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RAPPRESENTANZA E PARTECIPAZIONE
di Marco Almagisti
dursi nel tempo. Rousseau, ad esempio, sostiene che «una vera democrazia
non è mai esistita né mai esisterà. [Perché] è contro l’ordine naturale che il
grande numero governi e che il piccolo sia governato» (Rousseau 1966, libro
III, IV). È, quella propria di Rousseau, una concezione «sostanziale» della
democrazia, intesa come forma di governo fondata sulla partecipazione di-
retta del demos, considerato nella sua interezza, alle principali attività di cui
si compone la vita associata.
Pare tuttavia il caso di ribadire che le obiezioni di preferibilità e prati-
cabilità contengono elementi critici diversi, i quali a loro volta risultano varia-
mente considerati in differenti contesti culturali, spaziali e temporali: dopo la
conclusione della guerra fredda, ad esempio, quando il termine «democrazia»
ha assunto un significato elogiativo quasi universalmente riconosciuto (Sartori
1993), le analisi sui processi di diffusione della medesima abbondano di rife-
rimenti a contesti nei quali tale forma di governo per vari motivi risulta assai
poco praticabile, ma nondimeno è da molti ritenuta preferibile. In passato,
invece, le critiche alla democrazia si concentravano, nei casi più benevoli, sulla
sua presunta incapacità di oltrepassare le dimensioni anguste della polis classica
e, quindi, sull’inadeguatezza a costituire una forma di governo realizzabile
entro quelle configurazioni politiche più istituzionalizzate e territorialmente
estese che stavano coagulandosi sin dall’autunno del Medioevo. In altri termini,
le obiezioni relative alla praticabilità della democrazia hanno osteggiato per
lungo tempo l’affermazione della sua preferibilità come forma di governo1. In
questo senso, con riguardo all’esperienza storica europea e nord-americana,
possiamo affermare che la democrazia è riuscita a superare molte tiepidezze
in merito alla sua preferibilità, proprio dissipando i principali dubbi relativi
alla sua effettiva praticabilità2. Questa evoluzione decisiva avviene quando
i suoi propugnatori comprendono che «unendo il principio democratico
del governo del popolo alla prassi non democratica della rappresentanza, la
1
Si vedano, a tal riguardo, le ricostruzioni dei dibattiti risalenti alla Rivoluzione
inglese in Dahl (1989, trad. it. 45-47) e Revelli (1997).
2
Le valutazioni di preferibilità della democrazia rispetto ad altri sistemi politici si
possono basare su molteplici fattori. Nel processo di sviluppo politico europeo e nord-
americano, ad esempio, un elemento molto favorevole alla democrazia è consistito nella sua
congruenza rispetto ai principi del costituzionalismo liberale (emancipazione della persona
rispetto ai corpi intermedi tradizionali, accompagnato dal riconoscimento e dalla tutela
giuridica dei diritti individuali) e, quindi, rispetto ad una concezione del potere politico
come potere limitato. Utili spunti a questo proposito sono presenti in Poggi (1991, trad.
it. 83-107) e Piana (2006, 21-27), i quali, tuttavia, evidenziano anche come fra i principi
liberali e quelli democratici possano essere rintracciate forti affinità, ma non completa
coincidenza. Esistono, infatti, numerosi casi storici nei quali il principio democratico del
governo popolare e il principio liberale del governo «limitato» sono entrati in collisione.
Con riferimento alle vicende della Repubblica di Weimar, tale tensione è ben esplicitata
da Schmitt (1928).
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Circa l’origine feudale della rappresentanza si veda Rousseau (1966, libro III, 15).
Rintraccia, invece, l’origine della rappresentanza nell’antichità Mommsen (1887, vol. V, 6
e ss.), citato in Sartori (1995, 286, nota 3).
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Definita anche «libera», «di suffragio» o, semplicemente, «moderna». Vedremo poi
nel prosieguo della nostra esposizione come meglio esplicitare i fondamentali riferimenti
alla «libertà» del rappresentante e alla vigenza di procedure elettorali.
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5
Su questo punto si confronti l’ampia ricostruzione di Sartori (1995).
6
L’espressione è di Carré de Malberg (1962, 230), citato in Sartori (1995, 323).
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Del resto, tale polisemia risulta intrinseca allo stesso verbo rappresentare. In
senso etimologico rappresentare significa presentare di nuovo e, per estensione, rendere
presente qualcuno o qualcosa che presente non è (Sartori 1995, 285). I diversi significati
relativi al verbo rappresentare possono essere distinti in: a) significati che rimandano ad
una dimensione di azione, ossia che richiamano un agire secondo determinati canoni di
comportamento in riferimento a questioni che riguardano un’altra persona; b) significati
che rimandano ad una dimensione di riproduzione, ossia al possesso di alcune caratteristiche
che rispecchiano o evocano quelle dei soggetti rappresentati (Cotta 1990, 929).
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In merito a tale aspetto si confronti anche l’interpretazione di Sartori (1995, 301
e ss).
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Con riguardo a tali fenomeni sono state coniate molteplici definizioni, fra cui quelle
più utilizzate risultano essere populismo e antipolitica (Mastropaolo 2005). Secondo Tarchi
(2003) le insorgenze populiste rappresentano l’altra «faccia» della democrazia, mai com-
pletamente estirpabile, proprio in quanto alimentata dalla tensione ineliminabile fra rap-
presentanza e sovranità popolare. Su tali questioni vedansi anche Mény e Surel (2000). Per
una distinzione concettuale fra antipolitica e populismo, si confronti Campus (2007).
10
In generale, i sistemi elettorali proporzionali tendono a garantire maggiormente
quanto abbiamo definito in precedenza come «rappresentatività sociologica», mentre i
sostenitori del c.d. «modello Westminster» sottolineano come tale sistema agevoli la chia-
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13
Utili considerazioni critiche, al riguardo, sono presenti in Di Palma (1990).
14
Sono, infatti, molteplici i costrutti semantici mediante i quali si indicano le dimen-
sioni extraprocedurali di un sistema politico. Almond e Verba (1963, 13) fanno riferimento
al concetto di cultura politica, intesa come l’insieme degli orientamenti psicologici dei
membri di una società nei confronti della politica. Putnam (1993, trad. it. 196) utilizza
il concetto di capitale sociale, definito come l’insieme delle reti di fiducia, delle norme di
reciprocità e delle risorse associative sedimentate in un dato contesto. Sartori (1979, 146),
invece, introduce il concetto di capitale assiologico, per indicare quella rendita di valori
sui cui, in ultima istanza, si regge un sistema politico. L’utilizzo di termini diversi sottende
variazioni di significato non trascurabili, che in questa sede non possiamo articolare. Per
un’analisi specifica di tali concetti si rimanda a quanto esposto in Almagisti (2007, cap. 1).
Per una critica all’approccio culturalista almondiano vedasi Allum (2007, 5-21).
15
L’impostazione iniziale di Putnam (1993) enfatizzava l’origine storica remotissima
del capitale sociale (risalendo all’esperienza comunale medievale per spiegare il maggior
tasso di civismo e quindi il miglior rendimento istituzionale delle regioni dell’Italia setten-
trionale). Analisi successive (Putnam 2000; Cartocci 1994; 2002; 2007) hanno evidenziato
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teoria unitaria sull’origine del capitale sociale, molti studiosi che utilizzano tale
concetto in ambito politologico concordano nell’indicarne l’irrobustimento
come elemento-chiave per rinsaldare il rapporto fra istituzioni e società e
per poter accedere, per tale via, a livelli più elevati di qualità democratica.
In altri termini, le più recenti ricerche sul capitale sociale ci indicano quale
fattore rilevante per la qualità della democrazia il particolare rapporto che
s’instaura fra le istituzioni rappresentative e il potenziale di mobilitazione che
si sedimenta fra i cittadini (Cartocci e Priscitelli 2003; Almagisti 2007). La
qualità della democrazia, cioè, risulterebbe significativamente influenzata dalle
molteplici relazioni fra il funzionamento del meccanismo della rappresentanza
e le variegate forme di partecipazione dei cittadini. Alla ricostruzione di questa
rete di relazioni dedicheremo la parte restante della nostra riflessione.
il ruolo essenziale delle istituzioni nei processi di costruzione e ricostruzione del capitale
sociale e la possibilità, per i rappresentanti, di corroborare, per tale via, la fiducia dei
rappresentati. È il caso di sottolineare come, in tali processi, più che dalla ricerca della
rappresentatività sociologica, i rapporti fra rappresentanti e rappresentati possono essere
resi più soddisfacenti da altri elementi, quali la condivisione di valori comuni e, soprattut-
to, le scelte operate dai rappresentanti in materia di politiche pubbliche, unitamente alla
gestione quotidiana delle medesime. In questo senso, è possibile, per chi scrive, ipotizzare
una proficua ibridazione fra le «nuove generazioni» di studi sul capitale sociale e il neo-
istituzionalismo à la March e Olsen (1989).
16
Questa potenziale ubiquità dell’esperienza politica è acutamente analizzata
da Weber (1922), che introduce la distinzione fra l’agire politico in senso proprio (ossia
l’attività mediante la quale i governanti allocano risorse e valori mediante provvedimenti
sorretti dall’autorità) e l’agire sociale orientato politicamente, indicando, mediante questa
espressione, l’insieme di attività intraprese dai governati al fine di condizionare il processo
decisionale dei governanti.
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A proposito delle diverse forme di partecipazione politica Barbagli e Maccelli
(1985, 15-16) introducono una distinzione fra partecipazione visibile, ossia sostanzialmente
orientata a condizionare la selezione dei rappresentanti o le loro scelte, e partecipazione
invisibile, cioè una partecipazione emotiva-affettiva a quanto avviene nel mondo politico.
Inoltre, all’interno della partecipazione visibile distinguono fra forme istituzionalizzate
della partecipazione e quelle non-istituzionalizzate (ossia che non corrispondono alle norme
giuridiche e sociali che regolano la partecipazione stessa in un determinato regime, come
i picchettaggi o l’occupazione di edifici). Sull’evoluzione delle forme di partecipazione
prevalenti nelle democrazie, si confrontino anche Milbrath (1965, 18) e Dalton (1988).
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Si tratta della c.d. «corrente partecipazionista», che rivendica l’opportunità di
pervenire ad una partecipazione piena, diretta ed immediata della generalità dei cittadini
alle decisioni pubbliche. Si vedano, in merito, le considerazioni critiche di Sartori (1993,
78).
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Per gli antichi greci l’isegoria, ossia l’eguale diritto a prendere parola e ad esprimere
le proprie opinioni nell’agorà, era legata all’isonomia, cioè all’uguaglianza dei soggetti di
fronte alla legge, che consentiva loro di essere vicendevolmente destinatari di istanze di
comando ed obbedienza. Questa caratteristica distingueva gli uomini liberi (cioè maschi,
adulti e proprietari) da tutte le altre persone, ossia dalle donne, dai bambini, dagli schiavi,
dagli stranieri o dai debitori insolventi, cui era precluso ogni accesso all’agorà.
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Con riferimento alle trasformazioni delle istituzioni rappresentative, ai successivi
allargamenti del suffragio e alla nascita di nuovi corpi intermedi, vedansi Hintze (1962);
Duverger (1964); Bobbio (1976); Fisichella (1983); Zincone (1992) e Cedroni (2004a).
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anche verso le più rilevanti politiche pubbliche concernenti gli ambiti relativi
alla propria attivazione nonché verso gli attori politici che le promuovono o
che le osteggiano, permettendo in tal modo di influenzare ulteriori iniziative
e il funzionamento dello stesso sistema politico.
Sul piano motivazionale, la risposta al perché molti soggetti partecipino
a vario titolo alle attività politiche intreccia in modo pressoché inestricabile la
dimensione descrittiva dei processi analizzati e le connotazioni prescrittive che
distinguono le differenti correnti e dottrine politiche (Raniolo 2002, 18). La
già menzionata polisemia del concetto di partecipazione induce a proiettare
su di esso le particolari concezioni della politica proprie degli osservatori. La
nozione di partecipazione, infatti, rimanda alla condivisione di un’azione,
all’adesione ad un evento di ordine collettivo. Il significato di tale concetto
può essere articolato in due dimensioni, peraltro fortemente connesse (Cotta
1979): 1) la partecipazione come prendere parte ad un determinato processo
(che implica un’abilitazione, un’idoneità, il riconoscimento di un fascio di
diritti di cittadinanza); 2) la partecipazione come essere parte di un gruppo
(che comporta l’esistenza di un sistema di solidarietà, di un senso d’apparte-
nenza). Da tale articolazione del concetto di partecipazione discendono due
tipi ideali della medesima, il cui confronto caratterizza una parte rilevante del
dibattito delle scienze sociali in merito al tema. In estrema sintesi, possiamo
affermare che il dibattito sulla partecipazione oscilla fra questi due modelli:
a) la partecipazione strumentale (o efficiente); b) la partecipazione espressiva
(o simbolica).
Secondo coloro che interpretano la partecipazione come un’attività pre-
valentemente strumentale, i partecipanti sono individui razionali, portatori di
interessi e preferenze esogene rispetto alle arene politiche. In questi termini, la
partecipazione è intesa soprattutto in senso protettivo (Pateman 1970; Skinner
1978): chi partecipa intende, in primo luogo, essere protetto dalle possibili
azioni arbitrarie e pericolose dei governanti e dalle interferenze degli altri
soggetti privati. In tal senso, la tutela dei propri interessi è individuata come
motivazione primaria dell’azione politica, che si esprime soprattutto, ma non
esclusivamente, nel processo di selezione e di controllo dei rappresentanti
attraverso le elezioni. Coloro che, invece, intendono la partecipazione soprat-
tutto come attività simbolica, ritengono che tale attività non costituisca solo
un mezzo per conseguire altri scopi (siano essi costituiti dalla tutela dei propri
interessi o dalla selezione di rappresentanti efficienti), bensì che possa avere
un fine in sé, ossia che chi partecipa tragga benefici dal fatto stesso di parte-
cipare, in termini di riconoscimento e di rafforzamento della propria identità
(Pizzorno 1966; 1983; Parry 1972). Inoltre, in riferimento al funzionamento
complessivo del sistema politico democratico, gli studiosi che si soffermano
su questo versante della partecipazione sottolineano il contributo che possono
sortire tassi elevati di partecipazione in termini di maggiore circolazione delle
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Che riprendono due fondamentali modalità di azione sociale descritte da Weber
(1922): l’agire sociale rispetto allo scopo e l’agire sociale rispetto al valore.
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Utili considerazioni critiche al riguardo sono presenti in Zolo (1996).
23
Tali questioni sono egregiamente sintetizzate da Raniolo (2002, 77-95).
24
In riferimento ai gruppi d’interesse si utilizza il termine di rappresentanza fun-
zionale, intendendo, con ciò, il meccanismo con il quale i gruppi organizzati mirano a
realizzare accordi più o meno stabili per l’allocazione di risorse o di opportunità ritenute
apprezzabili dai gruppi stessi. Pur essendo formalmente distinta dalla rappresentanza
politica, anche quella funzionale riveste un’importanza decisiva per il funzionamento delle
istituzioni democratiche: si pensi agli assetti istituiti da alcune socialdemocrazie europee
(Schmitter 1974) o ai molteplici rapporti che intercorrono storicamente fra partiti e gruppi
d’interesse (Morlino 1998).
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Nella sterminata letteratura su gruppi e movimenti, per sintesi approfondite e
ragionate si rimanda, per i primi a Graziano (1995) e per i secondi a Della Porta e Diani
(1997).
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Consiglieri comunali, parlamentari, dirigenti di partito e di sindacato, funzionari
intermedi ecc.
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Sul concetto di carico si vedano La Palombara e Wiener (1966). Sulla funzione
integrativa svolta dai partiti di massa nei confronti dello Stato, vedansi Negri (1977) e
Mastropaolo (1993).
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Il principale dei quali è individuato da Revelli (1996) nella divaricazione fra lo
«spazio della politica» e lo «spazio dell’economia» in seguito ai processi di globalizzazione.
Secondo questa interpretazione, i flussi continui di merci, informazioni e persone derivanti
dai processi di globalizzazione comporterebbero il logoramento delle istituzioni statuali
e, con esse, del «contenitore» della democrazia moderna. Vedendo indebolita la propria
funzione di controllo e tassazione della ricchezza prodotta, gli Stati nazionali dovrebbero
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verso le istituzioni che, pur non deflagrando in palesi contestazioni del sistema
democratico, possono comunque minarne il consenso e incidere, per tale via,
sul concreto funzionamento della democrazia. Per tale motivo, il dibattito
politologico individua nei rapporti fiduciari fra governanti e governati un
ambito di particolare interesse, entro il quale puntualizzare alcuni aspetti
concettuali, in connessione con ulteriori avanzamenti della ricerca empirica
(Schmitter e Karl 1993; Morlino 2003).
Elemento comune di tali riflessioni è la convinzione che un regime
democratico non possa reggersi unicamente sul rispetto formale delle proce-
dure di selezione dei rappresentanti, bensì che esso debba anche basarsi sulla
responsabilità dei medesimi nei confronti dei rappresentati e sulla capacità
dei primi di intercettare le preferenze dei secondi.
In relazione a tali questioni la riflessione si sofferma su dimensioni quali
l’accountability, intesa come «responsabilità politica», e la connessa dimensione
della responsiveness, ossia la «ricettività», la capacità, da parte delle istituzioni,
di fornire risposte (soddisfacenti) alle richieste dei governati. Con riferimento
alla prima dimensione evocata, accountability significa che un rappresentante
eletto può essere chiamato a rispondere di una decisione presa da parte degli
elettori o da altri organi costituzionali a ciò preposti. Essa può essere verticale
od orizzontale. L’accountability verticale è quella che può far valere l’elettore
nei confronti dell’eletto, il governato nei confronti del governante a proposito
degli atti da lui compiuti. Questo primo tipo di accountability è caratterizzato
dall’essere periodico e dipendente dalle scadenze elettorali, nazionali, locali
e, se ci sono, sopranazionali. L’accountability verticale configura una relazione
fra soggetti politicamente ineguali, come sono appunto il governante e il go-
vernato. L’accountability orizzontale è la responsabilità che viene fatta valere
nei confronti dei governanti da altre istituzioni o da attori collettivi che hanno
conoscenze e potere di valutarne il comportamento: essa è caratterizzata per
la propria tendenziale continuità, per essere formalmente o sostanzialmente
statuita e in quanto configura una relazione fra soggetti formalmente eguali. In
concreto con questa nozione ci si riferisce all’attività di controllo del governo
che svolge l’opposizione in parlamento, alle diverse attività di controllo e di
valutazione svolte dalla magistratura, se attivata, dai tribunali costituzionali,
dalle corti dei conti, dalla banca centrale e dagli altri organi esistenti in una
democrazia a questo fine, ma anche, nella società civile, all’attività svolta fuori
dal parlamento dai partiti, dai media o da altre associazioni intermedie.
quindi riconsiderare «al ribasso» le proprie politiche, con conseguenze negative in termi-
ni di integrazione sociale. A questo già problematico affresco, si aggiungono negli anni
più recenti le preoccupazioni concernenti il diffondersi del terrorismo internazionale di
matrice islamista.
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Si spiega anche così la rilevanza che tale tema sta acquisendo nel più recente
dibattito interno alla scienza politica. In merito alle coordinate di tale dibattito vedansi
O’Donnell (1999); Schedler (1999); Schmitter (1999); Morlino (2003); Piana (2005; 2007);
Campus (2005) e Franchino (2006).
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Queste proposte in parte si sovrappongono all’emergente filone della democrazia
deliberativa, che ripropone, in forme parzialmente rinnovate, il tema della partecipazione
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diretta dei cittadini alle decisioni pubbliche. Per approfondimenti relativi a questo impor-
tante filone si rimanda a Fishkin (1992), Elster (1998) e Bobbio (2007).
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Com’è noto, tali forme di mobilitazione sono così definite – criticamente –, in
base all’acronimo dell’espressione «Not In My Back Yard» («Non nel mio giardino»), da
chi intende metterne in risalto l’orientamento localista.
32
In merito, si vedano le utili precisazioni di Raniolo (2000) e Massari (2004).
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