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GIOVANNI PAOLO II

DONO E MISTERO
Nel 50° del mio sacerdozio

LIBRERIA EDITRICE VATICANA

Ho vivo nella memoria il gioioso incontro che, su iniziativa della Congregazione per il
Clero, si svolse in Vaticano nell'autunno dello scorso anno (27 ottobre 1995), per
celebrare il 30° anniversario del Decreto conciliare Presbyterorum ordinis. Nel clima
festoso di quell'assemblea diversi sacerdoti parlarono della loro vocazione, ed anch'io
offersi la mia testimonianza. Mi sembrò infatti bello e fruttuoso che tra sacerdoti, al
cospetto del popolo di Dio, ci si rendesse questo servizio di reciproca edificazione.

Le parole da me dette in quella circostanza ebbero un'eco piuttosto vasta. La


conseguenza fu che da varie parti mi si chiese con insistenza di tornare ancora, e più
ampiamente, in occasione del Giubileo sacerdotale, sul tema della mia vocazione.

Confesso che la proposta, sulle prime, suscitò in me qualche comprensibile resistenza.


Ma successivamente ritenni doveroso accogliere l'invito, vedendo in ciò un aspetto del
servizio proprio del ministero petrino. Stimolato da alcune domande del Dr. Gian
Franco Svidercoschi, che hanno fatto da filo conduttore, mi sono abbandonato con
libertà all'onda dei ricordi, senza alcun intento strettamente documentario.

Quanto qui dico, al di là degli eventi esteriori, appartiene alle mie radici profonde, alla
mia esperienza più intima. Lo ricordo innanzitutto per rendere grazie al Signore.
«Misericordias Domini in aeternum cantabo!». Lo offro ai sacerdoti e al popolo di Dio
come testimonianza di amore.

AGLI INIZI .... IL MISTERO!

La storia della mia vocazione sacerdotale? La conosce soprattutto Dio. Nel suo strato
più profondo, ogni vocazione sacerdotale è un grande mistero, è un dono che supera
infinitamente l'uomo. Ognuno di noi sacerdoti lo sperimenta chiaramente in tutta la sua
vita. Di fronte alla grandezza di questo dono sentiamo quanto siamo ad esso inadeguati.

La vocazione è il mistero dell'elezione divina: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto
voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15,
16). «E nessuno può attribuirsi questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come
Aronne» (Eb 5, 4). «Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo; prima che tu
uscissi alla luce ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni» (Ger 1, 5).
Queste parole ispirate non possono non scuotere con un profondo tremore ogni anima
sacerdotale.
Per questo, quando nelle più diverse circostanze — per esempio, in occasione dei
Giubilei sacerdotali — parliamo del sacerdozio e ne diamo testimonianza, dobbiamo
farlo con grande umiltà, consapevoli che Dio «ci ha chiamati con una vocazione santa,
non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia» (2 Tm 1,
9). Contemporaneamente ci rendiamo conto che le parole umane non sono in grado di
reggere il peso del mistero che il sacerdozio porta in sé.

Questa premessa mi è sembrata indispensabile, perché si possa comprendere in modo


giusto quello che dirò del mio cammino verso il sacerdozio.

I primi segni della vocazione

L'Arcivescovo Metropolita di Cracovia, Principe Adam Stefan Sapieha, visitò la


parrocchia di Wadowice quando ero studente di ginnasio. Il mio insegnante di religione,
P. Edward Zacher, mi affidò il compito di porgergli il benvenuto. Ebbi allora per la
prima volta l'occasione di trovarmi di fronte a quell'uomo molto venerato da tutti. So
che, dopo il mio discorso, l'Arcivescovo domandò all'insegnante di religione quale
facoltà avrei scelto dopo la maturità. P. Zacher rispose: «Studierà Filologia polacca». Il
Presule avrebbe risposto: «Peccato che non sia la teologia».

In quel periodo della mia vita la vocazione sacerdotale non era ancora matura, anche
se intorno a me non pochi erano del parere che dovessi entrare in seminario. E forse
qualcuno avrà supposto che, se un giovane con così chiare inclinazioni religiose non
entrava in seminario, era segno che in gioco v'erano altri amori o predilezioni. Di fatto,
a scuola avevo molte colleghe e, impegnato com'ero nel circolo teatrale scolastico,
avevo svariate possibilità di incontri con ragazzi e ragazze. Il problema tuttavia non era
questo. In quel periodo ero preso soprattutto dalla passione per la letteratura, in
particolare per quella drammatica, e per il teatro. A quest'ultimo m'aveva iniziato
Mieczyslaw Kotlarczyk, insegnante di lingua polacca, più avanti di me negli anni. Egli
era un vero pioniere del teatro dilettantistico e coltivava grandi ambizioni di un
repertorio impegnato.

Gli studi all'Università Jaghellonica

Nel maggio 1938, superato l'esame di maturità, mi iscrissi all'Università per seguire i
corsi di Filologia polacca. Per questo motivo mi trasferii insieme con mio padre da
Wadowice a Cracovia. Ci sistemammo a via Tyniecka 10, nel quartiere di Debniki. La
casa apparteneva ai parenti di mia madre. Intrapresi gli studi alla Facoltà di Filosofia
dell'Università Jaghellonica, seguendo i corsi di Filologia polacca, ma riuscii a finire
soltanto il primo anno, perché il 1° settembre 1939 scoppiò la seconda guerra mondiale.

A proposito degli studi, desidero sottolineare che la mia scelta della Filologia polacca
era motivata da una chiara predisposizione verso la letteratura. Tuttavia, già durante il
primo anno, attirò la mia attenzione lo studio della lingua stessa. Studiavamo la
grammatica descrittiva del polacco moderno ed insieme l'evoluzione storica della
lingua, con un particolare interesse per il vecchio ceppo slavo. Questo mi introdusse in
orizzonti completamente nuovi, per non dire nel mistero stesso della parola.

La parola, prima di essere pronunciata sul palcoscenico, vive nella storia dell'uomo
come dimensione fondamentale della sua esperienza spirituale. In ultima analisi, essa
rimanda all'imperscrutabile mistero di Dio stesso. Riscoprendo la parola attraverso gli
studi letterari e linguistici, non potevo non avvicinarmi al mistero della Parola, di quella
Parola a cui ci riferiamo ogni giorno nella preghiera dell'Angelus: «E il Verbo si fece
carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14). Capii più tardi che gli studi di
Filologia polacca preparavano in me il terreno per un altro genere di interessi e di studi.
Predisponevano il mio animo ad accostarsi alla filosofia e alla teologia.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale

Ma torniamo al 1° settembre 1939. Lo scoppio della guerra cambiò in modo piuttosto


radicale l'andamento della mia vita. In verità i professori dell'Università Jaghellonica
tentarono di avviare ugualmente il nuovo anno accademico, ma le lezioni durarono
soltanto fino al 6 novembre 1939. In quel giorno le autorità tedesche convocarono tutti i
professori in un'assemblea che si concluse con la deportazione di quei rispettabili
uomini di scienza nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Finiva così nella mia
vita il periodo degli studi di Filologia polacca e cominciava la fase dell'occupazione
tedesca, durante la quale inizialmente tentai di leggere e di scrivere molto. Proprio a
quell'epoca risalgono i miei primi lavori letterari.

Per evitare la deportazione ai lavori forzati in Germania, nell'autunno del 1940


cominciai a lavorare come operaio in una cava di pietra collegata con la fabbrica
chimica Solvay. Si trovava a Zakrzówek, a circa mezz'ora dalla mia casa di Debniki, ed
ogni giorno vi andavo a piedi. Su quella cava scrissi poi una poesia. Rileggendola dopo
tanti anni, la trovo ancora particolarmente espressiva di quella singolare esperienza:

«Ascolta, il ritmo uguale dei martelli, così noto,


io lo proietto negli uomini, per saggiare la forza d'ogni colpo.
Ascolta, una scarica elettrica taglia il fiume di pietra,
e in me cresce un pensiero, di giorno in giorno:
tutta la grandezza del lavoro è dentro l'uomo...».
(La cava di pietra: I, Materia, 1)

Ero presente quando, durante lo scoppio d'una carica di dinamite, le pietre colpirono un
operaio e lo uccisero. Ne rimasi profondamente sconvolto:

«Sollevarono il corpo. Sfilarono in silenzio.


Da lui ancora emanava fatica ed un senso d'ingiustizia»...
( La cava di pietra: IV, In memoria di un compagno di lavoro, 2-3)

I responsabili della cava, che erano polacchi, cercavano di risparmiare a noi studenti i
lavori più pesanti. A me, per esempio, assegnarono il compito di aiutante del cosiddetto
brillatore: si chiamava Franciszek Labus. Lo ricordo perché, qualche volta, si rivolgeva
a me con parole di questo genere: «Karol, tu dovresti fare il prete. Canterai bene, perché
hai una bella voce e starai bene...». Lo diceva con tutta semplicità, esprimendo così una
convinzione abbastanza diffusa nella società circa la condizione del sacerdote. Le parole
del vecchio operaio mi si sono impresse nella memoria.

Il teatro della parola viva


In quel periodo rimasi in contatto con il teatro della parola viva, che Mieczyslaw
Kotlarczyk aveva fondato e continuava ad animare nella clandestinità. L'impegno nel
teatro fu all'inizio favorito dall'avere ospiti in casa mia Kotlarczyk e sua moglie Sofia,
che erano riusciti a passare da Wadowice a Cracovia entro il territorio del
«Governatorato Generale». Abitavamo insieme. Io lavoravo come operaio, lui
inizialmente come tramviere e, in seguito, come impiegato in un ufficio. Condividendo
la stessa casa, potevamo non solo continuare i nostri discorsi sul teatro, ma anche
tentarne attuazioni concrete, che assumevano appunto il carattere di teatro della parola.
Era un teatro molto semplice. La parte scenica e decorativa era ridotta al minimo;
l'impegno si concentrava essenzialmente nella recitazione del testo poetico.

Le recite avvenivano davanti ad un ristretto gruppo di conoscenti e di invitati, i quali


avevano uno specifico interesse per la letteratura ed erano, in qualche modo, degli
«iniziati». Mantenere il segreto intorno a questi incontri teatrali era indispensabile; si
rischiavano altrimenti gravi punizioni da parte delle autorità d'occupazione, non esclusa
la deportazione nei campi di concentramento. Devo ammettere che tutta quella
esperienza teatrale mi si è impressa profondamente nell'animo, anche se ad un certo
momento mi resi conto che in realtà non era questa la mia vocazione.

II

LA DECISIONE DI ENTRARE IN SEMINARIO

Nell'autunno del 1942 presi la decisione definitiva di entrare nel seminario di Cracovia,
che funzionava clandestinamente. Mi accolse il Rettore, P. Jan Piwowarczyk. La cosa
doveva rimanere nel più stretto riserbo, anche nei confronti delle persone care. Iniziai
gli studi presso la Facoltà teologica dell'Università Jaghellonica, anch'essa clandestina,
continuando intanto a lavorare come operaio alla Solvay.

Durante il periodo dell'occupazione l'Arcivescovo Metropolita sistemò il seminario,


sempre in forma clandestina, presso la sua residenza. Ciò poteva provocare in ogni
momento, sia per i superiori che per i seminaristi, severe repressioni da parte delle
autorità tedesche. Soggiornai in questo singolare seminario, presso l'amato Principe
Metropolita, dal settembre 1944 e lì potei restare insieme ai miei colleghi fino al 18
gennaio 1945, il giorno — o meglio la notte — della liberazione. Fu infatti di notte che
l'Armata Rossa raggiunse i dintorni di Cracovia. I tedeschi in ritirata fecero esplodere il
ponte Debnicki. Ricordo quella terribile detonazione: lo spostamento d'aria infranse tutti
i vetri delle finestre della residenza arcivescovile. In quel momento ci trovavamo in
cappella per una funzione alla quale partecipava l'Arcivescovo. Il giorno seguente ci
affrettammo a riparare i danni.

Debbo però tornare ai lunghi mesi che precedettero la liberazione. Come ho detto,
vivevo con gli altri giovani nella residenza dell'Arcivescovo. Egli ci aveva presentato
fin dall'inizio un giovane sacerdote, che sarebbe stato il nostro Padre spirituale. Si
trattava del P. Stanislaw Smolenski, laureato a Roma, uomo di grande spiritualità: egli è
oggi Vescovo ausiliare emerito di Cracovia. Padre Smolenski intraprese con noi un
lavoro regolare di preparazione al sacerdozio. Prima avevamo come superiore soltanto
un prefetto nella persona di P. Kazimierz Klósak, che aveva compiuto gli studi a
Lovanio ed era professore di filosofia: per la sua ascesi e bontà egli suscitava in noi
grande stima e ammirazione. Rispondeva del suo operato direttamente all'Arcivescovo,
dal quale dipendeva, del resto, in modo diretto pure lo stesso nostro seminario
clandestino. Dopo le vacanze estive del 1945 P. Karol Kozlowski, proveniente da
Wadowice, già Padre spirituale del seminario nel periodo precedente la guerra, fu
chiamato a sostituire il P. Jan Piwowarczyk come Rettore del seminario nel quale aveva
trascorso quasi tutta la vita.

Venivano così completandosi gli anni della formazione seminaristica. I primi due, quelli
che nel curriculum degli studi sono dedicati alla filosofia, li avevo fatti in modo
clandestino, lavorando come operaio. I successivi 1944 e 1945 avevano visto il mio
crescente impegno presso l'Università Jaghellonica, anche se il primo anno dopo la
guerra fu ancora molto incompleto. Normale fu l'anno accademico 1945/46. Alla
Facoltà Teologica ebbi la fortuna di incontrare alcuni eminenti professori, come P.
Wladyslaw Wicher, professore di teologia morale, e P. Ignacy Rózycki, professore di
teologia dogmatica, che mi introdusse alla metodologia scientifica in teologia. Oggi
abbraccio con un pensiero pieno di gratitudine tutti i miei Superiori, Padri spirituali e
Professori, che nel periodo del seminario contribuirono alla mia formazione. Il Signore
ricompensi i loro sforzi e il loro sacrificio!

All'inizio del quinto anno l'Arcivescovo decise che avrei dovuto trasferirmi a Roma per
completare gli studi. Fu così che, in anticipo sui miei compagni, fui ordinato sacerdote
il 1° novembre 1946. Quell'anno il nostro gruppo era, naturalmente, poco numeroso:
eravamo in tutto sette. Oggi siamo ancora vivi soltanto in tre. Il fatto di essere in pochi
aveva i suoi vantaggi: permetteva di allacciare legami profondi di reciproca conoscenza
ed amicizia. Questo valeva anche, in qualche modo, per i rapporti con i Superiori ed i
Professori, sia nel periodo della clandestinità che nel breve periodo degli studi ufficiali
all'Università.

Le vacanze da seminarista

Dal momento in cui presi contatto col seminario s'inaugurò per me un nuovo modo di
trascorrere le vacanze. Fui mandato dall'Arcivescovo presso la parrocchia di
Raciborowice, nei dintorni di Cracovia. Non posso non esprimere profonda gratitudine
al parroco, P. Józef Jamróz, e ai vicari di quella parrocchia, che divennero compagni di
vita di un giovane seminarista clandestino. Ricordo in particolare P. Franciszek
Szymonek, che più tardi, nel periodo del terrore staliniano, fu accusato e posto sotto
processo con intenzioni dimostrative nei confronti della Curia arcivescovile di
Cracovia: fu condannato a morte. Fortunatamente, dopo un po' di tempo venne graziato.
Ricordo anche P. Adam Biela, un mio collega più grande del ginnasio di Wadowice.
Grazie a questi giovani sacerdoti, ebbi modo di conoscere la vita cristiana di tutta la
parrocchia.

Poco dopo, sul territorio del paese di Bienczyce, che apparteneva alla parrocchia di
Raciborowice, sorse un grande quartiere col nome di Nowa Huta. Trascorsi lì molti
giorni durante le vacanze, sia nel 1944 che nel 1945, a guerra finita. Facevo soste
prolungate nella vecchia chiesa di Raciborowice, che risaliva ancora ai tempi di Jan
Dlugosz. Molte ore le dedicavo alla meditazione passeggiando nel cimitero. Avevo
portato a Raciborowice i miei strumenti di studio: i volumi di San Tommaso con i
commenti. Imparavo la teologia, per così dire, dal «centro» di una grande tradizione
teologica. Cominciai allora a scrivere un lavoro su San Giovanni della Croce che
continuai poi sotto la direzione del P. Prof. Ignacy Rózycki, docente presso l'Università
di Cracovia, non appena questa fu riaperta. Completai lo studio in seguito all'Angelicum,
sotto la guida del P. Prof. Garrigou Lagrange.

Il Cardinale Adam Stefan Sapieha

Su tutto il nostro itinerario formativo verso il sacerdozio esercitò un influsso rilevante


la grande figura del Principe Metropolita, futuro Cardinale Adam Stefan Sapieha, cui
va il mio ricordo commosso e grato. Il suo ascendente era accresciuto dal fatto che, nel
periodo di transizione prima della riapertura del seminario, abitavamo nella sua
residenza e lo incontravamo ogni giorno. Il Metropolita di Cracovia fu elevato alla
dignità cardinalizia subito dopo la fine della guerra, in età piuttosto avanzata. Tutta la
popolazione accolse questa nomina come un giusto riconoscimento dei meriti di quel
grande uomo, che durante l'occupazione tedesca aveva saputo tenere alto l'onore della
Nazione, manifestando la propria dignità in modo chiaro per tutti.

Ricordo quella giornata di marzo — si era in Quaresima — quando l'Arcivescovo tornò


da Roma dopo aver ricevuto il cappello cardinalizio. Gli studenti sollevarono a braccia
la sua macchina e la portarono per un buon tratto, fin presso la Basilica dell'Assunzione
in Piazza del Mercato, esprimendo in tal modo l'entusiasmo religioso e patriottico che
quella nomina cardinalizia aveva suscitato nella popolazione.

III

INFLUSSI SULLA MIA VOCAZIONE

Ho parlato ampiamente dell'ambiente seminaristico, perché esso fu certamente quello


che ebbe maggior rilievo nella mia formazione sacerdotale. Allargando tuttavia lo
sguardo su un orizzonte più ampio, vedo con chiarezza che da tanti altri ambienti e
persone mi sono venuti influssi positivi, attraverso i quali Dio mi ha fatto giungere la
sua voce.

La famiglia

La preparazione al sacerdozio, ricevuta in seminario, era stata in qualche modo


preceduta da quella offertami con la vita e l'esempio dai genitori in famiglia. La mia
riconoscenza va soprattutto a mio padre, rimasto precocemente vedovo. Non avevo
ancora fatto la Prima Comunione quando perdetti la mamma: avevo appena nove anni.
Non ho perciò chiara consapevolezza del contributo, sicuramente grande, che ella dette
alla mia educazione religiosa. Dopo la sua morte e, in seguito, dopo la scomparsa del
mio fratello maggiore, rimasi solo con mio padre, uomo profondamente religioso.
Potevo quotidianamente osservare la sua vita, che era austera. Di professione era
militare e, quando restò vedovo, la sua divenne una vita di preghiera costante. Mi
capitava di svegliarmi di notte e di trovare mio padre in ginocchio, così come in
ginocchio lo vedevo sempre nella chiesa parrocchiale. Tra noi non si parlava di
vocazione al sacerdozio, ma il suo esempio fu per me in qualche modo il primo
seminario, una sorta di seminario domestico.

La fabbrica Solvay
In seguito, dopo gli anni della prima giovinezza, seminario per me divennero la cava di
pietra e il depuratore dell'acqua nella fabbrica di bicarbonato a Borek Falecki. E non si
trattava più soltanto di pre-seminario, come a Wadowice. La fabbrica fu per me, in
quella fase della vita, un vero seminario, anche se clandestino. Avevo cominciato a
lavorare nella cava dal settembre 1940; dopo un anno passai al depuratore dell'acqua
nella fabbrica. Furono quelli gli anni in cui maturò la mia decisione definitiva.
Nell'autunno del 1942 intrapresi gli studi nel seminario clandestino come ex studente di
Filologia polacca, al momento operaio alla Solvay. Non mi rendevo conto allora
dell'importanza che ciò avrebbe avuto per me. Soltanto più tardi, da sacerdote, durante
gli studi a Roma, imbattendomi attraverso i miei compagni del Collegio Belga nel
problema dei preti-operai e nel movimento della Gioventù Operaia Cattolica (JOC),
compresi che quanto era diventato così importante per la Chiesa e per il sacerdozio in
Occidente — il contatto con il mondo del lavoro — io l'avevo già iscritto nella mia
esperienza di vita.

In verità, la mia non fu esperienza di «prete operaio» ma di «seminarista operaio».


Lavorando manualmente, sapevo bene che cosa significasse la fatica fisica. Mi
incontravo ogni giorno con gente che lavorava pesantemente. Conobbi l'ambiente di
queste persone, le loro famiglie, i loro interessi, il loro valore umano e la loro dignità.
Personalmente sperimentavo molta cordialità da parte loro. Sapevano che ero studente e
sapevano anche che, appena lo avrebbero permesso le circostanze, sarei tornato agli
studi. Non incontrai mai ostilità per questa ragione. Non dava loro fastidio che portassi
al lavoro i libri. Dicevano: «Noi staremo attenti: tu leggi pure». Questo capitava
soprattutto durante i turni di notte. Dicevano spesso: «Riposati, staremo di guardia noi».

Feci amicizia con molti operai. A volte mi invitavano a casa loro. In seguito, come
sacerdote e vescovo, battezzai i loro figli e nipoti, benedissi i matrimoni e officiai i
funerali di molti di loro. Ebbi anche occasione di notare quanti sentimenti religiosi si
nascondessero in loro e quanta saggezza di vita. Questi contatti, come ho accennato,
restarono molto stretti anche quando terminò l'occupazione tedesca e poi in seguito,
praticamente fino alla mia elezione a Vescovo di Roma. Alcuni di essi durano tuttora in
forma di corrispondenza.

La parrocchia di Debniki: i Salesiani

Debbo ancora fare un salto indietro, al periodo che precedette l'entrata in seminario.
Non posso, infatti, omettere di ricordare un ambiente e, in esso, un personaggio da cui
in quel periodo ricevetti veramente molto. L'ambiente era quello della mia parrocchia,
intitolata a San Stanislao Kostka, a Debniki in Cracovia. La parrocchia era diretta dai
Padri Salesiani, che un giorno furono deportati dai nazisti nel campo di concentramento.
Rimasero soltanto un vecchio parroco e l'ispettore della provincia, tutti gli altri furono
internati a Dachau. Credo che nel processo di formazione della mia vocazione
l'ambiente salesiano abbia svolto un ruolo importante.

Nell'ambito della parrocchia c'era una persona che si distingueva tra le altre: parlo di
Jan Tyranowski. Di professione era impiegato, anche se aveva scelto di lavorare nella
sartoria di suo padre. Affermava che il lavoro di sarto gli rendeva più facile la vita
interiore. Era un uomo di una spiritualità particolarmente profonda. I Padri Salesiani,
che in quel difficile periodo avevano ripreso con coraggio ad animare la pastorale
giovanile, gli avevano affidato il compito di intessere contatti con i giovani nell'ambito
del cosiddetto «Rosario vivo». Jan Tyranowski assolse questo incarico non limitandosi
all'aspetto organizzativo, ma preoccupandosi anche della formazione spirituale dei
giovani che entravano in rapporto con lui. Imparai così i metodi elementari di
autoformazione che avrebbero poi trovato conferma e sviluppo nell'itinerario educativo
del seminario. Tyranowski, che era venuto formandosi sugli scritti di San Giovanni
della Croce e di Santa Teresa d'Avila, mi introdusse nella lettura, straordinaria per la
mia età, delle loro opere.

I Padri Carmelitani

Ciò accrebbe in me l'interesse per la spiritualità carmelitana. A Cracovia, in via


Rakowicka, c'era un monastero di Padri Carmelitani Scalzi. Li frequentavo e una volta
feci presso di loro i miei Esercizi Spirituali valendomi dell'aiuto di P. Leonardo
dell'Addolorata.

Per un certo periodo presi anche in considerazione la possibilità di entrare nel Carmelo.
I dubbi furono risolti dall'Arcivescovo Cardinale Sapieha, il quale — secondo lo stile
che gli era proprio — disse brevemente: «Bisogna prima finire quello che si è
cominciato». E così avvenne.

Il P. Kazimierz Figlewicz

Nel corso di quegli anni mio confessore e guida spirituale fu P. Kazimierz Figlewicz.
Lo avevo incontrato per la prima volta quando frequentavo la prima ginnasiale a
Wadowice. Padre Figlewicz, che era vicario della parrocchia, ci insegnava religione.
Grazie a lui mi avvicinai alla parrocchia, diventai chierichetto e in qualche modo
organizzai il gruppo dei chierichetti. Quando egli lasciò Wadowice per la cattedrale del
Wawel, continuai a mantenere i contatti con lui. Ricordo che, durante la quinta
ginnasiale, mi invitò a Cracovia per partecipare al Triduum Sacrum, che cominciava col
cosiddetto «Ufficio delle Tenebre», nel pomeriggio del Mercoledì Santo. Fu
un'esperienza che lasciò in me una traccia profonda.

Quando, dopo la maturità, mi trasferii con mio padre a Cracovia, intensificai i miei
rapporti col P. Figlewicz, che svolgeva la funzione di sottocustode della cattedrale.
Andavo a confessarmi da lui e, durante l'occupazione tedesca, spesse volte gli facevo
visita.

Quel 1° settembre 1939 non si cancellerà mai più dalla mia memoria: era il primo
venerdì del mese. Mi ero recato al Wawel per confessarmi. La cattedrale era vuota. Fu,
forse, l'ultima volta in cui potei liberamente entrare nel tempio. Esso fu poi chiuso e il
castello reale del Wawel diventò la sede del governatore generale Hans Frank. Padre
Figlewicz era l'unico sacerdote che poteva celebrare la Santa Messa, due volte alla
settimana, nella cattedrale chiusa e sotto la vigilanza di poliziotti tedeschi. In quei tempi
difficili diventò ancora più chiaro che cosa significassero per lui la cattedrale, le tombe
reali, l'altare di San Stanislao Vescovo e Martire. Fino alla morte P. Figlewicz rimase
fedele custode di quel particolare santuario della Chiesa e della Nazione, inculcandomi
un grande amore per il tempio del Wawel, che un giorno doveva diventare la mia
cattedrale vescovile.
Il 1° novembre 1946 fui ordinato sacerdote. Il giorno dopo, per la «prima Santa Messa»,
celebrata in cattedrale nella cripta di San Leonardo, P. Figlewicz era accanto a me e mi
faceva da guida. Il pio sacerdote è ormai morto da alcuni anni. Soltanto il Signore può
ricambiargli tutto il bene che ho da lui ricevuto.

Il «filo mariano»

Naturalmente, parlando delle origini della mia vocazione sacerdotale, non posso
dimenticare il filo mariano. La venerazione alla Madre di Dio nella sua forma
tradizionale mi viene dalla famiglia e dalla parrocchia di Wadowice. Ricordo, nella
chiesa parrocchiale, una cappella laterale dedicata alla Madre del Perpetuo Soccorso,
dove di mattina, prima dell'inizio delle lezioni, si recavano gli studenti del ginnasio.
Anche a lezioni concluse, nelle ore pomeridiane, vi andavano molti studenti per pregare
la Vergine.

Inoltre, a Wadowice, c'era sulla collina un monastero carmelitano, la cui fondazione


risaliva ai tempi di San Raffaele Kalinowski. Gli abitanti di Wadowice lo frequentavano
in gran numero, e ciò non mancava di riflettersi in una diffusa devozione per lo
scapolare della Madonna del Carmine. Anch'io lo ricevetti, credo all'età di dieci anni, e
lo porto tuttora. Si andava dai Carmelitani anche per confessarsi. Fu così che, tanto nella
chiesa parrocchiale quanto in quella del Carmelo, si formò la mia devozione mariana
durante gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza fino al conseguimento della maturità
classica.

Quando mi trovai a Cracovia, nel quartiere Debniki, entrai nel gruppo del «Rosario
vivo», nella parrocchia salesiana. Vi si venerava in modo particolare Maria Ausiliatrice.
A Debniki, nel periodo in cui andava configurandosi la mia vocazione sacerdotale,
anche grazie al menzionato influsso di Jan Tyranowski, il mio modo di comprendere il
culto della Madre di Dio subì un certo cambiamento. Ero già convinto che Maria ci
conduce a Cristo, ma in quel periodo cominciai a capire che anche Cristo ci conduce a
sua Madre. Ci fu un momento in cui misi in qualche modo in discussione il mio culto
per Maria ritenendo che esso, dilatandosi eccessivamente, finisse per compromettere la
supremazia del culto dovuto a Cristo. Mi venne allora in aiuto il libro di San Luigi
Maria Grignion de Montfort che porta il titolo di «Trattato della vera devozione alla
Santa Vergine». In esso trovai la risposta alle mie perplessità. Sì, Maria ci avvicina a
Cristo, ci conduce a Lui, a condizione che si viva il suo mistero in Cristo. Il trattato di
San Luigi Maria Grignion de Montfort può disturbare con il suo stile un po' enfatico e
barocco, ma l'essenza delle verità teologiche in esso contenute è incontestabile. L'autore
è un teologo di classe. Il suo pensiero mariologico è radicato nel Mistero trinitario e
nella verità dell'Incarnazione del Verbo di Dio.

Compresi allora perché la Chiesa reciti l'Angelus tre volte al giorno. Capii quanto
cruciali siano le parole di questa preghiera: «L'Angelo del Signore portò l'annuncio a
Maria. Ed ella concepì per opera dello Spirito Santo... Eccomi, sono la serva del
Signore. Avvenga di me secondo la tua parola... E il Verbo si fece carne, e venne ad
abitare in mezzo a noi...». Parole davvero decisive! Esprimono il nucleo dell'evento più
grande che abbia avuto luogo nella storia dell'umanità.

Ecco spiegata la provenienza del Totus Tuus. L'espressione deriva da San Luigi Maria
Grignion de Montfort. E l'abbreviazione della forma più completa dell'affidamento alla
Madre di Dio, che suona così: Totus Tuus ego sum et omnia mea Tua sunt. Accipio Te
in mea omnia. Praebe mihi cor Tuum, Maria.

Così, grazie a San Luigi, cominciai a scoprire tutti i tesori della devozione mariana da
posizioni in un certo senso nuove: per esempio, da bambino ascoltavo «Le ore
sull'Immacolata Concezione della Santissima Vergine Maria», cantate nella chiesa
parrocchiale, ma soltanto dopo mi resi conto delle ricchezze teologiche e bibliche in
esse contenute. La stessa cosa avvenne per i canti popolari, ad esempio per i canti
natalizi polacchi e le Lamentazioni sulla Passione di Gesù Cristo in Quaresima, tra le
quali un posto particolare occupa il dialogo dell'anima con la Madre Dolorosa.

Fu sulla base di queste esperienze spirituali che venne delineandosi l'itinerario di


preghiera e di contemplazione che avrebbe orientato i miei passi sulla strada verso il
sacerdozio, e poi in tutte le vicende successive fino ad oggi. Questa strada fin da
bambino, e più ancora da sacerdote e da vescovo, mi conduceva non di rado sui sentieri
mariani di Kalwaria Zebrzydowska. Kalwaria è il principale santuario mariano
dell'Arcidiocesi di Cracovia. Mi recavo lì spesso e camminavo in solitudine per quei
sentieri, presentando al Signore nella preghiera i diversi problemi della Chiesa,
soprattutto nel difficile periodo in cui si era alle prese con il comunismo. Volgendomi
indietro constato come «tutto si tiene»: oggi come ieri ci troviamo con la stessa
intensità nei raggi dello stesso mistero.

Il Santo Frate Alberto

Mi domando a volte quale ruolo abbia svolto nella mia vocazione la figura del Santo
Frate Alberto. Adam Chmielowski — era questo il suo nome — non era sacerdote. Tutti
in Polonia sanno chi egli sia stato. Nel periodo della mia passione per il teatro rapsodico
e per l'arte, la figura di quest'uomo coraggioso, che aveva partecipato all'«insurrezione
di gennaio» (1864) perdendo una gamba durante i combattimenti, esercitava su di me un
fascino spirituale particolare. E noto che Frate Alberto era pittore: aveva compiuto i
suoi studi a Monaco. Il patrimonio artistico da lui lasciato dimostra che aveva un grande
talento. Ebbene, quest'uomo a un certo punto della sua vita rompe con l'arte, perché
comprende che Dio lo chiama a compiti ben più importanti. Venuto a conoscenza
dell'ambiente dei miserabili di Cracovia, il cui punto d'incontro era il pubblico
dormitorio, detto anche «posto di riscaldamento», in via Krakowska, Adam
Chmielowski decide di diventare uno di loro, non come elemosiniere che arriva da fuori
per distribuire dei doni, ma come uno che dona se stesso per servire i diseredati.

Questo esempio affascinante di sacrificio suscita molti seguaci. Intorno a Frate Alberto
si radunano uomini e donne. Nascono due Congregazioni che si dedicano ai più poveri.
Tutto ciò accade all'inizio del nostro secolo, nel periodo precedente la prima guerra
mondiale.

Frate Alberto non giungerà a vedere il momento in cui la Polonia conquisterà


l'indipendenza. Morirà nel Natale del 1916. La sua opera, tuttavia, gli sopravviverà
diventando espressione delle tradizioni polacche di radicalismo evangelico, sulle orme
di San Francesco d'Assisi e di San Giovanni della Croce.

Nella storia della spiritualità polacca, il Santo Frate Alberto occupa un posto speciale.
Per me la sua figura è stata determinante, perché trovai in lui un particolare appoggio
spirituale e un esempio nel mio allontanarmi dall'arte, dalla letteratura e dal teatro, per
la scelta radicale della vocazione al sacerdozio. Una delle gioie più grandi che ho avuto
da Papa è stata quella di innalzare questo poverello di Cracovia in tonaca grigia agli
onori degli altari, prima con la beatificazione a Blonie Krakowskie durante il viaggio in
Polonia del 1983, poi con la canonizzazione a Roma nel novembre del memorabile anno
1989. Molti autori della letteratura polacca hanno immortalato la figura di Frate
Alberto. Merita di essere segnalata, tra le varie opere artistiche, i romanzi e i drammi, la
monografia a lui dedicata dal P. Konstanty Michalski. Anch'io, da giovane sacerdote,
nel periodo in cui ero vicario presso la chiesa di San Floriano a Cracovia, gli dedicai
un'opera drammatica intitolata: «Il Fratello del nostro Dio», pagando in tal modo il
debito di gratitudine che avevo contratto con lui.

Esperienza di guerra

La definitiva maturazione della mia vocazione sacerdotale, come ho detto, avvenne nel
periodo della seconda guerra mondiale, durante l'occupazione nazista. Una semplice
coincidenza temporale? O c'era un nesso più profondo tra ciò che maturava dentro di me
e il contesto storico? E difficile rispondere a siffatta domanda. Certo, nei piani di Dio
nulla è casuale. Ciò che posso dire è che la tragedia della guerra diede al processo di
maturazione della mia scelta di vita una colorazione particolare. Mi aiutò a cogliere da
un'angolatura nuova il valore e l'importanza della vocazione. Di fronte al dilagare del
male ed alle atrocità della guerra mi diventava sempre più chiaro il senso del sacerdozio
e della sua missione nel mondo.

Lo scoppio della guerra mi allontanò dagli studi e dall'ambiente universitario. In quel


periodo persi mio padre, l'ultima persona che mi restava dei miei più stretti familiari.
Anche questo comportava, oggettivamente, un processo di distacco dai miei progetti
precedenti; in qualche modo era come venir sradicato dal suolo sul quale fino a quel
momento era cresciuta la mia umanità.

Non si trattava però di un processo soltanto negativo. Alla mia coscienza, infatti, nel
contempo si manifestava sempre più una luce: il Signore vuole che io diventi sacerdote.
Un giorno lo percepii con molta chiarezza: era come un'illuminazione interiore, che
portava in sé la gioia e la sicurezza di un'altra vocazione. E questa consapevolezza mi
riempì di una grande pace interiore.

Questo accadeva sullo sfondo degli avvenimenti terribili che andavano svolgendosi
intorno a me a Cracovia, in Polonia, nell'Europa e nel mondo. Fui coinvolto
direttamente soltanto in una piccola parte di quanto sperimentarono, a partire dal 1939, i
miei connazionali. Penso in special modo ai miei coetanei della maturità a Wadowice,
amici a me molto cari, tra i quali alcuni ebrei. Ci fu chi scelse il servizio militare già nel
1938. Sembra che il primo a morire in guerra sia stato il più giovane della classe. In
seguito venni a conoscere soltanto a grandi linee la sorte di altri caduti sui vari fronti, o
morti nei campi di concentramento, o finiti a combattere presso Tobruk e Montecassino,
o deportati nei territori dell'Unione Sovietica: in Russia e in Kazakistan. Appresi queste
notizie prima gradualmente, poi più compiutamente a Wadowice nel 1948, durante il
raduno dei colleghi in occasione del decimo anno dalla maturità.

Del grande e orrendo theatrum della seconda guerra mondiale mi fu risparmiato molto.
Ogni giorno avrei potuto essere prelevato dalla casa, dalla cava di pietra, dalla fabbrica
per essere portato in un campo di concentramento. A volte mi domandavo: tanti miei
coetanei perdono la vita, perché non io? Oggi so che non fu un caso. Nel contesto del
grande male della guerra, nella mia vita personale tutto volgeva in direzione del bene
costituito dalla vocazione. Non posso dimenticare il bene ricevuto in quel periodo
difficile dalle persone che il Signore poneva sulla mia strada: sia persone della mia
famiglia che conoscenti e colleghi.

Il sacrificio dei sacerdoti polacchi

Emerge qui un'altra singolare e importante dimensione della mia vocazione. Gli anni
dell'occupazione tedesca in Occidente e di quella sovietica in Oriente portarono con sé
un enorme numero di arresti e di deportazioni di sacerdoti polacchi nei campi di
concentramento. Solo a Dachau ne furono internati circa tremila. C'erano altri campi,
come per esempio quello di Auschwitz, dove donò la vita per Cristo il primo sacerdote
canonizzato dopo la guerra, San Massimiliano Maria Kolbe, il francescano di
Niepokalanów. Tra i prigionieri di Dachau si trovava il vescovo di Wloclawek, Mons.
Michal Kozal, che ho avuto la gioia di beatificare a Varsavia nel 1987. Dopo la guerra,
alcuni tra i sacerdoti ex-prigionieri di campi di concentramento furono elevati alla
dignità vescovile. Attualmente vivono ancora gli Arcivescovi Kazimierz Majdanski e
Adam Kozlowiecki e il Vescovo Ignacy Jez, i tre ultimi Presuli testimoni di quello che
furono i campi di sterminio: essi sanno bene che cosa quell'esperienza significò nella
vita di tanti sacerdoti. Per completare il quadro, bisogna aggiungere anche i sacerdoti
tedeschi di quella stessa epoca che pure sperimentarono la stessa sorte nei lager. Ho
avuto l'onore di beatificarne alcuni: dapprima P. Rupert Mayer di Monaco e poi, durante
il recente viaggio apostolico in Germania, Mons. Bernhard Lichtenberg, parroco della
cattedrale di Berlino, e P. Karl Leisner della diocesi di Münster. Quest'ultimo, ordinato
sacerdote nel campo di concentramento nel 1944, riuscì a celebrare, dopo l'Ordinazione,
una Santa Messa soltanto.

Merita poi un ricordo particolare il martirologio dei sacerdoti nei lager della Siberia e
in altri del territorio dell'Unione Sovietica. Tra i molti che vi furono rinchiusi vorrei
ricordare la figura di P. Tadeusz Fedorowicz, ben noto in Polonia, al quale come
direttore spirituale devo personalmente molto. Padre Fedorowicz, giovane sacerdote
dell'arcidiocesi di Leopoli, si era spontaneamente presentato al suo Arcivescovo per
chiedere di poter accompagnare un gruppo di polacchi deportati verso l'Est.
L'Arcivescovo Twardowski gli concesse il permesso ed egli poté così svolgere la sua
missione sacerdotale tra i connazionali dispersi nei territori dell'Unione Sovietica e
soprattutto in Kazakistan. Ultimamente egli ha descritto in un libro interessante questa
tragica vicenda.

Ciò che ho detto a proposito dei campi di concentramento non costituisce che una parte,
pur drammatica, di questa sorta di «apocalisse» del nostro secolo. Vi ho fatto cenno per
sottolineare che il mio sacerdozio, già al suo nascere, si è iscritto nel grande sacrificio
di tanti uomini e donne della mia generazione. A me la Provvidenza ha risparmiato le
esperienze più pesanti; tanto più grande è perciò il senso del mio debito verso le persone
a me note, come pure verso quelle ben più numerose a me ignote, senza differenza di
nazione e di lingua, che con il loro sacrificio sul grande altare della storia hanno
contribuito al realizzarsi della mia vocazione sacerdotale. In qualche modo esse mi
hanno introdotto su questa strada, additandomi nella dimensione del sacrificio la verità
più profonda ed essenziale del sacerdozio di Cristo.
La bontà sperimentata tra le asprezze della guerra

Dicevo che durante i difficili anni di guerra ho ricevuto molto bene dalla gente. Penso in
modo particolare ad una famiglia, anzi a più famiglie che ho conosciuto durante
l'occupazione. Con Juliusz Kydrynski lavorai prima nelle cave di pietra e poi nella
fabbrica Solvay. Eravamo nel gruppo di operai-studenti a cui appartenevano anche
Wojciech Zukrowski, suo fratello minore Antoni e Wieslaw Kaczmarczyk. Con Juliusz
Kydrynski ci eravamo incontrati, a guerra non ancora iniziata, frequentando il primo
anno di Filologia polacca. Durante la guerra questi legami di amicizia si intensificarono.
Conobbi sua madre che era rimasta vedova, la sorella e il fratello minore. La famiglia
Kydrynski mi circondò di premurose cure e di affetto quando, il 18 febbraio 1941, persi
mio padre. Ricordo perfettamente quel giorno: tornando dal lavoro trovai mio padre
morto. In quel momento l'amicizia dei Kydrynski fu per me di grande sostegno.
L'amicizia si allargò poi ad altre famiglie, in particolare a quella dei signori Szkocki,
residenti in via Ksiecia Józefa. Cominciai lo studio del francese grazie alla signora
Jadwiga Lewaj, che abitava nella loro casa. Zofia Pozniak, figlia maggiore dei signori
Szkocki, il cui marito si trovava in campo di prigionia, ci invitava ai concerti
organizzati in casa. In questo modo il periodo buio della guerra e dell'occupazione fu
rischiarato dalla luce della bellezza che s'irradia dalla musica e dalla poesia. Questo
accadeva prima della mia decisione di entrare in seminario.

IV

SACERDOTE!

La mia ordinazione ebbe luogo in un giorno insolito per tali celebrazioni: essa avvenne
il 1o novembre, solennità di Tutti i Santi, quando la liturgia della Chiesa è tutta rivolta a
celebrare il mistero della comunione dei santi e s'appresta a fare memoria dei fedeli
defunti. L'Arcivescovo scelse questa data, perché dovevo partire per Roma per
proseguire gli studi. Fui ordinato da solo, nella cappella privata degli Arcivescovi di
Cracovia. I miei colleghi sarebbero stati ordinati l'anno seguente, nella Domenica delle
Palme.

Ero stato ordinato suddiacono e diacono in ottobre. Fu un mese di intensa preghiera,


scandito dagli Esercizi Spirituali con i quali mi preparai a ricevere gli Ordini sacri: sei
giorni di Esercizi prima del suddiaconato, e poi rispettivamente tre e sei giorni prima del
diaconato e del presbiterato. Gli ultimi Esercizi li feci da solo nella cappella del
seminario. Il giorno di Tutti i Santi mi presentai di mattina nella residenza degli
Arcivescovi di Cracovia, in via Franciszkanska 3, per ricevere l'Ordinazione
sacerdotale. Alla cerimonia partecipava un piccolo gruppo di parenti e di amici.

Ricordo di un fratello nella vocazione sacerdotale

Il luogo della mia Ordinazione, come ho detto, fu la cappella privata degli Arcivescovi
di Cracovia. Ricordo che durante l'occupazione vi andavo spesso di mattina, per fare da
ministrante al Principe Metropolita durante la Santa Messa. Ricordo anche che per un
certo periodo veniva con me un altro seminarista clandestino, Jerzy Zachuta. Un giorno
egli non si presentò. Quando dopo la Messa passai da casa sua, a Ludwinów (presso
Debniki), seppi che durante la notte era stato prelevato dalla Gestapo. Subito dopo, il
suo cognome comparve nell'elenco dei polacchi destinati alla fucilazione. Venendo
ordinato in quella stessa cappella che ci aveva visti tante volte insieme, non potevo non
ricordare questo fratello nella vocazione sacerdotale che in altro modo Cristo aveva
unito al mistero della sua morte e della sua risurrezione.

Veni, Creator Spiritus!

Mi rivedo, così, in quella cappella durante il canto del Veni, Creator Spiritus e delle
Litanie dei Santi, mentre, steso per terra in forma di croce, aspettavo il momento
dell'imposizione delle mani. Un momento emozionante! In seguito ho avuto modo di
presiedere molte volte questo rito come Vescovo e come Papa. C'è qualcosa di
impressionante nella prostrazione degli ordinandi: è il simbolo della loro totale
sottomissione di fronte alla maestà di Dio e contemporaneamente della piena
disponibilità all'azione dello Spirito Santo, che discende in loro come artefice della
consacrazione. Veni, Creator Spiritus, mentes tuorum visita, imple superna gratia quae
Tu creasti pectora. Come nella Santa Messa Egli è l'artefice della transunstanziazione
del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo, così nel sacramento dell'Ordine
Egli è l'artefice della consacrazione sacerdotale o episcopale. Il vescovo, che conferisce
il sacramento dell'Ordine, è dispensatore umano del mistero divino. L'imposizione delle
mani è continuazione del gesto già praticato nella Chiesa primitiva per indicare il dono
dello Spirito Santo in vista di una determinata missione (cfr At 6, 6; 8, 17; 13, 3). Paolo
lo utilizza nei confronti del discepolo Timoteo (cfr 2 Tm 1, 6; 1 Tm 4, 14) ed il gesto
resta nella Chiesa (cfr 1 Tm 5, 22) come segno efficace della presenza operante dello
Spirito Santo nel sacramento dell'Ordine.

Il pavimento

Chi s'appresta a ricevere la sacra Ordinazione si prostra con tutto il corpo e poggia la
fronte sul pavimento del tempio, manifestando con ciò la sua completa disponibilità ad
intraprendere il ministero che gli viene affidato. Quel rito ha segnato profondamente la
mia esistenza sacerdotale. Anni più tardi, nella Basilica di San Pietro — si era all'inizio
del Concilio — ripensando a quel momento dell'Ordinazione sacerdotale, scrissi una
poesia di cui mi piace riportare qui un frammento:

«Sei tu, Pietro. Vuoi essere qui il Pavimento su cui camminano gli altri... per giungere
là dove guidi i loro passi...
Vuoi essere Colui che sostiene i passi — come la roccia sostiene lo zoccolare di un
gregge:
Roccia è anche il pavimento d'un gigantesco tempio.
E il pascolo è la croce».
(Chiesa: I Pastori e le Fonti. Basilica di San Pietro,
autunno 1962: 11.X - 8.XII, Il Pavimento

Scrivendo queste parole pensavo sia a Pietro che a tutta la realtà del sacerdozio
ministeriale, cercando di sottolineare il profondo significato di questa prostrazione
liturgica. In quel giacere per terra in forma di croce prima dell'Ordinazione, accogliendo
nella propria vita — come Pietro — la croce di Cristo e facendosi con l'Apostolo
«pavimento» per i fratelli, sta il senso più profondo di ogni spiritualità sacerdotale.

La «prima Messa»
Essendo stato ordinato sacerdote nella festa di Tutti i Santi, celebrai la «prima Messa» il
giorno dei Morti, il 2 novembre 1946. In tale giorno ogni sacerdote può celebrare per
l'utilità dei fedeli tre Sante Messe. La mia «prima» Messa perciò ebbe — per così dire
— un carattere triplo. Fu un'esperienza di singolare intensità. Celebrai le tre Sante
Messe nella cripta di San Leonardo che costituisce, nella cattedrale del Wawel, a
Cracovia, la parte anteriore della cosiddetta cattedra vescovile di Herman. Attualmente
la cripta fa parte del complesso sotterraneo in cui sono poste le tombe reali.
Scegliendola come luogo delle mie prime Messe volli esprimere un legame spirituale
particolare con quanti riposano in quella cattedrale che, per la sua stessa storia,
costituisce un monumento senza confronti. E impregnata, più di qualsiasi altro tempio
della Polonia, di contenuti storici e teologici. Riposano in essa i re polacchi,
cominciando da Wladyslaw Lokietek: nella cattedrale del Wawel i re erano incoronati e
in essa venivano poi sepolti. Chi visita quel tempio si trova faccia a faccia con la storia
della Nazione.

Proprio per questo, come ho detto, scelsi di celebrare le mie prime Messe nella cripta di
San Leonardo: volevo sottolineare il mio particolare legame spirituale con la storia della
Polonia, che sul colle del Wawel aveva quasi una sintesi emblematica. Ma non solo
questo. C'era, in questa scelta, anche una speciale valenza teologica. Come ho detto, ero
stato ordinato il giorno prima, nella solennità di Tutti i Santi, quando la Chiesa dà
espressione liturgica alla verità della comunione dei santi – communio sanctorum. I
Santi sono coloro che, avendo accolto nella fede il mistero pasquale di Cristo, attendono
ora la risurrezione finale.

Anche le persone, i cui resti mortali riposano nei sarcofagi della cattedrale del Wawel,
aspettano lì la risurrezione. Tutta la cattedrale sembra ripetere le parole del Simbolo
degli Apostoli: «Credo nella risurrezione della carne e nella vita eterna». Questa verità
di fede illumina anche la storia delle Nazioni. Quelle persone sono come «i grandi
spiriti», che conducono la Nazione attraverso i secoli. Non vi sono soltanto sovrani
insieme con le consorti, o vescovi e cardinali; vi sono anche poeti, grandi maestri della
parola, che hanno avuto un'importanza enorme per la mia formazione cristiana e
patriottica.

Pochi i partecipanti a quelle prime Messe celebrate sul colle del Wawel: tra gli altri
ricordo che era presente la mia madrina Maria Wiadrowska, sorella maggiore di mia
madre. Serviva all'altare Mieczyslaw Malinski, che rendeva in qualche modo presente
l'ambiente e la persona di Jan Tyranowski, allora già gravemente malato.

In seguito, da sacerdote e da vescovo, visitai sempre la cripta di San Leonardo con


grande commozione. Quanto avrei desiderato poter celebrare lì la Santa Messa in
occasione del cinquantesimo anniversario della mia Ordinazione sacerdotale!

Tra il Popolo di Dio

Seguirono poi altre «prime Messe»: nella chiesa parrocchiale di San Stanislao Kostka a
Debniki e, la domenica seguente, in quella della Presentazione della Madre di Dio a
Wadowice. Celebrai anche una Messa alla confessione di San Stanislao, nella cattedrale
del Wawel, per gli amici del teatro rapsodico e per l'organizzazione clandestina «Unia»
(Unione), alla quale ero legato durante l'occupazione.
V

ROMA

Novembre scorreva veloce: era ormai tempo di partire per Roma. Quando venne il
giorno prestabilito, salii sul treno con grande emozione. Con me c'era Stanislaw
Starowieyski, un collega più giovane di me, che avrebbe dovuto frequentare l'intero
corso teologico a Roma. Per la prima volta uscivo dalle frontiere della mia Patria.
Guardavo dal finestrino del treno in corsa città conosciute soltanto nei libri di geografia.
Vidi per la prima volta Praga, Norimberga, Strasburgo, Parigi, dove ci fermammo,
ospiti del Seminario Polacco in «Rue des Irlandais». Ne ripartimmo ben presto, perché
il tempo stringeva e giungemmo a Roma negli ultimi giorni di novembre. Qui
approfittammo inizialmente dell'ospitalità dei Padri Pallottini. Ricordo che la prima
domenica dopo l'arrivo mi recai con Stanislaw Starowieyski nella Basilica di San Pietro
per assistere alla solenne venerazione di un nuovo Beato da parte del Papa. Vidi di
lontano la figura di Pio XII, portato sulla sedia gestatoria. La partecipazione del Papa
alla beatificazione si limitava allora alla recita della preghiera al nuovo Beato, mentre il
rito vero e proprio era presieduto la mattina da uno dei cardinali. Questa tradizione fu
cambiata a partire da Massimiliano Maria Kolbe, quando — nell'ottobre del 1971 —
Paolo VI officiò personalmente il rito di beatificazione del martire polacco di
Auschwitz, durante una Santa Messa concelebrata con il Cardinale Wyszynski e con i
vescovi polacchi; ad essa ebbi la gioia di partecipare anch'io.

«Imparare Roma»

Non potrò mai dimenticare le sensazioni di quei miei primi giorni «romani», quando nel
1946 cominciai ad introdurmi nella conoscenza della Città Eterna. Mi iscrissi al
«biennium ad lauream» presso l'Angelicum. Decano della Facoltà Teologica era il P.
Ciappi OP, futuro teologo della Casa Pontificia e cardinale.

Il P. Karol Kozlowski, Rettore del Seminario di Cracovia, mi aveva ripetuto più volte
che, per chi ha la fortuna di potersi formare nella capitale del Cristianesimo, più ancora
degli studi (un dottorato in teologia si può conseguire anche altrove!) importante è
«imparare Roma stessa». Cercai di seguire il suo consiglio. Arrivai a Roma con il vivo
desiderio di visitare la Città Eterna, a cominciare dalle catacombe. E così accadde.
Insieme agli amici del Collegio Belga, dove abitavo, ebbi modo di percorrere
sistematicamente la Città sotto la guida di esperti conoscitori dei suoi monumenti e della
sua storia. In occasione delle vacanze di Natale e di Pasqua potemmo recarci in altre
città italiane. Ricordo le prime vacanze, quando, lasciandoci guidare dal libro dello
scrittore danese Jœrgensen, ci recammo a scoprire i luoghi legati alla vita di San
Francesco.

Al centro della nostra esperienza restava comunque sempre Roma. Ogni giorno dal
Collegio Belga, in via del Quirinale 26, mi recavo all'Angelicum per le lezioni,
fermandomi durante il tragitto nella chiesa dei Gesuiti di Sant'Andrea al Quirinale, dove
si trovano le reliquie di San Stanislao Kostka, che abitò nell'attiguo noviziato e lì
concluse la sua vita. Ricordo che tra coloro che ne visitavano la tomba c'erano molti
seminaristi del Germanicum, facilmente riconoscibili dalle caratteristiche tonache rosse.
Nel cuore del Cristianesimo e nella luce dei santi, anche le nazionalità si incontravano,
quasi prefigurando, oltre la tragedia bellica che ci aveva tanto segnati, un mondo non
più diviso.

Prospettive pastorali

Il mio sacerdozio e la mia formazione teologica e pastorale venivano così iscrivendosi


fin dall'inizio nell'esperienza romana. I due anni di studi, conclusi nel 1948 con il
dottorato, furono anni di un intenso «imparare Roma». Il Collegio Belga contribuiva a
radicare il mio sacerdozio, giorno dopo giorno, nell'esperienza della capitale del
Cristianesimo. Esso infatti consentiva di entrare in contatto con certe forme
d'avanguardia dell'apostolato, che in quel periodo andavano sviluppandosi nella Chiesa.
Penso qui soprattutto all'incontro con P. Jozef Cardijn, creatore della JOC e futuro
cardinale, il quale veniva ogni tanto al collegio per incontrarsi con noi, sacerdoti
studenti, e parlarci di quella particolare esperienza umana che è la fatica fisica. Ad essa
io ero, in certa misura, preparato dal lavoro svolto nella cava di pietra e nel reparto del
depuratore d'acqua della fabbrica Solvay. A Roma però ebbi la possibilità di cogliere
più a fondo quanto il sacerdozio sia legato alla pastorale ed all'apostolato dei laici. Tra il
servizio sacerdotale e l'apostolato laicale esiste uno stretto rapporto, anzi un reciproco
coordinamento. Riflettendo su queste problematiche pastorali, scoprivo sempre più
chiaramente il senso ed il valore dello stesso sacerdozio ministeriale.

L'orizzonte europeo

L'esperienza fatta al Collegio Belga s'allargò, in seguito, grazie ad un contatto diretto


non solo con la nazione belga, ma anche con quella francese e olandese. Col consenso
del Cardinale Sapieha, durante le vacanze estive del 1947 il P. Stanislaw Starowieyski
ed io potemmo visitare quei Paesi. Mi aprivo così ad un più largo orizzonte europeo. A
Parigi, ove presi dimora nel Seminario Polacco, potei conoscere da vicino la vicenda dei
preti operai, la problematica affrontata nel libro dei Padri H. Godin e Y. Daniel: «La
France, pays de mission?» e la pastorale delle missioni nelle periferie di Parigi,
soprattutto nella parrocchia guidata da P. Michonneau. Queste esperienze, nel primo e
secondo anno di sacerdozio, rivestirono per me un enorme interesse.

In Olanda, grazie all'aiuto dei miei colleghi, soprattutto dei genitori dello scomparso P.
Alfred Delmé, potei trascorrere con Stanislaw Starowieyski una decina di giorni. Mi
impressionò la robusta organizzazione della Chiesa e della pastorale in quel Paese, con
le attive organizzazioni e le vivaci comunità ecclesiali.

Mi si veniva rivelando così sempre meglio, da angolature diverse e complementari,


l'Europa occidentale, l'Europa del dopoguerra, l'Europa delle meravigliose cattedrali
gotiche e, nello stesso tempo, l'Europa minacciata dal processo di secolarizzazione.
Coglievo la sfida che ciò rappresentava per la Chiesa, chiamata a fronteggiare
l'incombente pericolo attraverso nuove forme di pastorale, aperte ad una più ampia
presenza del laicato.

Tra gli emigrati

Fu però in Belgio che passai la maggior parte di quelle vacanze estive. Durante il mese
di settembre mi trovai alla guida della missione cattolica polacca, tra i minatori, nei
pressi di Charleroi. Fu un'esperienza molto fruttuosa. Per la prima volta visitai una
miniera di carbone e potei conoscere da vicino il pesante lavoro dei minatori. Visitavo
le famiglie degli emigrati polacchi, parlavo con loro, incontravo la gioventù e i bambini,
accolto sempre con benevolenza e cordialità, come quando mi trovavo alla Solvay.

La figura di San Giovanni Maria Vianney

Sulla strada del rientro dal Belgio a Roma, ebbi la fortuna di sostare ad Ars. Era la fine
di ottobre del 1947, la domenica di Cristo Re. Con grande commozione visitai la
vecchia chiesetta dove San Giovanni M. Vianney confessava, insegnava il catechismo e
teneva le sue omelie. Fu per me un'esperienza indimenticabile. Fin dagli anni del
seminario ero rimasto colpito dalla figura del parroco di Ars, soprattutto alla lettura
della biografia scritta da Mons. Trochu. San Giovanni M. Vianney sorprende soprattutto
perché in lui si rivela la potenza della grazia che agisce nella povertà dei mezzi umani.
Mi toccava nel profondo, in particolare, il suo eroico servizio nel confessionale.
Quell'umile sacerdote che confessava più di dieci ore al giorno, nutrendosi poco e
dedicando al riposo appena alcune ore, era riuscito, in un difficile periodo storico, a
suscitare una sorta di rivoluzione spirituale in Francia e non soltanto in Francia.
Migliaia di persone passavano per Ars e si inginocchiavano al suo confessionale. Sullo
sfondo della laicizzazione e dell'anticlericalismo del XIX secolo, la sua testimonianza
costituisce un evento davvero rivoluzionario.

Dall'incontro con la sua figura trassi la convinzione che il sacerdote realizza una parte
essenziale della sua missione attraverso il confessionale, attraverso quel volontario
«farsi prigioniero del confessionale». Parecchie volte, confessando a Niegowic, nella
mia prima parrocchia, e poi a Cracovia, ritornavo col pensiero a questa esperienza
indimenticabile. Ho cercato di conservare sempre il legame con il confessionale sia
durante gli impegni scientifici a Cracovia, confessando soprattutto nella Basilica
dell'Assunzione della Beata Maria Vergine, sia adesso a Roma, anche se quasi solo
simbolicamente, rientrando ogni anno in confessionale il Venerdì Santo, nella Basilica
di San Pietro.

Un «grazie» sentito

Non posso concludere queste considerazioni senza esprimere cordiale gratitudine a tutti
i componenti del Collegio Belga a Roma, a Superiori ed a compagni d'allora, dei quali
molti già sono morti; in particolare al Rettore, P. Maximilien De Furstenberg, divenuto
poi cardinale. Come non ricordare che durante il conclave, nel 1978, il Cardinale De
Furstenberg, a un certo momento, mi disse queste parole significative: Dominus adest et
vocat te? Era come un allusivo e misterioso completamento del lavoro formativo da lui
svolto, come Rettore del Collegio Belga, a favore del mio sacerdozio.

Il ritorno in Polonia

All'inizio del luglio 1948 discussi la tesi di dottorato all'Angelicum e subito dopo mi
misi sulla strada del ritorno in Polonia. Ho accennato prima che in quei due anni di
soggiorno nella Città Eterna avevo «imparato» intensamente Roma: la Roma delle
catacombe, la Roma dei martiri, la Roma di Pietro e Paolo, la Roma dei confessori.
Ritorno spesso a quegli anni con la memoria piena di emozione. Partendo portavo con
me non soltanto un accresciuto bagaglio di cultura teologica, ma anche il
consolidamento del mio sacerdozio e l'approfondimento della mia visione della Chiesa.
Quel periodo di studio intenso accanto alle Tombe degli Apostoli mi aveva dato molto
da ogni punto di vista.

Certo potrei aggiungere molti altri dettagli circa tale decisiva esperienza. Preferisco
riassumere tutto dicendo che attraverso Roma il mio giovane sacerdozio si era
arricchito di una dimensione europea e universale. Tornavo da Roma a Cracovia con
quel senso di universalità della missione sacerdotale che è stato magistralmente
espresso dal Concilio Vaticano II, soprattutto nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa
Lumen Gentium. Non soltanto il vescovo, ma anche ogni sacerdote deve vivere in sé la
sollecitudine per la Chiesa intera e sentirsi di essa, in qualche modo, responsabile.

VI

NIEGOWIC: UNA PARROCCHIA DI CAMPAGNA

Appena giunto a Cracovia, trovai nella Curia metropolitana il primo «incarico di


lavoro», la cosiddetta «aplikata». L'Arcivescovo era allora a Roma, ma aveva lasciato
per iscritto la sua volontà. Accettai la destinazione con gioia. Mi informai subito come
giungere a Niegowic e mi detti da fare per essere là nel giorno stabilito. Andai da
Cracovia a Gdów in autobus, da lì un contadino mi diede un passaggio con il carretto
verso la campagna di Marszowice, dopo di che mi consigliò di prendere a piedi una
scorciatoia attraverso i campi. Scorgevo già in lontananza la chiesa di Niegowic. Era il
tempo della mietitura. Camminavo tra campi di grano con le messi in parte già mietute,
in parte ancora ondeggianti al vento. Quando giunsi finalmente nel territorio della
parrocchia di Niegowic, mi inginocchiai e baciai la terra. Avevo imparato questo gesto
da San Giovanni M. Vianney. In chiesa sostai davanti al Santissimo Sacramento e poi
mi presentai al parroco, Mons. Kazimierz Buzala, decano di Niepolomice e parroco di
Niegowic, il quale mi accolse molto cordialmente e dopo un breve colloquio mi mostrò
l'abitazione del vicario.

Cominciò così il lavoro pastorale nella mia prima parrocchia. Esso durò un anno e
consisteva nelle mansioni tipiche di un vicario ed insegnante di religione. Mi furono
affidate cinque scuole elementari nelle campagne appartenenti alla parrocchia di
Niegowic. Vi venivo condotto con un carretto o con il calesse. Ricordo la cordialità
degli insegnanti e dei parrocchiani. Le classi erano tra loro abbastanza diverse: alcune
bene educate e tranquille, altre assai vivaci. Ancora oggi mi capita di ripensare al
silenzio raccolto che regnava nelle classi, quando durante la Quaresima parlavo della
passione del Signore.

In quel periodo la parrocchia di Niegowic si preparava alla celebrazione del


cinquantesimo anniversario della Ordinazione sacerdotale del parroco. Poiché la vecchia
chiesa risultava ormai inadeguata alle necessità pastorali, i fedeli decisero che il dono
più bello per il festeggiato sarebbe stato la costruzione di un nuovo tempio. Ma io fui
presto sottratto a quella bella comunità.

A San Floriano in Cracovia

Dopo un anno, infatti, fui trasferito nella parrocchia di San Floriano a Cracovia. Il
parroco, Mons. Tadeusz Kurowski, mi affidò la catechesi nelle classi superiori del liceo
e la cura pastorale tra gli studenti universitari. La pastorale universitaria di Cracovia
aveva allora il suo centro presso la chiesa di Sant'Anna, ma con lo sviluppo di nuove
facoltà si avvertì il bisogno di creare un nuovo centro proprio presso la parrocchia di
San Floriano. Cominciai lì le conferenze per la gioventù universitaria; le tenevo ogni
giovedì e vertevano sui problemi fondamentali riguardanti l'esistenza di Dio e la
spiritualità dell'anima umana, temi di particolare impatto nel contesto dell'ateismo
militante, proprio del regime comunista.

Il lavoro scientifico

Durante le vacanze del 1951, dopo due anni di lavoro nella parrocchia di San Floriano,
l'Arcivescovo Eugeniusz Baziak, che era succeduto nel governo dell'Arcidiocesi di
Cracovia al Cardinale Sapieha, mi indirizzò verso il lavoro scientifico. Dovetti
prepararmi per l'abilitazione alla libera docenza in etica e in teologia morale. Ciò
comportò una riduzione del lavoro pastorale a me tanto caro. Mi costò, ma da allora mi
preoccupai sempre che la dedizione allo studio scientifico della teologia e della filosofia
non mi inducesse a «dimenticarmi» di essere sacerdote; piuttosto doveva aiutarmi a
diventarlo sempre di più.

VII

CHIESA CHE SEI IN POLONIA, GRAZIE!

In questa testimonianza giubilare non posso non esprimere la mia gratitudine verso
tutta la Chiesa polacca, all'interno della quale è nato e maturato il mio sacerdozio. E
una Chiesa con una eredità millenaria di fede; una Chiesa che ha generato lungo i secoli
numerosi santi e beati, ed è affidata al patrocinio di due Santi Vescovi e Martiri –
Wojciech e Stanislaw. E una Chiesa profondamente legata al popolo e alla sua cultura;
una Chiesa che ha sempre sostenuto e difeso il popolo, specialmente nei momenti
tragici della sua storia. Ed è una Chiesa che in questo secolo è stata duramente provata:
ha dovuto sostenere una lotta drammatica per la sopravvivenza contro due sistemi
totalitari: contro il regime ispirato all'ideologia nazista durante la seconda guerra
mondiale; poi, nei lunghi decenni del dopoguerra, contro la dittatura comunista, ed il
suo ateismo militante.

Da entrambe le prove è uscita vittoriosa, grazie al sacrificio di vescovi, di sacerdoti e di


schiere di laici; grazie alla famiglia polacca «forte in Dio». Tra i vescovi del periodo
bellico non posso non menzionare la figura incrollabile del Principe Metropolita di
Cracovia, Adam Stefan Sapieha, e tra quelli del periodo postbellico, la figura del Servo
di Dio Cardinale Stefan Wyszynski. E una Chiesa che ha difeso l'uomo, la sua dignità e
i suoi diritti fondamentali, una Chiesa che ha combattuto coraggiosamente per il diritto
dei fedeli alla professione della loro fede. Una Chiesa straordinariamente dinamica,
malgrado le difficoltà e gli ostacoli che ne intralciavano il cammino.

In tale intenso clima spirituale si è venuta sviluppando la mia missione di sacerdote e di


vescovo. I due sistemi totalitari, che hanno tragicamente segnato il nostro secolo — il
nazismo, da una parte, con gli orrori della guerra e dei campi di concentramento; il
comunismo, dall'altra, col suo regime di oppressione e di terrore — ho potuto
conoscerli, per così dire, dall'interno. E facile quindi capire la mia sensibilità per la
dignità di ogni persona umana e per il rispetto dei suoi diritti, a partire dal diritto alla
vita. E una sensibilità che si è formata già nei primi anni di sacerdozio e si è rafforzata
col tempo. E facile capire anche la mia preoccupazione per la famiglia e per la gioventù:
tutto ciò è cresciuto in me organicamente proprio grazie a quelle drammatiche
esperienze.

Il presbiterio di Cracovia

Nel cinquantesimo anniversario della mia ordinazione sacerdotale mi rivolgo col


pensiero in modo particolare al presbiterio della Chiesa di Cracovia, di cui sono stato
membro come sacerdote e poi capo come Arcivescovo. Mi si presentano davanti agli
occhi tante figure di eminenti parroci e vicari. Sarebbe troppo lungo menzionarli uno
per uno. A molti di loro mi univano e mi uniscono legami di sincera amicizia. Gli
esempi della loro santità e del loro zelo pastorale mi sono stati di grande edificazione.
Indubbiamente essi hanno esercitato una influenza profonda sul mio sacerdozio. Da loro
ho imparato che cosa vuol dire in concreto essere pastore.

Sono profondamente convinto del ruolo decisivo che il presbiterio diocesano svolge
nella vita personale di ogni sacerdote. La comunità dei sacerdoti, radicata in una vera
fraternità sacramentale, costituisce un ambiente di primaria importanza per la
formazione spirituale e pastorale. Il sacerdote, di regola, non può farne a meno. Lo aiuta
a crescere nella santità e costituisce un appoggio sicuro nelle difficoltà. Come non
esprimere, in occasione del giubileo d'oro, ai sacerdoti dell'Arcidiocesi di Cracovia la
mia gratitudine per il loro contributo al mio sacerdozio?

Il dono dei laici

Penso in questi giorni anche a tutti i laici che il Signore mi ha fatto incontrare nella mia
missione di sacerdote e di vescovo. Sono stati per me un dono singolare, per il quale
non cesso di ringraziare la Provvidenza. Sono così numerosi che non è possibile
elencarli per nome, ma li porto tutti nel cuore, perché ciascuno di loro ha offerto il
proprio contributo alla realizzazione del mio sacerdozio. In qualche modo essi mi hanno
indicato la strada, aiutandomi a capire meglio il mio ministero e a viverlo in pienezza.
Sì, dai frequenti contatti con i laici ho sempre tratto molto profitto, ho imparato molto.
C'erano tra di loro semplici operai, uomini dediti alla cultura e all'arte, grandi scienziati.
Da tali incontri sono nate cordiali amicizie, delle quali molte durano ancora. Grazie a
loro la mia azione pastorale si è come moltiplicata, superando barriere e penetrando in
ambienti altrimenti difficilmente raggiungibili.

In realtà, mi ha accompagnato sempre la profonda consapevolezza dell'urgente bisogno


dell'apostolato dei laici nella Chiesa. Quando il Concilio Vaticano II parlò della
vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, non potei che provare una
grande gioia: ciò che il Concilio insegnava rispondeva ai convincimenti che avevano
guidato la mia azione fin dai primi anni del mio ministero sacerdotale.

VIII

CHI È IL SACERDOTE?
Non posso fare a meno, in questa mia testimonianza, di andare oltre il ricordo degli
eventi e delle persone, per fissare lo sguardo più in profondità, quasi per scrutare il
mistero che da cinquant'anni mi accompagna e mi avvolge.

Che significa essere sacerdote? Secondo San Paolo significa soprattutto essere
amministratore dei misteri di Dio: «Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e
amministratori dei misteri di Dio. Ora, quanto si richiede negli amministratori è che
ognuno risulti fedele» (1 Cor 4, 1-2). Il termine «amministratore» non può essere
sostituito con nessun altro. Esso è radicato profondamente nel Vangelo: si ricordi la
parabola sull'amministratore fedele e su quello infedele (cfr Lc 12, 41-48).
L'amministratore non è il proprietario, ma colui al quale il proprietario affida i suoi
beni, affinché li gestisca con giustizia e responsabilità. Proprio così il sacerdote riceve
da Cristo i beni della salvezza, per distribuirli nel modo dovuto tra le persone alle quali
viene inviato. Si tratta dei beni della fede. Il sacerdote, pertanto, è uomo della parola di
Dio, uomo del sacramento, uomo del «mistero della fede». Attraverso la fede egli
accede ai beni invisibili che costituiscono l'eredità della Redenzione del mondo operata
dal Figlio di Dio. Nessuno può ritenersi «proprietario» di questi beni. Tutti ne siamo
destinatari. In forza, però, di ciò che Cristo ha stabilito, il sacerdote ha il compito di
amministrarli.

Admirabile commercium!

La vocazione sacerdotale è un mistero. E il mistero di un «meraviglioso scambio» —


admirabile commercium — tra Dio e l'uomo. Questi dona a Cristo la sua umanità,
perché Egli se ne possa servire come strumento di salvezza, quasi facendo di
quest'uomo un altro se stesso. Se non si coglie il mistero di questo «scambio», non si
riesce a capire come possa avvenire che un giovane, ascoltando la parola «Seguimi!»,
giunga a rinunciare a tutto per Cristo, nella certezza che per questa strada la sua
personalità umana si realizzerà pienamente.

C'è al mondo una realizzazione della nostra umanità che sia più grande del poter
ripresentare ogni giorno in persona Christi il Sacrificio redentivo, lo stesso che Cristo
consumò sulla croce? In questo Sacrificio, da una parte è presente nel modo più
profondo lo stesso Mistero trinitario, dall'altra è come «ricapitolato» tutto l'universo
creato (cfr Ef 1, 10). Anche per offrire «sull'altare della terra intera il lavoro e la
sofferenza del mondo», secondo una bella espressione di Teilhard de Chardin, si compie
l'Eucaristia. Ecco perché, nel ringraziamento dopo la Santa Messa, si recita anche il
Cantico dei tre giovani dell'Antico Testamento: Benedicite omnia opera Domini
Domino... In effetti, nell'Eucaristia tutte le creature visibili e invisibili, e in particolare
l'uomo, benedicono Dio come Creatore e Padre, lo benedicono con le parole e l'azione
di Cristo, Figlio di Dio.

Sacerdote ed Eucaristia

«Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai
dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli (...) Nessuno sa chi è il Figlio se non il
Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Lc
10, 21-22). Queste parole del Vangelo di San Luca, introducendoci nell'intimo del
mistero di Cristo, ci consentono di accostarci anche al mistero dell'Eucaristia. In essa il
Figlio consostanziale al Padre, Colui che soltanto il Padre conosce, Gli offre in
sacrificio se stesso per l'umanità e per l'intera creazione. Nell'Eucaristia Cristo
restituisce al Padre tutto ciò che da Lui proviene. Si realizza così un profondo mistero di
giustizia della creatura verso il Creatore. Bisogna che l'uomo renda onore al Creatore
offrendo, con atto di ringraziamento e di lode, tutto ciò che da Lui ha ricevuto. L'uomo
non può smarrire il senso di questo debito, che egli soltanto, tra tutte le altre realtà
terrestri, può riconoscere e saldare come creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio.
Nello stesso tempo, dati i suoi limiti di creatura e il peccato che lo segna, l'uomo non
sarebbe capace di compiere questo atto di giustizia verso il Creatore, se Cristo stesso,
Figlio consostanziale al Padre e vero uomo, non intraprendesse questa iniziativa
eucaristica.

Il sacerdozio, fin dalle sue radici, è il sacerdozio di Cristo. E Lui che offre a Dio Padre
il sacrificio di se stesso, della sua carne e del suo sangue, e con il suo sacrificio
giustifica agli occhi del Padre tutta l'umanità e indirettamente tutto il creato. Il
sacerdote, celebrando ogni giorno l'Eucaristia, scende nel cuore di questo mistero. Per
questo la celebrazione dell'Eucaristia non può non essere, per lui, il momento più
importante della giornata, il centro della sua vita.

In persona Christi

Le parole che ripetiamo a conclusione del Prefazio — «Benedetto colui che viene nel
nome del Signore...» — ci riportano ai drammatici avvenimenti della Domenica delle
Palme. Cristo va a Gerusalemme per affrontare il cruento sacrificio del Venerdì Santo.
Ma il giorno precedente, durante l'Ultima Cena, ne istituisce il sacramento. Pronuncia
sul pane e sul vino le parole della consacrazione: «Questo è il mio Corpo offerto in
sacrificio per voi.(...) Questo è il calice del mio Sangue, per la nuova ed eterna alleanza,
versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me».

Quale «memoria»? Sappiamo che a questo termine occorre dare un senso forte, che va
ben oltre il semplice ricordo storico. Siamo qui nell'ordine del biblico «memoriale», che
rende presente l'evento stesso. E memoria-presenza! Il segreto di questo prodigio è
l'azione dello Spirito Santo, che il sacerdote invoca, mentre impone le mani sopra i doni
del pane e del vino: «Santifica questi doni con l'effusione del tuo Spirito, perché
diventino per noi il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo nostro Signore». Non è dunque
solo il sacerdote che ricorda gli avvenimenti della Passione, Morte e Risurrezione di
Cristo; è lo Spirito Santo che fa sì che essi si attuino sull'altare attraverso il ministero
del sacerdote. Questi agisce veramente in persona Christi. Quello che Cristo ha
compiuto sull'altare della Croce e che prima ancora ha stabilito come sacramento nel
Cenacolo, il sacerdote lo rinnova nella forza dello Spirito Santo. Egli viene in questo
momento come avvolto dalla potenza dello Spirito Santo e le parole che pronuncia
acquistano la stessa efficacia di quelle uscite dalla bocca di Cristo durante l'Ultima
Cena.

Mysterium fidei

Durante la Santa Messa, dopo la transustanziazione, il sacerdote pronuncia le parole:


Mysterium fidei, Mistero della fede! Sono parole che si riferiscono, ovviamente,
all'Eucaristia. In qualche modo, tuttavia, esse concernono anche il sacerdozio. Non
esiste Eucaristia senza sacerdozio, come non esiste sacerdozio senza Eucaristia. Non
soltanto il sacerdozio ministeriale è legato strettamente all'Eucaristia; anche il
sacerdozio comune di tutti i battezzati si radica in tale mistero. Alle parole del
celebrante i fedeli rispondono: «Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua
risurrezione, nell'attesa della tua venuta». Nella partecipazione al Sacrificio eucaristico i
fedeli diventano testimoni di Cristo crocifisso e risorto, impegnandosi a vivere quella
sua triplice missione — sacerdotale, profetica e regale — di cui sono investiti fin dal
Battesimo, come ha ricordato il Concilio Vaticano II.

Il sacerdote, quale amministratore dei «misteri di Dio», è al servizio del sacerdozio


comune dei fedeli. E lui che, annunziando la Parola e celebrando i sacramenti, specie
l'Eucaristia, rende sempre più consapevole tutto il popolo di Dio della sua
partecipazione al sacerdozio di Cristo, e contemporaneamente lo spinge a realizzarla
pienamente. Quando, dopo la transustanziazione, risuonano le parole: Mysterium fidei,
tutti sono invitati a rendersi conto della particolare densità esistenziale di questo
annuncio, in riferimento al mistero di Cristo, dell'Eucaristia, del Sacerdozio.

Non trae forse di qui la sua motivazione più profonda la stessa vocazione sacerdotale?
Una motivazione che è già tutta presente al momento dell'Ordinazione, ma che attende
di essere interiorizzata e approfondita nell'arco dell'intera esistenza. Solo così il
sacerdote può scoprire in profondità la grande ricchezza che gli è stata affidata. A
cinquant'anni dall'Ordinazione, posso dire che ogni giorno di più in quel Mysterium
fidei si ritrova il senso del proprio sacerdozio. E lì la misura del dono che esso
costituisce, e lì è pure la misura della risposta che questo dono richiede. Il dono è
sempre più grande! Ed è bello che sia così. E bello che un uomo non possa mai dire di
aver risposto pienamente al dono. E un dono ed è anche un compito: sempre! Avere
consapevolezza di questo è fondamentale per vivere appieno il proprio sacerdozio.

Cristo, Sacerdote e Vittima

La verità sul sacerdozio di Cristo mi ha parlato sempre con straordinaria eloquenza


attraverso le Litanie che si usava recitare nel seminario di Cracovia, in particolare alla
vigilia dell'Ordinazione presbiterale. Alludo alle Litanie a Cristo Sacerdote e Vittima.
Quali pensieri profondi esse suscitavano in me! Nel sacrificio della Croce, ripresentato e
attualizzato in ogni Eucaristia, Cristo offre se stesso per la salvezza del mondo. Le
invocazioni litaniche passano in rassegna i vari aspetti del mistero. Esse mi tornano alla
memoria con il simbolismo evocatore delle immagini bibliche di cui sono intessute. Me
le ritrovo sulle labbra nella lingua latina in cui le ho recitate durante il seminario e poi
tante volte negli anni successivi:

Iesu, Sacerdos et Victima,


Iesu, Sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech, ...
Iesu, Pontifex ex hominibus assumpte,
Iesu, Pontifex pro hominibus constitute, ...
Iesu, Pontifex futurorum bonorum, ...
Iesu, Pontifex fidelis et misericors, ...
Iesu, Pontifex qui dilexisti nos et lavisti nos a peccatis in sanguine tuo, ...
Iesu, Pontifex qui tradidisti temetipsum Deo oblationem et hostiam, ...
Iesu, Hostia sancta et immaculata, ...
Iesu, Hostia in qua habemus fiduciam et accessum ad Deum, ... Iesu, Hostia vivens in
saecula saeculorum...*
Quale ricchezza teologica in queste espressioni! Sono litanie profondamente radicate
nella Sacra Scrittura, soprattutto nella Lettera agli Ebrei. Basti rileggerne questo brano:
«Cristo (...) come sommo sacerdote dei beni futuri (...) entrò una volta per sempre nel
santuario non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue, dopo averci
ottenuto una redenzione eterna. Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli (...) sparsi su
quelli che sono contaminati, li santificano, purificandoli nella carne, quanto più il
sangue di Cristo, il quale con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio,
purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente?» (Eb 9, 11-
14). Cristo è sacerdote perché Redentore del mondo. Nel mistero della Redenzione si
inscrive il sacerdozio di tutti i presbiteri. Questa verità sulla Redenzione e sul Redentore
si è radicata nel centro stesso della mia coscienza, mi ha accompagnato per tutti questi
anni, ha impregnato tutte le mie esperienze pastorali, mi ha svelato contenuti sempre
nuovi.

In questi cinquant'anni di vita sacerdotale mi sono reso conto che la Redenzione, prezzo
che doveva essere pagato per il peccato, porta con sé anche una rinnovata scoperta,
quasi una «nuova creazione», di tutto ciò che è stato creato: la riscoperta dell'uomo
come persona, dell'uomo creato da Dio maschio e femmina, la riscoperta, nella loro
verità profonda, di tutte le opere dell'uomo, della sua cultura e civiltà, di tutte le sue
conquiste e attuazioni creative.

Dopo l'elezione a Papa, il mio primo impulso spirituale fu di volgermi verso Cristo
Redentore. Ne nacque l'Enciclica Redemptor Hominis. Riflettendo su tutto questo
processo, vedo sempre meglio lo stretto legame tra il messaggio di questa Enciclica e
tutto ciò che si iscrive nell'animo dell'uomo mediante la partecipazione al sacerdozio di
Cristo.

* Il testo completo delle Litanie è riportato in Appendice.

IX

ESSERE SACERDOTE OGGI

Cinquant'anni di sacerdozio non sono pochi. Quante cose sono avvenute in questo
mezzo secolo di storia! Si sono affacciati alla ribalta nuovi problemi, nuovi stili di vita,
nuove sfide. Viene spontaneo chiedersi: cosa comporta essere sacerdote oggi, in questo
scenario in grande movimento, mentre si va verso il terzo Millennio?

Non v'è dubbio che il sacerdote, con tutta la Chiesa, cammina col proprio tempo, e si fa
ascoltatore attento e benevolo, ma insieme critico e vigile, di quanto matura nella storia.
Il Concilio ha mostrato come sia possibile e doveroso un autentico rinnovamento, nella
piena fedeltà alla Parola di Dio ed alla Tradizione. Ma al di là del dovuto rinnovamento
pastorale, sono convinto che il sacerdote non deve avere alcun timore di essere «fuori
tempo», perché l'«oggi» umano di ogni sacerdote è inserito nell'«oggi» del Cristo
Redentore. Il più grande compito per ogni sacerdote e in ogni tempo è ritrovare di
giorno in giorno questo suo «oggi» sacerdotale nell'«oggi» di Cristo, in quell'«oggi» del
quale parla la Lettera agli Ebrei. Questo «oggi» di Cristo è immerso in tutta la storia —
nel passato e nel futuro del mondo, di ogni uomo e di ogni sacerdote. «Gesù Cristo è lo
stesso ieri e oggi e sempre» (Eb 13, 8). Quindi, se siamo immersi con il nostro umano,
sacerdotale «oggi» nell'«oggi» di Gesù Cristo, non esiste il pericolo che si diventi di
«ieri», arretrati... Cristo è la misura di tutti i tempi. Nel suo divino-umano, sacerdotale
«oggi», si risolve alla radice tutta l'antinomia — una volta così discussa — tra il
«tradizionalismo» e il «progressismo».

Le attese profonde dell'uomo

Se si analizzano le attese che l'uomo contemporaneo ha nei confronti del sacerdote, si


vedrà che, nel fondo, c'è in lui una sola, grande attesa: egli ha sete di Cristo. Il resto —
ciò che serve sul piano economico, sociale, politico — lo può chiedere a tanti altri. Al
sacerdote chiede Cristo! E da lui ha diritto di attenderselo innanzitutto mediante
l'annuncio della Parola. I presbiteri — insegna il Concilio — «hanno come primo
dovere quello di annunziare a tutti il Vangelo di Dio» (Presbyterorum ordinis, 4). Ma
l'annuncio mira a far sì che l'uomo incontri Gesù, specie nel mistero eucaristico, cuore
pulsante della Chiesa e della vita sacerdotale. E un misterioso, formidabile potere quello
che il sacerdote ha nei confronti del Corpo eucaristico di Cristo. In base ad esso egli
diventa l'amministratore del bene più grande della Redenzione, perché dona agli uomini
il Redentore in persona. Celebrare l'Eucaristia è la funzione più sublime e più sacra di
ogni presbitero. E per me, fin dai primi anni del sacerdozio, la celebrazione
dell'Eucaristia è stata non soltanto il dovere più sacro, ma soprattutto il bisogno più
profondo dell'anima.

Ministro della misericordia

Come amministratore del sacramento della Riconciliazione, il sacerdote adempie il


mandato trasmesso da Cristo agli Apostoli dopo la sua risurrezione: «Ricevete lo Spirito
Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno
non rimessi» (Gv 20, 22-23). Il sacerdote è testimone e strumento della misericordia
divina! Come è importante il servizio del confessionale nella sua vita! Proprio nel
confessionale la sua paternità spirituale si realizza nel modo più pieno. Proprio nel
confessionale ogni sacerdote diventa testimone dei grandi miracoli che la misericordia
divina opera nell'anima che accetta la grazia della conversione. E necessario però che
ogni sacerdote al servizio dei fratelli nel confessionale sappia fare egli stesso esperienza
di questa misericordia di Dio, attraverso la propria regolare confessione e la direzione
spirituale.

Amministratore dei misteri divini, il sacerdote è uno speciale testimone dell'Invisibile


nel mondo. E infatti amministratore di beni invisibili e incommensurabili, che
appartengono all'ordine spirituale e soprannaturale.

Un uomo a contatto con Dio

Quale amministratore di simili beni, il sacerdote, è in permanente, particolare contatto


con la santità di Dio. «Santo, Santo, Santo, il Signore Dio dell'universo! I cieli e la terra
sono pieni della tua gloria». La maestà di Dio è la maestà della santità. Nel sacerdozio
l'uomo è come innalzato alla sfera di questa santità, in qualche modo arriva alle altezze
alle quali fu una volta introdotto il profeta Isaia. E proprio di quella visione profetica si
fa eco la liturgia eucaristica: Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus Deus Sabaoth. Pleni
sunt caeli et terra gloria tua. Hosanna in excelsis.
Contemporaneamente il sacerdote vive ogni giorno, in continuazione, la discesa di
questa santità di Dio verso l'uomo: Benedictus qui venit in nomine Domini. Con queste
parole le folle di Gerusalemme salutavano Cristo che arrivava in città per consumare il
sacrificio per la redenzione del mondo. La santità trascendente, in qualche modo «fuori
del mondo», diventa in Cristo la santità «dentro il mondo». Diventa la santità del
Mistero pasquale.

Chiamato alla santità

A costante contatto con la santità di Dio, il sacerdote deve lui stesso diventare santo. E
il medesimo suo ministero ad impegnarlo in una scelta di vita ispirata al radicalismo
evangelico. Questo spiega la specifica necessità, in lui, dello spirito dei consigli
evangelici di castità, povertà e obbedienza. In questo orizzonte si comprende anche la
speciale convenienza del celibato. Da qui il particolare bisogno di preghiera nella sua
vita: la preghiera sorge dalla santità di Dio e nello stesso tempo è la risposta a questa
santità. Ho scritto una volta: «La preghiera crea il sacerdote e il sacerdote si crea
attraverso la preghiera». Sì, il sacerdote dev'essere innanzitutto uomo di preghiera,
convinto che il tempo dedicato all'incontro intimo con Dio è sempre il meglio
impiegato, perché oltre che a lui giova anche al suo lavoro apostolico.

Se il Concilio Vaticano II parla della universale vocazione alla santità, nel caso del
sacerdote bisogna parlare di una speciale vocazione alla santità. Cristo ha bisogno di
sacerdoti santi! Il mondo di oggi reclama sacerdoti santi! Soltanto un sacerdote santo
può diventare, in un mondo sempre più secolarizzato, un testimone trasparente di Cristo
e del suo Vangelo. Soltanto così il sacerdote può diventare guida degli uomini e maestro
di santità. Gli uomini, soprattutto i giovani, aspettano una tale guida. Il sacerdote può
essere guida e maestro nella misura in cui diventa un autentico testimone!

La cura animarum

Nella mia ormai lunga esperienza, tra tante situazioni diverse, mi sono confermato nella
convinzione che soltanto dal terreno della santità sacerdotale può crescere una
pastorale efficace, una vera «cura animarum». Il segreto più vero degli autentici
successi pastorali non sta nei mezzi materiali, ed ancor meno nei «mezzi ricchi». I frutti
duraturi degli sforzi pastorali nascono dalla santità del sacerdote. Questo è il
fondamento! Naturalmente sono indispensabili la formazione, lo studio,
l'aggiornamento; una preparazione insomma adeguata, che renda capaci di cogliere le
urgenze e di definire le priorità pastorali. Si potrebbe tuttavia asserire che le priorità
dipendono anche dalle circostanze, e ogni sacerdote è chiamato a precisarle e a viverle
d'intesa col suo Vescovo e in armonia con gli orientamenti della Chiesa universale.
Nella mia vita ho individuato queste priorità nell'apostolato dei laici, in special modo
nella pastorale familiare — campo nel quale gli stessi laici mi hanno aiutato tanto —,
nella cura per i giovani e nel dialogo intenso con il mondo della scienza e della cultura.
Tutto questo si è rispecchiato nella mia attività scientifica e letteraria. E nato così lo
studio «Amore e responsabilità» e, tra l'altro, un'opera letteraria: «La bottega
dell'orefice» con il sottotitolo: Meditazioni sul sacramento del matrimonio.

Una ineludibile priorità oggi è costituita dall'attenzione preferenziale per i poveri, gli
emarginati, gli immigrati. Per essi il sacerdote deve essere veramente un «padre».
Indispensabili sono certo anche i mezzi materiali, come quelli che ci offre la tecnologia
moderna. Il segreto tuttavia rimane sempre la santità di vita del sacerdote che s'esprime
nella preghiera e nella meditazione, nello spirito di sacrificio e nell'ardore missionario.
Quando ripercorro con il pensiero gli anni del mio servizio pastorale come sacerdote e
come vescovo, mi convinco sempre più di quanto ciò sia vero e fondamentale.

Uomo della Parola

Ho già accennato che, per essere autentica guida della comunità, vero amministratore
dei misteri di Dio, il sacerdote è chiamato ad essere anche uomo della parola di Dio,
generoso ed infaticabile evangelizzatore. Oggi se ne vede ancor più l'urgenza di fronte
ai compiti immensi della «nuova evangelizzazione».

Dopo tanti anni di ministero della Parola, che specie da Papa mi hanno visto pellegrino
in tutti gli angoli del mondo, non posso fare a meno di dedicare ancora qualche
considerazione a questa dimensione della vita sacerdotale. Una dimensione esigente,
giacché gli uomini di oggi si aspettano dal sacerdote, prima che la parola «annunciata»,
la parola «vissuta». Il presbitero deve «vivere della Parola». Al tempo stesso, però, egli
si sforzerà di essere anche preparato intellettualmente per conoscerla a fondo ed
annunciarla efficacemente.

Nella nostra epoca caratterizzata da un alto grado di specializzazione in quasi tutti i


settori della vita, la formazione intellettuale è quanto mai importante. Essa rende
possibile intraprendere un dialogo intenso e creativo con il pensiero contemporaneo. Gli
studi umanistici e filosofici e la conoscenza della teologia sono le strade per giungere a
tale formazione intellettuale, che dovrà poi essere approfondita per tutta la vita. Lo
studio, per essere autenticamente formativo, ha bisogno di essere costantemente
affiancato dalla preghiera, dalla meditazione, dall'implorazione dei doni dello Spirito
Santo: la sapienza, l'intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà e il timore di
Dio. San Tommaso d'Aquino spiega in che modo, con i doni dello Spirito Santo, tutto
l'organismo spirituale dell'uomo venga sensibilizzato alla luce di Dio, alla luce della
conoscenza e anche all'ispirazione dell'amore. La preghiera per i doni dello Spirito
Santo mi ha accompagnato fin dalla giovinezza e le sono tuttora fedele.

Approfondimento scientifico

Ma certamente, come insegna lo stesso San Tommaso, la «scienza infusa», che è frutto
di speciale intervento dello Spirito Santo, non esonera dal dovere di procurarsi la
«scienza acquisita».

Per quanto mi concerne, come già ho detto, subito dopo l'ordinazione sacerdotale fui
inviato a Roma a perfezionare gli studi. Più tardi, per volontà del mio Vescovo, dovetti
occuparmi di scienza come professore di etica alla Facoltà Teologica di Cracovia e
all'Università Cattolica di Lublino. Frutto di questi studi fu il dottorato su San Giovanni
della Croce e poi la tesi per la libera docenza su Max Scheler: specificamente, sul
contributo che il suo sistema etico di tipo fenomenologico può dare alla formazione
della teologia morale. A questo lavoro di ricerca devo veramente molto. Sulla mia
precedente formazione aristotelico-tomista si innestava così il metodo fenomenologico,
cosa che mi ha permesso di intraprendere numerose prove creative in questo campo.
Penso soprattutto al libro «Persona e atto». In questo modo mi sono inserito nella
corrente contemporanea del personalismo filosofico, studio che non è stato privo di
frutti pastorali. Spesso constato che molte delle riflessioni maturate in questi studi mi
aiutano durante gli incontri con singole persone e durante gli incontri con le folle dei
fedeli in occasione dei viaggi apostolici. Questa formazione nell'orizzonte culturale del
personalismo mi ha dato una più profonda consapevolezza di quanto ciascuno sia
persona unica e irripetibile, e ritengo tale consapevolezza molto importante per ogni
sacerdote.

Il dialogo con il pensiero contemporaneo

Grazie ad incontri e discussioni con naturalisti, fisici, biologi ed anche storici ho


imparato ad apprezzare l'importanza delle altre branche del sapere riguardanti le
discipline scientifiche, alle quali pure è dato di poter giungere alla verità sotto
angolature diverse. Bisogna quindi che lo splendore della verità — Veritatis splendor —
le accompagni continuamente, permettendo agli uomini di incontrarsi, di scambiarsi le
riflessioni e di arricchirsi reciprocamente. Ho portato con me da Cracovia a Roma la
tradizione di periodici incontri interdisciplinari, che si svolgono regolarmente nel
periodo estivo a Castel Gandolfo. Cerco di essere fedele a questa buona consuetudine.

«Labia sacerdotum scientiam custodiant...» (cfr Ml 2, 7). Mi piace richiamare queste


parole del profeta Malachia, riprese dalle Litanie a Cristo Sacerdote e Vittima, perché
hanno una sorta di valore programmatico per chi è chiamato ad essere ministro della
Parola. Egli deve essere davvero uomo di scienza nel senso più alto e religioso di questo
termine. Deve avere e trasmettere quella «scienza di Dio» che non è solo un deposito di
verità dottrinali, ma esperienza personale e viva del Mistero, nel senso indicato dal
Vangelo di Giovanni nella grande preghiera sacerdotale: «Questa è la vita eterna: che
conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17, 3).

Ai Fratelli nel sacerdozio

Concludendo questa testimonianza sulla mia vocazione sacerdotale, desidero rivolgermi


a tutti i Fratelli nel sacerdozio: a tutti senza eccezione! Lo faccio con le parole di San
Pietro: «Fratelli, cercate di render sempre più sicura la vostra vocazione e la vostra
elezione. Se farete questo non inciamperete mai» (2 Pt 1, 10). Amate il vostro
sacerdozio! Siate fedeli fino alla fine! Sappiate vedere in esso quel tesoro evangelico
per il quale vale la pena di donare tutto (cfr Mt 13, 44).

In modo particolare mi rivolgo a quelli tra voi che vivono un periodo di difficoltà o
addirittura di crisi della loro vocazione. Vorrei che questa mia testimonianza personale
— testimonianza di sacerdote e Vescovo di Roma, che festeggia il giubileo d'oro
dell'Ordinazione — fosse per voi aiuto e invito alla fedeltà. Ho scritto queste parole
pensando a ognuno di voi, ognuno di voi abbracciando con la preghiera.

Pupilla oculi

Ho pensato anche a tanti giovani seminaristi che si preparano al sacerdozio. Quante


volte un vescovo torna con il pensiero e con il cuore al seminario! Esso è il primo
oggetto delle sue preoccupazioni. Si suol dire che il seminario costituisce per un
vescovo la «pupilla dell'occhio». L'uomo difende la pupilla del suo occhio, perché essa
gli consente di vedere. Così, in qualche modo, il vescovo vede la sua Chiesa attraverso
il seminario, giacché dalle vocazioni sacerdotali dipende tanta parte della vita ecclesiale.
La grazia di numerose e sante vocazioni sacerdotali gli permette di guardare con fiducia
al futuro della sua missione.

Lo dico sulla base dei molti anni della mia esperienza episcopale. Sono divenuto
vescovo dopo dodici anni dall'Ordinazione sacerdotale: buona parte di questo
cinquantennio è stata segnata proprio dalla preoccupazione per le vocazioni. Grande è la
gioia del vescovo quando il Signore dona vocazioni alla sua Chiesa; la loro assenza
invece provoca preoccupazione e inquietudine. Il Signore Gesù ha paragonato questa
preoccupazione a quella del mietitore: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi!
Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!» (Mt 9, 37).

Deo gratias!

Non posso chiudere queste riflessioni, nell'anno del mio giubileo d'oro sacerdotale,
senza esprimere al Signore della messe la più profonda gratitudine per il dono della
vocazione, per la grazia del sacerdozio, per le vocazioni sacerdotali in tutto il mondo.
Lo faccio in unione con tutti i vescovi, che condividono la stessa preoccupazione per le
vocazioni e vivono la stessa gioia quando il loro numero aumenta. Grazie a Dio, è in via
di superamento una certa crisi delle vocazioni sacerdotali nella Chiesa. Ogni nuovo
sacerdote porta con sé una benedizione speciale: «Benedetto colui che viene nel nome
del Signore». In ciascun sacerdote infatti è Cristo stesso che viene. Se San Cipriano ha
detto che il cristiano è un «altro Cristo» — Christianus alter Christus — a maggior
ragione si può dire: Sacerdos alter Christus.

Voglia Iddio tener desta nei sacerdoti la coscienza grata ed operosa del dono ricevuto e
suscitare in molti giovani una risposta pronta e generosa alla sua chiamata a spendersi
senza riserve per la causa del Vangelo. Ne trarranno vantaggio gli uomini e le donne del
nostro tempo, così bisognosi di senso e di speranza. Ne gioirà la Comunità cristiana, che
potrà guardare con fiducia alle incognite e alle sfide del terzo Millennio, ormai alle
porte.

La Vergine Maria accolga come un omaggio filiale questa mia testimonianza, a gloria
della Santa Trinità. La renda feconda nel cuore dei fratelli nel sacerdozio e di tanti figli
della Chiesa. Ne faccia un seme di fraternità anche per quanti, pur non condividendo la
stessa fede, mi fanno spesso dono del loro ascolto e del loro dialogo sincero.

APPENDICE

Litanie di Nostro Signore Gesù Cristo

Sacerdote e Vittima

Kyrie, eleison Kyrie, eleison

Christe, eleison Christe, eleison


Kyrie, eleison Kyrie, eleison

Christe, audi nos Christe, audi nos

Christe, exaudi nos Christe, exaudi nos

Pater de cælis, Deus, miserere nobis

Fili, Redemptor mundi, Deus, miserere nobis

Spiritus Sancte, Deus, miserere nobis

Sancta Trinitas, unus Deus, miserere nobis

Iesu, Sacerdos et Victima, miserere nobis

Iesu, Sacerdos in æternum

secundum ordinem Melchisedech, miserere nobis

Iesu, Sacerdos quem misit Deus

evangelizare pauperibus, miserere nobis

Iesu, Sacerdos qui in novissima cena

formam sacrificii perennis instituisti, miserere nobis

Iesu, Sacerdos semper vivens

ad interpellandum pro nobis, miserere nobis

Iesu, Pontifex quem Pater unxit

Spiritu Sancto et virtute, miserere nobis

Iesu, Pontifex ex hominibus assumpte, miserere nobis

Iesu, Pontifex pro hominibus

constitute, miserere nobis

Iesu, Pontifex confessionis nostræ, miserere nobis

Iesu, Pontifex amplioris

præ Moysi gloriæ, miserere nobis

Iesu, Pontifex tabernaculi veri, miserere nobis


Iesu, Pontifex futurorum bonorum, miserere nobis

Iesu, Pontifex sancte,

innocens et impollute, miserere nobis

Iesu, Pontifex fidelis et misericors, miserere nobis

Iesu, Pontifex Dei et animarum

zelo succense, miserere nobis

Iesu, Pontifex in æternum perfecte, miserere nobis

Iesu, Pontifex qui per proprium

sanguinem cælos penetrasti, miserere nobis

Iesu, Pontifex qui nobis

viam novam initiasti, miserere nobis

Iesu, Pontifex qui dilexisti nos

et lavisti nos a peccatis in sanguine tuo, miserere nobis

Iesu, Pontifex qui tradidisti temetipsum

Deo oblationem et hostiam, miserere nobis

Iesu, Hostia Dei et hominum, miserere nobis

Iesu, Hostia sancta et immaculata, miserere nobis

Iesu, Hostia placabilis, miserere nobis

Iesu, Hostia pacifica, miserere nobis

Iesu, Hostia propitiationis et laudis, miserere nobis

Iesu, Hostia reconciliationis et pacis, miserere nobis

Iesu, Hostia in qua habemus fiduciam

et accessum ad Deum, miserere nobis

Iesu, Hostia vivens in sæcula

sæculorum, miserere nobis


Propitius esto! parce nobis, Iesu

Propitius esto! exaudi nos, Iesu

A temerario in clerum ingressu, libera nos, Iesu

A peccato sacrilegii, libera nos, Iesu

A spiritu incontinentiæ, libera nos, Iesu

A turpi quæstu, libera nos, Iesu

Ab omni simoniæ labe, libera nos, Iesu

Ab indigna opum ecclesiasticarum

dispensatione, libera nos, Iesu

Ab amore mundi eiusque vanitatum, libera nos, Iesu

Ab indigna Mysteriorum tuorum

celebratione, libera nos, Iesu

Per æternum sacerdotium tuum, libera nos, Iesu

Per sanctam unctionem, qua a Deo Patre

in sacerdotem constitutus es, libera nos, Iesu

Per sacerdotalem spiritum tuum, libera nos, Iesu

Per ministerium illud, quo Patrem tuum

super terram clarificasti, libera nos, Iesu

Per cruentam tui ipsius immolationem

semel in cruce factam, libera nos, Iesu

Per illud idem sacrificium

in altari quotidie renovatum, libera nos, Iesu

Per divinam illam potestatem, quam in

sacerdotibus tuis invisibiliter exerces, libera nos, Iesu

Ut universum ordinem sacerdotalem


in sancta religione conservare

digneris, Te rogamus, audi nos

Ut pastores secundum cor tuum populo tuo

providere digneris, Te rogamus, audi nos

Ut illos spiritus sacerdotii tui implere

digneris, Te rogamus, audi nos

Ut labia sacerdotum scientiam custodiant, Te rogamus, audi nos

Ut in messem tuam operarios fideles mittere

digneris, Te rogamus, audi nos

Ut fideles mysteriorum tuorum dispensatores

multiplicare digneris, Te rogamus, audi nos

Ut eis perseverantem in tua voluntate

famulatum tribuere digneris, Te rogamus, audi nos

Ut eis in ministerio mansuetudinem,

in actione sollertiam et in oratione

constantiam concedere digneris, Te rogamus, audi nos

Ut per eos sanctissimi Sacramenti

cultum ubique promovere digneris, Te rogamus, audi nos

Ut qui tibi bene ministraverunt,

in gaudium tuum suscipere digneris, Te rogamus, audi nos

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, parce nobis, Domine

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, exaudi nos, Domine

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis, Domine

Iesu, Sacerdos, audi nos

Iesu, Sacerdos, exaudi nos


Oremus

Ecclesiæ tuæ, Deus, sanctificator et custos, suscita in ea per Spiritum tuum idoneos et
fideles sanctorum mysteriorum dispensatores, ut eorum ministerio et exemplo christiana
plebs in viam salutis te protegente dirigatur. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

Deus, qui ministrantibus et ieiunantibus discipulis segregari iussisti Saulum et


Barnabam in opus ad quod assumpseras eos, adesto nunc Ecclesiæ tuæ oranti, et tu, qui
omnium corda nosti, ostende quos elegeris in ministerium. Per Christum Dominum
nostrum.

Amen.

INDICE

Ho vivo nella memoria

Agli inizi... il mistero!

I primi segni della vocazione

Gli studi all'Università Jaghellonica

Lo scoppio della seconda guerra mondiale

Il teatro della parola viva

II

La decisione di entrare in seminario

Le vacanze da seminarista

Il Cardinale Adam Stefan Sapieha

III

Influssi sulla mia vocazione

La famiglia

La fabbrica Solvay

La parrocchia di Debniki: i Salesiani

I Padri Carmelitani
Il P. Kazimierz Figlewicz

Il «filo mariano»

Il Santo Frate Alberto

Esperienza di guerra

Il sacrificio dei sacerdoti polacchi

La bontà sperimentata tra le asprezze della guerra

IV

Sacerdote!

Ricordo di un fratello nella vocazione sacerdotale

Veni, Creator Spiritus!

Il pavimento

La «prima Messa»

Tra il Popolo di Dio

Roma

«Imparare Roma»

Prospettive pastorali

L'orizzonte europeo

Tra gli emigrati

La figura di San Giovanni Maria Vianney

Un «grazie» sentito

Il ritorno in Polonia

VI

Niegowic: una parrocchia di campagna

A San Floriano in Cracovia


Il lavoro scientifico

VII

Chiesa che sei in Polonia, grazie!

Il presbiterio di Cracovia

Il dono dei laici

VIII

Chi è il sacerdote?

Admirabile commercium!

Sacerdote ed Eucaristia

In persona Christi

Mysterium fidei

Cristo, Sacerdote e Vittima

IX

Essere sacerdote oggi

Le attese profonde dell'uomo

Ministro della misericordia

Un uomo a contatto con Dio

Chiamato alla santità

La cura animarum

Uomo della Parola

Approfondimento scientifico

Il dialogo con il pensiero contemporaneo

Ai Fratelli nel sacerdozio

Pupilla oculi
Deo gratias!

APPENDICE

Litanie di nostro Signore Gesù Cristo, Sacerdote e Vittima

INDICE

JUAN PABLO II

DON Y MISTERIO

INTRODUCCIÓN

Permanece vivo en mi recuerdo el encuentro gozoso que, por iniciativa de la


Congregación para el Clero, tuvo lugar en el Vaticano en el otoño del pasado año (27 de
octubre de 1995), para celebrar el trigésimo aniversario del Decreto conciliar
Presbyterorum Ordinis. En el ambiente festivo de aquella asamblea diversos sacerdotes
hablaron de su vocación, y también yo ofrecí mi propio testimonio. Me pareció hermoso
y fructífero que, entre sacerdotes, ante el pueblo de Dios, se ofreciera este servicio de
edificación recíproca.

Las palabras que pronuncié en aquella circunstancia tuvieron un eco may grande. A raíz
de ello, desde varias partes se me pidió con insistencia que volviera a tratar, de un modo
más amplio, el tema de mi vocación, con ocasión del Jubileo sacerdotal.

Confieso que la propuesta, al principio, suscitó en mí alguna resistencia comprensible.


Pero después me sentí como obligado a aceptar la invitación, viendo en ello un aspecto
del servicio propio del ministerio petrino. Movido por algunas preguntas del Dr. Gian
Franco Svidercoschi que han hecho de hilo conductor, me he dejado llevar con libertad
por la ola de recuerdos, sin ninguna pretensión estrictamente documental.

Todo lo que digo aquí, más allá de los acontecimientos históricos, pertenece a mis
raíces más profundas, a mi experiencia más íntima. Lo recuerdo ante todo para dar
gracias al Señor: "Misericordias Domini in aetemum cantabo!" Lo ofrezco a los
sacerdotes y al pueblo de Dios como testimonio de amor.

I
EN LOS COMIENZOS... ¡EL MISTERIO!
¿Cuál es la historia de mi vocación sacerdotal? La conoce sobre todo Dios. En su
dimensión más profunda, toda vocación sacerdotal es un gran misterio, es un don que
supera infinitamente al hombre. Cada uno de nosotros sacerdotes lo experimenta
claramente durante toda la vida. Ante la grandeza de este don sentimos cuan indignos
somos de ello.

La vocación es el misterio de la elección divina: "No me habéis elegido vosotros a mí,


sino que yo os he elegido a vosotros, y os he destinado para que vayáis y deis fruto, y
que vuestro fruto permanezca" (Jn 15, 16). "Y nadie se arroga tal dignidad, sino el
llamado por Dios, lo mismo que Aarón'' (Hb 5, 4). "Antes de haberte formado yo en el
seno materno, te conocía, y antes que nacieses, te tenía consagrado: yo profeta de las
naciones te constituí" (Jr 1, 5). Estas palabras inspiradas estremecen profundamente
toda alma sacerdotal.

Por eso, cuando en las más diversas circunstancias -por ejemplo, con ocasión de los
Jubileos sacerdotales- hablamos del sacerdocio y damos testimonio del mismo, debemos
hacerlo con gran humildad, conscientes de que Dios "nos ha llamado con una vocación
santa, no por nuestras obras, sino por su propia determinación y por su gracia" (2 Tm 1,
9). Al mismo tiempo, nos damos cuenta de que las palabras humanas no son capaces de
abarcar la magnitud del misterio que el sacerdocio tiene en sí mismo.

Esta premisa me parece indispensable para que se pueda comprender de modo justo lo
que voy a decir sobre mi camino hacia el sacerdocio.

Las primeras señales de la vocación

El Arzobispo Metropolitano de Cracovia, Príncipe Adam Stefan Sapieha, visitó la


parroquia de Wadowice cuando yo era estudiante en el instituto. Mi profesor de
religión, P. Edward Zacher, me encargó darle la bienvenida. Así, tuve entonces la
primera ocasión de encontrarme frente a aquel hombre tan venerado por todos. Sé que,
después de mi discurso, el Arzobispo preguntó al profesor de religión qué facultad
elegiría yo al terminar el instituto. El P. Zacher respondió: "Estudiará filología polaca".
El Prelado comentó: "Lástima que no sea teología".

En ese período de mi vida la vocación sacerdotal no estaba aún madura, a pesar de que a
mi alrededor eran muchos los que creían que debía entrar en el seminario. Y tal vez
alguno pudo pensar que, si un joven con tan claras inclinaciones religiosas no entraba en
el seminario, era señal de que otros amores o aspiraciones estaban en juego. En efecto,
en la escuela tenía muchas compañeras y, comprometido como estaba en el círculo
teatral escolar, no faltaban diversas posibilidades de encuentros con chicos y chicas. Sin
embargo, el problema no era ese. En aquel tiempo estaba fascinado sobre todo por la
literatura, en particular por la dramática, y por el teatro. A este último me había iniciado
Mieczyslaw Kotlarczyk, profesor de lengua polaca, mayor que yo en edad. El era un
verdadero pionero del teatro de aficionados y tenía grandes ambiciones de un repertorio
de calidad.

Los estudios en la Universidad Jaghellonica


En mayo de 1938, superado el examen final de los estudios en el instituto, me inscribí
en la Universidad Jaghellonica para realizar los cursos de Filología polaca. Por este
motivo me trasladé, junto con mi padre, desde Wadowice a Cracovia. Nos instalamos en
la calle Tyniecka 10, en el barrio de Debniki. La casa pertenecía a los parientes de mi
madre. Comencé los estudios en la Facultad de Filosofía de la Universidad Jaghellonica,
siguiendo los cursos de Filología polaca, pero sólo logré acabar el primer año, porque el
1de septiembre de 1939 estalló la segunda guerra mundial.

A propósito de los estudios, deseo subrayar que mi elección de la filología polaca estaba
motivada por una clara predisposición hacia la literatura. Sin embargo, ya durante el
primer año, atrajo mi atención el estudio de la lengua misma. Estudiábamos la
gramática descriptiva del polaco moderno y al mismo tiempo la evolución histórica de
la lengua, con un particular interés por el viejo tronco eslavo. Esto me introdujo en
horizontes completamente nuevos, por no decir en el misterio mismo de la palabra.

La palabra, antes de ser pronunciada en el escenario, vive en la historia del hombre


como dimensión fundamental de su experiencia espiritual. En última instancia, remite al
insondable misterio de Dios mismo. El redescubrir la palabra a través de los estudios
literarios y lingüísticos, me acercaba al misterio de la Palabra, de esa Palabra a la cual
nos referimos cada día en la oración del Ángelus: ''La Palabra se hizo carne, y puso su
Morada entre nosotros'' (Jn 1, 14). Comprendí más tarde que los estudios de filología
polaca preparaban en mí el terreno para otro tipo de intereses y de estudios.
Predisponían mi ánimo para acercarme a la filosofía y a la teología.

El estallido de la segunda guerra mundial

Pero volvamos al 1 de septiembre de 1939. El estallido de la guerra cambió de modo


radical la marcha de mi vida. Verdaderamente los profesores de la Universidad
Jaghellonica intentaron comenzar de todos modos el nuevo año académico, pero las
clases duraron sólo hasta el 6 de noviembre de 1939. En ese día las autoridades
alemanas convocaron a todos los profesores a una asamblea que acabó con la
deportación de aquellos respetables hombres de ciencia al campo de concentración de
Sachsenhausen. Acababa así en mi vida el período de los estudios de filología polaca y
comenzaba la fase de la ocupación alemana, durante la cual al principio intenté leer y
escribir mucho. Precisamente a esa época se remontan mis primeros trabajos literarios.

Para evitar la deportación a trabajos forzados en Alemania, en el otoño de 1940 empecé


a trabajar como obrero en una cantera de piedra vinculada a la fábrica química Solvay.
Estaba situada en Zakrzówek, a casi media hora de mi casa de Debniki, e iba andando
hasta allí cada día. En aquella cantera escribí una poesía. Releyéndola después de tantos
años, la encuentro aún particularmente expresiva de aquella singular experiencia:

"Escucha bien, escucha los golpes del martillo, la sacudida, el ritmo.


El ruido te permite sentir dentro la fuerza, la intensidad del golpe.
Escucha bien, escucha, eléctrica corriente de río penetrante que corta hasta las piedras,
y entenderás conmigo que toda la grandeza del trabajo bien hecho es grandeza del
hombre...''
(La cantera: I; Materia, I)
Estaba presente cuando, durante el estallido de una carga de dinamita, las piedras
golpearon a un obrero y lo mataron. Quedé profundamente desconcertado:

"Levantaron el cuerpo, en silencio avanzaban.


Abatidos, sentían en todos el agravio..."
(La cantera: IV; En memoria de un compañero de trabajo, 2.3)

Los responsables de la cantera, que eran polacos, trataban de evitarnos a los estudiantes
los trabajos más pesados. A mí, por ejemplo, me asignaron el encargo de ayudante del
llamado barrenero, de nombre Franciszek Labus. Lo recuerdo porque, algunas veces, se
dirigía a mí con palabras de este tipo: "Karol, tu deberías ser sacerdote. Cantarás bien,
porque tienes una voz bonita y estarás bien..." Lo decía con toda sencillez, expresando
de ese modo un convencimiento muy difundido en la sociedad sobre la condición del
sacerdote. Las palabras del viejo obrero se me han quedado grabadas en la memoria.

El teatro de la palabra viva

En aquella época estuve en contacto con el teatro de la palabra viva, que Mieczyslaw
Kotlarczyk había fundado y continuaba animando en la clandestinidad. La dedicación al
teatro fue favorecida al principio por el hecho de haber hospedado en mi casa a
Kotlarczyk y a su mujer Sofía, que habían logrado pasar de Wadowice a Cracovia, al
territorio del "Gobierno General". Vivíamos juntos. Yo trabajaba como obrero, él
primero como tranviario y después como empleado en una oficina. Compartiendo la
misma casa, podíamos no sólo continuar con nuestras conversaciones sobre el teatro,
sino incluso realizar actuaciones concretas, que tenían precisamente el carácter de teatro
de la palabra. Era un teatro muy sencillo. La parte escénica y decorativa estaba reducida
al mínimo; la actuación consistía esencialmente en la recitación del texto poético.

Las representaciones tenían lugar ante un grupo reducido de conocidos e invitados, que
demostraban un interés específico por la literatura y eran, de algún modo, "iniciados".
Era indispensable mantener el secreto sobre estos encuentros teatrales, pues de lo
contrario se corría el riesgo de graves sanciones por parte de las autoridades de la
ocupación, sin excluir la deportación a los campos de concentración. He de admitir que
toda aquella experiencia teatral ha quedado profundamente grabada en mi espíritu, a
pesar de que en un cierto momento de mi vida me di cuenta de que, en realidad, no era
esa mi vocación.

II
LA DECISIÓN DE ENTRAR EN EL SEMINARIO

En el otoño de 1942 tomé la decisión definitiva de entrar en el seminario de Cracovia,


que funcionaba clandestinamente. Me recibió el Rector, P. Jan Piwowarczyk. El hecho
debía quedar en la más absoluta reserva, incluso para las personas más allegadas.
Comencé los estudios en la Facultad teológica de la Universidad Jaghellonica, también
clandestina, mientras continuaba trabajando como obrero en la Solvay.

Durante el período de la ocupación el Arzobispo Metropolitano estableció el seminario,


siempre de modo clandestino, en su residencia. Esto podía desencadenar en cualquier
momento, tanto para los superiores como para los alumnos, severas represiones por
parte de las autoridades alemanas. Permanecí en este seminario peculiar, al lado del
amado Príncipe Metropolitano, desde septiembre de 1944 y allí pude estar junto con mis
compañeros hasta el 18 de enero de 1945, el día -o mejor dicho, la noche- de la
liberación. En efecto, fue durante la noche cuando la Armada Roja llegó a los
alrededores de Cracovia. Los Alemanes, en retirada, hicieron explotar el puente
Debnicki. Recuerdo aquella terrible detonación: la onda expansiva rompió todos los
cristales de las ventanas de la residencia arzobispal. En aquel momento nos
encontrábamos en la capilla para una celebración en la que participaba el Arzobispo. El
día siguiente nos dimos prisa en reparar los daños.

Pero voy a volver a los largos meses que precedieron a la liberación. Como he dicho,
vivía con otros jóvenes en la residencia del Arzobispo. Este nos había presentado desde
el primer momento a un joven sacerdote, que sería nuestro Padre espiritual. Se trataba
del P. Stanistaw Smolenski, doctorado en Roma y hombre de una gran espiritualidad;
hoy es Obispo auxiliar emérito de Cracovia. El P. Smolenski comenzó con nosotros un
trabajo regular de preparación para el sacerdocio. Al principio teníamos como superior
sólo a un prefecto, el P. Kazimierz Klósak, que había realizado sus estudios en Lovaina
y era profesor de filosofía. Por su ascesis y bondad suscitaba en todos nosotros una gran
estima y admiración. Daba cuentas de su trabajo directamente al Arzobispo, del cual
dependía también de modo directo, por lo demás, nuestro mismo seminario clandestino.
Después de las vacaciones veraniegas del año 1945, el P. Karol Kozlowski, procedente
de Wadowice, antiguo Padre espiritual del seminario en el período anterior a la guerra,
fue llamado a sustituir al P. Jan Piwowarczyk como Rector del seminario en el que
había transcurrido casi toda la vida.

Se completaban así los años de la formación del seminario. Los dos primeros, aquellos
que en el curriculum de los estudios se dedican a la filosofía, los había cursado de modo
clandestino, trabajando como obrero. Los años sucesivos, 1944 y 1945, fueron testigos
de mi creciente dedicación en la Universidad Jaghellonica, aun cuando el primer año
después de la guerra fue muy incompleto. El curso académico 1945/46 fue normal. En
la Facultad teológica tuve la suerte de conocer algunos profesores eminentes, como el P.
Wladyslaw Wicher, profesor de teología moral, y el P. Ignacy Rózycki, profesor de
teología dogmática, el cual me introdujo en la metodología científica en teología. Hoy
abrazo con un recuerdo lleno de gratitud a todos mis Superiores, Padres espirituales y
Profesores, que en el período del seminario contribuyeron a mi formación. ¡Que el
Señor recompense sus esfuerzos y sacrificios!

A comienzos del quinto año, el Arzobispo decidió que me trasladara a Roma para
completar los estudios. Fue así como, anticipándome a mis compañeros, fui ordenado
sacerdote el I de noviembre de 1946. Aquel año nuestro grupo era, naturalmente, poco
numeroso: en total éramos siete. Hoy vivimos solamente tres. El hecho de ser pocos
tenía sus ventajas: permitía estrechar lazos profundos de conocimiento recíproco y de
amistad. Esto se podía decir también, de algún modo, de las relaciones con los
Superiores y Profesores, tanto en el período de la clandestinidad como en el breve
tiempo de los estudios oficiales en la Universidad.

Las vacaciones de seminarista


Desde el momento en que entré en contacto con el seminario comenzó para mí un nuevo
modo de pasar las vacaciones. Fui enviado por el Arzobispo a la parroquia de
Raciborowice, en los alrededores de Cracovia. He de expresar profunda gratitud al
párroco, P. Jozef Jamróz, y a los vicarios de esa parroquia, que se convirtieron en
compañeros de vida de un joven seminarista clandestino.

Recuerdo en particular al P. Franciszek Szymonek, que más tarde, en tiempos del terror
estalinista, fue acusado y sometido a proceso con objeto de aleccionar a la Curia
arzobispal de Cracovia: fue condenado a muerte. Por suerte, poco después fue absuelto.
Recuerdo también al P. Adam Biela, un compañero del instituto de Wadowice de más
edad que yo. Gracias a estos jóvenes sacerdotes tuve la posibilidad de conocer la vida
cristiana de toda la parroquia.

Algún tiempo después, en el territorio del pueblo de Bienczyce, que pertenecía a la


parroquia de Raciborowice, surgió un gran barrio llamado Nowa Huta. Pasé allí muchos
días durante las vacaciones, tanto en el año 1944 como en el 1945, ya acabada la guerra.
Permanecía mucho tiempo en la vieja iglesia de Raciborowice, que se remontaba aún a
los tiempos de Jan Dugosz. Dedicaba muchas horas a la meditación paseando por el
cementerio. Había traído a Raciborowice mi material de estudio: los volúmenes de
Santo Tomás con los comentarios. Aprendía la teología, por decirlo así, desde el
"centro" de una gran tradición teológica. Empecé entonces a escribir un trabajo sobre
San Juan de la Cruz que continué después bajo la dirección del P Ignacy Rózycki,
profesor en la Universidad de Cracovia apenas fue abierta de nuevo. Completé el
estudio a continuación en el Angelicum, bajo la guía del P. Prof. Garrigou Lagrange.

El Cardenal Adam Stefan Sapieha

En todo nuestro proceso formativo hacia el sacerdocio ejerció un influjo relevante la


gran figura del Príncipe Metropolitano, futuro Cardenal Adam Stefan Sapieha, para el
cual tengo un recuerdo emocionado y agradecido. Su prestigio había crecido por el
hecho de que, en el período de transición antes de la reapertura del seminario,
habitábamos en su residencia y lo veíamos cada día. El Metropolitano de Cracovia fue
elevado a la dignidad cardenalicia inmediatamente después del final de la guerra, a una
edad ya muy avanzada. Toda la población acogió este nombramiento como un justo
reconocimiento de los méritos de aquel gran hombre, que durante la ocupación alemana
había sabido mantener alto el honor de la Nación, demostrando la propia dignidad de
modo claro para todos. Recuerdo aquel día de marzo -estábamos en Cuaresma- cuando
el Arzobispo regresó de Roma después de haber recibido el capelo cardenalicio. Los
estudiantes levantaron en brazos su automóvil y lo llevaron durante un buen trecho
hasta la Basílica de la Asunción en la Plaza del Mercado, manifestando de ese modo el
entusiasmo religioso y patriótico que tal nombramiento cardenalicio había suscitado en
la población.

III
INFLUENCIAS EN MI VOCACIÓN

He hablado ampliamente del ambiente del seminario porque éste fue ciertamente el que
tuvo mayor incidencia en mi vocación sacerdotal. Sin embargo, dirigiendo la mirada
hacia un horizonte más amplio, veo con claridad que, desde tantos otros ambientes y
personas, he recibido influjos positivos, por medio de los cuales Dios me ha hecho oír
su voz.

La familia

La preparación para el sacerdocio, recibida en el seminario, fue de algún modo


precedida por la que me ofrecieron mis padres con su vida y su ejemplo en familia. Mi
reconocimiento es sobre todo para mi padre, que enviudó muy pronto. No había
recibido aún la Primera Comunión cuando perdí a mi madre: apenas tenía 9 años. Por
eso, no tengo conciencia clara de la contribución, seguramente grande, que ella dio a mi
educación religiosa. Después de su muerte y, a continuación, después de la muerte de
mi hermano mayor, quedé solo con mi padre que era un hombre profundamente
religioso. Podía observar cotidianamente su vida, que era muy austera. Era militar de
profesión y, cuando enviudó, su vida fue de constante oración. Sucedía a veces que me
despertaba de noche y encontraba a mi padre arrodillado, igual que lo veía siempre en la
iglesia parroquial. Entre nosotros no se hablaba de vocación al sacerdocio, pero su
ejemplo fue para mí en cierto modo el primer seminario, una especie de seminario
doméstico.

La fábrica Solvay Después, pasados los años de la primera juventud, la cantera de


piedra y el depurador del agua en la fábrica de bicarbonato en Borek Falecki se
convirtieron para mí en seminario. No se trataba ya únicamente del pre-seminario, como
en Wadowice. La fábrica fue para mí, en aquella etapa de mi vida, un verdadero
seminario, aunque clandestino. Había comenzado a trabajar en la cantera en septiembre
de 1940; un año después pasé al depurador de agua en la fábrica. Fue en aquellos años
cuando maduró mi decisión definitiva. En otoño de 1942 comencé los estudios en el
seminario clandestino como ex alumno de filología polaca, siendo obrero en la Solvay.
No me daba cuenta de la importancia que todo ello tendría para mí. Únicamente más
tarde, ya sacerdote, durante los estudios en Roma, conociendo a través de mis
compañeros del Colegio Belga el problema de los sacerdotes obreros y el movimiento
de la Juventud Obrera Católica (JOC), comprendí que lo que había llegado a ser tan
importante para la Iglesia y para el sacerdocio en Occidente -el contacto con el mundo
del trabajo- yo lo había ya adquirido en mi experiencia de vida.

En realidad, mi experiencia no fue la de "sacerdote obrero" sino de "seminarista-


obrero". Por el trabajo manual sabía bien lo que significaba el cansancio físico.
Encontraba cada día gente que realizaba duros trabajos. Conocí su ambiente, sus
familias, sus intereses, su valor humano y su dignidad. Personalmente noté mucha
cordialidad por su parte. Sabían que yo era estudiante y sabían también que, en cuanto
las circunstancias lo permitieran, volvería a los estudios. Nunca vi hostilidad por ese
motivo. No les molestaba que llevase los libros al trabajo. Decían: "Nosotros estaremos
atentos: tu lee". Esto sucedía sobre todo durante los turnos de noche. Decían
frecuentemente: "Descansa, nosotros estaremos de guardia".

Hice amistad con muchos obreros. A veces me invitaban a su casa. Después, como
sacerdote y como obispo, bauticé a sus hijos y nietos, bendije sus matrimonios y oficié
los funerales de muchos de ellos. Tuve oportunidad de conocer cuántos sentimientos
religiosos había en ellos y cuanta sabiduría de vida. Estos contactos, como he dicho,
siguieron siendo muy estrechos incluso cuando acabó la ocupación alemana y también
después, prácticamente hasta mi elección como Obispo de Roma. Algunos duran
todavía por medio de correspondencia.

La parroquia de Debniki: los Salesianos

Debo nuevamente volver atrás, al período anterior a la entrada en el seminario. En


efecto, no puedo omitir el recuerdo de un ambiente y, en éste, de un personaje de quien
recibí verdaderamente mucho en ese período. El ambiente era el de mi parroquia,
dedicada a San Estanislao de Kostka, en Debniki, Cracovia. La parroquia estaba dirigida
por los Padres Salesianos, los cuales un día fueron deportados por los nazis a un campo
de concentración. Únicamente quedaron un viejo párroco y el inspector provincial, pues
todos los demás fueron internados en Dachau. Creo que el ambiente salesiano ha tenido
un papel importante en el proceso de formación de mi vocación.

En el ámbito de la parroquia había una persona que se distinguía sobre las demás: me
refiero a Jan Tyranowski. Era empleado de profesión, aunque había decidido trabajar en
la sastrería de su padre. Afirmaba que su trabajo de sastre le hacía más fácil la vida
interior. Era un hombre de una espiritualidad particularmente profunda. Los Padres
Salesianos, que en aquel período difícil habían reemprendido con valentía la animación
de la pastoral juvenil, le encargaron la tarea de establecer contactos con los jóvenes del
círculo del llamado "Rosario vivo''. Jan Tyranowski llevó a cabo esta tarea no ciñéndose
únicamente al aspecto organizativo, sino preocupándose también de la formación
espiritual de los jóvenes que entraban en contacto con él. Aprendí así los métodos
elementales de autoformación que se vieron después confirmados y desarrollados en el
proceso educativo del seminario. Tyranowski, que se estaba formando en los escritos de
San Juan de la Cruz y de Santa Teresa de Ávila, me introdujo en la lectura,
extraordinaria para mi edad, de sus obras.

Los Padres Carmelitas

Esto acrecentó en mí el interés por la espiritualidad carmelitana. En Cracovia, en la calle


Rakowicka, había un monasterio de Padres Carmelitas Descalzos. Tenía contactos con
ellos y una vez hice allí mis Ejercicios Espirituales, con la ayuda del P. Leonardo de la
Dolorosa. Durante un cierto tiempo consideré la posibilidad de entrar en el Carmelo.
Las dudas fueron resueltas por el Arzobispo Cardenal Sapieha, quien -con el estilo que
lo caracterizaba- dijo escuetamente: "Es preciso acabar antes lo que se ha comenzado''.
Y así fue.

El P. Kazimierz Figlewicz

Durante aquellos años mi confesor y guía espiritual fue el P. Kazimierz Figlewicz. Me


encontré con él la primera vez cuando cursaba el primer año de instituto en Wadowice.
El P. Figlewicz, que era vicario de la parroquia de Wadowice, nos enseñaba religión.
Gracias a él me acerqué a la parroquia, fui monaguillo y en cierto modo organicé el
grupo de monaguillos. Cuando dejó Wadowice para ir a la catedral del Wawel, continué
manteniendo contacto con él. Recuerdo que, durante el quinto curso del instituto, me
invitó a Cracovia para participar en el Triduum Sacrum, que empezaba con el llamado
"Oficio de Tinieblas" en la tarde del Miércoles Santo. Fue ésta una experiencia que dejó
en mí una huella profunda.

Cuando, después del examen final, me trasladé con mi padre a Cracovia, intensifiqué la
relación con el P. Figlewicz, que ejercía el cargo de vicecustodio de la catedral. Iba a
confesarme con él y, durante la ocupación alemana, muchas veces lo visitaba.

Aquel 1 de septiembre de 1939 no se borrará nunca de mi recuerdo: era el primer


viernes de mes. Había ido a Wawel para confesarme. La catedral estaba vacía. Fue,
quizás, la última vez que pude entrar libremente en el templo. Después fue cerrado. El
castillo real de Wawel se convirtió en la sede del Gobernador General Hans Frank. El P.
Figlewicz era el único sacerdote que podía celebrar la Santa Misa, dos veces por
semana, en la catedral cerrada y bajo la vigilancia de policías alemanes. En aquellos
tiempos difíciles fue aún más claro lo que significaban para él la catedral, las tumbas
reales, el altar de San Estanislao, obispo y mártir. El P. Figlewicz fue hasta la muerte
fiel custodio de aquel particular santuario de la Iglesia y de la Nación, inculcándome un
amor grande por el templo del Wawel, que un día llegaría a ser mi catedral episcopal.

El 1de noviembre de 1946 fui ordenado sacerdote. El día siguiente, en la "Primera Santa
Misa" celebrada en la catedral, en la cripta de San Leonardo, el P. Figlewicz, estaba a
mi lado y me hacía de asistente. El piadoso Prelado falleció hace algunos años. Sólo el
Señor puede compensarlo por todo el bien que de él recibí.

La "trayectoria mariana"

Naturalmente, al referirme a los orígenes de mi vocación sacerdotal, no puedo olvidar la


trayectoria mariana. La veneración a la Madre de Dios en su forma tradicional me viene
de la familia y de la parroquia de Wadowice. Recuerdo, en la iglesia parroquial, una
capilla lateral dedicada a la Madre del Perpetuo Socorro a la cual por la mañana, antes
del comienzo de las clases, acudían los estudiantes del instituto. También, al acabar las
clases, en las horas de la tarde, iban muchos estudiantes para rezar a la Virgen.

Además, en Wadowice, había sobre la colina un monasterio carmelita, cuya fundación


se remontaba a los tiempos de San Rafael Kalinowski. Muchos habitantes de Wadowice
acudían allí, y esto tenía su reflejo en la difundida devoción al escapulario de la Virgen
del Carmen. También yo lo recibí, creo que cuando tenía diez años, y aún lo llevo. Se
iba a los Carmelitas también para las confesiones. De ese modo, tanto en la iglesia
parroquial, como en la del Carmen, se formó mi devoción mariana durante los años de
la infancia y de la adolescencia hasta la superación del examen final.

Cuando me encontraba en Cracovia, en el barrio Debniki, entré en el grupo del "Rosario


vivo'', en la parroquia salesiana. Allí se veneraba de modo especial a María Auxiliadora.
En Debniki, en el período en el que iba tomando fuerza mi vocación sacerdotal, gracias
también al mencionado influjo de Jan Tyranowski, mi manera de entender el culto a la
Madre de Dios experimentó un cierto cambio. Estaba ya convencido de que Maria nos
lleva a Cristo, pero en aquel período empecé a entender que también Cristo nos lleva a
su Madre. Hubo un momento en el cual me cuestioné de alguna manera mi culto a
María, considerando que éste, si se hace excesivo, acaba por comprometer la
supremacía del culto debido a Cristo. Me ayudó entonces el libro de San Luis María
Grignion de Montfort titulado "Tratado de la verdadera devoción a la Santísima
Virgen''. En él encontré la respuesta a mis dudas. Efectivamente, María nos acerca a
Cristo, con tal de que se viva su misterio en Cristo. El tratado de San Luis María
Grignion de Montfort puede cansar un poco por su estilo un tanto enfático y barroco,
pero la esencia de las verdades teológicas que contiene es incontestable. El autor es un
teólogo notable. Su pensamiento mariológico está basado en el Misterio trinitario y en
la verdad de la Encarnación del Verbo de Dios.

Comprendí entonces por qué la Iglesia reza el Ángelus tres veces al día. Entendí lo
cruciales que son las palabras de esta oración: "El Ángel del Señor anunció a María. Y
Ella concibió por obra del Espíritu Santo... He aquí la esclava del Señor. Hágase en mí
según tu palabra... Y el Verbo se hizo carne y habitó entre nosotros..." ¡Son palabras
verdaderamente decisivas! Expresan el núcleo central del acontecimiento más grande
que ha tenido lugar en la historia de la humanidad. Esto explica el origen del Totus
Tuus. La expresión deriva de San Luis María Grignion de Montfort. Es la abreviatura de
la forma más completa de la consagración a la Madre de Dios, que dice: Totus tuus ego
sum et omnia mea Tua sunt. Accipio Te in mea omnia. Praebe mihi cor Tuum, Maria.

De ese modo, gracias a San Luis, empecé a descubrir todas las riquezas de la devoción
mariana, desde una perspectiva en cierto sentido nueva. Por ejemplo, cuando era niño
escuchaba "Las Horas de la Inmaculada Concepción de la Santísima Virgen María'',
cantadas en la iglesia parroquial, pero sólo después me di cuenta de la riqueza teológica
y bíblica que contenían. Lo mismo sucedió con los cantos populares, por ejemplo con
los cantos navideños polacos y las Lamentaciones sobre la Pasión de Jesucristo en
Cuaresma, entre las cuales ocupa un lugar especial el diálogo del alma con la Madre
Dolorosa.

Sobre la base de estas experiencias espirituales fue perfilándose el itinerario de oración


v contemplación que orientó mis pasos en el camino hacia el sacerdocio, y después en
todas las vicisitudes sucesivas hasta el día de hoy. Este itinerario desde niño, y más aún
como sacerdote y como obispo, me llevaba frecuentemente por los senderos marianos
de Kalwaria Zebrzydowska. Kalwaria es el principal santuario mariano de la
Archidiócesis de Cracovia. Iba allí con frecuencia y caminaba en solitario por aquellas
sendas presentando en la oración al Señor los diferentes problemas de la Iglesia, sobre
todo en el difícil período que se vivía bajo el comunismo. Mirando hacia atrás constato
como "todo está relacionado'': hoy como ayer nos encontramos con la misma intensidad
en los rayos del mismo misterio.

El Santo Fray Alberto

Me pregunto a veces qué papel ha desempeñado en mi vocación la figura del Santo Fray
Alberto. Adam Chmielowski -éste era su nombre- no era sacerdote. Todos en Polonia
saben quien fue. En el período de mi interés por el teatro rapsódico y por el arte, la
figura de este hombre valiente, que había tomado parte en la "insurrección de enero"
(1863) perdiendo una pierna durante los combates, tenía para mí una atracción espiritual
particular. Como es sabido, Fray Alberto era pintor: había realizado sus estudios en
Munich. El patrimonio artístico que dejó muestra que tenía un gran talento. Sin
embargo, en un cierto momento de su vida este hombre rompe con el arte porque
comprende que Dios lo llama a tareas más importantes. Conociendo el ambiente de los
pobres de Cracovia, cuyo lugar de encuentro era el dormitorio público, llamado también
"lugar de la calefacción'', en la calle Krakowska, Adam Chmielowski decide convertirse
en uno de ellos, no como el limosnero que llega desde fuera para distribuir dones, sino
como uno que se da a sí mismo para servir a los desheredados.

Este fascinante ejemplo de sacrificio suscita muchos seguidores. Alrededor de Fray


Alberto se reúnen hombres y mujeres. Nacen así dos Congregaciones, que se dedican a
los más pobres. Todo esto sucedió en los comienzos de nuestro siglo, en el período
anterior a la primera guerra mundial

Fray Alberto no pudo ver el momento en el que Polonia conquistó su independencia.


Murió en Navidad de 1916. Sin embargo, su obra sobrevivió convirtiéndose en
expresión de las tradiciones polacas de radicalismo evangélico, siguiendo las huellas de
San Francisco de Asís y de San Juan de la Cruz.

En la historia de la espiritualidad polaca Fray Alberto ocupa un lugar especial. Para mí


su figura fue determinante, porque encontré en él un particular apoyo espiritual y un
ejemplo en mi alejamiento del arte, de la literatura y del teatro, por la elección radical de
la vocación al sacerdocio. Una de las alegrías más grandes que he tenido como Papa ha
sido la de elevar al honor de los altares a este pobrecito de Cracovia con hábito gris,
primero con la beatificación en Blonie Krakowskie durante el viaje a Polonia del año
1983, y después con la canonización en Roma en el mes de noviembre del memorable
año 1989. Muchos autores de la literatura polaca han inmortalizado la figura de Fray
Alberto. Entre las diversas obras artísticas, novelas y dramas, es digna de ser
mencionada la monografía que le dedicó el P. Konstanty Michalski. También yo, siendo
joven sacerdote, en la época en que era coadjutor en la iglesia de San Florián de
Cracovia, le dediqué una obra dramática llamada "El Hermano de nuestro Dios",
saldando así la gran deuda de gratitud que había contraído con él.

Experiencia de guerra

La maduración definitiva de mi vocación sacerdotal, como he dicho, tuvo lugar en el


período de la segunda guerra mundial, durante la ocupación nazi. ¿Fue una simple
coincidencia temporal? o ¿había un nexo más profundo entre lo que maduraba dentro de
mí y el contexto histórico? Es difícil responder a tal pregunta. Es cierto que en los
planes de Dios nada es casual. Lo que puedo afirmar es que la tragedia de la guerra dio
un tinte particular al proceso de maduración de mi opción de vida. Me ayudó a percibir
desde una nueva perspectiva el valor y la importancia de la vocación. Ante la difusión
del mal y las atrocidades de la guerra era cada vez más claro para mí el sentido del
sacerdocio y de su misión en el mundo.

El estallido de la guerra me alejó de los estudios y del ambiente universitario. En aquel


período perdí a mí padre, la última persona que me quedaba de los familiares más
íntimos. También esto suponía, objetivamente, un proceso de alejamiento de mis
proyectos precedentes; en cierto modo era como desarraigarse del suelo en el cual hasta
ese momento había crecido mi humanidad.

Pero no se trataba de un proceso únicamente negativo. En efecto, en mi conciencia


contemporáneamente se manifestaba cada vez más una luz: el Señor quiere que yo sea
sacerdote. Un día lo percibí con mucha claridad: era como una iluminación interior que
traía consigo la alegría y la seguridad de una nueva vocación. Y esta conciencia me
llenó de gran paz interior.

Esto ocurría durante los terribles acontecimientos que iban desarrollándose a mi


alrededor en Cracovia, en Polonia, en Europa y en el mundo. Compartí directamente
sólo una pequeña parte de cuanto mis compatriotas experimentaron desde 1939. Pienso,
de modo particular, en mis coetáneos del instituto de Wadowice, amigos míos muy
queridos, entre los cuales había varios judíos. Algunos eligieron el servicio militar en el
año 1938. Parece que el primero que murió en la guerra fue el más joven de la clase.
Después conocí sólo a grandes rasgos la suerte de otros caídos en varios frentes, o
muertos en campos de concentración, o enviados a combatir en Tobruk y en
Montecassino, o deportados a los territorios de la Unión Soviética: a Rusia y
Kazakistán. Supe estas noticias primero de forma gradual, y después de manera más
completa en Wadowice, en el año 1948, con ocasión de la reunión de mis compañeros
en el décimo aniversario del examen final.

Se me ahorró mucho del grande y horrendo theatrum de la segunda guerra mundial.


Cada día hubiera podido ser detenido en casa, en la cantera o en la fábrica para ser
llevado a un campo de concentración. A veces me preguntaba: si tantos coetáneos
pierden la vida, ¿por que yo no? Hoy sé que no fue una casualidad. En el contexto del
gran mal de la guerra, en mi vida personal todo llevaba hacia el bien que era la
vocación. No puedo olvidar el bien recibido en aquel difícil período de las personas que
el Señor ponía en mi camino, tanto de mi familia como conocidos y compañeros.

El sacrificio de los sacerdotes polacos

Surge aquí otra singular e importante dimensión de mi vocación. Los años de la


ocupación alemana en Occidente y de la soviética en Oriente supusieron un enorme
número de detenciones y deportaciones de sacerdotes polacos hacia los campos de
concentración. Sólo en Dachau fueron internados casi tres mil. Hubo otros campos,
como por ejemplo el de Auschwitz, donde ofreció la vida por Cristo el primer sacerdote
canonizado después de la guerra, San Maximiliano María Kolbe, el franciscano de
Niepokalanów. Entre los prisioneros de Dachau se encontraba el Obispo de Wloclawek,
Mons. Michal Kozal, que he tenido la dicha de beatificar en Varsovia en 1987. Después
de la guerra algunos de entre los sacerdotes ex prisioneros de los campos de
concentración fueron elevados a la dignidad episcopal. Actualmente viven aún los
Arzobispos Kazimierz Majdanski y Adam Kozlowiecki y el Obispo Ignacy Jez, los tres
últimos Prelados testigos de lo que fueron los campos de exterminio. Ellos saben bien lo
que aquella experiencia significó en la vida de tantos sacerdotes. Para completar el
cuadro, es preciso añadir también a los sacerdotes alemanes de aquella misma época que
experimentaron la misma suerte en los lager. He tenido el honor de beatificar a algunos
de ellos: primero al P. Rupert Mayer de Munich, y después, durante el reciente viaje
apostólico a Alemania, a Mons. Bernhard Lichtenberg, párroco de la Catedral de Berlín,
y al P. Karl Leisner de la diócesis de Munster. Este último, ordenado sacerdote en el
campo de concentración en 1944, después de su ordenación pudo celebrar sólo una
Santa Misa.

Merece un recuerdo especial el martirologio de los sacerdotes en los lager de Siberia y


en otros lugares del territorio de la Unión Soviética. Entre los muchos que allí fueron
recluidos quisiera recordar la figura del P. Tadeusz Fedorowicz, muy conocido en
Polonia, al cual personalmente debo mucho como director espiritual. El P Fedorowicz,
joven sacerdote de la archidiócesis de Leópolis, se había presentado espontáneamente a
su arzobispo para pedirle el poder acompañar a un grupo de polacos deportados al Este.
El Arzobispo Twardowski le concedió el permiso y pudo desarrollar su misión entre los
connacionales dispersos en los territorios de la Unión Soviética y sobre todo en
Kazakistán. Recientemente ha descrito en un interesante libro estos trágicos hechos.

Lo que he dicho a propósito de los campos de concentración no constituye sino una


parte, dramática, de esta especie de "apocalipsis'' de nuestro siglo. Lo he hecho para
subrayar cómo mi sacerdocio, ya desde su nacimiento, ha estado inscrito en el gran
sacrificio de tantos hombres y mujeres de mi generación. La Providencia me ha
ahorrado las experiencias más penosas; por eso es aún más grande mi sentimiento de
deuda hacia las personas conocidas, así como también hacia aquellas más numerosas
que desconozco, sin diferencia de nación o de lengua, que con su sacrificio sobre el gran
altar de la historia han contribuido a la realización de mi vocación sacerdotal. De algún
modo me han introducido en este camino, mostrándome en la dimensión del sacrificio
la verdad más profunda y esencial del sacerdocio de Cristo.

La bondad experimentada entre las asperezas de la guerra

Decía antes que durante los años difíciles de la guerra recibí mucho bien de la gente.
Pienso de modo particular en una familia, más aún, en muchas familias que conocí
durante la ocupación. Con Juliusz Kydrynski trabajé primero en las canteras de piedra y
después en la fábrica Solvay. Estábamos en el grupo de obreros-estudiantes al que
pertenecían también Wojciech Zukrowski, su hermano menor Antoni y Wieslaw
Kaczmarczyk. Conocí a Juliusz Kydrynski antes de comenzar la guerra, cursando el
primer año de Filología polaca. Durante la guerra esta relación de amistad se intensificó.
Conocí también a su madre, que había enviudado, a la hermana y al hermano menor. La
familia Kydrynski me colmó de cuidados y de afecto cuando el 18 de febrero de 1941
perdí a mi padre. Recuerdo perfectamente aquel día: al volver del trabajo encontré a mi
padre muerto. En aquel momento la amistad de los Kydrynski fue para mí de gran
apoyo. La amistad se extendió después a otras familias, en particular a la de los señores
Szkocki, residentes en la calle Ksiecia Józefa. Empecé a estudiar francés gracias a la
Señora Jadwiga Lewaj, que habitaba en la casa de ellos. Zofia Pozniak, hija mayor de
los señores Szkocki, cuyo marido se encontraba en un campo de prisioneros, nos
invitaba a conciertos organizados en casa. De ese modo el período oscuro de la guerra y
de la ocupación fue iluminado por la luz de la belleza que se irradia desde la música y la
poesía. Esto sucedía antes de mi decisión de entrar en el seminario.
IV
¡SACERDOTE!

Mi ordenación tuvo lugar en un día insólito para este tipo de celebraciones: fue el 1 de
noviembre, solemnidad de Todos los Santos, cuando la liturgia de la Iglesia se dedica
totalmente a celebrar el misterio de la comunión de los Santos y se prepara a
conmemorar a los fieles difuntos. El Arzobispo eligió ese día porque yo debía partir
hacia Roma para proseguir los estudios. Fui ordenado sólo, en la capilla privada de los
Arzobispos de Cracovia. Mis compañeros serían ordenados el año siguiente, en el
Domingo de Ramos.

Había sido ordenado subdiácono y diácono en octubre. Fue un lunes de intensa oración,
marcado por los Ejercicios Espirituales con los que me preparé a recibir las Ordenes
Sagradas: seis días de Ejercicios antes del subdiaconado, y después tres y seis días antes
del diaconado y del presbiterado respectivamente. Los últimos Ejercicios los hice solo
en la capilla del seminario. El día de Todos los Santos me presenté por la mañana en la
residencia de los Arzobispos de Cracovia, en la calle Franciszkanska 3, para recibir la
Ordenación sacerdotal. Asistieron a la ceremonia un pequeño grupo de parientes y
amigos.

Recuerdo de un hermano en la vocación sacerdotal

El lugar de mi Ordenación, como he dicho, fue la capilla privada de los Arzobispos de


Cracovia. Recuerdo que durante la ocupación iba allí con frecuencia por la mañana para
ayudar en la Santa Misa al Príncipe Metropolitano. Recuerdo también que durante un
cierto período venía conmigo otro seminarista clandestino, Jerzy Zachuta. Un día él no
se presentó. Cuando después de la Misa fui a su casa, en Ludwinów, en Debniki, supe
que durante la noche había sido detenido por la Gestapo. Inmediatamente después, su
apellido apareció en la lista de polacos destinados a ser fusilados. Habiendo sido
ordenado en aquella misma capilla que nos había visto juntos tantas veces, recordaba a
este hermano en la vocación sacerdotal al cual Cristo había unido de otro modo al
misterio de su muerte y resurrección.

"Veni, Creator Spiritus!"

Me veo así, en aquella capilla durante el canto del Veni, Creator Spiritus y de las
Letanías de los Santos, mientras, extendido en forma de Cruz en el suelo, esperaba el
momento de la imposición de las manos. ¡Un momento emocionante! Después he tenido
ocasión de presidir como Obispo y como Papa este rito. Hay algo de impresionante en
la postración de los ordenandos: es el símbolo de su total sumisión ante la majestad de
Dios y a la vez de su total disponibilidad a la acción del Espíritu Santo, que desciende
sobre ellos como artífice de su consagración. Veni, Creator Spiritus, mentes tuorum
visita, imple superna gratia quae Tu creasti pectora. Al igual que en la Santa Misa el
Espíritu Santo es el autor de la transubstanciación del pan y del vino en el Cuerpo y la
Sangre de Cristo, así en el sacramento del Orden es el artífice de la consagración
sacerdotal o episcopal. El obispo, que confiere el sacramento del Orden, es el
dispensador humano del misterio divino. La imposición de las manos es continuación
del gesto ya practicado en la Iglesia primitiva para indicar el don del Espíritu Santo en
vista de una misión determinada (cf. Hch 6, 6; 8, 17; 13, 3). Pablo lo utiliza con su
discípulo Timoteo (cf. 2 Tm 1, 6; 1 Tm 4, 14.) y el gesto queda en la Iglesia (cf. 1 Tm 5,
22) como signo eficaz de la presencia operante del Espíritu Santo en el sacramento del
Orden.

El suelo

Quien se dispone a recibir la sagrada Ordenación se postra totalmente y apoya la frente


sobre el suelo del templo, manifestando así su completa disponibilidad para asumir el
ministerio que le es confiado. Este rito ha marcado profundamente mi existencia
sacerdotal. Añas más tarde, en la Basílica de San Pedro -estábamos al principio del
Concilio- recordando el momento de la Ordenación sacerdotal, escribí una poesía de la
cual quiero citar aquí un fragmento:

"Eres tú, Pedro. Quieres ser aquí el Suelo sobre el que caminan los otros... para llegar
allá donde guías sus pasos...Quieres ser Aquél que sostiene los pasos, como la roca
sostiene el caminar ruidoso de un rebaño: Roca es también el suelo de un templo
gigantesco. Y el pasto es la Cruz''.

(Iglesia: Los Pastores y las Fuentes. Basílica de San Pedro, otoño de 1962: 11.X -
8.XII, El Suelo)

Al escribir estas palabras pensaba tanto en Pedro como en toda la realidad del
sacerdocio ministerial, tratando de subrayar el profundo significado de esta postración
litúrgica. En ese yacer por tierra en forma de Cruz antes de la Ordenación, acogiendo en
la propia vida -como Pedro- la Cruz de Cristo y haciéndose con el Apóstol "suelo" para
los hermanos, está el sentido más profundo de toda la espiritualidad sacerdotal.

La "primera Misa"

Habiendo sido ordenado sacerdote en la fiesta de Todos los Santos, celebré la "primera
Misa" el día de los fieles difuntos, el 2 de noviembre de 1946. En este día cada
sacerdote puede celebrar para provecho de los fieles tres Santas Misas. Mi "primera"
Misa tuvo por tanto -por así decir- un carácter triple. Fue una experiencia de especial
intensidad. Celebré las tres Santas Misas en la cripta de San Leonardo, que ocupa, en la
catedral del Wawel, en Cracovia, la parte anterior de la llamada cátedra episcopal de
Herman. Actualmente la cripta forma parte del complejo subterráneo donde se
encuentran las tumbas reales. Al elegirla como el lugar de mis primeras Misas quise
expresar un vínculo espiritual particular con los que reposan en esa catedral que, por su
misma historia, es un monumento sin igual. Está impregnada, más que cualquier otro
templo de Polonia, de significado histórico y teológico. Reposan en ella los reyes
polacos, empezando por Wladyslaw Lokietek. En la catedral del Wawel eran coronados
los reyes y en ella eran también sepultados. Quien visita ese templo se encuentra cara a
cara con la historia de la Nación.

Precisamente por esto, como he dicho, elegí celebrar mis primeras Misas en la cripta de
San Leonardo. Quería destacar mi particular vínculo espiritual con la historia de
Polonia, de la cual la colina del Wawel representa casi una síntesis emblemática. Pero
no sólo eso. Había, en esa elección, una especial dimensión teológica. Como he dicho,
fui ordenado el día anterior, en la Solemnidad de Todos los Santos, cuando la Iglesia
expresa litúrgicamente la verdad de la Comunión de los Santos -Communio Sanctorum-.
Los Santos son aquellos que, habiendo acogido en la fe el misterio pascual de Cristo,
esperan ahora la resurrección final.

También las personas, cuyos restos reposan en los sarcófagos de la catedral del Wawel,
esperan allí la resurrección. Toda la catedral parece repetir las palabras del Símbolo de
los Apóstoles: "Creo en la resurrección de los muertos y en la vida eterna''. Esta verdad
de fe ilumina la historia de las Naciones. Aquellas personas son como "los grandes
espíritus" que guían la Nación a través de los siglos. No se encuentran allí solamente
soberanos junto con sus esposas, u obispos y cardenales; también hay poetas, grandes
maestros de la palabra, que han tenido una importancia enorme para mi formación
cristiana y patriótica.

Fueron pocos los participantes en aquellas primeras Misas celebradas sobre la colina del
Wawel. Recuerdo que, entre otros, estaba presente mi madrina Maria Wiadrowska,
hermana mayor de mi madre. Me asistía en el altar Mieczyslaw Malinski, que hacía
presente de algún modo el ambiente y la persona de Jan Tyranowski, ya entonces
gravemente enfermo.

Después, como sacerdote y como obispo, he visitado siempre con gran emoción la
cripta de San Leonardo. ¡Cuánto hubiera deseado poder celebrar allí la Santa Misa con
ocasión del quincuagésimo aniversario de mi Ordenación sacerdotal!

Entre el pueblo de Dios

Después hubo otras "primeras Misas'': en la iglesia parroquial de San Estanislao de


Kostka en Debniki y, el domingo siguiente, en la iglesia de la Presentación de la Madre
de Dios en Wadowice. Celebré también una Misa en la confesión de San Estanislao, en
la catedral del Wawel, para los amigos del teatro rapsódico y para la organización
clandestina "Unia" (Unión), a la cual estuve vinculado durante la ocupación.

V
ROMA

Noviembre pasaba de prisa: era ya el tiempo de partir hacia Roma. Cuando llegó el día
establecido, subí al tren con gran emoción. Conmigo estaba Stanislaw Starowieyski, un
compañero más joven que yo, que debía realizar todo el curso teológico en Roma. Por
primera vez salía de las fronteras de mi Patria. Miraba desde la ventanilla del tren en
marcha ciudades que conocía únicamente por los libros de geografía. Vi por primera
vez Praga, Nuremberg, Estrasburgo y París, donde nos detuvimos siendo huéspedes del
Seminario Polaco en la "Rue des lrlandais''. Reemprendimos pronto el viaje, porque el
tiempo apremiaba y llegamos a Roma los últimas días de noviembre. Aquí
aprovechamos inicialmente la hospitalidad de los Padres Palotinos. Recuerdo que el
primer domingo después de la llegada me acerqué, junto con Stanislaw Starowieyski, a
la Basílica de San Pedro para asistir a la solemne veneración de un nuevo Beato por
parte del Papa. Vi desde lejos la figura de Pío XII, llevado en la silla gestatoria. La
participación del Papa en una Beatificación se limitaba entonces a la recitación de la
oración al nuevo Beato, mientras que el rito propiamente dicho era presidido en la
mañana por uno de los cardenales. Esta tradición se cambio a partir de Maximiliano
María Kolbe, cuando en octubre de 1971 Pablo VI ofició personalmente el rito de
Beatificación del mártir polaco de Auschwitz, durante una Santa Misa concelebrada con
el Cardenal Wyszynski y con los obispos polacos, en la cual yo también tuve el gozo de
participar.

"Aprender Roma"

No podré olvidar nunca la sensación de mis primeros días "romanos" cuando en 1946
empecé a conocer la Ciudad Eterna. Me inscribí en el "biennium ad lauream" en el
Angelicum. Era Decano de la Facultad de Teología el P. Ciappi, O.P., futuro teólogo de
la Casa Pontificia y cardenal.

El P. Karol Kozlowski, Rector del Seminario de Cracovia, me había dicho muchas


veces que, para quien tiene la suerte de poderse formar en la capital del Cristianismo,
más aún que los estudios (¡un doctorado en teología se puede conseguir también fuera!)
es importante aprender Roma misma. Traté de seguir su consejo. Llegué a Roma con un
vivo deseo de visitar la Ciudad Eterna, empezando por las Catacumbas. Y así fue. Con
los amigos del Colegio Belga, donde habitaba, tuve la oportunidad de recorrer
sistemáticamente la Ciudad con la guía de conocedores expertos de sus monumentos y
de su historia. Con ocasión de las vacaciones de Navidad y de Pascua pudimos
acercarnos a otras ciudades italianas. Recuerdo las primeras vacaciones cuando,
guiándonos por el libro del escritor danés Joergensen, fuimos a visitar los lugares
vinculados a la vida de San Francisco.

De todos modos, el centro de nuestra experiencia era siempre Roma. Cada día desde el
Colegio Belga, en vía del Quirinale 26, iba al Angelicum para las clases, parándome
durante el camino en la iglesia de los Jesuitas de San Andrés del Quirinale, donde se
encuentran las reliquias de San Estanislao de Kostka, que vivió en el noviciado contiguo
y allí terminó su vida. Recuerdo que entre los que visitaban la tumba había muchos
seminaristas del Germanicum, que se reconocían fácilmente por sus características
sotanas rojas. En el corazón del Cristianismo y a la luz de los santos, las nacionalidades
también se encontraban, como prefigurando, más allá de la tragedia bélica que tanto nos
había marcado, un mundo sin divisiones.

Perspectivas pastorales

Mi sacerdocio y mi formación teológica y pastoral se enmarcaban así desde el comienzo


en la experiencia romana. Los dos años de estudios, concluidos en 1948 con el
doctorado, fueron años de intenso "aprender Roma''. El Colegio Belga contribuía a
enraizar mi sacerdocio, día tras día, en la experiencia de la capital del Cristianismo. En
efecto, me permitía entrar en contacto con ciertas formas de vanguardia del apostolado,
que en aquella época iban desarrollándose en la Iglesia. Pienso sobre todo en el
encuentro con el P. Jozef Cardijn, fundador de la JOC y futuro cardenal, que venía de
vez en cuando al Colegio para encontrarse con nosotros, sacerdotes estudiantes, y
hablarnos de aquella particular experiencia humana que es la fatiga física. Para ella yo
estaba, en cierta medida, preparado debido al trabajo desarrollado en la cantera y en la
sección del depurador de agua de la fábrica Solvay. En Roma tuve la posibilidad de
descubrir más a fondo cómo el sacerdocio está vinculado a la pastoral y al apostolado de
los laicos. Entre el servicio sacerdotal y el apostolado laical existe una estrecha relación,
más aún, una coordinación recíproca. Reflexionando sobre estos planteamientos
pastorales, descubría cada vez de forma más clara el sentido y el valor del sacerdocio
ministerial mismo.

El horizonte europeo

La experiencia vivida en el Colegio Belga se amplió, a continuación, gracias a un


contacto directo no sólo con la nación belga, sino también con la francesa y la
holandesa. Con el consentimiento del Cardenal Sapieha, durante las vacaciones
veraniegas de 1947 el P. Stanislaw Starowieyski y yo pudimos visitar aquellos países.
Me abría así a un horizonte europeo más amplio. En París, donde residí en el Seminario
Polaco, pude conocer de cerca la experiencia de los sacerdotes obreros, la problemática
tratada en el libro de los Padres Henri Godin e Yvan Daniel La France, pays de
mission? y la pastoral de las misiones en la periferia de París, sobre todo en la parroquia
dirigida por el P. Michonneau. Estas experiencias, en el primer y segundo año de
sacerdocio, tuvieron para mí un enorme interés.

En Holanda, gracias a la ayuda de mis compañeros, y especialmente de los padres del


fallecido P. Alfred Delmé, pude pasar con Stanislaw Starowieyski unos diez días. Me
impresionó la sólida organización de la Iglesia y de la pastoral en aquel País, con
estructuras activas y comunidades eclesiales vivas. Descubría así cada vez mejor, desde
puntos de vista diversos y complementarios, la Europa occidental, la Europa de la
posguerra, la Europa de las maravillosas catedrales góticas y, al mismo tiempo, la
Europa amenazada por el proceso de secularización. Percibía el desafío que todo ello
representaba para la Iglesia, llamada a hacer frente al peligro que conllevaba mediante
nuevas formas de pastoral, abiertas a una presencia más amplia del laicado.

Entre los emigrantes

La mayor parte de aquellas vacaciones veraniegas las pasé, sin embargo, en Bélgica.
Durante el mes de septiembre estuve al frente de la misión católica polaca, entre los
mineros, en las cercanías de Charleroi. Fue una experiencia muy fructífera. Por primera
vez visité una mina de carbón y pude conocer de cerca el pesado trabajo de los mineros.
Visitaba las familias de los emigrantes polacos y me reunía con la juventud y los niños,
acogido siempre con benevolencia y cordialidad, como cuando estaba en la Solvay.

La figura de San Juan María Vianney

En el camino de regreso de Bélgica a Roma, tuve la suerte de detenerme en Ars. Era al


final del mes de octubre de 1947, el domingo de Cristo Rey. Con gran emoción visité la
vieja iglesita donde San Juan María Vianney confesaba, enseñaba el catecismo y
predicaba sus homilías. Fue para mí una experiencia inolvidable. Desde los años del
seminario había quedado impresionado por la figura del Cura de Ars, sobre todo por la
lectura de su biografía escrita por Mons. Trochu. San Juan María Vianney sorprende en
especial porque en él se manifiesta el poder de la gracia que actúa en la pobreza de los
medios humanos. Me impresionaba profundamente, en particular, su heroico servicio en
el confesionario. Este humilde sacerdote que confesaba mas de diez horas al día,
comiendo poco y dedicando al descanso apenas unas horas, había logrado, en un difícil
período histórico, provocar una especie de revolución espiritual en Francia y fuera de
ella. Millares de personas pasaban por Ars y se arrodillaban en su confesionario. En
medio del laicismo y del anticlericalismo del siglo XIX, su testimonio constituye un
acontecimiento verdaderamente revolucionario.

Del encuentro con su figura llegué a la convicción de que el sacerdote realiza una parte
esencial de su misión en el confesionario, por medio de aquel voluntario "hacerse
prisionero del confesionario". Muchas veces, confesando en Niegowic, en mi primera
parroquia, y después en Cracovia, volvía con el pensamiento a esta experiencia
inolvidable. He procurado mantener siempre el vínculo con el confesionario tanto
durante los trabajos científicos en Cracovia, confesando sobre todo en la Basílica de la
Asunción de la Santísima Virgen María, como ahora en Roma, aunque sea de modo casi
simbólico, volviendo cada año al confesionario el Viernes Santo en la Basílica de San
Pedro.

Un "gracias" sincero

No puedo terminar estas consideraciones sin expresar un cordial agradecimiento a todos


los componentes del Colegio Belga de Roma, a los Superiores y a los compañeros de
entonces, muchos de los cuales ya han fallecido; en particular al Rector, P. Maximilien
de Furstenberg, que después fue cardenal. ¿¡Cómo no recordar que, durante el cónclave,
en 1978, el Cardenal de Furstenberg, en un determinado momento, me dijo estas
significativas palabras: Dominus adest et vocat te. Era como una misteriosa alusión a la
culminación de su trabajo formativo, come Rector del Colegio Belga, en favor de mi
sacerdocio.

El regreso a Polonia

A principios de julio de 1948 defendí la tesis doctoral en el Angelicum e


inmediatamente después me puse en camino de regreso a Polonia. He aludido antes a
que en los dos años de permanencia en la Ciudad Eterna había "aprendido"
intensamente Roma: la Roma de las catacumbas, la Roma de los mártires, la Roma de
Pedro y Pablo, la Roma de los confesores. Vuelvo a menudo a aquellos años con la
memoria llena de emoción. Al regresar llevaba conmigo no sólo un mayor bagaje de
cultura teológica, sino también. la consolidación de mi sacerdocio y la profundización
de mi visión de la Iglesia. Aquel período de intenso estudio junto a las Tumbas de los
Apóstoles me había dado tanto desde todos los puntos de vista.

Ciertamente podría añadir muchos otros detalles acerca de esta experiencia decisiva.
Prefiero, sin embargo, resumirlo todo diciendo que gracias a Roma mi sacerdocio se
había enriquecido con una dimensión europea y universal. Regresaba de Roma a
Cracovia con el sentido de la universalidad de la misión sacerdotal, que sería
magistralmente expresado por el Concilio Vaticano II, sobre todo en la Constitución
dogmática sobre la Iglesia Lumen gentium. No sólo el obispo, sino también cada
sacerdote debe vivir la solicitud por toda la Iglesia y sentirse, de algún modo,
responsable de ella.

VI
NIEGOWIC: UNA PARROQUIA RURAL

Apenas llegado a Cracovia, encontré en la Curia Metropolitana el primer "destino'', la


llamada «aplikata». El arzobispo estaba entonces en Roma, pero me había dejado por
escrito su decisión. Acepté el cargo con alegría. Me informé enseguida de cómo llegar a
Niegowic y me preocupé por estar allí el día señalado. Fui desde Cracovia a Gdow en
autobús, desde allí un campesino me llevó en carreta a la campiña de Marszowice y
después me aconsejó caminar a pie por un atajo a través de los campos. Divisaba a lo
lejos la iglesia de Niegowic. Era el tiempo de la cosecha. Caminaba entre los campos de
trigo con las mieses en parte ya cosechadas, en parte aún ondeando al viento. Cuando
llegué finalmente al territorio de la parroquia de Niegowic, me arrodillé y besé la tierra.
Había aprendido este gesto de San Juan María Viarmey. En la iglesia me detuve ante el
Santísimo Sacramento; después me presenté al párroco, Mons. Kazimierz Buzala,
arcipreste de Niepolomice y párroco de Niegowic, quien me acogió muy cordialmente y
después de un breve coloquio me mostró la habitación del vicario.

Así empezó el trabajo pastoral en mi primera parroquia. Duró un año y consistía en las
funciones típicas de un vicario y profesor de religión. Se me confiaron cinco escuelas
elementales en las campiñas pertenecientes a la parroquia de Niegowic. Allí me
llevaban en un pequeño carro o en la calesa. Recuerdo la cordialidad de los maestros y
de los feligreses. Los grupos eran muy diversos entre sí: algunos bien educados y
tranquilos, otros muy vivaces. Aún hoy me sucede que vuelvo con el pensamiento al
recogido silencio que reinaba en las clases, cuando, durante la cuaresma, hablaba de la
pasión del Señor.

En ese tiempo la parroquia de Niegowic se preparaba para la celebración del


quincuagésimo aniversario de la Ordenación sacerdotal del párroco. Como la vieja
iglesia era ya inadecuada para las necesidades pastorales, los feligreses decidieron que
el regalo más hermoso para el homenajeado sería la construcción de un nuevo templo.
Pero yo fui trasladado pronto de aquella agradable comunidad.

En San Florián de Cracovia

En efecto, después de un año fui destinado a la parroquia de San Florián de Cracovia. El


párroco, Mons. Tadeusz Kurowski, me encargó la catequesis en los cursos superiores
del instituto y la acción pastoral entre los estudiantes universitarios. La pastoral
universitaria de Cracovia tenía entonces su centro en la iglesia de Santa Ana, pero con el
desarrollo de nuevas facultades se sintió la necesidad de crear una nueva sede
precisamente en la parroquia de San Florián. Comencé allí las conferencias para la
juventud universitaria; las tenía todos los jueves y trataban de los problemas
fundamentales sobre la existencia de Dios y la espiritualidad del alma humana, temas de
particular impacto en el contexto del ateísmo militante, propio del régimen comunista.

El trabajo científico
Durante las vacaciones de 1951, después de dos años de trabajo en la parroquia de San
Florián, el Arzobispo Eugeniusz Baziak, que había sucedido en el gobierno de la
Archidiócesis de Cracovia al Cardenal Sapieha, me orientó hacia la labor científica.
Debí prepararme para la habilitación a la enseñanza pública de la ética y de la teología
moral. Esto supuso una reducción del trabajo pastoral, tan querido por mí. Me costó,
pero desde entonces me preocupé de que la dedicación al estudio científico de la
teología y de la filosofía no me indujera a "olvidarme'' de ser sacerdote; mas bien debía
ayudarme a serlo cada vez más.

VII
¡GRACIAS IGLESIA QUE ESTÁS EN POLONIA!

En este testimonio jubilar tengo que expresar mi gratitud a toda la Iglesia polaca, en
cuyo seno naci6 y maduró mi sacerdocio. Es una Iglesia con una herencia milenaria de
fe; una Iglesia que ha engendrado a lo largo de los siglos numerosos santos y beatos, y
está confiada al patrocinio de dos Santos Obispos y Mártires, Wojciech y Stanislaw. Es
una Iglesia profundamente unida al pueblo y a su cultura; una Iglesia que siempre ha
sostenido y defendido al pueblo, especialmente en los momentos trágicos de su historia.
Es también una Iglesia que en este siglo ha sido duramente probada: ha tenido que
sostener una lucha dramática por la supervivencia contra dos sistemas totalitarios:
contra el régimen inspirado en la ideología nazi durante la segunda guerra mundial; y
después, en los largos decenios de la posguerra, contra la dictadura comunista y su
ateísmo militante.

De ambas pruebas ha salido victoriosa, gracias al sacrificio de obispos, sacerdotes y de


numerosos laicos; gracias a la familia polaca "fuerte en Dios". Entre los obispos del
período bélico he de mencionar la figura inquebrantable del Príncipe Metropolitano de
Cracovia, Adam Stefan Sapieha, y entre los del período de la posguerra, la figura del
siervo de Dios Cardenal Stefan Wyszynski. Es una Iglesia que ha defendido al hombre,
su dignidad y sus derechos fundamentales, una Iglesia que ha luchado valientemente por
el derecho de los fieles a profesar su fe. Una Iglesia extraordinariamente dinámica, a
pesar de las dificultades y los obstáculos que se interponían en el camino.

En este intenso clima espiritual se fue desarrollando mi misi6n de sacerdote y de obispo.


He podido conocer, por decirlo así, desde dentro, los dos sistemas totalitarios que han
marcado trágicamente nuestro siglo: el nazismo de una parte, con los horrores de la
guerra y de los campos de concentración, y el comunismo, de otra, con su régimen de
opresión y de terror. Es fácil comprender mi sensibilidad por la dignidad de toda
persona humana y por el respeto de sus derechos, empezando por el derecho a la vida.
Es una sensibilidad que se formó en los primeros años de sacerdocio y se ha afianzado
con el tiempo. Es fácil entender también mi preocupación por la familia y por la
juventud: todo esto ha crecido en mí de forma orgánica gracias a aquellas dramáticas
experiencias.

El presbiterio de Cracovia

En el quincuagésimo aniversario de mi ordenación sacerdotal me dirijo con el


pensamiento de modo particular al presbiterio de la Iglesia de Cracovia, del cual he sido
miembro como sacerdote y después cabeza como Arzobispo. Me vienen a la memoria
tantas figuras eminentes de párrocos y vicarios. Sería demasiado largo mencionarlos a
todos uno a uno. A muchos de ellos me unían y me unen vínculos de sincera amistad.
Los ejemplos de su santidad y de su celo pastoral han sido para mí de gran edificación.
Indudablemente han tenido una influencia profunda sobre mi sacerdocio. De ellos he
aprendido qué quiere decir en concreto ser pastor.

Estoy profundamente convencido del papel decisivo que el presbiterio diocesano tiene
en la vida personal de todo sacerdote. La comunidad de sacerdotes, basada en una
verdadera fraternidad sacramental, constituye un ambiente de primera importancia para
la formación espiritual y pastoral. El sacerdote, por principio, no puede prescindir de la
misma. Le ayuda a crecer en la santidad y constituye un apoyo seguro en las
dificultades. ¿Cómo no expresar, con ocasión de mi jubileo de oro, mi gratitud a los
sacerdotes de la Archidiócesis de Cracovia por su contribución a mi sacerdocio?

El don de los laicos

Estos días pienso también en todos los laicos que el Señor me ha hecho encontrar en mi
misión de sacerdote y de obispo. Han sido para mí un don singular, por el cual no ceso
de dar gracias a la Providencia. Son tan numerosos que no es posible citarlos a todos por
su nombre, pero los llevo a todos en el corazón, porque cada uno de ellos ha ofrecido su
propia aportación a la realización de mi sacerdocio. En cierto modo me han indicado el
camino, ayudándome a comprender mejor mi ministerio y a vivirlo en plenitud.
Ciertamente, de los frecuentes contactos con los laicos siempre he sacado mucho
provecho. Entre ellos había simples obreros, hombres dedicados a la cultura y al arte,
grandes científicos. De estos encuentros han nacido cordiales amistades, muchas de las
cuales perduran aún. Gracias a ellos mi acción pastoral se ha multiplicado, superando
barreras y penetrando en ambientes que de otro modo hubieran sido muy difíciles de
alcanzar.

En verdad, me ha acompañado siempre la profunda conciencia de la necesidad urgente


del apostolado de los laicos en la Iglesia. Cuando el Concilio Vaticano II habló de la
vocación y misión de los laicos en la Iglesia y en el mundo, pude experimentar una gran
alegría: lo que el Concilio enseñaba respondía a las convicciones que habían guiado mi
acción desde los primeros años de mi ministerio sacerdotal.

VIII
¿QUIÉN ES EL SACERDOTE?

En este testimonio personal no puedo limitarme al recuerdo de los acontecimientos y de


las personas, sino que quisiera ir más allá para fijar la mirada mas profundamente, como
para escrutar el misterio que desde hace cincuenta años me acompaña y me envuelve.

¿Qué significa ser sacerdote? Según San Pablo significa ante todo ser administrador de
los misterios de Dios: "servidores de Cristo y administradores de los misterios de Dios.
Ahora bien, lo que en fin de cuentas se exige de los administradores es que sean fieles''
(1 Co 4, 1-2). La palabra "administrador" no puede ser sustituida por ninguna otra. Está
basada profundamente en el Evangelio: recuérdese la parábola del administrador fiel y
del infiel (cf. Lc 12, 41-48). El administrador no es el propietario, sino aquel a quien el
propietario confía sus bienes para que los gestione con justicia y responsabilidad.
Precisamente por eso el sacerdote recibe de Cristo los bienes de la salvación para
distribuirlos debidamente entre las personas a las cuales es enviado. Se trata de los
bienes de la fe. El sacerdote, por tanto, es el hombre de la palabra de Dios, el hombre
del sacramento, el hombre del "misterio de la fe''. Por medio de la fe accede a los bienes
invisibles que constituyen la herencia de la Redención del mundo llevada a cabo por el
Hijo de Dios. Nadie puede considerarse "propietario'' de estos bienes. Todos somos sus
destinatarios. El sacerdote, sin embargo, tiene la tarea de administrarlos en virtud de lo
que Cristo ha establecido.

Admirabile commercium!

La vocación sacerdotal es un misterio. Es el misterio de un "maravilloso intercambio"


-admirabile commercium- entre Dios y el hombre. Este ofrece a Cristo su humanidad
para que El pueda servirse de ella como instrumento de salvación, casi haciendo de este
hombre otro sí mismo. Si no se percibe el misterio de este "intercambio" no se logra
entender como puede suceder que un joven, escuchando la palabra ''¡sígueme!'', llegue a
renunciar a todo por Cristo, en la certeza de que por este camino su personalidad
humana se realizará plenamente.

¿Hay en el mundo una realización más grande de nuestra humanidad que poder
representar cada día in persona Christi el Sacrificio redentor, el mismo que Cristo llevó
a cabo en la Cruz? En este Sacrificio, por una parte, está presente del modo más
profundo el mismo Misterio trinitario, y por otra está como "recapitulado'' todo el
universo creado (cf. Ef 1, 10). La Eucaristía se realiza también para ofrecer "sobre el
altar de la tierra entera el trabajo y el sufrimiento del mundo'', según una bella expresión
de Teilhard de Chardin. He ahí por qué, en la acción de gracias después de la Santa
Misa, se recita también el Cántico de los tres jóvenes del Antiguo Testamento:
Benedicite omnia opera Domini Domino... En efecto, en la Eucaristía todas las criaturas
visibles e invisibles, y en particular el hombre, bendicen a Dios como Creador y Padre y
lo bendicen con las palabras y la acción de Cristo, Hijo de Dios.

Sacerdote y Eucaristía

"Yo te bendigo, Padre, Señor del cielo y de la tierra, porque has ocultado estas cosas a
sabios e inteligentes, y se las has revelado a pequeños (...) Nadie conoce quién es el
Hijo sino el Padre; y quién es el Padre sino el Hijo y aquel a quien el Hijo se lo quiera
revelar'' (Lc 10, 21-22). Estas palabras del Evangelio de San Lucas, introduciéndonos
en la intimidad del misterio de Cristo, nos permiten acercarnos también al misterio de la
Eucaristía. En ella el Hijo consustancial al Padre, Aquel que sólo el Padre conoce, le
ofrece el sacrificio de sí mismo por la humanidad y por toda la creación. En la
Eucaristía Cristo devuelve al Padre todo lo que de El proviene. Se realiza así un
profundo misterio de justicia de la criatura hacia el Creador. Es preciso que el hombre
de honor al Creador ofreciendo, en una acción de gracias y de alabanza, todo lo que de
El ha recibido. El hombre no puede perder el sentido de esta deuda, que solamente él,
entre todas las otras realidades terrestres, puede reconocer y saldar como criatura hecha
a imagen y semejanza de Dios. Al mismo tiempo, teniendo en cuenta sus límites de
criatura y el pecado que lo marca, el hombre no sería capaz de realizar este acto de
justicia hacia el Creador si Cristo mismo, Hijo consustancial al Padre y verdadero
hombre, no emprendiera esta iniciativa eucarística.

El sacerdocio, desde sus raíces, es el sacerdocio de Cristo. Es El quien ofrece a Dios


Padre el sacrificio de sí mismo, de su carne y de su sangre, y con su sacrificio justifica a
los ojos del Padre a toda la humanidad e indirectamente a toda la creación. El sacerdote,
celebrando cada día la Eucaristía, penetra en el corazón de este misterio. Por eso la
celebración de la Eucaristía es, para él, el momento más importante y sagrado de la
jornada y el centro de su vida.

In persona Christi

Las palabras que repetimos al final del Prefacio -"Bendito el que viene en nombre del
Señor...''- nos llevan a los acontecimientos dramáticos del Domingo de Ramos. Cristo
va a Jerusalén para afrontar el sacrificio cruento del Viernes Santo. Pero el día anterior,
durante la Ultima Cena, instituye el sacramento de este sacrificio. Pronuncia sobre el
pan y sobre el vino las palabras de la consagración: "Esto es mi Cuerpo que será
entregado por vosotros (...) Este es el cáliz de mi Sangre, de la nueva y eterna alianza,
que será derramada por vosotros y por todos los hombres para el perdón de los
pecados. Haced esto en conmemoración mía''.

¿Qué "conmemoración"? Sabemos que a esta palabra hay que darle un sentido fuerte,
que va más allá del simple recuerdo histórico. Estamos en el orden del "memorial"
bíblico, que hace presente el acontecimiento mismo. ¡Es memoria-presencia! El secreto
de este prodigio es la acción del Espíritu Santo, que el sacerdote invoca mientras
extiende las manos sobre los dones del pan y del vino: "Santifica estos dones con la
efusión de tu Espíritu de manera que sean para nosotros el Cuerpo y Sangre de
Jesucristo Nuestro Señor". Así pues, no sólo el sacerdote recuerda los acontecimientos
de la Pasión, Muerte y Resurrección de Cristo, sino que el Espíritu Santo hace que estos
se realicen sobre el altar a través del ministerio del sacerdote. Este actúa
verdaderamente in persona Christi. Lo que Cristo ha realizado sobre el altar de la Cruz,
y que precedentemente ha establecido como sacramento en el Cenáculo, el sacerdote lo
renueva con la fuerza del Espíritu Santo. En este momento el sacerdote está como
envuelto por el poder del Espíritu Santo y las palabras que dice adquieren la misma
eficacia que las pronunciadas por Cristo durante la Ultima Cena.

Mysterium fidei

Durante la Santa Misa, después de la transubstanciación, el sacerdote pronuncia las


palabras: Mysterium fidei, ¡Misterio de la fe! Son palabras que se refieren obviamente a
la Eucaristía. Sin embargo, en cierto modo, conciernen también al sacerdocio. No hay
Eucaristía sin sacerdocio, como no hay sacerdocio sin Eucaristía. No sólo el sacerdocio
ministerial está estrechamente vinculado a la Eucaristía; también el sacerdocio común
de todos los bautizados tiene su raíz en este misterio. A las palabras del celebrante los
fieles responden: "Anunciamos tu muerte, proclamamos tu resurrección, ven Señor
Jesús''. Participando en el Sacrificio eucarístico los fieles se convierten en testigos de
Cristo crucificado y resucitado, comprometiéndose a vivir su triple misión -sacerdotal,
profética y real- de la que están investidos desde el Bautismo, como ha recordado el
Concilio Vaticano II.

El sacerdote, como administrador de los ''misterios de Dios", está al servicio del


sacerdocio común de los fieles. Es él quien, anunciando la Palabra y celebrando los
sacramentos, especialmente la Eucaristía, hace cada vez más consciente a todo el Pueblo
de Dios su participación en el sacerdocio de Cristo, y al mismo tiempo lo mueve a
realizarla plenamente. Cuando, después de la transubstanciación, resuena la expresión:
Mysterium fidei, todos son invitados a darse cuenta de la particular densidad existencial
de este anuncio, con referencia al misterio de Cristo, de la Eucaristía y del Sacerdocio.

¿No encuentra aquí, tal vez, su motivación más profunda la misma vocación sacerdotal?
Una motivación que está totalmente presente en el momento de la Ordenación, pero que
espera ser interiorizada y profundizada a lo largo de toda la existencia. Sólo así el
sacerdote puede descubrir en profundidad la gran riqueza que le ha sido confiada.
Cincuenta años después de mi Ordenación puedo decir que el sentido del propio
sacerdocio se redescubre cada día más en ese Mysterium fidei. Esta es la magnitud del
don del sacerdocio y es también la medida de la respuesta que requiere tal don. ¡El don
es siempre más grande! Y es hermoso que sea así. Es hermoso que un hombre nunca
pueda decir que ha respondido plenamente al don. Es un don y también una tarea:
¡siempre! Tener conciencia de esto es fundamental para vivir plenamente el propio
sacerdocio.

Cristo, Sacerdote y Víctima

A través de las Letanías que había costumbre de recitar en el seminario de Cracovia,


especialmente la víspera de la Ordenación presbiteral, he tenido siempre presente la
verdad sobre el sacerdocio de Cristo. Me refiero a las Letanías a Cristo Sacerdote y
Víctima. ¡Qué profundos pensamientos provocaban en mí! En el sacrificio de la Cruz,
representado y actualizado en cada Eucaristía, Cristo se ofrece a sí mismo para la
salvación del mundo. Las invocaciones litánicas recorren los diversos aspectos del
misterio. Me recuerdan el simbolismo evocador de las imágenes bíblicas que están
entretejidas. Me vienen a los labios en latín, como las he recitado en el seminario y
después tantas veces en los años sucesivos:

Iesu, Sacerdos et Victima,


Iesu, Sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech, ...
Iesu, Pontifex ex hominibus assumpte,
Iesu, Pontifex pro hominibus constitute, ...
Iesu, Pontifex futurorum bonorum, ...
Iesu, Pontifex fidelis et misericors, ...
Iesu, Pontifex qui dilexisti nos et lavisti nos a peccatis in sanguine tuo, ...
Iesu, Pontifex qui tradidisti temetipsum Deo oblationem et hostiam, ...
Iesu, Hostia sancta et immaculata, ...
Iesu, Hostia in qua habemus fiduciam et accessum ad Deum, ...
Iesu, Hostia vivens in saecula saeculorum.

(EI texto completo de las Letanías se encuentra en el Apéndice)


¡Cuánta riqueza teológica hay en estas expresiones! Se trata de letanías profundamente
basadas en la Sagrada Escritura, sobre todo en la Carta a los Hebreos. Es suficiente
releer este pasaje: "Cristo como Sumo Sacerdote de los bienes futuros, (...) penetró en el
santuario una vez para siempre, no con sangre de machos cabríos ni de novillos, sino
con su propia sangre, consiguiendo una redención eterna. Pues si la sangre de machos
cabríos y de toros (...) santifica con su aspersión a los contaminados, en orden a la
purificación de la carne, ¡cuánto más la sangre de Cristo, que por el Espíritu Eterno se
ofreció a sí mismo sin tacha a Dios, purificará de las obras muertas nuestra conciencia
para rendir culto a Dios vivo!" (Hb 9, 11-14). Cristo es sacerdote porque es el Redentor
del mundo. En el misterio de la Redención se inscribe el sacerdocio de todos los
presbíteros. Esta verdad sobre la Redención y sobre el Redentor está enraizada en el
centro mismo de mi conciencia, me ha acompañado en todos estos años, ha impregnado
todas mis experiencias pastorales y me ha mostrado contenidos siempre nuevos.

En estos cincuenta años de vida sacerdotal me he dado cuenta de que la Redención, el


precio que debía pagarse por el pecado, lleva consigo también un renovado
descubrimiento, coma una "nueva creación", de todo lo que ha sido creado: el
redescubrimiento del hombre como persona, del hombre creado por Dios varón y mujer,
el redescubrimiento, en su verdad profunda, de todas las obras del hombre, de su cultura
y civilización, de todas sus conquistas y actuaciones creativas. Después de mi elección
como Papa, mi primer impulso espiritual fue dirigirme a Cristo Redentor. Nació así la
Encíclica Redemptor hominis. Reflexionando sobre todo este proceso veo cada vez
mejor la íntima relación que hay entre el mensaje de esta Encíclica y todo lo que se
inscribe en el corazón del hombre por la participación en el sacerdocio de Cristo.

IX
SER SACERDOTE HOY

Cincuenta años de sacerdocio no son pocos. ¡Cuántas cosas han sucedido en este medio
siglo de historia! Han surgido nuevos problemas, nuevos estilos de vida, nuevos
desafíos. Viene espontáneo preguntarse: ¿qué supone ser sacerdote hoy, en este
escenario en continuo movimiento mientras nos encaminamos hacia el tercer Milenio?

No hay duda de que el sacerdote, con toda la Iglesia, camina con su tiempo, y es oyente
atento y benévolo, pero a la vez crítico y vigilante, de lo que madura en la historia. El
Concilio ha mostrado como es posible y necesaria una auténtica renovación, en plena
fidelidad a la Palabra de Dios y a la Tradición. Pero más allá de la debida renovación
pastoral, estoy convencido de que el sacerdote no ha de tener ningún miedo de estar
"fuera de su tiempo", porque el "hoy" humano de cada sacerdote está insertado en el
"hoy" de Cristo Redentor. La tarea más grande para cada sacerdote en cualquier época
es descubrir día a día este "hoy" suyo sacerdotal en el "hoy" de Cristo, aquel "hoy" del
que habla la Carta a los Hebreos. Este "hoy" de Cristo está inmerso en toda la historia,
en el pasado y en el futuro del mundo, de cada hombre y de cada sacerdote. "Ayer como
hoy, Jesucristo es el mismo, y lo será siempre'' (Hb 13,8). Así pues, si estamos inmersos
con nuestro "hoy'' humano y sacerdotal en el "hoy" de Cristo, no hay peligro de
quedarse en el "ayer", retrasados... Cristo es la medida de todos los tiempos. En su
"hoy" divino-humano y sacerdotal se supera de raíz toda oposición -antes tan discutida-
entre el "tradicionalismo" y el "progresismo''.
Las aspiraciones profundas del hombre

Si se analizan las aspiraciones del hombre contemporáneo en relación con el sacerdote


se verá que, en el fondo, hay en el mismo una sola y gran aspiración: tiene sed de
Cristo. El resto -lo que necesita a nivel económico, social y político- lo puede pedir a
muchos otros. ¡Al sacerdote se le pide Cristo! Y de él tiene derecho a esperarlo, ante
todo mediante el anuncio de la Palabra. Los presbíteros -enseña el Concilio- "tienen
como primer deber el anunciar a todos el Evangelio de Dios'' (Presbyterorum Ordinis,
4). Pero el anuncio tiende a que el hombre encuentre a Jesús, especialmente en el
misterio eucarístico, corazón palpitante de la Iglesia y de la vida sacerdotal. Es un
misterioso y formidable poder el que el sacerdote tiene en relación con el Cuerpo
eucarístico de Cristo. De este modo es el administrador del bien más grande de la
Redención porque da a los hombres el Redentor en persona. Celebrar la Eucaristía es la
misión más sublime y más sagrada de todo presbítero. Y para mí, desde los primeros
años de sacerdocio, la celebración de la Eucaristía ha sido no sólo el deber más sagrado,
sino sobre todo la necesidad más profunda del alma.

Ministro de la misericordia

Como administrador del sacramento de la Reconciliación, el sacerdote cumple el


mandato de Cristo a los Apóstoles después de su resurrección: "Recibid el Espíritu
Santo. A quienes perdonéis los pecados, les quedarán perdonados; a quienes se los
retengáis, les quedan retenidos'' (Jn 20, 22-23). ¡El sacerdote es testigo e instrumento de
la misericordia divina! ¡Qué importante es en su vida el servicio en el confesionario!
Precisamente en el confesionario se realiza del modo más pleno su paternidad espiritual.
En el confesionario cada sacerdote se convierte en testigo de los grandes prodigios que
la misericordia divina obra en el alma que acepta la gracia de la conversión. Es
necesario, no obstante, que todo sacerdote al servicio de los hermanos en el
confesionario tenga él mismo la experiencia de esta misericordia de Dios a través de la
propia confesión periódica y de la dirección espiritual.

Administrador de los misterios divinos, el sacerdote es un especial testigo del Invisible


en el mundo. En efecto, es administrador de bienes invisible e inconmensurables que
pertenecen al orden espiritual y sobrenatural.

Un hombre en contacto con Dios

Como administrador de tales bienes, el sacerdote está en permanente y especial contacto


con la santidad de Dios. "¡ Santo, Santo, Santo es el Señor, Dios del universo! Los
cielos y la tierra están llenos de tu gloria''. La majestad de Dios es la majestad de la
santidad. En el sacerdocio el hombre es como elevado a la esfera de esta santidad, de
algún modo llega a las alturas en las que una vez fue introducido el profeta Isaías. Y
precisamente de esa visión profética se hace eco la liturgia eucarística: Sanctus,
Sanctus, Sanctus, Dominus Deus Sabaoth. Pleni sunt caeli et terra gloria tua. Hosanna
in excelsis.

Al mismo tiempo, el sacerdote vive todos los días, continuamente, el descenso de esta
santidad de Dios hacia el hombre: benedictus qui venit in nomine Domini. Con estas
palabras las multitudes de Jerusalén aclamaban a Cristo que llegaba a la ciudad para
ofrecer el sacrificio por la redención del mundo. La santidad trascendente, de alguna
manera "fuera del mundo" llega a ser en Cristo la santidad "dentro del mundo". Es la
santidad del Misterio pascual.

Llamado a la santidad

En contacto continuo con la santidad de Dios, el sacerdote debe llegar a ser él mismo
santo. Su mismo ministerio lo compromete a una opción de vida inspirada en el
radicalismo evangélico. Esto explica que de un modo especial deba vivir el espíritu de
los consejos evangélicos de castidad, pobreza y obediencia. En esta perspectiva se
comprende también la especial conveniencia del celibato. De aquí surge la particular
necesidad de la oración en su vida: la oración brota de la santidad de Dios y al mismo
tiempo es la respuesta a esta santidad. He escrito en una ocasión: ''La oración hace al
sacerdote y el sacerdote se hace a través de la oración''. Sí, el sacerdote debe ser ante
todo hombre de oración, convencido de que el tiempo dedicado al encuentro íntimo con
Dios es siempre el mejor empleado, porque además de ayudarle a él, ayuda a su trabajo
apostólico. Si el Concilio Vaticano II habla de la vocación universal a la santidad, en el
caso del sacerdote es preciso hablar de una especial vocación a la santidad. ¡Cristo tiene
necesidad de sacerdotes santos! ¡El mundo actual reclama sacerdotes santos! Solamente
un sacerdote santo puede ser, en un mundo cada vez mas secularizado, testigo
transparente de Cristo y de su Evangelio. Solamente así el sacerdote puede ser guía de
los hombres y maestro de santidad. Los hombres, sobre todo los jóvenes, esperan un
guía así. ¡El sacerdote puede ser guía y maestro en la medida en que es un testigo
auténtico!

La cura animarum

En mi ya larga experiencia, a través de situaciones tan diversas, me he afianzado en la


convicción de que sólo desde el terreno de la santidad sacerdotal puede desarrollarse
una pastoral eficaz, una verdadera "cura animarum". El auténtico secreto de los éxitos
pastorales no está en los medios materiales, y menos aún en la "riqueza de medios''. Los
frutos duraderos de los esfuerzos pastorales nacen de la santidad del sacerdote. ¡Este es
su fundamento! Naturalmente son indispensables la formación, el estudio y la
actualización; en definitiva. una preparación adecuada que capacite para percibir las
urgencias y definir las prioridades pastorales. Sin embargo, se podría afirmar que las
prioridades dependen también de las circunstancias, y que cada sacerdote ha de
precisarlas y vivirlas de acuerdo con su obispo y en armonía con las orientaciones de la
Iglesia universal. En mi vida he descubierto estas prioridades en el apostolado de los
laicos, de modo especial en la pastoral familiar -campo en el que los mismos laicos me
han ayudado mucho-, en la atención a los jóvenes y en el diálogo intenso con el mundo
de la ciencia y de la cultura. Todo esto se ha reflejado en mi actividad científica y
literaria. Surgió así el estudio Amor y responsabilidad y, entre otras cosas, una obra
literaria: El taller del orfebre, con el subtítulo Meditaciones sobre el sacramento del
matrimonio.

Una prioridad ineludible es hoy la atención preferencial a los pobres, los marginados y
los emigrantes. Para ellos el sacerdote debe ser verdaderamente un "padre". Ciertamente
los medios materiales son indispensables, como los que nos ofrece la moderna
tecnología. Sin embargo, el secreto es siempre la santidad de vida del sacerdote que se
expresa en la oración y en la meditación, en el espíritu de sacrificio y en el ardor
misionero. Cuando pienso en los años de mi servicio pastoral como sacerdote y como
obispo, más me convenzo de lo verdadero y fundamental que es esto.

Hombre de la Palabra

Me he referido ya al hecho de que para ser guía auténtico de la comunidad, verdadero


administrador de los misterios de Dios, el sacerdote está llamado a ser hombre de la
palabra de Dios, generoso e incansable evangelizador. Hoy, frente a las tareas inmensas
de la "nueva evangelización'', se ve aún más esta urgencia.

Después de tantos años de ministerio de la Palabra, que especialmente como Papa me


han visto peregrino por todos los rincones del mundo, debo dedicar algunas
consideraciones a esta dimensión de la vida sacerdotal. Una dimensión exigente, ya que
los hombres de hoy esperan del sacerdote antes que la palabra "anunciada" la palabra
"vivida". El presbítero debe "vivir de la Palabra''. Pero al mismo tiempo, se ha de
esforzar por estar también intelectualmente preparado para conocerla a fondo y
anunciarla eficazmente. En nuestra época, caracterizada por un alto nivel de
especialización en casi todos los sectores de la vida, la formación intelectual es muy
importante. Esta hace posible entablar un diálogo intenso y creativo con el pensamiento
contemporáneo. Los estudios humanísticos y filosóficos y el conocimiento de la
teología son los caminos para alcanzar esta formación intelectual, que deberá ser
profundizada durante toda la vida. El estudio, para ser auténticamente formativo, tiene
necesidad de estar acompañado siempre por la oración, la meditación, la súplica de los
dones del Espíritu Santo: la sabiduría, la inteligencia, el consejo, la fortaleza, la ciencia,
la piedad y el temor de Dios. Santo Tomás de Aquino explica como, con los dones del
Espíritu Santo, todo el organismo espiritual del hombre se hace sensible a la luz de
Dios, a la luz del conocimiento y también a la inspiración del amor. La súplica de los
dones del Espíritu Santo me ha acompañado desde mi juventud y a ella sigo siendo fiel
hasta ahora.

Profundización científica

Ciertamente, como enseña el mismo Santo Tomás, la "ciencia infusa", que es fruto de
una intervención especial del Espíritu Santo, no exime del deber de procurarse la
"ciencia adquirida".

Por lo que a mí respecta, como he dicho antes, inmediatamente después de la


ordenación sacerdotal fui enviado a Roma para perfeccionar los estudios. Más tarde, por
decisión de mi obispo, tuve que ocuparme de la ciencia como profesor de ética en la
Facultad teológica de Cracovia y en la Universidad Católica de Lublin. Fruto de estos
estudios fueron el doctorado sobre San Juan de la Cruz y después la tesis sobre Max
Scheler para la enseñanza libre: más en concreto, sobre la aportación que su sistema
ético de tipo fenomenológico puede dar a la formación de la teología moral. Debo
verdaderamente mucho a este trabajo de investigación. Sobre mi precedente formación
aristotélico-tomista se injertaba así el método fenomenológico, lo cual me ha permitido
emprender numerosos ensayos creativos en este campo. Pienso especialmente en el
libro "Persona y acción De este modo me he introducido en la corriente contemporánea
del personalismo filosófico, cuyo estudio ha tenido repercusión en los frutos pastorales.
A menudo constato que muchas de las reflexiones maduradas en estos estudios me
ayudan durante los encuentros con las personas, individualmente o en los encuentros
con las multitudes de fieles con ocasión de los viajes apostó1icos. Esta formación en el
horizonte cultural del personalismo me ha dado una conciencia más profunda de cómo
cada uno es una persona única e irrepetible, y considero que esto es muy importante
para todo sacerdote.

El diálogo con el pensamiento contemporáneo

Gracias a los encuentros y coloquios con naturalistas, físicos, biólogos y también con
historiadores, he aprendido a apreciar la importancia de las otras ramas del saber
relativas a las materias científicas, desde las cuales se puede llegar a la verdad partiendo
de perspectivas diversas. Es preciso, pues, que el esplendor de la verdad -Veritatis
Splendor- las acompañe continuamente, permitiendo a los hombres encontrarse,
intercambiar las reflexiones y enriquecerse recíprocamente. He traído conmigo desde
Cracovia a Roma la tradición de encuentros interdisciplinares periódicos, que tienen
lugar de modo regular durante el verano en Castel Gandolfo. Trato de ser fiel a esta
buena costumbre.

"Labia sacerdotum scientiam custodiant..." (cf. Ml 2, 7). Me gusta recordar estas


palabras del profeta Malaquías, citadas en las Letanías a Cristo Sacerdote y Víctima,
porque tienen una especie de valor programático para quien está llamado a ser ministro
de la Palabra. Este debe ser verdaderamente hombre de ciencia en el sentido más alto y
religioso del término. Debe poseer y transmitir la "ciencia de Dios" que no es sólo un
depósito de verdades doctrinales, sino experiencia personal y viva del Misterio, en el
sentido indicado por el Evangelio de Juan en la gran oración sacerdotal: "Esta es la vida
eterna: que te conozcan a ti, el único Dios verdadero, y al que tú has enviado,
Jesucristo" (17, 3).

X
A LOS HERMANOS EN EL SACERDOCIO

Al concluir este testimonio sobre mi vocación sacerdotal, deseo dirigirme a todos los
Hermanos en el sacerdocio: ¡a todos sin excepción! Lo hago con las palabras de San
Pedro: "Hermanos, poned el mayor empeño en afianzar vuestra vocación y vuestra
elección. Obrando así nunca caeréis" (2 Pe I, 10). ¡Amad vuestro sacerdocio! ¡Sed fieles
hasta el final! Sabed ver en él aquel tesoro evangélico por el cual vale la pena darlo todo
(cf. Mt 13, 44).

De modo particular me dirijo a aquellos de entre vosotros que viven un período de


dificultad o incluso de crisis de su vocación. Quisiera que este testimonio personal mío
-testimonio de sacerdote y de Obispo de Roma, que celebra las Bodas de Oro de la
Ordenación- fuese para vosotros una ayuda y una invitación a la fidelidad. He escrito
esto pensando en cada uno de vosotros, abrazándoos a todos con la oración.
Pupilla oculi

He pensado también en tantos jóvenes seminaristas que se preparan al sacerdocio.


¡Cuantas veces un obispo va con la mente y el corazón al seminario! Este es el primer
objeto de sus preocupaciones. Se suele decir que el seminario es para un obispo la
"pupila de sus ojos". El hombre defiende las pupilas de sus ojos porque le permiten ver.
Así, en cierto modo, el obispo ve su Iglesia a través del seminario, porque de las
vocaciones sacerdotales depende gran parte de la vida eclesial. La gracia de numerosas
y santas vocaciones sacerdotales le permite mirar con confianza el futuro de su misión.

Digo esto basándome en los muchos años de mi experiencia episcopal. Fui nombrado
obispo doce años después de mi Ordenación sacerdotal: buena parte de estos cincuenta
años ha estado precisamente marcada por la preocupación por las vocaciones. La alegría
del obispo es grande cuando el Señor da vocaciones a su Iglesia; su falta, por el
contrario, provoca preocupación e inquietud. El Señor Jesús ha comparado esta
preocupación a la del segador: "La mies es mucha y los obreros pocos. Rogad, pues, al
Dueño de la mies que envíe obreros a su mies" (Mt 9, 37).

Deo gratias!

No puedo terminar estas reflexiones, en el año de mis Bodas de Oro sacerdotales sin
expresar al Señor de la mies la más profunda gratitud por el don de la vocación, por la
gracia del sacerdocio, por las vocaciones sacerdotales en todo el mundo. Lo hago en
unión con todos los obispos, que comparten la misma preocupación por las vocaciones
y sienten la misma alegría cuando aumenta su número. Gracias a Dios, está en vías de
superación una cierta crisis de vocaciones sacerdotales en la Iglesia. Cada nuevo
sacerdote trae consigo una bendición especial: "Bendito el que viene en nombre del
Señor''. En efecto, es Cristo mismo quien viene en cada sacerdote. Si San Cipriano ha
dicho que el cristiano es "otro Cristo" -Christianus alter Christus-, con mayor razón se
puede decir: Sacerdos alter Christus.

Que Dios mantenga en los sacerdotes una conciencia agradecida y coherente del don
recibido, y suscite en muchos jóvenes una respuesta pronta y generosa a su llamada a
entregarse sin reservas por la causa del Evangelio. De ello se beneficiarán los hombres y
mujeres de nuestro tiempo, tan necesitados de sentido y de esperanza. De ello se
alegrará la comunidad cristiana, que podrá afrontar con confianza las incógnitas y
desafíos del tercer Milenio que ya está a las puertas.

Que la Virgen María acoja este testimonio mío como una ofrenda filial, para gloria de la
Santísima Trinidad. Que la haga fecunda en el corazón de los hermanos en el sacerdocio
y de tantos hijos de la Iglesia. Que haga de ella una semilla de fraternidad también para
quienes, aun sin compartir la misma fe, me hacen con frecuencia el don de su escucha y
del diálogo sincero.
APÉNDICE

Letanías de Nuestro Señor Jesucristo Sacerdote y Víctima

Kyrie, eleison ...... Kyrie, eleison

Christe, eleison ...... Christe, eleison

Kyrie, eleison ...... Kyrie, eleison

Christe, audi nos ...... Christe, audi nos

Christe, exaudi nos ...... Christe, exaudi nos

Pater de caelis, Deus, ...... miserere nobis

Fili, Redemptor mundi, Deus, ..... miserere nobis

Spiritus Sancte, Deus, ...... miserere nobis

Sancta Trinitas, unus Deus, ...... miserere nobis

Iesu, Sacerdos et Victima, ...... miserere nobis

Iesu, Sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech, ..... miserere nobis

Iesu, Sacerdos quem misit Deus evangelizare pauperibus, .... miserere nobis

Iesu, Sacerdos qui in novissima cena formam sacrificii perennis instituisti, ..... miserere
nobis

Iesu, Sacerdos semper vivens ad interpellandum pro nobis, ..... miserere nobis

Iesu, Pontifex quem Pater unxit Spiritu Sancto et virtute, .... miserere nobis

Iesu, Pontifex ex hominibus assumpte, ..... miserere nobis

Iesu, Pontifex pro hominibus constitute, .... miserere nobis

Iesu, Pontifex confessionis nostrae, ..... miserere nobis

Iesu, Pontifex amplioris prae Moysi gloriae, .... miserere nobis

Iesu, Pontifex tabernaculi veri, ... miserere nobis

Iesu, Pontifex futurorum bonorum, ..... miserere nobis


Iesu, Pontifex sancte, innocens et impollute, .... miserere nobis

Iesu, Pontifex fidelis et misericors, ..... miserere nobis

Iesu, Pontifex Dei et animarum zelo succense, ..... miserere nobis

Iesu, Pontifex in aeternum perfecte, ...... miserere nobis

Iesu, Pontifex qui per proprium sanguinem caelos penetrasti, ..... miserere nobis

Iesu, Pontifex qui nobis viam novam initiasti, ..... miserere nobis

Iesu, Pontifex qui dilexisti nos et lavisti nos a peccatis in sanguine tuo, ...... miserere
nobis

Iesu, Pontifex qui tradidisti temetipsum Deo oblationem et hostiam, ....... miserere nobis

Iesu, Hostia Dei et hominum, ....... miserere nobis

Iesu, Hostia sancta et immaculata, ...... miserere nobis

Iesu, Hostia placabilis, ..... miserere nobis

Iesu, Hostia pacifica, ..... miserere nobis

Iesu, Hostia propitiationis et laudis, ..... miserere nobis

Iesu, Hostia reconciliationis et pacis, ..... miserere nobis

Iesu, Hostia in qua habemus fiduciam et accessum ad Deum, ..... miserere nobis

Iesu, Hostia vivens in saecula saeculorum, ...... miserere nobis

Propitius esto! ...... parce nobis, Iesu

Propitius esto! ..... exaudi nos, Iesu

A temerario in clerum ingressu, ..... libera nos, Iesu

A peccato sacrilegii, ..... libera nos, Iesu

A spiritu incontinentiae, ..... libera nos, Iesu

A turpi quaestu, ...... libera nos, Iesu

Ab omni simoniae labe, ...... libera nos, Iesu

Ab indigna opum ecclesiasticarum dispensatione, ...... libera nos, Iesu


Ab amore mundi eiusque vanitatum, ....... libera nos, Iesu

Ab indigna Mysteriorum tuorum celebratione, ....... libera nos, Iesu

Per aeternum sacerdotium tuum, ...... libera nos, Iesu

Per sanctam unctionem, qua a Deo Patre in sacerdotem constitutus es, ...... libera nos,
Iesu

Per sacerdotalem spintum tuum, ...... libera nos, Iesu

Per ministerium illud, quo Patrem tuum super terram clarificasti, ...... libera nos,

Iesu Per cruentam tui ipsius immolationem semel in cruce factam, ...... libera nos, Iesu

Per illud idem sacrificium in altari quotidie renovatum, ...... libera nos, Iesu

Per divinam illam potestatem, quam in sacerdotibus tuis invisibiliter exerces, ...... libera
nos, Iesu

Ut universum ordinem sacerdotalem in sancta religione conservare digneris, ...... Te


rogamus, audi nos

Ut pastores secundum cor tuum populo tuo providere digneris, ..... Te rogamus, audi nos

Ut illos spiritus sacerdotii tui implere digneris, ..... Te rogamus, audi nos

Ut labia sacerdotum scientiam custodiant, ...... Te rogamus, audi nos

Ut in messem tuam operarios fideles mittere digneris, ..... Te rogamus, audi nos

Ut fideles mysteriorum tuorum dispensatores multiplicare digneris, ..... Te rogamus,


audi nos

Ut eis perseverantem in tua voluntate famulatum tribuere digneris, ..... Te rogamus, audi
nos

Ut eis in ministerio mansuetudinem, in actione sollertiam et in orationem constantia


concedere digneris, ... Te rogamus, audi nos

Ut per eos sanctissimi Sacramenti cultum ubique promovere digneris, ...... Te rogamus,
audi nos

Ut qui tibi bene ministraverunt, in gaudium tuum suscipere digneris, ...... Te rogamus,
audi nos

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, ...... parce nobis, Domine

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, ...... exaudi nos, Domine
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, ...... miserere nobis, Domine

Iesu, Sacerdos, ...... audi nos

Iesu, Sacerdos, ...... exaudi nos.

Oremus

Ecclesiae tuae, Deus, sanctificator et custos, suscita in ea per Spiritum tuum idoneos el
fideles sanctorum mysteriorum dispensatores, ut eorum ministerio el exemplo christiana
plebs in viam salutis te protegente dirigatur. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

Deus, qui ministrantibus et ieiunantibus discipulis segregari iussisti Saulum et


Barnabam in opus ad quod assumpseras eos, adesto nunc Ecclesiae tuae oranti, et tu, qui
omnium corda nosti, ostende quos elegeris in ministerium. Per Christum Dominum
nostrum. Amen.

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