffuso in
Francia e altrove».
Anche Renato Soriga nel citato libro Le società segrete etc., p. 31, dopo aver elencato i massoni
veneziani Francesco Battagia, Alessandro Albrizzi, Alvise Pisani, cita anche «Girolamo Zulian, il
noto rivelatore del genio del Canova, cui è dovuta l’introduzione del rito egiziano a Venezia».
Il Reghellini, alle pp. 266-267 del suo Esprit du dogme de la Franc-Maçonnerie, ci dà un’immagine
suggestiva dell’essenza del Rito di Misraïm o Rito Egiziano:

«Le iniziazioni sono rudi; esse sono un’imitazione di quelle prati-cate anticamente in
Egitto. Secondo queste, il neofita coperto d’un velo viene introdotto nel Tempio; ivi riceve
l’istruzione e la manifestazione di una parte delle dottrine e dei misteri antichi d’Osiride e di
Tifone, o dell’essere benefico e di quello malefico, della luce e delle tenebre: egli apprende
che Mosè, a capo di una popolazione che emi-grò dall’Egitto, ed Egiziano lui stesso ed
iniziato, conservò, per quanto lo permisero le circostanze, i misteri egizi.
Apprende poi, che in seguito i leviti, come tutti i riformatori, adot-tarono alcuni
cambiamenti, e sostituirono nei loro misteri scritti, la loro propria storia a quella del popolo
primitivo, Hiram a Osiride, i tre assassini a Tifone, come ci si deve essere accorti all’epoca
dell’istituzione del Tempio da ricostruire che abbiamo riportato più sopra».

Marziale Reghellini di Schio non è l’unico a parlare di un’origine veneziana del Rito di Misraïm.
Infatti, l’erudito Claude-Antoine Thory nei suoi Acta Latomorum, Paris, 1815, vol. I, p. 327, così
scrive:

«Questa istituzione che non data in Francia che da qualche anno, era molto in vigore a
Venezia e nelle Isole Ionie prima della rivoluzione francese del 1789».

Un’altra conferma, se pur vaga, la troviamo anche in Jacques-Philippe Levesque, nella sua opera
Aperçu général et historiques des principales sectes maçonniques, Paris, 1821, a p.105:

«Sono, credo, cinque o sei anni che questo Rito si è stabilito a Parigi. Proveniva dal
Meridione d’Italia e godeva di una certa considerazione nelle Isole Ionie e sulla costa del
Mar Adriatico. Esso ha avuto la sua nascita in Egitto».

Si può cogliere la ragione dell’interesse suscitato dal Rito di Misraïm dalle parole con e quali il
Reghellini di Schio chiude, a p. 267, le considerazioni sopra riportate:

«Sembra che gl’istitutori di questo Rito abbiano voluto racchiudere nelle prime due serie,
la scienza di tutte le credenze massoniche scozzesi e filosofiche, dando la spiegazione di
tutti i riti con la com-parazione dei misteri egiziani, come si può presumere dalla
denominazione dei suoi gradi sino al 66°; e che nelle due ultime serie abbiano voluto
racchiudere l’alta scienza egiziana, che consisteva nella conoscenza della Kabbalah e della
Chimica, riservando agli ultimi tre gradi la potenza suprema del Rito».

Ricerche condotte in archivi particolari dimostrano come Cagliostro sia all’origine della nascita, o
rinascita, a Venezia del suddetto Rito di Misraïm seu Aegypti e del fatto che nell’ultima serie di
gradi, detta serie ermetico-kabbalistica, venne occultato l’insegnamento iniziatico, di origine egizio-
ellenica, proveniente dal Napoli e formante la cosiddetta «Scala Egiziana di Napoli» o Arcana
Arcanorum. Si tratta di un avvenimento di importanza estrema, in quanto in seguito alla caduta
della Repubblica Napoletana del 1799, la loggia desangriana Perfetta Unione venne distrutta ed i
suoi adepti morirono, nella quasi totalità, martiri sul patibolo per soddisfare la sete di sangue di
Ferdinando IV, della regina Maria Carolina, dell’ammiraglio inglese – e massone spergiuro – Horatio
Nelson. Nei primi anni dell’Ottocento, avvenne in Italia la diffusione del Rito Egiziano, che giungerà
a mettere nuovamente salde radici anche nel Meridione d’Italia. Questa diffusione del Rito di
Misraïm avvenne a partire proprio da Venezia, e per vie del tutto particolari, ad opera di discepoli
diretti del Gran Cofto.
I rapporti di Cagliostro con la massoneria veneziana sono documentati dalle ricerche di due
diligenti autrici che ebbero modo per anni di «arare», come suol dirsi, gli archivi della Serenissima.
La prima autrice, Renata Targhetta, nella sua opera La massoneria veneta dalle origini alla
chiusura delle logge (1729-1785), Udine 1988, in una nota a p. 98, parla di un fratello massone, il
conte Giacomo Schioppo, dicendo:

«Come ricorderemo era affiliato alla loggia «I veri amici» di Vicenza nel 1788 (Cfr. Pericle
Maruzzi, Notizie e documenti etc., p. 400), ma nell’85 non compare più fra gli associati
vicentini. Nel 1787 si recò con l’amico napoletano, dottor Giuseppe Rocca, e il conte
Francesco Emilei a ossequiare Cagliostro di passaggio a Verona. Al processo di
quest’ultimo, arrestato a Roma nel 1789 perché ritenuto fondatore di quella loggia
massonica, s’interessò anche la contessa Curtoni Verza. Cfr. A. Righi, Una loggia massonica
a Verona nel 1792, Verona, 1912, pp. 9-10».
Il conte Giacomo Schioppo aderì alla Stretta Osservanza Templare ed entrò perciò in
stretto contatto con Marco Carburi a Padova, i cui interessi rosicruciani sono così
testimoniati dall’«illuminato» da-nese Münter, che lo visitò nel 1784, in una pagina del suo
diario, riportata dal Francovich a p. 281:
«Lo studio suo e quello degli iniziati suoi fratelli era rivolto verso arcana naturae. Circa
l’alchimia si esprimeva in termini ambigui, non volle escludere alcuna eventualità e
sostenne che, fra le carte dei Rosacroce, che avevo collezionato a Vienna, ci fossero molte
verità».

Giacomo Schioppo avrà, per le sue simpatie giacobine, come del resto il Carburi, un ruolo
notevole negli eventi politici di fine Settecento.
La seconda autrice è Anna Maria Cadel, la quale nel suo saggio Venezia e la Massoneria nel
Settecento, Venezia, 1995, parla a lungo dei fratelli veneziani e dei loro rapporti con Cagliostro. Per
esempio, nel capitolo: Ancora di patrizi massoni, (p. 41 e sgg.), così scrive:

«Era impensabile, dopo la distruzione della loggia di Rio Marin che i patrizi sparissero
dalla scena massonica veneziana.
Nella primavera del 1791 giunse da Roma, un habitué degli spassi veneziani, il marchese
Antonio Vivaldi, intimo amico di Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro, massone per
eccellenza. Vediamone l’antefatto, per poter meglio collegare il susseguirsi degli
avvenimenti che portarono il Vivaldi a Venezia.
Il 27 maggio 1789 era arrivato a Roma il Cagliostro, ultima tappa dl suo incredibile
girovagare. Nell’Urbe i processi politici erano all’ordine del giorno, sia per chi portava
discredito al Governo, sia per coloro che avrebbero potuto iattare la rovina dei preti e del
cristianesimo. In questa atmosfera cominciò ad operare il Cagliostro, quando decise di
formare una nuova Loggia nell’Urbe in quello stesso anno»

Poi la Cadel descrive la famosa riunione di Villa Malta, cui partecipò anche il Vivaldi, e così
prosegue:

«Il Sant’Uffizio non perse tempo; la riunione, da segreta, divenne di dominio pubblico e,
dopo molte consultazioni, la mattina del 27 dicembre di quell’anno Cagliostro fu arrestato in
nome del Pontefice e trasferito a Castel Sant’Angelo; da quel momento Giuseppe Balsamo
non riebbe più la libertà.
Tutti i partecipanti alla riunione cercarono di andarsene da Roma, per timore dell’arresto.
In queste circostanze il marchese Vivaldi fuggì a Vienna – dove si mise al servizio
dell’Imperatore – prima tappa per raggiungere Venezia. Ma se il nobile massone evitò le
fauci del Sant’Uffizio, non meno rapaci si presentarono gli artigli degli Inquisitori di Stato
della Dominante al suo arrivo. Il 31 maggio 1791, il solito informatore denunciava alle
autorità tracce in città del cavaliere romano di riguardevole famiglia con grosse rendite.
Nella Serenissima, il nobiluomo aveva avuto i primi contatti con i vecchi massoni veneziani:
Piero e Antonio Solari, il N.H. Andrea Tron. Quest’ultimo, uomo interessato alle correnti
riformatrici dell’assolutismo illuminato, aveva frequentato assiduamente Giuseppe Balsamo,
“medico” della cognata Cecilia Zen Tron, detta la “Trona”, dama dotata di grande fascino…
Altro amico, che si accompagnava spesso al Vivaldi, era il marchese Boccapatulli, presidente
dell’Accademia degli Ardenti, massone e cavalier servente della marchesa Soderini, anche
lei fuggita a Venezia dopo la burrascosa riunione di Villa Malta. Questo fu l’entourage del
nobile romano».

Poche righe dopo, la Cadel così aggiunge (p.44):

«Esisteva forse ancora la loggia di rito di Misraïm, fondata da Cagliostro nel 1788,
permeata di ermetismo, di alchimia, e in genere di quelle scienze che si definiscono
esoteriche».

Infine a p. 58:

«Il mutuo soccorso dei fratelli rimane sempre la colonna portante tra i massoni. Citeremo
il Vivaldi, fuggito da Roma che, quando viveva a Venezia soggiornava con il marchese Solari,
massone. Sono amici e si baciano, annotava in un suo rapporto un confidente, ma si trattava
dell’abbraccio fraterno, segno di appartenenza alla libera mura-torìa. Durante un
interrogatorio il Solari, scagionò, davanti all’Inquisitore, il Vivaldi, che era accusato di avere
stretti rapporti con Cagliostro. Ma era vero».

Si trattava di quel Saverio Vivaldi Argentieri, discepolo con sua moglie del Gran Cofto, che iniziato
nel 1788, organizzò nella propria casa di campagna, nell’ottobre 1789, un banchetto in onore di
Cagliostro, il quale in quell’occasione incontrò diciotto fratelli, di nazionalità francese, appartenenti
tutti alla loggia clandestina fondata dal pittore Augustin Belle a Roma con patente del Grande
Oriente di Francia. Dopo l’arresto di Cagliostro fuggì precipitosa-mente a Gorizia ove entrò al
servizio dell’Imperatore in un reggimento austriaco, in seguito si spostò a Venezia. La moglie,
anch’essa amica e seguace di Cagliostro, scrisse inutilmente al Principe-Vescovo di Trento Virgilio
de Thun perché intervenisse in favore del Gran Cofto: dovette fuggire anche lei da Roma travestita
da ufficiale degli Ussari. Il marito nel 1796 tentò di rovesciare il governo pontificio a Roma ed in
conseguenza di ciò venne arrestato, ma fu liberato per intervento dell’ambasciatore Giuseppe
Napoleone. Durante la Repubblica Romana del 1798 fu Prefetto delle Milizie. Infine, nel 1809,
partecipò assieme al figlio all’assalto al Quirinale per dare Roma in mano ai francesi.
Reghellini di Schio, che definisce Cagliostro «membro del Capitolo Rosacroce di Napoli», afferma,
nella sua voluminosa opera La Maçonnerie considerée comme résultat des réligions égyptienne,
juive et chrétienne , vol.III, p. 87, che il Gran Cofto della Massoneria Egiziana: «trasmise i suoi
poteri a Francesco Battagia de’ Mori come sostituto e commissario delegato». Fu questo atto che
permise la rinascita del Rito Egiziano a Napoli, dopo la violenta distruzione della loggia desangriana
Perfetta Unione e l’uccisione di quasi tutti i suoi adepti. Proprio a partire dalla loggia egiziana di
Venezia prese inizio una serie di eventi che si rivelarono decisivi per la successiva storia d’Italia, cui
parteciparono personalità importanti del nostro Risorgimento come Ugo Foscolo, Daniele Ma-nin,
Giuseppe Mazzini e Garibaldi, tutti a vario titolo legati o in stretto contatto con il Rito di Misraïm
seu Aegypti, sorto a Venezia nel 1788 ad opera di Cagliostro e di suoi discepoli. Su questo aspetto
«interiore» e «occulto» del nostro Risorgimento sarà, forse, concesso un giorno scrivere qualcosa,
sollevando il velo che ricopre l’azione reale, anche se spesso non apparente, di personalità
sconosciute o misconosciute, ma di elevato rango spirituale, che hanno operato alla rinascita civile,
culturale e spirituale d’Italia, non tanto, o non solo, in vista di un sia pur legittimo fine politico o
ideale nazionale, quanto in nome di un elevato fine spirituale segretamente connesso con i destini
della nostra Patria.

***

Partendo da Venezia, Cagliostro si diresse prima a Verona, ma non vi si fermò molto. Ivi venne
visitato da alcuni massoni come Giacomo Schioppo, il conte Francesco Emilei e il napoletano
Giuseppe Rocca, tutti futuri giacobini, e dalla contessa Curtoni Verza, anch’essa legata al Rito
Egiziano e futura giacobina. Dopodiché Cagliostro si trasferì prima a Rovereto e poi a Trento. Le
vicende di Rovereto sono in parte narrate attraverso il famoso Liber memorialis de Caleostro cum
esset Roboreti di Clementino Vannetti, segretario perpetuo della locale Accademia degli Agiati.
A Rovereto vi erano alcuni massoni e di alcuni di essi conosciamo i nomi: Felice Baroni di
Cavalcabò, il conte Massimiliano Lo-dron, appartenente all’Ordo Illuminatorum o Ordine degli
Illuminati col nomen di Numa Pompilio e come tale espulso dal cattoli-cissimo ed oscurantissimo
Regno di Baviera, e il consigliere aulico Giuseppe Festi, che mise la propria abitazione a completa
disposizione di Cagliostro.
I massoni trentini accolsero molto bene il conte, arrivando addirittura ad aprire a Sacco, nella
villa di Felice Baroni, una loggia «egiziana», regolarmente consacrata e ritualmente installata dal
Gran Cofto. In quella loggia avvennero anche alcune iniziazioni «egiziane»: sappiamo che vi furono
iniziati Giuseppe Festi, il conte Giusto Todeschi, l’abate Giuseppe Venturi ed altri cinque massoni
veronesi dei quali non ci è stato tramandato il nome.
Da Rovereto Cagliostro si spostò poi a Trento, invitato dal barone Giangiacomo Cresseri, ex
sacerdote, e a quel tempo maestro venerabile della loggia di Innsbruck. L’amicizia di Festi e di
Cresseri fece sì che egli venisse cordialmente accolto dal principe-vescovo Vigilio de Thun – anche
lui, come vedremo, in odore di massoneria – il quale ebbe frequenti rapporti con Cagliostro e, in
alcune occasioni, fu addirittura da lui curato per alcune malattie e guarito di alcuni fastidiosi
disturbi. Massone era, a Trento, anche il medico Giacomo Bacca, iniziato sin dal 1783 a Strasburgo
nella loggia La Candeur, frequentata dallo stesso Cagliostro e composta di amici di questi. Il Bacca
era uno studioso entusiasta delle tradizioni templari e rosicruciane.
Massone, di notevole valore, era anche il banchiere di Bolzano Francesco Domenico de Gummer,
appassionato anche lui allo studio dell’Alchìmia e affiliato sia alla Rosacroce d’Oro che ai Fratelli
Iniziati d’Asia o Fratres Lucis. Il Gummer, massone sin dal 1751, fondò nel 1780 una loggia che
affiliò all’Ordo Illuminatorum, col quale aveva contatti a Monaco. Il Gummer era già in contatto
epistolare con Cagliostro al quale scriveva all’indirizzo di «Madame Gertrude Sarazin, Basilea», con
la dicitura aggiuntiva «per Calliostro».
Tra Gummer e Cagliostro vi furono numerosi incontri segreti, e nella primavera del 1789
quest’ultimo si recò in incognito a Bolzano, ove si tenne pure una tornata di loggia «egiziana».
Numerosi fratelli massoni bolzanini, amici di Gummer, ebbero anch’essi frequenti occasioni di
andare ad incontrare Cagliostro a Trento.
Alquanto particolari furono l’atteggiamento ed il comportamento del principe-vescovo di Trento,
Vigilio de Thun, il quale – stando alla testimonianza fededegna di un alto dignitario dell’Ordine degli
Illuminati, il barone Francesco Maria de Bassus, pode-stà di Traina e di Poschiavo nei Grigioni – era
massone. Il fatto che le parole del de Bassus relative al «latomismo» del principe-vescovo si trovino,
accuratamente crittografate, in un documento manoscritto dell’Ordine, certamente non destinato al
pubblico, fa pro-pendere per la verosimiglianza dell’appartenenza del de Thun alla libera muratoria.
Del resto, anche l’accoglienza da lui liberamente concessa a Cagliostro e l’estrema tolleranza
esercitata nei confronti di alcuni «illuminati», espulsi da altri stati tedeschi cattolici, già all’epoca
fecero pensare alla possibilità ch’egli fosse massone.
Il barone de Bassus aveva fondato a Poschiavo, nel cantone svizzero dei Grigioni, una tipografia
nella quale venivano stampati libri ed opuscoli di carattere pedagogico, scientifico e filosofico, con
un indirizzo fedele alle idee e alle concezioni «illuminate», opere che ebbero una notevole diffusione
ed un’influenza profonda sulla cultura del tempo. Ad un certo punto il de Bassus ricevette
dall’Ordine il compito di diffondere l’Illuminatismo anche in Italia, di reclutare adepti e di
organizzare, ove possibile, logge dell’Ordine. Una recluta di valore fu per lui quella del trentino
Carlantonio Pilati, amico di Cagliostro, col quale egli aveva da tempo una col-laborazione editoriale,
e che perciò fu, per la sua cultura e le sue idee, come si disse, al contempo illuminista ed
«illuminato».
Quella dei rapporti di Cagliostro con l’Ordine degli Illuminati, fondato in Germania da Adam
Weishaupt, nel 1776, è una vexata quaestio proprio a causa dell’accusa e della conseguente
condanna di Cagliostro come massone e illuminato da parte del Sant’Uffizio. L’Ordo Illuminatorum è
stato – come, del resto, lo stesso Cagliostro – infamato quanto lo poteva essere, sia da parte della
propaganda curiale cattolica ultraclericale, che da una parte dello stesso mondo massonico che ne
subì passivamente la suadente – ed illudente – dialettica denigratoria. L’Ordine venne descritto
come ateo, violentemente sovversivo, anarchico, materialista. Accuse identiche o molto simili furono
rivolte allo stesso Cagliostro. Porterebbe troppo lontano affrontare, in questa sede, la questione
dell’autentica natura, degli scopi e dei metodi dell’Ordine degli Illuminati e mostrare, perciò, che le
cose stavano, in realtà, in termini molto diversi da quelli abilmente inscenati dalla propaganda della
parte avversa. Ci limiteremo ad osservare, per ora, che se è vero che l’Ordine aveva una dottrina di
tipo razionalistico, ciò non significa affatto che si trattasse di razionalismo ateo e materialista.
Esistono scritti di Adam Weishaupt, fondatore dell’Ordine, sulla natura di Dio e persino su una
forma di Alchìmia spirituale. In un suo scritto, Weishaupt arriva a negare la realtà della materia e ad
affermare l’illuso-rietà della percezione sensibile, sviluppando una concezione molto simile a quella
della mâyâ nella metafisica indiana del Vedânta. Ai neofiti e agli iniziati venivano prescritti speciali
esercizi animici da praticare con regolarità. Tutto ciò è sicuramente lontano dall’essere una forma
di materialismo. Semmai il problema era – per spiriti limitati ed intrisi di pregiudizi oscurantisti – il
fatto che gl’Illuminati si richiamassero, come ad un modello ideale, all’antichità classica ellenica e
romana. Suscitava stupore – e terrore – la rievo-cazione da parte loro del mondo dei Misteri egizi ed
eleusini, della disciplina dell’arcano, l’esaltazione del razionalismo spiritualista pitagorico e
platonico, dell’etica eroica in Plutarco e negli stoici, l’ammirazione per le istituzioni repubblicane
romane. Suscitava stupore e timore lo studio e il culto della Natura concepita come vivente
espressione del Divino – bollati dalla parte avversa come «pantei-smo paganeggiante». Accuse di
questo tipo erano state mosse, decenni prima, già nei confronti del principe Raimondo di Sangro,
che con la sua visione del mondo ermetica, alchemica, «egiziana», davvero non avrebbe dovuto
essere accusato d’esser materialista, ma tant’è, il curiale odio teologico poté anche questo!
Naturalmente le stesse accuse, ammassate alla rinfusa, furono riversate poi sulla testa del Gran
Cofto Fondatore del Rito Egiziano. Infine, suscitava orrore e massima avversione la volontà
dell’Ordine degli Illuminati di educare i propri adepti, attraverso una sagace prope-deutica, a
poggiare energicamente sulle proprie forze, a demolire coraggiosamente in se stessi ogni
pregiudizio ed ogni dogma irra-zionale, a non accettare d’inchinarsi, tementi e riverenti, ad una
«autorità» esigente passiva dipendenza basata su una fede cieca o su un’inerte ed esangue
«tradizione», ad incitare i propri seguaci a realizzare coscientemente una «filosofia della libertà». In
un secondo tempo, l’azione dell’Ordine tendeva a realizzare una rivoluzione radicale, attuata del
tutto pacificamente attraverso l’azione educatrice dei propri adepti: rivoluzione trasformatrice
degl’individui, della società civile, dello Stato, attraverso la diffusione della cultura, del sapere
scientifico, della riflessione filosofica.
In effetti, è difficile far passare per ateo e materialista un peda-gogista «illuminato» come
Heinrich Johann Pestalozzi (il cui nomen nell’Ordine era Alfredo), oppure ardenti spiritualisti – e
occultisti – «illuminati» come Franz von Baader o il von Eckhar-thausen. Temerario è il tentare di
spacciare per ateo e materialista un Mozart, anch’egli «illuminato», o il suo maestro e amico Ignaz
von Born (Furio Camillo nell’Ordine), scienziato e filosofo, nonché erudito ed appassionato studioso
dei Misteri Egizi. E molti pensano che nella figura di Sarastro, nell’«egiziano» Flauto Magico di
Mozart, sia stata in qualche modo con-fusa la figura di Ignaz von Born con quella di Cagliostro. Che
poi l’Ordine degli Illuminati fosse violentemente sovversivo è difficile crederlo incontrando tra le
loro file nomi quali quello del Granduca di Weimar, Carlo Augusto (Eschilo), o il duca di Sassonia-
Gotha Ernesto II (Timoleone) e suo fratello Augusto, o infine personalità come lo stesso Goethe
(Abaris), Herder (Damasus Pontifex), e la lista potrebbe continuare.
Fuori della cattolicissima e arretrata Baviera, ossia negli stati tedeschi protestanti, non vi furono
persecuzioni contro gl’Illumina-ti. E il fratello Timoleone dette, generosamente, ad Adam
Weishaupt, a Gotha, ospitalità a Corte, protezione, impiego sino alla fine della sua vita.
Cagliostro incontrò a Trento Alessandro Massimiliano Savioli, nobile bolognese, fratello minore
del senatore massone Ludovico Savioli, e massone anche lui. Sin dall’adolescenza egli si era
stabilito a Monaco, ove entrò nell’Ordine col nomen di Bruto e andando ad abitare col suo grande
amico Franz von Baader (Celso), medico di corte e professore di storia naturale alla locale
università. I due divennero famosi a Monaco in quanto installarono sul tetto della loro casa il primo
parafulmine della città. Alessandro Savioli, membro dell’Accademia Bavarese delle Scienze ed alto
funzionario di corte, divenne presto per le sue capacità uno dei capi dell’Ordine, in diretto contatto
col Weishaupt (Spartaco). Nel 1785 venne espulso dalla Baviera, senza processo e senza potersi
difendere. Si stabilì in Trentino, alternandosi fra il capoluogo Trento e Rovereto. Ebbe, quindi, modo
di conoscere bene Cagliostro e i loro rapporti furono stretti e cordiali, secondo la stessa
testimonianza resa da Serafina Feliciani al tribunale romano della Santa Inquisizione.
Alessandro Savioli dimostrò vasti interessi culturali, sociali e politici, e, tornato forzatamente in
Italia, dopo decenni di permanenza in Germania, non rimase inattivo: assieme al suo amico
Costanzo di Costanzo, dell’Aquila, (nomen nell’Ordine: Diomede), anche lui espulso dalla Baviera,
decise di dar vita all’illuminatismo in Italia. In modo particolare l’azione del di Costanzo porterà alla
formazione a Napoli di una loggia «illuminata» col sacerdote Gaetano Carrascal, Emanuele
Mastelloni, Francesco Maria Pagano (Ja-nus Baptista La Porta), Donato Tommasi (Pontanus),
Giuseppe Zurlo, Nicola Pacifico (Franciscus Patricius) ed un ignoto Syrianus: saranno tutti martiri
della Repubblica Napoletana. Oltre che «illuminati» essi erano anche membri della loggia
«egiziana» Perfetta Unione, così come i «fratelli» Pasquale Baffi e Domenico Cirillo.
Durante il periodo rivoluzionario e napoleonico Alessandro Savioli sarà il fondatore della società
segreta dei «Raggi» o Società Platonica , con un intransigente programma di unità politica e
d’indipendenza dell’Italia da ogni influenza straniera e quindi in rotta di collisione anche col potere
bonapartista francese in Italia.
Alessandro Savioli presentò Cagliostro, in viaggio verso Roma, a suo fratello Ludovico, massone e
senatore, e pure su questo punto esiste la testimonianza processuale di Serafina Feliciani. Anche
Ludovico Savioli appartenne all’Ordine degli Illuminati.
Altra personalità incontrata da Cagliostro in Emilia fu il conte Bartolomeo Francesco Valdrighi, di
Carpineti, massone della loggia I Sollecitatori della Virtù. Gl’illuminati bolognesi erano già da tempo
in contatto con Marco Carburi e la sua cerchia padovana e veneziana con indirizzo illuminato ed
«egiziano». Una personalità interessante, attiva a Bologna, fu il massone modenese Giuseppe
Carandini, ufficiale del Genio e cartografo, membro della loggia Gli Amici dell’Onore sotto i
francesi: un membro della sua famiglia scrisse una lettera «A Cagliostro e alla setta degli
Illuminati». Da ricerche personali fatte, risulta che Cagliostro operò a Bologna una «trasmissione»
di sapienza occulta a particolari persone, le quali a loro volta trasmisero il legato occulto e
«magico» ricevuto lungo una via familiare che in qualche modo si perpetuò nel tempo.
Infine, un’ultima personalità di rilievo che visitò Cagliostro nel suo periodo trentino fu il conte
romano Carlo Gastone Rezzonico della Torre, affiliato alla loggia di Cremona e iscritto alla loggia
lionese La Parfaite Amitié ove sicuramente gli fu parlato del Gran Cofto. Lo incontrerà anche a
Roma e pagherà cara una tale amicizia: coinvolto nel processo di Cagliostro, verrà destituito da ogni
incarico alla corte di Parma, dovrà fuggire a Napoli dove morirà nel 1796 assistito dal fratello
«egiziano» Domenico Cirillo.

***

A determinare la partenza di Cagliostro da Trento fu soprattutto l’intervento diretto del governo


di Vienna sul principe-vescovo. Un tale intervento fu sicuramente uno dei risultati della politica
messa in atto dalla Corte di Francia allo scopo di «braccare» il Gran Cofto ovunque, metodicamente
e spietatamente, facendo pressioni sui governi dei vari paesi, ove egli intendesse stabilirsi
temporaneamente o definitivamente, col fine di provocare la sua completa rovina, la sua cacciata, o
peggio. Eppure molti sono i segni del fatto che la sua azione in Trentino fu vasta e la sua risonanza
profonda, ancora anni dopo la sua partenza. La stessa Renata Targhetta, pur aspramente critica nei
confronti di Cagliostro, nel suo articolo Per la massoneria trentina settecentesca, compreso nel libro
collettaneo pubblicato a cura di Zeffiro Ciuffoletti, La massoneria e le forme della sociabilità
nell’Europa del Settecento, ne il Vieussieux, Firenze, Anno IV, n. 11, maggio-agosto 1991, pp. 136-
137, deve riconoscere:

«Certo è che anche nel Trentino (il 6 settembre 1788 è a Rovereto, un mese e mezzo dopo,
il 21 ottobre, a Trento) la sua fama fu vastis-sima, dilagante, accentratrice. Al mago, al
taumaturgo, divinatore, massone, non rimasero insensibili i nobili (i conti di Lodrone,
Giangiacomo Cresseri, Martino Klotz, Matteo di Thunn, Giuseppe Festi, solo per fare
qualche nome), ecclesiastici (il canonico Manci, lo stesso vescovo Vigilio di Thunn,
subendone il fascino, o forse rapito dalla bellezza della di lui moglie, Lorenza Feliciani, gli
aveva accordato la sua protezione), borghesi (il medico Bacca, il farmacista Bommer, il
consigliere Lutti, Francesco Gummer e per sconfinare oltre il principato, Giacomo Schioppo,
Silvia Curtoni Verza), infine vari pove-racci, uomini ingenui, malati sciocchi.
A Trento Cagliostro avrebbe desiderato intrattenersi tutto l’inverno, non fu così.
«Le cose precipitano» annota il Tovazzi nel gennaio, poi, a febbraio, Cagliostro «è
abbandonato da tutti», solo un padre somasco sembra essergli fedele, di qui il ritorno a
Roma, l’arresto, il processo, la follia, la morte.
A Trento, anche vario tempo dopo il suo arresto (il 27 dicembre 1789), fra coloro che «lo
stimarono e lo protessero, e favorirono, e trattarono con tanto impegno» il ricordo di
quest’uomo, creduto uno dei veri complici nell’affare della collana, un Illuminato e franco
muratore, uno dei capi della Rivoluzione francese, nonché del giacobinismo romano, era
vivo.
Difficile discernere le varie componenti della sua personalità, arduo definire dove iniziava
il massone e finiva il chiaroveggente e il taumaturgo. Certo è che Cagliostro fondò e diffuse
una nuova setta massonica, cosiddetta di «rito egiziano», nelle cui logge, alle quali erano
ammesse anche le donne, si sperimentavano conoscenze, esoteriche e misticheggianti; una
massoneria dunque che nulla aveva a che vedere con gli obiettivi politici e sociali perseguiti
dagli Illuminati, prima, dai giacobini poi.
L’8 ottobre 1788, a Sacco, si tenne l’inaugurazione della loggia di Cagliostro; ad ospitarla
era la casa di Felice Baroni. Tovazzi accenna alle «nefandità» cui si abbandonarono i fratelli,
Zieger tace, noi sor-ridiamo e ci accontentiamo solo di pochi nomi: oltre a Felice Baroni
Cavalcabò, i Conti Giuseppe Innocente Festi e Giovanni Giusto Todeschi, l’abate Giuseppe
Venturi ed altri cinque veronesi dei quali non sappiamo neppure il nome. Ancora alcune
scarne, troppo scarne notizie sulla loggia di Cagliostro, ce le fornisce Clementino Vannetti:
«Ha novellamente aggregato il Conte A…, esistenti il Conte B…, il Marchese C…, e un certo
D…». E non si accontentò di Rovereto, e diffuse il suo sistema anche a Trento e anche qui si
mise a «spandere l’oro a sgorgo e a ribocco», facendo credere al povero Bacca che fosse oro
ricevuto dalle logge, logge, naturalmente, aderenti al suo ordine e che contavano 60.000
iscritti».

L’articolo di Renata Targhetta contiene alcune imprecisioni, ad esempio la data dell’arrivo di


Cagliostro a Rovereto, arrivo avvenuto il 24 settembre 1788. Questi, per di più, rimase ben oltre
l’inverno a Trento, essendo accertato che partì dalla capitale del principato solo il 17 maggio 1789,
diretto prima a Bologna e poi a Roma. Non era stato affatto abbandonato da tutti, giacché lo stesso
principe-vescovo Vigilio de Thunn volle compromettersi conse-gnandogli lettere commendatizie
oltremodo elogiative della sua persona, lettere dirette a nobili, a prelati vari dello Stato Pontificio.
Per il resto la Targhetta riporta notizie d’un certo interesse e non può vietarsi di esprimere il
proprio stupore per una sì vasta influenza dell’azione di Cagliostro. Le sue prevenzioni nei confronti
del Gran Cofto provengono oltre che dalla sua formazione culturale generale, dall’aver ella attinto
largamente al grosso manoscritto in due volumi del padre Giangrisostomo Tovazzi da Vala-sco, da
questi intitolato Diario secolaresco e monastico, conservato tuttora nel convento di S. Bernardino
dei Frati Minori a Trento. Lo scritto del Tovazzi trasuda di tutta la sua monastica malizia e non si
tira indietro di fronte alla menzogna, alla calunnia più grossolana e sordida, pur d’infamare
Cagliostro e di disinformare lettori e uditori. È lecito dubitare dell’obiettività – e dell’onestà – del
Tovazzi, visto che la stessa Targhetta, che pur lo cita ad ogni piè so-spinto, nella nota 44 a p. 144,
lascia al lettore la scelta di credere o meno alle enormità da lui raccontate circa le «oscene
nefandezze» della loggia di Sacco:

«Cfr. Tovazzi, Diario secolaresco.., cit., pp. 1183-1184. Ancora una volta ci troviamo di
fronte alla storiella della donna curiosa che spia la seduta massonica (Cfr. Targhetta, La
massoneria veneta…, pp. 4344) e ancora non saprei dire se nel registrare «i soci sonosi
baciati il deretano» Tovazzi dimostrasse tutta la sua ingenuità, o se, più furbe-scamente
cercasse di gettare il discredito sulla compagnia».

L’attitudine calunniosa del Tovazzi è dimostrata pure dal seguente passo, riportato dal Petraccone,
nel suo Cagliostro etc., a p. 94:

«Ho inteso – scrive il Pe. Gian C. Tovazzi – che il signor consigliere Festi, infermo in
Roverto, sarebbe morto di già se avesse continuato sotto la cura del Cagliostro che vien
notato di millanteria».

È vero che il «rito egiziano» non aveva obiettivi politici, e che Cagliostro – personalmente – non
fece politica, tuttavia, nell’ultimo decennio del Settecento e durante il periodo napoleonico del
primo quindicennio dell’Ottocento, molti furono i massoni «egiziani» di rango, legati a quella che fu,
da seguaci ed avversari, definita politica «giacobina» (che si rivelò, tuttavia, molto diversa in Italia
da quel che con tale termine veniva denominato in Francia), e moltissimi di quei «giacobini» furono,
al contempo, massoni «egiziani» e «illuminati».
Ma, come abbiam detto, giunse da Vienna un ordine imperiale che rese difficile l’ulteriore
permanenza di Cagliostro a Trento. Infatti, come scrive il Francovich a p. 453:

«Il colpo di grazia giunse con un richiamo ufficiale di Giuseppe II al principe-vescovo, che
da lui dipendeva, visto che il principato di Trento era un feudo imperiale. Il fratello di Maria
Antonietta, avverso ai mistificatori, gli ingiungeva di allontanare dal suo territorio il mago
malfamato».

Lo stesso Francovich ammette, a p. 451, che al suo arrivo Cagliostro era stato accolto bene:
«Preceduto dalla fama che gli stavano creando i seguaci Festi e Cresseri, fu benevolmente accolto
dalle autorità di Trento. Lo stesso vescovo inviò un suo rappresentante a dargli il benvenuto…». E
allorché fu costretto a partire, lo fece lasciandosi nei migliori rapporti col principe-vescovo che gli
fornì lettere di raccomandazione per varie personalità romane. È interessante riportare in extenso
la lettera che Vigilio de Thunn scrisse, già il 25 marzo 1789, al Segretario di Stato cardinale
Boncompagni, il quale rispose col noto laconico biglietto:

«Eminenza,
Per il conseguimento d’un Pontificio salvacondotto, a quiete del conte Cagliostro, scrissi
sotto il 7 del cadente marzo al Signor Cardinal Vicario, trovandomi male informato che fosse
un affare di natural di lui ispezione, ma resone in seguito dall’Ecc. Sua avvertito dell’errore,
ora ve lo correggo chiedendo la predetta grazia dal retto canale di Vostra Eminenza.
Ad effetto di non infastidirla con una prolissa lettera, interamente mi riporto a quanto da
mia parte verrà esposto dalla viva voce dell’Orengo, mio agente, quando le piaccia
accordargli, come ne la supplico, una benigna udienza. Io sono persuasissimo che le mie
ragioni basteranno alla sublime sua penetrazione per impegnarla a proteggere l’istanza e
soltanto le toccherò di volo che in queste si tratta unicamente di acquistare l’animo di un
uomo celebre ravveduto: dovendo al resto ognun convenire che se fu dubbia la fama della di
lui passata vita (della quale qui in parecchi mesi non se ne scorge la menoma cattiva sua
traccia), fu all’incontro certa la di lui innocenza conosciuta e giudicata da un gravissimo e
illuminatissimo suo Tribunale, e che produsse la salvezza dell’illustre Personaggio nello
strepitoso notissimo caso che tanto dové interessare la medesima Santa Sede.
In ultimo non dispiaccia a V.E. di riflettere che la tranquillità e quiete di Cagliostro è
inseparabile da quella della fedele di lui moglie, cittadina di Roma, donna povera, donna che
(prudente, savia e timorata di Dio, com’è di fatto) se ne vive in continui mentali spasmi,
ardendo da un certo canto di costì rivedere il cadente quasi ottuagenario ottimo suo
genitore, e dall’altro temendo che l’intollerante consorte non torni, non esaudito, nel
pristino disordine, con evidente pericolo di perdervi l’anima, non potendo ella ignorare che
dai nemici della SS.ma nostra Fede gli si tessono continue seducentissime insidie onde
smoverlo dal vero sentiero. Ma io abuso delle di lei sofferenze, tratto dall’intima premura di
prestare aiuto ai due miei raccomandati che se ne resero proprio meritevoli nel ben lungo
attuale soggiorno in questo mio dominio. Perciò finisco ricordandomi che sono e sarò
sempre con insuperabile venerazione
di V.E. um. mo, dev.mo, obbl.mo servo + Pietro Vigilio Vescovo di Trento»

Questa lettera, alquanto sbilanciata del principe-vescovo mostra come i rapporti tra lui e
Cagliostro fossero buoni: soltanto dopo l’arresto di quest’ultimo egli prenderà – con curiale
prudenza e tempestivo opportunismo – le distanze da lui, scrivendo alle stesse persone alle quali
mesi prima lo aveva caldamente raccomandato.
Così riferisce il Petraccone, a p. 98: «Perciò munito di varie commendatizie del vescovo per alcune
persone notevoli, tra cui una per il marchese Francesco Ghislieri Calderini di Bologna, Cagliostro si
apparecchiò al suo ultimo viaggio per Roma prendendo affettuoso congedo dagli amici e dal suo
buon protettore, a cui prima di partire pare inviasse un dono». Che la partenza avvenisse,
lasciandosi in buoni rapporti con l’ambiente trentino lo riconosce lo stesso Francovich, a p. 456:

«Il 17 maggio 1789, partì per Bologna diretto a Roma.


Che per Vigilio Thun e per Cagliostro dovesse avere un particolare significato è
dimostrato dal fatto che al momento di partire il Gran Cofto inviò al vescovo un misterioso
biglietto, che cominciava con queste parole: «L’oracolo di Delfi ha parlato. Unisco per il
principe… un oggetto di vetro, valutato 50 zecchini, e una oliera già destinata al re
d’Inghilterra»,

mentre nella nota 16, relativa alla sopra riportata citazione aggiunge:

«La stessa allusione misteriosa si trova in un altro biglietto, scritto il 16 febbraio, al


fedelissimo Giuseppe Festi: «Ecco l’oracolo di Delfi, come mi ha risposto; lascio al di Lei
savio parere e mi sommetto con tutta la stima. Il suo Dev.mo per sempre Alessandro
Cagliostro (cit. da Zieger, Il Tramonto di Cagliostro, Trento, 1970, p. 67)».

Vigilio de Thun, che l’anno prima, poco tempo dopo l’arrivo di Cagliostro, aveva fatto inserire nel
Postiglione di Trento del 21 novembre 1788 un lungo articolo in suo favore, scrisse prima della sua
partenza da Trento, una lettera anche al cardinale Archetti, Le-gato Pontificio a Bologna e al
Ghislieri Calderini. Ma a Bologna Cagliostro non si fermò a lungo.
Appena giunto a Roma, Cagliostro scrisse una lettera nella quale esprime, con profonda umanità,
tutta la sua gratitudine al fedele amico e discepolo Giuseppe Festi, che in maniera costante gli è
stato vicino, sia nel periodo roveretano che in quello passato a Trento. Riproduciamo la lettera con
la sua caratteristica ortografia, ancor più irregolare di quella già incerta dell’italiano settecentesco:

«Carissimo amico
Non ho senzi migliori per esprimervi nel soggiorno che ho fatto nella vostra casa in
Rovereto ed in quotesta di Trento, ma voi che il cielo vi ha dotato di uno spirito penetrante,
potrete conoscermi, degli doveri che mi restano scolpiti nel seno, e perciò meraviglia non è
se vi supplico di gradire i ringraziamenti più sinceri del mio affetto e trattenermi nel numero
degli vostri amici e mettermi alle prove; ma nel tempo stesso vi supplico di essere
l’interprete della mia stima verso S.A. il Principe e il di lui caro fratello ai quali mi dedico
per sempre e restandomi con tutta la stima più perfetta vi abbraccio di cuore, come la mia
cara sposa si unisce a me nel rendevi la cordialità sincera e restandomi per sempre quel che
sono.
Roma li 6 giugno 1789
dev.mo e obb.o servo vostro Alessandro conte di Cagliostro».

Cagliostro era arrivato a Roma pochi giorni prima, il 27 maggio 1789, in una capitale nella quale,
per gli eventi che già cominciavano a montare e a ribollire in Francia, si diffondeva un’atmosfera di
sospetto e di apprensione. Infatti, secondo quanto riporta il Petraccone, a p. 102, mentre: «A Roma
stessa s’incominciava a parlare o meglio a temere d’infiltrazioni liberali e di preparativi massonici»,
l’ambasciatore sardo a Roma, il cavaliere Damiano Priocca, che scriverà a posteriori, ai primi del
1790, riferisce:

«Varie persone anche di senno vanno pensando che non sia cosa indifferente la così
nominata setta degli Illuminati, che credono essere sparsa, ove più, ove meno, in tutti li
paesi e danno per certo esser-vene pure qui molti emissarj venuti specialmente dalla
Germania, sede principale della setta. Anche qui si va osservando una certa tendenza alle
novità che affliggono la Francia».

Il Petraccone dà al capitolo, trattante la permanenza di Cagliostro a Roma prima del processo


intentatogli dal Sant’Uffizio, il titolo significativo di Tragica ora d’ansia, che esprime bene
l’atmosfera circolante nella capitale pontificia, allorché il Gran Cofto decise di farvi permanenza. Il
Petraccone, che come pochi è avverso a Cagliostro, ci fornisce, tuttavia, in proposito notizie e
documenti di notevole rilievo. Così, riportando dispacci di diplomatici che a Roma informavano i
loro superiori, scrive alle pp. 103-104:

«In un momento di calma apparente, ma di un tale effettivo turbamento, Cagliostro arrivò


a Roma, preceduto se non proprio dalle brillanti scorte di una volta, almeno dalla fama delle
sue numerose e non sempre liete avventure, e il suo arrivo, benché egli tentasse di sof-
focarne in ogni modo il rumore, svegliò dappertutto un vivo senso di curiosità e d’interesse.
«Anche il famoso conte di Cagliostro – scriveva il 6 giugno 1789 l’ambasciatore Pietro
Donato al Senato Veneto – è arrivato a Roma con la moglie dicendo di volervi stabilire il suo
domicilio. Quelli che lo hanno veduto si fanno meraviglie che abbia potuto generare così
grande scandalo a Parigi e somministrare lungo argomento di discorso all’Europa. Non
dotato d’avvantaggiosa figura, né di maniere insinuanti, né di estese cognizioni, non si
comprende come gli sia riuscito di rappresentare una tanta commedia».
Cagliostro era giunto a Roma il 27 maggio 1789 ed aveva preso alloggio in una locanda di
Piazza di Spagna detta «alla Scalinata», donde, alcun tempo dopo, andò ad abitare in un
appartamento in Piazza Farnese. Il suo arrivo s’era effettuato, lo abbiamo detto, non in
mezzo a troppi entusiasmi, ma in mezzo a un movimento di curiosità sospet-tosa e
diffidente, nonostante che vi fossero alcuni desiderosi di conoscerlo per udire dalla sua viva
voce il racconto delle sue avventure.
Un altro diplomatico, Lorenzo Prospero Bottini, «agente» della Repubblica di Lucca a
Roma, scriveva in data 6 giugno 1789: «Da Trento, dove ha lungamente soggiornato… è qui
giunto il famoso conte Cagliostro con la moglie romana anzi trasteverina. Da Venezia gli è
stato ingiunto di partire ed aveva chiesto prima di qua trasferirsi un salvo condotto di cui
non ha avuto bisogno, non constando finora d’esser debitore a questo stato pontificio di
alcuna delinquenza. Ac-certasi essere oriundo siciliano e riccamente fornito, senza sapersi, i
suoi fondi e le sue industrie. Ha avuto una lettera commendatizia del Vescovo di Trento
all’Eminentissimo Albani, decano, che nella figura e nell’eloquenza di Cagliostro non ha
saputo rilevare la sua celebrità. Abita in una nobile locanda in Piazza di Spagna, senza dare
fin qui osservazioni sulla sua condotta. Molti son curiosi di vederlo e di sentire dalla sua
bocca (se è possibile) la verificazione delle molte sue avventure». Qualche mese dopo lo
stesso Bottini scriveva al Governo di Lucca: «L’altrove rinomato Cagliostro, che in vari mesi
del suo soggiorno a Roma ha eccitata la curiosità di pochi e l’ammirazione di niu-no, sentesi
per economia abbia lasciato la locanda di Piazza di Spagna ritirandosi nelle vicinanze di
Piazza Farnese presso alcuni parenti della moglie e che sia intenzionato di partire per
Napoli e stabilirvisi».

Il Petraccone non credeva alla possibilità di una partenza di Cagliostro per Napoli. Noi la
riteniamo, invece, verosimile, viste le relazioni anche di rango aristocratico ch’egli aveva laggiù,
soprattutto in ambito massonico. Una conferma la possiamo avere, tra le alte cose, da quel che
scrive Ruggero di Castiglione nella sua opera Alle sorgenti della massoneria, a p. 105 a proposito
dell’ultimo viaggio di Cagliostro a Napoli e circa l’intenzione di ritornarvi:

«Nella città partenopea, il Gran Cofto, «si fermò… un paio di mesi, accolto come
Venerabile nella loggia “Perfetta Unione”» (Carlo Montini, Cagliostro il Grande Cofto,
Genova, Alkaest, 1984, p. 60).
Qui, senza dubbio aveva… fedeli «sorelle e fratelli», perché in una lettera del 12
settembre 1789, monsignor Prospero Bottini affermava che Cagliostro da Roma «… sia
intenzionato di partire in breve per Napoli, e ivi stabilirvisi» (Giovanni Sforza, La fine di
Cagliostro stu-diata nei documenti lucchesi, in Archivio Storico Italiano, Roma, 1981, serie
V, tomo 7, p. 145). Una conferma della veridicità della suddetta informazione proviene da
un’epistola, scritta da una dama napoletana a Cagliostro, che così concludeva: «La
commissione è fatta… tutto è pronto… Gli Eletti sono provati… Sono persone che godono
tutta la mia fiducia, pronti ad affrontare ogni cosa» (la missiva fu inter-cettata – secondo un
rapporto del Ministro di Sardegna a Roma – da un certo Mazin, spia di Maria Carolina,
regina di Napoli. Cfr. Marc Haven (Emmanuel Lalande), op. cit., p. 248, n. 5, e Carlo Gentile,
Il mistero di Cagliostro, Foggia, Bastogi, 1980, p. 174, n. 24).
Chi sono gli «Eletti»? Una supposizione, abbastanza fondata, è che l’appellativo indichi
alcuni membri rosacruciani della «Perfetta Unione».
Forse gli eredi della Rosa d’Ordine Magno?».

La supposizione di Ruggero di Castiglione è più che fondata, visto che all’interno della loggia
Perfetta Unione uno degli Alti Gradi, come si diceva allora, «scozzesi», era proprio quello di Eletto,
ossia il 5° della gerarchia all’epoca di Raimondo di Sangro. Nel periodo da noi considerato, la
Perfetta Unione era retta dal figlio di lui, il principe Vincenzo di Sangro, i cui rapporti con
Cagliostro sono bene accertati, e sotto la cui direzione la loggia desangriana era da tempo divenuta
una loggia «mista», cioè concedeva l’iniziazione muratoria alle donne. Tutto ciò spiega la suddetta
missiva, sia rispetto alla sua autrice femminile, sia per la menzione del grado di Eletto, sia infine
circa la possibilità di un trasferimento di Cagliostro a Napoli. E, secondo chi scrive, fu proprio la
possibilità di una partenza del Gran Cofto per Napoli, ove avrebbe trovato protezione e appoggi tra
la nobiltà partenopea aderente alla libera muratoria, che decise le alte gerarchie della Chiesa a
procedere al suo arresto: temevano ch’egli sfuggisse loro definitivamente! Quanto al milieu ruotante
attorno alla loggia Perfetta Unione, oltre al celebre giurista e pensatore napoletano Gaetano
Filangieri ed ai molti altri gloriosi nomi di «fratelli», Ruggero di Castiglione nomina come «sorelle»:
la duchessa di Castelpagano, la principessa di Mon-temiletto, Anna Spinelli di Belmonte e Eleonora
Pimentel marchesa de’ Fonseca, e ribadisce la natura «mista» della suddetta loggia. Cita anche
l’erudito storico massone Pericle Maruzzi, che nella sua opera, Il Vangelo di Cagliostro, Roma,
Atanòr, 1914, p. 73, scrive: «… la massoneria Cagliostriana… ammetteva anche delle donne nei
propri Templi e per le quali vi era un insegnamento particolare diviso in 3 gradi: Apprendista,
Compagna, Maestra».
A Roma operava da tempo, in condizioni di clandestinità, una loggia massonica, facente capo al
Grande Oriente di Francia, fondata il 6 novembre 1787 dal pittore francese Augustin-Louis Belle,
loggia cui faceva riferimento la locale comunità massonica francese. Le riunioni di questa officina
clandestina, il cui nome di loggia era La Réunion des Amis Sincères, erano frequenti: secondo
l’Inquisizione romana nel novembre del 1787 si erano tenute anche due o tre «tornate» a settimana!
Gli Amici Sinceri presero contatto con Cagliostro. Quando vi furono gli arresti, un massone come
Augustin Belle dovette, durante gl’interrogatori, spinte o sponte, rinne-gare l’amicizia con il Gran
Cofto, ma i rapporti dovevano essere stretti e cordiali se Giuseppe Quatriglio, curando per l’Editore
Mursia la ripubblicazione dell’infame Compendio di Mons. Barbéri, Milano, 1973, riproduce a colori
in sovracopertina, e in bianco e nero in un’illustrazione fuori testo, un ritratto, invero pregevole, di
Cagliostro, eseguito dal pittore francese. Sotto l’illustrazione in bianco e nero, il Quatriglio pone le
seguenti parole esplicative:

«Cagliostro in un inedito dipinto ad olio custodito a Palermo nella sede della Società
Siciliana per la Storia Patria. Venne eseguito nel 1789 dal pittore francese Augustin-Louis
Belle, il cui studio Cagliostro frequentò assiduamente prima dell’arresto: è quindi l’ultimo
ritratto dell’avventuriero. L’opera fu donata nel 1950 all’Ente Cultura-le Siciliano dallo
studioso prof. Odoardo Coppoler Orlando, che l’aveva acquistata una ventina d’anni prima
da un collezionista straniero residente a Roma ».
Ora, a noi sembra che l’aver eseguito un tale ritratto sia segno certo di stretta e cementata
amicizia, e quel che vale per il Belle vale anche per altri «fratelli» della loggia Les Amis Sincères. In
quel periodo era maestro venerabile della medesima il balì Charles-Abel de Loras, cavaliere di
Malta, che era venuto a Roma con l’intenzione di succedere al barone di Bretteville nella carica di
rappresentante dell’Ordine presso la Santa Sede. Che i suoi rapporti col Gran Cofto fossero ottimi lo
sappiamo già dal fatto che il balì de Loras chiese a Cagliostro di intervenire sul cardinale di Rohan,
perché questi a sua volta facesse pressioni sul Gran Maestro dell’Ordine di Malta Emmanuel de
Rohan, allo scopo di fargli ottenere la suddetta carica.
La Dalbian ci fornisce a proposito, di lui e della sua permanenza a Roma, preziose informazioni.
Infatti scrive alle pp. 251 e sgg.:

«Il balì de Loras esercitava alte funzioni a Malta ed era legatissimo al Gran Maestro. Al
ritorno da Napoli – ove egli aveva incontrato per la prima volta Cagliostro nel 1783 – era
stato nominato, nel maggio 1784, capo della segreteria di Francia al palazzo magistrale de
La Valletta… Inoltre, si era appena messo in testa di ottenere il posto d’ambasciatore di
Malta presso la Santa Sede, e il Gran Maestro Emmanuel de Rohan aveva scritto
direttamente al Papa in suo favore. Ma – egli ignorava ciò – Pio VI nutriva nei suoi riguardi
forti prevenzioni e sosteneva, dietro le quinte il suo concorrente, il principe Camille de
Rohan. In effetti, il balì de Loras era stato debitamente classificato come frammassone dalla
polizia romana, nel corso di un’inchiesta condotta nell’ombra, nel 1785. È in quell’epoca che
il conte di Kollowrat, appartenente ad una potente famiglia di Boemia, aveva creato a La
Valletta la loggia degli Illuminati. Il Gran Maestro Emmanuel de Rohan, incline ad un’ampia
tolleranza, avrebbe preferito chiudere gli occhi. Ma il Grande Inquisitore, per potergli
forzare la mano ed ottenere la dissoluzione di quella loggia aveva cercato di ottenere
flagranti prove di quell’attività massonica e fatto aprire alla posta di Roma tutte le lettere
provenienti da Malta. La pesca era stata fruttuosa poiché la loggia maltese intratteneva
rapporti epistolari con un gran numero di logge italiane e straniere. E siccome era il balì de
Loras che era stato incaricato di tale corrispondenza, la sua firma era stata una di quelle
che gli sbirri di Roma avevano trovato più spesso dissigillando quelle «tavole»… E così,
anche se il balì de Loras aveva alte relazioni nella società romana e frequentava
assiduamente l’ambasciata di Francia, ove il cardinale de Bernis l’invitava a cena una volta
a settimana, in effetti, la sua amicizia era piuttosto compromettente per Cagliostro.
Pieno di buona volontà, il balì de Loras scrisse al Gran Maestro Emmanuel de Rohan una
lettera in favore di Cagliostro. Pur qualifi-candolo di «ciarlatano», egli si mostra così
persuaso dei suoi talenti da stimare che la sua proposta potrebbe rappresentare la soluzione
ideale per Cagliostro, ma anche essere utile all’Ordine – le cui finanze lasciavano molto a
desiderare».

Prima di proseguire con l’interessante storia raccontata da Dényse Dalbian, vogliamo ricordare
che il balì de Loras era massone membro della loggia maltese Saint-Jean d’Écosse de l’Harmonie et
du Secret, di cui avevano fatto parte sia il cavaliere Luigi d’Aquino che lo stesso Cagliostro. Questa
loggia era stata rifondata dal cavaliere di Malta, conte Johann Karl Kolowrat-Krakowski, membro in-
fluente di una loggia a Praga e «illuminato» (col nomen di Nume-rio), amico del bolognese
Alessandro Savioli. Ed ecco il testo della lettera che Charles-Abel de Loras inviò al suo Gran
Maestro. In essa, egli ha la debolezza di definire «ciarlatano» il Gran Cofto, forse per non esporsi
troppo. Inoltre stupisce alquanto come egli parli al suo Sovrano del tutto liberamente di cose
massoniche, il che sta a significare che la cosa era ben accetta al Gran Maestro e che i legami
dell’Ordine con Cagliostro erano antichi e saldi.

«Roma, li 16 giugno 1789


Monsignore,
Abbiamo da qualche giorno il celebre Cagliostro. Questo famoso ciarlatano che ha stupito
l’Europa con i suoi segreti e soprattutto per il talento di fare molte spese e molto del bene
senza essere a carico di nessuno e senza essersi mai fatto pagare. Ho rinnovato la
conoscenza con lui e lo vedo con abbastanza familiarità per esser sicuro di trarre da lui
confidenze ch’egli rifiuterebbe ad ogni altro. Oltre alle sue conoscenze chimiche che sono la
base della sua dottrina, egli è frammassone di ogni grado e in modo particolare fondatore
d’un regime depositario di tutti i suoi segreti. La loggia principale di questo sistema è a
Lione. Essa intrattiene un’ospitalità considerevole, spande aiuti essenziali alle fabbriche e
fornisce a ognuno dei suoi membri anziani un’onestissima pensione con il solo prodotto del
suo lavoro. Quest’uomo straordinario, stanco della sua vita vagabonda e persuaso dalle mie
insinuazioni si determinerebbe a finire i suoi giorni a Malta se Vostra Altezza Eminentissima
si degnasse di promettergli asilo libero e la protezione del suo governo senza alcuna spesa
di qualsivoglia natura possa essere… Questa mi è sembrata onesta e suscettibile di
procurare una qualche utilità, a mezzo della quale mi sono incaricato con premura di
presentarvela in Segreto supplicandovi di darmi ordini.
Sono con il più profondo rispetto, Monsignore, di Vostra Altezza Eminentissima umilissimo,
obbedientissimo servitore e sottomesso religioso».

Ma nei mesi successivi, gli eventi precipitarono ed impedirono qualsiasi spostamento di


Cagliostro, sia a Napoli, sia a Malta, sia in Francia, ai cui Stati Generali egli aveva rivolto una
petizione per potervi ritornare liberamente. Tuttavia la lettera mostra quanto il balì de Loras fosse
in stretta amicizia col Gran Cofto. E attraverso lui entrò in stretti rapporti con i «fratelli» della
loggia romana che il balì, con accorta direzione, aveva reso attiva e prestigiosa. Sul-l’attività
massonica a Roma del balì de Loras c’informa in maniera precisa il Francovich, alle pp. 458 e segg.:

«Appena il de Loras fu ammesso alla loggia romana, venne nominato venerabile,


succedendo al Belle. Sotto il suo maestrato la loggia incrementò la sua attività, dovuta al
suo impegno personale, ma anche al fatto che le logge degli altri Stati italiani, perseguitate
dai governi, erano in una condizione di crisi e di disfacimento. L’ordinato ed attivo lavoro
della loggia romana, mentre tutte le altre chiudevano i battenti, le conferì un notevole
prestigio.
I primi a entrare in contatto con «La Réunion des Amis Sincères» ed a chiedere di creare
un rapporto di fraterna corrispondenza furono i venerabili delle logge napoletane: il
principe di Sansevero – figlio di Raimondo di Sangro – che millantava il titolo di Gran
Maestro «della primaria loggia di Napoli»; quindi fu la volta del «fratello» Houchard,
venerabile della loggia di lingua francese «L’Amitié». Infine si fece vivo il Gran Maestro delle
logge inglesi, il duca di San Demetrio… Non-ostante questa situazione la loggia romana
continuò a svolgere regolarmente la propria attività, divenendo così il centro latomistico
della vita italiana.
Da ogni parte i liberi muratori si rivolgevano alla loggia del de Loras, per farsi riconoscere
ufficialmente o addirittura per farsi iniziare».

In questo caso, si può proprio affermare che il Francovich dice cose, per noi, di estremo interesse,
il cui significato e la cui portata egli assolutamente non intende. Il nome di Vincenzo di Sangro è
significativo segnale dei rapporti stretti di rappresentanti della massoneria «egiziana», amici di
Cagliostro, con la loggia romana diretta dal Loras. Alcuni nomi di affiliati e corrispondenti sono da
lui semplicemente elencati, senza che essi per lui abbiano un particolare rilievo. Ma, oltre a
numerosi Cavalieri dell’Ordine di Malta – tra i quali il massone «illuminato» Kolowrat-Krakowski – o
a cappellani dell’ Ordine come il maltese Onorato Brest, il ritrovare «fratelli» della Perfetta Unione
come Nicola Palomba, o Camillo Cattaneo, maestro scozzese della medesima loggia «egiziana»,
nonché lo stesso Vincenzo di Sangro, la dice lunga sui rapporti della loggia romana con lo stesso
Cagliostro. Il caso del maestro scozzese Camillo Cattaneo è eloquente. Il suo nome completo era
Camillo Cattaneo della Volta, dei marchesi di Montascaglioso. Ebbe lunga vita essendo nato il 1°
ottobre 1750 e morto il 27 marzo 1834. Ecclesiastico, giunse ad essere vescovo di Acerenza e di
Matera. Si espose mantenendo personalmente i contatti tra la Perfetta Unione e la loggia romana.
La sua famiglia era imparentata con i Cattaneo dei principi di Sannicandro, amici d’antica data dei
Sansevero. Infine, nella lista dei membri della loggia romana troviamo il musicista Giuseppe
Ricciarelli, che era stato iniziato a Londra assieme a Cagliostro, nel 1777, nella loggia «scozzese»
L’Espérance, uno dei pochi testimoni al processo, che cercasse di aiutare Cagliostro, rendendo con
la propria testimonianza meno pesante la sua posizione.
Evidentemente, la Curia Romana ritenne talmente grave la situazione e, soprattutto talmente
urgente, da decidere di procedere all’arresto del Gran Cofto. Lo strumento usato per giungere
all’arresto fu la confessione-denuncia della moglie Serafina, il cui tradimento è patente. Cagliostro
venne incolpato davanti al tribunale inquisitoriale del Sant’Uffizio come «istitutore e propagatore
della setta dei muratori» e in quanto «dommatizzante edocente proposizioni ereticali».
Il Photiadès, a p. 391 della sua opera, scrive:

«La domenica mattina del 27 dicembre 1789, alla fine della messa, il Santo Padre andò di
persona dal cardinale segretario di Stato. Là, sotto la sua effettiva presidenza ebbe luogo un
importante consiglio al quale assistevano, insieme al cardinale Zelada, segretario di Stato, i
cardinali Antonelli, prefetto della Propaganda, Pallotta, prefetto del Consiglio, e Campanelli,
prodatario. La faccenda fu trattata come un vero affare di Stato. Dopo questa deliberazione,
monsignor Rinuccini governatore di Roma, ricevette l’ordine di arrestare immediatamente il
conte di Cagliostro ed il padre cappuccino Francesco-Giuseppe; di condurre Lorenza-
Serafina in un convento e di fare una perquisizione molto accurata nello studio del pittore
francese Augustin-Louis Belle».

Per fortuna, tutto il materiale della loggia romana era stato portato in salvo da tempo
all’Accademia di Francia, per cui non furono trovati né emblemi rituali massonici, né verbali, né
elenchi dei «fratelli». Molti, invece, si sono stupiti – e tra loro lo stesso autore dell’infame
Compendio, Mons. Giovanni Barbéri – del fatto che Cagliostro, pur ben sapendo di correre grandi
pericoli in un Roma dominata dalla occhiuta e gelosa vigilanza curiale, non abbia voluto prendere
nessuna precauzione. Sicuramente, egli stesso non contava troppo né sulle lettere commendatizie
del principe-vescovo di Trento, né sulla lettera del cardinale Boncompagni che affermava non avere
egli negli stati della Chiesa alcun pregiudizio, nessuna pendenza contro di lui. Sapeva bene che per
la Chiesa «pacta cum haereticis non sunt servanda», ovverosia che, come nel caso di Giovanni Hus e
di altri, nessun patto o promessa di salvacondotto lo avrebbe mai salvato da una Curia che non
riteneva disonorevo-le, bensì doveroso, non rispettare tali patti e promesse con chi da lei fosse
bollato come eretico. Tutto ciò, ripetiamo, Cagliostro lo sapeva bene, ma non prese lo stesso
nessuna precauzione. Ci sono sembrate interessanti le considerazioni svolte da Antonio Radosti, nel
suo saggio Cagliostro, apparso in edizione privata a Firenze nel 1990, ove, dopo aver enunciate le
alquanto dubbie affermazioni del Barbéri sulle motivazioni della venuta a Roma del Gran Cofto,
afferma alle pp. 103 e segg. :

«L’autore del Compendio ci propina questa sua personale convinzione (e non sappiamo
quanto in buona fede), per cui il Balsamo si sarebbe portato in Roma. Ma codesti motivi a
me sembrano insufficienti a convincere qualcuno. Poiché penso: come poteva il Balsamo
lasciarsi abbagliare dagli allettamenti di sua moglie, della quale ben conosceva il cattivo
carattere e la tendenza al tradimento?
I vantaggi, che essa e i di lei complici gli rappresentavano, potevano bensì fare in lui
qualche breccia ed allettarlo, ma per contro, con la prospettiva degli svantaggi e rischi ai
quali andava incontro nella capitale del cristianesimo (come prigionia e morte), doveva
certamente distogliersi da questo ritorno. Poteva forse Cagliostro confida-re nella
protezione di alcuni personaggi se ben sapeva, come uomo na-vigato, che tutte le
commendatizie del mondo non salvebbero mai un apostata dal potente vortice della Santa
Inquisizione?
Ovvero avrebbe per lungo tempo potuto scansare tanti «scogli» pericolosi, e nel frattempo
trarre considerevoli vantaggi dalla sua professione massonica minacciata da severissime
pene, e ciò appunto sotto gli occhi del Sant’Uffizio? Ed infine poteva sperare che in Roma di
nascosto dal Sant’Uffizio avrebbe potuto propagare le massime della sua massoneria?
Poteva non riflettere che la centocchiuta Santa Inquisizione avrebbe spiato ogni mossa sin
dal suo primo apparire in Roma?
Sebbene le scienze e la religione vengano negate al Balsamo, si dovrà accordargli il senso
comune, che risponde con un secco e deciso no a tutti gli interrogativi esposti sopra.
Pertanto concludiamo che l’autore del Compendio, sopra questo punto rilevante della
storia, ci resta debitore di un più circostanziato racconto, di una più particolareggiata
esposizione, tuttavia, essendo impossibile tracciare un profilo di Cagliostro, senza fare i
conti con il Compendio, siamo costretti a seguire le assertive di quest’ultimo. Purtroppo al
primo passo si incontrano nuovi dubbi.
Dice l’autore del Compendio: «Vedeva nella vigilante sollecitudine del Principe che ci
governa un oggetto, che gli era d’afflizione e di terrore».
Ci narra ancora il nostro autore che Cagliostro aveva «…tanto poco guadagnato, che si
trovava in un’assoluta mancanza di denaro, o la rimembranza de’ suoi misfatti, specialmente
in materia di Fede, era sempre un verme che gli rodeva l’animo, e lo teneva in agitazione:
circostanze tutte che gli eccitarono il pensiero di mutare cielo. Sin da molti giorni innanzi
alla sua cattura vi era chi lo rese avvertito dell’idea della Sacra Inquisizione. In appresso gli
rinnovò anche più seriamente l’avviso».
Che fece il Balsamo dopo tutte queste così pressanti ragioni per allontanarsi da Roma?
Per risposta io continuo a ripetere ancora le stesse parole dell’autore del Compendio:
«Ciò nonostante Cagliostro non si muove, non fugge, non disperde, non occulta le molte
carte, e li molti monumenti, e han servito poi per rendere innegabili e dimostrati li suoi
misfatti».
Si è mai intesa sotto il sole, o vista in televisione, o letta nei romanzi, cosa più assurda, ed
al buon senso più ripugnante di questa?
Balsamo, chiamato dal biografo del Sant’Uffizio un fino furfante, un impostore che non ha
pari, un furbo di tre cotte che scampò la ga-lera di mezza Europa, ora questo uomo va a
Roma, allorché tutte le circostanze lo urtano ad andarsene, egli neppure si muove per fug-
girsene allorché viene avvisato dell’imminente sua cattura, in aggiunta per completare la
misura dei suoi propositi e della sua pazzia neppure disperde, né nasconde o brucia i
documenti e le carte che contro di lui testimoniavano.
Il processo di Roma rivela che Cagliostro fu avvertito 45 giorni prima da Giuseppe Ferretti
(capo della dogana dello Studio), che l’avviso gli fu rinnovato pochi giorni prima del suo
arresto, e che da tempo era al corrente della denuncia della moglie. Ma perché, perché mai
trascurò tutto ciò? Quale connessione e conformità si trova in queste azioni, se non quanto
sciocco e discrepante è il carattere del Balsamo dal carattere e dal giudizio di ogni altro
essere umano?
Su di ciò l’autore del Compendio non ci dà nessuno schiarimento, e tuttavia pretende che
dobbiamo avergli fede».
Il Radosti, in effetti, non si spiega la cosa, ed invero essa è realmente paradossale per la mera
pragmatica «logica» umana. Vi è, in tanta tragedia, come il senso di un essere interiore, talmente
intan-gibile a livello spirituale, da poter assistere immobile – quasi indifferente – allo svolgersi di
eventi di destino, come se si trattasse del destino di un estraneo: qualcosa che assomiglia al gai
saber o alla gaia scienza, per amor della quale i perfetti catari affrontavano lie-tamente il rogo
consci che il fuoco non avrebbe fatto loro del male. Un «sacrificio» nel senso etimologico e arcaico
del termine, o una sorta di endura… Un amico molto sapiente, al quale comuni-cavo tali pensieri da
me maturati nel corso di queste lunghe ricerche, mi dette questa illuminante, e al contempo
sibillina, risposta: «Cagliostro era poco umano», alludendo all’elevatezza trascen-dente dal suo
essere interiore.
Non entreremo nelle vicende del Processo, la cui sentenza di condanna era stata scritta in
anticipo. Diremo soltanto che il 3 dicembre 1789, il papa Pio VI affidò le carte dell’inchiesta al
Tribunale del Sant’Uffizio. L’assessore preposto il 16 dicembre chiese l’arresto del Gran Cofto. Il
Pontefice l’accordò il 27 dicembre, a spregio del fatto che tale giorno, S. Giovanni Evangelista o S.
Giovanni d’inverno, era una festa sacra nel Rito Egiziano di Cagliostro. Quali garanzie potesse dare
ad un imputato un processo dinanzi al Sant’Uffizio, nel quale l’imputato non aveva testimoni a
discarico, non veniva messo a confronto con i testimoni a lui ostili, non poteva conoscere o
esaminare le prove a suo carico, lo si può dedur-re agevolmente leggendo il giuramento imposto ai
difensori Ber-nardini e Costantini che riportiamo integralmente. Tale giuramento suona così:

«Io avvocato concistoriale, chiamato innanzi al Padre Commissario Generale della Santa e
romana Inquisizione, dopo aver toccato con le mani il sacrosanto Vangelo di Dio, postomi
innanzi, giuro e prometto di accettare il patrocinio affidatomi dal nostro devotissimo papa
Pio VI a favore di Giuseppe Balsamo, inquisito e carcerato per motivi di cui è detto negli Atti
del Sant’Uffizio, di mantenere con fedeltà e di esercitare la mia opera con sincerità e buona
fede al solo scopo di fare ammettere le sue colpe e di farlo rinsavire, benché io riconosca di
essere ingiusta la difesa del denunziato». (N.d.C.: il rilievo è nostro).

È evidente che in tali condizioni, la partita è perduta in partenza, e che il processo è soltanto, sul
piano legale, una formalità e, su quello sostanziale, ha lo scopo di distruggere la personalità
dell’imputato. Non entreremo – per adesso e in questa sede – nelle dolorose vicende del processo e
non descriveremo gli orrori della detenzione al forte di San Leo. Ci limiteremo ad osservare con
Antonio Bortolotti, dal suo Cagliostro a S. Leo, Mediamix, Ascoli Pice-no, 1995, p. 17, che:

«Cagliostro visse più di 4 anni di segregazione in una cella larga 2,50 m e alta 3 m, alla
quale si accedeva dall’alto.
Da un pertugio, protetto da triplice inferriata, ma senza vetri, poteva scorgere la Chiesa
parrocchiale e il cimitero. Secondo gli auspici dei carcerieri questa visione, certamente
ossessiva, avrebbe dovuto in-durlo al pentimento. In questa cella angusta Cagliostro dovette
sen-zaltro soffrire molto il freddo anche a causa delle temperature record che, secondo la
stampa dell’epoca, raggiunsero i 20 gradi sotto zero».

Sul processo e sull’orrore della detenzione di Cagliostro a San Leo – fame, freddo, ceppi e catene,
bastonature periodiche e altre angherie – taceremo, per il momento. Vogliamo piuttosto affrontare
la questione del destino di alcune persone che su di lui infierirono, volendo accanitamente la sua
caduta, la sua rovina, la sua morte. Persone alle quali Cagliostro nulla aveva fatto di male. Dal testo
di Marc Haven, sappiamo cosa accadde a coloro che nel suo primo soggiorno londinese, nel 1777,
tessero la trama che avrebbe dovuto perderlo: molti di loro morti o condannati a pene infa-manti.
Alcuni si salvarono dalla forca proprio perché Cagliostro volle, perdonandoli, ritirare la denuncia
contro di loro. Ma cosa accadde di coloro che per dieci lunghi anni – dall’arresto a Parigi nel 1785,
alla sua morte nel 1795 – infierirono con gelido e metodico livore, tentando di sporcare e
distruggere ogni aspetto della sua vita? Giuseppe Quatriglio, un po’ canzonando quelli che chiama
«apologeti del Conte Cagliostro», riporta, come curiosità storica, quello che denomina «un giuoco
del destino denso di implicazioni». A p. 19 dell’introduzione alla sua riedizione dell’infame
Compendio del Barbéri, scrive:

«La lista dei nemici di Cagliostro puniti dal destino messa insieme degli apologeti
dell’avventuriero non è certo breve. Luigi XVI e Maria Antonietta, i reali di Francia che dopo
l’assoluzione di Cagliostro gli scatenarono contro i loro agenti, morirono entrambi
ghigliottina-ti nell’inferno della rivoluzione. La contessa de la Motte, responsabile primaria
del clamoroso scandalo della collana e accusatrice di Cagliostro una volta tanto innocente,
dopo essere stata marcata in pubblico con un ferro rovente e rinchiusa in carcere per
scontarvi l’erga-stolo, riuscì a fuggire a Londra, ma fu trovata una mattina con la testa
fracassata sotto le finestre della sua stanza. Nemmeno PioVI ebbe certamente una vita
tranquilla: travolto dagli avvenimenti di Francia, fu fatto prigioniero e morì in esilio. E per
ironia della sorte, lui che avrebbe ben volentieri associato il suo nome soltanto all’impresa
del pro-sciugamento delle paludi pontine, è più noto per aver condannato Cagliostro.
Anche il fiscale Giovanni Barbéri, il funzionario di ferro che si comportò con
l’intransigenza del crociato nei riguardi dell’avventuriero, conobbe il rigore di Castel
Sant’Angelo e l’umiliazione della condanna a morte, proprio come Cagliostro.
Sono coincidenze, più seducenti che inquietanti, che aiutano a per-petrare la leggenda di
Cagliostro e rendono attuale ogni ulteriore discorso sulle sue gesta».

È vero che M.me de la Motte, accusatrice spietata dell’innocente Cagliostro, si gettò, o fu gettata,
secondo altri, nel corso di un’in-nominabile orgia, dalla finestra, a Londra, fracassandosi la testa sul
selciato. Era il 1791.
Il libellista Théveneau de Morande, che la caduta della Monarchia aveva trascinato nel proprio
fango, secondo le ricerche del Radosti, a p. 108 del suo Cagliostro, ritornato in completa miseria al
paese paterno, «fu ucciso da un pazzo con un colpo di pistola alla testa, nella piazza principale di
Arnay-le-Duc (1803)».
Il cardinale Francesco Saverio de Zelada, segretario di Stato, principale regista del processo
contro Cagliostro, nel 1796 rinun-ziò alla prestigiosa carica alla Segreteria di Stato – evento mai
prima verificatosi –, accettò di vivere in disparte come Bibliotecario Vaticano e morì a Roma il 19
dicembre 1801.
Dobbiamo alle ricerche di Giuseppe Quatriglio la conoscenza dell’identità di Monsignor Giovanni
Barbéri: sappiamo che era un laico, sposato, fedele funzionario d’acciaio dello Stato Pontificio, nato
il 10 dicembre 1748. Dopo la condanna di Cagliostro, egli fu coinvolto nell’assassinio del legato
francese Ugo di Bassville in occasione della sommossa popolare del 13 gennaio 1793. I francesi,
occupata Roma nel 1798, lo accusarono anche della morte del generale Duphot e per tali delitti fu
rinchiuso temporaneamente a Castel Sant’Angelo. Messo in libertà, fu successivamente condannato
a morte dai francesi e dovette fuggire nascondendosi in Toscana, sull’Argentario, presso i Padri
Passionisti. Poté tornare a Roma nel luglio del 1800, ma col ritorno dei francesi, nel 1808, venne
nuovamente arrestato, carcerato per quaranta giorni, indi relegato a Spoleto. Tornò a Roma con la
caduta di Napoleone, nel 1815, e morì il 14 agosto 1821.
Il papa Pio VI, venne arrestato dai Francesi nel 1798, ebbe l’umiliazione di essere schiaffeggiato
dal generale francese incaricato dell’arresto e contro il quale egli era insorto con veemenza. Porta-
to in esilio, morirà in Francia, a Valence, il 29 agosto 1799.
Ora, per una visione spirituale del mondo, nella quale il volere dei Numi si attua attraverso una
Celeste Provvidenza che, quando necessario, agisce anche col potere costringente del Fato, non vi è
posto per i «giuochi del destino densi d’implicazioni», né per le «coincidenze», inquietanti e
seducenti che siano. Per uno spiritualista, ricercatore della verità, il «caso» non esiste: esistono
soltanto effetti palesi in un mondo fenomenico, generati da cause non evidenti agli umani, che come
ciechi si muovono a tentoni tra le agi-tate contraddizioni dell’apparire sensibile, cause non sensibili
– e come tali occulte – appartenenti ad un Mondo Spirituale al quale può innalzarsi la conoscenza
soprasensibile dell’iniziato che abbia la forza e il coraggio di morire e rinascere.
Resta da vedere quale fu il destino della moglie del Gran Cofto, di quella Serafina che a Parigi
aveva diretto come Regina di Saba l’aristocratica loggia Iside, cui parteciparono nobili e principesse
di rango. Per molto tempo la sua sorte rimase avvolta nel mistero e molti autori sono incerti sulla
sua sorte. Marc Haven la tratta con grande generosità, che, a parer nostro, ella non meritava. Il
Radosti, a p. 110, scrive queste uniche righe:

«E Lorenza-Serafina Feliciani?
Essa non riuscì ad impossessarsi dei gioielli del marito, poiché furono confiscati dal
Governo e dal Sant’Uffizio, e le fu proibito di lasciare Roma. Ma con la pubblicazione del
Compendio tutta l’Europa seppe del vile tradimento e ovunque fuori Roma c’erano adepti ed
amici del marito, di lei comunque non si seppe più nulla: senza Cagliostro, Serafina era
niente, e probabilmente ritornò «nell’ombra», dove la sua nascita e intelligenza l’avevano
destinata».

Lo stesso Francovich ammette di non essere in grado di dir nulla di lei. Bruno Brunelli, nelle sue
integrazioni al testo del Petraccone, a p. 123 dice asciuttamente:

«Lorenza Feliciani ebbe una fine ancora più oscura, forse nella pace di un monastero,
forse in miseria dopo la soppressione della maggior parte delle comunità religiose dovuta ai
francesi».

Le cose stanno molto diversamente. Ci si perdoni la forse troppo libera espressione del nostro
pensiero su costei: Serafina o Lorenza Feliciani era quella che a Firenze si chiamerebbe «una fi-
gliola di molto birbona». Ella fu trattata con ogni riguardo dal Sant’Uffizio e considerata una
«benemerita». La votazione dei giudici del 21 marzo 1791 ratificò la cosa con la sua sentenza:

«Tutti furono unanimi nel rimandare libera Lorenza Feliciani, moglie del carcerato
Giuseppe Balsamo, così come spontaneamente era comparsa, dopo aver fatto pubblica
abiura e subite le salutari penitenze per ricevere l’assoluzione dalle Censure».
Dopo il processo di Cagliostro, Serafina venne trattenuta nel convento di S. Apollonia in
Trastevere, ma la sua non era una detenzione, piuttosto una forma di protezione. Secondo le fonti
ebbe: «vestiti di seta, cioccolato e anche bagni con un’assistente». All’arrivo dei francesi nel 1798,
lasciò il convento, trovò lavoro nel Collegio di S. Apollinare, al n° 49 dell’omonima piazza, come ad-
detta alla «portineria nobile». La Camera Apostolica la sovvenzio-nò con un congruo sussidio
mensile e con contributi straordinari, anche nei difficili periodi dell’occupazione francese, fino alla
sua morte, avvenuta l’11 maggio 1810.
Volutamente non abbiamo affrontato gli eventi che precedette-ro immediatamente l’arresto di
Cagliostro, proprio per la parte svolta da sua moglie che fu, in taluni di quei frangenti, oltre che
infame, spregiudicatamente scabrosa. Meglio il silenzio e la pietà.
Pochi anni dopo la morte del Gran Cofto ben pochi protagoni-sti sopravvivevano. Dieci anni dopo
la sua scomparsa solo il fiscale Barbéri era in vita, di tutti i suoi nemici. Rapidamente gli eventi di
quegli anni travolsero uomini e cose: in particolare la Rivoluzione di Francia, che Cagliostro
predisse sin dal periodo di Strasburgo, ma che avrebbe voluto diversa. Ne abbiamo la precisa
testimonianza diretta di un avversario del Gran Cofto, Joseph Diss, addetto al servizio del Cardinale
di Rohan, riportata dalla Dalbian a p. 19 della succitata opera:

«Io ho assistito, racconta Diss, alla celebre seduta pubblica a Saverne, nella quale egli
predisse la Rivoluzione del 1789, salvo la data, con tutti i suoi orrori, la morte violenta della
famiglia reale, l’instaurazione della repubblica e il suo rovesciamento da parte di un
Cesare…»

Una testimonianza simile ce la offre D’Anne-Pierre-Jaques de Vismes du Valgay, divenuto poi


Devismes sotto la Rivoluzione. Egli fu membro del Consiglio Supremo del Rito Egiziano a Parigi,
quindi molto vicino a Cagliostro: la sua testimonianza è importante, malgrado che nel 1786 abbia
avuto verso di lui rapporti burrascosi e at-teggiamenti non sempre limpidi. Nella sua opera
Nouvelles Re-cherches sur l’origine et la destination des Pyramides d’Egypte. Ouvrage dans lequel
on s’applique à démontrer que ces merveilles ren-ferment les principes élémentaires des sciences
abstraites et occultes, del 1812, opera quanto mai «egiziana», nella quale egli afferma, circa
l’influenza del mondo «morale», ossia dell’occulto mondo astrale come veniva chiamato nel Rito
Egiziano, quanto segue:

«Un uomo, il più straordinario che sia vissuto nel XVIII secolo, e senza tema di smentite
mago più grande di tutti i maghi di Faraone, Cagliostro infine, mi ha detto, nel 1785,
parlandomi delle piramidi d’Egitto nelle quali era stato: «Laggiù, in effetti, si fa nel morale
tutto quello che voi fate nel fisico: da lì esseri ignoti al resto degli umani possono seguendo
la loro volontà o secondo i decreti dell’Eterno, agitare quella tale parte del globo che si
tratta di sconvolgere, e suscitare l’eroe o lo scellerato che deve essere lo strumento visibile
della rivoluzione, senza che questi possa mai sospettare della potenza che lo fa agire».
Cagliostro mi ha tenuto questo discorso nel luglio del 1785, quattro anni prima della
rivoluzione».

La parte avversa poté contare, nella sua lotta contro il Gran Cofto, oltre che sulla diligenza e la
inesorabilità dei propri «mastini», anche sulla superficialità, l’ignavia e l’ottusità di larghi settori
della stessa massoneria. Il ricordo di Cagliostro, in special modo all’interno della libera muratoria
italiana, per oltre due secoli è stato soffocato dal più colpevole e spensierato disinteresse. I pochi
studiosi massoni che se ne sono occupati – tolte rare eccezioni – si sono perfettamente allineati sulle
posizioni della parte avversa, dalla quale hanno passivamente assimilato argomenti e metodi. E
fuori d’Italia le cose sono più o meno le stesse, se non peggiori, visti gli allarmanti avvenimenti degli
ultimi anni. Vi è davvero da pensare che per l’Ordine Massonico la Parola sia andata definitivamente
smarrita. Le poche eccezioni di studiosi come Marc Haven o Arturo Reghini non devono illudere:
essi stessi hanno patito il peggiore ostracismo proprio all’interno dell’Ordine Massonico e non di
rado hanno visto i loro stessi «fratelli» allearsi scientemente con la parte avversa. Esattamente
come fecero con Cagliostro.
Di una tale caduta di livello era perfettamente consapevole Arturo Reghini allorché, novant’anni
fa, scrisse un articolo intitolato Imperialismo Pagano, nel numero di gennaio-febbraio 1914 della
rivista Salamandra, poi ripubblicato dieci anni dopo nella importante rivista di studi iniziatici da lui
fondata, Atanòr, numeri 1 e 2, gennaio-febbraio, Roma, 1924, nel quale, dopo avere parlato della
Rivoluzione francese, scrive alle pp. 83-84:

«Ma non è noto quale parte abbia avuto in essa l’opera di un altro grandissimo italiano
che l’abilità e la calunnia gesuitica è riuscita a far passare per un ciarlatano. Intendiamo
parlare di Giuseppe Balsamo, più noto come il Conte di Cagliostro, il meraviglioso
rappresentante dell’esoterismo italiano. Per persuadersene basta ricordare la profezia
assolutamente indiscutibile della presa e distruzione della Bastiglia fatta a Londra da
Cagliostro, e basta pensare al commovente interesse degli ufficiali francesi massoni quando,
nel 1797, passarono da San Leo, e soprattutto dell’accanimento feroce degli scrittori
cattolici anche odierni contro di lui. Gli scrittori della Rivista Massonica del Grande Oriente,
che non si vergognano di stampare a danno di Cagliostro le sconce frottole messe in giro dai
gesuiti al tempo del processo di Roma, farebbero meglio, prima di ingiuriare la memoria di
un loro grande fratello, a studiare la magnifica e documentata recente opera del Dr. Marc
Haven! Comincerebbero allora ad intravedere perché i contemporanei che lo conobbero lo
chia-massero il divino Cagliostro».

Queste parole non furono perdonate al pitagorico ed ermetista, oltre che massone, fiorentino.
Contro di lui infierì, come da co-pione, la concorde aggressione dei massoni e della parte avversa, la
quale giunse persino, secondo la testimonianza diretta del suo amico e sodale Giulio Parise, al
tentativo della sua soppressione violenta, che soltanto per la protezione del Cielo e dei Numi non
riuscì. Oggi le cose non sono diverse – sono soltanto, temporaneamente, ipocritamente rivestite di
belle e menzognere parole che possono illudere i più, ma non coloro che appassionatamente
cercano la Sapienza Santa e nel loro cuore siano, con sincerità, Fedeli d’Amore.

***

Poche parole per concludere. Oggi, dopo duecento anni dalla scomparsa del Conte di Cagliostro,
in un mondo che erode velocemente le forze dell’interiorità; che seduce, avvince, ipnotizza,
narcotizza con i miti di un’esteriorità logorante, che sempre più riduce l’anima dell’uomo ad una
vita – se è vita! – meccanica e ve-getativa; in un mondo – sempre più un immondo mondo – nel quale
tutto è merce e tutti sono merce, nel quale tutto si vende e tutti si vendono, e nel quale non vi deve
più esser posto per il silenzio, per il meditare, per il mistero, anche l’esoterismo può diventare una
merce ed una tentazione. Nel corso del Novecento si sono visti Ordini, Fratellanze, Società
spiritualiste, inquinarsi e corrom-persi irreversibilmente, avvilirsi nella mediocrità più ottusa e
conformista, snaturarsi sino a diventare lo strumento della peggiore politica e della perversione
trasgressiva. Si è giunti al punto che anche l’«esoterismo» può essere un affare su cui lucrare o una
droga per far sognare. Molti, soprattutto tra i giovani, ricercano l’esotico e il pittoresco e ciò può
spingere taluni a credere che la ricerca della Spirito – che rimane sempre e comunque l’alimento
eterno dell’anima dell’uomo – sia cosa semplice e soprattutto comoda. Alla portata de tout le monde,
senza necessità di dignificazione interiore e di faticoso lavoro di trasformazione di sé.
Oltre alla ricerca delle «vie della facile forza», con contorno di un cerimonialismo sedicente
«magico» e di una biochimica spac-ciata per Alchìmia trasmutativa, gode attualmente di notevole
interesse una visitazione superficiale e sempre variata di un Oriente di maniera – «bisogna istruirsi
divertendosi!» – che non va oltre una sorta di «agriturismo esoterico». Altri, infine, fanno collezione
di «iniziazioni» in una caotica mescolanza di «insegnamenti» e di cosiddette «pratiche». In un tale
ordine (o disordine) d’idee potrebbe venire in mente a qualcuno – e, purtroppo, a taluni è
effettivamente venuto in mente – di «giocare» con i simboli e i riti della massoneria egiziana,
cercando in tal modo – un po’ per celia e un po’ per non morir – di spezzare, come con una sorta di
psicodram-ma o di un divertente gioco di società, la noia borghese, illudendosi altresì di trovare
senza fatica in riti e simboli quello che non ri-escono a trovare in se stessi e che, soprattutto, non
sanno chiedere alla propria volontà, incapace di uscire – per pavidità ed ignavia – da una mediocrità
conformista e piccolo borghese. Per tutti costoro è assolutamente preferibile – e certamente meno
pericoloso – continuare a «morire» di noia (se mai conobbero vita) o a «diver-tirsi» con il loro
comodo Oriente di maniera, frequentando i vari «Club di lettura e conversazione» o svagandosi nei
vari «agrituri-smi esoterici», piuttosto che avventurarsi in un campo minato dal quale, per loro,
potrebbe non esservi ritorno.
«E questo fia suggel ch’ogni uomo sganni».
Per chi cerchi seriamente, la Via Vera non può non essere eroica, e di conseguenza difficile e
scomoda. Soprattutto, egli non potrà accontentarsi di un esoterismo d’accatto, comodo e
consolante, o farsi sedurre dal facile superomismo di un magismo erotico e trasgressivo. Come
direbbe Cagliostro, il cercatore leale e sincero «saprà colpire col pugnale il mercurio e saprà
trapassare la serpe».
Per coloro che sinceramente – in libertà e per amore – ricercano la «Via Vera», vi è l’ascesi del
pensiero-folgore, il rito della resurrezione del Pensiero Vivente, o del Logos folgorante, dal cadavere
della morta riflessità. Luce folgorante di un conoscere che, trapas-sando l’anima, la scuote
dall’impietrante sonno somatico e dalla paralisi interiore, le restituisce la memoria della sua siderea
origine spirituale, la ricongiunge con il suo aureo Archetipo negli Sponsali di Luce dell’Androgine
Celeste, la reintegra nell’Amore di quell’Uno «che muove il sole e l’altre stelle». Come ci disse più
volte Massimo Scaligero: lo Spirito è ciò che può essere voluto in modo assoluto, e soltanto ciò che
può essere voluto in modo assoluto è lo Spirito. Una tale «Via» non può, come abbiamo detto, non
essere eroica e, nel suo contenuto d’eternità, non è diversa da quella che, in altre forme, Cagliostro
nel XVIII secolo indicò a coloro che, con cuore puro, si dimostrarono cercatori coraggiosi dello
Spirito e discepoli fedeli. L’azione di quei discepoli, fluendo per i più diversi canali – palesi o occulti
– fu decisiva per i destini d’Italia, sia negli anni di fine Settecento, che nel successivo secolo
dell’Ottocento, nel quale animò, in forme molteplici e impreviste, quel Risorgimento, contro il quale
ancora vomita veleni e menzogne la parte avversa.
L’ultimo pensiero, che conclude questa nostra fatica, lo dedi-chiamo – con sentimento commosso e
riverente – a quei «fratelli» della Perfetta Unione che sacrificarono, nel 1794 e nel 1799, la loro vita
sul patibolo a Napoli, per amore dell’ideale vivente e luminoso di una Rinascenza spirituale e civile
d’Italia. A loro, che furono i primi martiri della rinata Italia, va il nostro pensiero d’amore.
Franco De Pascale

(*) Ci piace dare di questi versi la traduzione poetica fatta dal valente erudito Luigi Firpo, umanista e storico da
noi molto stimato per la sua cultura e il suo coraggio:
Felice quei che seppe disvelare
il mistero del mondo, e sotto i piedi
seppe gettarsi tutte le paure,
e il terrore del Fato inesorabile,
ed il fragor dell’avido Acheronte.
VIRGILIO, Le Georgiche, a cura di Luigi Firpo, U.T.E.T., Torino 1969, p. 118, vv. 743-747.

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