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Piccola spiegazione veloce:

l' associazione ceccanese "piazza d'armi" chiede di intitolare una strada di ceccano a tale
antonio aversa, componente della legione tagliamento, un'unità militare della repubblica
sociale italiana, morto nella strage di rovetta.
La leggione tagliamento, se pur composta da giovanissimi, condusse azioni sanguinarie
contro le truppe partigiane e si macchiò di orrendi crimini di guerra. Una azione su tutte
alla quale prese parte è il rastrellamento del grappa.
Quì sotto potete trovare gli articoli tratti da "la provincia" di questi giorni, la terza di
copertina di un libro sul rastrellamento del grappa, una lectio magistralis dell'autrice
dello stesso libro e qualche informazione presa da uichipedia (quindi comunque da
prendere con le molle)
A Bassano del Grappa il 27 settembre 2008 alla commemorazione dei Martiri del Grappa
la dott.ssa Sonia Residori ha tenuto una Lectio Magistralis sul barbaro evento che ha
interessato la Città Medaglia d'Oro al Valor Militare.

Ritengo utile condividere con chi non ha potuto essere presente il contenuto della
relazione.

SONIA RESIDORI - 27 SETTEMBRE 2008 - BASSANO DEL GRAPPA

I.

Il rastrellamento del Grappa, contrariamente alla versione diffusa e accettata da decenni


anche dalla storiografia ufficiale, non fu un’operazione militare, ma un massacro di
uomini indifesi, in parte partigiani combattenti che si erano arresi o consegnati
spontaneamente, in parte civili inermi, padri di famiglia e ragazzi.
Tra il 20 e il 27 settembre 1944, sul Grappa, quindi, non avvenne un combattimento
sanguinoso tra tedeschi e partigiani, ma solo alcuni scontri armati, con un numero
esiguo di perdite. Le forze della Resistenza, infatti, non disponevano di armi adeguate e
neppure di munizioni sufficienti per fronteggiare un rastrellamento messo in atto da
migliaia di uomini e, dopo un breve tentativo per contrastare il nemico, dovettero
abbandonare il terreno. La maggior parte dei partigiani riuscì a sganciarsi e, superando i
posti di blocco disposti attorno al massiccio, a trovare un nascondiglio o a tornare a
casa.
I tedeschi intendevano “bonificare” la zona del Grappa dai “banditi”, per la
costruzione della Blau Linie, una linea fortificata che doveva fermare l’avanzata
delle truppe alleate sulle Prealpi, e a questo scopo, secondo i documenti, il generale
Wilhelm Harster, comandante della Polizia di sicurezza e del Servizio di sicurezza
per l’Italia (BdS), aveva ordinato di uccidere 30 uomini per ogni villaggio situato ai
piedi del Grappa.
Dal momento che i partigiani erano sfuggiti attraverso le maglie dei rastrellatori, il
tenente delle SS Herbert Andorfer, comandante di un’unità mobile, il Kommando
Andorfer, ufficiale già esperto in pratiche di sterminio per aver “gasato” oltre 5000
ebrei a Belgrado nel 1941, mise in atto un piano crudele. Il Comando tedesco
s’impegnò a condonare le pene previste per i renitenti: coloro che si fossero
presentati spontaneamente sarebbero stati arruolati nella Flak Italien oppure
mandati a lavorare per i tedeschi nell’Organizzazione Todt. Queste disposizioni
furono diffuse con tutti i mezzi disponibili: i manifesti murali, il megafono, l’opera
persuasiva di vicini e conoscenti di parte fascista, le visite dei brigatisti italiani di
casa in casa.
La popolazione accolse il provvedimento come la liberazione da un incubo e i
familiari dei partigiani e dei renitenti, sfuggiti alla caccia delle pattuglie dei
rastrellatori, convinsero i ragazzi ad uscire dai nascondigli, scongiurandoli di
presentarsi spontaneamente al comando tedesco, e in alcuni casi li
accompagnarono essi stessi.
Si trattò di un progetto infame: nazisti e fascisti uccisero fisicamente i giovani o
giovanissimi uomini e moralmente tutti quei padri, madri e sorelle che, avendo
convinto i propri cari a presentarsi, vissero negli anni a venire con il senso di colpa
di essere stati la causa della morte del proprio figlio o fratello (Cesare Longo,
Armando Benacchio, Silvio Martinello, Pietro Bosa, Ferdinando Brian, Francesco Caron,
Attilio Donazzan, Angelo Ferraro, Fiorenzo Puglierin, Gio Batta Romeo, Ferruccio Zen).
Per il massacro del Grappa le truppe tedesche non seguirono il modello di sterminio
nazionalsocialista che coinvolgeva tutta la popolazione, donne, anziani e bambini. Fu
applicato il criterio della matrice maschile della guerra, secondo l’interpretazione del
conflitto come scontro militare tra maschi, e furono uccisi centinaia di uomini e di
giovani atti alle armi, in quanto guerrieri potenziali, mediante il sistema dell’esecuzione
ordinata con fucilazione o impiccagione (Ferruccio Toniazzo, Maurizio Bergamini,
Annibale Biasion, Attilio Bernardi, Guerrino Ruini, ignoto carabiniere di Potenza).
Per alcuni giorni, in tutti i paesi della fascia pedemontana del Grappa, si susseguirono
fucilazioni e impiccagioni di giovani uomini, secondo l’estro o le attitudini dei
rastrellatori, mentre un numero rilevante veniva inviato nei campi di concentramento
tedeschi dopo una sommaria selezione.
Alcune esecuzioni furono precedute da tormenti e bastonature, ma anche da torture o
sevizie come nel campanile di Cavaso del Tomba (Ferruccio Silvi, Leo Menegozzo, Gino
Ceccato) o nell’osteria di Arten trasformata in tribunale (Antonio Boschieri, Zuelo
Benincasa, Bortolo Camonico, Luigi Campigotto, Rino Torresan, Guido Todesco). Le
stesse uccisioni furono seguite o alternate dall’incendio delle abitazioni, anche di intere
frazioni come Schievenin, e dal saccheggio di case che permetteva ai rastrellatori di
riempire le tasche e lo stomaco.
Il massacro fu eseguito secondo una vena creativa della crudeltà umana, che non
escludeva interamente pianificazione e razionalità. La messa in scena e l’ostentazione dei
cadaveri dei nemici uccisi fucilati o impiccati non furono dettate dall’impulso di un
momento, da una vendetta “spontanea”, anzi erano marcatamente intenzionali (Gilberto
Carlesso, Marcello Zilio, Guerrino Dissegna, Matteo Scalco, Michele Ancona, Girolamo
Binotto, Mirto Andrighetti, Ermenegildo Metti, Carmine D’Innocenzo, Giuseppe Ardito,
marinaio sconosciuto, Alfredo Ballestin).
L’esibizione delle vittime, tesa a terrorizzare la popolazione che doveva considerare
colpevoli i partigiani per aver provocato la “giusta reazione” dei nazisti, s’intrecciò con la
prassi opposta della loro sparizione, della cancellazione di ogni traccia della loro morte,
con esecuzioni quasi clandestine.
Il 22 settembre 1944 mentre Lodovico Todesco, comandante della brigata Italia Libera
Campo Croce, cadeva in combattimento, la madre Paolina e la sorella Ester venivano
arrestate e caricate a forza su un camion militare per essere deportate in Germania. Di
loro non si ebbe più alcuna notizia, scomparse nel nulla. Secondo la testimonianza di un
soldato austriaco le due donne non furono portate lontano, ma uccise e il loro corpo
occultato nel cemento di una delle tante piramidi anticarro fatte costruire dai tedeschi
della Todt a Cismon del Grappa.
Anna Giglioli, la moglie incinta del ten. Angelo Valle, proprio per il fatto di essere l’unica
donna destinata all’esecuzione, fu giustiziata di notte e seppellita in fretta, in una bassa
fossa acquitrinosa.
Anche le fucilazioni all’interno della caserma Reatto avvennero quasi di nascosto e
rimasero occultate fino al novembre del 1945, quando le salme di tutti i caduti furono
riesumate (Mario Gattoni, Pio Ricci, Manlio Chirco, Giuseppe Chirco, Guido Pinarello,
Giuseppe Romeo, Arturo Zen, Giovanni Favero, Emilio Boaretto, sette ignoti).
Soltanto per la disperata tenacia dei padri degli uccisi fu possibile ricostruire nel
dopoguerra quanto era successo quel mattino del 24 settembre 1944. Carlo Gattoni, il
padre del quindicenne Mario, concludeva il suo atto di accusa contro Alfredo Perillo, con
una formale denuncia «per vilipendio di cadavere e per tentato occultamento essendo
risultato che ai fucilati […] vennero fatti indossare sopra i propri abiti borghesi dei
pantaloni lunghi di tela da militari onde renderne più difficile il riconoscimento (infatti le
salme si presentavano tutte con uguali caratteristiche di vestiario) ed inoltre essendo
accertato che a fucilazione avvenuta le vittime vennero sepolte nella fogna della caserma
“E. Reatto” ove rimasero per circa 10 giorni avanti di venire inumate nel cimitero di S.
Croce di Bassano del Grappa, causando così una più rapida decomposizione delle salme
che si poterono solo in parte riconoscere dopo accurati esami sulle misere spoglie e con
indicibile strazio dei singoli congiunti […]».
Anche in questo caso il messaggio era diretto alla popolazione: seppellendo le vittime
nella fogna per accelerarne la decomposizione e renderne difficile il riconoscimento,
oppure, ancora, di notte, anonimamente, nelle fosse comuni, il nazismo dimostrava di
essere capace di annullare fisicamente i nemici fino a farli svanire nel nulla.
Nel massacro la divisione del lavoro della violenza dà a molti la possibilità di
abbandonarsi alle proprie inclinazioni. L’unico dovere di ognuno è quello di
contribuire con tutte le proprie forze alla violenza, per questo i plotoni di
esecuzione della caserma Reatto sono composti da italiani e tedeschi alternati e
dello stesso plotone fanno parte le diverse specialità della Repubblica sociale. Una
divisione del lavoro alla quale partecipano anche gli “altri” della truppa, coloro che
oziano nei pressi della morte, spettatori indolenti o entusiasti, come le compagnie
della Tagliamento dei giovanissimi volontari di Salò, quelli della Camilluccia che
assistono alla fucilazione dei 20, tra partigiani e alleati, avvenuta a Carpané presso
la stazione ferroviaria (Angelo Valle, Alfredo Tosin, Filippo Bianchi, Giuseppe Mocellin,
Virgilio Versa, Matteo Gheno, Pietro Boaria, Federico Fiorese, Luigi Ferrarsi, Antonio
Bellò, Angelo Bosio).
Solo alla fine, tutti gli assassini si raggruppano in un luogo «per festeggiare insieme il
trionfo del lavoro eseguito». Domenico Martinello, padre di Silvio, uno dei ragazzi di Pove
impiccati a Bassano, affermò nella sua deposizione che i fascisti del paese con quelli di
Valdagno «banchettarono insieme la sera del martedì col pollame rapinato alla famiglia
Bennacchio», il cui figlio era stato impiccato. Pietro Trevisan, durante il processo contro i
maggiori responsabili italiani del rastrellamento, raccontò in aula che alla sera, dopo
l’impiccagione dei 31 giovani di Bassano, si svolse un banchetto al quale parteciparono
tedeschi e brigatisti. Festeggiarono nei loro soliti locali di ritrovo, il Caffè Centrale e il
ristorante “al Cardellino”.

II.

Il massacro del Grappa ebbe termine martedì 26 settembre 1944 a Bassano, quando
31 tra partigiani e civili, furono impiccati agli alberi delle vie cittadine, con il
cartello “Bandito” sul petto (Giovanni Cocco, Gastone Bragagnolo, Giuseppe Bizzotto,
Luigi Stefanin, Albino Vedovotto).
L’esecuzione, allestita su tre vie alberate della cittadina trasformate in improvvisati
patiboli, fu eseguita da giovani volontari di Salò, ex Fiamme bianche dislocate alla Flak
Italien di Bassano del Grappa. I ragazzi, tutti sui 17 anni, addossavano il camion sotto le
piante, afferravano il laccio, lo infilavano al collo della vittima che scaraventavano dal
camion e andavano avanti (Leonida De Rossi, Ignoto, Francesco Cervellin, Giovanni
Cervellin, Giuseppe Giuliani, Carlo Fila). Talvolta davano due violenti strappi alle gambe
della vittima per affrettarne la morte (Mario Aliprandi, Girolamo Moretto, Ignoto)
Secondo la testimonianza del prof. Rino Borin, a dirigere l’impiccagione, vi era un
componente del Kommando Andorfer, il vicebrigadiere SS cecoslovacco, Karl-Franz
Tausch, nato a Olmuetz il 9 ottobre 1922.
Alcuni mesi fa, avuta notizia della possibile esistenza in vita sia di Andorfer che di
Tausch, gli Istituti storici per lo studio della Resistenza e dell’età contemporanea di
Vicenza e di Treviso hanno presentato formale richiesta alla Procura Militare perché
finalmente, dopo oltre 60 anni, siano accertate le responsabilità degli esecutori del
massacro avvenuto a Bassano del Grappa il 26 settembre del 1944.
Ora Herbert Andorfer ha 97 anni, Karl-Franz Tausch, invece, ne ha quasi 86 e vive
tranquillamente nella sua villetta a Langen, in Germania. Ormai sono due anziani signori
che fra non molto dovranno rendere conto del loro operato ad un’Autorità ben più grande
di quella umana.
Questo era quanto avevo scritto nel preparare la relazione di oggi. Tre giorni fa ho
ricevuto la comunicazione che Andorfer, dopo essere resuscitato varie volte, è
ufficialmente deceduto nel 2003 e ieri pomeriggio ho avuto la conferma che Tausch si è
suicidato con un colpo di rivoltella alla testa dopo aver letto il lungo articolo pubblicato
da un giornalista tedesco sul Frankfurter Rundschau. Ieri sera avrei dovuto cambiare
questa parte della relazione in rapporto alla mutata situazione, ma poiché la cerimonia di
stamani è per ricordare le vittime, il patrimonio di valori di cui ci hanno lasciato eredi, e
non i carnefici, Andorfer, Tausch e la morte violenta di quest’ultimo, ho voluto lasciare il
testo inalterato.
Qualcuno potrebbe affermare che, data l’avanzata età, essi avevano il diritto di morire
serenamente o, in ogni caso, di essere lasciati in pace: che senso aveva metterli davanti
alle proprie responsabilità dopo 60 anni?
E poi, perché ancora ricordare uno dei circa 400 massacri compiuti da nazisti e fascisti,
uno degli infiniti massacri di questo secolo appena trascorso?
Le risposte non sono e non possono essere semplici.
Il rastrellamento del Grappa non fu un’operazione militare, ma un massacro di
inermi, che nel dopoguerra si trasformò in una gigantesca menzogna e in
un’enorme ingiustizia. Gli esecutori negarono ogni loro responsabilità, alcuni
reparti non furono neppure processati e, alla fine, nessuno scontò la pena per
quanto aveva commesso. Le vittime, oltre al massacro, subirono l’ingiustizia
dell’assenza di giustizia. Pertanto restituire alla verità ciò che accadde oltre
sessant’anni fa, conferisce un po’ di giustizia a chi ha dovuto tanto soffrire per la
sua mancanza.
Il nome di coloro che furono appesi ai lecci e lasciati penzolare per ore, pronunciato ad
alta voce nelle aule dei tribunali, scritto a caratteri cubitali sulla carta stampata, ripetuto
di bocca in bocca, può risarcire le vittime strappandole all'oblio e restituendole alla
memoria della verità (Giuseppe Moretto, Bortolo Busnardo, Ignoto, Pietro Citton, Emilio
Seghetto, Giacomo Bertapelle).
Come gli individui non possono costruirsi una specifica identità e autonomia senza fare i
conti con la propria storia individuale, così la collettività non può rimuovere il proprio
passato, la propria storia senza conseguenze assai gravi.
«Per quanto possa essere un’esperienza dolorosa» scriveva nel 1999 l’arcivescovo
Desmond Tutu, presidente della Commissione sudafricana “Verità e riconciliazione”, «non
possiamo permettere che le ferite del passato arrivino a suppurazione. Devono essere
aperte. Devono essere pulite. Devono essere spalmate di balsamo perché possano
guarire. Questo non significa essere ossessionati dal passato. Significa preoccuparsi che
il passato sia affrontato in modo adeguato per il bene del futuro».
In questi ultimi anni si è parlato molto di pacificazione con il passato, ma pacificazione
ed oblio non sono la stessa cosa, bensì due modi assolutamente opposti di rapportarsi al
passato. L'oblio porta alla cancellazione di quanto è avvenuto, invece la riconciliazione
parte necessariamente dalla memoria e non può prescindere dal riconoscimento della
verità e delle responsabilità. L'oblio nega e rimuove le responsabilità; la riconciliazione si
costruisce sull'accettazione e l'individuazione delle responsabilità.
Nel nostro Paese sotto la parola "riconciliazione" si nasconde spesso la tentazione
dell'amnesia e dell’oblio, con la ricorrente proposta di "riconciliazione" tra
partigiani e repubblichini, attraverso il riconoscimento della “buona fede” che
tende a fare degli uni e degli altri un sol fascio, dimenticando responsabilità e
colpe.
E’ possibile che la maggior parte dei giovani che nel periodo ‘43-‘45 si sono schierati,
rischiando volontariamente la propria vita, fossero in buona fede, convinti gli uni e gli
altri di difendere la causa più giusta. Ma la buona fede è una categoria morale, etica,
utile per ricostruire la biografia dei singoli uomini. Quando si ricostruisce la biografia di
una nazione, quando si fa la storia di un paese, si deve guardare ai progetti per i quali gli
uomini hanno combattuto, non alle ragioni individuali delle scelte di campo. Nella
seconda guerra mondiale si sono contrapposti due progetti: uno era quello nazista, che
voleva ridisegnare il mondo secondo una gerarchia delle razze e stabilire quali popoli
avevano diritto a detenere il potere nel mondo e quali no; l’altro era quello degli alleati,
che perseguivano obiettivi sociali e politici diversi, ma che trovarono il denominatore
comune nell’opposizione al progetto nazista. Al di là di qualsiasi considerazione sulle
storie personali dei ragazzi di Salò e sulla pietà per i caduti di tutte le guerre, di qualsiasi
guerra, non si può dimenticare che le formazioni partigiane, gli internati militari, le forze
regolari del Regno del Sud, tutti i ragazzi impiccati e fucilati che oggi ricordiamo, stavano
dalla parte degli alleati, dalla parte della democrazia e della libertà, mentre il fascismo di
Salò stava dalla parte di Hitler, del nazismo, dei campi di concentramento: questo resta il
dato storico di fondo che nessuno potrà mai cambiare.
E' tempo ormai di accettare coraggiosamente tutto il nostro passato, qualsiasi esso sia,
per costruire ponti fra gli uomini invece di muri che dividono. È necessario che la
memoria diventi strumento di coscienza civile nel presente, che ognuno si assuma la
responsabilità della propria storia, anche di quella che ha preceduto la nostra vita.
Dopo oltre sessant’anni, ragazzi della Resistenza e ragazzi di Salò sono ancora pieni di
rancore per quanto è accaduto nel passato. Dovremmo chiederci se non possa essere
anche questo un’ultima vittoria del nazismo, quella di privarci del buon uso della
memoria, quella di impedire l’elaborazione del lutto e la riconciliazione fra gli uomini.
Ognuno di noi deve tentare, per riprendere l'immagine del vescovo Tutu, di guarire le
ferite invece di farle suppurare, lavorare per la verità e la memoria, non per esacerbare
gli odi, ma pacificare l’uomo con se stesso.
Vorrei terminare questa mia esposizione con le parole di una grande donna, Etty
Hillesum, tratte dal suo diario:
«Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno
in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque
razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso,
forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo ... Sono una persona felice e lodo
questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra». Etty
è morta ad Auschwitz nel 1943.

Settembre 2008

Sonia Residori
Il massacro del Grappa
Vittime e carnefici del rastrellamento (21-27 settembre 1944)
ISTRE-VI - Cierre Edizioni, 2007
Presentazione
Questo libro di Sonia Residori è la storia del rastrellamento del Grappa
che si risolse in un massacro di inermi, ma è anche la storia di una
gigantesca menzogna e di un’enorme ingiustizia che conferiscono
all’“evento” la fisionomia di una grande tragedia collettiva.
Gli esecutori negarono ogni loro responsabilità, alcuni reparti non
vennero neppure processati e, alla fine, nessuno scontò la pena per quanto
aveva commesso: le vittime, dopo l’ingiustizia del massacro, subirono
l’ulteriore ingiustizia dell’assenza di giustizia.
Con questa ricerca si dimostra il valore che assume l’analisi dettagliata di
un fatto traumatico per la comprensione di un contesto e anche per i
nuovi interrogativi che ne scaturiscono e che coinvolgono il nostro
passato, ma anche il nostro presente insieme con la nostra stessa qualità di essere umani.
Il lavoro difatti ha al centro la ricostruzione del massacro del Grappa operato da truppe del Terzo
Reich e della Repubblica Sociale Italiana fra il 20 e il 28 settembre 1944, ma si allarga a investire
questioni di giustizia e di memoria (pubblica e privata), nonché di elaborazione del lutto, mentre
riflette sui caratteri di quella violenza spropositata.
È anche, possiamo dire, una microstoria che pone domande alla macrostoria o, se vogliamo,
l’analisi di un “episodio”, collocato in uno spazio ben definito e in un tempo altrettanto delimitato,
che - proprio in virtù di questo ancoraggio - riesce a dialogare con altri “episodi” analoghi per la
definizione di una propria specificità o di eventuali similitudini.
Legione Tagliamento

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1ª Legione d'Assalto "M" Tagliamento
Descrizione generale
Attiva 1941 - 1945
Nazione RSI
Alleanza Germania
Servizio Guardia Nazionale Repubblicana
Tipo Polizia Militare.
Ruolo Attività Anti-partigiana
Dimensione 1600 Legionari
Soprannome "Tagliamento"
Reparti dipendenti
• 1º Battaglione "M"
• 2º Battaglione "LXIII"
• 3º Battaglione "LXIX"

Comandanti
Comandanti degni di nota 1° Seniore (Tenente Colonnello) Merico Zuccari[1]
[senza fonte]

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La Legione Tagliamento è un'unità militare del Regno d'Italia e, successivamente, della Repubblica
Sociale Italiana operativo tra il 1941 ed il 1945.

Storia [modifica]
Trae origine dal 63° Battaglione M Tagliamento della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale
(MVSN) che, nell'estate del 1941, viene inquadrato nella 3ª Divisione Celere, in partenza per il
fronte russo.
Nel 1943 combatte contro l'Armata Rossa sul Dnepr e, a seguito della Ritirata di Russia, sono pochi
i reduci che riescono a fare ritorno in Italia.
Dopo l'Armistizio di Cassibile la Legione Tagliamento viene ricostituita, prendendo la
denominazione di 1ª Divisione d'Assalto "M" Tagliamento e passando sotto il comando della
Repubblica Sociale Italiana.
Di stanza a Vercelli opera in varie parti d'Italia, tra cui la Valsesia, dove si rende responsabile
dell'eccidio di Borgosesia del 22 dicembre 1943.
Nel 1944 si trova a combattere le Battaglie del Mortirolo ed a condurre azioni contro la Resistenza
vicentina, rendendosi responsabile di numerosi crimini di guerra, quali il "rastrellamento del
Grappa" e "l'impiccagione di Bassano".
Nella notte tra il 27 ed il 28 aprile 1945, subisce la Strage di Rovetta, in cui 43 soldati della
Legione, dopo essersi arresi ed aver ricevuto promessa di ricevere tutte le garanzie riservate ai
prigionieri di guerra, vennero torturati e giustiziati sommariamente dal Comitato di Liberazione
Nazionale (CLN) di Rovetta.

Note [modifica]
1. ^ [1]Fondazione RSI - scheda Merico Zuccari - visto 3 marzo 2009

Bibliografia [modifica]
• Giuseppe Rocco, L'organizzazione militare della RSI: sul finire della seconda guerra
mondiale, Greco&Greco, 1998. ISBN 88-7980-173-2
• Sonia Residori, Il massacro del Grappa: vittime e carnefici del rastrellamento, 21-27
settembre 1944, Nordest -- nuova ser., 71, Ricerche / ISTREVI -- 7, Ricerche (Istituto
storico della Resistenza e dell'età contemporanea della provincia di Vicenza-Ettore Gallo)
ISBN13 9788883144424
• Carlo Mazzantini, A cercar la bella morte, Mondadori, 1986 e poi Marsilio, 1995.

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