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Raccolta di Politica Internazionale
Il meglio da “Risiko-Geopolitica e dintorni”- “BloGlobal” - “Prospettiva Internazionale”
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Numero 2 - Febbraio 2011

Perché “Chaos” All’interno:


Cosa si nasconde nelle 4
La politica internazionale è una cosa difficile da comprendere fino in fondo e, per questo,
tensioni in Medio Oriente
è difficile seguirla. Essa è molto di più di un semplice sistema di relazioni internazionali, 6
La Libia ad un bivio: ri-
di rapporti interstatali, di interconnessioni economiche, di collegamenti fra sistemi regio- volta per la democrazia o
guerra civile?
nali, molto di più di quella che — spesso riduttivamente — viene chiamata
Libia & Co. Il punto della 9
―globalizzazione‖. Tra le diverse teorie che hanno tentato di spiegare tale complessità, situazione
ne è stata formulata recentemente una davvero particolare: applicare le leggi che rego- L’Egitto, la stampa e il 11
mio mal di testa
lano la biologia, la fisica quantistica e la ―teoria del caos‖ anche alle scienze politiche e
Un’India sempre più nu- 18
alle relazioni internazionali (―Mondo Caos‖, di Roberto Menotti, edito da Laterza - 2010). cleare
Da qui nasce l’idea di ―Chaos‖ (scritto in inglese, con 5 lettere, come i 5 continenti): una USA: Obama presenta il 22
nuovo budget annuale
raccolta dei migliori articoli pubblicati da alcuni emergenti blog italiani, ―BloGlobal‖,
―Risiko-Geopolitica e dintorni‖ e ―Prospettiva internazionale‖. Essi hanno lo scopo di pro- Il ruolo del Brasile nel 23
contesto mediorientale
muovere la conoscenza della politica internazionale e di spiegare, in termini accessibili a Relazione IOM su flussi 24
tutti, i fattori e le dinamiche che muovono il mondo e la sua, appunto, caoticità. Com- migratori 2010: analisi e
prospettive
prenderle permette di prendere consapevolezza delle nostre radici e, ora come non mai, La battaglia cartografica 29
parte I: sionismo e carto-
del nostro futuro! grafia

In evidenza questo mese: Egitto, Libia e le rivolte nel mondo arabo


La “tempesta perfetta nordafricana” e la prevedibilità della rivoluzione- di Alessandro Badella
(Risiko) - 7.02.2011

Ma la rivoluzione è come la Pasqua? Quando arriva, arriva? Attualizziamo: gli sconvolgimenti nordafricani erano
prevedibili da parte dell'intelligence dei paesi in cui si sono prodotti e da quelle occidentali?

Una domanda sibillina che si stanno facendo molti analisti a livello internazionale. Ricordo un articolo di Marta Das-
sù, su La Stampa, dove l'autrice "condanna" le diplomazie per ascoltare troppo i regimi e non la gente che ne fa par-
te. Tuttavia, nello stesso articolo, la Dassù si da anche una risposta, ricordando(si) che anche il crollo dell'URSS, la
rivoluzione d'ottobre e quella francese furono qualcosa di storicamente fondamentale ma non vennero previste né
dai governanti né dagli analisti. Quindi storicamente vi sono esempi molto concreti di quanto le istituzioni politiche
possano compiere errori di valutazione. Se noi guardassimo la "mappa della libertà" stilata annualmente da Freedom
House, dovremmo aspettarci una grande rivoluzione dal Congo alla Birmania che spazzi via tutti i regimi dittatoriali
sulla faccia della terra. Ma non è così.

Segue all’altra pagina —>


Pagina 3 CHAOS
Nell'Africa settentrionale ed in Medio Oriente si sta verificando
quella che Hillary Clinton ha definito una "tempesta perfetta", ov-
vero un insieme di fattori che ha scoperchiato il pentolone della
rivolta. Probabilmente di tratta di un mix di fattori. Sicuramente
la mancanza di libere elezioni, di diritti civili e politici ridotti al
lumicino. Non è che in Tunisia ed in Egitto non ci siano mai state
elezioni, ma, come quella di Ben Alì nel 2008, si è sempre tratta-
to di tornate elettorali a senso unico. Il che potrebbe essere peg-
gio, perché oltre a sovvertire l'eventuale esito delle urne, la popo-
lazione ha sviluppato anche l'idea di una "democrazia sequestrata", solo potenziale e mai effettivamente compiuta.
In questa situazione, una soluzione politica alla crisi di consenso dei regimi esistenti, è stata praticamente impossibi-
litata dall'assenza di una classe politica alternativa, ovvero dalla presenza di una qualsivoglia opposizione al gover-
no. Si legge nell'ultimo rapporto di Freedom Housesulla Tunisia:

"Opposition parties that are genuinely independent of state influence are weak and have almost no role in the
formation of public policy. The state strictly monitors and severely curbs their activities".

L'Egitto avrebbe caratteri politici più sviluppati, essendo presente anche un'opposizione sempre più seguita dopo il
2005, quando Mubarak ha fatto approvare (via referendum pilotato) una delle sue "aperture" democratiche truffaldi-
ne per riformare il procedimento di elezione del presidente. Secondo, FH:

"Meanwhile, a consensus emerged among leftist, liberal, and Islamist political forces as to the components of
desired political reform: direct, multicandidate presidential elections; the abrogation of the Emergency Law; full
judicial supervision of elections; the lifting of restrictions on the formation of political parties; and an end to gover-
nment interference in the operation of nongovernmental organizations (NGOs). The opposition nevertheless re-
mained polarized between unlicensed and licensed political groups, with the latter mostly accepting the regime’s
decision to put off further reform until after the 2005 elections.
In December 2004, Kifaya (Enough), an informal movement encompassing a broad spectrum of secular and Isla-
mist activists, held the first-ever demonstration explicitly calling for Mubarak to step down. Despite a heavy-
handed response by security forces, Kifaya persisted with demonstrations in 2005, leading other opposition
groups to follow suit".

Ergo, in Egitto, la soluzione politica alla crisi potrebbe trovarsi con un accordo tra le opposizioni ed il governo Mu-
barak, a patto che quest'ultimo decida di sparire dal paese e che i Fratelli Musulmani non vogliano definitivamente
"islamizzare" il paese.
Dal punto di vista politico hanno anche fatto molto le pressioni internazionali occidentali per avanzare nel campo
del rispetto dei diritti umani e delle libertà civili e politiche. Egitto e Tunisia (i cui governi negli ultimi hanno fatto
"qualcosina" per accontentare i paesi occidentali) hanno sperimentato, seppur in maniera limitante e distorta forme
decisionali di tipo democratico. L'idea di elezioni libere e regolari e di sovranità popolare sono concetti noti alle
popolazioni dei due paesi. Lo si evince chiaramente dalle richieste della piazza.
Un altro espetto che poteva essere preso in considerazione a suo tempo è quello del prezzo del cibo. Dal 1990
non si registrava in incremento così inarrestabile del prezzo dei beni di prima necessità. La Fao ha già lanciato
un allarme. Questa volta, a differenza di 20 anni fa, non si tratterebbe solo di speculazione o annate di raccolti
scarsi, ma di una problema di offerta. La classe media che questi paesi avevano prodotto nel corso degli anni no-
vanta, con un incremento notevole delle condizioni di vita, si è trovata gradualmente a non riuscire più a comprare
il pane o la farina.
Numero 2 - Febbraio 2011 Pagina 4
Un altro elemento destabilizzante è stato quello della corruzione. I Mubarak e la famiglia di Ben Alì e consorte, in
anni di permanenza al potere, avevano messo in piedi un vero e proprio impero economico. Sul Guardian, Salwa
Ismail considera l'Egitto "A Private State Called Egypt", una sorta di azienda privata di Mubarak, dove il 40% della
popolazione vive sotto i 2$ giornalieri di reddito. La crisi globale iniziata nel 2008, che secondo il FMI sta gradual-
mente determinando un incremento esponenziale della disuguaglianza economica interna, non poteva non ripercuo-
tersi su paesi già poveri e con una classe media debole.
Queste rivoluzioni "dal basso" hanno anche messo in luce il grande potere mediatico della comunicazione politi-
ca peer-to-peer, ovvero il tam tam sui social network. Sulle serrande dei negozi e e sui muri del Cairo sono apparse
scritte di ringraziamento a Facebook e Twitter. La rete ha fatto più di quello che partiti tradizionali hanno potuto fare
in decenni di attività clandestina, sondando anche la "pancia" dei cittadini e le loro frustrazioni, rendendo possibile
una vasta mobilitazione. Soprattutto in Tunisia, la diffusione delle comunicazioni attraverso il web ha interrotto l'isola-
mento politico della popolazione. FH ha descritto come tragica la situazione dell'informazione tunisina:

"Tunisia has one of the worst media environments in the Arab world. Despite constitutional guarantees and a
press law that promise freedom of expression, the government uses an array of legal, penal, and economic mea-
sures to silence dissenting voices. Libel and defamation are criminal offenses, and journalists also risk puni-
shment under laws against disturbing public order. Only a handful of private television and radio stations have
received licenses, including one owned by the president’s son-in-law that was launched in 2009. Government-
approved media regularly feature praise of Ben Ali and his associates, and criticism of the president is not tolera-
ted".

Certo, una Twitter revolution non può certo essere considerata l'unica strada vincente per muovere la gente a rove-
sciare un regime. In Iran nel 2009 ha funzionato solo in parte. In Siria è stato un vero e proprio flop. Sta di fatto, pe-
rò, che blogger e privati cittadini che visitano il proprio profilo online possono "bucare" la censura dei principali mezzi
di comunicazione.
Certo, alla fine, la ricetta della rivoluzione è come quella della più famosa bevanda al mondo (dopo l'acqua), la Coca
Cola: segreta! Se ci si pensa anche in altri paesi c'é tutto un sottobosco di blogger e dissindenti, c'é l'opinione pubbli-
ca internazionale che preme da più parti, c'é un'economia apparentemente in serissime difficoltà da anni, ma rimane
tutto come prima. Nel caso egiziano e tunisino, probabilmente era logico aspettarsi "un qualcosa", senza poter cono-
scere a priori esattamente cosa. Magari avrebbe avuto luogo la solita manifestazione anti-Mubarak con decine di
arresti e stop. Invece, il "gioco" si è fatto più complesso. Come ha voluto sottolineare Mike Rogers, ex agente Fbi ed
ora a capo di una commissione congressuale, nessuno ha la sfera di cristallo e può effettivamente prevedere quello
che domani potrebbe accadere in un luogo:

Intelligence clearly helps us understand developments in places like Egypt, but is not a crystal ball. We've got to
be realistic about its limits especially regarding the complex and interactive behavior of millions of people".

A volte anche le previsioni del tempo sono molto fallacci. Tuttavia, è necessario considerare che spesso le
rivoluzioni violente ed appariscenti, come quella iraniana del 1979 e quelle del 2011, sono i ruggiti feroci di
riforme pacifiche rese vane in precedenza. Nel 1962, in un discorso alla Casa Bianca, J.F.Kennedy aveva
vaticinato:
"Those who make peaceful revolution impossible will make violent revolution inevitable".
Pagina 5 CHAOS

Cosa si nasconde nelle tensioni in Medio Oriente - di Giuseppe Dentice (BloGlobal) - 8.02.2011
In questi primi mesi del 2011 stiamo assistendo nel Medio Oriente a dei processi di cambiamento lenti e faticosi
che nascono da inquietudini lontane nel tempo e che hanno prodotto solo situazioni instabili o incerte. I casi più
macroscopici sotto gli occhi di tutti: la Tunisia e, soprattutto, l'Egitto. Ovviamente queste nazioni sono state scon-
volte da eventi che affondano le proprie radici in anni e anni di repressioni ed estrema durezza. Il Presidente Mu-
barak è in carica da ben 30 anni e governa il Paese con leggi di emergenza. La Tunisia di Ben Alì era governata
dal 1987 da una ―cricca‖ dedita alla corruzione e al pugno di ferro.
Quasi tutti i Paesi appartenenti alla Lega Araba hanno al
loro interno regimi pluri-decennali. Questo dato potrebbe
già farci intendere il perché di tanti sommovimenti in tutto
il mondo arabo. Infatti, in questi giorni, dopo le rivolte in
Tunisia ed Egitto, ci sono stati dei tumulti, tutto sommato
ancora pacifici, in Yemen, Siria, Algeria, Oman, Libano
e, persino, in Giordania. Questo dato indica un malesse-
re più ampio che non può ridursi ad una ―semplice richie-
sta di democrazia‖. Tutti questi Paesi sono snodi impor-
tantissimi per le economie occidentali e punti cardine
nelle politiche di pacificazione del ―Grande Medio Orien-
te‖. E' anche vero che queste terre sono talmente tanto
strategiche e instabili per le cancellerie europee e di oltre
oceano che la ―Ragion di Stato‖ spesso prende il soprav-
vento sulle vere richieste delle popolazioni locali. In que-
sti posti vi è una perenne lotta tra il più bieco pragmati-
smo e le più inascoltate richieste di libertà. Allora cosa ci
dicono queste rivolte?
L'opinione pubblica occidentale sembra essere rimasta
sorpresa da questi tumulti tanto da temere un pericolo di
contagio. Dalla Tunisia all’Egitto, dallo Yemen alla Siria,
Fonte: The Post Internazionale - I numeri della Lega Araba
dall’Algeria alla Giordania, le masse arabe, per anni
messe a tacere, addomesticate e tradite, sono in fermento e, talora, sono esplose con violenza. Le rivolte sono
dirette anche contro gli ex colonizzatori, contro le loro logiche neo-colonialiste per le quali è meglio mantenere un
regime poco democratico piuttosto che una vera democrazia. Infatti il Grande Medio Oriente è una storia fatta di
speranze e avvenimenti che hanno visto, il più delle volte, questi Paesi dominati da governi in condominio: élites
straniere, legate alle antiche colonie, e governi locali, che utilizzando la facciata del nazionalismo arabo a seconda
dei propri interessi, non hanno mai saputo rinnovarsi e hanno stretto, fino alla minima sopportazione, le libertà nei
confronti delle popolazioni dispensando promesse economiche e politiche mai mantenute. Questi governi, legati
alle caste militari, hanno impostato l'efficienza dei propri apparati statali attraverso un uso spietato delle polizie se-
grete e dei servizi di intelligence per tenere a bada ogni forma di dissenso. Ad esempio, Mubarak, nel tentativo di
rimanere ancora saldo al potere, sta affidando le ―trattative‖ al suo capo dell'intelligence, Omar el-Suleiman, un
uomo che si è spesso distinto per la spietatezza dei suoi metodi. Ma questi dittatori sono stati usati dall'Occidente
e dai suoi servizi segreti per vari motivi: la guerra fredda, il comunismo, l'estremismo religioso, il terrorismo di ma-
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trice islamica, etc.. Oggi però gli Stati che prima garantivano la sopravvivenza a questi dittatori, si trovano nella sco-
moda situazione di dover ―scaricare‖ pubblicamente questi regimi, ma ufficiosamente cercano di trovare dei sostituti,
magari più ―democratici‖, ma che siano sempre dei regimi autoritari, nell’intento di garantirsi un alleato fedele nell'a-
rea. Possibilmente sarebbe perfetto avere un regime laico e stabile che faccia gli interessi politici e strategici
(garantire le risorse energetiche ed essere uno strumento di contenimento al pericolo di turno) di questi Paesi. La
storia ci ha insegnato come regimi eletti democraticamente siano stati esautorati per vari interessi e sostituiti con
regimi duri, repressivi o sanguinari (vedi Mossadeq in Iran, nel 1953, rovesciato e restaurato il governo dello Shah
Reza Pahlavi). Questi regimi hanno aumentato lo scontento e hanno permesso la proliferazioni di vari estremismi.

Oggi il quadro è alquanto allarmante e vede sulla scena regionale e internazionale l'ascesa di personaggi figli di de-
cenni di discriminazioni e violenze. Ad esempio in Iraq verso la fine del 2010 è tornato a farsi sentire Moqtad al-Sadr,
leader sciita molto vicino agli ambienti di Teheran e personaggio politico estremo. In Libano è caduto di recente il
governo Hariri per via della sempre più forte influenza di Hezbollah nei centri di potere. In Giordania e in Siria, ci so-
no state le prime timide manifestazioni contro i regimi di Re Abdallah III e del Presidente Bashir al-Assad. Meglio non
se la passano né l'Arabia Saudita (alle prese con lotte di potere e sacche di terrorismo qaedista mai scomparse), né
la Libia di Gheddafi (con le preoccupanti spinte secessioniste del Fezzan e della Cirenaica dalla Tripolitania), né tan-
to meno il moderno Marocco di Re Mohammed VI (criticato per non aver attuato le riforme economiche e sociali ne-
cessarie al Paese). Nessun regime della regione è al sicuro e nessun Stato occidentale, pur volendo, può salvarlo.
Queste rivolte, perciò, ci dicono una serie di cose:

1. sono rivolte di piazza guidate soprattutto da giovani che rivendicano il loro diritto al futuro. Libertà e democra-
zia sono il vero ―pane‖ della rivolta;
2. in ciascuno dei Paesi interessati dalle rivolte, le principali forze organizzate di opposizione sono storicamente
di orientamento islamico;
3. un fenomeno di questa ampiezza e profondità non può essere rovesciato e le previsioni sul futuro sono al-
quanto fumose e incerte.

Certamente l'incrocio di sommovimenti in Maghreb, Mashrek e Vicino Oriente ha provocato delle reazioni anche tra i
due attori principali nella regione: Israele e Iran. La tradizionale politica israeliana di mantenimento dello status quo,
appoggiando tanto un regime piuttosto che un altro, ha provocato un'accentuazione tra la visione del mondo dell'am-
ministrazione Obama (autodeterminazione dei popoli e prudenze dettate dalla necessità di proteggere i propri inte-
ressi strategici ed energetici) e il governo israeliano (sempre attento al dividi et impera nella regione e a contenere/
attaccare il pericolo Iran, per evitare il rischio accerchiamento, vera ossessione di tutti i governi israeliani). In tutto
ciò l'Iran sta a guardare e ad aspettare il momento giusto per intervenire direttamente nella partita. Ad ogni modo,
prima di arrivare a capire quali saranno i nuovi equilibri nella regione, assisteremo probabilmente ad altre violente
proteste. Da più parti sentiamo parlare di ―transizione ordinata‖, che riflette più il desiderio delle nostre diplomazie
che non la realtà delle piazze in subbuglio, ma sarebbe più giusto auspicare un passaggio verso la democrazia, na-
ta sul territorio e non imposta dall’esterno. Questo sarebbe il massimo risultato auspicabile per i Paesi arabi e, seb-
bene Europa e Stati Uniti non saranno soddisfatte dagli eventi, forse dovrebbero iniziare ad accondiscendere con le
speranze di quei popoli ricordandosi che la civiltà è nata lì, in quei posti ritenuti barbari e incivili e non attraverso un
operazione violenta di maquillage.
Pagina 7 CHAOS

La Libia ad un bivio: rivolta per la democrazia o guerra civile?- di Giuseppe Dentice (BloGlobal)
- 23.02.2011

Questo inizio del 2011 è stato contrassegnato dal più grande risveglio del mondo arabo mai avvenuto dagli anni
'60/'70 in poi. Quelli che inizialmente venivano chiamati “disordini” si sono rivelati delle rivoluzioni, e a farne le spese
per primi sono stati i regimi di Ben Alì e Mubarak, rispettivamente, in Tunisia ed Egitto. Ora il fermento rivoluzionario
si sposta verso altri lidi, non meno liberticidi come Yemen, Bahrein e Libia. Proprio quest'ultimo Paese è il caso più
isolato all'interno del contesto regionale ma, allo stesso tempo, anche il più paradossale. Mentre in tutti gli altri si par-
la di rivolte legate a crisi strutturali-economico-sociali miste a richieste di libertà e democrazia, quella libica non è una
rivolta, bensì assomiglia più ad una guerra civile del Satrapo Gheddafi contro il suo popolo.
Fino a qualche giorno fa si credeva che la Libia non avrebbe seguito le orme della Tunisia e dell’Egitto. Si diceva che
la Libia fosse diversa dai suoi vicini da un punto di vista sia sociale sia economico e che, quindi, avrebbe resistito
all’effetto-domino scatenatosi in tutto il mondo arabo. La grande differenza rispetto ai Paesi confinanti sta nelle enor-
mi riserve di petrolio che rendono l'ex colonia italiana uno dei Paesi più ricchi d’Africa e nell'assenza del fenomeno
della disoccupazione giovanile di massa (alcune statistiche, però, stimano la disoccupazione libica totale al 30%).
Inoltre, a differenza degli altri regimi più o meno dittatoriali, quella di Gheddafi è una ―creatura‖ longeva, che dura da
ben 40 anni. Però proprio questo modello ha fallito su tutta la linea e ha dato adito ad una rivolta diversa dalle altre in
moto nella Regione afro-asiatica.
E' in atto una guerra civile, una lotta tra movimenti indipendentisti di Cirenaica e Fezzan, nascosti tra i manifestanti
che stanno cercando di dare il colpo finale al potere delRais di Tripoli. La Libia è uno dei Paesi più ricchi e più evoluti
dell'Africa intera, nonostante viga da tempo una dittatura sanguinaria e un embargo delle Nazioni Unite. Ricordiamo,
inoltre, che dal 1951 la Libia, dopo la colonizzazione italiana, è divenuta prima un ―Regno Unito‖ e poi una
―Repubblica federale‖ che riuniva al suo interno le tre regioni storico-geografiche di Tripolitania, Fezzan e Cirenaica.
Eccetto la prima, che raccoglie la costa fertile e pianeggiante ed è il centro del potere, le altre prettamente desertiche
sono però piene di petrolio. La Cirenaica, in particolare, è sempre stata una regione strategica dal punto di vista so-
ciale e politico perché al suo interno poteva contare su forze sociali che si sono sempre battute contro le forze cen-
traliste, che fossero napoleoniche o fasciste. Questi gruppi rispondono al nome di Confraternita Senussita – una sor-
ta di Fratellanza Musulmana libica più moderata e meno islamista – che aveva una grande eco in Libia prima della
dittatura ed è l'unico avversario politico di Gheddafi, ma che per poter sopravvivere è dovuta emigrare a Londra.
Sayyid Hasan fu l'ultimo monarca libico per un brevissimo periodo, dal momento che il 5 settembre 1969 il nuovo Re
e capo della Confraternita della Sanūssiyya fu incarcerato da Gheddafi per lunghi anni fino a farlo diventare paraliti-
co.
Sono anni che movimenti indipendentisti si muovono nell'ombra per cercare di creare le condizioni che ci sono oggi.
Cinque anni fa sempre a Bengasi ci fu una grande rivolta popolare contro il regime, immediatamente repressa nel
sangue e passata sottotraccia nell'impunità internazionale. Lo stesso figlio di Gheddafi, Saif al-Islam in un messag-
gio televisivo di qualche giorno fa aveva parlato di un «gruppo separatista non meglio precisato aiutato dalle potenze
occidentali per rovesciare il regime di Tripoli». Per descrivere la situazione in Libia il figlio del Raisha usato la parola
araba ―fitna‖, un termine con il quale si indica il conflitto che ha diviso la comunità musulmana nei primi secoli dopo
l’avvento dell’Islam. Implicitamente, Saif al-Islam conferma che all'interno del Paese esistono delle divisioni interne
così forti da poterne minacciare l’unità nazionale. La rivolta infatti non è nata a Tripoli, bensì a Tobruk, Sirte, Benga-
si, le principali città della Cireanica, e poi si è allargata in tutto il Paese. Inoltre, a dare peso alla tesi della guerra civi-
le si insinua prepotentemente la forte rivalità tra centri urbani e centri rurali. La Libia a differenza dalle altre entità
magrebine e mediorientali, ha delle culture urbane molto deboli e il legame sociale è improntato alla consanguineità
Numero 2 - Febbraio 2011 Pagina 8

e alla tribalità più che al territorio. La forte rivalità «tra gruppi si definisce territorialmente; questo spiega perché molti
esperti ipotizzino l'evolversi della situazione in due momenti: una guerra civile cui seguirebbe una secessione su basi
etniche e tribali»[1].
Al di là delle logiche del complotto, anche alla luce del discorso farneticante del ―Colonnello‖ del 22 febbraio, quello
che si rivela ai nostri occhi è che la Libia non è più in mano al vecchio Satrapo. O meglio, la forza garantitagli indi-
scriminatamente e impunemente dall'esercito oggi non è più così sicura. Alcuni ufficiali dell'aeronautica libica si sono
rifiutati di sparare sulla folla e sono fuggiti a Malta. Anche i fedelissimi iniziano a vacillare sulle azioni dissennate
del leader libico. Ad esempio, il comandante militare del distretto di Tobruk, un fedelissimo del regime, si è dichiarato
dalla parte dei rivoltosi, così come un alto dirigente del ministero della Difesa. Voci dicono anche che il Ministro della
Giustizia, Mustafa al-Jeleil, si sarebbe dimesso per l'eccessiva violenza della repressione. L’Ambasciatore libico
presso la Lega Araba e il suo omologo in India hanno rassegnato le dimissioni e preso le distanze dall'autorizzazione
del governo a bombardare la folla dei manifestanti. Gli Orfella, forse la più grande e influente tribù nel Paese, cui vari
membri occupano posizioni chiave nel governo, si è ufficialmente schierata dalla parte dei rivoltosi.
Quindi quale scenario viene fuori dalla crisi libica? Quali conseguenze politiche all'interno dello scenario regionale
del ―Grande Medio Oriente‖? Quali ricadute per l'economia mondiale? Domande difficili a cui poter dare una risposta
univoca. Di sicuro possiamo affermare che la crisi libica presenta una situazione politico-sociale completamente di-
stante dalle rivolte egiziane, tunisine o yemenite. Partendo dal presupposto che esse sono tutte differenti al loro in-
terno, ma con il comune denominatore della protesta che mira a cambiare lo Stato, qui sembra invece una lotta di
una parte dello Stato (la Cirenaica) contro l'autorità centrale di Tripoli. Indubbiamente la rivolta, allargandosi in tutto il
Paese, sta assumendo nuove pieghe che riguardano anche fattori sociali ed economici, ma che non devono sposta-
re l'attenzione dal punto focale: la possibilità di smembramento della nazione libica.
Di conseguenza questo evento potrebbe avere ricadute ancora più nefaste nell'intero Medio Oriente e nell'Africa Sub
-Sahariana. Infatti non è difficile pensare che in tutte queste manifestazioni non ci sia lo ―zampino benevolo‖ di qual-
che potenza occidentale. Chi se ne giova da questo caos? Sicuramente Stati Uniti e Israele vedrebbero scomparire
un loro storico antagonista accusato da più parti di finanziare il terrorismo, anche di matrice islamica. Il problema
sarebbe la ricaduta politica con effetti immediati in Algeria e Marocco, Paesi più prossimi geograficamente e anche
loro attraversati da alcuni malumori popolari. Inoltre, ci potrebbero essere problemi legati al Corno d'Africa. Infatti,
molti profughi che scappano da quell'inferno per raggiungere l'Europa puntano ad arrivare in Libia per emigrare ver-
so l'entroterra europeo. I riflessi di questa rivolta libica sugli umori islamici potrebbero essere usati in Iran e nella pe-
nisola arabica intera come strumenti politici per ―attaccare‖ Israele. Da tempo l'Iran cura una serie di interessi politici
ed economici con numerosi partner della penisola arabica (Qatar e Oman in primis) senza trascurare i consolidati
rapporti con Siria, Libano (in particolare il Sud, retto da Hezbollah) e Turchia. In questo modo Israele si troverebbe
accerchiata e a rischio attacco da più parti. La mossa iraniana sarebbe, anche, un'ottima valvola di pressione sui
regimi conservatori di Amman e Riad rei di essere ancora troppo distanti e indifferenti alle proteste dei nostri giorni,
ma non per questo possono considerarsi tranquilli dalle violenze. Il fermento interno di fazioni sempre più oltranziste
potrebbe sfociare in ribellioni ancora più violente che in Libia. Di conseguenza se le rivolte arrivassero anche in Ara-
bia Saudita il prezzo del petrolio schizzerebbe alle stelle ancor più di quanto non sia ora.
E l'Italia? Il nostro Paese è il più esposto alla crisi libica per via della gran mole di intrecci storico-politico-economici
che reggono i due governi del Mediterraneo. Il governo di Tripoli tiene quote rilevanti nelle maggiori aziende e ban-
che italiane (Unicredit, Capitalia, FIAT, etc..) viceversa il nostro governo dipende energicamente dall'importazione
del petrolio libico oltre che ad avere in atto una serie di impegni infrastrutturali (ad esempio il gasdotto libico Green-

Segue all’altra pagina —>


Pagina 9 CHAOS
-stream), volti a rendere il nostro Paese meno dipendente dalle importazioni energetiche.
In generale molti esperti ritengono che sulla Libia si giocherà la sfida del prossimo futuro, poiché si ritiene che essa
rappresenti l'«Afghanistan del Mediterraneo»[2]; dunque la sua pericolosità è molto maggiore rispetto alla Tunisia.
Infatti, in analogia al precedente afghano, dopo la caduta dell'impero ottomano la Libia non ha mai conosciuto un'o-
mogeneità sociale, tant'è che ancora oggi ci sono movimenti separatisti molto forti che minano l'unità del Paese.
Pertanto come è stato per Kabul, potrebbe accadere molto presto un intervento militare-umanitario delle Nazioni Uni-
te, guidato dagli Stati Uniti e coinvolgente anche il nostro Paese (in quanto ex Stato coloniale), volte a stabilizzare
l'area per evitare un effetto domino drammatico e una ―balcanizzazione‖ dell'intera area araba e dell'Africa sub-
sahariana. I rischi di intricare ancora di più la matassa con una guerra civile e tribale è altissima e se l'ONU non in-
terverrà quanto prima per interrompere il massacro dell'esercito ordinato da Gheddafi, presto potremo parlare di un
genocidio libico passato silente nell'indifferenza internazionale.

[1] Khaled Fouad ALLAM, Il rischio più grave è un Afghanistan nel Mediterraneo, in «Il Sole 24 Ore», Milano, 23/02/2011.
[2] Ibidem.

Libia & Co. Il punto della situazione - di Alessandro Badella (Risiko) - 23.02.2011

La Libia sta sprofondando in una crisi interna senza precedenti. Si preannuncia uno scenario apocalittico ed u-
na guerra civile ormai alle porte. Quello che al momento sembra essere scongiurato in Tunisia o in Egitto, potrebbe
verificarsi proprio il Libia dopo la caduta di Gheddafi. Ian Black (nel video), editorialista del Guardian su temi medio
orientali, così come altre decine di voci italiane ed internazionali, sta dando per certo lo scoppio di una guerra intesti-
na. La stessa decisione di Gheddafi, non ancora del tutto scongiurata, di bombardare i pozzi petroliferi assomiglia ad
un'azione delle milizie franchiste-tedesche durante la guerra civile in Spagna: una rappresaglia per punire il proprio
popolo, i propri connazionali.
Sul piano internazionale, l'Ue finalmente si è mossa con un'azione unanime di condanna. Sarkozy ha sollevato di
fronte alla Commissione la possibilità di comminare sanzioni collegiali alla Libia dopo la carneficina di questi ultimi
giorni. E dall'Unione potrebbero arrivare a breve proposte concrete per sanzionare il regime libico. Anche il consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite, con la proverbiale lentezza e macchinosità, si è rapidamente riunito per intimare una
rapida cessazione delle violenze. Tuttavia, la riunione d'urgenza di ieri non ha prodotto nessun risultato concreto.
Gran parte del mondo occidentale, che sino a ieri aveva applaudito la stabilità libica e fatto affari con il dittatore (da
Blair a Berlusconi, passando per lo stesso Sarkozy), si è platealmente tirato indietro di fronte alla possibile emergen-
za profughi, alla probabile crisi petrolifera e alla certa strage compiuta a Bengasi e per le strade della capita-
le. Gheddafi è più solo del 1986.
Anche i vari diplomatici sparsi per l'Europa sembrano essersi accasati con i loro ospiti. Ma la condanna più ferrea
viene dalla Lega Araba, che, dicendosi amareggiata e scioccata da quanto accaduto in Libia, ha escluso Ghedda-
fi dai prossimi incontri dell'organizzazione. Questo è il colpo più basso inflitto all'orgoglio del raiss, che è sempre sta-
to un veterano del panarabismo. Per decenni Gheddafi ha cercato diffondere istituzionalmente il proprio paese con
paesi confinanti come la Tunisia, l'Egitto e il Sudan per far rivivere un nocciolo del vasto impero ottomano, che si
estendeva dalla Persia sino al Magreb e ai confini più prossimi dell'Europa centrale.
L'ondata di proteste che sta sconvolgendo il mondo islamico non è comunque esaurito. In Algeria, il governo ha dichia-
rato di voler rimuovere la legge marziale in vigore dall'inizio dell'anno, ma a conti fatti si ipotizza che rimarrà in vigo
almeno ancora per qualche settimana. La situazione, secondo fonti governative, sarebbe sotto controllo, ma vi è an-
cora la preoccupazione che la situazione libica sia il volano per ulteriori manifestazioni di piazza.
Numero 2 - Febbraio 2011 Pagina 10

El Mundo ha rivelato oggi che in Yemen sarebbero morte due persone negli scontri tra manifestanti e sostenitori del
governo. Le proteste di questi ultimi giorni hanno visto partecipare oltre 3mila persone contro il governo di Ali Abdulá
Saleh.
Alcuni regimi medio orientali stanno optando per un soluzione più morbida, ovvero una prevenzione con rischio cal-
colato. Il Bahrein, che si è già bruciato il prossimo inizio stagione della F1, sta cercando di ammorbidire la tensione
con una liberazione graduale dei prigionieri politici e d'opinione che ha arrestato durante le proteste di inizio 2011. Il
re del Bahrein si sta giocando una carta fondamentale per la permanenza sul trono. Al momento, venire incontro ad
alcune delle rivendicazioni della piazza potrebbe non dare gli effetti sperati: solo ieri 100mila persone sono scese in
piazza nella capitale per chiedere l'abolizione della monarchia.
Lo stesso sta accadendo in Arabia Saudita, notoriamente il regime più restrittivo dell'area medio orientale. L'86enne
regnante ha dichiarato di voler apportare sostanziose migliorie economiche per i sauditi, come un aumento del 15%
degli stipendi dei funzionari statali e la concessione di sussidi di disoccupazione. Non è un caso che i regnanti dei
due paesi (Ahmad e Adullah) si incontreranno in questi giorni per definire una sorta di linea comune per fronteggiare
l'ondata di proteste. E per non finire come Ben Alì e Mubarak.

Verso quota 100 $? - di Alessandro Badella (Risiko) - 22.02.2011

Il barile di greggio corre veloce verso quota 100$, causa l'instabilità politica di
paesi produttori, la Libia su tutti, che produce circa il 2% del greggio mondiale.

Oggi il prezzo del WTI oil si attesta ad olte 93$ al barile. Domani chissà.

Cosa succederebbe a quota 220 $? - di Alessandro Badella (Risiko) - 24.02.2011

"The closest comparison to the current unrest in the Middle East and north Africa is the 1990-1991 Gulf
war. If Libya and Algeria were to halt oil production together, prices could peak above $220 a barrel
and Opec spare capacity will be reduced to levels seen during the Gulf war and when prices hit $147
in 2008."

Questa è la valutazione della situazione petrolifera da parte degli analisti della giapponese Nomura Bank. 220$ al
barile potrebbe essere un nuovo record assoluto per il prezzo del greggio, ben 80 dollari in più rispetto al prezzo più
alto del 2008. Studi più cauti parlano di un possibile rialzo sino a quota 150$. Il che significherebbe comunque
un aumento di un buon 50-60% in poche settimane dallo scoppio della crisi africana.
Cosa succederebbe con il petrolio ad oltre 150$? Sicuramente la pericolosità della crisi dipenderà dal periodo di
tempo con cui i prezzi si manterranno su quei livelli e dalla loro vischiosità nella decrescita. E' molto probabile, come
si preventiva in ambienti europei, che i paesi compratori di energia possano pensare ad un intervento umanitario (e
non solo) per stabilizzare un paese ormai alla guerra civile come la Libia.
Pagina 11 CHAOS

Crisi delle aspettative e cambiamento come chiave di lettura della rivolta egiziana - di
Gianpiera Mancusi (BloGlobal) - 8.02.2011

Qualche mese fa ho partecipato ad una tavola rotonda nella sede dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale
di Milano. Al centro del dibattito l'Egitto che, di lì a poco, avrebbe scelto i suoi rappresentanti in Senato. L'esperto
aveva dipinto l'Egitto di Mubarak e dei generali come "amico" dell'Occidente e minacciato dal terrorismo islamico.
Non una parola sugli egiziani. A chi gli aveva chiesto quale fosse il futuro della terra dei faraoni la risposta era per-
venuta senza tentennamenti: continuità.
Quando ho visto le prime immagini di piazza Tahrir ho ripensato a quelle parole e di come non avessero colto le
latenti tensioni interne alla società egiziana. Questa mancanza, tuttavia, non è da imputare ad una leggerezza di
analisi: l'ondata di proteste, che da 14 giorni infiamma l'Egitto, è un evento, per portata e potenza rivoluzionaria,
assolutamente imprevedibile.

La crisi delle aspettative


Se ci soffermassimo a pensare a tutti gli eventi più importanti dello scorso ventennio ci accorgeremmo come nes-
suno di questi fosse stato previsto. La caduta del Muro di Berlino, l'11 settembre e anche la crisi economica del
2008 ci hanno colti completamente di sorpresa. Ciò non a causa di una mancanza di lungimiranza: l'impossibilità
di prevedere anche l'immediato futuro è, piuttosto, un aspetto strutturale del contesto internazionale post-Guerra
Fredda. Infatti il sistema bipolare, basato sulla rivalità di due super potenze, USA e URSS, e sul controllo delle
rispettive zone di influenza, era un sistema eccezionalmente stabile. Pur caratterizzato da una bellicosità estrema
e dall' eventualità di uno scontro tra grandi potenze, i fattori che definivano il contesto erano chiari a tutti. Ciò non si
può dire del momento attuale dove, forse, l'unica cosa certa è che qualunque cosa può accadere in ogni luogo.

Change
E' la voglia di cambiamento, soprattutto tra i giovani, che anima le poteste della società egiziana. Cambiamento
rispetto al passato, passato che vuol dire 30 anni di leggi d'emergenza, 30 anni di corruzione, di abusi della polizia,
di non rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Più difficile è capire cambiamento verso cosa. Non è
facile, infatti, intercettare quali sono le aspirazioni e i sogni di una generazione finora apolitica che non si era mai
interessata a certi argomenti. E' una rivolta contro la politica del proprio Presidente o è una rivolta contro il sistema
nel suo complesso? Quello che sicuramente chiede la maggioranza dell'opinione pubblica egiziana è una maggiore
libertà di espressione e di pensiero. Non a caso le proteste sono state organizzate su internet, attraverso il passa-
parola sui social network. E non a caso la prima cosa che il regime ha fatto, quando si è accorto della gravità della
situazione, è stata isolare il paese dal resto del mondo. Tuttavia, la possibilità che queste legittime rivendicazioni
possano essere strumentalizzate dai movimenti estremisti già attivi nel paese e in tutta l'area medio-orientale, è
molto alta. Il timore di una possibile deriva islamica si evince dalla prudenza che ha accompagnato, nei giorni scor-
si, i discorsi del Segretario di Stato, Hilary Clinton, e anche dello stesso Obama. Dopo l'11 settembre, l'Egitto, in-
fatti, è divenuto alleato centrale nella lotta all'estremismo islamico, lotta che Mubarak già da tempo conduceva al
suo interno, in particolare contro i Fratelli Musulmani. E' stato proprio il sostegno internazionale (e i cospicui aiuti
economici americani) che ha consentito, all'ex vice di Sadat, di governare ininterrottamente. La simpatia di cui ha
goduto Mubarak ha fatto, più o meno inconsapevolmente, chiudere gli occhi su quello che succedeva all'interno del
paese. L'amministrazione americana, ma anche la maggioranza dei governi occidentali, ha così adottato un double
standard: ha attaccato ferocemente altri governanti dell'area (si pensi a Saddam Hussein) per le loro politiche illi-
Numero 2 - Febbraio 2011 Pagina 12

berali ma non includendo il raìs egiziano. Citando le parole di qualche tempo fa dell'attuale vicepresidente USA, Joe
Biden, infatti, Mubarak "non va considerato un dittatore". In questi giorni, tuttavia, qualcosa è cambiato. L'ammini-
strazione americana non ha mai apertamente intimato a Mubarak di lasciare il potere, ma l'ha più volte esortato a
fare riforme incisive, a cessare la repressione dei dimostranti e a traghettare l'Egitto verso una nuova fase. Questo è
un decisivo passo in avanti rispetto alla politica di Bush junior ed è ciò che ci si può aspettare da un presidente che
ha fatto del cambiamento lo slogan della sua campagna elettorale.

Come sarà il nuovo Egitto?


Se non possiamo prevedere gli eventi, conseguentemente ci è difficile prevedere quali saranno gli attori del panora-
ma politico egiziano. Negli ultimi giorni è tramontata definitivamente la possibilità per Gamal di succedere al padre.
D'altronde, già prima delle proteste non godeva di molta simpatia negli ambienti militari. Più complicato è definire
quali chances ha El Baradei. Quando una decina di giorni fa l'ex capo dell'AIEA e premio Nobel per la pace 2005 è
rientrato nel suo paese per cavalcare l'ondata di protesta, è stato naturale, per molti occidentali, vedere in lui il nuovo
volto dell'Egitto post Mubarak. Ma in che misura possa davvero costituire una valida alternativa al raìs è ancora da
chiarire. El Baradei non ha dietro di sé un vero e proprio partito e non gode, in patria, di un prestigio simile a quello
che, invece, possiede nell'ambiente internazionale. Inoltre è un civile in un paese che, da oltre 50 anni, è governato
dalla classe militare. Che la comunità internazionale stia ponendo troppe aspettative su questa figura sembra con-
fermato dalle recenti notizie, secondo le quali il nuovo premier Suleiman e la pletora di gruppi di opposizione si sa-
rebbero alleati per dar il via ad una stagione di riforme, scongiurando la guerra civile. In un articolo apparso qualche
giorno fa su American Thinker, Sam Trados, ha definito El Baradei "un leader consacrato dalla CNN" e ha puntato il
dito contro i media occidentali, colpevoli di ingigantire il suo peso nella "rivoluzione egiziana".

Allora, poiché qualsiasi analisi mostra a distanza di settimane, e alcune volte di giorni, la sua limitatezza, non ci resta
che aspettare. Il futuro rimane un enigma e noi occidentali possiamo solo percepire con ancora più consapevolezza
di prima the wind of change che spira sull'Egitto e su tutta la comunità internazionale.

L’Egitto, la stampa e il mio mal di testa - di Prospettiva Internazionale - 11.02.2011

Forse sarà colpa del mio mal di testa ma c'è confusione, troppa confusione. Sono ormai passati 18 giorni dall'inizio
delle proteste di piazza del popolo egiziano contro il presidente Mubarak, il caso rimane al centro dell'attenzione in-
ternazionale e ognuno, dai giornalisti ai blogger, ha detto la sua su quanto sta accadendo in Egitto.
Non è che ci sia niente di male nel tam tam suonato sul tamburo della libertà d'informazione ma il risultato comples-
sivo questa volta è un frastuono scoraggiante. Spinti dalle suggestioni del momento spesso capita di perdere la luci-
dità e la calma necessarie alla comprensione dei fenomeni di politica internazionale.
Credo che sia ancora presto per poter tirare le somme di quanto sta avvenendo in Egitto. Sia chiaro, niente in con-
trario rispetto alla cronaca che ci giunge quasi in tempo reale dal Cairo, ma ripeto, reputo sia presto per potersi sbi-
lanciare a scrivere qualcosa che cronaca non sia. Prospettiva Internazionale fino ad oggi si è limitata a linkare l'inter-
vista ad Henry Kissinger, un guru delle Relazioni Internazionali che, nonostante la sua posizione e come suo solito,
ha mantenuto un equilibrio e una parsimonia impeccabili nell'esprimere la sua visione sui fatti egiziani.
Quanto al giornalismo reputo prematuro azzardare proiezioni soprattutto perché al momento abbiamo una visione
veramente parziale di quanto sta accadendo.

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Pagina 13 CHAOS

Giornalisti e opinionisti per scrivere si basano sulle informazioni ricavate dal punto di vista della piazza e dalle dichia-
razioni pubbliche dei leaders mondiali ma sono totalmente all'oscuro di come si stiano muovendo realmente i mecca-
nismi del potere dietro lo schermo dell' ufficialità, tra diplomazia e servizi d'intelligence. Il fatto che Panetta abbia
affermato con certezza che in questi giorni (ha detto venerdì) Mubarak mollerà l'osso mi fa pensare seriamente che
ciò avverrà e allo stesso tempo rende l'idea di quanto siano fitte le trame silenziose tessute dietro il rumore che ci
circonda. In secondo luogo, come dicevo sopra, è facile in queste situazione lasciarsi prendere la mano perché col-
piti nell'immaginario dalle suggestioni del momento e dall'effetto valanga della cronaca internazionale.
Un esempio. Gli Stati Uniti in ritardo e sulla scia di un' iniziale ambiguità diplomatica hanno preso ufficialmente una
posizione nei confronti della piazza egiziana mantenuta anche dopo il discorso di Mubarak del 10 febbraio. Ufficial-
mente Obama appoggia le istanze democratiche dei manifestanti e chiede una transizione ordinata verso la demo-
crazia. Sulle pagine del Guardian Tisdall parla già di una dottrina Obama. Sono molto scettico. A mio avviso per gli
Stati Uniti questa linea ufficiale è diventata una scelta obbligata a seguito del persistere dell'agitazione in Egitto (si
rammenti in proposito il silenzio e l'ambiguità iniziale statunitense nonché l' esortazione a "calmare gli umori del Pae-
se" rivolta al presidente egiziano). Con il persistere delle proteste e l'attenzione dei media puntata ogni giorno sull'E-
gitto gli USA non potevano continuare a tergiversare e allo stesso tempo, dovendo scegliere, non potevano schierar-
si "contro la democrazia" pena un'enorme perdita in termini di quel bene prezioso chiamato credibilità internazionale.
Non credete sia lecito pensare che le parole di Obama sono inquadrabili più come una scelta obbligata relativa
all'immagine pubblica degli Stati Uniti che come una nuova dottrina? Se prendessimo in considerazione gli interessi
americani legati alla regione mediorientale e il ruolo preziosissimo che l'Egitto di Mubarak ha svolto in tale ordine
geopolitico fino ad oggi (nonché gli ingenti aiuti economici che il regime ha ricevuto dagli States) non pensate che la
valutazione di Tisdall sulla posizione ufficiale di Washington risulterebbe seriamente ridimensionata? Io lo credo e
credo anche che il significato dell'appello americano ad una "transizione ordinata verso la democrazia in Egitto" sia
intelligibile più o meno così:

1. Bisogna scongiurare lo scoppio di una guerra civile in Egitto ed il persistere della debolezza del regime: fattori
che mettono a rischio gli interessi americani nella regione mediorientale.
2. La transizione dovrebbe essere "ordinata" nel senso che è negli interessi degli Stati Uniti che il processo non
venga lasciato nelle mani della folla (troppo disorganizzata), dei fratelli mussulmani (troppo pericoloso) o di figu-
re politiche dotate di scarso potere e dunque poco controllo sulla stabilità del Paese.
3. Dunque se Mubarak non riesce a riprendere in mano le redini del suo Paese è interesse degli USA che l'Egitto
torni alla stabilità in un modo che risponda alle esigenze della folla in tumulto e allo stesso tempo eviti i pericoli
sopra esposti. E' plausibile aspettarsi che l'esercito egiziano giocherebbe un ruolo chiave in tale processo.

Non nascondo che anche la faccenda della "rivoluzione twitter" o "rivoluzione facebook" mi fa prudere spesso il na-
so. Spero che qualcuno si decida al più presto a compiere degli studi su tale fenomeno per identificarne la portata o
che quantomeno se ne cominci a parlare in modo serio magari suffragando le proprie tesi con il metodo della compa-
razione storica.
Queste ovviamente sono solo opinioni ragionate. Il senso del post non risiede in esse ma nell'insofferenza che provo
in questi periodi in cui la sistematica confusione tra onde e abissi tende a diventare una pratica generalizzata. Ok, mi
prendo un'aspirina.
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Europa

Il silenzio dell’Europa sul Medio Oriente - di Maria Serra (BloGlobal) - 20.02.2011


Il mondo arabo è ormai dall’inizio dell’anno in subbuglio e l’Europa, la regione geograficamente – ed economica-
mente – più vicino ad esso, rivela ancora una volta tutta la sua debolezza politica sul piano internazionale e
l’incapacità di fornire una risposta adeguata ai pericoli che prima di tutto potrebbero coinvolgerla.
Non si tratta semplicemente del problema del contenimento e della gestione dei flussi migratori che in questi gior-
ni si stanno dirigendo verso la sponda democratica del Mediterraneo e, soprattutto, verso le coste italiane, ma si
tratta anche di salvaguardare i numerosi interessi economici che legano i singoli Stati europei – e l’Unione Euro-
pea intera – con i Paesi della Lega Araba: trattati commerciali, infrastrutturali, di cooperazione economica e cultu-
rale, senza dimenticare i ben noti accordi energetici che consentono l’importazione di petrolio e che permettono
reciproci vantaggi nei rispettivi sistemi produttivi. Se l’Italia è l’unico Paese che sembra essersi accorto del perico-
lo che l’instabilità mediorientale rappresenta – almeno dal punto di vista sociale con il problema rappresentato
dall’immigrazione clandestina – e ha chiesto l’intervento congiunto e coordinato dell’UE, proprio le istituzioni di
Bruxelles sembrano sottovalutare ciò che sta accadendo dall’altra parte del mare nostrum, quasi come se si trat-
tasse di una questione geograficamente lontana e politicamente irrilevante sia per gli equilibri locali che per quelli
internazionali.
La storia insegna che un momento di cambiamento in un mondo rigidamente impostato come quello arabo non
per forza potrebbe equivalere ad un cambiamento in senso positivo, poiché proprio la mancanza di abitudine della
popolazione ai concetti di democrazia, di Stato di diritto e di rappresentanza politica, potrebbe aprire la strada a
forme istituzionali e politiche ben più repressive e di tipo fondamentalista. Proprio l’Europa sa bene che per otte-
nere la democrazia, la Rivoluzione Francese non bastò e dovette conoscere altre forme di governo repressive e
dittatoriali e combattere altre guerre. La contestazione, in fin dei conti, deve tradursi, in istituzioni e ciò richiede
allenamento e pazienza.
Che cosa accadrebbe per l’Europa se, invece di una progressiva transizione verso istituzioni democratiche, il Ma-
ghreb e il Medio Oriente conoscessero una svolta in senso islamista? Non è facile dire se l’Europa non se ne stia
rendendo conto o se sia semplicemente impreparata ad affrontare la caduta di questo nuovo ―muro‖. Comunque
stiano le cose, ancora una volta Bruxelles, lasciando che siano i singoli Stati ad esprimere la propria voce (e quin-
di a proteggere i singoli interessi), rischia di perdere due grandi opportunità: da un lato quella di rimarcare ed e-
stendere la propria influenza economica in quest’area e, dall’altro, la possibilità di porsi per questi Paesi in cerca
di riscatto come un interlocutore alternativo ad altre superpotenze e, quindi, di porsi, come attore fondamentale
capace non solo di garantire la stabilità della regione mediorientale, ma anche di gestire dinamiche basilari nei
rapporti inter-regionali ed internazionali.
L’Unione Europea che, dopo il rinnovamento politico avvenuto con il Trattato di Maastricht e con il Processo di
Barcellona, ha avviato un Partenariato Euro-Mediterraneo (PEM, 1995), che ha varato addirittura solo meno di tre
anni fa l’Unione per il Mediterraneo (UPM, 2008) e che per ogni zona del Medio Oriente ha dei propri osservatori
che dovrebbero svolgere un ruolo di importante mediazione politica, dimostra di non essere molto di più di
un’aggregazione di Stati vincolati fra di loro da un mercato e una moneta comune. Ci si aspettava, inoltre, che,
dopo anni di fallimenti intergovernativi (il più emblematico quello della Costituzione), finalmente il Trattato di Lisbo-
na – anche grazie all’istituzionalizzazione di un Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di

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Pagina 15 CHAOS
di Sicurezza – facesse dell’Europa definitivamente una potenza politica. Ma, forse, non si può addossare del tutto la
colpa a Lady Ashton se questo obiettivo non è stato raggiunto. D’altra parte fu una scelta della Commissione Barro-
so conferire questo incarico proprio a lei e non a qualcun altro, fu una scelta della Commissione Europea sminuirne il
ruolo anche di fronte ad altri momenti altrettanto significativi come, per esempio, senza andare troppo in là con la
memoria, le stragi dei Cristiani in Africa.
Quale altro fatto debba accadere perché l’Europa si ricordi che ha radici, storia, cultura, interessi economici e politici
in comune e da far valere anche nel quadro mondiale, non si può immaginare.

Kosovo: game over - di Alessandro Badella (Risiko) - 17.02.2011


Recentemente è apparso su EUObserver.com un ottimo articolo del giornalista kosovaro residente in Belgio, Ekrem
Krasniqi. Il titolo, "The EU and US should take power in Kosovo", è indubbiamente intrigante.
Al suo interno, il giornalista analizza la drammatica situazione democratica kosovara. E' ormai noto che il nuovo sta-
to in mezzo ai Balcani è stato un fallimento della politica euro-americana dell'era Bush. Non solo la prassi del diritto
internazionale in tema di secessione era stata palesemente violata (con la autoproclamazione da parte di un parla-
mento locale con sede a Pristina), ma lo stato è nato "monco" visto che solo alcuni paesi lo hanno riconosciuto a
livello internazionale. Molti paesi europei, ad esempio, si sono tirati indietro, come la Spagna o la Grecia.
Un problema gravissimo è la dilagante corruzione, molto più degli scarsi successi dal punto di vista democratico.
Anche se non presente tra i paesi censiti daTransparency International, il Kosovo sta precipitando verso la nomea di
"stato mafioso", proprio come la Moldavia. Hashim Thaci, l'attuale premier kosovaro, ha una sfilza di macchie sul
curriculum da far invidia a qualsiasi dittatore centrafricano:traffico di stupefacenti ed attività criminali di vario genere.
Ma soprattutto, la piaga della corruzione pesa su un'economia praticamente inesistente. La disoccupazione è al
40% e, dal 1999, il Kosovo ha ricevuto aiuti dalla comunità internazionale in misura 25 volte superiore a quelli desti-
nati all'Afghanistan (fonte: Report 2010 di Freedom House). Praticamente un paese che "mendica" aiuti per sfamare
i ricchi signori che tre anni fa proclamarono l'indipendenza mascherando dietro al problema etnico, i loro intrallazzi di
potere.
Da qui la provocazione di Krasniqi:
"It is more fruitful to make instead one bold recommendation to UK Prime Minister David Cameron, Ger-
man Chancellor Angela Merkel, French President Nicolas Sarkozy and US President Barack Obama: You
should instruct your ambassadors in Kosovo to end the tragi-comedy of 'Kosovar democracy' and create
an EU-US protectorate instead.
US ambassador Christopher Dell should become Kosovo Prime Minister. The other posts - president,
speaker - are irrelevant anyway. The so-called Martti Ahtisaari plan, a quasi-Kosovo constitution, gives EU
special envoy Pieter Feith supreme power on almost everything, from Kosovo's budget to whether Koso-
vars can hold a referendum on this or that subject.
The first thing the Dell government should do is send home all the leaders of Kosovo's Albanian political
parties".
Nella pratica, la comunità internazionale ha messo al mondo un "figlio" che non sa essere autonomo. Probabil-
mente dietro la scelta politica di appoggiare la secessione del Kosovo, vi fu un bieco interesse geopolitico euro
-americano. Sta di fatto che alcuni kosovari sembrano essere stanchi di una indipendenza senza autonomia.
Tanto valeva rimanere come protettorato sotto l'UE (una sorta di colonia) o come staterello federale sotto la
Serbia, stando a Belgrado come l'Alto Adige sta all'Italia.
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L’Italia nel mondo: tra Ruby e Assange vince Mario Draghi - di Domenico D’Alessandro (Risiko) -
21.02.2011

L'Italia nel mondo è, ancora, associata al volto di Ruby Rubacuori. Sebbene negli ultimissimi giorni l'inchiesta non
abbia subìto sviluppi, dopo l'invio della richiesta di rinvio a giudizio, i siti di informazione internazionale monitorano da
vicino lo "scandalo di Berlusconi", come ormai viene da tutti identificato. I più attenti, alle vicende italiane dell'ultima
settimana, sono stati i quotidiani spagnoli. I nostri "cugini", evidentemente, sono interessatissimi alle storie italiane:
pagine su pagine nei quotiani, ma anche diverse "menzioni" all'interno dei programmi televisivi. Sugli scudi c'è El
Pais: l'inviato a Roma del quotidiano giornalmente riporta le novità. Nel suo ultimo pezzo sottolineava come "né lo
scandalo globale, né la pressione dell'opposizione, né l'opinione della maggioranza dei sondaggi secondo cui, per il
62% degli italiani, debba dimettersi. Il primo ministro italiano non retrocede di un metro". La lettura, è chiaro, è molto
critica nei confronti del Cav.
La "non preoccupazione" espressa da Berlusconi circa l'inchiesta in cui è coinvolto è stata ripresa da tutti: uno su
tutti, il coreano Chosun, che in questa settimana ha ripercorso le tappe principali della vicenda. Doveroso sottolinea-
re, però, che le parole del Premier vengono sempre associate a quelle dell'opposizione, e talvolta si pone in eviden-
za la notizia della manifestazione delle donne "Se non ora quando". Quasi per far capire che gli italiani non stanno a
guardare.
Trova diversi richiami sui quotidiani mondiali il nuovo episodio del caso Wikileaks. Da qualche gior-
no, l'Espresso e Repubblica hanno ottenuto "l'esclusiva" per l'Italia e dunque pubblicano i nuovi cablo del sito di As-
sange sul nostro Paese. Cablo che, fino ad ora, hanno aperto uno squarcio nella democrazia internazionale ma non
hanno causato sommovimenti popolari come qualcuno pensava alla vigilia della bufera. Nei dossier pubblicati
da Espresso e Repubblica si legge l'opinione dell'ambasciatore americano a Roma Ronald Spogli: "Le sue frequenti
gaffe e la povera scelta di parole - scriveva al Segretario di Stato Usa Hillary Clinton - hanno offeso praticamente
tutte le categorie di cittadini italiani e molti leader europei. Ha danneggiato l'immagine del Paese in Europa e creato
un tono comico alla reputazione italiana in molti settori del governo statunitense". Queste parole sono state riferite
con grande evidenza da pochissimi quotidiani mondiali, tra cui La Tercera (Cile) e la Gazeta Shqiptare (Albania). E
peraltro, da parte di entrambi, si legge solo una fredda cronaca senza alcun tipo di analisi.
Chiudiamo con l'economia. Tra pochi giorni si potrebbe eleggere il nuovo presidente della Banca Centrale Europea.
Tra i candidati favoriti c'è l'italiano Mario Draghi. Il suo nome viene ben visto da tutti i quotidiani del settore:
il Financial Times lo ha elogiato in un apposito articolo, laFrankfurter Allgemeine Zeitung lo ha intervistato, e anche i
leader europei - in occasione del recente G20 di Parigi, hanno speso per lui solo parole di elogio. E sono in molti a
scrivere che il nome di Draghi è "il migliore" tra i papabili emersi negli ultimi giorni. Un attestato di stima di cui, da
italiani, bisogna andare fieri.

Il Belgio e il pericolo secessionista - di Giuseppe Dentice (BloGlobal) - 13.02.2011

In Belgio manca un governo da 243 giorni stabilendo, così, un record europeo poco invidiabile. La mancata intesa
tra i principali leaders locali ha portato ad un blocco politico e istituzionale di proporzioni immani, i cui effetti si sono
riversati pesantemente anche sulla sfera economica nazionale. Mai nella storia belga, uno dei 6 Paesi fondatori del-
la CEE, si era assistito ad una crisi del genere. Da un lato abbiamo il partito separatista fiammingo di Nuova Allean-
za Fiamminga (N-VA) guidato da Bart de Wever, dall'altra il partito socialista vallone PS capeggiato dall'italo-belga

Elio Di Rupo. Dopo vari tentativi di negoziato, la situazione attuale è in stallo e lontana da una realistica soluzione.

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Pagina 17 CHAOS
Nonostante la mediazione di Re Alberto II – l'unico a cui sembra stare a cuore veramente l'unità nazionale – è ne-
cessario un accordo tra le parti per scongiurare la rottura del Paese che, qualora avvenisse, potrebbe avere degli
incredibili risvolti sui futuri assetti dell'Europa intera.
Il nocciolo della questione risiede nelle capacità economiche delle due
regioni: la parte fiamminga, l’anima economicamente trainante del Pae-
se, dove vive la maggioranza della popolazione belga, produce quasi il
60% del PIL e ha un tasso di disoccupazione che è quasi 1/3 di quello
del Sud.
Il Belgio è ufficialmente una monarchia costituzionale diventata Stato
federale nel 1993. Fortemente diviso al suo interno e con tre comunità
linguistiche (francofona, fiamminga e germanofona), il Paese è formato
da tre regioni: le Fiandre a Nord, la Vallonia a Sud e la regione di Bruxel-
les-Capitale al Centro. Queste regioni e comunità dispongono delle prin-
cipali competenze statali, compresa quella dell'amministrazione della
giustizia. Pur non essendoci una divisione di fatto tra le due comunità, esiste però una scissione netta dal punto di
vista linguistico, sociale e religioso: il Nord fiammingo è prevalentemente protestante, mentre il Sud rimane presso-
ché cattolico. La monarchia sembra essere rimasta l’unico collante di due comunità che stanno lavorando alla di-
sgregazione del Paese. Un paradosso, se si pensa che il Belgio ospita la maggior parte delle sedi istituzionali
dell’Unione Europea.
Nella storia di questo Paese dell'Europa Nord Occidentale la secessione non è una novità, anzi, è quasi una consue-
tudine. Una prima secessione avvenne nel 1579, quando le Province Settentrionali protestanti si costituirono nelle
Province Unite (gli attuali Paesi Bassi); una seconda secessione fu quella del 1789, in cui il Belgio si separò
dall’Austria e diede vita agli Stati Belgi Uniti. Infine, fu secessione anche quella del 1830 all'indomani della sconfitta
di Napoleone a Waterloo (18 giugno 1815) e della riunione del Belgio con le Province Settentrionali in un unico Re-
gno dei Paesi Bassi, dando vita ad uno Stato indipendente, riconosciuto ufficialmente solo nel 1839.
Fino agli anni Sessanta, grazie alle risorse minerarie del sottosuolo, il Sud vallone egemonizzava la gestione del re-
gno, spesso non curandosi delle istanze fiamminghe. Quando l’industria siderurgica è entrata in una crisi irreversibile
le parti si sono invertite e le più popolose Fiandre iniziarono a trainare l’economia belga. Le Fiandre, però, sono sem-
pre state la parte più evoluta del Paese e si sono opposte, spesso e ferocemente, alle leggi fiscali che favorivano la
più improduttiva e centralista Vallonia. Nelle aspirazioni di riforma costituzionale, i fiamminghi del N-VA chiedono uno
Stato confederale, una sorta di preludio all’indipendenza. Il motivo del contendere rimane, come sempre, relativo alla
suddivisione delle competenze politico-economiche all'interno dello Stato federale. La comunità vallone propende
per uno Stato centralista, la comunità fiamminga vorrebbe applicare il principio di sussidiarietà orizzontale limitando il
ruolo dello Stato (soprattutto nelle politiche fiscali e sociali) a favore delle realtà locali più produttive (quelle fiammin-
ghe appunto). Il muro contro muro è talmente tanto forte che il leader fiammingo De Wever non ha escluso la possi-
bilità di giungere ad una disgregazione del Paese, additando parti delle responsabilità alle resistenze della compo-
nente vallone nel non volere riformare lo Stato belga. I Fiamminghi, per cercare di pareggiare le resistenze dei Vallo-
ni, sarebbero stati disposti a cedere anche sulla riforma confederale pur di raggiungere almeno un obiettivo: smem-
brare il distretto Bruxelles – Hal – Vilvoorde, il più ricco del Paese e inglobante una parte della regione fiamminga, a
totale discapito dei Valloni. La separazione di Bruxelles - Hal - Vilvoorde permetterebbe alla parte fiamminga di ac-
quisire una circoscrizione elettorale in cui potranno presentarsi solo i partiti di lingua fiamminga. In questo modo que-
sti partiti prenderebbero il possesso del Paese e darebbero il via ad una scissione definitiva con i partiti valloni.
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Intanto l’opinione pubblica belga stanca dallo stallo politico-istituzionale, lo scorso 23 gennaio ha manifestato a Bru-
xelles chiedendo alle parti una soluzione al malessere serpeggiante. Tra i manifestanti c’era anche chi proponeva
soluzioni anticostituzionali (consegna di tutti i poteri al Re e scioglimento dei partiti). Nonostante tutta la stampa bel-
ga (francofona e fiamminga) chiami i partiti alla responsabilità nazionale, la situazione sembra poter esplodere da un
momento all'altro.
Ma cosa comporterebbe lo smembramento del Belgio? I risvolti sarebbero numerosi e, soprattutto, potrebbe essere
un ―detonatore‖ per altre situazioni limite in tutta Europa. Infatti, altri Paesi come la Spagna (Euskera e Catalunya), il
Regno Unito (soprattutto con la Scozia), la Germania (con la Baviera), l'Italia (con la fantomatica ―Padania‖) e una
pletora di altri Stati tra i Balcani e l'Est Europa, in generale, rischiano una serie di disgregazioni politiche, economi-
che e sociali, che potrebbero riscrivere l'intera mappa d'Europa. Un pericolo non da poco considerando il fatto che
questi Stati guardano con molta attenzione al Belgio proprio per scongiurare un possibile rovesciamento di scenario
al proprio interno. L' ―effetto domino‖, quindi, potrebbe essere davvero reale. Oltre ai ―semplici‖ sconvolgimenti inter-
ni, ci sarebbe da affrontare la questione anche da un punto di vista di istituzioni europee. L'UE è disposta a rimanere
inerte dinanzi ad una bomba che potrebbe sconvolgere anche i suoi organigramma? Possibile che l’UE non sia mini-
mamente interessata a garantire un Belgio unito per non dare un’immagine di debolezza che potrebbe essere stru-
mentalmente usata dai suoi principali competitors? Francia, Germania, Olanda, Regno Unito e Italia, i Paesi tradizio-
nalmente più legati al Belgio, sono davvero disinteressati al fenomeno o stanno lavorando sottotraccia per risolvere
la questione?
Al di là di qualsiasi ipotesi, è necessario trovare una soluzione in modo da garantire stabilità e forza non solo alla
nazione belga unita ma anche e, soprattutto, alla solidità e al rilancio di una UE in forte affanno. Il Belgio, una volta
modello di convivenza per l'intero continente, è oggi dilaniato da scontri interni, da ondate di nazionalismi e/o regio-
nalismi, che aumentano la forza dei partiti estremisti e si congiungono con una politica dissoluta e poco accorta ai
tempi che corrono. Oggi il destino del Belgio può essere quello di tutta l'Europa.
La spaccatura fiammingo-vallone è il peggior fantasma del recente passato europeo e la sua possibile evoluzione in
senso separatista potrebbe solo alimentare i nazionalismi esasperati dell'Europa post-guerra. Pertanto, bisognereb-
be scongiurare questa possibilità e sperare nella buona volontà dei politici e nella forza unificante (chissà ancora per
quanto?) della monarchia per ricomporre questa profonda frattura. Pur non potendo prevedere cosa accadrà esatta-
mente, la paralisi attuale sarà superata solo quando i leaders politici troveranno un giusto compromesso tra i propri
interessi, in modo tale da dotare il Paese di un governo come più volte chiesto da un'intera nazione disorientata e
spaventata dal caos politico-sociale vissuto.

Frattini a rimorchio di Cameron - di Alessandro Badella (Risiko) - 8.02.2011


Il nostro Ministro Frattini va a rimorchio. Sempre. Sull'Egitto come sul dialogo sull'Islam. Dopo le proposte tedesco-
britanniche sul fallimento della dottrina del multiculturalismo, il ministro, a Praga in visita diplomatica, ha rilanciato
quello che sembra essere il mantra della nuova classe politica conservatrice europea:

"Siamo convinti che un'Europa multiculturale senza regole, senza valori, senza il rispetto di principi fon-
damentali sia un'Europa più debole. Le parole di Cameron sono state importanti perchè hanno ammes-
so il fallimento delle società multiculturali che non hanno alle spalle radici comuni".

Proprio pochi giorni dopo che l'Istat ha aggiornato il proprio paniere includendo anche il kebab e il cibo
etnico, arriva la marcia indietro della politica.
Pagina 19 CHAOS

Asia

Un’India sempre più “nucleare” - di Maria Serra (BloGlobal) - 12.02.2011

In un quadro internazionale sempre più multipolarizzato, l’India si inscrive come una delle maggiori economie emer-
genti, capace di uscire nel giro di un decennio da quell’isolamento internazionale in cui era stata relegata durante gli
anni della Guerra Fredda, e di giocare attualmente un ruolo importante tanto nel contesto regionale dell’Asia centro-
meridionale, tanto nel contesto dei rapporti mondiali. Ed è l’energia – elemento sul quale si fondano e si intersecano
dinamiche, politiche e strategie delle relazioni internazionali del XXI Secolo – il principale strumento di cui si serve il
Paese asiatico da un lato per accelerare il proprio sviluppo interno e, dall’altro, per modificare e gestire gli equilibri di
potenza.
Energia e non solo
Sottoposta fino al 2006 ad embargo per il comparto del commercio tecnologico nucleare a causa dell’utilizzo del nu-
cleare civile per scopi militari e per la mancata partecipazione al Trattato di Non Proliferazione Nucleare, l’India è
rientrata pienamente nelle trame della diplomazia dell’energia nel corso dell’ultimo biennio (e in particolare nell’ultimo
semestre del 2010), quando, infatti, ha siglato una serie di accordi in materia energetica – e non solo – con Paesi
che fanno dell’atomo, appunto, uno dei loro punti di forza nella governance mondiale: Francia, Giappone e, soprat-
tutto, Russia.
Con le sue attuali 6 centrali nucleari (20 reattori attivi, per un totale di circa 4560megawatt all’anno), l’India è il mag-
gior produttore di energia nucleare al mondo (dopo USA, Francia, Giappone, Russia, Corea del Sud e prima della
Cina) e punta a produrre energia nucleare per 64mila watt entro il 2032.
Il 6 dicembre scorso, dunque, il Premier indiano Manmohan Singh ha siglato un importante accordo con il Presidente
francese Sarkozy per la costruzione di 2 nuovi reattori nella centrale di Jaitapur, nello Stato di Maharushtra (India
centro-occidentale) e realizzati dall’indiana Nuclear Power Corporation e la francese Areva. Questo accordo fa se-
guito ad un memorandum franco-indiano firmato nel febbraio 2009 in cui Parigi – secondo esportatore al mondo di
energia nucleare – ha garantito a New Delhi il proprio sostegno nello sviluppo tecnologico e, data la scarsità di ura-
nio nel suolo indiano, la possibilità di acquistare combustibile atomico sul mercato internazionale. Questa intesa, che
consentirà all’India di emanciparsi progressivamente dall’utilizzo del petrolio e del carbone, ha dato avvio anche ad
una serie di accordi in materia commerciale e di difesa e prelude ad un inserimento dell’India nel consorzio di nazioni
europee che hanno progettato il velivolo militare Eurofighter Typhoon.
Dello stesso tipo, ma decisamente di altro tenore, sono una serie di accordi che Singh ha stipulato con la Russia
pochi giorni prima di Natale: la Russia, infatti, si impegna a costruire due nuove centrali nucleari nello Stato indiano
meridionale del Tamil Nadu e 16 nuovi reattori da dislocare in tre aree diverse del Paese entro il 2017. Questa intesa
non è altro che la prosecuzione di una stretta collaborazione iniziata da Singh e Medvedev già all’inizio del 2009,
quando Mosca è riuscita a consolidare il suo ruolo di primo fornitore di carburante nucleare all’India (e quindi a tutta
la regione meridionale dell’Asia) grazie ad un accordo di circa 700miliardi di dollari per il rifornimento di uranio a New
Delhi. In cambio l’India offrirà alla Russia alcuni terreni nel West Bengala o nell’Orissa per la costruzione di un parco
nucleare russo. Anche in questo caso, tuttavia, la cooperazione non si limita al settore energetico: gli scambi com-
merciali fra Russia e India vedranno nei prossimi anni un raddoppiamento per un valore di 20 miliardi di dollari e in-
sieme collaboreranno in alcuni settori chiave: lotta al terrorismo (con riferimento, quindi, alle minacce che provengo-
no dal Pakistan e dall’Afghanistan), gestione congiunta delle operazioni militari proprio in Afghanistan, sicurezza re-
gionale, lotta ai cambiamenti climatici. Ma la parte decisamente più interessante dell’intesa russo-indiana è quella
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quella riguardante la cooperazione militare: le russe Rosoborexport e Sukhoj (rispettivamente Agenzia di Stato e
compagnia di aviazione) hanno firmato con l’indiana Hindustan Aeronautics Limited (HAL) un progetto per lo svilup-
po di un caccia militare di quinta generazione, con tecnologia stealth e super-crociera, per il trasporto interno di armi
e con capacità di guerra networkcentrica. In Russia questo nuovo velivolo dovrebbe essere introdotto entro il 2015 e
nell’arco dei cinque anni successivi anche dalla Indian Air Force. Questo accordo, unitamente al progetto di produ-
zione di altri 250 aerei militari e a quello riguardante la diffusione dei segnali di navigazione di alta precisione
(l’India, infatti, non è dotata di un sistema satellitare proprio, ma dipende dal sistema di navigazione americano, che,
peraltro, fornisce informazioni solo a scopo civile), è, secondo il Ministro della Difesa indiano, Kurian Antony, il pri-
mo di una lunga serie. Infine, da non sottovalutare, è l’impegno russo (ma anche della Francia e degli Stati Uniti) di
sostenere la candidatura di New Delhi per l’ingresso nei maggiori organismi internazionali che si occupano del con-
tenimento della proliferazione nucleare (il Nuclear Suppliers Group e il Missile Technology Control Regime), ma
anche come membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Questa strategia di rafforzamento indiana, risponde, evidentemente, all’esigenza di trovare una via autonoma, e allo
stesso tempo non isolata, nelle relazioni internazionali e di respingere non solo la minaccia proveniente dal vicino
Pakistan (con il quale è ancora aperto il contenzioso relativo al territorio del Kashmir) e, in generale, dal mondo me-
diorientale, ma anche di contenere l’influenza cinese nella macro-regione meridionale asiatica.
Nuovi assetti geopolitici
A grandi linee possiamo dire che in Asia Centrale si stanno attualmente formando due blocchi: uno costituito da Ci-
na e Pakistan, l’altro da India e Stati ad esso sempre più collegati (ad iniziare dal Giappone). In tutto questo una
Russia che può giocare su più tavoli contemporaneamente, assestandosi come il partner chiave tanto per la Cina,
tanto per l’India.
Proprio la minaccia di un’ulteriore estensione politica-economica-militare di Pechino (sono state poste, infatti, infra-
strutture cinesi nella regione himalayana vicino all’India e sono cresciuti gli investimenti cinesi per la costruzione di
nuovi porti sull’Oceano Indiano, nel Myanmar, nel Sri Lanka, nel Bangladesh e in Pakistan), ha spinto New Delhi a
rafforzare i suoi rapporti tanto sul versante più orientale con Tokyo – con cui all’inizio di gennaio di quest’anno, e
nell’ottica della ―Look East Strategy‖, ha firmato un accordo di cooperazione economica e militare –, tanto sul ver-
sante occidentale, cioè con Israele, Afghanistan e, persino, l’Iran.
Negli ultimi tempi, infatti, il governo di Singh, anche a causa del progressivo avvicinamento tra Karzai e Zardari, non
ha nascosto la sua intenzione di ristabilire un dialogo con Teheran per la costruzione di un gasdotto che unisca Iran,
Pakistan e India (IPI) – che si aggiungerebbe alla pipeline che unirebbe Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e india
(TAPI) – e per la realizzazione del porto iraniano di Chabahar, che permetterebbe all’India non solo un rilancio delle
relazioni commerciali nell’oceano Indiano, ma anche di aggirare il Pakistan nell’esportazione di prodotti verso
l’Afghanistan e gli altri paesi dell’Asia Centrale. E proprio per questi motivi, New Delhi, pur opponendosi al nucleare
iraniano, si sta impegnando per evitare che nuove sanzioni vengano inflitte al governo di Ahmadinejad.
Se già l’Amministrazione Obama ha trascurato negli ultimi anni le relazioni con l’India, questo nuovo atteggiamento
del gigante indiano potrebbe incrinare i rapporti con gli USA?
Un fatto sembra esser certo: se India, Cina e Russia sembrano garantire nei prossimi anni una continuità nelle loro
scelte politiche e strategiche sia a livello regionale, sia a livello globale, non è così per gli Stati Uniti: le elezioni pre-
sidenziali del 2012 potrebbero apportare un nuovo significativo cambiamento nelle proprie relazioni con i Paesi a-
siatici e, quindi, una nuova inversione di rotta nei confronti dell’India. È lecito quindi pensare che il Paese di Gandhi,
vicino a quel punto a Mosca, a Washington, al Medio Oriente (oltre che ai Paesi dell’America Latina) possa scalzare

la Cina non solo nel predominio dell’Asia Centrale, ma anche nei rapporti di forza politico-economici mondiali.
Pagina 21 CHAOS
Il ritorno del Paese del Sol Levante: nuovi scenari nel Pacifico - di Maria Serra (BloGlobal) -
3.02.2011
Il Governo giapponese ha approvato, nello scorso mese di dicembre, le nuove Linee Guida per il Programma di Dife-
sa Nazionale (―National Defense Program Guidelines‖, NDPG), che delinea le strategie di difesa giapponese per i
prossimi anni. Questo nuovo approccio è importante tanto sul piano interno – in quanto ha implicato una modificazio-
ne sostanziale della Costituzione giapponese, la quale ha imposto fino ad ora forti restrizioni sul piano della spesa
nel settore militare –, tanto sul piano delle sue relazioni esterne e, quindi, sugli equilibri macro-regionali (dell’Oceano
Pacifico e del Sud Est asiatico) e su quelli globali. Tale disegno, infatti, muove essenzialmente in due direzioni: da
un lato è volto a contenere l’estensione dell’influenza politica-economica-militare della Cina e, dall’altro, a rinsaldare i
rapporti con gli Stati Uniti.

Il nuovo Piano di Difesa Nazionale


Formato da 6852 isole, il Giappone ha necessariamente puntato al rafforzamento difensivo soprattutto in relazione
alla dimensione marittima e a quella aerea: infatti, oltre al riequipaggiamento dei reparti di terra (carri armati e obici),
verrà principalmente rinfoltita la flotta, grazie all’aumento dei sottomarini (6 divisioni per un totale di 22 unità, dalle 16
precedenti che erano) e dei cacciatorpedinieri (4 flottiglie per un totale di 48 unità). A questi si aggiungono un’unità di
dragamine e 9 squadroni di pattuglie aeree per un totale di circa 150 aerei da combattimento terra-aria. Complessi-
vamente il settore aereo sarà composto da 600 unità di combattimento e nei prossimi anni verrà ufficializzato
l’inserimento nel comparto anche di un nuovo velivolo, l’F-35, dotato di tecnologia stealth, e quindi invisibile ai radar,
utilizzato per supporto aereo ravvicinato e bombardamento tattico. Ovviamente, verrà rinforzato l’intero parco missili-
stico, grazie ad un dislocamento di missili Patriot su tutto il Paese (ribaltando, tra l’altro, una precedente decisione di
sospendere il dispiegamento dei Patriot).
Alla base della nuova strategia difensiva vi è un cambiamento anche di tipo dottrinale all’interno delle forze armate: il
nuovo NDPG permetterà alle Forze di Auto-Difesa giapponesi (―Japanese Self-Defense Forces‖, JSDF) di abbando-
nare il principio della ―difesa statica‖ – sulla base del quale esse basavano la sicurezza nazionale sullo status quo e
rinunciavano, perciò, ad eguagliare i dispiegamenti degli altri Stati e a reagire alle loro minacce – per abbracciare
una ―difesa dinamica‖, ossia monitorare gli andamenti militari degli altri Paesi e predisporre le necessarie contromi-
sure. In altre parole, una politica di equilibrio di potenza. Questa rinnovata dinamicità, evidentemente, si rivolge in
primo luogo nei confronti della Cina, definita nel Programma la principale ―fonte di preoccupazione per la regione e la
comunità internazionale‖ (ma anche nei confronti della Corea del Nord, che gode proprio del favore della Cina e che,
con il suo programma nucleare e dopo il bombardamento dell’isola sud-coreana di Yeonpyeong nel mese di novem-
bre, è diventata un fattore di forte destabilizzazione dell’Estremo Oriente).

I rapporti con la Cina


Dalla scorsa estate il PIL cinese ha superato quello giapponese (nel secondo trimestre del 2010 il PIL del Giappone
è stato pari a 1.286 dollari, mentre quello della Cina per lo stesso periodo ha raggiunto la quota di 1.335 dollari): Pe-
chino è diventata così la seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti, spodestando Tokyo. D’altra parte
l’economia cinese negli ultimi trent’anni è cresciuta di novanta volte, mentre quella giapponese dall’inizio degli anni
Novanta, con lo scoppio della bubble economy, e con l’attuale recessione mondiale, sta vivendo un momento di sta-
gnazione. Questo boom economico, congiuntamente al rafforzamento dei rapporti economici bilaterali (innanzitutto
per quanto riguarda l’energia) con la Russia, al potenziamento militare, all’espansionismo nel Mar Cinese Meridiona-
le, all’allargarsi dell’influenza in Africa, nel Medio Oriente (in questo caso soprattutto per quanto riguarda i rapporti
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con l’Iran), e nell’America centro-meridionale, sono state le cause principali del varo della NDPG.
Anche se è ben nota la tradizione militare giapponese e la qualità dei suoi apparati, la Cina attualmente prevale sul
piano quantitativo nel settore terrestre (9840 corazzate contro 1320), aereo (1300 caccia contro 310) e degli effettivi
(oltre 2 milioni contro 237mila). La paura della Cina ha tra l’altro spinto il neo-Primo Ministro Naoto Kan (in carica dal
giugno del 2010) a riallacciare i rapporti con gli Stati Uniti dopo che il Governo precedente – presieduto da Yukio
Hatoyama (in carica dal settembre 2009 al giugno scorso) – aveva deciso di sganciarsi da quella che era stata defi-
nita una ―sudditanza‖ da Washington.

I rapporti con gli Stati Uniti: la normalizzazione


Hatoyama aveva , infatti, fondato il suo programma di politica estera su un progressivo sganciamento dalle scelte
militari degli USA, promettendo, in particolar modo, che le forze militari americane avrebbero abbandonato la base
militare statunitense posizionata nell’isola di Okinawa, teatro della famosa battaglia fra Giappone e USA del 1945 e
già oggetto di scontri e compromessi dalla fine degli anni Novanta per una riorganizzazione della presenza america-
na. Il fallimento di questo obiettivo è costato ad Hatoyama la poltrona e ha permesso l’elezione di Kan, che ha da
subito promosso un processo di ―normalizzazione‖ dei rapporti nippo-americani. Secondo Kan, quella con gli USA è
―un’alleanza irrinunciabile per la sicurezza e la pace del Giappone‖; allo stesso tempo, l’intesa con il Giappone (e il
relativo potenziamento di Okinawa) rappresenta per gli Stati Uniti un tassello fondamentale tanto per gli equilibri re-
gionali del Pacifico, tanto per il consolidamento di un asse di alleanze a livello macro-regionale e globale – anche
con Corea del Sud, Australia, e, in minima parte, con la Francia – che contenga la Cina.
In particolare gli Stati Uniti, tramite l’ammiraglio Michael Mullen, presidente del Comitato dei Capi di Stato Maggiore
(“US Joint Chiefs of Staff‖) hanno proposto esercitazioni militari congiunte fra USA, Giappone e Corea del Sud
(questo, ovviamente significherà dover mettere da parte lo storico contrasto fra Tokyo e Seoul risalente alla guerra
russo-giapponese del 1905 e alla conseguente occupazione nipponica del territorio coreano). Alcune esercitazioni in
comune fra Tokyo e Washington si sono svolte nella parte meridionale dell’arcipelago giapponese (e tralasciando,
dunque, la parte settentrionale che, invece, era un’area essenziale in funzione anti-URSS durante la Guerra Fred-
da), più precisamente a sud dell’isola di Kyushu, simulando la riconquista di alcune isole occupate da una forza stra-
niera. Una simulazione proprio in quest’area del Pacifico non è un caso, ma trova fondamento in due fatti: da un
lato, a sud del Giappone, e vicino all’isola di Taiwan, di fronte alle coste cinesi, si trovano le isole giapponesi Senka-
ku e rivendicate da Pechino; dall’altro, tra la base di Okinawa e l’isola giapponese di Miyako esiste un corridoio (il
Canale di Miyako) tanto largo da consentire la presenza anche di acque internazionali, all’interno delle quali, durante
lo scorso mese di settembre, si è verificato un incidente diplomatico fra pescatori cinesi e un cacciatorpediniere giap-
ponese. Anche per questo motivo, Tokyo ha esteso nella parte meridionale del proprio arcipelago l’―Air Defense I-
dentification Zone‖ (ADIZ), uno strumento attraverso il quale può monitorare qualsiasi tipo di mezzo in transito.

Prospettive future
Il rafforzamento del Giappone e dei suoi rapporti con gli USA (e anche con Corea del Sud e Australia) saranno certa-
mente un deterrente per la Cina che sarà costretta ad operare sul suo fronte orientale scelte militari più ponderate. Al
contrario, la condivisione di molti interessi con la Russia e con alcuni Paesi del Medio Oriente e dell’Asia Centrale (in
particolar modo Iran e Pakistan), potrebbe spingere la Cina a concentrarsi sul rafforzamento del suo fronte occiden-
tale e ciò potrebbe portare alla creazione di una profonda linea di frattura, fra Cina e Stati Uniti, in Estremo Oriente e
in corrispondenza, dunque, delle Coree e del Giappone. In questo scenario bisognerà vedere, tuttavia, anche come
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si comporterà la stessa Russia—che ha tutto l’interesse a garantirsi l’amicizia della Cina, ma allo stesso tempo di
non compromettere il fronte del Pacifico nei rapporti con gli USA –, i Paesi dell’ASEAN – vicini economicamente,
quanto politicamente alla Cina, ma allo stesso tempo pronti ad instaurare relazioni bilaterali e multilaterali con il
Giappone, Australia e anche Unione Europea – e l’India, Paese tanto in ascesa tanto economica, quanto militare.
Indubbiamente, quindi, il nuovo assetto strategico giapponese costituisce un elemento di novità nella regione del
Pacifico. Nel breve termine assisteremo con ogni probabilità ad una riformulazione del sistema di alleanze, bilancia-
menti ed equilibri in tutto il continente asiatico, con ricadute, inevitabilmente, sulla stabilità di molte dinamiche anche
a livello globale.

America del Nord

USA: Obama presenta il nuovo budget annuale - di Eleonora Peruccacci (Risiko) - 18.02.2011
Alla soglia di una lunga campagna elettorale che porterà, nel 2012, al voto per l’elezione del nuovo presidente statu-
nitense, Obama deve confrontarsi conl’approvazione del nuovo budget annuale per la nazione. Si deciderà infatti sul
piano che, stando alle parole del Capo di stato, farà scendere il deficit di 1,1 trilioni di dollari nel prossimo decennio. I
tagli previsti per 2/3 riguardano programmi e progetti nazionali inerenti la salute pubblica e l’ambiente; i sussidi per la
fornitura di energia domestica alle famiglie con redditi bassi saranno dimezzati e i fondi per l’iniziativa volta a ricosti-
tuire in toto la flora e la fauna nelle zone dei Grandi Laghi saranno ridotti di ¼.
Dal canto loro i Republicans stanno cercando di scrivere una controproposta di budget, in quanto il piano di Obama
potrebbe, secondo gli oppositori, far sprofondare il Paese in una crisi economica ancora più profon-
da. L’Amministrazione presidenziale, invece, sostiene fortemente il piano presentato e ribadisce che punti di riferi-
mento importanti come il Pentagono non subiranno decurtazioni di risorse; anche le riduzioni alle tasse risalenti
all’era Bush dovrebbero rimanere invariate, sebbene sia previsto il loro decadimento per la fine del 2012. Tali tagli
agli obblighi contributivi saranno, se il budget di Obama verrà approvato, estesi a un maggior numero di contribuenti
purché non superino i 250mila $ annui di reddito; parte della riduzione del deficit sarà facilitata dalla diminuzione dei
costi bellici e militari, a seguito dal ritiro definitivo delle truppe dall’Iraq entro agosto di quest’anno.
Nonostante le previsioni di budget subiscano sempre delle variazioni al momento della loro applicazione concreta,
molti analisti lamentano che la proposta del presidente apporterà dei benefici alla nazione solo nel breve periodo. In
effetti, si prevede che dopo il 2021 i deficit annuali subiranno una grande impennata, sotto il peso di una popolazione
che tenderà sempre più a invecchiare e che richiederà sempre maggiori risorse per la spesa sanitaria. Si potrà dare
un giudizio più approfondito sulla proposta di budget solo confrontandolo con quello che i Repubblicani presenteran-
no fra qualche tempo.
Ma non è tanto l’aspetto economico in sé che sarà fondamentale per Obama, quanto le implicazioni politiche che la
programmazione finanziaria porterà: il presidente potrà testare la disponibilità dell’opposizione (che ha la maggioran-
za al Senato) a dialogare per portare avanti riforme importanti per il Paese, nonché sarà un’opportunità per dimostra-
re ai cittadini statunitensi la sua volontà di far risollevare concretamente l’economia nazionale.
Il Capo di Stato ha anche affermato che se si procedesse con un’azione di maggiori tagli si andrebbe
a compromettere irrimediabilmente la ripresa economica della nazione, nonché la sua competitività: cosa sicuramen-
te da evitare visti i ben pochi miglioramenti testimoniati da vari studi in termini, ad esempio, di tasso di occupazione.
Le ripercussioni politiche derivanti dalla futura evoluzione finanziaria degli Stati Uniti saranno amplificate durante
la campagna presidenziale, che a breve si aprirà.
Obama dovrà, dunque, agire con molta cautela, mostrandosi maggiormente coinvolto nella risoluzione delle proble-
matiche della nazione se vorrà vedere la possibilità di essere ri-eletto.
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America Latina

Il ruolo del Brasile nel contesto mediorientale - di Maria Serra (BloGlobal) - 17.02.2011
È slittato, a causa delle rivolte scoppiate in Egitto e in tutto il Grande Medio Oriente, il Vertice dei Paesi Arabi e Lati-
no-Americani che si sarebbe dovuto svolgere dal 12 al 16 febbraio a Lima. La mancata organizzazione del Summit
rappresenta un momento di riflessione per valutare lo stato attuale, e soprattutto quello futuro, dei rapporti fra le due
regioni mondiali.
Le conseguenze di quanto sta avvenendo in questi giorni nel mondo arabo potranno essere valutate solamente nel
medio-lungo periodo, così come gli effetti che si produrranno nelle altre regioni mondiali con le quali il Medio Oriente,
politicamente e – soprattutto – economicamente, è strettamente connesso. Non si tratta solo delle ricadute che una
nuova configurazione politica mediorientale – e quindi anche un ricollocamento nel sistema delle relazioni internazio-
nali – avrebbe su Stati Uniti, Europa, Russia (e relativi rapporti reciproci), ma anche su quella schiera di Paesi in Via
di Sviluppo che hanno puntato proprio sul rafforzamento delle relazioni con i Paesi arabi non solo per potenziare i
propri sistemi economici, ma anche per rilanciare il proprio ruolo sulla scena internazionale.
È questo il caso del Brasile che, nell’ottica della promozione del ―dialogo Sud-Sud‖ sostenuto dai ―Paesi bolivaria-
ni‖ (Venezuela, Colombia ed Ecuador), e nel quadro di una politica estera volta ad eliminare l’‖asimmetria‖ nelle rela-
zioni politiche ed economiche internazionali e a ristabilire una parità fra Paesi Sviluppati e Paesi in Via di Sviluppo
nel mercato globale, ha avviato fin dal 2003, sotto la presidenza di Lula da Silva, una serie di partenariati economico
-commerciali con i 22 Paesi della Lega Araba: tali accordi – riguardanti principalmente l’esportazione di prodotti agro-
alimentari, la cooperazione in materia doganale, sanitaria, culturale, scientifica e tecnologica e la formulazione di un
accordo di libero scambio con Israele, Giordania e la Comunità di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrein,
Emirati Arabi, Kuwait, Oman e Qatar) –, congiuntamente ad alcune importanti prese di posizione relative al ricono-
scimento dello Stato palestinese e al problema del nucleare iraniano, hanno permesso al Paese sudamericano non
solo di incrementare le esportazioni del 200% e di porsi come interlocutore fondamentale per l’importazione di pro-
dotti e servizi essenziali per il mercato mediorientale, ma anche di porsi come uno dei principali attori atti a garantire
la stabilità del Medio Oriente.
Questa progressiva penetrazione nel mercato – e quindi nelle politiche – del Medio Oriente ha permesso a Lula di
indire nel 2005 a Brasilia il primo Summit tra i 12 paesi del Sud America e i membri della Lega Araba con lo scopo di
dar vita ad una nuova geopolitica ed ad una nuova geoeconomia mondiale. Infatti, come lo stesso ex Presidente bra-
siliano disse, ―se Paesi in Via di Sviluppo come Egitto e Brasile si uniranno, la concorrenza con i Paesi più sviluppati
sarà più equilibrata‖.
Quanto sia diventato influente il Brasile in Medio Oriente è riscontrabile dal rafforzamento delle proprie relazioni con
l’Iran. Quest’ultimo rappresenta il mercato più grande per il Brasile in Medio Oriente (il volume dei traffici è cresciuto
negli ultimi anni di 4 volte, toccando gli oltre 2miliardi di dollari) e alla stretta collaborazione nel campo delle biotecno-
logie, delle nanotecnologie e l’agricoltura, si è aggiunta anche un’importante intesa nel campo energetico: grazie ad
un accordo, promosso insieme con la Turchia nello scorso mese di maggio, il Brasile è riuscito a trattare le condizio-
ni per l’arricchimento dell’uranio iraniano, tentando di promuovere l’utilizzo dell’atomo a scopi civili.
Inoltre, le visite ufficiali in Israele, Palestina e Giordania nel marzo del 2010 e la recente dichiarazione di riconosci-
mento dello Stato palestinese (entro i confini del 1967) – coinvolgendo, tra l’altro, gli altri Paesi sudamericani a fare
lo stesso – evidenziano la strategia del Brasile di voler apparire come un attore neutrale in Medio Oriente volto a

Segue all’altra pagina —>


Pagina 25 CHAOS
favorirne la distensione. E proprio nel mancato Vertice di Lima si sarebbe dovuto discutere di un’eventuale dichiara-
zione congiunta sullo Stato palestinese indipendente.
Cosa può cambiare fra le due regioni alla luce dei tumulti che hanno spezzato l’immobilità dei Paesi arabi? A grandi
linee possiamo supporre che le relazioni siano destinate a migliorare, poiché entrambe, proprio nell’ottica della riaf-
fermazione dei paesi del Sud del mondo, hanno da guadagnare dal sostegno reciproco. Non solo economico, ovvia-
mente.
Ciò nonostante, è anche vero che il processo di transizione del mondo arabo verso forme politico-istituzionali più o
meno democratiche si prospetta irto di ostacoli, rallentamenti e, soprattutto, battute di arresto. Possiamo però pensa-
re che la rivalsa del popolo arabo possa prender forma anche grazie al sostegno di Stati ―alla pari‖. Sempre che que-
sto processo di cambiamento e la gestione delle conflittualità interne non vengano gestite da forze estremiste interne
o da potenze esterne già fortemente presenti al loro interno.
Tuttavia, è vero anche che il Brasile, proprio perché è un Paese emergente, non è ancora preparato (soprattutto di-
plomaticamente) a gestire le complessità religiose, ideologiche e politiche del Medio Oriente, né è capace di fornire
garanzie di sicurezza militare. Il rapporto con i Paesi della Lega araba resterebbe quindi confinato ai meri interessi
economici e non alla costruzione della pace.
Allo stesso tempo bisognerà vedere come la nuova presidentessa brasiliana, Dilma Rousseff, intenderà concepire le
relazioni con questi Paesi (recentemente, infatti, si è duramente espressa nei confronti del regime di Ahmadinejad) e
come gli Stati Uniti gestiranno le relazioni con i Paesi arabi in un momento tanto delicato e, soprattutto, come le ge-
stiranno quando il periodo di turbolenze sarà terminato. Il Brasile, infatti, per riuscire a contribuire realmente alla sta-
bilizzazione del Vicino Oriente, deve sperare che gli USA riescano a perdere un po’ della loro influenza nella regio-

ne. E, a causa della diversità di vedute sulla questione iraniana e dei rapporti crescenti del paese sudamericano con

la Turchia, difficilmente Washington lascerà che Brasilia estenda ulteriormente la propria influenza nella regione me-
diorientale. L’osteggiamento statunitense, dunque, potrebbe rappresentare un ostacolo per le aspettative e gli sforzi
brasiliani per cercare una nuova collocazione nel quadro internazionale e per l’eventuale acquisizione di un seggio
permanente nel Consiglio di Sicurezza delle nazioni Unite.
Tuttavia, gli ottimi risultati raggiunti in questi anni in termini di produzione interna lorda e di volume degli scambi com-
merciali, permetterà sicuramente al Brasile di assicurarsi un ruolo sempre più importante nella propria regione e di
assumere un impegno internazionale che favorisca gli interessi degli Stati emergenti e, quindi, anche di quelli arabi.

Mondo

Relazione IOM sui flussi migratori 2010: analisi e scenari futuri- di Eleonora Ambrosi
(BloGlobal) - 7.02.2011

Come ogni anno l’International Organization for Migration (IOM) ha redatto il report sui flussi migratori analizzando i
punti critici dell’anno passato e le tendenze future. La relazione si sviluppa attorno 9 aree fondamentali che sono: 1)
Considerazioni generali sulle migrazioni; 2) il concetto di capacity building; 3) la mobilità lavorativa; 4) Le migrazioni
irregolari; 5) Migrazioni e sviluppo; 6) il coinvolgimento nell’economia; 7) i cambiamenti climatici; 8) Leggi e regola-
mentazioni in tema di migrazioni; 9) gli scenari futuri.
Di seguito si riassumono alcuni dei passaggi più importanti, ricordando quanto sia indispensabile lo studio dei flussi
migratori per descrivere l’impatto che questo movimento di persone ha sul territorio e di conseguenza fare in modo
che i governi possano adottare le strategie migliori sia dal punto di vista legislativo sia dal punto di vista economico.
Numero 2 - Febbraio 2011 Pagina 26

Con il concetto di capacity buliding si intendono tutta quella serie di indicazioni teoriche ma soprattutto pratiche, che
troppo spesso vengono sottovalutate, in grado di fornire gli strumenti per facilitare lo sviluppo di politiche che rispetti-
no pienamente la persona umana.
Alcune considerazioni generali: disoccupazione, intensificazione del settore agricolo e ristrutturazione industriale
porteranno ad un’ulteriore intensificazione dei flussi migratori nei paesi sviluppati. Si è notato, nel corso delle analisi,
unmismatch fra le politiche utilizzate dai governi e quelle che risultano essere le reali necessità. La domanda di lavo-
ro fra i migranti esiste sia per occupazioni di alto livello sia per la manodopera, però, in presenza di dubbie regola-
mentazioni sui flussi legali, le vie illegali continuano ad incrementare contribuendo nella formazione della ―propria‖
economia. I punti sui quali è necessario intervenire in futuro sono: determinare obiettivi precisi e fattibili nella politica
migratoria, pensare il mercato e l’offerta dalla prospettiva dei migranti, rivedere alcune condizioni per l’acquisizione
del permesso di soggiorno, difendere i diritti dei migranti ed agevolare la cosiddetta return migration, ovvero la migra-
zione di rientro al proprio paese di origine.
L’immigrazione irregolare è un fenomeno che non sembra diminuire a causa dei grossi profitti che questa attività ge-
nera. È bene sottolineare che, sebbene molte persone si ritrovino in questa situazione per loro scelta, molte altre ne
rimangono vittime senza volerlo. Questo tipo di migrazione è in aumento anche per le rotte sempre più complesse
che vengono utilizzate e la difficoltà nella distinzione fra i bisogni e i diritti delle varie parti che formano i flussi irrego-
lari, fra gli altri i richiedenti asilo politico e i minori non accompagnati. La migrazione clandestina è molto pericolosa,
si pensi ad esempio ai morti nel confine USA – Messico e nel Mediterraneo. Gli obiettivi per quanto riguarda questa
questione sono: la creazione di un database più accurato, regolarizzazione dello status dei migranti, regolarizzazio-
ne della migrazione ed il mercato del lavoro, combattere lo smuggling di migranti ed il traffico di esseri umani. Alcuni
risultati positivi sono stati raggiunti dalla Commissione Europea / DG con l’Eurostat. Il database online è disponibile
su:http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/statistics/search_databas. Troppo pochi sono i paesi che rac-
colgono i dati in modo sistematico riguardo allo smuggling e traffico di esseri umani[1].
Anche la situazione che riguarda i mixed flows [2] risulta allarmante: è diventato infatti quasi impossibile per i rifugiati
poter chiedere asilo, come potrebbero e dovrebbero fare a pieno titolo. Si è creato pertanto il GAF (Global Assistan-
ce Fund) per fornire assistenza a tutte le persone vittime di traffici.
Per quanto riguarda la migrazione temporanea, molti paesi dovranno presto affrontare la questione che affligge
l’impossibilità di risparmiare i salari ricevuti durante il permesso di soggiorno rendendo sempre più difficile
l’eventualità di ritornare al proprio paese una volta terminata l’attività.
Un altro punto molto importante è quello determinato dalla environmental migration, ovvero dalla migrazione derivan-
te da cambiamenti climatici. Le catastrofi naturali tendono a creare movimenti temporanei, posto che l’area colpita
possa nuovamente essere abitata. Anche in questo caso risulta necessario creare un database per raccogliere i nu-
meri di questo tipo di spostamento. La CCEMA (Climate Change Environment and Migration Alliance) è
l’organizzazione che si occupa di questa priorità. Si suggerisce però di raccogliere in un file unico tutte le leggi esi-
stenti dei singoli paesi ed i programmi integrativi a livello nazionale e globale. Viene proposta dalla IOM la seguente
definizione: con environmental migrants si intendono quei migranti che per motivi dovuti ad un improvviso cambio
climatico vedono modificarsi le proprie abitudini e le proprie condizioni di vita, scegliendo un’abitazione temporanea
all’interno del paese o all’estero. La Svezia e la Finlandia hanno già incluso nelle loro politiche immigratorie questa
definizione,specificando che non si tratta di persone che possono godere dei diritti riservati ai richiedenti di asilo, ma
che sicuramente hanno bisogno di protezione.

Segue all’altra pagina —>


Pagina 27 CHAOS
Si è deciso di affrontare i temi legati alla labour migration, migrazioni irregolari, integrazione e cambiamenti climatici
perché sono le aree che con più probabilità subiranno significative trasformazioni e cambiamenti nella dinamica in-
ternazionale.

[1] Con smuggling si intende il favoreggiamento all’ingresso illegale assistito, a fini di lucro, di esseri umani, all’interno di un pae-
se. Le vittime di smuggling sono persone consenzienti che si affidano a questa via illegale per emigrare in un paese.
Con traffico si intende il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’alloggio o l’accoglienza di una o più persone, usando mezzi
illeciti ai fini dello sfruttamento. Lo sfruttamento comprende la prostituzione o altre forme di sfruttamento sessuale nonché schiavi-
tù, o pratiche analoghe ed il traffico di organi.

[2] Con mixed flows si intende il coinvolgimento dei rifugiati nei movimenti migratori. Essi utilizzano le stesse vie, gli stessi mezzi
di trasporto e comprano documenti falsi dagli stessi fornitori che organizzano i traffici illegali.

Geografia e Geopolitica

Le Monde dans une tête de fou - di Prospettiva Internazionale - 23.11.2010

Datata attorno al 1580 circa, questa carta rappresenta uno dei lavori cartografici più enigmatici nella storia della car-
tografia occidentale. A parte la datazione approssimativa, non si hanno informazioni certe su luogo, autore e scopo
di questa rappresentazione. La carta raffigura un giullare il cui volto è coperto o sostituito da un planisfero (molto
simile alla rappresentazione del mondo di Abramo Ortelio adattato con una proiezione che richiama quella tolemai-
ca) ed è disseminata di locuzioni latine che fanno pensare che dietro l'opera ci sia un messaggio.

Le frasi sparse nell'immagine sono le seguenti:


 La legenda nel pannello in basso a sinistra riporta "Democrito d'Abdera derideva il mondo, Eraclito di Efeso ci
ha pianto su, Epictonio il cosmopolita l'ha ritratto."
 Sui medaglioni posti a tracolla del giullare si legge "Oh, preoccupazioni del mondo; oh, quanta vacuità c'è nel-
le cose. - Ogni uomo è senza senso. - Tutte le cose sono vanità: ogni uomo vivente."
 Sul bastone del giullare a destra c'è una citazione biblica "Vanità delle vanità e tutto è vanità."
 Sulla parte frontale del cappello del giullare è scritto "Oh testa, degna di una dose di elleboro" e sulle due pun-
te del cappello "Chi non ha orecchie d'asino?"
Numero 2 - Febbraio 2011 Pagina 28

 Sopra la mappa incastonata nel volto del giullare c'è la seguente citazione di Plinio il Vecchio: Questo è il cen-
tro del cosmo ed il motivo della nostra gloria, questa la sede, qui portiamo gli onori, qui esercitiamo il potere,
qui bramiamo ricchezza, qui il genere umano è messo in tumulto, qui facciamo le guerre, anche quelle civili.
 Sotto la mappa invece si legge "Il numero degli stolti è infinito."
 In alto vicino al margine superiore del disegno c'è la versione latina dell'aforisma greco "Conosci te stesso".

Si può pensare di essere in presenza di un'accozzaglia di citazioni senza capo né coda ma una lettura globale di
queste lascia intendere chiaramente quali sono i pilastri di significato del criptico messaggio: il mondo è un posto
violento, un misero teatrino, effimero quanto la vita, per il gran numero di uomini vacui che lo popolano e si sentono
al centro di tutto ciò che esiste. La cifra biblica oltre che anti-mondana di molte citazioni può ben lasciar pensare che
l'autore avesse un senso religioso e deprecasse gli uomini dall'anima povera ma, data l'assenza di una esplicita sim-
bologia religiosa, non credo che tra la realizzazione dell'opera e il potere spirituale esista un nesso diretto.
Anche se l'impatto visivo e la scoperta delle ctazioni può risultare spiazzante, il simbolismo dell'opera in realtà è es-
senziale e si presta ad una decifrazione non troppo complessa. Cos'ha in mano il giullare? Uno scettro? Un basto-
ne? Cosa c'è sopra? Pare evidente, anzi è urlato se si hanno orecchie adatte, che quel cerchio sul "bastone" sia u-
na bolla di sapone, un classico simbolo di ciò che in pittura viene chiamato Vanitascioè una natura morta dipinta con
simboli significanti della brevità della vita e dell'esistenza umana. Questo genere pittorico diventerà molto diffuso nel
seicento a seguito del dilagare della peste e dello scoppio della guerra dei trent'anni dunque è perfettamente in sin-
tonia con la datazione approssimativa dell'opera. Il bastone in mano al giullare invece è semplicemente una cannuc-
cia per fare le bolle come quelle spesso utilizzate dai putti in varie rappresentazioni.
Ma alla Vanitas, che ormai risulta chiaro essere il tema centrale del messaggio, è collegato intimamente il significato
dell'intera rappresentazione. In pittura, il termine Vanitas, venne preso dalla locuzione latina "Vanitas vanitatum et
omnia vanitas" tratta dall'Ecclesiaste. Bene, tale locuzione è ciò che comunemente viene chiamato "Memento mori":
un "ricordati che devi morire". Prima di entrare nel gergo comune, però, il memento mori era una una locuzione d'uso
rituale nell'antica Roma: quando un grande guerriero tornava vittorioso da una campagna, accoglieva gli onori delle
folle e, per evitare che la superbia lo sopraffacesse, si incaricava un servo di intimargli: "Memento mori".
Ecco dunque perchè è rappresentato un giullare! Perchè il giullare di corte era l'unico uomo che poteva parlare al
potere e sbeffeggiarlo con canzonette senza correre il rischio di esser punito. Il giullare della rappresentazione è pro-
prio il corrispondente di quell'umile servo che nell'usanza del memento mori era abilitato a ricordare ai potenti quanto
fosse effimera la grandezza per la quale tanto smaniavano. L'intera opera è dunque un monito ai potenti. Per riuscire
a capire se ci sia un destinatario ben individuato del messaggio e se la rappresentazione sia stata prodotta in segui-
to ad un preciso evento storico, ci sarebbe bisogno di svelare quantomeno il mistero del luogo e dell'autore della rap-
presentazione, ma ahimè non ne siamo in grado. Però da qualcosa forse si potrebbe partire, magari dalla proiezione
utilizzata per il planisfero, esaminado a fondo la carta e dal nome inventato nella firma dell'autore in alto a sinistra.
Ma credo che questo porterebbe ad un immaginare troppo ardito.
Dopo aver operato tutta questa ricostruzione però, un pensiero mi ha sfiorato con malizia: e se il messaggio fosse
asservito ad un sgnificato esattamente opposto rispetto a quello che abbiamo individuato? Se invece di essere una
frecciata ai potenti per bocca di un giullare, fosse uno scherzo creato dai potenti per sbeffeggiare chi li taccia di va-
cuità? Con un pò di immaginazione si potrebbe suggestivamente pensare che il giullare stia ad indicare lo scherzo in
atto (perpetrato disseminando simboli e castronerie sullo spirito qua e là), mentre la carta sulla faccia dello scherzo
potrebbe significare: pensate che siamo vacui ed effimeri? Fate pure, ma il mondo è nostro.
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L’ambiente naturale e la geopolitica: storia e prospettive - di Michael Mikulewicz (Risiko) -


13.02.2011

Il passato
L’ambiente da sempre è stato uno dei fattori più importanti nello sviluppo della civiltà umana. Le condizioni ambien-
tali favorevoli hanno permesso la fioritura delle civiltà babilonese ed egiziana (l’agricoltura fluviale), dei greci e dei
romani antichi (il clima mite e buone condizioni agricole). Per converso, l’uso irresponsabile delle risorse naturali ha
portato il declino delle società maya e dell’Isola di Pasqua, in ambi i casi dovuto al disboscamento eccessi-
vo. L’importanza delle risorse naturali nei periodi storici successivi è rimasta inoltrata dal tempo, dallo sviluppo tec-
nologico e dalle ideologie e religioni prevalenti. Le considerazioni ambientali erano sempre alla base dei piani strate-
gici durante le guerre, sia piccole sia mondiali, come per esempio l’avanzata dei tedeschi a Stalingrado durante la
Seconda Guerra Mondiale, che avrebbe potuto aprire loro la porta al petrolio e al gas del Caucaso. Oppure, la de-
sertificazione e la siccità in Darfur e l’abbondanza delle risorse naturali come il petrolio nel Sudan del Sud sono
all’origine dei conflitti in questo paese...e molti altri esempi analoghi. Come si può notare, la nostra civiltà è fondata
sull’ambiente. E precisamente, per questo può anche autodistruggersi.

Il presente
Oggi il problema ambientale che non lascia dormire i politici in tutto il mondo è il cambiamento climatico. Sono ormai
passati i tempi quando l’autenticità del riscaldamento globale era soggetto al dubbio, o addirittura allo scherno, della
comunità internazionale. Nel 2007, il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) sotta la
bandiera delle Nazioni Unite ha rilasciato un rapporto sconvolgente in cui ha dimostrato quasi con certezza che i mu-
tamenti che stiamo osservando su tutti i continenti sono infatti antropogenici. Le anomalie meteorologiche di qui sia-
mo testimoni quest’inverno – inondazioni nella Repubblica Ceca e in Germania, le piogge eccezionalmente forti in
Italia e nel resto del Mediterraneo, una delle più severe siccità mai registrate in Cipro (tutte simultanee), e il più re-
cente attacco delle tempeste di neve in tutti gli Stati Uniti eccetto le caldissime California e Florida – stanno per di-
ventare la norma. Per fortuna, oggi sono chiamati "folli" coloro che non credono nel fatto che il nostro sviluppo eco-
nomico abbia causato dei cambi irreversibili del clima terrestre. Una delle manifestazioni di questo cambiamento
d’atteggiamento è la serie delle conferenze internazionali recentemente svoltesi a Copenhagen e Cancún con
l’intenzione di ridurre il livello d’emissione dell’anidride carbonica e altri gas serra in atmosfera. Queste riunioni rego-
lari, convocate conformemente alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC),
avrebbero dovuto darci delle risposte alla domanda su che cosa succede dopo la scadenza del (disgraziato) Proto-
collo di Kyoto. Ci si aspettava parecchio dalla Conferenza di Copenhagen in dicembre 2009 che avrebbe prodotto
un accordo globale sulla riduzione di emissioni. Ma per ragioni diverse tutto è finito in un vicolo cieco.
A Copenhagen, come sempre nel passato, il mondo sviluppato ha rifiutato a impegnarsi nel progetto di limitare le
emissioni. L’ostruzionismo americano, nonostante la presenza di Barack Obama per una breve parte della conferen-
za, e il lobbismo aggressivo dei paesi in via di sviluppo ha praticamente bloccato qualsiasi consenso comprensi-
vo. Come una reazione a catena, la Cina ha dichiarato che, finché Washington non si dedichi alle misure vincolan-
ti, nemmeno Pechino lo avrebbe fatto – una situazione un po’ tragica siccome entrambi i paesi sono i maggiori pro-
duttori dei gas serra nel mondo. La posizione dell’Europa era però diversa. Con la voce più o meno unanime, le
capitali del Vecchio Mondo erano pronte ad investire risorse (anche se limitate e insufficienti) a ridurre le emissioni
ed a assistere il mondo sottosviluppato a riformare le sue economie. Infatti, la cancelliere tedesca Angela Merkel
qualificò come ―Ridicolo!‖ l’atteggiamento di riluttanza dei cinesi. E così, alla Conferenza di Copenhagen non si è
Numero 2 - Febbraio 2011 Pagina 30

raggiunto alcun traguardo reali ed è finita con i capi di Stato che brandivano una dichiarazione d’intesa, senza vincoli
legali. La successiva Conferenza di Cancún ha creato un fondo internazionale che mira a ridurre le emissioni nelle
parti più povere del pianeta attraverso investimenti economici e tecnologici. Comunque, neanche in Messico si è
arrivati alle riduzioni di emissione vincolanti – la chiave per combattere il cambiamento climatico.

Il futuro
Le conseguenze del fiasco in questa battaglia – o addirittura guerra – sono infinite. La scienza ci aiuta a compren-
dere le loro ampiezza e intensità, ma è semplicemente impossibile ad enumerarle tutte – né in questo breve articolo
né in un’enciclopedia. Possiamo dire con certezza che la crescita delle temperature globali avrà degli esiti tremendi
per l’agricoltura. Nel breve periodo, si aspetta che la produzione agraria crescerà grazie al clima sempre più mite,
ma nel lungo periodo, la vegetazione non sarà capace ad adattarsi all’incremento così rapido delle temperature. Si
suppone che i paesi del emisfero australe saranno particolarmente colpiti dalle siccità e dai raccolti scadenti, cau-
sando severissimi problemi sociali ed economici e allontanando sempre di più i poveri dai ricchi. Lo scioglimento dei
ghiacciai in Asia può avere per risultato conflitti internazionali e nazionali, particolarmente fra l’India e il Pakistanche
condividono i fiumi originati dalle nevi perenne nell’Himalaya. L’aumento del livello, della temperatura e dell’acidità
degli oceani avrà delle conseguenze dirette (inondazioni) e indirette (la produzione ridotta di ossigeno). L’Occidente,
il principale responsabile per la destabilizzazione del clima terrestre, sempre si sottrae alle sue responsabilità. É
ovvio che solo i paesi sviluppati dispongono dell’apparato finanziario, politico, e tecnologico per almeno provare ad
arrestare o a rallentare il cambiamento climatico. Ed è ugualmente spaventoso che, per ragioni strategiche molto
miopi, finora non sono stati capaci di arrivare ad un consenso e di guidare il mondo nella sfida più scoraggiante del
nostro secolo.

La battaglia cartografica parte I: sionismo e cartografia - di Prospettiva Internazionale - 12.06.2010

"E. Said ha scritto che israeliani e palestinesi cercano di isolarsi e di dimenticarsi


a vicenda, e a mio avviso questa lucida osservazione evidenzia una costante del
rapporto tra i due popoli che mi pare intimamente collegata al costante fallimento
degli sforzi per trovare una soluzione al conflitto." da Introduzione al ciclo di post
"appunti sulla geografia politica del conflitto israeliano-palestinese" .

Il rapporto tra la rappresentazione dello spazio geografico ed il potere spesso è


un rapporto molto stretto. La carta geografica è un canale che, mediante un lin-
guaggio risultante da processi di selezione, semplificazione, classificazione, sin-
tesi e simbolizzazione effettuati dal cartografo, mira alla trasmissione di messag-
gi riguardanti la realtà esistente, prevista o immaginata. Il passaggio dalla realtà
alla rappresentazione è frutto di una mediazione compiuta dal cartografo che
opera come da filtro tra il reale e l’informazione contenuta ed evincibile dalle carte che realizza. Una carta non deve
essere per forza di cose ―realistica‖ bensì efficace. La rappresentazione cartografica funge dunque come una leva
sull’immaginario del lettore, risveglia un’immagine della realtà.

Non sempre però la carta è "politicamente corretta".

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Pagina 31 CHAOS
Provate ad immaginare quanto possa essere forte l'incidenza di fattori politici sulla produzione di carte geografiche
riguardanti un medesimo territorio rivendicato e abitato contemporaneamente da due contendenti in conflitto. "Un
territorio per due immaginari" potrebbe essere un buon titolo (anche se a pensarci bene è troppo romantico per i miei
gusti) per un libro che affronti il tema della spazializzazione, mediante la rappresentazione cartografica, del conflitto
israeliano-palestinese. Ma questo non è un libro, vogliate dunque capire che non posso soffermarmi e dilungarmi
eccessivamente su questioni di carattere storico.
L'avvicinamento tra il sionismo del tardo '800, in particolare del sionismo generale di Theodore Herzl, alle correnti
ebraiche schierate su fronti antiassimilazionisti (spesso identificate come protosioniste) parve una scelta quasi natu-
rale per il giovane movimento nazionalista che necessitava di un universo simbolico capace di generare mobilitazio-
ne effettiva attorno alla sua causa (oltre che di ingrossare immeditamente le fila di militanti e sostenitori). Si creò
dunque quel particolare amalgama tra nazionalismo e religione (dal cui universo simbolico il sionismo attinse a piene
mani per rafforzare la persuasività della sua causa) che ancora oggi è alla base del carattere politico di Israele non-
ché dell’intera contestualizzazione geopolitica dello stesso.
In principio il luogo sul quale lo Stato ebraico sarebbe dovuto sorgere era un problema di tipo secondario per il sioni-
smo. Ma l'avvicinamento ed il compromesso (vantaggioso in termini politici) con le correnti ebraiche antiassimilazio-
niste portò ben presto alla formulazione obbligata dell'idea che tale Stato poteva essere fondato unicamente in Terra
Santa. Credo sia bene sottolineare per chiarezza, che prima dell'avvento del nazionalismo ebraico ottocentesco non
vi era tra gli ebrei idea o volontà di un ritorno o trasferimento generale in Palestina (Hobsbawm 1990) (n.b. : i sionisti
contemporanei si oppongono a questa tesi), e che, come afferma anche lo scrittore sionista A. B. Yehoshua, il sioni-
smo operò "in un certo senso in condizioni sterili, di laboratorio lontano dall'attrito costante delle forze interne del
popolo ebraico" (Yehoshua 2004) .
Ma sulla terra individuata dai sionisti vivevano da circa diciotto secoli altre popolazioni e quelle lì stanziate al momen-
to in cui il progetto nazionalista ebraico prese vita, la consideravano ormai da generazioni come la loro casa.
Tuttavia per i sionisti la presenza di altri popoli in Palestina era un non-problema. Il nazionalismo ebraico di matrice
occidentale si muoveva pur sempre all'interno dei canoni del colonialismo europeo e dunque "il popolo palestinese
veniva squalificato come barbaro, indolente, venale, dissoluto. Un popolo da fare al più oggetto della 'missione civi-
lizzatrice' dell'Europa e del suo 'colonialismo ricostruttivo'. Un popolo con il quale non era possibile convivere e colla-
borare." (Zolo 2006)
Il sito della National Library of Israel raccoglie al suo interno una vasta collezione (dal '600 alla prima metà del '900)
di carte geografiche della Terra Santa.
Suggerisco al lettore di scorrere le pagine della biblioteca e di osservare come la rappresentazione dei confini della
Terra Santa sia mutata nel tempo fino ad arrivare a coincidere con l'attuale "Great Israel", come la lingua frequente-
mente utilizzata nella toponomastica raccolta sia diventata l'ebraico solo a fine '800, la quasi totale assenza di riferi-
menti alle popolazioni autoctone, la rivivescenza sotto mutate spoglie, tra la fine dell' 800 e fino alle prime tre decadi
del '900 (periodo centrale della colonizzazione ebraica della Palestina), di una tecnica rappresentativa che caratteriz-
za mediante simboli e nomenclatura religiosa lo spazio territoriale. Dico ―riviviscenza sotto mutate spoglie‖ perchè
anche nel '600, nel '700 e in epoche precedenti, ci furono uomini che rappresentarono spazialmente ciò che viene
narrato nelle scritture, ma è facile capire come l'opera cartografica realizzata da un professore francese nei primi del
'700 che raffiguri l'ambito spaziale di quella che è raccontata come Terra Santa nelle scritture, sia sostanzialmente
diversa nello spirito e nelle intenzioni rispetto a quella realizzata dai sionisti che portavano avanti l'insediamento in
Palestina nel quadro del mandato coloniale britannico.
Numero 2 - Febbraio 2011 Pagina 32

Seguono solo alcuni campioni selezionati ma vi consiglio di visitare la sezione "Holy Land Maps" direttamente dal
sito.

1881 Carte politique de la Palestine. ‫ בז דריטע פערבסערטע‬/ ]‫ [חומר קרטוגרפי‬.‫דיא קארטא ארץ ישראל‬
[cartographic material] / Magnenat-Gloor, Geographe. " . 1882‫אויפלאגע פין יצחק יואל ליניעצ י‬Carta di
Israele. [Materiale cartografico] / Beige Dritea
Parvsarta Auiplaga Finn Isaac Joel Linicaki"

1893 "Palestine or the Holy Land from biblical times to 1917


the present day"

1918 ‫ארץ ישראל [חומר קרטוגרפי] לפי המפה העברית של‬ 1925 ‫רשת מפעלי התרבות של הפועלים בארץ [חומר‬
‫קרויזה (הוצאת הועד הפועל הציוני) בהוספות ותקונים‬.‫ א‬- ‫ספיר‬.‫א‬ " ‫ בינצקובסקי‬.‫ קרטוגרף א‬,‫ חסידי‬.‫ סודר ע"י ז‬/ ]‫קרטוגרפי‬Rete
"Eretz Israel [materiale cartografico] da una mappa delle istituzioni culturali che operano nel paese
ebraico Sapir -. A. Akreuze (pubblicato dal Consiglio [cartografia materiale] / organizzato da M. chassidim, un
Generale Sionista) " cartografo. Binckovsky"
Segue all’altra pagina —>
Numero 2 - Febbraio 2011 Pagina 33

In Palestina la battaglia cartografica non si è fermata allo Yishuv. In seguito alla costituzione dello Stato di Israele nel
1948 e alle guerre arabo-israeliane che ne sono seguite, la geografia politica del territorio si è nettamente complicata
generando nuovi piani di rappresentazione per le parti in conflitto. Di questo parleremo in un post successivo.

QUESTA RACCOLTA DI ARTICOLI PUBBLICATI SU Hanno scritto per BloGlobal:


“BLOGLOBAL”, “RISIKO -GEOPOLITICA E DINTORNI” E
“PROSPETTIVA INTERNAZIONALE” NON RAPPRESENTA Eleonora Ambrosi
UNA TESTATA GIORNALISTICA, PERTANTO NON PUÒ Giuseppe Dentice
CONSIDERARSI UN PRODOTTO EDITORIALE AI SENSI DEL- Gianpiera Mancusi
LA LEGGE N. 62 DEL 7.03.2001. Maria Serra

PUBBLICAZIONE DISTRIBUITA SOTTO LICENZA.


Hanno scritto per Risiko:

Alessandro Badella
Domenico D’Alessandro
Michael Mikulewicz
Eleonora Peruccacci

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http://prospettivainternazionale.blogspot.com

Impaginazione a cura di Maria Serra;


Copertina a cura di Alessandro Badella e Maria Serra.

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