42 di Romina Ciuffa
EDWIN“dynamita”valero
IL GIOCO DELL’IMPICCATO
“_ _ _ _ _ _ _ _ _”
Questo è il gioco dell’impiccato.
Ho scelto un aggettivo di 9 lettere.
Ad ogni errore per lui, Edwin Valero, dise-
gnerò una linea del diagramma che lo porta
sul patibolo.
La storia che racconto servirà ai
giocatori per rendere i tentativi
motivati dall’inconscio.
Si è boia o angeli, ma tutti grandi
giocatori con le vite degli altri.
Nato mancino a Bolero Alto il 3 dicembre
1981 da una famiglia povera di origini Inca,
cresciuto nella regione del Mèrida, abban-
donato dal padre a 7 anni, affidato a parenti
di terzo grado perché aiutassero la madre,
a 11 anni boxava nella palestra di Francisco
Rodrìguez, unico pugile a rientrare nel
Paese con l’oro olimpionico. S’intuiva da
allora la sofferenza del campione. Nella
boxe ogni campione è un sofferente, vittima
sacrificale di una scelta dura, della propria
forza e della bravura, di un cuore agile,
della tenacia. Ciò che merita un uomo, va al
pugile quale capro espiatorio per le colpe di
un peccato non scontato. È in questo
modo che dentro i guantoni si fasciano i se-
greti di tutta un’umanità e si sbattono vio-
lentemente addosso a un altro essere
umano, che espia sul ring per tutti. Allena-
menti, scontri, una carriera che fin quando
non è all’apice è nulla, della quale non si è
padroni, da cui si può cadere in una notte
di San Lorenzo. Con 86 incontri amatoriali -
82 vinti, 45 per KO - culminati con la triplice
vittoria agli assoluti venezuelani e l’oro ai
giochi del Centro America sul messicano
Francisco Bojado, Edwin Valero era pronto
ad espiare le colpe dell’umanità.
Lettera S, di sacrificio. Non c’è. Il primo
tratto verso il patibolo.
Il 5 febbraio del 2001 è coinvolto in un
grave incidente di moto. L’espiazione del
peccato originale. Ma il dottore che gli apre
la scatola cranica per alleviare la pressione
dell’ematoma, decidendo di richiudere e la-
sciar rimarginare, non gli vieta di combat-
tere il match del 17 gennaio 2002 che, con
un KO al primo round, gli garantisce lo spo-
stamento nel girone dei capri espiatori dei pro.
Lettera E, di estasi. C’è.
I primi 18 match sono vinti al primo round.
“Ridateci i soldi”. Bisogna attendere fino al
19esimo perché si senta un gong che non
sia il tonfo secco del cadere di un mento:
Genaro Trazancos ritarda, ma di poco, solo
fino al secondo. Dal precedente incontro
Valero ha già la cintura WBA Fedelatin per
pesi superpiuma. Il motivo per cui que-
st’Inca non si è trovato di fronte pugili del
calibro di Floyd Mayweather Jr, Ricky Hat-
ton o Manny Pacquiao è dovuto al fatto che
le giurisdizioni dei vari Stati ne hanno rifiu-
tato l’accesso al ring per ragioni connesse
all’incidente. Dopo il 12esimo match firma
con la Golden Boy Promotion ma, nel gen-
naio del 2004, una risonanza magnetica co-
stituisce motivo di diniego della licenza a
boxare nello Stato di New York e, di fatto,
negli USA. Così non ha più ragione di com-
parire nel programma dell’HBO “Boxing
After Dark”. Solo il Texas gli concede il ring
il 19 marzo del 2008. Salva la carriera per
Akihiko Honda che, insieme a Jorge Lina-
res, lo inserisce nella rosa dei campioni.
Lettera N, di New York. Non c’è, infatti. Il
tratto orizzontale del suo patibolo è

sotto la mia mina H2, ben temperata.
Son già disegnati i due pali per il boia di
un capro espiatorio.
Ma è Trazancos a tracciare un primo pal-
lido, impercettibile segno nel diagramma
quando, reggendo sino al secondo round,
interrompe lo scalare di un record. Lo aveva
conseguito - 100 anni esatti prima, nel
1906 - uno alto 168 cm come Valero, Young
Otto, mettendo KO 16 avversari consecutivi
al primo match, e con il 17esimo incontro di
filato lo superava l’Inca nel 2006, per poi
cederlo al 18esimo e 19esimo KO di Tyrone
Brunson.
Lettera C, di colpa. C’è.
Il 5 agosto del 2006, tra le corde del ring
panamense per il titolo WBA dei pesi su-
perpiuma, “El Loco” Mosquera è messo al
tappeto, come consuetudine, per due volte
al primo round. Ma si rialza e fa scoccare
più gong. Al terzo round è il primo KO per
Valero. Un tratto del diagramma del suo pa-
tibolo mentale.
Lettera L, di Loco. Infatti non c’è. Dise-
gno la testa del Dinamita, il boia si avvi-
cina. Si rompe la mia mina, sarà
agitazione - ingiustificata - e ne prendo
un’altra.
Ma si rialza. La folla fischia, la piazza è gre-
mita. Fino al decimo round El Loco regge
l’incontro con la reincarnazione di Otto, poi
si prende un KO tecnico. Il boia fa un passo
indietro. Riordino il mio astuccio. Aveva di-
chiarato: “Nei miei incontri mi concentro
sulla vittoria, non sui KO”. Infatti solo un
altro match è da primo round, gli altri 6 si
alterneranno secondo mortalità - comun-
que tutti vinti anzitempo e per KO - fino al 6
febbraio 2010, in cui il messicano Antonio
De Marco è battuto al nono. Il 4 settembre
del 2008 aveva rinunciato alla cintura WBA
super featherweight per passare alla cate-
goria lightweight, di cui ottiene il titolo WBC
al primo incontro, e lo mantiene.
Lettera S, di sinistra e di southpaw. Non
c’è. Delineo il collo e faccio su e giù con
la matita un po’ di volte, perché sia
pronto per il boia e perché, al gioco del-
l’impiccato, il tracciare il collo dà meno
soddisfazione, paradossalmente, trat-
tandosi solo di una linea verticale, pur
coincidendo con il punto in cui il fiato si
FOTO SERVIZIO DI ROMINA CIUFFA
spezza e si dà luogo alla morte.
Il 27 settembre del 2009 quest’Inca man-
cino viene arrestato per atti di violenza con-
tro la madre e la sorella dopo una
discussione, lo testimonia un vicino di casa
di El Vigìa. Lui nega le accuse, mosse con
l’intento di rovinarlo. Sua madre conferma:
nessun atto di violenza.
Lettera M, di mamma. Non c’è. Tratteg-
gio il braccio destro di Edwin, gli lascio il
sinistro a lui che è mancino ma gli sco-
pro la guardia, la piazza è in fermento. Il
boia sale le scale. Pulisco la sega del
temperino con l’angolo di un panno
umido, affilo la lama. Metto la matita in
bocca dalla parte della gomma. Non ci
sono errori. Spero sempre di poter can-
cellare quelli dei capri espiatori, quando
sono gli altri del gioco a sbagliare le let-
tere giudicando le altrui storie e mai le
proprie. Ma no, oggi no. Di solito no.
27 combattimenti pro tutti vinti per KO.
Un franco tiratore, la Nikita del Venezuela.
Sul ring si può. Ma nel maggio del 2009 si
macchia ancora, di alcool.
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Stato d’ebbrezza alla guida e gli viene ne-
gato il visto americano. Accusa gli USA di
discriminarlo a causa delle simpatie per il
presidente Hugo Chàvez, ricambiate dal
leader venezuelano che, in un comizio, lo
chiama e dà luogo a uno sparring sul palco
(“Ecco l’uomo che farebbe paura a Cassius
Clay”). Sul petto - dopo una rissa e l’espul-
sione dagli Stati Uniti, il rientro in Venezuela
come esiliato politico, l’adesione alla filoso-
fia socialista e alla missione bolivariana -
regna il volto del suo presidente, tatuato
all’interno della bandiera del suo Paese, e
una scritta: Venezuela de verdad.
Lettera B, di Bolìvar. Non c’è. Braccio si-
nistro appeso al patibolo.
Il 25 marzo 2010 nuove accuse. Sua moglie
Jennifer finisce in ospedale con lesioni al
fegato. Lui nega: è caduta dalle scale. Lei
conferma. Ma dà una versione differente
dalla prima, e da una seconda conferita in
ospedale. Per i comportamenti mostrati si
ordina il ricovero del pugile in un ospedale
psichiatrico per 6 mesi.
Lettera D, di disperazione. Il tratto è ve-
loce, ed è quello della mia mano per la
sua mano destra, la mano dei KO di un
record-man.
Qualche giorno in sordina. Il pugilato at-
tende. C’è qualcosa in queste notti latine.
Cerca l’America, iniziare magari da una ne-
goziazione con Manny Pacquiao, più facile
perché si prospetta la possibilità di un ring
filippino a Manila, soprattutto ora che que-
st’ultimo è candidato come governatore. A
malapena ricorda suo padre e gli atti di vio-
lenza di cui l’accusano.
Lettera A, di amigdala. Centro di integra-
zione di processi neurologici superiori,
da cui partono gli allarmi. La paura. E
tratteggio la mano sinistra, togliendo-
gliela mio malgrado.
Edwin e Jennifer vanno a Valencia, capitale
del Carabobo, nella Valle de los Tacariguas.
Si fermano a dormire il 18 aprile in una
stanza dell’Intercontinental Hotel. I due
bambini non sono con loro. Non c’è boxe.
Lettera F, di fuga. Tolgo la matita dalla
bocca e fisso il busto sul foglio. Il boia è
sulla pedana.
È notte fonda in questa notte di sabato 17
aprile. C’è un silenzio che è come i silenzi
che si sentirebbero dopo il primo round di
tutti i suoi match, se tutti imparassero a
stare, per una volta, zitti come stanotte.
Lettera Z, di zitti. E cala la gamba destra.
Tempera la lama il boia.
Non ha mai sopportato che lo chiamassero
Inca. Forse perché il padre sparì e lui do-
vette imparare ad ammirare i combattenti,
emulandoli e diventando più forte di loro.
Sconfiggendoli pure. Si dice che la boxe è
uno sport maledetto, perché è dove si entra
per disperazione e nella maggior parte dei
casi se ne esce con disperazione anche più
fagocitante. Preferiva “Dinamita”. In questa
notte di prima primavera, nella Valle de los
Tacariguas dove il clima è più torrido, alle
ore 5.30 a.m. scende nella hall e avvisa il
portiere, che chiami la polizia.
Lettera O, di omicidio. Sembra ormai un
matitino dell’Ikea, ma è sufficiente per
questo tratto di gamba sinistra. Edwin è
un ventottenne di 1 metro e 68 cm, per
cui non serve tanto lapis. Ciò che serviva
era comprensione: capire le lettere giu-
ste per salvare un capro espiatorio. Far
combattere un Inca in America. Opportu-
nità. Credere a un orfano di padre.
La 24enne Jennifer Carolina Viera è trovata
senza vita nella sua stanza di hotel, rag-
giunta da tre fendenti di arma da taglio. Lui,
reo confesso, viene arrestato in una notte in
cui in Europa è un vulcano islandese vicino
al ghiacciaio Eyjafjallajoekull ad avere la
meglio sul ring, una fumata bianca post-
eruzione che contamina i cieli. Qualcosa ri-
pete “te-l’avevo-detto-te-l’avevo-detto” e fa
riferimento alle accuse di violenze domesti-
che, tutte ritirate, alle stranezze, all’alcool.
Lettera R, di reo. Non c’è. Alle solite, il
giudizio è troppo superficiale, è compul-
sivo. Ma non faccio che il mio mestiere,
senza giudicare chi gioca al gioco del-
l’impiccato. E traccio il piede sinistro, il
peso di un pugile che per una vita intera,
sia pur breve, è stato superpiuma - il re dei
superpiuma - ora è tutto nelle mani di un
piede destro, il piede che ai piloti serve per
volare.
Non è ancora vinto il gioco. Valero si risve-
glia in cella, ma il giudizio non si è tenuto.
Andrà affrontato: avvocati, aule giudiziarie,
ritrattazione, patteggiamenti, strategie. Una
pena per uxoricidio. Il titolo sospeso, la car-
riera pugilistica probabilmente conclusa.
Ciò che distingue un pugile violento da un
pugile disperato è ciò che accade in questa
frazione temporale. Il primo affronta il pro-
cesso, entra ed esce di prigione, rientra,
lotta contro tutto dentro e fuori il ring. Il se-
condo no.
Lettera M, di Mike Tyson. Scelgo la ma-
tita delle occasioni, un’HB da esame di
maturità artistica. Non accenno a una
minima emozione e tengo a bada l’amig-
dala. Il boia prepara la camicia di Edwin
“Dinamita” mentre io tratteggio il suo
piede destro.
Nella notte di domenica 18 aprile, per
l’esattezza all’1.30 a.m. di lunedì 19, il pu-
gile Inca muore per impiccagione procurata
per il tramite dei suoi stessi vestiti, utilizzati
per farne una corda e un cappio. Viene tro-
vato senza vita da un altro detenuto, che
avvisa gli agenti del penitenziario.
Il gioco si conclude. Su 9 lettere, solo 3
sono state indovinate:
la E di estasi, la C di colpa, la O di omicidio.
C O L P E V O L E per chi, ascoltando la
sua storia, ha giocato all’impiccato sce-
gliendo le lettere che hanno portato Edwin
Valero al patibolo.
I N N O C E N T E per me.