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Thomas Campaner

Ritornello e suono organizzato

I fantasmi sonori di Gilles Deleuze

(Rizhome)
Indice

§ 1. Claim e concetto

§ 2. Contro Platone: una cosmologia della differenza

§ 3. Modello e struttura: dal Go agli scacchi

§ 4. Sul ritornello

§ 5. Varèse via Artaud: suggestioni deleuziane

§ 6. Hyperprism: differenza e ripetizione

§ 7. Ionisation: forma e ritmo

§ 8. I fantasmi sonori di Gilles Deleuze

2
§ 1. Claim e concetto

Sul finire degli anni settanta, in occasione dell'uscita del secondo volume di
Capitalismo e Schizofrenia, Gilles Deleuze ha formulato un interesse esplicito per il
tema musicale che non trova precedenti né nella produzione personale, né in quella
del co-autore Felix Guattari 1 .
I Cours de Vincennes del '78, fortunata vetrina multimediale di quell’ultimo
impegno – sforzo, appunto, tanto filosofico quanto teatrale e sonoro - sono oggi un
ottimo punto di partenza per cogliere la portata di questa suggestione, in accordo con
le conferenze su tempo e ritmo tenute contemporaneamente a l'Ircam. Se è ingiusto
tracciare con queste fonti una rivoluzione negli interessi deleuziani – e dunque, per
opportunità, rimandiamo in tutto e per tutto all’esistenza di un Deleuze già
‘codificato’ 2 – la loro disponibilità suscita un punto centrale per l’aggiornamento di
una filosofia della musica. Beninteso, in questo percorso non può certo nascondersi
un certo approccio naif verso un ultimo Deleuze oggi disponibile in audio e video,
tanto da ammettere subito un germe caotico e metaforico nel chiasma tra senso,
mimica e sonoro, così che tra il concetto filosofico, l’esempio musicologico e la
presenza ‘viva’ della voce del filosofo sembrano agire nei commenti contemporanei
derive tutt’altro che teoretiche, propensione che ben si specchia nel recente affollarsi
di pubblicazioni su Deleuze e la musica 3 .

1
Così, proprio le rivoluzioni proposte dalla filosofia di Millepiani – Capitalismo e
schizofrenia 2, organizzati nel testo appunto in maniera ‘rizomatica’, possono essere
letti, sia da un punto di vista linguistico che concettuale, alla luce di uno dei capitoli
centrali, ossia quello dedicato al musicale. Pur mirando a scegliere fonti meno
convenzionali, la citazione di quest’opera è una contestualizzazione e un rimando
doveroso sia all’inizio che alla fine di questo intervento. Per questo, cfr. G.
Deleuze, F. Guattari, Mille Plateaux - Capitalisme et schizophrénie 2, Collection
Critique - Les éditions de Minuit, Paris, 1980, tr. It. a cura di G. Passerone,
Millepiani – Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma, 1996.
Per una biografia completa dell’opera deleuziana cfr. Aut Aut, n. 276, La
Nuova Italia, Firenze, 1996, pp. 173-184 e E. Bazzanella, Il ritornello, la questione
del senso in Deleuze Guattari, Mimesis, Milano, 2005, pp. 181-200.
2
Per una contestualizzazione delle problematiche e dei ‘periodi’ deleuziani
rimandiamo a M. Buydens, Sahara - L’esthétiques de Gilles Deleuze, Vrin, Paris,
1994 e a Jean - Clet Martin, Variation - La philosophie de Gilles Deleuze,
Bibliothèque scientifique Payot 1993. La scelta, dovuta tanto al taglio manualistico
degli interventi quanto alla loro pubblicazione recente, non vuole escludere sintesi
autorevoli e precedenti, quali quelle di Michel Foucault, scritti che hanno certamente
facilitato il processo di dogmatizzazione del filosofo francese. Su questo, cfr.
M.Foucault, Ariane c’est pendue, Le Nouvel Observateur n°229; 31 marzo - 6 aprile
1969; pp. 36-37 e M. Foucault, Théatrum Philosophicum, Critique, novembre 1970.
3
Il fenomeno, che non puo' ricevere in questo articolo un'analisi corretta, va
perlomeno introdotto attraverso la citazione di due dei testi del panorama più recenti
ed diversi tra loro, interventi caratterizzati dalla pratica di costruire chiavi
ermeneutiche sprovviste di un'analisi della genesi problematica di concetti, genesi
situata nella teoria musicale. Cfr. M. Swiboda, Deleuze and music, Edinburgh
University Press, Edinburgh, 2004.R. Paci Dalò, E. Quinz, Millesuoni. Deleuze,
Guattari e la musica elettronica, Edizioni Cronopio, Napoli, 2006. Il nuovo ramo di
studio, centrale per la promozione dell'opera deleuziana, ricalca cosi la pratica
ambigua dell'autore stesso di escludere il riferimento alla teoria musicale. Sulla
seguente difficoltà nella ricerca di un Deleuze/filosofo della musica cfr. anche m.
Buydens, Sahara - L’esthétiques de Gilles Deleuze, op. cit. e R. Bogue, Deleuze on
music, painting and the arts, Routledge, New York, 2003.

3
D’altronde, è forse proprio il ‘fare filosofia’ di Deleuze a non poter allontanare il
rischio di un simile atteggiamento e accoglienza del messaggio prodotto,
specialmente nel caso del nuovo interesse musicale condiviso con il co-autore
Guattari. In particolare, l’attività ‘creatrice di concetti’ deleuziana4 - asse e senso di
ogni produzione filosofica 5 - si è abilmente nutrita di questa possibilità di
fraintendimento o deferenza, esprimendo i propri risultati attraverso dei Claire;
lasciando insomma altrove – nel musicale, in primis - lo sfondo teorico, facendo
altrimenti convergere nello slogan un concetto-sintesi sia del problema filosofico
irrisolto, quanto della sua soluzione definitiva.
In questa ambiguità delle formulazioni deleuziane – e, appunto, felicità retorica -
spiccano i termini che con maggior frequenza vengono evocati nel corso delle lezioni
e conferenze tra il 1977 e il 1980: dal ritornello agli affetti ripercussivi, dai blocchi
musicali alle sintesi metalliche, fino alle connessioni extra-musicali tra unidose,
identità e melodia, o – ancora - ritmo, tempo e divenire. Su tutto, emerge l’istanza
persuasiva di poter produrre, attraverso l’opera musicale di Edgard Varèse, un
esempio della propria posizione filosofica, rilevando dal sistema dei termini varesiani
– e, successivamente, lucreziani 6 – un dizionario atto a produrre costruzioni ed
esplicazioni valide per l’extra musicale.
La liceità di questa operazione è chiara: nell’inesistente sistema delle arti –
apparato definitivamente scardinato proprio da Mille piani - ogni espressione
artistica particolare non solo non è più subordinata a una gerarchia, ma è in sé libera
di un confronto inter parse con la filosofia 7 . Essendo quest’ultima, come visto,
essenzialmente attività “creatrice di concetti”, nulla vieta che questa genesi si svolga
per effetto dell’incontro con una singola arte, e – più frequentemente nel caso
deleuziano – attraverso la suggestione o, appunto, la persuasività e l’aderenza di un
particolare concetto prodottosi in ambito artistico per risolvere le proprie
problematiche filosofiche.

In questi termini è tutt'altro che sconveniente per Deleuze e Guattari formarsi un


sistema di concetti che tragga la sua base dalle conquiste della teoria musicale, così
come è lecito assumere tali concetti come conquiste filosofiche, riportandole l'ultima

4
Per questa definizione di filosofia e il rapporto implicato nello specifico sia con
l'affermazione del concetto che con l'arte cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Qu'est-ce que
la philosophie?, Collection " Critique " - Les éditions de Minuit, Paris, 1991, tr. It a
cura di A. De Lorenzis, Che cos'è la filosofia?, Einaudi, Torino, 2002.
5
Ibid.
6
Sulla genesi varèsiana della terminologia musicale di Deleuze cfr. R. Bouge,
Deleuze on music, painting and the arts, op.cit. Nelle stesse pagine, l'influsso,
anch'esso mediato dall'esperienza varèsiana, dell'apparato concettuale elaborato dal
compositore contemporaneo Pierre Boulez.
7
Come ricorda Mireille Buydens, ciò risponde perfettamente alla più ampia
concezione della filosofia della differenza deleuziana: l’assenza di un arte fatta
sistema è insomma l’opposto di un’Arte che subordina le proprie espressioni
particolari. Ciò di cui realmente si può parlare è dunque solo il diverso presentarsi
dei problemi rispetto a ogni ambito artistico. Del musicale ad esempio non
potremmo dire che è subordinato a un’altra disciplina estetica – pur trovando minor
trattazione negli scritti deleuziani – né al tempo stesso è superiore – anche se talvolta
intrattiene un rapporto privilegiato con l’attività filosofica. Se questa è
deleuzianamente creazione di concetti, occorrerebbe dunque affermare che essi
possono declinarsi esemplarmente, in maniera originale, nel musicale come in ogni
autonomo dominio artistico. D’altronde, ricordando ancora l’analisi della Buydens,
il tratto essenziale della concezione estetica deleuziana è la multisensorialità: si
potrebbe dunque dire che ogni dominio è indipendente, ma è pensato anche
attraverso zone di analogia, è insomma oggetto di reversibilità concettuale.

4
ed efficace formulazione all'interno del discorso teoretico, tacendo sulla realtà
diversamente complessa del loro ambito genetico.
Così le formulazioni più fortunate di questi anni, coerenti e fondate rispetto al
sistema deleuziano, possono essere comprese nella misura in cui si tenti di sfocare la
loro formulazione ultima – o altrimenti, la loro presa retorica – provando a centrarne
il piano logico; cercando – laddove possibile – il paradosso e la coerenza della loro
diverso grado di invendibilità musicologica e filosofica. Giungere al concetto tratto
dal musicale, e non fermarsi dunque alla forza retorica del suo claim, presuppone non
tanto un'introduzione a un labile Deleuze/filosofo della musica, ma una premessa di
tutto il sistema deleuziano. Solo in questa misura sembra possibile rendere conto di
un'altra autorevole affermazione contemporanea, che vuole la filosofia di Deleuze
centrale per la musica proprio quando non si occupa di questa 8 .

§ 2. Contro Platone: una cosmologia della differenza

Nell’introdurre questi temi diviene centrale l'assenza di un sistema delle arti. Per
il Deleuze di Millepiani l’insieme dei domini espressivi non si organizza infatti in
una struttura gerarchica, né esprime una finalità.
Più precisamente, nell’estetica deleuziana non esiste un concetto di valore dell’arte,
se non nella misura in cui essa possa essere considerata un mezzo per l’apertura alla
vita. In questi termini – doverosamente, ancora da chiarire - l’intenzione potrebbe
essere così espressa: ciò che l’ “arte” designa – e ciò che i singoli domini espressivi
offrono - è il mezzo da cui muovere verso una nuova riflessione circa tutto il
sensibile e, oltre, verso l'esistenza. Può cosi essere introdotta la prima definizione che
Deleuze, insieme a Guattari, offre del musicale. Esso è, in Millepiani, «struttura
aperta che permea ed è permeata dal mondo» 9 . La definizione rimanda da subito a
un luogo ben più classico, ovvero quella visione che lega, fin dall’antichità, musica e
cosmologia.
Così, come nota Roland Bogue 10 , il pensiero deleuziano muove proprio in rapporto a
quel luogo che più felicemente ha espresso l’esigenza razionale di una connessione
armonica fra micro e macrocosmo: ossia quelle filosofie dell’identità che siamo soliti
riferire a Pitagora e Platone e che questi hanno sintetizzato, come noto, anche
attraverso simbolizzazione ed esempi musicali 11 . Eppure la cosmologia a cui Deleuze

8
Cfr. F. Nicolas, En quoi la philosophie de Deleuze peut-elle servir à des
musiciens, même et surtout quand elle ne parle pas de musique ? - Séminaire
Musique & philosophie - (Ens, samedi 28 janvier 2006),
http://www.entretemps.asso.fr/Nicolas/2005.2006/Deleuze.htm.
9
Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e Schizofrenia 2, op. Cit.,
cap. 11, pp. 439-42. Per le citazioni da questo capitolo (Il ritornello) seguiremo
d’ora in poi G. Deleuze, F. Guattari, Il Ritornello, Castelvecchi, Roma, 1997.
10
Roland Bogue, Deleuze on music, painting and the arts,Routledge, op.cit. Nello
specifico, capitolo 1, “Musica naturans: deterritorializing the refrain”, pp.13-21.
11
Con tale prospettiva cosmologica possiamo riferirci, come sembra proporre
agevolmente Deleuze, a una filosofia dell’identico. Con questo viene generalmente
inteso un pensiero che, nel tracciare il tema che risolve il cosmo in reale, si affida a
un modello per cogliere nel sensibile la ripetizione sempre identica di un termine.
Tale ad esempio è il numero pitagorico, dove la musica (microcosmo) condivide
nella propria struttura la più ampia ragione di connessione macrocosmica, come
accade per l’intervallo di quinta ad es: 3:2. Tale carattere assume, nei pitagorici
quanto nel Platone del Timeo, la collaborazione che fra limite e illimitato costituisce
i termini di una realtà ordinata e intellegibile, o, appunto, un cosmo. Ancora, come
noto, in Platone viene mostrato il carattere essenziale di questo movimento proprio a
partire dalla musica: nel Timeo, insieme a matematica e cosmologia, proprio la
musica rende appieno lo statuto ontologico del numero come ideale. Ancora, nella

5
giunge dal dominio musicale è profondamente diversa degli antichi. Essa, in primo
luogo, non individua il modello di connessione micro-macro nel numero, né affida
alla matematica la descrittiva circa i modi del rapporto. Inoltre, a differenza di una
relazione cosmologica costruita su modelli astratti, nega chiaramente una chiave
ermeneutica loicizzante, così come un’interpretazione di stampo meccanicistico di
questa relazione.
La proposta è altra: piuttosto che una connessione astratta – piuttosto che la
ricerca di un modello matematico – la musica esprime il rapporto cosmologico più
nei termini espressivi che strutturali, più attraverso un ordine qualitativo e
morfologico che non meccanico e parametrico. Da una parte, nel corso della storia
del pensiero, si sarebbe dunque palesato un tema capace di sopravvivere,
dall’antichità al Rinascimento, come tesi platonizzante dell’ordine come ricerca del
numero e del modello ideale nel sensibile. Dall’altra invece - ed espressamente nella
cosmologia musicale tracciata da Deleuze - emergerebbe per contrasto una
resistenza, o – altrimenti - un peculiare tipo di rovesciamento.
Tale istanza mira a riabilitare, nel sensibile, un insieme di qualità che sfuggono
alla ricerca del modello numerico, di eccedenti espressivi, insomma di particolarità
che non possono essere ridotte alla logica dell'identico: tutto ciò che era stato
subordinato nella prima tesi. Appoggiandoci ancora all’analisi di Boghe, è possibile
premettere come - sin dalle prime dichiarazioni - la riflessione di Deleuze sulla
musica si esprima quale antitesi della visione platonica, tanto da poter affermare che
l’essenza della musica non deve essere trovata nell'ordine macroscopico delle sfere
celesti, ma nel dominio molecolare del divenire 12 .
Di fronte a queste prime tesi sulla musica diviene essenziale, per non fermarsi
appunto alle definizioni, vagliare il senso dell’opposizione che si e’ tracciata,
trovandone il contesto all’interno dell’apparato logico del filosofo francese. Questo
tentativo può così partire da un testo che non cita mai esplicitamente un problema
musicale, ossia “Rovesciare il platonismo”, appendice di Logica del senso 13 . Il
primo nodo che deve essere esplicitato di questo intervento sta, ancora una volta, nei
termini utilizzati. All'espressione “rovesciare il platonismo” - centrale nella
valutazione cosmologica deleuziana - non corrisponde il luogo classico
heideggeriano di rivoluzione del tema copia/modello, tale per cui, semplicemente, le
espressioni sensibili verrebbero ad occupare il posto storicamente affidato alle idee.
Come esplicitato nel testo, l'intenzione non è un ribaltamento della prospettiva
d'interesse circa il dualismo sensibile/astratto, ma una nuova ramificazione che
ponga nel sensibile una distinzione inedita. Tale istanza non mira così a rivedere lo

Repubblica, il concetto di armonia regge l’ordine sociale e psicologico, tanto che la


stesa filosofia puo’ dirsi attività musicale. Cfr. Platone, Timeo, a cura di G. Lozza,
Mondadori, Milano, 1994 e Platone, Repubblica, a cura di M. Vegetti, vol. I, libro I,
Bibliopolis, Napoli, 1998.
12
Cosi , al capitolo “Musica naturans: deterritorializing the refrain” Bogue
argomenta: In virtually every regard, Deleuze and Guattari’s treatement on music is
the antithesis of the traditional, platonic approach to the subject. In their view, the
comos which music is interwined is not a circumscribed totality but an open whole
whose dimension can never be given as such. The essence of music is to be found
not in the macroscopic order of celestial cucles, but in the molecular domain of
trasverse becomings. The pulsation that playies through music and the world are not
measured recurrences of the Same, but ametrical rhytms of the incommensurable
and the unequal (pp. 13-21).
13
Cfr. G. Deleuze, Logique du sens, Collection " Critique " - Les éditions de
Minuit, Paris, 1969, tr. it. di M. de Stefanis, Logica del senso, Feltrinelli, Milano,
1975. Rispetto al tema del rovesciamento del platonismo cfr. Anche M. Dixsaut,
Contre Platon. Renverser le platonisme, vol II, Vrin, Paris, 1995.

6
statuto ontologico della copia rispetto all'originale, ma a valutare, nelle copie
sensibili, due diversi ordini di adesione al modello stesso. Il primo, fedele, si assicura
lo status di copia imperfetta dell'originale, ma il secondo – detto, appunto, simulacro
– comporta uno scarto dal modello di tipo radicalmente diverso. Così argomenta
Deleuze:

«Motivo platonico: distinguere l’essenza dall’apparenza, l’intellegibile dal


sensibile, l’Idea dall’immagine, l’originale dalla copia, il modello dal simulacro.
Già vedevamo che tali espressioni non si equivalgono. La distinzione si sposta tra
due tipi di immagini. Le copie possiedono il secondo grado, sono pretendenti ben
fondati, garantiti dalla somiglianza; i simulacri sono come falsi pretendenti, costruiti
su una similitudine (...) In questo senso Platone divide in due il campo delle
immagini-idoli: da una parte le copie-icone, dall’altra i simulacri-fantasmi [Sofista,
236 b, 264 c]. Possiamo a questo punto definire meglio l’insieme della motivazione
platonica: si tratta di selezionare i pretendenti, distinguendo le copie buone da
quelle cattive, o piuttosto, le copie ben fondate dai simulacri, sempre corrotti nella
dissomiglianza (...) Il simulacro implica grandi dimensioni, profondità e dimensioni
che l’osservatore non può dominare 14 . ».

Una differenza che rovescia il modello platonico, diventando, paradossalmente,


non un ostacolo al riconoscimento, ma l'unica condizione possibile.
Per comprendere tale situazione Deleuze propone una sintesi incisiva:

«solo ciò che differisce somiglia”, ovvero, solo dalle differenze – e non dalla
somiglianza – noi possiamo giungere al riconoscimento. Consideriamo le due
formule: “soltanto ciò che somiglia differisce”, “soltanto le differenze si
somigliano”. Si tratta di due letture del mondo nella misura in cui l’una ci invita a
pensare la differenza a partire da una similitudine o da una identità preliminari,
mentre l’altra, al contrario, ci invita a pensare la similitudine e anche l’identità
come prodotto di una disparità di fondo. La prima definisce esattamente il mondo
delle copie o delle rappresentazioni: essa pone il mondo come icona. La seconda,
contro la prima, definisce il mondo dei simulacri. Pone il mondo stesso come un
fantasma.
Ora, dal punto di vista di questa seconda formula, poco importa che la disparità
originaria, sulla quale è costruito il simulacro, sia grande o piccola; accade che le
serie di base abbiano soltanto una piccola differenza. E’ tuttavia sufficiente che la
disparità costituente sia giudicata in sé stessa (...): la somiglianza può essere allora
pensata soltanto come prodotto di tale differenza interna. Rovesciare il platonismo
significa allora: far salire i simulacri, affermare i loro diritti tra le icone e le
copie.» 15 .

Che ruolo ha il simulacro – cioè l’eccedente rispetto alla cosmologia platonica –


nel “rovesciare il platonismo”? Deleuze fuga il nostro dubbio iniziale:

«Cosa significa “rovesciare il platonismo”? Così Nietzsche definisce il compito


della sua filosofia, o più in generale, il compito della filosofia dell’avvenire. La
formula sembra voler dire: l’abolizione del mondo delle essenze e delle
apparenze (...). E’ dubbio pero’ che Nietzsche volesse dire la stessa cosa. Inoltre,
tale formula del rovesciamento ha l’inconveniente di essere astratta: lascia
14
Ibid, pp. 225-6.
15
Ibid, p. 230.

7
nell’ombra la motivazione del platonismo. Al contrario, rovesciare il platonismo
deve significare far emergere tale motivazione, “braccare” tale motivazione –
come Platone bracca il sofista.» 16 .

A chiarificare l’argomentazione è intervenuto anche Multicaule, a un anno dalle


parole di Deleuze, in uno degli scritti che ha aumentato l'interesse nei confronti
del sistema di pensiero di quest’ultimo. Foucault nota come rovesciare il
platonismo sia l’obiettivo di ogni filosofia, soprattutto di quelle tanto anti
platoniche quanto vincolate attorno a un “centro di odio e desiderio” 17 . La
negazione di Platone non sembra seguire questa matrice per Foucault; rovesciare
il platonismo comporta qui spostarsi insidiosamente in esso, discendere di un
gradino, giungere sino a quel piccolo gesto che esclude il simulacro 18 . La
resistenza all’identità presentata dal simulacro: questo sembra essere il nodo
centrale del rovesciamento. E’ il simulacro a essere oggetto di selezione e
svilimento da parte del pensiero platonico – o meglio, sintonizzante – e non tutto
il sensibile. In questo Deleuze non crea nessun para-platonismo né semplice
rivoluzione delle posizioni, ma introduce una terza ricerca, questa volta orientata
alla ricerca dello statuto di tutto ciò che nel sensibile sembra mostrare la minor
penetrazione del tema del modello, riabilitandone la centralità nel processo di
costruzione identitaria e riconoscimento.
Come vedremo, questa premessa o scelta ermeneutica verrà tradotta da Deleuze,
senza variazioni, all’interno del discorso musicologico, dove verrà ricercato un
esempio proprio di quel divenire “sovversivo”, “abile a schivare l’uguale, il
limite, il Medesimo e il Simile: sempre il più e il meno a un tempo, ma mai
uguale” 19 .

§ 3 Modello e struttura: dal Go agli scacchi

Per comprendere la riabilitazione di quegli elementi che non trovano spazio nel
tema modello/copia occorre provar a far luce su un altro rapporto. In particolare,
riconsiderare l'argomento svolto non più in relazione alla filosofia classica o al
tema dell’identità e armonia platonica, ma in un confronto con uno dei sistema di
pensiero storicamente più vicino al filosofo francese, ossia lo strutturalismo. Nel
farlo, necessitiamo comunque di riproporre una premessa sulla cosmologia
anatematizzante, luogo che potrebbe sintetizzarsi in uno dei frammenti più
rilevanti di Filolao da Crotone: «tutte le cose hanno numero, perché non è
possibile che alcuna cosa si possa spiegare o essere conosciuta senza di
questo.» 20 .
Secondo l’interpretazione offerta Carl Huffman il concetto “numero” gioca qui,
classicamente, nella duplice veste gnoseologica e cosmologica. Esso in primo
luogo risulta centrale per risolvere un problema epistemologico: affermare che le
cose “hanno numeri”, sembra escludere una chiave di lettura numero-essenza (le
cose sono numeri) , e un semplice “poter essere contato”. Nello specifico rimanda
16
Ibid, pp. 223-246.
17
M. Foucault, Theatrum Philosophicum, in Critique, 282, 1970, pp. 885-908; tr.
it., Theatrum Phlosophicum, in G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Il Mulino,
Bologna 1971, pp. VII-XIV.
18
Ibid.
19
Cfr. G. Deleuze, Logica del senso, op. cit., p. 226.
20
Per l’interpretazione di questo frammento cfr. C. Huffman, Philolaus of Croton,
Cambridge University Press, 1993

8
a un “possedere un ordine o una struttura che può essere specificata in termini di
relazioni fra numeri” 21 . Insomma, nell’interpretazione che Huffman propone di
Filolao, dire che qualcosa ha numero equivale ad attribuire a questo “una struttura
descrivibile in termini matematici” 22 . Le cose hanno un ordine che può essere
riscontrato nei loro rapporti (“conosciamo qualcosa solo quando ne individuiamo
le relazioni fra le varie parti” 23 ).
Questo rapporto rimanda alla descrizione della posizione di elementi
strutturali, come nel caso dell’ottava, questa infatti viene conosciuta nel momento
in cui possiamo specificare gli intervalli che la costituiscono e le relazioni che
intercorrono, esprimendoli appunto attraverso numeri. Sinteticamente, la lettura
strutturalista del frammento di Filolao porta a concepire la tesi della tradizione
occidentale come l’astrazione dal sensibile verso appunto la struttura descrivibile
numericamente. Staremmo allora proponendo anche l’ortodossia di un rigido
strutturalismo, per il riconoscimento di una data struttura si dà con il costituirsi di
una relazione esprimibile tra unità la cui rilevanza centrale non è data dalla qualità
(o dalla loro storia), ma appunto dalla prospettiva sincronica delle relazioni che
esprimono. Rispetto a tale impostazione la posizione deleuziana, nonostante la
critica all’impianto sintonizzante precedentemente citato, non segna
un’opposizione netta.
Potremmo affermare con certezza quasi assoluta che nessuna delle pagine del
filosofo francese abbia mai affrontato un tema come l’ottava , che Deleuze non
abbia pressoché mai assunto la teoria musicale a modello di confronto delle
proprie costruzioni e che, infine, il particolare tipo di strutturalismo espresso non
si sia mai opposto totalmente all’indagine proposta, ma, semmai, l’abbia utilizzata
- come nel caso del rovesciamento del platonismo – per tracciare altre vie di
ricerca.
Così sintetizza Ramirez: «in base alla radicale ed eterodossa concezione
deleuziana, lo strutturalismo non stabilisce un’opposizione irriducibile fra strutura
ed evento” cioe’ non subordina il rapporto fra diacronico e sincronico “secondo
una semplice relazione di causalità l’uno sull’altro» 24 ; come per il platonismo, la
prospettiva strutturalista di Deleuze non mira a un’immagine semplificata del
metodo, né tanto meno a un infortunio che porti lo strutturalismo stesso ad
appiattirsi su un determinismo fiscalistico o formalismo soggettivistico 25 .
La peculiare ricerca strutturalista in questione è, ancora una volta, ricerca della
differenza che mette in campo certamente un’idea di riconoscimento della
struttura, ma che nel farlo non sembra ripercorrere l’ipotesi evidenziata da
Antimuffa, o, volendo essere fedeli alle parole dell’autore: «intraprendere
avventure analoghe al pensiero antico.». 26
Allo strutturalismo si chiede dunque attenzione alla differenza, un’indagine che
possa insomma essere, lontano dalla ricerca sintonizzante, “rivoluzione

21
Ibid, The study of number has become equivalent to the study of structure of the
cosmos in so far as it can be expressed in mathematical relationship, p. 73.
22
Ibid.
23
Ibid, Philolaus is arguing that we only really undestand something when we
undestand the structure of the relationship between is various parts.
24
Cfr. M.T. Ramirez: Deleuze e la filosofia, in Annuario di itinerar filosofici 4,
Strutture dell’esperienza II. Piacere, dolore, senso, Mimesis, Milano, 2000.
25
Ibid.
26
Cfr. G. Deleuze, A quoi reconnait-on le structuralisme? In Histoire de la
philosophie, Idées, Doctrines, vol. 8 – Le Xxe siècle, Hachette, Parigi, 1973, tr. It. F.
Chatelet, Storia della filosofia, vol VIII, Rizzoli, Milano, 1973 e G. Deleuze, Lo
strutturalismo, Rizzoli, 1997, Milano.

9
permanente” 27 . Il percorso strutturalista è così chiamato a non intraprendere un
percorso di selezione verso l’identico, né di idealizzazione della struttura. Essa va
considerata invece nella propria prospettiva dinamica, come processualista
costituente in perenne conflitto. Se la generalità del programma strutturalista si è
spesso semplificata nell’immagine della scacchiera lussuria, il movimento
descritto da Deleuze si rende possibile focalizzando invece l’esistenza di una
paradossale casella vuota 28 . Quale eterodossia strutturalista si manifesta con una
casella vuota?
Ogni unità strutturale deve avere per definizione una posizione. Al contrario, la
“casella vuota” della struttura – l’unica che permetta realmente un pensiero
strutturalista – è un grande mobile 29 .
I termini simbolici, i rapporti differenziali fra le serie vanno dunque concepiti
come lo strutturarsi attorno a un’incognita, un evento. Solo rispetto a questo extra
strutturale si può organizzare una struttura, cioè solo a partire da un oggetto
sempre spostato rispetto a se stesso, poiché “manca del suo posto”, “manca alla
propria somiglianza”, “manca alla propria identità” 30 . D’altronde, proprio nel
capitolo che in Mille piani segue la riflessione sul musicale (Trattato di
Nomadologia) Deleuze individua il proprio strutturalismo eterodosso proprio in
un gioco opposto agli scacchi saussuriani: ossia il Go, il gioco che meglio
rappresenta una perenne battaglia di strutture, organizzata però a partire dalla
centralità dell’evento singolo e particolare.
Nel Go le pedine sono certamente unità strutturali simili ai pezzi della
scacchiera lussuria, ma il loro concatenamento permette che una sola pedina possa
– improvvisamente – diventare casella vuota, annientando sincronicamente tutta la
concatenazione strutturale: non una struttura dell’idea sintonizzante, ma una
struttura dell’evento. In questo, come sempre, Deleuze si propone in un discorso
ibrido, dove l’argomentazione si intreccia con la persuasione per immagini. Così, i
pezzi degli scacchi non smettono di rimandare inizialmente a un rapporto ideale.

«I pezzi degli scacchi sono codificati, hanno una struttura interna o proprietà
intrinseche, da cui derivano i loro movimenti, le loro situazioni, i loro affollamenti.
Sono qualificati, il cavallo resta un cavallo, il fante un fante, il pedone un pedone.
Ciascuno è come un soggetto d’enunciazione, il giocatore stesso o la forma
d’interiorità del gioco.» 31 .

Al contrario, la spersonalizzazione nel Go è inizialmente totale, fatto salvo per


l’emergere, appunto, di un evento:le pedine del Go invece sono grani, pasticche,
semplici unità aritmetiche, non hanno una funzione se non anonima, collettiva o in
terza persona (...) sono elementi di un concatenamento macchinino non soggettivo.
Cosi che:

«I pezzi degli scacchi mantengono rapporti biunivoci gli uni con gli altri: le loro
funzioni sono strutturali. Invece una pedina del Go ha soltanto un campo
d’esteriorità o rapporti estrinseci con nebulose, con costellazioni, in funzione dei
quali assolve ruoli di inserimento e di situazione, come fiancheggiare, accerchiare,

27
Ibid, p. 45-55
28
Ibid.
29
Ibid, p. 45-6.
30
Ibid, p. 47
31
Ibid, p. 79

101
far esplodere. Una pedina del Go, da sola, può annientare sincronicamente tutta una
costellazione, mentre un pezzo degli scacchi non può farlo.» 32 .

§ 4 Sul Ritornello

I due motivi deleuziani – rovesciamento del platonismo e strutturalismo


eterodosso – diventano centrali per comprendere la riflessione musicale.
Per iniziare a dare un contenuto alla generalità di questa tesi è necessario partire
dall’unità minima del discorso musicale deleuziano. Questa, rintracciabile in Mille
piani, è rappresentata dalla nozione di Ritornello.

1. Nel buio, colto dalla paura, un bambino si rassicura canticchiando.


Cammina, si ferma al ritmo della sua canzone. Sperduto, si mette al sicuro come
può o si orienta alla meno peggio con la sua canzoncina. Essa è come l’abbozzo,
nel caos, di un centro stabile e calmo, stabilizzante e calmante. Può accadere che
il bambino si metta a saltare, mentre canta, che acceleri o rallenti la sua andatura;
ma la canzone stessa è già un salto: salta dal caos a un principio di ordine nel
caos, e rischia di smembrarsi in ogni istante 33 .

2. Adesso, invece, siamo a casa nostra. Ma casa nostra non è preesistente: si è


dovuto tracciare uno spazio limitato. Intervengono parecchie componenti molto
diverse (…) per l’organizzazione di uno spazio (…). Ecco che le forze del caos
sono tenute all’esterno nei limiti del possibile,mentre lo spazio interno protegge le
forze germinative di un compito da assolvere, di un’opera da fare. C’e’ qui tutta
un’attività di selezione, di eliminazione, di estrazione, affinché le intime forze
terrestri, le forze interne alla terra, non vengano sommerse, affinché possano
resistere o, anzi, possano attingere qualcosa dal caos attraverso il filtro o il vaglio
dello spazio tracciato. Ora le componenti vocali, sonore, sono molto importanti:
un muro del suono, in ogni caso un muro in cui alcuni mattoni sono sonori. Un
bambino canticchia raccogliendo in sé le forze necessarie per i compiti che deve
fare (…) (qui) un errore di velocità, di ritmo o di armonia sarebbe catastrofico,
perché distruggerebbe il creatore e la creazione riportando le forze al caos (…) 34
3. Adesso, finalmente, si comincia ad aprire il cerchio, lo si apre, si lascia
entrare qualcuno, si chiama qualcuno, oppure si esce, ci si getta verso l’esterno.
(…) ci si lancia, si rischia un’improvvisazione. Ma improvvisare, è raggiungere il
Mondo e confondersi con esso. Si esce di casa al suono di una canzonetta. Sulle
linee motrici, gestuali, sonore che indicano il percorso abituale di un bambino,
s’innestano o iniziano a germogliare delle “linee di erranza”, con anelli, nodi,
velocità, movimenti, gesti e sonorità differenti. 35
4. Tratto questo lungo passaggio, la prima notazione sembra dover riguardare
il ruolo della divisione episodica (1,2,3), questa, come puntualizzato dagli stessi
autori, non risponde a un processo della frase musicale, ma a una tripartizione
sincronica: lo stesso movimento che impone contemporaneamente tre diverse
forme di riflessione. Sceglieremo cosi di introdurre la nozione di Ritornello
guardando al contesto in cui emerge: (1) esso propriamente si distingue dal caos,
cioè viene a rappresentare una qualche serie musicale che è possibile forse

32
Ibid.
33
G. Deleuze, F. Guattari, Sul Ritornello, op. cit. p. 5.
34
Ibid, p. 6.
35
Ibid, p.7.

111
denominare frase, pattern, elemento comunque intelligibile e dunque ordinato.
Questo tipo di ordine si palesa come un certo grado di intelligibilità spaziale.
Potremmo dunque dire che il Ritornello, per prima cosa, agisce: crea uno spazio
sonoro, ritaglia una figura (abbozza un ritmo/codice) stabile. In questo senso il
Ritornello è paragonato al canto degli uccelli,cioè a una delimitazione spaziale.
La seconda riguarda il modo attraverso cui questa spazialità è tracciata: (2) il
ritornello è propriamente la risultante di un certo incontro di forze fisiche (terrestri)
che si sottraggono al caos e in qualche modo si compongono originando la frase
musicale. Tale operazione, rischiosa, è appunto sempre sul punto di potersi
interrompere. In questo caso le forze (organizzate per ritmi, altezze, velocità)
semplicemente tornerebbero nel caos senza un abbozzo di forma, senza aver appunto
chiuso il cerchio, la figura.
Aver chiuso la figura non è il fine del ritornello, ma solo un aspetto: (3) esso
infatti, arginato il caos attraverso l’emergere espressivo, abbandona presto lo spazio
che ha tracciato. Il Ritornello è in qualche modo un composto di forze mobile che
trascende il proprio luogo (milieu) per aprirsi, appunto gettarsi all’esterno. Fuori dal
cerchio del Ritornello vuol dire propriamente fuori da un certo ambiente, ovvero
fuori da un blocco di spazio-tempo «costituito dalla ripetizione periodica della
componente» 36 . E’ una cesura, come propriamente un salto aveva creato il primo
cerchio, ma non è un ritorno al caos, bensì un movimento verso il futuro.
Il Ritornello, come unità minima del musicale, è in qualche modo, come
accennato prima, in stretto contatto con una cosmologia. Esso è infatti un principio di
ordine, attività che non può però essere ricondotto all’ordine pitagorico e platonico.
Diversi punti rendono l’impossibilità di questa operazione. In primo luogo
l’ambiente che viene a costituirsi dallo sviluppo del Ritornello è qualcosa che non
smette mai di dire del materiale, è appunto ambiente vibratorio 37 , ambiente che dice
delle diverse fonti sonore che lo hanno prodotto. Deleuze lo chiarisce tripartendolo:
all’esterno esso rinvia ai materiali; all’interno rinvia agli elementi di composizione e
alle sostanze composte, a uno stadio intermedio rinvia a una membrana 38 . Ora tutti
questi termini, estremamente attenti nel rendere la portata corporea, sono termini di
cose che agisce fisicamente nel Ritornello. Lo stesso contenuto di quel “tra-la-la”
del bambino che canta, che Deleuze riferisce essere un codice 39 , non va propriamente
letto in termini matematici. Esso certamente rappresenta ciò che si ripete a una certa
velocità, ciò che, periodicamente ripreso, arriva a creare una stabilità (ritmica,
armonica). Tale movimento, come spero diventerà chiaro, è però volto a qualcosa
che dice dell’espressivo, della qualità più che all’astratto numerico.
Per provare a farvi luce, occorre continuare a seguire il movimento del
Ritornello. Farlo vuol dire introdurre il concetto di differenza ambientale: ogni
ambiente (ogni muro di suono) è il risultato di un ritmo particolare, ma ogni ritmo è
in qualche modo in comunicazione con più ambienti (ora chiamiamo qualcuno
dentro, ora ci gettiamo fuori). Esso dunque è già potenzialmente legato a un
ambiente diverso, può uscire dal cerchio perché in qualche modo i codici periodici
trasudano.
Ora, se il Ritornello è l’unità minima del musicale, esso non è però ancora musica;
per diventarlo occorre che rompa il cerchio, che attraverso un riconoscimento (una
decodificazione) stabilisca un legame con un’altra frase, un altro ritmo. Insomma si
scomponga al fine di fare emergere delle qualità espressive, superare l’ambiente, far

36
Ibid, p. 7 e sgg.
37
Ibid.
38
Ibid.
39
Ibid.

121
emergere il territorio 40 . Gli autori affermano che con questo termine dobbiamo
propriamente intendere: “l’atto del ritmo divenuto espressivo o le componenti
dell’ambiente divenute qualitative” 41 . Cioè dobbiamo in sostanza attendere che i
singoli ritmi-ambiente si aprano e combino espressivamente per avere una musica,
un’opera d’arte; da qui giungeremo appunto a una firma, una territorializzazione 42 .

Ottenere un territorio “giungeremo a un’appropriazione” 43 , ma questa, come il


primo ambiente, è tutt’altro che stabile. Non dobbiamo infatti dimenticare, in questa
creazione di un cosmo, il ruolo che ha avuto il caos.
Va infatti ricordato come il bambino sia riuscito a organizzare dal caos un
Ritornello; occorre dunque ammettere che solo dal caos si è arrivati al territorio
perché le forze di aggregazione qualitativa erano già contenute nella forma non
organizzata e su questa, in qualche modo, possono precipitare nuovamente. Dal
territorio possiamo dunque muovere nuovamente, deteritorializzarci in virtù di una
reversibilità fra il suono, la frase cosi organizzata e le sue caotiche fasi di
costituzione. Di più, per Deleuze, solo quando ci affranchiamo nuovamente da un
territorio otteniamo la musica migliore, cioè nel momento in cui si deterritorializza il
ritornello.
Abbiamo ora una seconda definizione da affiancare alla prima e più generica. La
musica è dunque una struttura aperta al mondo, struttura che però è predisposta a un
movimento specifico, ossia la deteritorializzazione del ritornello. Ma cosa comporta
questa operazione? Proponiamo un confronto più ampio con le suggestioni
deleuzianeò

§ 5 Varèse via Artaud: motivi deleuziani

«Al mio caro Edgard Varèse di cui amo la musica senza averla ascoltata e
perché ascoltarvi parlare della musica me l’ha fatta sognare. E perché so che della
vostra musica in rivolta noi tutti potremmo attenderci un nuovo assetto del mondo.
Affettuosamente, Antonin Artaud.» 44 .

Annotata su una copia di Eliogabalo o l’anarchico incoronato 45 , la dedica di


Artaud riassume due tratti essenziali della figura del compositore francese. In primo
luogo essa certifica un aspetto centrale della poetica varèsiana, ovvero la felicità
retorica degli scritti sulla musica. Questi, lungi dal rappresentare un mero corollario
di aneddoti biografici o tecnici, intrattengono una contesa vivace con l’opera stessa.

40
Ibid.
41
Ibid.
42
Ibid.
43
Ibid.
44
La storia dei rapporti fra Edgard Varèse e Antonin Artaud è riportata in
F.Oulette, Edgard Varèse, op.cit. Si può inoltre fare riferimento al tentativo di
progetto comune, p.126-27, denominato l’Astronome. Su questo la bozza progettuale
è riportata in Edgard Varèse. Il suono organizzato, BGM Ricordi, Milano, 1985, pp.
65-66.
45
A. Artaud, Heliogabale ou l’anarchiste couronné, , Gallimard, Paris, 1967 (tr.
italiana di Albino Galvano Eliogabalo, o l’anarchico incoronato, Adelphi, Milano,
1969). Su questa dedica cfr AA VV, Festival, Edgard Varèse, Otto concerti, un
convegno, incontri, seminari, proiezioni : 3/22 giugno 1994, Edizioni Teatro alla
Scala, Milano, 1994, p.18.

131
La parola sulla musica rivendica infatti una posizione tutt’altro che subordinata
sul piano poetico e veritativo; essa esprime, questo sembra testimoniare Artaud, un
potere analogico indipendente. Ciò in gran parte lo si deve a una cosciente duplice
funzione dello scritto musicale, quantomeno nella peculiare forma derivata dalla
personalità dei moderni artisti-ideatori: esso completa, contestualizza o esemplifica
ciò che è raccolto in partitura, ma si muove altresì indifferentemente dal proprio
referente sonoro.
Circoscrive e illumina così l’oggetto poetico, ma attraverso un analogo
movimento lirico si ritaglia l’autonomia di trascenderlo. Cosi, le pagine varèsiane
esprimono, tanto per lo storico che il filosofo della musica, una funzione duplice e
apparentemente contraddittoria.
Esse sono da un lato l’introduzione e il modello dell’opera, ma al tempo stesso
non vanno lette come un sistema di confronto puntuale: rappresentano dunque
chiarimento teorico e metodologico, ma soprattutto incarnano una logica di
manifesto. In questa seconda accezione vengono certamente intese da Artaud, ovvero
come dichiarazioni poetiche, ideale o programmi a cui si chiede appunto la
persuasione. Va da sé, almeno per la citata indipendenza lirica, che Artaud non si
curi necessariamente di conoscere la musica di Varèse, esprimendo un'istanza simile
ai futuri sviluppi deleuziani, costruzioni che privilegeranno la parola varèsiana
sull'analisi operistica.
Con questo si palesa il secondo motivo per cui si è trovato opportuno riportare
questa citazione come premessa: se Artaud elogia Varèse tanto da intraprenderne un
progetto comune – l’irrealizzato l’Astronome 46 – è perché si è riconosciuto in un
comune messaggio sovversivo.
Occorre provare a far luce su che cosa sia veramente in rivolta nella musica di
Edgard Varèse.
Per farlo è opportuno abbandonare brevemente Artaud e rifarsi a un’altra dedica,
questa volta da parte di chi ne aveva effettivamente ascoltato la musica e rielaborato
concettualmente le categorie di pensiero. Il riferimento si sposta dunque alle parole
che il compositore Iannis Xenakis, collaboratore e amico, ha scritto in occasione
della morte, ne Il diluvio dei suoni 47 :
«Era il nostro alchimista (…), l’inventore di una nuova forma di combinazione
dei suoni. E’ stato il primo a concepire e padroneggiare il suono in sé, il primo a
“comporre” suoni invece che scrivere note di musica.
Ha sempre evitato di lavorare con elementi ben misurati, perché si possono
classificare le altezze, le durate, ma non si possono classificare i timbri. La sua
musica è solo colore e forza sonora. Niente scale, niente tema, niente melodia, al
diavolo le “musiche musicali”: lavorava nel vivo di ciò che definiva più
generalmente “suono organizzato».
La sua dimensione non è quella delle proporzioni, della combinatoria, ma quella
degli aspetti non ancora dicibili della musica. Un’alchimia diretta, fisica, immediata
e improvvisa. 48
Ecco dunque un primo contenuto della poetica varèsiana: l’attività musicale è un
lavoro da compiersi nel vivo della portata materica del suono, nella fisicità che viene
a comporsi sotto l’azione di una combinatoria, un insieme di operazioni la cui
famiglia dominante è però indicibile, appunto non ben misurata: timbrica, espressiva
e irriducibilmente corporea.

46
Cfr Edgard Varèse. Il suono organizzato, op.cit., pp. 65-66.
47
Cfr Iannis Xenakis, Il diluvio dei suoni/alla morte di Edgard Varèse (1965) in
Universi del suono, BGM Ricordi, Milano, 1994.
48
Ibidem.

141
Per il nostro interesse la dedica ha carattere introduttivo: in questa musica non
incontreremo discorso, melodia, affetto o narrazione, ma urteremo in primo luogo
contro una presenza corporea.
Diretto, fisico e immediato, il corpo sonoro è il vero centro da cui si estende la
rivolta contro ogni sterile organizzazione del discorso musicale 49 ; insurrezione da
intendersi come liberazione del corpo sonoro, rovesciamento di un determinato modo
tradizionale di intendere l’arte di organizzarlo nella composizione.
L’arte occidentale della musica ha preferito, lungo la deriva che possiamo ora
definire platonizzante, relegarne in secondo piano l’aspetto materiale: questo è il
punto di partenza per la rivolta varèsiana. Da un lato essa infatti l’ha subordinando
all’arbitrarietà del discorso affettivo, riducendolo a all’emozione che esso suscita.
Come qui sinteticamente riportato Xenakis (la musica musicale) o da Milan Kundera,
il cui breve elogio varèsiano, ne I testamenti traditi 50 , ben si classificherebbe sotto
l’impulso della liberazione dalla “dittatura del sentimento” 51 .
D’altro canto la medesima tradizione ha nuovamente rinnegato il corpo allorché
l’ha gravemente ridotto all’immaterialità di una serie di parametri quantificabili, a
una organizzazione macrostrutturale da intendersi come controllo di un andamento
che non sempre ha numero per descriverne l’ordine espressivo, la portata materiale.
La musica occidentale, anche nel più rigido formalismo compositivo, non è mai altro
che la titolare di una finta padronanza del corpo sonoro, poiché incapace di
conoscerlo senza negarlo. Essa, attraverso un insufficiente sistema di organizzazione,
l’ha trasformato paradossalmente in qualcosa di immateriale. Negando al suono una
completa ed esclusiva corporeità, ne ha sensibilmente ridotto la potenzialità
espressiva. Contro tutto ciò, Varèse rivendica un ritorno alla fisicità del fenomeno
sonoro, scrivendo come la musica, attraverso uno stato di perenne rivoluzione 52,
debba liberarsi proprio a partire da se stessa, riscoprirsi dal suo interno fisico ed
entrare in uno stato di continuo movimento atto a riscoprire in primo luogo l’essere
corpo del suono.
Nella retorica degli scritti, questa è una dichiarata regressione al materico: Nella
musica così come la concepisco, nella mia opera, si potranno percepire chiaramente i
movimenti delle masse sonore, dei piani mobili che prenderanno il posto del
contrappunto lineare. Penetrazione e repulsione risulteranno evidenti, allora,nella
collisione di quelle masse sonore. Le mutazioni che si verificano su certi piani
sembreranno proiettarsi su altri, muovendosi a velocità differenti e con diversi
orientamenti. Il vecchio concetto di melodia o di interazione fra melodie sarà

49
Queste considerazioni vengono sviluppate principalmente lungo tutti gli scritti
sulla musica. Sembrano tuttavia esemplarmente sintetizzate in La musica di domani,
Libertà per la musica, Musica del futuro,Le nuove strade della musica e La forma,
in Edgard Varèse, Il suono organizzato, op. cit., pp.51, 110 e 129-137.
50
Cfr. M. Kundera, I testamenti traditi, Adelphi, Milano, 1994.
51
Ibid.,
52
Cfr. Edgard Varèse, Le nuove strade della musica, in Il suono organizzato,
op.cit., p.129-23. Varèse arriva a questa formulazione partendo da una
considerazione sulla crisi o immobilità della musica contemporanea: “una causa è
interiore e strettamente musicale, nasce da un errore di prospettiva. (essa) è più seria
e difficile da eliminare perché si annida nel cuore stesso della musica, nella sua
tendenza a favorire la routine, nella sua pretesa di trovare solidità e sicurezza. La
musica può essere liberata solo a partire da sé, dal suo interno. Essa deve ridursi alle
durezze dell’inquietudine creativa, alla disciplina della tensione costante, per poter
così rientrare nel suo stato normale di perenne rivoluzione, per sentire nuovamente il
desiderio di distinguersi da ciò che fu per opera dei maestri del passato,per rifiutarsi
di essere sorda a tutto ciò che è nuovo, anzi per riconoscere che la cosa più
importante in un’opera d’arte è la sua novita”. p. 132.

151
scomparsa 53 . Se il corpo sonoro varèsiano è comunque “organizzato”, come ci
ricorda Xenakis, è opportuno parlare di una organizzazione a partire dalle proprie
qualità più marcatamente corporee ed espressive: questa forma va dunque intesa
come l’incontro più di forze e colori che non di parametri quantificabili.
Il ruolo del colore o del timbro perde ogni carattere accidentale, occasionale,
sensuale o pittoresco esso diventa elemento di delineazione 54 di zone di intensità,
l’accento significativamente si sposta sulle proprietà organizzative di questi
inquantificabili che determinano blocchi inestricabili di materiale 55 , come Gilles
Deleuze definirà appunto i corpi varèsiani.
Dal punto di vista del compositore la centralità corporea è un’esigenza tecnica e
teorica tale da necessitare quasi una notazione sismografica 56 , l’ascoltatore stesso
deve essere conscio che nel percepire la musica esso si pone di fronte a un fenomeno
fisico 57 , egli deve “pensare i suoni concreti, e non le note su un foglio di carta” 58 .
Il rovesciamento, muovendo alla liberazione del corpo sonoro, ha già chiarito i
propri nemici. Il primo di questi, come ha ricordato Xenakis, è il concetto di melodia.
Nella musica varèsiana, - o perlomeno a questo stadio di descrizione - possiamo
parlare di corpi, blocchi, masse in movimento. Errata è la predisposizione che vuole
nell’incontro con la musica l’esibizione di una immaterialità melodica; colpo e urto e
scontro sono la vera dimensione di una musica da ridursi ai fenomeni.
In questo senso cade necessariamente ogni distinzione fra suono e rumore. La
differenza fra armonia e dissonanza, il principio eufonico e la narrazione affettiva
della frase - cosi come concepite dalla composizione occidentale - non sono più
distinzioni costruttive. Xenakis lo ricorda: egli ha sempre evitato di lavorare con
strumenti ben misurati 59 . Il messaggio è chiaro: fuggire dunque dal rifiuto della
dimensione espressiva del rumore in musica, dal privilegio dell’altezza determinata e
dal calcolo dell’armonia, cosi come dalla facile lettura aneddotica di un brano.
Occorre lavorare nel vivo di un suono, riabilitarne il corpo che è appunto, in primo
luogo, suono e rumore. Non a caso Xenakis usa la parola alchimia per descrivere
questa operazione: non è tanto la dimensione misteriosa del lavoro dell’alchimista a
fornire l’analogia, quanto il suo essere in qualche modo un antecedente del chimico,
quasi uno scienziato/artista privo di una griglia di organizzazione definita.
La sua capacità di plasmare qualcosa esaltandone le qualità corporee è
sperimentale, sovversiva; è aperta a quegli elementi finora sono considerati secondari
o occasionali: la forza, il colore, il timbro, cioè propriamente “ciò che fa un corpo”.
La rivalutazione di tutto ciò che compone un corpo sonoro – e non della citata
subordinazione occidentale - fa dunque ben intuire il carattere anarchico che colpirà
Artaud, allorché Varèse stesso, nel 1927, esporrà all'attore francese il proprio
manifesto.
La portata del corpo sonoro cosi discusso nella propria organizzazione è per
Artaud poetica e politica, ben sintetizzata nelle attese di un “nuovo assetto del

53
Ibid, p.102.
54
Ibid,p.103.
55
Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Che cos'è la filosofia?, op. cit.
56
Cfr. E. Varèse, Il suono organizzato, op.cit., p.103. Queste considerazioni (nota
9,10,11,13) vengono riportate come estratto da una conferenza tenuta alla Mary
Austin House a Santa Fé nell’estate del 1936. Citazione completa in E. Schartz e B.
Childs (a cura di), Contemporary Composers on Contemporary Music, Norton, New
York, 1967, pp.196 e sgg. Cfr anche Edgard Varèse, Il suono organizzato, op. cit,
p.191.
57
Ibid., p.103
58
Ibid.
59
Cfr Iannis Xenakis, Il diluvio dei suoni, op.cit.

161
mondo” 60 . Varèse stesso era per dunque un anarchico incoronato 61 sul soglio poetico
di una rivolta. Come ha notato Vina 62 , la definizione che Artaud dà di poesia
realizzata fa qui uno con il “perenne stato di rivoluzione” 63 della poetica varèsiana:

«Ricondurre la poesia e l’ordine del mondo, la cui esistenza stessa è una sfida
all’ordine, è riportare la guerra, un continuo stato di guerra;è portare uno stato di
crudeltà applicata, suscitare un’anarchia senza nome.» 64 .

Riflettendo sulla portata musicale del proprio Eliografie Artaud incontra l’altro
tratto saliente del compositore francese, ovvero la critica melodica.
Musicalmente, Eliogabalo è il centro corporeo: sangue, sperma e vino che mal si
sposano con ariette, piroette sonore di flebili orchestre 65 . La melodia non è nulla a
paragone della portata di una musica che deve essere, materialmente, “flusso,
riflusso, dissonanza” 66 , cosi come fluido grumoso, materiale magmatico è lo scorrere
dei corpi sonori in Varèse 67 .
La “poesia realizzata” di Artaud, nella sua riunificazione etica, estetica ed
esistenziale è una continua lotta volta verso una nuova organizzazione che muove
dalla liberazione del corpo fisico (C So 68 ), per certi versi protagonista di una
sovversione analoga al movimento del corpo sonoro. Senza portare al limite di
coincidenze questa tensione, quindi senza approfondire il rilievo di una possibile
musica senza organi, rimangono delle importanti analogie di fondo che ci
permettono di concludere l’introduzione alla portata eversiva di questa poetica.

Definito “ brunitura infernale” – e la riflessione sul rumore ne rende il senso -


Varèse è dunque in qualche modo il correlato musicale del manifesto saudiano del
“atresie de la crauti”. D’altronde, quella che per Artaud è la prima vera opera del

60
Cfr la citazione artaudiana in apertura a questo capitolo
61
Cfr. AA VV, Festival, Edgard Varèse, op.cit p.18.
62
Ibid., Vigny scrive «Nelle intenzioni di Artaud questa formula (la citazione
iniziale) rappresentava una sorta di consacrazione di Varèse al soglio poetico
dell’anarchia: anch’egli, con la sua musica in rivolta, era un anarchico coronato.
Per Artaud l’anarchia non è soltanto una condizione politica o sociale: è
innanzitutto un principio filosofico ed esistenziale, etico e poetico, l’unico che
paradossalmente possa ricondurre la caotica molteplicità delle cose all’unità,
mettere ordine nel disordine del mondo: in quanto tale coincide con l’autenticità
poetica, con la poesia realizzata».
63
Cfr Edgard Varèse, Le nuove strade della musica, in Il suono organizzato, p.119-
36.
64
Cfr. AA VV, Festival, Edgard Varèse, op.cit p.18.
65
Ibid.
66
Ibid.
67
Cfr. Edgard Varèse, Il suono organizzato, op.cit., p. 102.
68
A. Artaud, CsO: il corpo senz’organi, a cura di M. Dotti, Milano, Mimesis
edizioni, 2003. CsO è la formula del “corpo senza organi” artaudiano, la sovversione
di un corpo appunto pieno contro una tradizione che lo organizza come mancante,
subordinandolo. "il fatto è che non siamo padroni dei nostri corpi. – I nostri padre-
madre ne disposero per la scuola, quando l’amministrazione non ne dispone per i
riformatori o gli istituti di rieducazione, e la società per le prigioni e per i manicomi,
poi la società ne dispone per la visita di leva, i preti per il ‘viatico’ e l’estrema
unzione del feretro; e la società ne dispone per la guerra, mentre se ne resta nelle
retrovie per trafficare al mercato nero" op.cit. p.96. Compito del CsO è dunque
duplice: liberarsi dall’organizzazione imposta e impadronirsi nuovamente di sé.

171
teatro della crudeltà, ossia Tour ne finir ave le management de dieu 69 (diremmo
altresì per farla dunque finita con le mancanze del corpo70 ) si palesa musicalmente
come un lavoro sulla vocalità volto a una esaltazione materica, (Le Corpus-
Cellophane d'Antonin Artaud 71 ).

In questo la corrispondenza è quasi calligrafica: Artaud come Varèse, in una


suggestiva deriva moderna, ritrova il corpo della voce nelle fabbriche di Marsiglia
cosi come il secondo nei poli industriali statunitensi.
Del rapporto cosa, corpo e rumore, l’attore francese afferma: «vorrei superare il
registro della voce per entrare nei suoni della pietra, della materia, del ferro, del
legno, della terra.» 72 . La ricerca sulla vocalità di Artaud è quella di una stretta con i
termini fisici del suono, con il rumore, cioè con ciò che non ha una altezza
determinata. In questo senso è interessante l’accenno all’ottava, cioè alla
misurazione, tema sul quale ci siamo già soffermati in occasione del rovesciamento
del platonismo. Così, la musica finora annunciata ha una valenza espressiva che
insomma precede – o meglio trascende - l’intervallare 73 . Il corpo-rumore, suono in
rivolta, non può essere ricondotto a una rigida griglia, né può essere oggetto di un
preciso controllo macro strutturale. Analogamente Varèse considera proprio la
ricerca di nuovi intervalli – espressamente dalla musica extraeuropea – come una
delle prime risorse per la liberazione del corpo sonoro.
Sul versante delle altezze, è inoltre come Artaud, in una lettera a André Jolivet 74
(1934), si era espressamente interessato agli strumenti musicali capaci di produrre
rumori che superassero la precisa misurazione anche delle altezze, citando quelle
onde Martenot che solo pochi anni prima erano state l’oggetto della rivoluzione
sonora varèsiana (Ionisation).

Se non nel programma completo di entrambi i desideri rivoluzionari – e sarebbe


significativamente sintetizzare quello artaudiano - emerge quantomeno nel rilievo
musicale l’urgenza espressiva di un corpo sonoro nella fase di liberazione rispetto
agli schemi della tradizione occidentale.
Cosi, nell’irrealizzato progetto comune, L’Astronome, suono-corpo e attore come
corpo-rumore rappresentano aspetti analoghi dell’espressivo musicale. Esso si evince
chiaramente dalle bozze progettuali: le grida scomposte e innaturali del coro si

69
Antonin Artaud, Pour en finir avec le jugement de dieu, Gallimard, Paris,1974
(tr.it. a cura di M.Dotti, Antonin Artaud, Per farla finita con i giudizi di dio, Stampa
Alternativa, Roma,2000).
70
Cfr Antonin Artaud, Per farla finita con i giudizi di dio, op.cit., p.25.
71
Cfr. E.Grossman, Le corps-Xylophène d’Antonin Artaud, in Pour en finir avec le
jugement de dieu, Gallimard, Paris, 2003, pp. 7-19. Su questo, cfr anche K. Floc'h,
Antonin Artaud et la conquête du corps, coll. "Jeunes Talents", Association
Découvrir-Larousse-Sélection du Readers Digest, 1995.
72
La citazione fa riferimeno a una lettera del 13 agosto 1934 di Artaud a Andé
Jolivet, in E.Grossman, Le corps-Xylophène d’Antonin Artaud, op.cit. Tutta la
corrispondenza di Artaud è contenuta in Antonin Artaud, Oeuvres complètes, tomi I
a XXVI, Gallimard, Paris, 1956-94.
73
Su questo, significativamente, Carlo Serra: “L’idea di Artaud è che quei suoni
siano i veri suoni del mondo, la vera musica, perché si tratta di componenti
elementari, che svolgono il ruolo di un fondamento materico, da cui la musica deve
prendere forma, quasi un precategoriale che ogni discorso musicale sublima, in
singolare, quanto prevedibile, polifonia con gli scritti di Varèse: quei rumori
illanguiditi, di vile natura, sono l’ombra di un elemento originario, che sta prima di
ogni costruzione intervallare: la musica ha così natura brutale, che si stempera e si
maschera nel canto che la nasconde.
74
La stessa lettera del 13 Agosto 1934, cfr nota 28.

181
accompagnano al rumore di un trapano, i cupi accordi dell’orchestra sono masse
sonore che significativamente non suonano, ma si scontrano in nella fisicità di una
urgenza espressiva. Non si “diffondono”, ma, appunto come gravi, “precipitano”.
Cosi Artaud li descrive in Il n’y a plus de firmament, testo direttamente precedente a
Héliogabale, che doveva rappresentare il primo movimento de l’Astronome.
«La musica darà l’impressione di un cataclisma lontano che avvolge la sala,
cadendo come da un’altezza vertiginosa. Cominciano a formarsi degli accordi nel
cielo e si abbassano, passano da un estremo all’altro. Suoni cadono come da molto
in alto, poi si arrestano improvvisamente e si irradiano in zampilli sonori, formano
delle volte, dei parasoli. Piani sonori» 75 .
Insieme ai suoni, gli stessi colori di scena non riescono a liberarsi della loro
matericità, anch’essi sono masse in urto:
«Lucori iniziano ad alterare l’atmosfera, si passa dal rosso al rosa violento,
dall’argento al verde, poi si torna al bianco, e improvvisamente a una luce giallo
opaco,color nebbia sporca e simun molto diffusa. Nessun colore sarà puro. Ogni
tinta sarà composita (…).
I suoni e la luce a tratti si infrangeranno (…) si trasformano nelle luci e nel
trambusto dei un crocevia di una strada moderna.» 76 .
Come molte delle bozze varèsiane, quest’opera comune non è stata terminata, e
non avrebbe senso continuare sul filo di questo parallelo, ma dalla citazione
artaudiana scelta come incpit abbiamo guadagnato due punti da cui non recedere. Il
primo riguarda la piena considerazione del potere dello scritto musicale: introdurre
Varèse più dalla forma-manifesto che non dall’analisi tecnica non comporta ridurne
la poetica a una sola veggenza lirica, ma predisporsi al risultato empirico con la
consapevolezza che, se di musica in rivolta si tratta, esiste un livello discorsivo in cui
rintracciarne la genesi. Da questo, attraverso il filo della suggestione che avvolge lo
stesso Artaud, si può ancorare la ricerca del nucleo espressivo al piano delle ragioni.
Se dunque finora si è parlato di musica immaginata e non scritta, nell’incontro
con l’opera non sarà possibile ritrarsi dal confronto con il piano discorsivo, ma si
dovrà muovere verso una chiarificazione terminologica dei contenuti. La nozione di
corpo e suono organizzato, al di là della loro portata analogica, necessitano di una
delimitazione concettuale da svolgersi compiutamente a livello musicale.
Guadagnata le certezza di una portata corporea sovversiva, gli scritti sulla musica
necessitano ora di uno sguardo alle modalità attuative proposte. Liberare il corpo
della musica significa necessariamente interrogarsi sul termine che lo contiene,
delimita, ma soprattutto che classicamente lo rende possibile 77 , ovvero il concetto di
forma.

«Non è raro che si esiga dal compositore l’originalità sotto ogni aspetto e che gliela
si proibisca per quel che riguarda la forma. Come stupirsi che lo si accusi di
mancanza di forma quando diventa originale? Il malinteso proviene dal fatto che si
concepisce la forma come un punto di partenza, come un modello da seguire, come

75
Le seguenti citazioni, da Oeuvres complètes, op.cit. sono riprese in Festival,
Edgard Varèse, op.cit. p.21.
76
Ibid.
77
In questo senso la forma, classicamente, è per Varèse ciò che libera il contenuto:
“in ogni opera d’arte la forma è il fattore dominante, e la mia preoccupazione nel
comporre è appunto la forma,la struttura dell’opera che ho concepito; la forma di
un’opera è il risultato della densità di contenuto.anche la frase più bella finisce per
scadere se non ha senso strutturale, se è cioè un’idea pellegrina”. Cfr Edgard Varèse,
La forma, in Il suono organizzato, op.cit., pp.136-37.

191
uno stampo da riempire. La forma è un risultato – il risultato di un processo.
Ciascuna delle mie opere scopre da sola la propria forma. 78 ».

La forma come risultante è la definizione a cui Varèse rimarrà più fedele nel
corso di tutti gli scritti sulla musica. Le tracce di questo rovesciamento della
dimensione a-priori del formale, come l’autore ricorda più volte, derivano
dall’incontro con Ferruccio Busoni.
Nello specifico, Varèse propone di rintracciarli nei passi più moderni
dell’Entwurf einer neuen Aesthetik der Tonkunst 79 (1906), scritti sulla musica che
Busoni discute a lungo con l’allievo 80 .
Da queste discussioni, l’autore matura un’altra metafora che rimarrà pressoché
costante nei propri interventi: la forma come risultante descrive un processo analogo
a quello della cristallizzazione. Al termine forma-cristallizzazione, seppur
apparentemente concetto pregno di rilevanza scientifica, spetta in realtà solo un
compito analogico: dovrebbe dunque rendere la volontà di non ridurre le particolarità
di un’opera tanto a un mero controllo dell’andamento che svilisca la portata
espressiva dei suoni per fissarla in una griglia. Sottolinea dunque il processo
continuo – correlato di quella rivoluzione permanente – che investe la musica.
Dunque più la linea in continuo tracciarsi che la figura chiusa, più l’aggregarsi
dinamico del particolare che non il suo statico riposare in un composto definito. La
scrittrice Anais Nin (Diaro, III) 81 ha ben fotografato il risvolto di tale concetto di
forma intorno al suo continuo costituirsi: ogni oggetto musicale è un frammento
mobile, dotato di dignità indipendente; “l’essenza è la materia che ribolle” 82 ; la
fluidità della metamorfosi. L’accento è appunto spostato sulla sequenza di una unità
qualitativa in perenne stato di aggregazione e scomposizione, e non sul un discorso
musicale fermo e ripercorribile. Più affascinante, estremizzando dunque, la
definizione che ne ha dato Bernard, traendo dalla forma l’idea di una musica che non
va da nessuna parte 83 . Il concetto di forma-cristallizzazione si rivela problematico e
ricco di risvolti, quantomeno allorché se ne vogliano esplicitare i termini analogici
sul piano dell’organizzazione musicale.

78
E continua: Non ho mai cercato di adattare le mie idee alle dimensioni di
qualsiasi recipiente storico. Perpoter riempire una scatola solida di forma definita –
diciamo una “scatola per sonate” – è necessario evidentemente qualcosa che
possieda forma e dimensioni identiche a quelle della scatola, o che abbia vuoi
elasticità, vuoi la consistenza necessaria ad adattarvisi. Ma se si cerca di introdurvi
ad ogni costo una cosa che abbia forma differente e una consistenza più solida –
ammesso che volume e dimensioni siano equivalenti – la scatola si spaccherà. La
mia musica non è fatta per essere contenuta nelle scatole della musica tradizionale.
Cfr Edgard Varèse, Il suono organizzato, op.cit., pp. 158-59.
79
Cfr F.Busoni, Abbozzo di una nuova estetica della musica, in Lo sguardo lieto,
tutti gli scritti sulla musica e le arti, Saggi di arte e letteratura, vol.47, Il saggiatore,
Milano, 1977.
80
Per i rapporti fra Varèse e Busoni cfr Busoni, in Il suono organizzato, op. cit.,
167. Cfr anche Ferruccio Busoni – A reminiscenze, Columbia University forum,
IX/2, 1966, p.20.
81
Crf Anais Nin, Diario, III, op.cit.
82
Ibid, “(gli appunti musicali) sono in continuo stato di revisione; simili a un
collage: tutti frammenti; che lui sistema; risistema; sposa; taglia incolla;rincolla;
punta e ferma (essi) esprimono l’essenza del suo lavoro e del suo carattere. Sono in
uno stato di fluidità, di mobilità, di flessibilità, sempre pronti a volare dentro una
nuova metamorfosi, liberi, obbedienti non a una sequenza o a un ordine monotono,
ma soltanto alla sua felcità”.
83
Cfr S. Van Solkema, The New Worlds of Edgard Varèse, A Symposium,
J.S.A.M. Monographs, Nr. 11, New York, 1979, p.5.

202
Il primo problema, banalmente, è che il cristallo non possiede una sola forma, ma
due: la prima esteriore, visibile e statica; la seconda - che andrebbe più propriamente
definita strutturale – è invece interna e dinamica. Quest’ultima dipende dalla
concatenazione atomica e, attraverso le forze di azione e repulsione, è protagonista di
un processo leggermente diverso da un cristallo ad un altro, ma le cui trasformazioni
strutturali, pur rispondendo formalmente agli stessi processi, danno vita a un numero
ben più vasto – diremmo pressoché infinito - di forme visibili.
Sostenere, allora, che la forma del cristallo è una risultante più che una qualità
fondamentale comporta porre l’accento su quelle forze che modificano la
concatenazione atomica, sottolineare le differenze e le trasformazioni, i termini medi
fra gli stati. La forma musicale, per come almeno la presenta Varèse, è quel moto
interno, un processo dinamico di aggregazione e repulsione del reticolo strutturale
fatto da atomi, o appunto, le unità dei corpi sonori. Questa è almeno, delle due
forme, quella che sembra trasparire meglio a chiarire l’analogia musicale.
Preferire per questa analogia la forma interna significa dunque non avere a priori
esito esatto di questo moto. Considerare la forma un processo comporta così rigettare
una tesi marcatamente aprioristica della forma musicale, e allo stesso modo
riabilitare invece quel lavoro all’interno di un quadro forze che non si adegua mai
pienamente al medesimo risultato, ma fa emergere sempre una differenza o scarto
espressivo.
Varèse può dunque pensare la forma musicale come l’interazione fra gruppi
sonori in continua metamorfosi, corpi a velocità e direzione diverse, stretti fra legami
di attrazione e repulsione 84 . Egli non nega che un primo stadio formale sorga da
un’idea, bensì ammette che l’organizzarsi successivo è deformato dall’azione delle
qualità materiali. Tale deformazione è tuttavia funzionale: l’idea insomma è
riconoscibile paradossalmente solo quando si sfalda 85 , si declina diversamente; il
principio di individuazione si presenta dunque nel dinamismo delle differenze e non
in una stasi dell’identico.
In questo senso. parlare di forma vuol dire per Varèse ritrovare un nucleo ideale
in ripetizione continua e per questo mai pienamente astraibile dalla materia. Nucleo
che si rende riconoscibile attraverso una piena riabilitazione della sua portata
corporea, emergendo dunque dagli scarti espressivi. Ricollegandoci a quanto detto
sulla portata materica del corpo sonoro, è ora chiaro che responsabili della forma di
un suono organizzato sono quelle forze di attrazione e repulsione – in sintesi quelle
qualità espressive che Varèse non esita a definire magiche o oscure, e che più
pragmaticamente Xenakis aveva definito, come abbiamo visto, indeterminate. Una di
esse è, inevitabilmente, il timbro.

84
Cfr Edgard Varèse, Il suono organizzato, op.cit., “La forma cristallina risulta
dall’azione reciproca delle forze di attrazione e di repulsione come pure dalla
concatenazione degli atomi (…) credo che (questo punto) illumini meglio di
qualsiasi altra spiegazione il modo in cui le mie opere arrivano a prendere forma.
C’e’ un’idea, l’origine della struttura interna,quest’ultima cresce, si sfalda secondo
svariate forme o gruppi sonori in continua metamorfosi, a velocità e direzioni
diverse, dipendere dall’attrazione o dalle repulsione di varie forze. La forma
dell’opera è la conseguenza di questa interazione. Le forme musicali possibili sono
innumerevoli comete forme esterne dei cristalli”. p.160.
85
Ibid.

212
§ 3. Hyperprism: differenza e ripetizione

Citando Lyotard – e mantenendo le iniziali suggestioni deleuziane – possiamo


definire il timbro come: «Essere che non si lascia contare» 86 , termine che appunto
trascende il controllo, la griglia, la scalatura: attraverso il termine “timbro”,
intendiamo è un particolare tipo di parametro, cioè un referente a cui
paradossalmente non può essere associato in ogni condizione un numero preciso,
poiché la sua funzione è esprimere la qualità dello strumento o della voce che l’ha
prodotto, dunque individuare la corporeità della fonte sonora.
La nozione di differenza timbrica come forza che presiede al processo formale
deve dunque portarci a una serie di considerazioni di ordine organologico. Seppur da
tutti gli strumenti otteniamo dei corpi sonori, proprio in virtù delle diverse
caratteristiche timbriche, essi sono sempre differenti da un punto di vista espressivo.
Varèse, coerentemente con il proprio manifesto, privilegia quegli strumenti che
gli sembrano fornire autonomia al corpo sonoro, per cosi dire, quelli che lo rendono
più pienamente 87 . In rottura con la tradizione l’autore opera dunque una rottura con i
“flebili” 88 strumenti ad arco, riabilita invece pienamente l’impatto delle percussioni,
cioè quegli strumenti maggiormente capaci di rendere l’estensione 89 .
La portata corporea delle percussioni va necessariamente letta in relazione a
quanto detto nel primo paragrafo circa la liberazione dalla melodia. Subordinare a
questa un corpo sonoro vuol dire in qualche modo renderlo mancante, svilirne la
pienezza riconducendone la funzione essenziale all’aneddoto affettivo.
Varèse su questo dà indicazioni circostanziate:

«Le percussioni hanno una vitalità che manca agli altri strumenti. Prima di tutto
hanno un’estensione (…) un aspetto sonoro che è più vivo: l’attacco del suono si
avverte più nettamente, più rapidamente. (Esse) sono libere da quegli elementi
anedottici che cosi facilmente si trovano nella nostra musica. Appena domina la
melodia, la musica diventa soporifera; si è costretti a seguire la melodia, appena
essa si manifesta e, con la melodia, è l’aneddoto che si insinua. (…)
Basterà opporre il rumore dei timpani e quello degli strumenti a suono
indeterminato 90 .»

Insomma le percussioni sono centrali per la realizzazione di una forma che non
subordini il corpo: esse ne fanno esplodere l’aspetto materiale anche perché, come

86
J.F.Lyotard, Le voci di una voce, tr. it. di F.Sossi, in aut aut, n° 246, nov.-dic.
1991, pp. 17-34. Cfr anche J.F. Lyotard, “After the Sublime, the State of Aesthetic”
in The Inhuman, Stanford University Press, Stanford, 1991.
87
Cfr Edgard Varèse, Il suono organizzato, op.cit., “Ora, con le attuali possibilità
di aplificazione del suono, è stupido mettere venti primi violini in un’orchestra (…)
forse otto o dieci violini suonano davvero, i restanti sono un peso morto (…) Gli
archi non mi soddisfano affatto. Il singolo strumento è gracile, misero, penoso (…)
Il violino non esprime la nostra epoca. E’ evidente fin dallo stadio della
fabbricazione (…) naturalmente non lo nego, i violini sono necessari per suonare
Bach o Beethoven, ma Bach aveva davero la stessa idea che abbiamo noi della
sonorità, visto che gli architetti della sua epoca erano tanto diversi da quelli della
nostra? Ecco una questione che si trascura. I violini attuali non forniscono una
risposta”. p.105-7.
88
Ibid. Cfr anche G.Charbonnier, Entretiens avec Edgard Varèse, Belfond, Paris,
1970. pp 46-8.
89
Ibid., p. 107.
90
Ibid., p. 106-7.

222
nota poche righe dopo, “esse non sanno raccontare una storia” 91 . Le percussioni, e
nello specifico quelle che per disposizione materiale non producono suoni ad altezza
determinata, si muovono sul piano del rumore. Impiegarle per l’autore vuol dire
scontrarsi con quel rifiuto di equiparazione suono-rumore che è solamente
psicologico 92 .
All’interno delle considerazioni sulla forma emerge dunque, allorché si vuol
saltare il ruolo delle costruttive differenze timbriche della materia, la necessità di
guardare a questi strumenti. Accanto ad essi si affacciano le altezze indefinite delle
onde Martenot, precursori di un’altra preferenza, ovvero l’elettronica. Sebbene
Varèse abbia desiderato vivamente nuovi siffatti strumenti il loro impiego è stato
alquanto parsimonioso. Va comunque notato che, sul piano delle ragioni, la loro
necessità era strumentale alla concezione della forma precedentemente esposta: esse
dovevano insomma arricchire infinitamente la gamma sonora 93 . L’atteggiamento,
rispetto al problema della gestione timbrica, è ancora quello volto all’esaltazione
della differenza: se l’orchestra sinfonica cerca la maggiore amalgama possibile tra i
colori; Varèse si sforza invece di mirare alla distinzione per aree di densità. Mira al
contrasto fra le zone, che definisce appunto “contrasto caleidoscopico” 94 fra i corpi
sonori.
In questo senso il principio della forma può essere paragonato al processo di
deformazione prismatica. Come ha notato Deleuze, la nozione di cristallizzazione è
felicemente offerta proprio dove Varèse muove dalla suggestione del processo di
scomposizione dei colori, ovvero in Hyperprism, opera che, basata sull’analogia fra
le combinazioni dei colori fisici e quelli musicali, si riconosce proprio dal costituirsi
dinamico delle qualità timbriche. Da questa forse potremo chiarirci come
effettivamente l’autore modelli la forma in analogia con questi processi fisici.

91
Ibid.
92
Ibid., “Quando si dice rumore, in opposizione al suono musicale, si opera un
rifiuto di ordine psicologico: il rifiuto di tutto ciò che distoglie dal ron-ron, dalla
gradevolezza, dal farsi cullare. E’ un rifiuto che esprime una preferenza.
L’ascoltatore che opera questo rifiuto dimostra di preferire ciò che lo sminuisce a
ciò che lo stimola” p.107.
93
Cfr. Edgard Varèse, Il suono organizzato,op.cit., p.110.
94
Cfr.G.Charbonnier, Entretiens avec Edgar Varèse, op.cit., p. 73 "Dans mon
oeuvre on trouve, à la place de l'ancien contrepoint linéaire, fixe, le mouvement de
plans et de masses sonores, variant en intensité et en densité. Quand ces sons entrent
en collision, il en résulte des phénomènes de pénétration ou de répulsion. Certaines
transmutations prennent place sur un plan. En les projetant sur d'autres plans l'on
créerait une impression auditive de déformation prismatique »

232
HYPERPRISM 95 (1922-23)

(Comportamento di percussioni e fiati, alle misure 1-30)

Abbandonati gli strumenti a corda, Varèse affida il costituirsi estensivo del suono
e della forma alle percussioni, portandole significativamente in primo piano. Questo
movimento fa tutt’uno con il manifesto della liberazione del suono: Hyperprism, del
1923, è di fatto una delle prime opere occidentali a non concepire più le percussioni
come supporto alla melodia. Precedentemente, salvo eccezioni (ad l’assolo de
L'Histoire du soldat, Stravinski, 1918), il ruolo delle percussioni all’interno
dell’orchestrazione era sostanzialmente ancora incentrato sul rafforzamento di
accenti già contenuti all’interno dello sviluppo di altri strumenti. Di certo, mai oltre
al colore o l’evocazione, la loro funzione era del tutto dipendente dallo sviluppo
dell’orchestra.
E’ affascinante notare come, all’apertura dell’opera (mis 1-7), le percussioni
(gran cassa, tam-tam) siano completamente libere di tracciare l’ampiezza dello
spazio risonante nel sostanziale assolo (mis 1-3), sulla figura ritmica dell’anapeste 96
(o appunto anapestico ). Il gesto iniziale non ha solo il citato valore storico, ma
risponde introduce il principio della cristallizzazione: il suono grave e risonante della
gran cassa (mis 1-4) descrive quell’ampia estensione spaziale che, in analogia con i
moti della struttura cristallina, rappresenta i confini strutturali in cui si inserisce un
processo dinamico interno. Accanto, l’alternanza con un altro gruppi di percussioni
metalliche rende il contrasto di uno spazio acustico che, dilatato, ora si restringe
seguendo strumenti a breve risonanza.
Alle percussioni è dunque affidato in questa prima fase il compito di tracciare uno
spazio sonoro dai limiti dinamici; il suo oscillare fra apertura e contrazione crea
l’ampiezza in cui si inserisce un altro movimento, questa volta interno. Questi è
rappresentato da una altezza (do#) che compare per la prima volta sul trombone
basso (mis 3)e dal tamburo a corda, spostandosi subito (mis 4) sulla sirena e
cambiando repentinamente valenza timbrica allorché il trombone lascia la stessa nota
al corno (mis 10). Durante tutto il corso del brano il do# si sposta fra i singoli
strumenti (in un solo caso su un gruppo, i fiati) in un fitto e imprevedibile intreccio di
assenza e presenza.
Il singola nota ripetuta (do#) finisce, oltre a variare timbricamente, per frequentare il
semitono successivo, sporcandosi brevemente si appoggia sull’altezza che la segue
direttamente. E’ il caso del re grave suonato dal trombone basso (mis 5) da un lato
gioca il ruolo del ponte in questo rilancio timbrico trombone-corno(mis 10),

95
Hyperprism per 9 strumenti a fiato e percussione (1922/23). Revisione a cura di
R. Sacks (1986). Prima esecuzione: New York, Carnegie Hall, 4 marzo 1924.
direttore l’Autore. Organico: Fl. (anche Ott.) Cl.picc. 3 Cor. 2 Trb. Trbn.t. Trbn.b.
Perc. (9 esecutori: I. Tmb. indiano Ruggito del leoneSngl.; II. Tmb.no Frst. Inc.; III.
Sngl. G.C.; IV. C.ch.; V. P.s. 2 Rachets; VI. Frst. Sir.; VII. 2 Blocchi cinesi Trg.
Frst.; VIII. T-t. o Go. Frst.; IX. 2 P. cinesi Inc.)Durata: 4'. Macrostruttura:
Introduzione per sole percussioni ed esposizione del tema centrale (do#) su
trombone basso (mis.1-10). Intensificazione del tema tramite l’aggiunta timbrica e
accompagnamento percussivo (mis.10-6)Conclusione armonica (mis.16-7). Melodia
su flauto (do#) e intervento discreto delle percussioni che, in fortissimo, finiscono
per interromperla (mis.26).
96
L’anapesto, come nella poesia greca e latina, si compone di due sillabe brevi
(arsi) e di una lunga (tesi). Musicalmente questa è la figura ritmica che più torna in
Hyperprism, fornendo il metro dei momenti più “liberi” delle percussioni rispetto
all’andamento dei restanti strumenti.

242
dall’altro sembra propriamente simboleggiare quel vincolo materiale che non rende
mai i passaggi limpidi, bensì carichi, pesanti.
A questo suono cosi corporeo, impastato, viene dunque donata, attraverso il
presentarsi della differenza timbrica, una caratteristica processuale di continua
deformazione all’interno dello spazio oscillante delle risonanze percussive.

(Figura 1, Hyperprism, attacchi do#, mis1-13)

Alla fine di questa sezione i vari movimenti del do# sembrano in qualche modo
solidificarsi, verticalizzandosi in un unico accordo dominante (mis 16-7). L’accordo
cosi strutturato rappresenta, idealmente, la cristallizzazione del movimento
dell’altezza, ora ferma.

(Figura 2, Hyperprism, accordo mis16-7)

Potremmo sottolineare come questa stasi rappresenti idealmente una


corporizzazione; un primo grado di cristallo. Ad annunciarla le percussioni hanno
progressivamente perso il loro carattere di oscillazione libera (da mis 13/14/15), e ne
hanno rafforzato il consolidarsi producendosi in una permutazione ritmica e in un
aumento di intensità. L’alternarsi della risonanza percussiva si è dunque stabilizzato;
lo spazio, fermo, è ora funzionale al cristallizzarsi dell’altezza in accordo.
Questo movimento finale può d’altra parte essere letto anche spostandone l’accento.
Dalla cristallizzazione arriviamo all’altra metafora del raggiungimento della forma,
ovvero il citato “contrasto prismatico”. In effetti, la parte centrale dell’accordo di
settima maggiore può essere altresì scritta con quattro accordi di quinta già in
dissoluzione.

252
(Figura 3, Hyperprism, accordo mis16-7)

Considerato da questo punto di vista, l’accordo che è stato definito una


solidificazione al tempo stesso è già coinvolto in un processo di scomposizione. Non
a caso da qui in poi Hyperprism riprenderà un movimento di dispersione del do#.
L’altezza principale riprenderà il suo movimento (da mis 30); prima di ciò però sosta
timbricamente, diventando oggetto di una melodia minima da parte del flauto (da mis
20 a 26).

(Figura 4, Hyperprism, melodia flauto mis20-6)

Le percussioni, concluso il processo di formazione dell’accordo, accompagnano


la dispersione dividendosi in due gruppi e dedicandosi a figure ritmiche nuovamente
indipendenti (fra pèon e anapeste). Lo spazio acustico vive dunque nuovamente il
duplice contrasto fra le differenti risonanze delle percussioni e le diverse timbriche
dell’altezza di nuovo in movimento. La metafora della forma che Varèse utilizza va
dunque brevemente riproposta. Se il cristallo ha due strutture, interna ed esterna,
possiamo in qualche modo dire che la deformazione spaziale della risonanza data
dalle percussioni è analoga alla propria forma esterna e visibile. Al variare di questa
– esattamente come accade nel cristallo – è tuttavia preposto un movimento di forze
interne, idealmente rappresentato questa volta dalle avventure o deformazioni del
nucleo originario (do#). Esse sono legate, come abbiamo visto, ai parametri del
timbro e dell’intensità. Il primo, come Varèse aveva d’altronde dichiarato, divide,
differenzia e allontana i corpi sonori ed è paragonabile al passaggio dal trombone al
corno. Il secondo invece unisce, ed è sintetizzabile nella formazione dell’accordo
attraverso la verticalizzazione dell’altezza (mis 16-7).
Come già annunciato questo movimento “interno” alla forma è rappresentato da
parametri espressivi (timbro, intensità) che rimandano direttamente alla cosa,
all’oggetto sonoro. Coerentemente con il manifesto varèsiano, verrebbe dunque da
trarre due brevi conclusioni sul concetto di forma.
La prima riguarda il problema del rapporto che la forma intrattiene con i
materiali organizzati. Su questo l’autore è piuttosto chiaro: forma e particolare in
qualche modo, coincidono: nel processo del suono organizzato non è ben chiaro chi
detenga un primato. Di sicuro possiamo dichiarare la forma come - nell'ottica del

262
processo - la risultante dinamica dalle qualità sensibili dei materiali in gioco: essa
deve la sua identità alle forze corporee ed espressive. In nessun caso essa si palesa
come l’agente dispotico di un rapporto conflittuale. Se cosi fosse non ci si
muoverebbe di un passo dalla colpevole tradizione melodica, eufonica e intervallare
occidentale.
Posto che la forma deve dipendere dalle singolarità in gioco, rimane il problema
dunque di definire come, in un apparente paradosso, essa possa ancora agire
propriamente da forma, cioè essere considerata quel parametro indipendente che
libera o organizza i particolari. All’interno di qualsiasi tipo di analisi tendiamo infatti
irrimediabilmente a concepire, fra reticolo cristallino ed elementi strutturali, il
prevalere – temporaneo - di uno dei due termini. Lo sguardo si posa insomma,
nell’andamento, sul moto particolare o sul completarsi della forma. La forma di
Hyperprism è processo, A B A’ (moto/ stasi / moto), i particolari espressivi la
tracciano ma, proprio in virtù della loro inestricabile portata materica, non portano
mai realmente a un’astrazione. Insomma essi non negano mai completamente una
parte di sé per chiudere la figura, ma collaborano in un processo appunto di moto,
solidificazione e nuova disgregazione che si ripropone, identico e diverso, nei
successivi due movimenti che non abbiamo analizzato (da mis. 30 alla fine).
Ciò è inevitabile: per spiegare un brano (ma anche per comparlo) ricorriamo a
una forma, ugualmente però essa va spiegata attraverso lo strutturarsi delle differenze
particolari ed espressive. Eppure, da questa considerazione, muoviamo a un secondo
problema. Le particolarità timbriche, corporee, stanno certamente emergendo – per
Varèse - dalla subordinazione occidentale, ma non sembrano farlo per porsi come il
vero risultato della composizione e nemmeno come il vero compito dell’arte.
Insomma il compito che Varèse si propone non è esaurito. La forma è strettamente
connessa all’organologia, ma il risultato di un’opera non è esaurito né dall’abbozzo
della figura, né dall’esposizione della collezione delle differenze.
Credo convenga accettare momentaneamente una tesi provvisoria, che argina
parzialmente il problema: i singoli corpi espressivi del suono e la forma risultante
sono uno la concrezione dell’altro. Cosi almeno Varèse, citando lo stile proustiano,
afferma che le due nozioni in causa agiscono sincretica mente, implicandone una
terza: la rivelazione di un mondo 97 . Insomma la forma e le determinazioni particolari
agiscono come il tratto e la figura, sono complementari e ordinate sullo stesso fine
espressivo, ovvero l’emergere di una terzietà.
In sintesi, il rapporto tra la figura stracciabile (chiusa) e il suo trovarsi sempre
costantemente nel divenire aperto della cristallizzazione è un processo finalizzato a
trascendere sia il particolare della fonte sonora che l’universalità strutturale. E’ cioè
in qualche modo volto alla sublimazione. Nella radicalizzazione del gesto sonoro
varesino l’equilibrio del processo di strutturazione cristallina sembra allora potersi
comprendere solo nell'emergere di evento sonoro capace di rivelare un mondo, cioè
di aprire hall’ identità poetica, al nucleo irritativo prodotto nel sensibile. Il termine
evento rispetto alla “rivelazione di un mondo” sembra pienamente giustificato. La
ricerca del sublime in Varèse è la ricerca di una eventualità pura, l’imprevedibilità
conseguente al duplice movimento di abbandono della nozione classica di forma
chiusa e del ritorno all’eccedenza espressiva del sensibile.

97
Cfr. E. Varèse, Il suono organizzato, op. cit.

272
§ 7. Ionisation: forma e ritmo

Alla filosofia, come notato, Deleuze aveva lasciato un monito: la struttura non
deve ripercorrere l’avventura degli antichi, ma ricercare – rifuggendo l’ortodossia –
un sistema di connessioni basato sulla differenza. Così, attraverso la sovversione del
simulacro – ciò che, come notato, implica dimensioni, profondità e distanze che
l’osservatore non può domniare – anche un certo tipo di musica sembra coinvolta nel
processo filosofico.
La nozione di tempo offre un esempio efficace, così come quella di spazio. Lungi
dal sistematizzarle in un confronto serrato con le partiture, Deleuze offre invece da
subito una chiave ermeneutica, pensata anch’essa attraverso ricorsi analogici.
Esistono cosi in musica due tempi e due spazi. Lo spazio striato – parametro dei
limiti e confini – a cui corrisponde un tempo “parametro”, quadro metrico e formale
che il pensiero della differenza deleuzianauziana svilisce. E, infine, lo spazi liscio,
fluido, senza limiti: spazio di connessioni qualitative – trama di differenze timbriche
– a cui corrisponde un tempo irregolare: un’assenza di griglia.
Qui può riemergere l’insieme di notazioni varèsiane. Per Deleuze, se il tempo
regolare è distribuito, nello spazio musicale, per semitoni, il tempo irregolare invece
una rottura delle terminazioni finora sperimentate. In musica, de -territorializzare il
Ritornello vuol dire allora muovere nella direzione di uno spazio-tempo amorfo:
sperimentare una perdita, tornare al caos delle forze. L’orecchio non coglie così
l'intervallo: la musica diventa flottante, confusa. Non è più una musica formale, ma
musica dell’amorfo spaziale e temporale.
Così, se i compositori classici hanno imposto la forma alla materia caotica,
hanno compiuto in qualche modo una selezione simile al gesto platonico,
trasformando la materia in qualcosa di subordinato (shaped substance 98 ).
Ma quale musica può lavorare in modo diverso la forma e restituire alla materia la
forza?
Per Deleuze, la musica contemporanea è quella che più dovrebbe porsi nella
prospettiva di uno spazio liscio e di un tempo irregolare, trascinando l’ascoltatore
all’interno di quel momento fra cosmo e caos, dove le differenze, appunto,
somigliano e differiscono sul piano del chaosmos. Così Mirela Buydens può notare
come si debba “perpetuare la grande dicotomia deleuziana tra – da un lato – la
rappresentazione come pensiero fondato sul primato della forma, e – dall’altro –
come il primato dela forza e del materiale su ciò che lo organizza” 99 Ciò potrebbe
portarci a concepire il ritorno al caos della musica contemporanea non come
disgregezione formale, ma come spostamento d’accento. Se Varèse aveva inteso la
forma come cristallizzazione e movimento focalizzato sul particolare, Deleuze
preferisce parlare di fasci o insieme di punti d’andatura100 , una forma per certi aspetti
ionizzata o molecola rizzata: l’attenzione si sposta alle proprietà aggregative dei
materiali, come avverrà nell’analisi deleuzianauziana dell’opera Ionisation.

98
Cfr. R. Bogue, Deleuze on music, painting and the arts, op. cit., p. 44.
99
Cfr. M. Buydens, Sahara, l’Estetique de Gilles Deleuze, op.cit, p. 157.
100
Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani, Capitalismo e schizofrenia 2, op. Cit.,
p. 440.

282
IONISATION (1931)

Le analisi storiche e musicali su Ionisation ruotano, in larga maggioranza, attorno


al tema storico e stilistico, anche se su questa linea possiamo rimandare alle
considerazioni già svolta in occasione dell’introduzione varèsiana.
Prima opera occidentale per sole percussioni, questo brano rappresenta così,
nuovamente, un punto di rottura fondamentale. Quel che forse rimane da constatare è
l’elaborazione dell’evento-Ionisation, insomma le ragioni di una sua possibile
adesione alle chiavi ermeneutiche deleuziane. In Ionisation tredici percussionisti e
trentasette strumenti danno vita a uno spettacolo senza precedenti. Tutti gli strumenti
si presentano senza altezza determinata (salvo finale) rimandando a una difficoltà di
orientamento secondo i parametri classici; essi non espongono nessuna melodia, solo
una sorta di poliritmia che, nella sua complessità, rappresenta una precisa sfida
percettiva.
Accanto a ciò, l’estensione timbrica è praticamente satura: come abbiamo
accennato, nella visione varèsiana della forma/cristallo, la differenza timbrica è un
fattore fondamentale dello strutturarsi formale. Così, se il timbro rimanda alla fonde
sonora – al corpo del suono – qui può spaziare su una gamma vastissima di registri:
nel caos timbrico, ogni combinazione, ogni solidificazione sembra di per sé
possibile.
Va così ricordato quali strumenti rendano, passivamente, l’urto di questi corpi o
masse sonore in movimento: metalli, pelli senza e con timbro, legni, e – eccezioni
notevoli – un piano trattato passivamente (senza sviluppo melodico) e sirene.
Proprio il piano rappresenta dunque un interessantissimo paradosso: strumento per
eccellenza della tradizione melodica e affettiva occidentale, è qui percosso tramite
cluster, così da non risultare in nessun modo in primo piano rispetto alle percussioni.
Un ulteriore eccezione è data dagli strumenti “a frizione”: le sirene accompagnano la
serie di trasformazioni ritmiche e timbriche emettendo un’unica onda – o linea –
glissando integrale che si dispone senza una descrizione delle altezze frequentate.
Gli eventi interni a Ionisation possono così essere ripercorsi: una serie di cellule
ritmiche si dispone, richiamandosi, lungo l’asse temporale. Diversi raggruppamenti
sonori descrivono cosi la trasudazione di un codice rilasciato da una cellula all’altra.
Insomma, le differenti identità ritmiche si frastagliano e parcellizzano, ma
continuano ad essere legate da un rapporto di trasformazione. Nasce così l’analogia
con lo ione: sprigionarsi, nella divisione o secolarizzazione della materia, di
un’energia che permetta nuove aggregazioni e stati formali. Proprio l’energia di
coesione – legame chimico – è la metafora che meglio rende l’idea di comunicazione
tra i nuclei ritmici.
Seguendo Chou Wen Chung 101 questi danno propriamente origine a tre sonorità.
La prima viene presenta all’inizio dell’opera (mis1-8): un gong in dilatazione
raggiunge attraverso la risonanza spaziale una portata macroscopica / sonorità
oceanica. Alla prima misura assistiamo così a un attacco grave, come nel caso di
Hyperprism, con una risonanza imponente (cassa rullante e cassa grossa) seguita
dall’apparizione progressiva di armonici a intensità variabile, in un movimento che si
sdoppia (mais. 5-8 / 4-5), terminando in un crescendo generale. Ai primi timbri si

101
Cfr. Chou Wen-Chung, Ionisation: the function of Timbre in its formal and
Temporal Organisation, in The New Worlds of Edgard Varèse, Sh v. Solkema ed.,
New York, Institute for Studies in American Music, 1979, pp. 27-74.

292
associano così una serie di percussioni metalliche: l’intero movimento viene
supportato dalla linea delle due sirene.
La seconda sonorità appare per la prima volta alle misure 9-12, introducendosi
come l’opposto della prima: gli elementi chela compongono rendono così l’effetto
contrario rispetto alla coesione sonora proposta inizialmente; operano, potremmo
affermare, una secolarizzazione. Otteniamo qui una linea fornita dal tamburo militare
in contrappunto con uno sviluppo contemporaneo dei borghi: ad accompagnare tutto
la risonanza delle Caracas e balestra contrapposti ala casa grossa grave.
E’ possibile anatematizzare un’identità specifica per questo passaggio: il ritmo
diventa stabile, il timbro è dominato dalle pelli, si alza infine il registro rispetto alla
prima sonorità e la densità diventa più elevata.
Infine, alle misure 18-20, otteniamo un terzo effetto sonoro, quasi un elemento di
passaggio posposto. Il ritmo si compone tramite la divisione della frase precedente
del tamburo militare e il timbro si complica (pelli gravi, pelli con timbro, legni e
strumenti scossi), il registro passa così all’acuto, fornendo la nostra terza tessitura –
la terza esposizione della materia sonora – nell’emergere della differenza timbrica e
ritmica, parametro opposto a ogni melodia o narrazione.
Deleuze ha trattato Ionisation all'interno della lezione del 27/02/1979 dei Cours de
Evincente, proponendo una chiave di lettura legata al problema della forma rispetto a
termini quali forza e materia. Questo intervento, lungi dal manifestarsi come
un’immersione analitica nel problema, lascia affiorare il paradosso di un contributo
alla filosofia della musica fragile e complesso.
Le mosse di questa analisi ci sono in qualche modo ora giù note. Deleuze
propone infatti di indagare il dominio musicale secondo una reversibilità
musica/pittura. Da qui, facilmente, arriviamo a notare che se il pittore sembra non
potersi mai liberarsi del corpo a corpo con la materia (l’olio,i colori, la tessitura della
tela), la musica dei contemporanei può raggiungere lo stesso livello di conflittualità
produttrice di senso. Come sottolinea la Buydens siamo di fronte a un lavoro sui
materiali volto a cogliere le spinte caotiche – forze che sembrano piegare per
Deleuze le montagne di Cezanne, o produrre uno spasmo della carne esposta in
Bacon, o, ancora, la forza di germinazione tracciata nei girasoli di Van Gogh: la
presenza brutale della materia.
L’istanza si affaccia anche nel musicale: assente il movimento muscolare del
pittore, assistiamo a un corpo a corpo specifico. Come scrive in Logica del senso:

«La musica comincia dove finisce la pittura, è questo che si vuol dire quando si
parla di superiorità della musica. Si inserisce su linee di fuga che attraversano i
corpi, ma che trovano altrove la loro consistenza 102 .».

Ora, tra pittori e compositori l’intento sembra il medesimo: far emergere delle
forze, far risalire il simulacro e spingere da questa dimensione un riconoscimento per
differenza. Scendere, come nel gesto di Klee– il più musicale di tutti i pittori103 - che
“si interessa al microscopio, ai cristalli, alle molecole,agli atomi e alle particelle, non
per conformità scientifica, ma per il movimento” 104 per aprirsi infine “al Cosmo e per
captarne le forze in un’opera” 105
Lo stesso movimento, nelle parole di Deleuze, viene dedicato a Varèse:

102
Cfr. G. Deleuze, Logica del senso, op. cit., p. 146.
103
Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Sul Ritornello, op. cit., p. 47.
104
Ibid.
105
Ibid.

303
«La musica [contemporanea] molecola rizza la materia sonora, diviene così
capace di captare forze non sonore (...) il procedimento di Varèse, all’aurora di
quest’epoca, può essere ritenuto esemplare: una macchina musicale di consistenza,
una macchina per suoni che molecola rizza e atomizza, ionizza la materia sonora e
capta un’energia di Cosmo 106 ».

La materia dunque, esemplarmente in Varèse, si ionizza: l’attenzione si sposta su


questi processi di scomposizione e tessitura di differenze. Così, all’interno della
lezione, Ionisation è una “sintesi metallica” nei termini in cui l'accento si sposterebbe
dalla secolarizzazione del suono alla creazione di cristalli o forme.
L’attenzione deleuziana va così alle onde / sirene di Ionisation: “onde che passano
per ionizzazione”, così che nel processo metallico si assista nuovamente
all'applicabilità della chiave ermeneutica del Ritornello: dissoluzione della forma,
esaltazione della differenza particolare, ricomposizione di una macrostruttura
insieme caotica e riconoscibile.

§ 8 I fantasmi sonori di Gilles Deleuze

Il contributo alla filosofia della musica di Gilles Deleuze non è facilmente


individuabile, perché il suo riconoscimento sembra dipendere molto più dalla
definizione che di volta in volta contrattiamo della disciplina che non dagli sforzi
teorici del filosofo francese.
In quest’ottica, se volessimo proporci in una chiave di lettura ortodossa del ramo
filosofico, dovremmo ammetterci imbarazzati nel sostenere tesi sui compositori
contemporanei basandoci sulle letture dei padri di Mille piani.
L’autore non sembra infatti essersi prodotto né in un confronto puntuale con le
partiture, né in una serie di spunti occasionali all’interno dei quali riconoscere
interesse ad argomentazioni legate alla teoria della musica. D’altra parte, un concetto
più libero di questa disciplina potrebbe implicare una riabilitazione di queste pagine:
Deleuze ha parlato del musicale secondo un processo dotato di identità e coerenza,
tanto da fornire una chiara e innovativa ermeneutica quantomeno dei processi
analogici legati alla costruzione del senso. Come nel caso di Artaud, Deleuze è
risultato cosi interessato ai manifesti varesiani, e d’altronde questo tipo di
impostazione è perfettamente legittima: in una filosofia che ha postulato a priori
l’inesistenza di un valore dell’arte non si pone interesse nel singolo dominio né nelle
sue vicissitudini teoriche, ma si ricerca una traccia nella pagina o nella confessione
dell’autore. Si propone insomma una logica radaristica, un procedere dalle pagine
dell’autore ai concetti filosofici, filtrando attraverso periodi e sintesi di felicità
retorica il lavoro più solidamente teorico.
Pur non procedendo a una critica radicale del pensiero di Deleuze, va sicuramente
notato che questa impostazione si è prodotta anche in risultati decisamente infelici:
nella lezione citata dai Cours de Evincente tra il divenire costitutivo della forma e la
secolarizzazione fa di Ionisation una delle prime opere di musica elettronica.
Questo è ovviamente falso, poiché Varèse era ancora lontano dall’impiego di
strumenti atti a manipolare elettronicamente il suono. Eppure, la suggestione di
Deleuze è tale da vedere in quelle microfratture un abbozzo di scomposizione in
grani del suono, frammentazione centrale per poter comprendere appunto quella che
definisce “macchina varèsiana”.

106
Ibid, p.56.

313
Beninteso, forse la trattazione di Ionisation di Deleuze si mostra tanto più
affascinante tanto più offre zone di ambiguità o fraintendimento, mostrando in esse
uno spirito creativo che può effettivamente fornire – anche attraverso i propri
fantasmi - nuovi concetti e vocaboli a tutta la filosofia.
In questo senso si è voluta riproporre una minima analisi di Hyperprism e
Ionisation, ovvero non tanto per far collimare le osservazioni deleuziane o renderle
compatibili con gli sviliuppi varesiani, ma quanto per mostrarne i termini di una
ricerca tutt’altro che rassicurante.
Queste pagine non si possono tuttavia chiudere senza un ultimo cenno al luogo
platonico. Se l’oggetto “Deleuze e la musica” può veder riassorbite le polemiche
degli esponenti più ortodossi di una filosofia della musica, sembra difficilmente
resistere a una vertigine interna alla proprie pagine: lo sguardo volto al manifesto e
non alle singole difficoltà teoriche dei domini artistici può davvero coincidere con
una prospettiva di rovesciamento del platonismo? La risposta circa la centralità dei
particolari e delle differenze non sembra chiarire del tutto le nostre perplessità.
Deleuze postula inizialmente un’assenza del sistema delle arti: siamo di fronte a una
libertà di ogni disciplina rispetto al giogo filosofico, o invece a una indistinzione di
ogni dominio rispetto agli interessi deleuziani?
Musica e pittura sono legate in ogni passo della trattazione deleuziana, ma dei
singoli problemi affrontati dalle varie arti non sembra emergere il problema tecnico
individuale, la singola aporia concettuale, la difficoltà intrinseca a uno linguaggio
specifico: ovunque è zona di reversibilità analogica. Le chiavi ermeneutiche
deleuziane così – appoggiate ai manifesti dei singoli autori – possono agire
trasversalmente all’interno dei domini; ma non vi è in questo un germe di
quell’avventura degli antichi che si cercava di risolvere una volta per tutte? Davvero
in Deleuze non assistiamo al sorgere di un desiderio sistematico? La prospettiva di
una cosmologia della differenza si oppone al quadrivio codificato, ma davvero ne
abbandona la logica? In questi termini sembra più opportuno procedere a una chiara
distinzione: non è il singolo e comprensibile infortunio deleuziano rispetto alla
musica elettronica, né il suo disinteresse dei problemi teorici a farci supporre un
nuovo giogo e un nuovo sistema delle arti: è l’affermazione che l’arte – priva di un
fine in sé – si traduca sempre in vita.
Con quest’affermazione si sono aperte le nostre riflessioni e da qui sembra
opportuno chiudere: in quali termini una filosofia della differenza può procedere da
una distinzione aprioristica di questo tipo?
Diviene ben più logico accettare l’interesse al solo manifesto da questo punto di
vista: nelle singole arti ciò che conta è la possibiltà di estrapolare una parola, una
suggestione, una chiave ermeneutica che offra non solo applicabilità trasversale, ma
che si rovesci felicemente all’interno della prospettiva esistenziale, luogo ora
affollato anche dai fantasmi sonori di Gilles Deleuze.

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