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Appunti L’idea di nazione di Federico Chabod

La nazione viene intesa come il prodotto propriamente del Romanticismo nell’ambito politico. Essa
rappresenta la volontà antiilluministica di schierarsi contro le tendenze universalizzanti che
vogliono livellare culture e tradizioni. Da questo punto di vista la nazione è un’idea che rientra
nello spettro del Romanticismo all’interno della volontà di quest’ultima di criticare la ragione e dare
nuovo risalto al sentimento, alla fantasia, alle tradizioni e alle singole culture dei popoli. Da questa
idea ne nasce sia una tendenza particolareggiante in tutti i sensi (politico, linguistico, culturale) sia
un metodo storico che segue la storia come storia delle nazioni che si passano lo scettro della civiltà
e del progresso. L’idea pertanto, secondo Chabod, è da riferire esclusivamente all’ambito del
moderno e in particolare a partire dal XVIII secolo e definire il suo acme nel XIX secolo. Il termine
nazione era già presente nei secoli precedenti, ma è sempre stato elaborato in un’accezione che non
è accostabile a quella moderna, che ha maggiore storia e complessità. Si è fatto generalmente
riferimento a questo termine nell’accezione etnica (Nazione=gens); questo è il caso di Dante e
Petrarca, ad esempio. Cosi come è presente in Machiavelli, ma il problema verso cui si affaccia il
filosofo fiorentino è ciò che significa il termine stesso. È prettamente il problema politico che dà
senso all’idea di nazione in Machiavelli. Tutte le letture che vogliono che in tutta la tradizione
letteraria sia possibile scorgere un processo che ha sempre voluto l’unità politica italiana è una
lettura retrospettiva fortemente legata al concetto di nazione, che deriva esclusivamente dalla
modernità. Il caso dell’Italia e della Germania a tal proposito è particolarmente forte (si vedrà in
seguito). Il senso di nazione moderno, invece, è un processo che ha origine nel Settecento con il
riconoscimento di un’individualità storica che si riconosce in primo luogo attraverso la propria
cultura, le tradizioni, la lingua etc, e poi assume quest’anima nazionale come criterio per il quale si
debba definire anche uno spazio politico che possa incarnare tale anima; questo è il senso che si
cela nelle espressioni “Stato nazionale”, “principio di nazionalità”. Il termine nazione è pertanto un
insieme complesso di elementi che interagiscono tra loro e hanno un’origine prettamente spirituale.
All’interno del discorso intorno al carattere di un determinato popolo, tema fortemente gettonato
quando si fa riferimento al concetto di nazione, vi è una differenza sostanziale tra prima e dopo il
XVIII secolo. Infatti sono state sempre presenti, già a partire dal Medioevo, considerazioni che
parlavano di carattere dei popoli, fossero essi fiorentini, veneti, francesi, tedeschi. Ma queste
considerazioni hanno fatto sempre presente ad una concezione prettamente naturalistica, che ha
sempre considerata l’uomo come un essere determinato da determinate fattori (fossero umori o
fattori naturali-geografici, o costituzioni dell’anima). La formulazione più compiuta della teoria del
clima è in Jean Bodin nella “Methodus ad facilem historiarum cognitionem” (1566) e “La
Republique” (1576). Esempi italiani sono rinvenibili in Machiavelli o in Botero. Altro topos legato
a tale teoria è la correlazione tra sito fertile/infertile – operosità/inoperosità (si pensi a tal proposito
a come questi scrittori guardino alla storia moderna dell’Inghilterra rispetto alla sua apertura al
mare; Schmitt). Il Romanticismo a tal proposito si fonda esclusivamente sullo spirituale e, sebbene
nel XVIII secolo fossero ancora presenti considerazioni che parlassero di carattere della nazione, il
discorso è andato sempre più orientandosi verso la matrice spirituale, affiancata eventualmente da
quella naturale. Era la tradizione, la storia, la lingua, i costumi che definivano i modi del popolo e
non la natura (in ciò si può scorgere a quale polo si tendesse del Settecento all’interno del famoso
paradigma tra Natura e Cultura). L’inizio dell’analisi storico che Chabod adotta fa riferimento ad
uno scrittore svizzero, Beat Ludwig von Muralt, che scrive nel 1725 “Le lettere sugli inglesi e i
francesi” (traduzione del titolo francese). L’opera di Muralt s’inserisce all’interno di un contesto nel
quale la Francia stava dominando culturalmente e, quasi, politicamente l’Europa, e in tali lettere
Muralt contrappone i caratteri degli inglesi, come rozzi ma liberi, ai francesi, come delicati ma
servi. La ricostruzione del Muralt fa riferimento ancora in parte a ricostruzioni naturalistiche, ma
segnano una novità nella misura in cui si affaccia una connotazione spirituale, morale di un popolo.
Queste ultime, però, cosi come anche alcuni autori francesi e inglesi (quali Saint-Evremond e da lui
poi Voltaire; e Daniel de Foe nel “Trueborn Englishman”), risentono di un certo formalismo, di una
certa tipizzazione. I temi propriamente svizzeri a cui fa riferimento Muralt si fondano
essenzialmente in un mix tra naturalismo e spiritualismo, e qui ha origine un importante topos del
Romanticismo, ovvero il mito della montagna, creatrice di costituzioni fisicamente e moralmente
forti e sane. L’amore per le Alpi,in particolare, e le pratiche d’alpinismo sono un fenomeno
prettamente romantico. Uno svizzero nel 1729 compone addirittura un poema intitolato “Die
Alpen”. Allo stesso modo la bontà del suolo sarà anche un presupposto per un altro mito caro agli
illuministi, in particolare a Rousseau, ovvero il mito del buon selvaggio. Da notare che, escludendo
l’eccezione di Petrarca che cita la scalata del monte Ventoso, la montagna non era mai stata
adoperata come soggetto forte all’interno della composizione poetica, mentre dal Settecento diviene
centrale. Assumendo Muralt come difensore delle libertà e tradizioni elvetiche, quindi un
nazionalismo che nasce da una forte opposizione alla Francia, si può individuare un duplice
atteggiamento, che sarebbe stato sempre presente, nella definizione del carattere di una nazione: il
naturalismo e lo spiritualismo. Ciò che deve essere notificato, afferma Chabod, è che la
radicalizzazione della componente naturalistica, che caratterizza la forma più bruta e rozza di
nazionalismo, sfocia nei miti di comunità di sangue e di razza; e quindi ovviamente nel razzismo.
Altro aspetto fondamentale affrontato da Muralt nella sua esaltazione degli svizzeri è il concetto di
libertà, che sarebbe stato ampiamente adottato da tutta la cultura nazionalistica nelle sfumature più
diverse e, principalmente, come fattore del passato (quindi aspetto nobile della tradizione) da un
lato, e progetto da realizzare nel futuro dall’altro (soprattutto in Germania e in Italia). La libertà si
definisce quindi come un carattere fortemente nazionale esaltato sia nel passato sia nel futuro,
ovviamente rispetto al quale ci si approccia nell’esaltazione storiografica della nazione. Chabod a
tal proposito fa un confronto tra tedeschi-svizzeri e italiani. Gli italiani del Risorgimento guardano a
diversi esempi di lotta per la libertà, ad esempio, nella storia dei Comuni, ma si trattano di occasioni
sporadiche, che però non fanno nemmeno riferimento ad una libertà moderna a cui propriamente
aspirano i risorgimentali; mentre gli svizzeri, ad esempio, utilizzano la libertà come elemento
attraverso il quale giustificare il loro statuto storico, oltre che come valore da difendere. D’altra
parte il procedimento per il quale si realizza la propria coscienza storica e l’individualità nazionale
spinge ad una maggiore attenzione alla storia; da questo punto di vista gli svizzeri sono
all’avanguardia. Infatti già nel 1727 Johann Jakob Bodmer, scrittore di estetica, aveva fondato la
Helvetische Gesellschaft, ovvero un’associazione di ricerca storica che si concetrasse sullo studio e
sulla conservazione degli usi e dei costumi svizzeri. Tutti procedimenti che sviluppano in maniera
forte la coscienza storica nazionale, ma che, come si può notare, ancora non si affacciano, e non si
vogliono affacciare, ad un piano politico. Dal punto di vista degli scrittori tedeschi valgono tutte le
cose asserite per gli svizzeri; da sottolineare solo la presenza del Winckelmann, il quale parla della
libertà non come patrimonio di una nazione, ma come criterio della grandezza di una nazione,
grazie alla quale essa può emergere in tutti i campi, sebbene Winckelmann associ essa soprattutto
all’estetica. È l’inizio della pratica storiografica che assumerà la libertà come metro nel giudicare e
guardare lo sviluppo della storia, con grande trascuratezza del senso storico. Il tema della libertà in
Francia e in Germania ha una costante rilevabile nel tema dell’antica libertà germanica e viene
declinata nel Seicento e Settecento in Germania e a partire dal Cinquecento in Francia secondo una
prospettiva che vede la storia come ancella del diritto. Il percorso della Francia è rinvenibile
partendo da tre giuristi del ‘500: Baudoun, Bodin, Francesco Hotman. I primi due lamentano la
necessità di aggiornare il metodo storico attraverso una maggiore attenzione al problema della
storicità delle istituzioni (in ciò è già presente la pratica della Kulturgeschichte, che in Svizzera per
esempio si realizza nella Helvetische Gesellschaft), mentre Hotman nella sua Franco Gallia (1573)
fa riferimento alla conquista germanica della Gallia come una conquista operata da uomini liberi
con un capo primus inter pares. Il motivo in Francia ha la sua massima realizzazione nel ‘700 con il
conte di Boullainvilliers che riassume tutti questi temi. La scelta di tale motivo a partire dal
Cinquecento in Francia è riferita alla volontà di combattere l’assolutismo monarchico e intendersi
come un popolo dal carattere libero. Questo è già il primo esempio di storia come prospettiva del
diritto. In Germania il discorso è leggermente diverso. Il motivo della libertà germanica è già
presente a partire dagli inizi del ‘500 con il problema delle lotte di religione; è un tema
particolarmente caro ai polemisti luterani che intendono combattere la romanità nella declinazione
sia papale che imperiale. Ironia della sorte è il fatto che il testo primo che fa riferimento alla libertà
dei germani contrapposta al mondo corrotto romano è lo scrittore romano Tacito nella sua
Germania. Un accenno simile è presente anche nella Pharsalia di Lucano. Ma non si è ancora
prevenuti in Germania all’adozione di questo tema secondo un quadro di filosofia della storia
secondo il diritto, come avvenuto in Francia. Il percorso tedesco comincia con gli umanisti tedeschi,
come Althamer, Beathus Rhenanus, Aventinus e soprattutto Ulrico di Hutten, i quali
essenzialemente contrappongono le leggi orali e l’antica libertà germanica alla corruzione romana.
Il percorso continua con personalità quali Tommaso Münzer, anabattista, e Martino Butzer, ma è
con Martin Lutero che nella sua polemica antiromana acuisce la particolarità della Germinia e
dell’Impero Germanico rifiutando la translatio imperii e bollando quest’ultimo come mezzo del
papà per conservare influenza. I temi successivi saranno improntati da un maggiore particolarismo
anche in seguito al rifiuto della translatio imperii e nel autentico carattere germanico dell’Impero. È
con Justus Möser nelle sue Osnabrückische Geschichte del 1768 che si ha una piena formulazione e
sistematizzazione di tutti i temi germanici in una costruzione storica declinata in ambito giuridico.
La storia viene indagata come un continuo percorso di decadenza dall’antica libertà germanica a
causa degli influssi stranieri; nel Medioevo l’opposizione fondamentale diviene quella tra
Carlomagno, desposta, e Witichindo, che vuole restaurare la nazione germanica. Tra il Möser e il
conte di Boullainvilliers è possibile scorgere un’analogia nel senso che hanno di libertà antica. Il
loro senso è prettamente riferito all’antico, al passato, ed ha una declinazione prettamente
antimoderna; infatti se autori come quelli risorgimentali hanno in mente una libertà di tipo
individuale che vuole declinarsi anche nell’ambito politico, da un lato il conte francese auspica un
ritorno al sistema feudale combattendo la monarchia assoluta di Luigi XIV, mentre dall’altro lato
Möser è schierato per gli Stände, ovvero i ceti, per uno Stato nazionale per ceti, che conserva quindi
una certa dose di conservatorismo, guardando il termine retrospettivamente. La visione del giurista
tedesco sarebbe stata condivisa da diverse personalità, come Friedrich Schlegel, e sta alla base del
conservatorismo agragrio della cultura tedesca dell’800 e del ‘900, basti pensare agli Junker
prussiani. Qui pertanto la libertà viene intesa come nostalgia del passato, e non come ideale per
l’avvenire. Dopo aver citato brevemente Hamann, il quale riconosce la lingua come vox populi –
vox Dei, è l’intellettuale Johann Gottfried Herder colui che teorizza massimamente il concetto di
nazione nel Settecento. Facendo riferimento all’opera più inmportante del 1774 “Auch eine
Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit”, Herder fa riferimento ad un concetto di
nazione ancora più particolaristico. Con lui avviene una forte evoluzione intesa nel senso della
chiusura del concetto di nazione. Per Herder, infatti, la nazione si qualifica come un ente chiuso in
sé stesso, naturale, che, come una pianta, si sviluppa seguendo un ciclo vitale e che presenta
caratteristiche in tutti i campi peculiari, non imitabili; in questo senso ogni nazione è un ente isolato
che non comunica con gli altri. Vicinissima è la posizione di Spengler rispetto a quella di Herder,
considerando anche che Spengler fa riferimento alle massime orfiche di Goethe. In quanto enti
particolari che agiscono nella storia, per Herder la storia dell’umanità è storia delle nazioni che nel
loro sviluppo si scambiano la fiaccola dell’umanità; forte è la presenza del concetto di Provvidenza,
e quindi di fatalità storica, nella sua prospettiva. Insiste sull’importanza della lingua come formante
l’universo di pensiero, la Weltanschauung di una nazione, inimitabile e impenetrabile per l’Altro.
Da questa prospettiva, ovviamente, l’operato del re prussiano Federico II è vista pesantemente di
malocchio da parte di Herder; allo stesso modo le sue considerazioni storiche sugli influssi stranieri
sulla Germania lo spingono, oltre che a considerare la romanità come fattore storico disturbante
della nazione tedesca, a considerazioni storiche fortemente nazionalistiche e naturalistiche del tipo:
lo sviluppo culturale della Germania è stato sporcato nella sua purezza dai vari attori della storia,
come Carlomagno nel Medioevo. La figura di Carlomagno all’interno della storiografia
nazionalistica tedesca è vista sempre come una figura dispotica, d’ascendenza romana, e quindi che
avrebbe sporcato lo sviluppo delle genti libere della Germania. Per riassumere Herder in
un’espressione: Autarchia spirituale. L’intensità con la quale Herder pone l’accento sul
particolarismo nazionale non è rinvenibile in autori a lui contemporanei, ma, ciononostante, scrittori
inglesi, francesi e italiani riconoscono il particolarismo, rifacendosi alle tipizzazioni spirituali che
si sono già viste a partire da Muralt nelle sue Lettere sugli inglesi e francesi. Oltre a portare avanti
un accostamento tra Rousseau e Herder, sebbene con le dovute differenze rispetto al fervore con cui
si guarda al particolarismo, ma riconoscendo al tempo stesso l’attenzione al particolarismo citando
le posizioni rispetto all’operato in Russia di Pietro il Grande ad esempio, Chabod riporta gli autori
italiani del Settecento che si focalizzano su queste tipizzazioni, come il Goldoni, e al tempo stesso
fa una menzione speciale a Gaetano Filangieri che, nella sua “scienza delle legislazioni”, riconosce
il particolarismo ma, per funzioni di carattere giuridico, afferma la necessità di una relazione tra il
particolare e l’universale dal momento che il benessere dell’universale coincide con il benessere
delle parti che lo compongono. Ulteriore elemento di novità all’interno del senso del concetto di
nazione viene effettuato da Rousseau, sebbene prima sia stato accostato per molti versi a Herder. La
novità inserita da Rousseau è un elemento che avrà conseguenze radicali all’interno del senso del
concetto e segna il divario abissale tra il Settecento e l’Ottocento. Rousseau introduce il carattere
politico al concetto di nazione; se prima si guardava al sentimento, alla libertà atavica, al passato del
popolo, l’immissione dell’aspetto politico della nazione riveste quest’ultima di un carattere
fortissimo per il quale il modo stesso di intendere e fare la politica muta radicalmente. A tal
proposito Chabod fa l’esempio di un Bismarck rispetto ad un Federico II il Grande di Prussia. La
definizione della nazione in senso politico imprime il senso dell’avvenire, del pathos impetuoso
nella politica, e, in tal senso, Chabod afferma che vi è un grandissimo mutare del senso delle parole.
Nasce la patria come religione della nazione; il significato religioso slitta, nuovamente si può
notare, all’interno dell’ambito della politica. Ciò poi porterà ad una maggiore radicalizzazione
anche dei caratteri del popolo, anche naturali con conseguente deriva razzista. Nasce la religione
della nazione. A questo proposito Chabod sottolinea come lo slittamento del lessico religioso
nell’ambito della politica è un fenomeno prettamente proprio dell’Ottocento e tutti i casi in cui in
passato è stato adoperato il termine sacro rispetto alla patria o alla nazione, come in Cola da Rienzo,
intendono esclusivamente rifarsi al fenomeno religioso. Machiavelli segnava infatti la cesura
fondamentale tra la politica e la religione nel progetto di autonomia che voleva conferire alla prima,
come riconosce anche Carl Schmitt; ed ecco che dopo tre secoli, la religione si inserisce
nuovamente all’interno dell’ambito della politica, ma non nel senso cristiano ovviamente, ma in una
sacralizzazione del terreno, del profano, del sangue, del popolo, della nazione. In Italia Ugo Foscolo
è uno tra i primi, se non il primo, a santificare la Patria nei Sepolcri. La religione della nazione,
ovviamente, ebbe più acchitto nei territori in cui non era ancora avvenuta un’unificazione politica,
in particolare Germania, Italia, Polonia. In Italia si annoverano Foscolo e Alfieri come personalità
che indirizzano la nazione come ideale per l’avvenire, mentre per la Germania il Novalis. La
Francia si rifà al principio di nazionalità soltanto dopo la perdita dell’Alsazia e della Lorena, in
concomitanza con il revanchismo quindi, dal momento che costituiva un supporto ideologico-
politico. Chabod ci tiene a sottolineare la profonda differenza tra il nazionalismo politico tedesco e
italiano, oltre le loro analogie. Nel caso della Germania Chabod parla di una connotazione del
carattere della nazione che tiene essenzialmente riferimento all’aspetto naturalistico. I maggiori
scrittori e pensatori tedeschi del Settecento e dell’Ottocento, quali Herder, Schlegel, Fichte, Schiller,
pensano al carattere della Germania attraverso i caratteri della natura attraverso i concetti di sangue,
suolo, razza, comunità. Aventinus nel XVI secolo dà inoltre il là ad una maggiore enfatizzazione del
ruolo chiave della Germania nella storia del mondo parlando di un’affinità tra greci e germani. Lo
Herder nella sua ultima produzione, se prima aveva dato una base volontaristica al linguaggio,
arriva a definire il linguaggio come il prodotto della razza, come qualcosa di naturale, e che nella
sua naturalezza nel tedesco ha raggiunto l’apice. Al contrario, invece, il carattere della nazione
italiana si è formato fortemente sul carattere volontaristico, della cultura e della storia. Chabod fa
riferimento essenzialmente alle figure di Mazzini e di Pasquale Stanislao Mancini, in cui
particolarmente forte il senso di libertà; e rispetto a quest’opposizione l’unica nota oppositiva è
rappresentata da Antonio Crispi, il quale ha una prospettiva maggiormente naturalistica vicina a
quella tedesca. Altro alla componente volontaristica, si fa riferimento ad altri due elementi
all’interno della nazionalità, cosi come percepita dagli italiani, rispetto ai quali quest’ultimo trova
un senso compiuto: ovvero la libertà e l’europeità. Rispetto alla libertà Chabod riporta nuovamente
la critica a quei risorgimentisti che tendono a spostare all’indietro la storia del Risorgimento,
volendolo rendere un movimento autoctono nelle sue idee, affini a quelle della Rivoluzione
Francese; e, al tempo stesso, si concentra sulla figura di Mazzini e sulle altre figure, le quali nel
corso dello svolgersi del Risorgimento nelle sue tappe (l’inizio a partire dallo Statuto Albertino)
riconoscono sempre più la necessità di fare riferimento ad una libertà sempre più politica, che deve
procedere per l’indipendenza, l’unità e la libertà. Quest’ultimo punto in particolare è sentito da
Mazzini in maniera quanto mai forte dal momento che per lui la sola libertà concepibile alla sua
massima espressione è la libertà repubblicana; diversi sono i riferimenti che porta avanti all’interno
dell’associazione “Giovine Italia”. Il secondo elemento è costituito dall’Europeismo, che viene
declinato in diversi modi. Da un lato possiamo fare riferimento a Mazzini, a Garibaldi, a Stanislao
Mancini, i quali avevano una prospettiva che, una volta realizzata l’unità di Italia, si affacciavano
all’avvenire e volevano passare ad un progetto di unificazione del genere umano attraverso
l’Europa; ancora più nazionalisticamente sentito è il senso di missione che riferisce Mazzini
all’Italia come la sola nazione capace di poter portare avanti questo progetto. L’aspetto della
missione è un altro elemento che fa braccetto con i nazionalismi e che rientra soprattutto a partire
dalla trasformazione politica del senso di nazione e che guarda pericolosamente a radicalizzazioni.
Mentre persone come Cavour e i moderati di Destra del ‘76 vedevano nell’Europa del loro secolo
un complesso ancora forte e vivo che poteva vivere nei secoli. Un prospettiva chiaramente
conservatrice. Nel mezzo si segnala la posizione federalistica europea di Cattaneo con i suoi Stati
uniti d’Europa. Dopo aver concluso le considerazioni sull’Italia, Chabod fa una breve panoramica
dell’evoluzione sempre più radicale della nazione che ha portata ad una deriva naturalistica e ad
un’accentuazione delle prospettive di filosofia della storia a tema nazionalistico, sebbene segnalì
come queste declinazioni fossero presenti in numerosi autori, De la Maistre, Goethe, Schiller,
Schlegel, Fichte. La chiosa finale sembra quasi presagire un altro suo saggio intitolato “Storia
dell’idea d’Europa” e che suona cosi: “dobbiamo soffermarci ad esaminare come nasce il concetto
moderno di Europa, e come tale concetto si trasformi in ideale, come cioè esso venga assunto per
additare orientamenti e direttive agli uomini”. Sembra presagirsi quella stessa critica
all’universalismo e al concetto di umanità applicato all’ambito politico-universale che Schmitt
critica in Ginevra, Versailles, Parigi.

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