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DIRITTO DEL LAVORO: IL RAPPORTO INDIVIDUALE

CAPITOLO I: ORIGINE E FATTISPECIE DEL LAVORO SUBORDINATO

SEZIONE I: GLI ELEMENTI IDENTIFICATIVI

DALLA LOCATIO HOMINIS AL RAPORTO DI LAVORO

Fino al 1942 il contratto con il quale ci si obbligava a prestare lavoro alle dipendenze di qualcuno
veniva considerato una sorta di contratto di locazione: l’unica cosa che differenziava questo dagli
altri contratti di locazione era l’oggetto cioè l’uomo che era giuridicamente considerato come una
cosa e non come una persona. Le opere dell’uomo poi costituivano il frutto di questa sorta di
contratto di locazione.
Tra i giuristi più famosi però non mancarono quelli che misero in risalto la contraddittorietà di
questo contratto perché se la caratteristica principale di un contratto di locazione è la disponibilità
temporanea di un bene, che deve essere restituito al termine del rapporto, non può parlarsi di
contratto di locazione dell’attività umana che come ogni fonte di energia si consuma nello stesso
momento in cui questa si produce.
Il codice civile del 1865 regolava in maniera specifica il contratto di trasporto e dettava una sola
regola relativa al rapporto di lavoro subordinato: nessuno può obbligare la sua opera ad altrui
servizio che a tempo o per una altrui impresa; gli ultimi ottanta anni di storia hanno visto un
mutamento del quadro normativo riguardante il rapporto di lavoro subordinato inerente soprattutto
alla trasformazione del rapporto di lavoro nel più minutamente regolato tra tutti i rapporti di lavoro
tipici di diritto privato.

IL PRINCIPIO DI TUTELA DEL LAVORO

Risulta in questo modo più chiaro che l’esigenza di istituire delle norme riguardanti il rapporto di
lavoro sta nell’esigenza di sottrarre il lavoratore allo stato di inferiorità nel quale verrebbe a
trovarsi se la disciplina giuridica lo abbandonasse. La tutela del lavoratore è quindi la funzione
caratteristica della disciplina giuridica del rapporto di lavoro; questo può essere utilizzato come
principio generale di questo settore dell’ordinamento e anche come criterio di interpretazione.

TUTELA DEL LAVORO E SISTEMA DELLE FONTI DEL DIRITTO DEL LAVORO:
CONTRATTI COLLETTIVI, FONTI SOVRANAZIONALI, LEGISLAZIONE REGIONALE

Il sistema delle fonti del diritto del lavoro prevede principalmente due criteri di interpretazione:
• i contratti collettivi: hanno nella tutela del lavoro la loro ragione d’essere e sono nati per
superare la debolezza contrattuale del singolo lavoratore nei confronti del singolo datore di
lavoro, trasferendo la trattativa dal piano individuale al piano collettivo. Naturalmente nel
caso di conflitto tra un atto avente forza di legge (legge, decreto legge e decreto legislativo)
ed un contratto collettivo sono i primi a prevalere
• le convenzioni internazionali del lavoro: sono norme approvate dalla Conferenza
dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (OIL) e sono destinate a diventare vincolanti
all’interno dei singoli stati appartenenti mediante la legge interna di ratifica alle
convenzioni. La loro funzione è principalmente quella di parificazione delle condizioni di
lavoro nei singoli paesi
• ATTENZIONE!!!!!! Non sono fonti di diritto, ma solo in materia di lavoro, i regolamenti e
le direttive dell’Unione Europea
LA SUBORDINAZIONE DEL LAVORATORE QUALE CARATTERE DISTINTIVO DEL
RAPPORTO DI LAVORO

Il fondamentale criterio di individuazione del rapporto di lavoro è costituito dalla subordinazione


del lavoratore al datore di lavoro che però non deve essere confusa con inferiorità economica o
con l’alienazione, ma solo come la pratica impossibilità nella quale il lavoratore si trova per
contribuire alla determinazione delle singole clausole contrattuali. La subordinazione è data invece
solamente da una specifica situazione di dipendenza nella quale il datore di lavoro si trova nello
svolgimento dell’attività lavorativa. In termini di determinazione dei caratteri generali del
rapporto di lavoro bisogna richiamare l’attenzione su un duplice ordine di criteri:
1. alcune delle componenti della subordinazione non individuano specifici poteri delle
parti del rapporto di lavoro, ma soltanto situazioni di fatto che si verificano durante
la prestazione di lavoro
2. alcuni poteri del datore di lavoro previsti nel nostro ordinamento, non servono ad
individuare il rapporto di lavoro, perché possono in concreto mancare senza che il
rapporto cambi natura.
In questo modo il rapporto di lavoro è ridimensionato al dovere di obbedienza, cioè al dovere di
osservare le disposizioni per l’esecuzione e la disciplina del lavoro contenute nel contratto di
lavoro. Il corrispettivo del lavoro subordinato, detta retribuzione, è solitamente la corresponsione
di una somma di denaro effettuata a periodi di durata uguale per un importo uguale; vi possono
essere però anche dei rapporti di lavoro con retribuzione variabile e rapporti di lavoro talmente
brevi da concludersi con una unica retribuzione: questo significa che natura e modalità del
corrispettivo non possono essere intese come elementi identificativi del rapporto di lavoro.

IL RISCHIO DEL DATORE DI LAVORO

La contropartita della retribuzione nel rapporto di lavoro è l’attribuzione al datore di lavoro di ogni
rischio inerente allo svolgimento della prestazione lavorativa. Questa responsabilità del datore di
lavoro è stata utilizzata dalla legge in molteplici direzioni:
 il datore di lavoro ha la responsabilità oggettiva per i danni prodotti a terzi dal
prestatore di lavoro durante l’esecuzione del lavoro
 il datore di lavoro è obbligato per legge a corrispondere in tutto o in parte la
retribuzione anche quando manca per determinate cause la prestazione
corrispettiva

SEZIONE II: GLI INTERESSI TUTELATI

SUBORDINAZIONE E SCAMBIO

La subordinazione del lavoratore ed il rischio del datore di lavoro sono elementi ineliminabili
del rapporto di lavoro non solo perché lo caratterizzano così come è regolato nel nostro
ordinamento, ma soprattutto perché una prestazione di lavoro senza questi due elementi non sarebbe
valida in nessun ordinamento. Nel nostro ordinamento il rapporto di lavoro è visto come un
rapporto di scambio e di corrispettività: tra lavoro e retribuzione e tra partecipazione di chi
lavora al risultato del lavoro e rischio di chi dirige i lavori e profitta del risultato.
IL LAVORO GRATUITO

Non è ammissibile un contratto di lavoro gratuito e questo perché il relativo contratto a cui
qualcuno si obbligherebbe non sarebbe un contratto valido rientrante tra quelli previsti all’art. 1322
del Codice Civile.

Art. 1322 - Autonomia contrattuale – Le parti possono liberamente determinare il contenuto del
contratto nei limiti imposti dalla legge e delle norme corporative.
Le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina
particolare purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento
giuridico.

IPOTESI DI RILEVANZA DELL’INTERESSE COMUNE ALLE PARTI: L’INTERSSE


DELL’IMPRESA NEL CODICE CIVILE

Quando si parla di “interesse dell’impresa” non si allude ad un interesse pubblico che appartiene
alla collettività, ma di un interesse superiore a quello dell’imprenditore e a quello di ogni singolo
soggetto che collabora con l’imprenditore all’interno dell’impresa. In ogni caso l’interesse
dell’impresa compete anche all’imprenditore, ma imprenditore inteso non come singolo, ma come
capo di quella collettività organizzata che viene chiamata impresa. Stabilire quindi se determinati
poteri dell’imprenditore siano attribuiti o meno per la tutela dell’interesse dell’impresa, significa
stabilire se l’imprenditore possa esercitare questi poteri per il soddisfacimento di un suo interesse
personale, oppure per il soddisfacimento di un interesse che gli compete in quanto membro
dell’organizzazione impresa e che di conseguenza compete anche a tutti gli altri membri
dell’impresa.
Un primo importante riferimento dell’interesse dell’impresa lo troviamo nell’art. 2104 che
commisura la diligenza richiesta al prestatore di lavoro, oltre che alla natura della prestazione
dovuta, a quanto richiesto dall’interesse dell’impresa; un'altra indicazione si ha dall’obbligo di
fedeltà del prestatore di lavoro stabilito all’art. 2105 consistente nel non far uso di notizie attinenti
l’impresa al fine di non recare ad essa un pregiudizio che viene imputato all’impresa e non
all’imprenditore, in modo tale da garantire la protezione di un interesse di gruppo e non di un
interesse individuale che tra l’altro non costituirebbe nessun illecito; un'altra interpretazione
importante si ricava dall’art. 2109 in base al quale il periodo delle ferie annuali è stabilito
dall’imprenditore sulla base delle esigenze del prestatore di lavoro e dell’interesse dell’impresa;
ricordiamo infine che l’art. 2103 pone le esigenze dell’impresa come presupposto valido perché
l’imprenditore possa modificare le mansioni del prestatore di lavoro.

Art. 2104 – Diligenza del prestatore di lavoro – Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta
dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione
nazionale.
Deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite
dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.

Art. 2105 – Obbligo di fedeltà – il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi,
in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di
produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.
Art. 2109 – Periodo di riposo – (secondo comma)…ha anche diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito,
possibilmente continuativo, nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e
degli interessi del prestatore di lavoro. La durata di tale periodo è stabilita dalla legge, dalle norme
corporative, dagli usi o secondo equità.

Art. 2103 – Mansioni del lavoratore – Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è
stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a
mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso
di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e
l’assegnazione stessa diventa definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore
assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque
non superiore a tre mesi.

In generale quindi si possono distinguere le figure dell’imprenditore, qualificato come il capo


dell’impresa, e dei prestatori di lavoro, qualificati come coloro i quali si obbligano mediante
retribuzione a collaborare non tanto con l’imprenditore, quanto con l’impresa.

L’INTERESSE DELL’IMPRESA NELL’ART. 46 COST. E NELLE LEGGI SUCCESSIVE

La piene rispondenza della nostra Costituzione al principio pluralista trova conferma nell’art. 46 per
cui “la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e ei limiti stabiliti
dalla legge, alla gestione delle aziende”. Il fatto che la Costituzione preveda la creazione di istituti
giuridici che consentono ai lavoratori di partecipare alla gestione aziendale, conferma la tutela
all’interesse dell’impresa inteso come interesse collettivo al quale anche i lavoratori partecipano.
È da notare inoltre che la destinazione di alcuni poteri dell’imprenditore alla soddisfazione
dell’interesse dell’impresa rappresenta una forma di tutela per i lavoratori, perché in questo modo
questi poteri vengono sottratti al libero arbitrio dell’imprenditore. È in questo modo pacifico che la
nostra Costituzione si basa sul principio di tutela del lavoro.

IL LAVORO NEI RAPPORTI ASSOCIATIVI

Accanto al rapporto di lavoro, che è rapporto di scambio, il nostro ordinamento conosce anche la
possibilità di una prestazione lavorativa che venga conferita in un rapporto associativo; possono
esserne esempi la mezzadria, la colonia e le cooperative di lavoro. Quello che risulta diverso nei due
tipi di rapporto non è tanto la presenza o l’assenza della subordinazione, quanto il fatto che nei
rapporti associativi sia preminente la tutela giuridica dell’interesse delle parti. Si deve quindi
parlare di rapporto associativo, quando chi presta l’attività lavorativa partecipa agli utili, ed
eventualmente alle perdite, in proporzione al valore del suo apporto; in questo modo dei due
caratteri fondamentali del rapporto di lavoro, ovvero la subordinazione del lavoratore ed il rischio
del datore di lavoro, viene meno proprio questo ultimo che viene ripartito tra le parti.
Si può quindi concludere dicendo che nel rapporto di lavoro il rischio grava solo sul datore di
lavoro e che quindi la compartecipazione al rischio da parte di altri soggetti può essere un
valido criterio per distinguere i rapporti di lavoro associativi dal rapporto di lavoro.
SEZIONE III: L’ESPANSIONE DELLA DISCIPLINA

LAVORO SUBORDINATO E LAVORO AUTONOMO

Non solo il criterio del rischio, ma anche quello della subordinazione servono invece a distinguere
il rapporto di lavoro dal rapporto di opera, o rapporto di lavoro autonomo che ha anche esso
un suo precedente in una forma di locazione: la locatio operis consistente nel fatto che chi riceveva
in locazione la cosa non ne godeva, ma doveva trasportarla o apportarvi delle migliorie. Una volta
superata l’idea della locazione è rimasto il criterio distintivo della subordinazione al quale molto
spesso si accosta, o addirittura si contrappone il fatto che tra contratto d’opera e contratto di lavoro
sia presente anche una differenza di oggetto: solo il contratto di lavoro ha per oggetto l’attività
del lavoratore, mentre il contratto d’opera ha per oggetto il risultato di questa attività. La base
di questa differenza si annida nella diversa disciplina dell’accollo del rischio dell’utilità per il
creditore della prestazione di lavoro; in sostanza essendo il rischio del datore di lavoro principio
caratteristico ed esclusivo del rapporto di lavoro che ha per presupposto base la subordinazione, è
chiaro che nel lavoro autonomo, mancando la subordinazione, manca anche l’attribuzione al
committente del rischio. Si ha quindi lavoro autonomo quando il committente è privo del potere di
dirigere, essendo la scelta delle modalità di esecuzione del lavoro in facoltà del lavoratore, nei limiti
segnati dal contratto.

I RAPPORTI DI COLLABORAZIONE CONTINUATIVA COORDINATA

La caratteristica sopra descritta del lavoro autonomo risalta quando si tratta di un lavoro con durata
limitata, rigidamente predefinito nel contenuto e nel tempo; la caratteristica risulta invece più
difficile da individuare quando viene concordata l’esecuzione di una attività lavorativa
continuativa. Se si tratta di contratto d’opera la regola è che la facoltà di scelta spetta al lavoratore
che quindi sceglierà la modalità per lui meno onerosa, ma alcune volte può essere coinvolto anche
un potere di scelta del committente. Fermo restando la distinzione tra lavoro subordinato e lavoro
autonomo, si assiste negli ultimi anni ad una estensione della tutela giuridica del primo a tutte
quelle forme di lavoro autonomo le cui posizioni vengono solitamente denominate di
“parasubordinazione”. Si ritiene che i fondamenti di questa estensione siano dati dalla normale
inferiorità economica delle categorie di lavoratori autonomi considerati e dalla posizione di
debolezza contrattuale nella quale si trovano questi lavoratori, intesa come pratica impossibilità di
contribuire a determinare le clausole del contratto. Il criterio che invece viene utilizzato per
distinguere i rapporti di opera da quelli assimilati al rapporto di lavoro, è quello della
collaborazione continuativa e coordinata prevalentemente personale: la continuità della
collaborazione si deve ritenere presente non solo quando la durata continuativa della prestazione è
prevista in un unico contratto, ma anche quando si hanno con una certa continuità prestazioni
d’opera che vengono concordate di volta in volta. Si può parlare correttamente di prestazione
d’opera coordinata solo quando il coordinamento interviene nella fase di esecuzione della
prestazione stessa, e non solo per accordo delle parti, ma per effetto dell’esercizio di un potere del
coordinatore. Per l’estensione delle norme sul lavoro subordinato si richiede una prestazione
prevalentemente personale che concorre all’identificazione, secondo la giurisprudenza, di tutte le
prestazioni d’opera para subordinate, comprese quelle tipiche specificate dalla legge.

IL LAVORO “A PROGETTO”

Nel complesso, dove c’è subordinazione, la tutela del lavoratore è più elevata e quindi il rapporto di
lavoro risulta essere più oneroso per il datore di lavoro; questo spiega perché la figura del lavoratore
parasubordinato negli ultimi anni si è estesa ad un gran numero di casi relativi ai più diversi settori
dell’attività lavorativa. In realtà si presume che il grande numero di lavoratori parasubordinati,
riconosciuti con il nome di co.co.co. (collaboratori coordinati e continuativi) sia dovuto
all’obbiettivo di sottrarre questo tipo di prestazioni alle ferree regole del lavoro subordinato: si finge
si tratti di co.co.co. per poter licenziare con più facilità, pagare meno contributi, pagare una
retribuzione meno elevata, ma in realtà la prestazione lavorativa ha tutte le caratteristiche del
rapporto di parasubordinazione. In conclusione quindi, se non ci sono progetti o programmi di
lavoro, i co.co.co sono considerati rapporti di lavoro subordinato.

VOLONTA’ DELLE PARTI DI QUALIFICARE IL RAPPORTO

Le parti possono dare una qualificazione diversa da quella di lavoro


subordinato al rapporto di lavoro (intendendolo come autonomo o
parasubordinato). Infatti dobbiamo rilevare come una delle due parti può avere
interesse a che tale rapporto non venga qualificato come subordinato in modo
tale da escludere la tutela. Ecco che per escludere la tutela caratterizzante
il lavoro subordinato il datore di lavoro propone di qualificare il rapporto in
modo diverso. (Anche il lavoratore può sollecitare a qualificare il rapporto come
rapporto diverso al lavoro subordinato questo per difendere la propria
autonomia e cioè avviene soprattutto in quei casi in cui il lavoratore svolge il
proprio lavoro per diversi committenti. )
È da evidenziare come sia quasi sempre, la volontà di qualificare il rapporto
subordinato in modo diverso, una volontà
• sollecitata da una parte
• espressa formalmente da entrambe le parti
Il problema della valenza o meno di tale volontà delle parti viene in evidenza
qualora il lavoratore contesta quella qualificazione di fronte al giudice.
Quest’ultimo dovrà verificare fino a che punto tale qualificazione abbia ragione
di esistere.
Il potere di qualificazione spetta esclusivamente al giudice. L’etichetta
posta dalle parti non ha alcun rilievo come non ha rilevanza nemmeno la
qualificazione del legislatore. In passato è accaduto un caso nel quale il
legislatore in ragione di un problema inerente agli enti locali abbia deciso di
qualificare un rapporto di lavoro. Ma tale qualificazione non era possibile in
quanto il legislatore non può sovrapporsi al giudice nella valutazione concreta
dei fatti. A proposito del caso citato si era espressa la Corte Costituzionale la
quale stabilì che la tale legge era incostituzionale perché il legislatore non ha
potere di qualificazione di tali rapporti.
Se c’è un rapporto che si svolge con le modalità del lavoro subordinato deve
essere qualificato come tale. L’etichetta non è uno strumento di qualificazione
del rapporto; per risolvere la questione il giudice dovrà vedere come in
concreto si è svolto tale rapporto.
Dobbiamo però mettere in luce che la giurisprudenza non adotta una soluzione
così drastica. Essa ritiene che l’etichetta può avere un valore indicativo, fino a
prova contraria, del tipo di rapporto che le parti volevano porre in essere.
La giurisprudenza ritiene quindi, che essendo una etichetta data in principio da
entrambe le parti (vi è quindi il presupposto che le parti fossero d’accordo), la
parte che decide di contestare tale qualificazione deve sopportare un onere
maggiore. La giurisprudenza impone alla parte contestante la dimostrazione
approfondita del fatto che il rapporto fosse diverso dal contratto concluso.
È vero quindi che nella qualificazione si esprime una certa volontà. Come
abbiamo visto la volontà delle parti può essere un ulteriore criterio, criterio che
in questo caso permette di negare la subordinazione.
IL LAVORO PARASUBORDINATO

Nella realtà sociale e successivamente anche in quella giuridica si sono


affermati ( e si stanno affermando tutt’ora) rapporti che sono autonomi ma che
hanno contemporaneamente (di fatto) caratteristiche assimilabili a quelle del
lavoro subordinato.
Sono i c.d. Co.Co.Co. cioè contratti di COLLABORAZIONE, CONTINUATIVA,
COORDINATA di carattere PREVALENTEMENTE PERSONALE.
Essi si sono affermati nella realtà per escludere l’applicazione delle norme
riguardanti la disciplina della subordinazione.
In molte situazioni essi sono fenomeni simulatori che hanno lo scopo di evitare
le gravanti collegate al lavoro subordinato. Sono delle situazioni limite.
Preso atto di ciò il legislatore ha deciso di prendere in considerazione anche
questa nuova categoria creatasi per regolarla e stabilirne gli effetti.
Era una constatazione che nelle realtà organizzative vi erano forme di
collaborazione di tipo diverso dal lavoro subordinato o da quello autonomo che
tuttavia erano legate all’attività imprenditoriale.
Tali collaborazioni si inseriscono con una certa stabilità nell’organizzazione
produttiva e molte volte riguardano collaboratori che svolgono unicamente
quella attività (monocommitenza). Anche in questo caso, come per la
subordinazione le condizioni economiche deboli sono esclusivamente un
presupposto per l’intervento normativo.

Interventi del legislatore in tale materia

Un primo intervento in proposito si ha con la Legge Vigorelli n° 751 del ’59 la


quale prevede accordi economici collettivi anche per la Co.Co.Co.
successivamente la Legge 533 del ’73, che è la legge di riforma del processo
del lavoro, nel definire l’ambito di qualificazione all’art 409 del codice di
procedura civile fa riferimento anche al lavoro parasubordinato :

Codice di procedura civile

Art 409. Controversie individuali di lavoro


Si osservano le disposizioni del presente capo nelle controversie relative a:
1. rapporti di lavoro subordinato privato, anche se non inerenti all’esercizio di
un impresa;
2. rapporti di mezzadria, di colonia parziari…
3. rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri
rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di
opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche
se non a carattere subordinato.

In questo articolo viene nominata l’opera continuata, coordinata e


prevalentemente personale. È da rilevare che il richiamo al contratto di agenzia
non è casuale infatti in tale contratto il soggetto si obbliga a promuovere la
conclusione di contratti. L’oggetto del contratto è proprio quest’ultimo e
caratteristica è che l’obbligo viene assunto stabilmente per garantire la
continuità della prestazione.

Il carattere della STABILITA’ è comunque comune a tutte e tre le ipotesi


stabilite al punto tre di tale articolo dal legislatore e quindi:
• all’agenzia
• alla rappresentanza commerciale
• altri rapporti Co.Co.Co.

prendendo in esame gli altri requisiti posti in essere dall’articolo e analizzandoli


uno ad uno possiamo evidenziare le seguenti cose:

1. PREVALENTEMENTE PERSONALE: è un requisito che và anch’esso


riferito a tutte e tre le categorie dei rapporti e di conseguenza anche
all’agenzia. Con questo requisito emerge la ratio di tutelare il soggetto
debole anche perché l’agente potrebbe essere imprenditore (?). il
significato della dicitura prevalentemente personale significa prevalere
nei confronti dei mezzi materiali utilizzati per lo svolgimento dell’attività
e prevalere anche sulle collaborazioni di altri soggetti.
2. COLLABORAZIONE: non ci permette di identificare tale categoria (anche
il lavoro subordinato ha questa caratteristica) serve solamente ai fini
della sigla. Non ha valore discriminatorio rispetto la subordinazione.
3. CONTINUATIVITA’: sta a significare che tale collaborazione si svolge su
un arco di tempo non necessariamente predeterminato ma la durata
della prestazione non può comunque esaurirsi in un atto. Non vuol
comunque solo dire che l’attività deve distendersi nel tempo ma che essa
si può attuare anche ad intervalli più o meno brevi (es. attività del
consulente del lavoro). Quindi tale attività si può collocare ad intervalli
all’interno di un arco di tempo predeterminato.
4. COORDINAZIONE: è necessario distinguerla dall’inserimento del
lavoratore nell’organizzazione dell’impresa che viene anch’essa ritenuta
una forma di collaborazione. Anche questa collaborazione proviene dal
committente che è il soggetto coordinatore e come quella del lavoro
subordinato non è limitata al risultato ma riguarda anche le modalità di
esecuzione dell’attività. La distinzione tra subordinato e parasubordinato
non è quindi di tipo qualitativo ma quantitativo: questa coordinazione
incide maggiormente nel lavoro subordinato.
Questa soluzione proposta da Suppiej non è di certo la soluzione migliore in
quanto lascia un ampio margine di discrezionalità al giudice, ma nonostante ciò
non ne esiste un altro di valido.
La giurisprudenza ha comunque escluso che il coordinamento nella
parasubordinazione possa riguardare direttamente e fino in fondo tutte le
modalità esecutive (altrimenti sarebbe subordinato). Si ritiene infatti che
essendo un contratto di lavoro autonomo una certa autonomia il lavoratore
debba mantenerla nell’attuazione della prestazione. Deve avere elementi
distintivi dal lavoro subordinato.

LA DISCIPLINA DA APPLICARE AL LAVORO PARASUBORDINATO


Come abbiamo già potuto riscontrare dall’art. 409 del codice di procedura
civile al lavoro parasubordinato si applicano innanzitutto le norme relative al
processo del lavoro. In più si applicano altre norme inserite nel processo di
riforma le quali hanno carattere sostanziale.
Si applicano quindi al lavoro subordinato
• Art 2113 c.c. “- rinunzie e transazioni – Le rinunzie e le transazioni
che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da
disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi
concernenti i rapporti di cui all’art 409 del codice di procedura civile,
non sono valide”; E’ un limite di disporre dei propri diritti che vale anche,
essendo richiamato l’art 409 per il lavoro parasubordinato;
• Art. 429 codice di procedura civile “- Esecutorietà della sentenza
– le sentenze che pronunciano condanna a favore del lavoratore per
crediti derivanti dai rapporti di cui all’art. 409 sono provvisoriamente
esecutive”. Tale norme riguarda la rivalutazione dei crediti che è
possibile anche per il lavoratori parasubordinati
• Norme riguardanti la maternità;
• Norme riguardanti gli infortuni sul lavoro e sulle malattie.

Al di la di queste norme al rapporto di lavoro parasubordinato non si


applicano le norme del lavoro subordinato.
Ad esempio non si applica l’art 36 della costituzione ( il lavoratore ha diritto ad
una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni
caso sufficiente ad assicurare a se e alla famiglia un’esistenza libera e
dignitosa…) in quanto essendo un rapporto di lavoro autonomo il compenso
sarà concordato dalle parti.

LA LEGGE BIAGI (D.l.gs 276/2003 )

Il Co.Co.Co. è stato modificato da tale legge. Si è voluti infatti intervenire


partendo dalla constatazione di un alto tasso di comportamento fraudolento nei
confronti delle norme in materia di lavoro subordinato. La legge Biagi
nonostante avesse come obbiettivo l’introduzione di maggior flessibilità nel
lavoro per il lavoro parasubordinato invece ha irrigidito la disciplina appunto
per limitare la elusione delle norme di tale rapporto.
A questo proposito dobbiamo prendere in considerazione gli art 61 – 69 e 86 di
tale decreto
Innanzitutto dobbiamo evidenziare come il titolo di tale capo sia LAVORO A
PROGETTO. L’introduzione del lavoro a progetto sembra costituire uno sviluppo
del tipo parasubordinato dell’art 409 con l’aggiunta del progetto. Sembra
quindi che la base sia sempre costituita dal Co.Co.Co. e che poi questa sia
specificata dalla previsione di un progetto. Ciò si ricava dall’art 61

“Ferma restando la disciplina per gli agenti e i rappresentanti di commercio, i


rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente
personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all’art 409 del codice di
procedura civile, devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici o
programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti
autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del
coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente
dal tempo impiegato per l’esecuzione della attività lavorativa”…

Il secondo comma di tale articolo ci indica che sono esclusi da tale


disciplina:
1. le prestazioni occasionali ( le quali vengono identificate sia nel tempo che
nel compenso… non più di trenta giorni nell’anno solare con lo stesso
committente e non più di 5 mila euro..)
2. professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione
ad appositi albi professionali, esistenti all’entrata in vigore del presente
decreto;
3. i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e i
partecipanti a collegi e commissioni
4. coloro che percepiscono la pensione di vecchiaia

Inoltre l’art 1 del decreto contiene la esclusione più importante e cioè la P.A.
tutte queste categorie rientrano nella disciplina Co.Co.Co. precedente.

Per riuscire a verificare se questa nuova tipologia di contratto è data da


Co.Co.Co. più il progetto dobbiamo prendere in considerazione i diversi criteri
caratterizzanti gia prima analizzati con riferimento al Co.Co.Co.

• PERSONALITA’ DELLA PRESTAZIONE: è un carattere che rimane


invariato per entrambi.
• CONTINUITA’: per quanto riguarda questo aspetto qualcosa è cambiato.
Nel primo comma dell’art 61 troviamo la dicitura “indipendentemente
dal tempo impiegato per l’esecuzione della attività lavorativa” .
Sembra sia svincolato dal tempo e quindi potremmo pensare anche a
tempo indeterminato ma sarebbe contraddetto, tale pensiero, dalla
stessa nozione di progetto la quale presuppone un inizio e una fine e che
quindi necessariamente deve essere ultimata. Un tempora impiegare,
anche se identificato indirettamente deve esserci. Non può esistere un
lavoro a progetto a tempo indeterminato.
• COORDINAZIONE: il progetto deve essere determinato dal committente
(modalità di esecuzione) ma a norma dell’art 62 lettera d il contratto
deve contenere le forme di coordinamento. Quindi da un lato, come
accadeva all’art 409 il coordinamento riguarda le modalità di esecuzione
e quindi attiene alla fase esecutiva ma le forme di coordinamento sono
stabilite dal contratto e di conseguenza non vi è un potere unilaterale di
coordinare (NOVITA’ rispetto art 409). Deve essere autonomo per
l’obbiettivo legislativo di evitare le frodi. Il fondamento è consensuale.

Il legislatore quindi ha precisato maggiormente il Co.Co.Co. ma nel contempo lo


ha anche modificato per evitare un comportamento antifraudolento in due
aspetti (come abbiamo visto):
• Sotto il profilo temporale
• Modalità esecutive di coordinamento
COSA SI INTENDE PER PROGETTO

Dall’art 61 possiamo ricavare che si intenda introdurre la connessione a :


• Uno o più progetti (attività , qualcosa di definito)
• Programmi di lavoro
• Fasi di lavoro

Con le ultime due voci sembrerebbe che tutta l’attività dell’imprenditore


potrebbe essere scomposta in singoli programmi o fasi. Con tale dicitura però il
legislatore non intendeva questo e nemmeno un’attività che uscisse dalla
normale attività di impresa, una cosa eccezionale (troppo riduttiva come
visione). Il legislatore intende che anche la normale attività può essere un
progetto ma questa deve essere individuabile con una sua caratterizzazione
autonoma in modo da differenziarsi dalla normale attività.

IL LAVORO A PROGETTO . . .

DEFINIZIONE DI PROGETTO

Il punto di maggior novità riguarda la definizione del progetto; la norma non


chiarisce tale concetto e nemmeno il concetto di programma di lavoro o
parte di esso richiamati nel primo comma dell’art. 61.
I primi interpreti ritenevano che si potesse avere un lavoro a progetto
solamente nel momento in cui l’attività oggetto del contratto era di tipo
inventivo. Ma questa interpretazione non trova riscontro nel testo normativo
anche se l’art 65 del D.lgs. 276/2003 (legge Biagi) tratta delle invenzioni del
lavoratore a progetto. Nemmeno con tale articolo significa che deve esserci
sempre una attività innovativa.
La non validità di questa interpretazione è evidente comunque dalla semplice
lettura dell’art 61 il quale nella definizione del lavoro a progetto prende in
considerazione oltre che i progetti specifici anche:
• Programmi di lavoro
• Fasi di esso
Scartata quindi questa interpretazione non sono previsti altri criteri di
interpretazione e possiamo dedurre solamente che deve essere qualcosa che
eccede la normale attività aziendale.
Esiste pero una circolare ministeriale, la numero 1 del 2004, (n.b. le
circolari ministeriali non vincolano l’interprete ma sono create solo per l’uso
interno al ministero stesso) la quale cerca di dare una definizioni sia di progetto
che di programma.

• Progetto: attività produttiva ben identificabile e funzionalmente


collegata ad un risultato finale. Può essere connessa sia ad una attività
principale che connessa dell’impresa. È il committente a determinare il
progetto (è una interpretazione più vasta).

• Programma: tipo di attività cui non è riconducile un risultato finale


(quindi è un’attività intermedia). È una fase di produzione che da un
risultato parziale il quale è destinato ad essere integrato da altre
lavorazioni o risultati parziali che poi si coordinano al risultato finale
(segmenti dell’attività).

In tale modo tutta l’attività dell’impresa si presta ad un frazionamento e viene


persa l’idea del legislatore il quale esigeva una peculiarità rispetto alla routine.
La circolare ministeriali non è quindi riuscita a dare criteri stabili.

Prendendo in considerazione un’altra circolare la numero 17/2006 che


riguarda i call center possiamo ricavare qualcosa di diverso.
L’attività svolta dai call center è una attività normale ma nonostante ciò gran
parte delle persone che svolgono tale lavoro sono assunti con un contratto a
progetto.
Vi è un problema di qualificazione di tali rapporti.
La circolare cerca di risolvere il problema distinguendo tra lavoratori che
svolgono:
• Attività in bound: e cioè all’interno dell’organizzazione. Tale attività è
l’attività di risposta alle telefonate normali. Il lavoratore in questo caso
non gestisce la propria attività né la può programmare. Non può essere
considerato quindi lavoro a progetto.
• Attività out bound: l’attività corrisponde alla specifica e singola
campagna promozione. Il lavoratore è assunto non per svolgere la
normale attività di risposta ma è assunto in riferimento a quella specifica
campagna. Il lavoratore nell’arco di quel progetto si auto-organizza.
In questa seconda circolare si opta per una definizione più rigorosa di progetto
anche se tali conclusioni in fondo si potevano trarre anche dalla prima
circolare.
Si vuole escludere una mera segmentazione dell’attività aziendale.

Per quanto riguarda il risultato questo è importante in quanto ha rilevanza


giuridica.
Nel lavoro a progetto è stata introdotta una obbligazione di risultato o anche in
questo caso dobbiamo prendere in considerazione una prestazione di attività?
L’art 67 prende in considerazione l’estinzione del contratto e preavviso.

Art 67 - Estinzione del contratto e preavviso – “I contratti di lavoro di cui


al presente capo si risolvono al momento della realizzazione del progetto o del
programma o della fase di esso che ne costituisce l’oggetto”.

“ne costituisce l’oggetto” ci evidenzia il fatto che la prestazione dedotta nel


contratto è una vera e propria obbligazione di risultato. La prestazione è il
progetto medesimo e il lavoratore per adempiere deve realizzarlo.
A tal proposito vi è una obbiezione di fondo: il progetto, o il programma o
comunque le fasi di quest’ultimo sono determinate dal committente; come si
può immaginare che l’oggetto sia determinato da una sola delle parti?
Dobbiamo quindi ritenere che il progetto determinato unilateralmente dal
committente rappresenta l’ambito entro il quale il lavoratore deve svolgere la
sua prestazione altrimenti la norma all’art 67 sancirebbe l’esistenza di una
obbligazione di risultato.
È da intendere invece come una prestazione di attività rapportata al
progetto.

LA MANCANZA DI OGGETTO

In riferimento a questo aspetto dobbiamo analizzare l’art 69 D.lgs.276/2003.

Art 69 - Divieto di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa


atipici e conversione del contratto – “I rapporti di collaborazione
continuata e continuativa instauratisi senza l’individuazione di uno specifico
progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell’articolo 61 comma 1
sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin
dalla data di costituzione del rapporto.
Qualora venga accertato dal giudice che il rapporto instaurato ai sensi
dell’articolo 61 sia venuto a configurare un rapporto di lavoro subordinato, esso
si trasforma in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato
corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi dalle parti. . .”

Da tale articolo possiamo ricavare due ipotesi possibili:

1. non c’è il progetto: tali rapporti sono considerati rapporti di lavoro


subordinato a tempo indeterminato fin dalla data di costituzione del
rapporto;
2. contratto di lavoro subordinato chiamato però Co.co.co.: si
trasforma in rapporto di lavoro subordinato così come le parti avrebbero
voluto. In questo caso infatti il progetto c’è e risponde ai requisiti dell’art
61 ma nell’esecuzione si è configurato come un rapporto di lavoro
subordinato (contratto simulato). La dicitura il contratto “si trasforma”
è impropria in quanto in realtà vi è la nullità del contratto simulato e poi
l’accertamento del vero rapporto.

I giudici nel momento in cui devono risolvere una questione come quella del
punto due per prima cosa verificano se è un contratto simulato o no (se vi è
subordinazione o meno) e in un secondo momento se manca il progetto.

Il primo comma di questo articolo riguarda l’ipotesi in cui progetto non è in


regola con i criteri sanciti dall’art 61. Nonostante ciò le parti hanno dato
esecuzione al contratto con criteri di autonomia. Il legislatore vuole che tale
contratto che viene eseguito con criteri di autonomia si converte in un
contratto di lavoro subordinato.
Vi è un problema: l’intervento normativo è un intervento molto forte; le parti
hanno infatti voluto ed impostato il contratto come un contratto autonomo ed il
legislatore vuole che la mancanza del progetto determini una conversione a
contratto subordinato.
A tal proposito è stata sollevata anche una questione di incostituzionalità per
contrarietà all’art 3 Cost. in quanto vi è disparità di trattamento tra i soggetti
che hanno voluto ed hanno dato esecuzione ad un contratto subordinato ed i
soggetti che volevano un contratto autonomo ed invece hanno ottenuto un
contratto subordinato che non volevano.(o comunque almeno una delle due
arti non voleva)

La giurisprudenza ha ritenuto che il meccanismo utilizzato al primo comma


dell’art 69 sia un meccanismo presuntivo che taluni hanno visto come:
• assoluto:quando non c’è il progetto si converte in un contratto
subordinato a tempo indeterminato;
• relativo: quando una delle due parti che sono convenute in giudizio
possa dimostrare che nonostante la mancanza di progetto il contratto si
è svolto come un contratto autonomo e di conseguenza non può esserci
la conversione.

L’intento della legge era quello di introdurre un meccanismo di conversione che


funzionasse a scopo sanzionatorio in modo tale da evitare le frodi. In questo
caso si considera (non si presume) che il contratto sia a subordinato anche se
in concreto non lo era.

Per quanto riguarda la tesi di tipo relativo essa non è accettabile in quanto si
tornerebbe al vecchio Co.Co.Co Si sancisce, infatti, che mancando il progetto
rimane comunque una collaborazione autonoma.
Quantomeno si dovrebbe arrivare a dire che se è da mantenere una autonomia
questa deve essere riferita all’art 2222 (contratto d’opera) e non al contratto
Co.Co.Co. Solo in questo modo si può salvare il principio dell’autonomia.

Quindi l’art 69 introduce:


• simulazione
• la presunzione relativa (che però fa tornare al vecchio Co.Co.Co.)
• stabilisce meccanismi sanzionatori (la sanzione forse è eccessiva . .
incostituzionale?)

LA FORMA DEL CONTRATTO

Art 62 – Forma – il contratto di lavoro a progetto è stipulato in forma scritta e


deve contenere ai fini della prova i seguenti elementi:
a) indicazione della durata … della prestazione (no del progetto)
b) indicazione del progetto…
c)corrispettivo…
d) forme di coordinamento tra lavoratore a progetto e committente…
e) eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza dei collaboratori…

La forma deve essere scritta e deve contenere ai fini della prova (ab
probationem) determinati elementi (vedi sopra).La forma scritta deve essere
utilizzata anche con riguardo ai diversi elementi che devono essere inseriti.

IL CORRISPETTIVO
Art. 63 - Corrispettivo- “Il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto
deve essere proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro eseguito e
deve tener conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe
prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto”

È un parametro che si rifà al lavoro autonomo. È un criterio di tipo oggettivo.

L’OBBLIGO ALLA RISERVATEZZA

Art.64 – “Salvo diverso accordo tra le parti il collaboratore a progetto può


svolgere la sua attività a favore di più committenti.
Il collaboratore a progetto non deve svolgere attività in concorrenza con i
committenti, né, in ogni caso, diffondere notizie e apprezzamenti attinenti ai
programmi e alle organizzazioni di essi, né compiere, in qualsiasi modo
pregiudizio della attività dei committenti medesimi”

È un obbligo a carico del lavoratore in caso di pluricommittenti . Non c’è una


norma riguardante la concorrenza nel lavoro subordinato. Il limite alla
concorrenza in questo caso comunque riprende la normative del lavoro
subordinato riguardante l’obbligo di fedeltà.

ALTRI DIRITTI DEL COLLABORATORE A PROGETTO

È l’art. 66 del decreto che tratta questo argomento. In tale articolo viene
evidenziato come la gravidanza, la malattia e l’infortunio non comportano
l’estinzione del rapporto contrattuale. In questo caso il rapporto rimane
sospeso senza l’erogazione del corrispettivo.
Viene poi precisato che salva diversa previene del patto individuale in caso di
malattia e infortunio la sospensione del contratto non comporta la proroga (ciò
che si è perso non è recuperabile) del contratto che si estingue alla scadenza.
Nel caso di gravidanza invece la durata del rapporto è prorogata per un periodo
di 180 giorni salvo disposizione più favorevole del contratto individuale (questa
normativa non ha senso… è inapplicabile… es. progetto vestiti stagione
primavera 2008)

ESTINZIONE E PREAVVISO

Art 67 – Estinzione e preavviso – “i contratti di lavoro di cui al presente


capo si risolvono al momento della realizzazione del progetto o del
programma o della fase di esso che ne costituisce l’oggetto. Le parti
possono recedere prima della scadenza del termine per giusta causa ovvero
secondo le diverse causali o modalità, incluso il preavviso, stabilito dalle parti
nel contratto di lavoro individuale.
ALTRE TIPOLOGIE CONTRATTUALI

RAPPORTI ASSOCIATIVI
Dai quali può essere dedotta una prestazione di lavoro

Art 2247 c.c. – Contratto di società – con il contratto di società due o più
persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di una attività
economica allo scopo di dividerne gli utili” .

Tra i beni e servizi apportati dalle persone nella società può esserci anche
l’apporto di attività di lavoro.
A tal proposito dobbiamo suddividere tra:
• società di capitali: le prestazioni lavorative sono delle prestazioni
accessorie
• società di persone: vi è un vero e proprio conferimento di attività
lavorativa

Lo svolgimento dell’attività lavorativa è adempimento del contratto sociale e di


conseguenza non può essere l’adempimento di un contratto diverso.

LE SOCIETA’ COOPERATIVE DI LAVORO

Queste società di tipo cooperativo offrono beni e servizi a condizioni migliori di


quelle offerte dal mercato.
Fino al 2001 lo svolgimento di attività lavorativa del socio era considerata
adempimento del contratto sociale. Era possibile una cumulazione tra socio e
lavoratore subordinato però ciò poteva avvenire solo per le attività diverse da
quelle svolte dalla società stessa (l’applicazione pratica era un po’
strampalata!).

Biagi ha sostituito la possibilità del cumulo dei due rapporto indifferenziato. Egli
partiva da un contesto economico sociale particolare per il quale in molti
settori con metodo della cumulazione molte cooperative nascondevano
rapporti di lavoro subordinato. Questa tesi fu contrastata dalla giurisprudenza
ma venne accolta dal legislatore il quale con la L. 142/2001 ha previsto la
revisione della legislazione delle cooperative con riferimento al socio
lavoratore.
Il primo articolo di tale legge (soci lavoratori di cooperativa) enuncia che le
disposizioni della legge si riferiscono alle cooperative nelle quali il rapporto
mutualistico ha ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del
socio.
Definisce poi cosa fanno i soci di cooperativa stabilendo che essi:
• concorrono alla gestione dell’impresa partecipando alla formazione degli
organi sociali e alla definizione della struttura di direzione e conduzione
dell’impresa;
• partecipano alla elaborazione di programmi di sviluppo e alle decisioni
concernenti le scelte strategiche. . .
• contribuiscono alla formazione del capitale sociale e partecipano al
rischio dell’impresa, ai risultati economici…
• Mettono a disposizione le proprie capacità professionali anche in
relazione al tipo e allo stato dell’attività svolta, nonché alla quantità delle
prestazioni di lavoro disponibili per la cooperativa stessa.
Viene infine precisato che attraverso la propria adesione o successivamente
all’instaurarsi del rapporto associativo un ulteriore e distinto rapporto di lavoro,
in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i
rapporti di collaborazione coordinata non occasionale, con cui contribuisce
comunque al raggiungimento degli scopi sociali.

Questo è il cuore della nuova scelta legislativa che sancisce la duplicità di


rapporto:
• Rapporto associativo
• Rapporto di lavoro dai cui derivano i relativi effetti.
Questa impostazione deriva dalla modifica della legge di delega del decreto
Biagi.

Vi è l’obbligo di instaurazione di un rapporto associativo e di un rapporto di


lavoro separati dai quali derivano per ognuno gli effetti previsti dalla legge
citata nonché quelli derivanti da altre leggi compatibili.
Anche se vi è una autonomia tra i due rapporti anche quelli di scambio e quindi
anche i rapporti di lavoro sono strumentali al rapporto associativo.
L’estinzione del rapporto associativo (per recesso od estinzione del socio)
porta all’estinzione anche del rapporto di lavoro il quale non potrebbe più stare
in piedi da solo.
Vi è una interdipendenza tra i due rapporto.
La forma del rapporto (se autonoma o subordinata o altra forma) viene definita
dallo stesso regolamento della cooperativa.

Oltre ai co.co.co ed ai lavoratori a progetto esistono varie altre tipologie contrattuali che prevedono
una attività di lavoro:
 RAPPORTI ASSOCIATIVI: in questa ipotesi, lo svolgimento di attività lavorativa
costituisce un adempimento del contratto sociale, ammettendo la sovrapposizione tra le
figure del socio e del lavoratore subordinato e facendo così nascere la figura del SOCIO
LAVORATORE che è stata introdotta con la legge 142 del 2001. Il socio lavoratore
partecipa alle varie fasi dell’impresa mettendo a disposizione le proprie capacità
professionali e stabilendo un ulteriore rapporto di lavoro con cui contribuisce comunque al
raggiungimento degli scopi sociali. In questa duplicità di rapporti, quello di lavoro è
strumentale a quello sociale ed il primo non può esistere da solo. Il regolamento delle
cooperative stabilisce di che tipo è questo ulteriore rapporto di lavoro.
 ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE: questo rapporto di lavoro può essere
utilizzato come strumento di elusione del lavoro subordinato. Si distinguono due figure:
quella dell’ASSOCIATO che apporta il proprio lavoro e può esercitare un controllo sul
rendiconto, e l’ASSOCIANTE al quale spetta la gestione dell’impresa. L’associato
partecipa alle perdite (solo per un ammontare pari al suo conferimento), nella stessa misura
in cui partecipa agli utili. L’art. 83 del Decreto Bigi tutela la posizione dell’associato in
quanto ipotizza che questi sia un lavoratore subordinato nel caso in cui non abbia una
partecipazione ed una adeguata compensazione o erogazione all’interno dell’impresa.
 AMMINISTRATORI DI SOCIETA’ DI CAPITALI: si distinguono in questo caso due
figure che sono quella dell’AMMINISTRATORE UNICO che è colui che esaudisce la
volontà della società quindi non può essere considerato un lavoratore subordinato, e quella
dell’AMMINISTRATORE DELEGATO che può essere considerato un lavoratore
subordinato in quanto si può separare la sua volontà da quella della società. La
qualificazione del rapporto di lavoro degli amministratori è sorta per garantire loro una
posizione previdenziale pensionistica.
 LAVORO ACCESSORIO: questo tipo di lavoro ha per destinatari soggetti deboli come i
disoccupati da oltre un anno, le casalinghe, gli studenti, i pensionati, i disabili ed i soggetti
in comunità di recupero ed i lavoratori extracomunitari regolari. I prestatori di lavoro
accessorio vengono pagati con dei coupon il cui valore viene deciso dal Ministro del Lavoro
e non sono gravati da oneri fiscali.
 LAVORO GRATUITO: le ipotesi più frequenti sono quelle di lavori svolti nell’AMBITO
(non impresa) famigliare. Nell’ambito della famiglia si può distinguere l’impresa famigliare,
il rapporto di lavoro subordinato ed il lavoro gratuito. Altri esempi di lavoro gratuito sono
quelli svolti all’interno di comunità religiose, in organizzazioni non profit e di volontariato. I
prestatori di lavoro gratuito devono essere assicurati contro infortuni e responsabilità verso
terzi e questo vale anche per chi svolge LAVORI SOCIALMENTE UTILI cioè utili per la
società. In tutti questi casi non si può parlare di lavoro subordinato perché non c’è scambio e
infatti il compenso che viene dato a questi lavoratori serve per mantenere le garanzie
previdenziali.
ORIGINE E SIGNIFICATO DELLA DISTINZIONE FRA LAVORO PRIVATO E LAVORO
PUBBLICO

Un altro problema riguarda la configurabilità come rapporto di lavoro in senso stretto quello
alle dipendenze di enti pubblici. Su questo problema la giurisprudenza, nella prima metà del
secolo scorso, si è attestata su una posizione intermadia: da un lato si attribuiva all’atto costitutivo
del rapporto natura pubblicistica, dall’altro si riconosceva che era necessario, per l’efficacia
dell’atto, alla volontà della Pubblica Amministrazione si accompagnasse quella del singolo
dipendente. In generale però la linea di confine tra lavoro privato e lavoro pubblico non poteva
essere rappresentata dalla natura pubblica del soggetto datore di lavoro, inoltre perché i dipendenti
potessero essere considerati pubblici dipendenti era necessario che si trattasse di soggetti che
partecipavano continuativamente con la loro attività al perseguimento dei fini dello Stato o dell’ente
pubblico, occupassero un ruolo previsto nell’organico dell’ente e fossero stati assunti con un
normale atto amministrativo.

RAVVICINAMENTO ED ASSIMILAZIONE DEL LAVORO PUBBLICO AL LAVORO PRIVATO

In secondo luogo, bisogna notare come a partire dal secondo dopoguerra si sia andata manifestando
come sempre più frequente la tendenza di un progressivo avvicinamento tra lavoro pubblico e
lavoro privato, secondo una duplice direttiva: da un lato sono stati introdotti nella disciplina del
rapporto privato principi e regole un tempo caratteristici del lavoro pubblico ed una prima
indicazione in tale senso era stata da quelle norme del codice civile che comportavano la
funzionalizzazione di alcuni poteri dell’imprenditore all’interesse dell’impresa e
dall’inquadramento del personale in ruoli organici che prevedevano una progressione in carriera,
aumenti periodici della retribuzione, ecc. ecc.; dall’altro lato nel campo del lavoro pubblico sono
stati introdotti istituti desunti dalla disciplina del lavoro privato. L’elemento decisivo di questa
evoluzione è rappresentato dall’acquisizione della legittimità dell’organizzazione e dell’azione
sindacale dei pubblici dipendenti, pensando cioè che con i sindacati le amministrazioni pubbliche
stipulassero non dei contratti collettivi ma degli accordi, e che questi accordi previa deliberazione
del Governo, dovessero essere recepiti dal Presidente della Repubblica. Nel corso degli anni ’80 si
pensò che la scarsa efficienza della Pubblica Amministrazione dipendesse dalla residua
regolamentazione pubblicistica con i dipendenti, e così dal 1992 iniziò un fortissimo processo di
privatizzazione, al quale però le amministrazioni pubbliche ed il loro personale vennero esclusi per
volere della cosiddetta riforma Biagi.

CAPITOLO II: IL RAPPORTO DI LAVORO

SEZIONE I: STRUTTURA DEL RAPPORTO

COMPLESSITA’ E UNITARIETA’ DEL RAPPORTO DI LAVORO

L’opinione comune della maggioranza degli studiosi di diritto è che il rapporto di lavoro è un
rapporto complesso al quale appartengono le singole posizioni delle parti, le quali scaturiscono tutte
da una unica fonte che è il contratto di lavoro o eventualmente l’occupazione di fatto del lavoratore.
Oltre alle varie posizioni di datore di lavoro e lavoratore, il maggior rilievo è dato all’obbligazione
di lavoro e all’obbligazione di retribuzione, considerate le due obbligazioni principali delle parti
e fra loro corrispettive; in realtà questo modo di concepire il rapporto di lavoro risulta essere
insufficiente a spiegare il fenomeno nella sua interezza e deve essere integrato. Un primo indizio di
insufficienza è rappresentato dai sempre più ricorrenti tentativi di accentuare l’unità del rapporto
con cui alle volte la dottrina si riferisce con la nozione di istituzione. Particolarmente significativa è
la tendenza di unificare la posizione passiva del lavoratore: per esempio la configurazione del
dovere di fedeltà come una forma di espansione del dovere di lavoro. Nella dottrina italiana, invece,
anche tra coloro che tendono ad unificare in una sola obbligazione le due posizioni del rapporto di
lavoro, continua ad essere dato maggior rilievo alla prestazione di lavoro. L’unificazione si attua
quindi da un lato ampliando il contenuto della prestazione di lavoro, e dall’altro valorizzando gli
altri doveri del prestatore.

IL RAPPORTO FONDAMENTALE DI LAVORO

Quando si parla di rapporto di lavoro si intende un legame tra due soggetti, lavoratore e datore di
lavoro, che non si identifica in nessuna posizione ma che ne costituisce il presupposto. La categoria
concettuale alla quale questa concezione di rapporto di lavoro deve essere ricondotta è quella di
“rapporto fondamentale”. Si intende per rapporto fondamentale una relazione giuridica
continuativa che non esiste nella relazione tra un diritto ed un dovere corrispondente, oppure tra una
prestazione attiva ed una passiva, ma in un vincolo nel quale non si può parlare di lato attivo né di
lato passivo, perciò neutro, ma la cui esistenza costituisce il presupposto per la produzione di una
pluralità di effetti. Una funzione diversa da quella appena descritta viene data alla nozione di
posizione professionale, adoperata per indicare chi ha una autonoma rilevanza giuridica e può
qualificarsi come lavoratore.
L’unità del rapporto di lavoro non si ottiene unificando le due posizioni giuridiche, ma
soltanto considerando la sostanziale unità dell’intero rapporto inteso come rapporto
fondamentale.

SEZIONE II: L’OBBLIGAZIONE DI LAVORO

L’OBBLIGAZIONE DI LAVORO QUALE OBBLIGO PRIMARIO DI FARE

La prestazione di lavoro è quella che conforma e costituisce il rapporto di lavoro. In questa ottica è
necessario fare una distinzione tra obblighi negativi di rispetto di una altrui facoltà di
comportamento, o obblighi secondari, ed obblighi di comportamento opportunamente indirizzati
alla soddisfazione di un interesse del creditore, obblighi positivi o primari. La posizione del
lavoratore appartiene sempre alla seconda specie.
Connesso al problema relativo all’appartenenza dell’obbligo di lavoro alla categoria degli obblighi
secondari o primari, è il problema che intende stabilire se l’obbligo di lavoro è un obbligo
positivo (di fare) o un obbligo negativo (di non fare). Sembra a prima vista indubbio che
l’obbligo di lavoro sia il tipico obbligo di fare. L’errore sta nel confondere il punto di vista
normativo con il punto di vista naturalistico: gli obblighi di fare non sono quelli che impongono
una azione in senso naturalistico, ma quelli nei quali la condotta obbligatoria è determinata; per
contro gli obblighi di non fare non sono quelli che impongono una inerzia in senso naturalistico, ma
sono quelli per i quali è vietata una certa condotta determinata, essendo obbligatorio tenere qualsiasi
condotta diversa da quella vietata. L’obbligo di lavorare è quindi sempre un obbligo di fare.

OGGETTO DELL’OBBLIGAZIONE DI LAVORO E SUA QUALIFICAZIONE COME


OBBLIGAZIONE DI CONTEGNO. LE INVENZIONI DEL LAVORATORE

Passiamo adesso ad un altro dibattito e cioè quello relativo all’individuazione dell’oggetto


dell’obbligazione di lavoro. La dottrina che si deve oramai considerare tradizionale considera come
oggetto dell’obbligazione, e insieme del diritto di credito che ne corrisponde, la condotta
obbligatoria che prende il nome di prestazione. Presupposto che sarebbe assurdo far rientrare
nell’oggetto di un obbligo fatti indipendenti dalla volontà dell’obbligato, le più recenti formulazioni
distinguono tra oggetto del diritto di credito e contenuto della corrispondente obbligazione: il
primo sarebbe il risultato della prestazione, il secondo la prestazione in sé considerata. Non è però
corretto pensare che l’oggetto dell’obbligazione comprenda sempre oltre alla condotta
dell’obbligato anche fatti altrui. In relazione a questo punto facciamo un’altra distinzione e cioè
quella tra obbligazioni di mezzi o di comportamento, che impongono al debitore soltanto una
certa condotta mantenendo la quale il debitore ha adempiuto l’obbligazione, ed obbligazioni di
risultato, che impongono al debitore di conseguire, attraverso una certa condotta, un ulteriore
risultato senza ottenere il quale il debitore è inadempiente. L’obbligazione di lavoro è un tipico
esempio di obbligazione di mezzi perché impone al prestatore soltanto di mantenere un certo
comportamento.

MANSIONI CONTRATTUALI E MANSIONI EFFETTIVE

Art. 2103 – Mansioni del lavoratore – Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali
è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero
a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel
caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività
svolta e l’assegnazione stessa diventa definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di
lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e
comunque non superiore a tre mesi.

Per indicare il tipo di attività che costituisce l’oggetto dell’obbligazione l’art. 2103 c.c. utilizza il
termine “mansioni” con il quale si intende niente altro che il lavoro al quale il prestatore è
obbligato così come risulta genericamente nel contratto; stabilendo la norma che ha quelle mansioni
il lavoratore “deve essere adibito” sancisce anche quello che viene chiamato principio della
contrattualità delle mansioni. Questo principio sta a significare che per identificare il tipo di
attività che costituisce l’oggetto del contratto bisogna fare riferimento alla volontà delle parti e a
nessun altro dato di fatto. Naturalmente, per accertare quali mansioni hanno voluto le parti occorre
considerare quelle che sono state effettivamente assegnate, non quelle che risultanti dalla qualifica
formalmente indicata o dalla categoria di inquadramento non corrispondente alle mansioni effettive.
Per concludere il principio della effettività delle mansioni va inteso correttamente come
preminenza del contratto reale sul contratto apparente, e non di preminenza del fatto sul
contratto per l’individuazione dell’attività dovuta.

MANSIONI E QUALIFICA

Le varie mansioni, per essere meglio circoscritte, possono essere scomposte in attività specifiche
che rientrano al loro interno, o raggruppate per stabilire delle regole comuni a tutte le mansioni che
rientrano in un determinato gruppo; con riguardo a questa seconda possibilità si parla generalmente
di categorie o di qualifiche. Più spesso però sia parlando di categoria, ma soprattutto di qualifica, si
intende alludere non tanto ad un insieme di mansioni quanto più alla posizione giuridica attribuita
ad un singolo lavoratore nell’ambito del rapporto di lavoro di cui fa parte. La qualifica deve
quindi definirsi come la posizione che compete al lavoratore nel rapporto fondamentale di
lavoro.

DIRIGENTI, IMPIEGATI, OPERAI E “QUADRI”

Art. 2095 – Categorie dei prestatori di lavoro – I prestatori di lavoro subordinato si distinguono in
dirigenti, quadri, impiegati ed operai.
Le leggi speciali e le norme corporative, in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare
struttura dell’impresa, determinano i requisiti di appartenenza alle indicate categorie.

L’art. 2095 del c.c. all’interno della rubrica “categorie dei prestatori di lavoro” raccoglie le
possibili mansioni in quattro gruppi ritenuti omogenei: dirigenti, quadri, impiegati e operai. Al
memento dell’entrata in vigore del codice questa classificazione ha avuto una notevole importanza
perché rappresentava il superamento del precedente assetto nel quale solo impiegati e dirigenti
avevano una regolamentazione legale sulla base della legge sull’impiego privato; per quanto
riguarda la distinzione tra impiegati ed operai, il processo di unificazione del trattamento spettante
alle diverse categorie proseguì nella contrattazione collettiva con l’inquadramento unico. Quanto
al numero delle categorie stabilite dall’art. 2095, in origine erano tre: dirigenti, amministrativi o
tecnici, impiegati ed operai. La legge n. 190 del 1985 sul riconoscimento giuridico dei quadri
intermedi ha modificato questa classificazione inserendo tra i dirigenti e gli impiegati la quarta
categoria dei quadri intermedi anche se questa innovazione non ha portato a grandissimi
cambiamenti visto che la rilevanza giuridica dell’appartenenza alla categoria dei quadri è assai
modesta.

MODO E LUOGO DELL’ADEMPIMENTO DELL’OBBLIGAZIONE DI LAVORO


Art. 1176 – Diligenza nell’adempimento – Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la
diligenza del buon padre di famiglia.
Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di una attività professionale, la diligenza deve
valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata.

L’art. 1176 c.c. stabilisce che “nell’adempiere all’obbligazione il debitore deve utilizzare la
diligenza del buon padre di famiglia”, il principio romanistica che fa riferimento all’uomo medio,
alla diligenza dovuta e alla conseguente irrilevanza delle doti di personale perizia del debitore; nel
secondo comma poi si stabilisce che è necessario avere “riguardo alla natura dell’attività
esercitata”, il che significa che in questo caso la media che viene tenuta in considerazione non è
quella di tutti i debitori, ma soltanto di quelli che esercitano la professione in questione. Anche la
diligenza richiesta al datore di lavoro deve quindi valutarsi tenendo conto della perizia media dei
lavoratori addetti alle medesime mansioni. Conclusioni diverse circa la valutazione del criterio di
diligenza non sono autorizzate nel caso in cui il lavoratore sia in prova, cioè il periodo che
consente alle parti del contratto di lavoro di sperimentare il reciproco gradimento prima che il
contratto di lavoro diventi definitivo, e neppure nel caso di apprendisti e lavoratori assunti con
contratto di formazione e lavoro. Il luogo in cui deve avere adempimento l’obbligazione di
lavoro è quella indicata o desumibile dal contratto. In base ad un principio generale bisogna
precisare che il luogo originariamente convenuto per lo svolgimento del lavoro non può essere
modificato unilateralmente perché si tratta di una modalità dell’oggetto del contratto, ma non
sempre il luogo convenuto è uno spazio circoscritto e stabile: vi sono lavori che per loro natura
richiedono continui spostamenti territoriali, lavori nei quali magari si conviene che il lavoratore si
sposti in sedi diverse, ma quando lo spostamento del luogo della prestazione non è consentito dal
contratto o non è deciso consensualmente, l’interesse del lavoratore ad opporsi è meritevole di
tutela.

IL TEMPO DELL’ADEMPIMENTO DELL’OBBLIGAZIONE DI LAVORO. IL COSIDDETTO


“DIRITTO” ALLE PAUSE.

Il tempo dell’adempimento nelle obbligazioni di durata ha un duplice profilo: quello della


collocazione temporale della prestazione e quello dell’estensione temporale della stessa. In generale
anche il tempo nel quale la prestazione di lavoro deve essere adempiuta è quello convenuto ma la
salvaguardia dell’esigenza di riposo è la giustificazione al fatto che nel contratto vengano posti
limiti di vario ordine riferiti principalmente alla durata massima annuale, settimanale e giornaliera
ma anche alla collocazione temporale. Il terzo comma dell’art. 36 Cost. stabilisce che “il
lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi”
formula che non deve essere intesa come l’attribuzione di un diritto ma l’estensione della validità
dell’obbligazione oltre certi limiti di durata, invalidando eventuali atti normativi o di autonomia
privata indirizzati a produrre questa estensione. Avendo il lavoratore diritto ad un periodo di ferie
retribuite, cioè essere pagato durante il periodo di sospensione anche se non lavora, qualora questi
lavorasse comunque avrà diritto ad una seconda retribuzione cosiddetta indennità per ferie non
godute. In generale bisogna considerare la disciplina giuridica del tempo della prestazione del
lavoro con riguardo all’orario di lavoro (giorno), al riposo settimanale (settimana) e alle ferie
(anno).

L’ORARIO DI LAVORO
Nel periodo fra le due guerre l’ordinamento italiano si collocò in una posizione di notevole
avanguardia stabilendo che la durata massima della giornata lavorativa non potesse eccedere le otto
ore e le 48 ore settimanali di lavoro effettivo con possibilità di superamento con lavoro
straordinario limitato a due ore giornaliere e dodici settimanali; questa regola rimase in vigore
dal 1923 al 1997 quando con il cosiddetto “pacchetto Treu” venne fissato l’orario normale di
lavoro a 40 ore settimanali. Nel frattempo la materia dell’orario di lavoro è divenuta oggetto delle
direttive della Comunità europea che ha spinto il legislatore ad intervenire in alcuni ambiti settoriali
come quello del lavoro subordinato e del lavoro notturno per poi adottare una nuova
regolamentazione dell’orario di lavoro che non pone dei limiti precisi alla durata dell’attività
lavorativa, ma li realizza solo in maniera indiretta, stabilendo l’orario normale a 40 ore
settimanali e 11 di riposo consecutivo ogni 24 ore. Bisogna precisare che per lavoro
straordinario si intende quello che supera l’orario normale delle 40 ore settimanali; il lavoro
straordinario deve essere computato a parte e compensato con le maggiorazioni retributive previste
dai contratti collettivi. Una maggiorazione retributiva è prevista anche per il lavoro notturno che
può essere introdotto solo a seguito di una consultazione sindacale e che è vietato per alcune
categorie di lavoratori.

IL LAVORO A TEMPO PARZIALE

Quando il lavoro viene prestato per una durata inferiore a quella massima giornaliera si parla di
lavoro a tempo parziale o part-time. Il part-time può essere di tre tipi:
• orizzontale quando la riduzione rispetto al tempo pieno è stabilita in relazione all’orario
giornaliero; ad esempio quattro ore al giorno
• verticale quando la riduzione è riferita al numero di giorni settimanali, mensili o annuali; ad
esempio due giorni alla settimana o tre mesi all’anno
• di tipo misto con la combinazione dei due criteri
Lavoro supplementare si intende quello prestato oltre il tempo parziale concordato.
La disciplina del lavoro a tempo parziale è molto dettagliata e in primo luogo prevede la forma
del contratto che deve essere scritta, ad probationem; non costituisce giustificato motivo di
licenziamento il rifiuto di un lavoratore di modificare il proprio orario di lavoro in part-time; la
collocazione temporale è immodificabile unilateralmente ma il contratto può contenere clausole
flessibili, cioè relative alla variazione della collocazione temporale della prestazione, ed elastiche
cioè relative alla variazione in aumento della durata della prestazione. La mancanza della
collocazione temporale del lavoro non da luogo alla nullità del contratto potendo essere effettuata
equitativamente dal giudice.

I CONTRATTI DI SOLIDARIETA’

Definiamo adesso quelli che vengono definiti contratti di solidarietà. La dottrina ne distingue due
diversi tipi:
1. contratti di solidarietà difensivi: sono contratti collettivi aziendali stipulati con i sindacati
maggiormente rappresentativi sul piano nazionale che stabiliscono una riduzione dell’orario
di lavoro al fine di evitare, o almeno tentare, la riduzione o la dichiarazione di esuberanza
del personale; sono incentivati dalla legge mediante un transitorio trattamento di
integrazione salariale pari al 50% del trattamento retributivo perso a seguito della riduzione
di orario
2. contratti di solidarietà offensivi: sono contratti collettivi aziendali stipulati con i sindacati
maggiormente rappresentativi sul piano nazionale che al fine di incrementare gli organici
prevedono una riduzione stabile dell’orario di lavoro con riduzione della retribuzione e
assunzione a tempo indeterminato di nuovo personale; sono incentivati dalla legge mediante
la transitoria concessione di un contributo a ciascun lavoratore assunto pari al 15% della
retribuzione prevista dal contratto collettivo

IL RIPOSO SETTIMANALE E LE FESTIVITA’

Art. 2109 – Periodo di riposo – (primo comma) Il prestatore di lavoro ha diritto ad un giorno di riposo ogni
settimana, di regola in coincidenza con la domenica

Art. 36 Costituzione – (terzo comma)… Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie retribuite, e non
può rinunziarvi

Il riposo settimanale è previsto in via generale dall’art. 2109 comma 1 c.c. e garantito dall’art.
36 della Cost.. Il codice civile prescriveva “un giorno di riposo ogni settimana” mentre la legge
attuale, adeguandosi ad un orientamento della Corte Costituzionale e alle direttive comunitarie
precisa che si tratta di “almeno ventiquattro ore consecutive ogni sette giorni” e che le
ventiquattro ore si accumulano con le undici di riposo giornaliero previste cosicché bisogna dire che
ogni sette giorni devono esserci almeno 35 ore consecutive di riposo. La coincidenza con la
domenica è prescritta di regola quindi significa che possono esserci anche delle eccezioni ; se il
riposo settimanale viene goduto in un giorno diverso dalla domenica, molti contratti collettivi
prevedono che il lavoro domenicale debba essere compensato con una retribuzione maggiorata. In
ogni caso la mancata concessione del riposo settimanale, come la violazione di importanti
aspetti della disciplina in materia di orario di lavoro e ferie, comporta l’applicazione della
sanzione amministrativa pecuniaria. Principi analoghi a quelli indicati si applicano per le festività
infrasettimanali.

LE FERIE

L’art. 36 della Cost. garantisce che ciascun lavoratore abbia diritto oltre al riposo settimanale,
anche a ferie annuali retribuite, cioè un più lungo riposo annuale. Per la determinazione della
durata delle ferie annuali l’art. 2109 rinvia alla legge e a norme corporative; di fatto la legge interna
ha per lungo tempo precisato la durata delle ferie annuali solo per i lavoratori domestici che non
possono fare affidamento sulla contrattazione collettiva e ha stabilito che la durata sia dai 15 ai 25
giorni, a seconda dell’anzianità e delle mansioni. A partire dal 1993, il tema della durata delle ferie
annuali, già considerata della Convenzione internazionale del lavoro del 1970, è diventata oggetto
di una direttiva europea: i primi ad occuparsene sono stati i sindacati principali che con un accordo
hanno stabilito che le ferie avessero per tutti una durata non inferiore alle quattro settimane; questa

D.L. 66/2003 – Art. 10 – Ferie annuali – (primo comma) Fermo restando quanto previsto dall’art. 2109 del
Codice Civile, il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro
settimane. Tale periodo salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva o dalla specifica disciplina riferita
alle categorie di cui all’art. 2 (forze armate e di polizia,servizi di protezione, vigili del fuoco, guardie
penitenziarie, ecc..), va goduto per almeno due settimane, consecutive in caso di richiesta del lavoratore, nel
corso dell’anno di maturazione, e per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di
maturazione.
volta però le confederazioni trasmisero questo accordo al Governo sottoforma di avviso comune
cioè una formula con la quale si vuole sollecitare il Governo ad uniformarsi a questo accordo con
un intervento legislativo, cosa che è avvenuta con l’art. 10 del Decreto Legislativo n. 66 del 2003
sull’attuazione delle direttive concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro.

Questo articolo 10 ha pero delle disposizioni assolutamente inutili: per esempio vieta la sostituzione
delle ferie con l’indennità per ferie non godute ed un discorso analogo è inteso nel caso in cui il
rapporto di lavoro cessi di esistere prima dell’anno, periodo per il quale non sono ancora state
godute le ferie: in questo caso, se l’anno di riferimento di un certo periodo di ferie non è decorso
quando il rapporto di lavoro cessa, bisogna far godere al lavoratore prima che il rapporto di lavoro
cessi il periodo di ferie che ad esso spettano, oppure corrispondere al lavoratore la retribuzione
relativa alla quota di ferie annuali non goduta.

SEZIONE III: IL POTERE DIRETTIVO

LA DIREZIONE DEL LAVORO COME ESERCIZIO DI UN POTERE GIURIDICO

A differenza di ciò che accade per l’obbligazione di lavoro, che trascura la posizione correlativa del
datore di lavoro o la prende in considerazione solo in un secondo momento, il dovere di obbedienza
viene generalmente studiato dal punto di vista della posizione giuridica correlativa del datore di
lavoro e come effetto della medesima.

Art. 2094 – Prestatore di lavoro subordinato – E’ prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante
retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e
sotto la direzione dell’imprenditore.

Art. 2104 – Diligenza del prestatore di lavoro – Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta
dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione
nazionale.

Art. 2086 – Direzione e gerarchia nell’impresa – L’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono
gerarchicamente i suoi collaboratori.

L’art. 2094 nel definire il prestatore di lavoro subordinato parla di lavoro prestato alle
dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore; a questa norma si collega quella dell’art. 2086
per cui i prestatori di lavoro che vengono definiti collaboratori dipendono gerarchicamente
dall’imprenditore che è capo dell’impresa ed infine l’art. 2104 soggiunge che il prestatore di
lavoro deve osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite
dall’imprenditore e dai collaboratori dai quali dipende gerarchicamente. Dal contenuto di
queste norme possiamo sommariamente individuare che da un lato il datore di lavoro ha la
possibilità di dirigere le prestazioni di lavoro, cioè impartire le disposizioni per la sua esecuzione e
disciplina, e dall’altro che il prestatore di lavoro dipende dall’imprenditore, cioè deve osservare
queste disposizioni. La prima osservazione da fare in base a quanto appena detto è che al primo è
assegnata una posizione eminentemente attiva o di vantaggio, mentre il secondo si trova
correlativamente in una posizione passiva o sfavorevole; quello che però vuole essere qui posto in
evidenza che considerare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro attività non obbligatoria ma
facoltativa per l’imprenditore, non pone in evidenza il significato essenziale di questa attività. Le
norme che prevedono la direzione del lavoro infatti non si pongono come obbiettivo quello di
rendere l’attività direttiva facoltativa né tanto meno di assegnare a questa una protezione giuridica,
lo scopo dell’art. 2104 è quello di stabilire che una volta che le disposizioni sono state impartite
dall’imprenditore il lavoratore le deve rispettare. Con riguardo alla posizione giuridica del datore di
lavoro si può correttamente parlare di potere giuridico intendendo con questa espressione la
posizione di un subietto che sia in grado di causare, qualora lo voglia, la produzione di un effetto
giuridico e cioè di una modificazione giuridica.

LE NEGOZIAZIONI DEL POTERE DIRETTIVO

La qualificazione di potere giuridico che è stata data al potere del datore di lavoro di impartire
disposizioni direttive al lavoratore, rappresenta una presa di posizione sulla questione relativa
all’ammissibilità logica e all’utilità pratica della nozione di potere giuridico. Si è in proposito
sostenuto che quando si vuole parlare dell’esistenza di un potere giuridico, sussisterebbero due
valutazioni eterogenee: da un lato una facoltà del tutto analoga a quella che costituisce il
contenuto di qualsiasi diritto soggettivo assoluto, dall’altro una data rilevanza dell’aver agito, e
non si avrebbe quindi in questo caso una posizione giuridica del soggetto ma solo una certa
rilevanza dell’atto compiuto dal soggetto. In conclusione una volta ammesso che il potere direttivo
è un potere giuridico, una ulteriore specificazione consiste nel figurarlo come diritto potestativo
o come potestà, configurazione che non può avvenire se non sulla base di rilevazioni attinenti
all’interesse protetto; infatti è da escludere che si tratti di diritto potestativo a seconda che lo si
consideri attribuito per la tutela individuale dell’imprenditore, o invece per la tutela di un interesse
superiore.

NATURA DEL DOVERE DI OBBEDIENZA

Abbiamo fino a qui visto che l’obbligazione di lavoro:


• è una obbligazione di tipo primario cui fa riscontro una pretesa del titolare dell’interesse
protetto, nel caso del datore di lavoro
• che dal momento che l’obbligo si è costituito il datore di lavoro non deve fare nulla se non
attendere il soddisfacimento del proprio interesse dalla condotta dell’obbligato
• che il potere direttivo non può in alcun modo qualificarsi con questa pretesa e che quindi
non è posizione correlativa all’obbligazione di lavoro
• non vi è posto nella struttura del rapporto di lavoro, a fianco dell’obbligazione di lavoro, per
un obbligo diverso del lavoratore che possa contrapporsi al potere direttivo
Nel caso del potere direttivo non c’è alcun dubbio sul fatto che ci si trovi di fronte ad un potere che
può essere esercitato solo nei confronti di soggetti determinati, infatti solo i prestatori di lavoro
subiscono gli obblighi che derivano dal potere direttivo e solo per loro le disposizioni del datore di
lavoro fanno nascere l’obbligo di eseguire il lavoro secondo queste disposizioni. A questa posizione
giuridica del lavoratore, che nel linguaggio comune può essere chiamato dovere di obbedienza,
deve riconoscersi natura di soggezione giuridica in senso proprio, intendendo con soggezione che
di fronte all’esercizio del potere da parte dell’imprenditore, il prestatore di lavoro non può e non
deve fare nulla se non soggiacere agli effetti giuridici della dichiarazione di volontà di questi,
abilitata dalla legge a modificare la sua sfera giuridica. È da precisare però che nei confronti del
prestatore di lavoro, con questo rapporto di soggezione giuridica, non compie nessuna forma di
menomazione della sua personalità e dignità; soggezione è dal punto di vista tecnico la posizione
giuridica del soggetto nella cui sfera giuridica si producono gli effetti giuridici dell’esercizio di un
potere: posizione che si qualifica sfavorevole o di svantaggio. Inoltre, non bisogna credere né che la
soggezione sia una posizione necessariamente svantaggiosa in senso economico, né tanto meno che
importi per sua natura un assoggettamento ad una signoria altrui depressiva della dignità della
persona che ne è investita: la soggezione può infatti benissimo servire a procurare un vantaggio
economico.

SEZIONE IV: L’OBBLIGAZIONE DI FEDELTA’

AUTONOMIA DELL’OBBLIGAZIONE DI FEDELTA’

Art. 2105 – Obbligo di fedeltà – Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in
concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai modi di produzione
dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.

L’art. 2105 rubrica obbligo di fedeltà. Il testo dell’articolo vieta al prestatore di lavoro alcuni
comportamenti specifici come l’attività in concorrenza e la divulgazione o l’uso pregiudizievole
di notizie riservate; quanto alla fedeltà del prestatore di lavoro è noto il suo collegamento con
l’ordinamento tedesco: per esso la fedeltà non è oggetto di un dovere complementare che si
aggiunge all’obbligazione di lavoro, ma l’obbligo fondamentale del prestatore di lavoro, di
contenuto positivo e negativo insieme, che caratterizza l’intero rapporto di lavoro come rapporto di
fedeltà. Così inteso l’obbligo di fedeltà non grava solo sul prestatore di lavoro ma anche sul datore
di lavoro, ed è per questo che la disciplina della fedeltà con una considerazione cos’ ampia non
ha trovato spazio nel nostro ordinamento. Bisogna inoltre precisare a differenza
dell’obbligazione di lavoro che è una obbligazione di fare, l’obbligazione di fedeltà è una
obbligazione negativa o di non fare nel senso che la condotta obbligatoria non è direttamente
descritta dalla norma, che invece indica la condotta illecita, la norma impone dunque non un’azione
ma una omissione.

LIMITI DELL’OBBLIGAZIONE DI FEDELTA’

Il problema a questo punto è quello di stabilire se questa obbligazione accessoria preclude al


prestatore di lavoro solamente le specifiche condotte indicate nel testo della norma o se invece
si possano considerare le specificazioni del testo della norma meramente esemplificative e si
debbano comprendere nel contenuto dell’obbligo anche altre condotte similari. In presenza
della sola menzione della fedeltà fornita dall’art. 2105, la coerenza del sistema porta a considerare
come vietati solo i comportamenti specificati dal testo della norma eliminando così l’idea
dell’esistenza di un obbligo di fedeltà in senso proprio; in questo senso infatti la vera fedeltà o è
bilaterale e quindi si inquadra nel principio di solidarietà previsto dal nostro ordinamento, o se è
unilaterale è espressione di una disuguaglianza sociale presente nell’antico diritto germanico ma
assolutamente incompatibile con il nostro. In definitiva dunque deve ritenersi che la fedeltà
prevista all’art. 2105 comprenda solo le condotte omissive contenute nel testo. La
contrattazione collettiva può poi prevedere altri obblighi di fare e di non fare nei confronti del
datore di lavoro o del prestatore di lavoro, ma queste altre obbligazioni riconducibili ad un obbligo
di fedeltà in un senso più ampiamente inteso, non devono realizzare una menomazione di diritti
irrinunciabili della persona.

LA FEDELTA’ NELLE ORGANIZZAZIONI DI TENDENZA

La questione che a questo punto bisogna affrontare riguarda le cosiddette “aziende di tendenza”,
cioè quelle aziende che svolgono una attività di tipo politico o religioso o comunque indirizzata
all’affermazione di determinate ideologie. Per esse si è posto il problema di stabilire se ai loro
dipendenti si possa chiedere la rinunzia di manifestazioni pubbliche di ideologie proprie
incompatibili a quelle dell’azienda di tendenza per cui si lavora: in mancanza di appigli giuridici per
poter risolvere la questione, diciamo che il primo requisito affinché il problema possa
effettivamente presentarsi è che venga previsto nel contratto collettivo o individuale di questi
soggetti un obbligo di fedeltà; posto che la previsione contrattuale di questo obbligo ci sia si tratta
di vedere se e fino a che punto l’interesse perseguito con l’apposizione della clausola meriti tutela
rispetto alla libera manifestazione del pensiero. Secondo l’opinione dell’autore queste conclusioni
non devono essere modificate nemmeno quando una legge del 1990 ha attribuito giuridica rilevanza
alle organizzazioni di tendenza: essa ha infatti previsto un trattamento giuridico speciale in materia
di licenziamenti individuali, per i “datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di
lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, di religione o di culto”.

SEZIONE V: IL POTERE DISCIPLINARE

PRESUPPOSTI E GIUSTIFICAZIONI DEL POTERE DISCIPLINARE

Art. 2106 – Sanzioni disciplinari – L’inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti
(diligenza del prestatore di lavoro ed obbligo di fedeltà) può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari,
secondo la gravità dell’infrazione ed in conformità delle norme corporative.
Questo articolo non dice nulla rispetto a chi può procedere all’applicazione di queste sanzioni, ma
sembra evidente si tratti di un potere a capo dell’imprenditore.

Statuto dei lavoratori – Art. 7 – Sanzioni disciplinari – Le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle
infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle
stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Esse
devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro dove questi esistano.
Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza
avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa.
Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale a cui aderisce o conferisce
mandato.
Fermo restando quanto disposto dalla legge n. 604 del 15 luglio 1966 (che riguarda le norme sui licenziamenti
individuali) non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del
rapporto di lavoro; inoltre la multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della
retribuzione base e la sospensione del servizio e della retribuzione per più di dieci giorni.
In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima
che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa.

La previsione legale del potere disciplinare si può trovare in maniera ancora più dettagliata nell’art.
7 dello Statuto dei Lavoratori ed ogni questione relativa al fondamento, al contenuto e ai limiti
dello stesso va risolata in sede di interpretazione dei due articoli che sono stati citati. Prima dello
Statuto dei Lavoratori si riteneva che l’applicazione delle sanzioni disciplinari in conformità delle
norme corporative fosse da intendersi non solo nel senso che le norme corporative dovevano
regolare la materia, ma anche nel senso che la presenza di una specifica regolamentazione collettiva
permetteva di esercitare il potere disciplinare; oggi questa tesi viene contraddetta dall’ultimo
comma dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori per il quale i contratti collettivi vanno applicati solo
dove esistono, ossia dove siano applicabili allo specifico rapporto. Tuttavia, il primo comma dello
stesso articolo stabilisce che “le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in
relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata e alle procedure di contestazione
delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo
accessibile a tutti”. La norma non indica la conseguenza giuridica della sua violazione, ma non si
può pensare per questo che essa contenga un consiglio; in altri termini visto che la norma prevede
determinati adempimenti, qualora questi adempimenti non vengano rispettati da parte del datore di
lavoro, il potere disciplinare non può essere esercitato: così da un lato dove sia mancata la
pubblicità nella forma prescritta non è possibile dimostrare che il lavoratore ha avuto conoscenza
della norma, se invece è stato assolto l’onere di pubblicità, l’ignoranza di fatto non è una
giustificazione per la non applicazione della sanzione. Secondo l’autore quindi, l’unica
giustificazione del potere disciplinare è data dalla rilevanza giuridica dell’interesse dell’impresa,
inteso come interesse comunitario al quale partecipano i prestatori di lavoro e l’imprenditore.

REGOLAMENTAZIONE DEL POTERE DISCIPLINARE

Bisogna evidenziare che il principio di predeterminazione delle infrazioni e delle sanzioni


corrispondenti, comporta la non configurabilità come infrazioni disciplinari di comportamenti che
non sono previsti né dal contratto collettivo applicabile, né dalla specifica norma aziendale. Il
principio di predeterminazione delle norme disciplinari ha la duplice funzione sia di fondare la
responsabilità su una ragionevole prevedibilità della sanzione, sia di escludere un troppo ampio
margine di discrezionalità nell’applicazione della medesima. I commi 2,3,4 e 5 dell’art. 7
impongono delle regole procedurali per l’applicazione delle sanzioni e pongono limiti quantitativi e
qualitativi alle sanzioni applicabili; le regole pronunciate in questi commi vanno tenute in
considerazione anche con riguardo alla materia delle impugnazioni dei provvedimenti disciplinari
regolata dai commi successivi e nei quali si prevede una particolare forma di impugnazione davanti
ad un apposito collegio di conciliazione ed arbitrato. La norma in questione, in virtù della
previsione della sospensione della sanzione per la sola ipotesi di ricorso al collegio suppone un
provvedimento altrettanto efficace e appare preordinata alla reazione contro atti non nulli ma
solamente annullabili: annullabili devono ritenersi quei provvedimenti disciplinari emanati
nell’esercizio del relativo potere ma ingiustificati perché distorti oppure non adeguati rispetto alla
funzione che al potere assegnata. Per quanto riguarda le conseguenze applicative bisogna
evidenziare che l’impugnazione del provvedimento disciplinare, mentre non è necessaria per farne
valere l’illegittimità e può proporsi al giudice in qualunque tempo nelle ipotesi di nullità, dovrà
proporsi nel termine di decadenza di venti giorni al collegio, o altrimenti al giudice nel termine di
prescrizione quinquennale se si tratta di chiederne l’annullamento.

LA QUESTIONE DELLA CONFIGURAZIONE COME SANZIONE DISCIPLINARE DEL


LICENZIAMENTO

Tutto il discorso che è stato fino a questo punto fatto dovrebbe riguardare il potere di irrogare
sanzioni disciplinari e non quello di licenziare perché per il nostro ordinamento il licenziamento
non è una sanzione disciplinare e quindi né l’art. 7, né l’art. 2106 dovrebbe venire direttamente in
considerazione quando si tratta di decidere della legittimità di un licenziamento. L’opinione
contraria si basa su tre motivazioni che però sono frutto di gravi equivoci:
a) anche il licenziamento può assolvere ad una funzione di disciplina del lavoro: certamente
non può essere riconosciuta natura di sanzione disciplinare a qualunque fatto che possa
contribuire alla disciplina del lavoro
b) molti contratti collettivi annoverano il licenziamento fra le sanzioni disciplinari: da parte
dei contratti collettivi però si osserva che non è lecito trarre da clausole contrattuali criteri
di definizione di nozioni legali
c) dal momento che l’art. 7 stabilisce limiti e garanzie per le sanzioni disciplinari minori,
sarebbe strano che queste non si applicassero proprio al licenziamento che è la maggiore
delle sanzioni disciplinari: questa è una petizione di principio perché postula che il
licenziamento sia la maggiore sanzione disciplinare, ossia proprio quello che essa dovrebbe
dimostrare. In realtà rispetto alle vere sanzioni disciplinari il licenziamento è uno strumento
del diritto dei contratti per provocare l’estinzione del rapporto di lavoro come rapporto di
durata, mentre le sanzioni disciplinari sono sanzioni tipiche del rapporto di lavoro destinate
alla tutela dell’interesse dell’impresa nel corso dell’esecuzione del rapporto stesso.

Arriva fino a questo punto l’interpretazione della legge, ma sul tema è sopravvenuta una sentenza di
accoglimento della Corte Costituzionale la quale ha dichiarato incostituzionali perché contrastanti
con il principio di uguaglianza i primi tre commi dell’art. 7 “interpretati nel senso che siano
inapplicabili ai licenziamenti disciplinari, per i quali questi commi non siano espressamente
richiamati dalla normativa legislativa, collettiva o validamente posta dal datore di lavoro”,
cioè interpretati come li interpretava la Cassazione.

SEZIONE VI: LA RETRIBUZIONE

CORRISPETTIVITA’ E COMPONENTI DELLA RETRIBUZIONE

Come l’obbligazione di lavoro è il dovere principale del prestatore di lavoro, il principale dovere
del datore di lavoro è l’obbligazione di retribuire. Generalmente alla retribuzione viene assegnata
funzione di prestazione corrispettiva della prestazione di lavoro e questa corrispettività rispetto
alle prestazioni del lavoratore assume un significato importante perché deve tenere conto di
particolarità della situazione e di esigenze specifiche, che non rilevano nella generalità degli altri
contratti con prestazioni corrispettive. In primo luogo bisogna precisare che la corrispettività
esprime il rapporto fra un certo periodo di lavoro e una rata di retribuzione collegata a quel periodo,
mentre sotto altri profili deve riferirsi a periodi più lunghi o a tutta la durata del rapporto. Un
esempio del primo caso è la retribuzione delle ferie, mentre un esempio del secondo caso è il
trattamento di fine rapporto che viene corrisposto al termine del rapporto come corrispettivo
riferito all’intera sua durata; a proposito del trattamento di fine rapporto bisogna ricordare che
originariamente veniva denominato indennità di anzianità ed era nato come una volontaria
elargizione del datore di lavoro per premiare al termine del rapporto la fedeltà dei prestatori di
lavoro con più lunga anzianità di servizio. Ben presto però ne fu imposta la corresponsione dalla
contrattazione collettiva ed allora assunse natura retributiva, in seguito poi il legislatore ha
riformato radicalmente questo istituto con una legge del 1982 modificandone la denominazione in
trattamento di fine rapporto.

Art. 36 della Costituzione – Il lavoratore ha diritto ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità
e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia una esistenza
libera e dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.

Nel rapporto di lavoro l’art. 36 della Costituzione esige che la retribuzione del lavoratore sia
non solo proporzionale alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, ma anche “in ogni caso”
sufficiente alle esigenze personali e familiari. In base poi ai principi indicati si può riconoscere
natura di retribuzione anche a quanto il datore di lavoro è obbligato a corrispondere per certi periodi
al lavoratore che non lavora per malattia o altre cause legittime di sospensione del lavoro; non sono
invece ovviamente retribuzione le indennità speciali che il datore di lavoro percepisce dagli istituti
previdenziali e gli assegni familiari di cui è sempre debitore l’INPS. Un analogo discorso deve
essere fatto per le mance o altre attribuzioni che il lavoratore percepisce anche in maniera
continuativa da terzi in occasione della sua prestazione di lavoro.

RIMBORSI SPESE E RETRIBUZIONE IN NATURA

Art. 2121 – Computo dell’indennità di mancato preavviso – L’indennità di cui all’art. 2118 (indennità
equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso) deve calcolarsi
computando le provvigioni, i premi di produzione, la partecipazione agli utili o ai prodotti ed ogni altro
compenso di carattere continuativo, con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese.
Se il prestatore di lavoro è retribuito in tutto o in parte con provvigioni, con premi di produzione o con
partecipazioni, l’indennità suddetta è determinata sulla media degli emolumenti degli ultimi tre anni di
servizio o del minor tempo di servizio prestato.
Fa parte della retribuzione anche l’equivalente del vitto e dell’alloggio dovuto al prestatore di lavoro.

L’art. 2121 esclude dalla retribuzione “quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese”:
l’applicazione di questa norma solleva sempre molte controversie perché c’è sempre la tendenza di
includere nella nozione di rimborso spese anche indennità che vengono corrisposte a sollievo di
particolari disagi che vengono sopportati dal lavoratore in occasione della prestazione di lavoro. La
litigiosità su questo tema potrebbe essere evitata se si tenesse presente che la misura della
retribuzione viene stabilita tenendo conto oltre che al pregio dell’attività, anche della fatica e del
disagio che questa comporta. Ordinariamente la retribuzione è costituita da una somma di denaro,
ma può anche consistere nella corresponsione di altri beni o in altre utilità e allora si parla di
retribuzione in natura; se invece la retribuzione in natura corrisponde alla prestazione
caratteristica di un altro contratto nominato, allora avremo una ipotesi di contratto misto e questo
comporterà l’applicazione a quella prestazione delle regole che le sono proprie, ferma
l’applicazione alla prestazione di lavoro delle norme ad essa relative. In tal caso una delicata
questione è costituita dall’individuazione delle norme che si devono applicare non tanto alle
prestazioni delle parti, ma al rapporto nel suo insieme, ossia al rapporto fondamentale: il criterio
generale è quello di accertare in primo luogo quale sia la prestazione essenziale del rapporto,
altrimenti la soluzione andrebbe cercata comparando il grado di imperatività delle norme relative
ai diversi rapporti.

MISURA DELLA RETRIBUZIONE

Art. 2099 – Retribuzione – (secondo comma) - In mancanza di norme corporative o di accordo tra le
parti, la retribuzione è determinata dal giudice, tenuto conto, ove occorra, del parere delle associazioni
professionali.

Art. 2100 – Obbligatorietà del cottimo – Il prestatore di lavoro deve essere retribuito secondo il sistema
del cottimo quando, in conseguenza dell’organizzazione del lavoro, è vincolato all’osservanza di un
determinato ritmo produttivo, o quando la valutazione della sua prestazione è fatta in base al risultato delle
misurazioni dei tempi di lavorazione.
Le norme corporative determinano i rami di produzione e i casi in cui si verificano le condizioni previste
nel comma precedente e stabiliscono i criteri per la formazione delle tariffe.

A norma dell’art. 36 della Costituzione la retribuzione del lavoratore deve essere “proporzionata
alla quantità e alla qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla
famiglia una assistenza libera e dignitosa” ed è noto anche che la giurisprudenza solitamente in
materia è solita utilizzare il secondo comma dell’art. 2099 per avocare al giudice una
determinazione della retribuzione sostitutiva di quella che è stata attuata invalidamente dalle
parti e conforme ai criteri della Costituzione, dei quali i minimi retributivi indicati dai
contratti collettivi dovrebbero in linea di massima considerarsi specificazione concreta. Il
criterio costituzionale della sufficienza fa sorgere qualche problema con riguardo a certi rapporti,
come il tirocinio, il rapporto di formazione e lavoro, il rapporto di inserimento ed il lavoro a tempo
parziale, la cui particolare funzione parrebbe essere con esso inconciliabile. Fermo poi il minimo
costituzionale, la retribuzione può essere determinata con criteri diversi, anche combinati
variamente tra di loro: a tempo, a cottimo individuale o collettivo, con provvigioni,
partecipazione agli utili o ai prodotti ed altre forme di incentivo; il cottimo per esempio, come
sancito dall’art. 2100, è obbligatorio nel lavoro a domicilio e quando il prestatore “in conseguenza
dell’organizzazione del lavoro, è vincolato ad un certo ritmo produttivo”, o, in ogni modo, “la
valutazione della sua prestazione è fatta in base al risultato delle misurazioni ei tempi di
lavorazione”, mentre è vietato nel tirocinio. Opportunamente la legge garantisce l’osservanza di
queste norme con sanzioni penali. Una forma di determinazione di una parte della retribuzione che è
stata per tantissimi anni utilizzata, è quella che realizzava la cosiddetta scala mobile dei salari,
mediante l’aggiunta alla paga base dell’indennità di contingenza che era collegata automaticamente
alle variazioni del costo della vita quali risultano indicate dall’Istituto centrale di statistica a seguito
di un periodico accertamento del prezzo di determinati beni di più largo consumo; nonostante la
sicura appartenenza di questa indennità alla retribuzione, all’inizio gli accordi interconfederali degli
anni 50 ne escludevano l’appartenenza alla retribuzione ed un protocollo del 1993 ha in seguito
provveduto a sostituire la soppressa indennità di contingenza con un altro istituto detto “indennità
di vacanza contrattuale”: esso comporta che dopo tre mesi dalla scadenza di un contratto
collettivo, finché questo non viene rinnovato e a partire dal mese successivo, debba essere
corrisposto ai lavoratori un elemento aggiuntivo provvisorio della retribuzione che è pari al 30% e
dopo sei mesi dalla scadenza al 50% “del tasso di inflazione programmato”.

SEZIONE VII: LA PARITA’ DI TRATTAMENTO

SCONFINAMENTI GIUDIZIARI IN MATERIA DI CONGRUITA’ DEL TRATTAMENTO DEL


LAVORATORE

È successo alcune volte che i giudici abbiano preteso di sostituirsi alla fonte attributiva della
qualifica, individuando essi la qualifica ritenuta più appropriata alle mansioni e lo strumento
utilizzato per arrivare ad ottenere questo risultato è stato in alcuni casi l’art. 2103 che risulta
essere stato modificato dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, e soprattutto l’inciso del primo
comma nel quale per la particolare ipotesi di spostamento temporaneo a mansioni superiori si fa
menzione del “diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta”.

Art. 2103 – Mansioni del lavoratore – …Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha
diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione della stessa diviene definitiva, ove la
medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del
posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore ai tre mesi. Egli non può
essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e
produttive.

Il suo utilizzo per l’avocazione al giudice di un potere di stabilire lui quale sia la qualifica
appropriata a determinate mansioni è operazione del tutto estranea al significato e alla funzione
della norma in questione ed essa infatti parlando di “trattamento corrispondente” non può
riferirsi che alla corrispondenza fra l’attività svolta in fatto e la previsione astratta contenuta nella
norma attributiva del trattamento.

LA QUESTIONE DELLA PARITA’ DI TRATTAMENTO A PARITA’ DI MANSIONI

Alla fine degli anni ’80 sembrava che la propensione a sconfinamenti della funzione giurisdizionale
si fosse progressivamente esaurita, ma nel 1989 la questione è stata nuovamente riaperta da una
sentenza della Corte Costituzionale che mirava ad avocare al giudice il potere di stabilire caso
per caso quale fosse il giusto trattamento spettante ad ogni lavoratore. Questa volta lo
strumento utilizzato è stato l’art. 41 della Costituzione e la questione di legittimità riguardava gli
art. 2086, 2087, 2099 e 2103 che secondo il giudice, consentendo al datore di lavoro di attribuire ai
dipendenti a parità di mansioni, diversi livelli e categorie generali di inquadramento retributivo
violerebbero l’art. 41 nella parte in cui subordina la libertà di iniziativa economica al rispetto della
dignità umana.

Art. 41 della Costituzione – L’iniziativa economica privata è libera.


Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e
alla dignità umane.
La legge determina i programmi ed i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa
essere indirizzata e coordinata a fini sociali.

Secondo l’autore questo orientamento della giurisprudenza deve essere contestato: non si vede
perché, infatti, se la retribuzione è sufficiente e proporzionale alle esigenze di un lavoratore, si
debba considerare lesivo della sua dignità umana il fatto che ad un altro con eguali mansioni sia
dato di più o sia dato lo stesso trattamento ad uno che svolga mansioni inferiori. Fortunatamente la
sentenza della Corte Costituzionale del 1989 era una sentenza di rigetto dalla quale ogni giudice
poteva legittimamente dissentire come poi è avvenuto.

IL PRINCIPIO DI NON DISCRIMINAZIONE E LE “AZIONI POSITIVE” PER LA PARITA’ FRA


I SESSI

Un discorso diverso deve invece essere fatto in relazione a quegli interventi legislativi diretti ad
evitare che talune differenze esistenze si traducano in trattamenti diversi: in queste ipotesi più che di
attuazione del principio di disuguaglianza si parla di principio di non discriminazione. La
discriminazione consiste nel dare rilevanza, a determinati effetti, a certe differenze che
l’ordinamento non consente che, a quegli effetti rilevino e da questo punto di vista si può dire che si
tratta di una forma di attuazione del secondo comma dell’art. 3.

Art. 3 della Costituzione – (secondo comma) E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese.

Ma l’attuazione del secondo comma dell’art. 3 può esigere che non ci si accontenti della non
discriminazione: infatti ci sono delle disuguaglianze di fatto per eguagliare le quali non basta
trattare allo stesso modo le situazioni diseguali, ma occorre correggere la disuguaglianza con forme
di tutela specifica di chi si trova in posizione sfavorevole.

L’esempio più significativo è dato dalla legislazione sulla parità uomo – donna per la quale è stata
approvata la legge n. 125 del 10 aprile 1991 sulle “azioni positive per la realizzazione della
parità uomo – donna nel lavoro”.
Che cosa si debba intendere per azioni positive per le donne è specificato all’art. 1 della legge.

Legge n.125/1991 – Art. 1 – Le disposizioni contenute nella presente legge hanno lo scopo di favorire
l’occupazione femminile, e di realizzare l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro anche
mediante l’adozione di misure, denominate azioni positive per le donne, al finr di eliminare gli ostacoli che
di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità.

Legge n. 125/1191 – Art. 4 – (sesto, settimo e ottavo comma) Qualora il datore di lavoro ponga in essere un
atto o un comportamento discriminatorio di carattere collettivo, anche quando non siano individuabili in modo
immediato e diretto i lavoratori lesi dalle discriminazioni, il ricorso può essere proposto dal consigliere di
parità istituito a livello regionale, previo parere non vincolante del collegio istruttorio di cui all’articolo 7, da
allegare al ricorso stesso, e sentita la commissione regionale per l’impiego. Decorso inutilmente il termine di
trenta giorni dalla richiesta del parere al collegio istruttorio, il ricorso può essere comunque proposto.
Il giudice, nella sentenza che accerta le discriminazioni sulla base del ricorso presentato ai sensi del comma 6,
ordina al datore di lavoro di definire, sentite le rappresentanze sindacali aziendali, ovvero, in loro mancanza le
organizzazioni sindacali locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano
nazionale, nonché il consigliere regionale per la parità competente per territorio, un piano di rimozione delle
discriminazioni accertate. Nella sentenza il giudice fissa un termine per la definizione del piano.
In caso di mancata ottemperanza alla sentenza di cui al comma 7 si applica l’articolo 650 del codice penale.

Inoltre sono previste delle forme di finanziamento per progetti riguardanti azioni positive per
l’attuazione della parità, l’istituzione di organi pubblici di promozione e controllo per l’attuazione
del principio di parità e la regolamentazione di speciali procedure di repressione delle condotte
discriminatorie; qualunque impresa o sindacato dei lavoratori che abbia adottato progetti di “azioni
positive” può chiedere al Ministro del Lavoro il rimborso degli oneri finanziari connessi alla loro
attuazione. Per quanto riguarda invece le procedure di remissione delle condotte discriminatorie, la
legge del 1991 regola un nuovo procedimento questa volata su iniziativa del consigliere di
parità.
Il nuovo procedimento è esperibile “qualora il datore di lavoro ponga in essere un atto o un
comportamento discriminatorio di carattere collettivo, anche quando non sono individuabili
in modo immediato e diretto i lavoratori lesi dalle discriminazioni”. Il contenuto del
provvedimento che il giudice può adottare è peculiare perché si tratta di un ordine, penalmente
sanzionato “di definire, sentite le rappresentanze sindacali aziendali, oppure se queste
mancano le organizzazioni sindacali locali aderenti alle organizzazioni maggiormente
rappresentative sul piano nazionale, oppure ancora il consigliere regionale per la parità
competente per territorio, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate”.

SEZIONE VIII: GLI OBBLIGHI ACCESSORI DEL DATORE DI LAVORO

OBBLIGHI CONTROVERSI: DI CONSENTIRE IL LAVORO, DI ASTENERSI DAL


CONTROLLO

Bisogna innanzitutto ricordare che tradizionalmente si imputa al datore di lavoro l’obbligazione di


consentire l’esecuzione del lavoro, e talvolta anche di realizzarne una certa utilizzazione nei
casi in cui questo corrisponde ad uno specifico interesse del lavoratore; esempi comuni di questo
sono costituiti dall’apprendista, che ha interesse di lavorare perché lavorando apprende, oppure
quello dello sportivo professionista. Più recentemente si è posto il problema di capire se una
obbligazione del datore di lavoro di fare lavorare, ed un corrispondente diritto di credito del
lavoratore possa essere affermato in termini generali, in relazione all’idoneità del lavoro a
realizzare uno sviluppo della personalità che sia meritevole di tutela giuridica ed il supporto
normativo per una soluzione positiva è stato dato dall’art. 4 della Costituzione il quale afferma che
“la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che
rendano effettivo questo diritto”.

Art. 4 della Costituzione – La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le
condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una
funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Tradizionalmente si è poi soliti attribuire al datore di lavoro un “potere d controllo”, ipotizzando


che questo sia destinato alla tutela dell’interesse del medesimo all’esatta prestazione di lavoro e
considerandolo un elemento del più generale potere di supremazia, che farebbe riscontro alla
subordinazione; in realtà nel nostro ordinamento questo potere di controllo dell’imprenditore non
esiste perché non c’è nessuna norma che lo preveda, ma questo non significa che per l’imprenditore
non sia lecito in via generale controllare che il lavoratore esegua esattamente la prestazione dovuta
anche se per fare questo non è necessario alcun speciale potere politico.
Piuttosto bisogna notare che ad oggi l’imprenditore è destinatario di norme che obbligano ad
astenersi da certe forme di controllo dell’attività lavorativa, che invece secondo i principi
generali, sarebbero lecite. Dobbiamo dunque parlare di specifici obblighi dell’imprenditore di
astenersi dal controllo; le forme di controllo vietate sono numerose e ne sono alcuni esempi:
• la vigilanza effettuata attraverso guardie particolari giurate

Statuto dei lavoratori – art. 2 – Guardie giurate – Il datore di lavoro può impiegare le guardie giurate
particolari soltanto per scopi di tutela del patrimonio aziendale.
Le guardie giurate non possono contestare ai lavoratori azioni o fatti diversi da quelli che attengono alla
tutela del patrimonio aziendale.
È fatto divieto al datore di lavoro di adibire alla vigilanza sull’attività lavorativa le guardie di cui al primo
comma, le quali non possono accedere nei locali dove si svolge tale attività, durante lo svolgimento della
stessa, se non eccezionalmente per specifiche e motivate esigenze attinenti ai compiti di cui al primo
comma.

• l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza

Statuto dei lavoratori – art. 4 – Impianti audiovisivi – E’ vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre
apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.
Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive, ovvero
dalla sicurezza sul lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei
lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure
in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro,
provvede l’ispettorato del lavoro, dettando, dove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti.

• qualsiasi controllo dell’infermità o dell’idoneità fisica del lavoratore

Statuto dei lavoratori – art. 5 – Accertamenti sanitari – sono vietati accertamenti da parte del datore di
lavoro sulla indennità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente.
Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti
previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda.

• le visite personali del lavoratore

Statuto dei lavoratori – art. 6 – Visite personali di controllo – Le visite personali di controllo sul lavoratore
sono vietate fuorché nei casi in cui siano indispensabili ai fini della tutela del patrimonio aziendale, in
relazione alla qualità degli strumenti di lavoro o delle materie prime o dei prodotti.
In tali casi le visite personali potranno essere effettuate soltanto a condizione che siano eseguite all’uscita dei
luoghi di lavoro, che siano salvaguardate la dignità e la riservatezza del lavoratore e che avvengano con
l’applicazione di sistemi di selezione automatica riferiti alla collettività o a gruppi di lavoratori.

IL DOVERE DI SICUREZZA

Art. 2087 – Tutela delle condizioni di lavoro – L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio
dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a
tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Dovere del datore di lavoro previsto specificamente dall’art. 2087 è quello di “adottare
nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a
tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Questo dovere ha
anche una certa rilevanza pubblicistica che comporta tra l’altro la specificazione del dovere
generale di sicurezza in una serie di doveri particolari sanzionati anche penalmente, ed un potere di
controllo e di intervento anche d’ufficio di organi pubblici; non c’è alcun dubbio poi sul fatto che al
potere pubblicistico si affianca, in virtù della disposizione del codice, una specifica obbligazione nei
confronti del prestatore di lavoro, cui corrisponde un diritto di credito di questi.

IL CONTROLLO DELLA SICUREZZA E GLI OBBLIGHI DI PREVENZIONE

Si diceva che il dovere generale di sicurezza che viene previsto all’art. 2087 del Codice Civile si
specifica in una serie di doveri particolari che vengono sanzionati anche penalmente: si era
cominciato nella metà degli anni ‘50 con una legge delega ed una serie di decreti legislativi che
avevano introdotto una ampia e dettagliata disciplina delle misure di prevenzione, anche se è
opinione diffusa che questa legislazione sia rimasta sprovvista di effettività.

Statuto dei lavoratori – art. 9 – Tutela della salute e dell’integrità fisica – I lavoratori, mediante loro
rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e
delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee
a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica.

Nel 1970 l’art. 9 dello Statuto dei Lavoratori cercò di rimediare a questa inefficienza attribuendo
ai lavoratori “attraverso loro rappresentanze” uno specifico “diritto di controllare
l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di
promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro
salute e la loro integrità fisica”. Sennonché sembra che anche l’attribuzione ai lavoratori di questo
“diritto di controllare” non abbia realizzato nella pratica sostanziali progressi di tutela della
sicurezza.
È stato quindi introdotto il Decreto legislativo n. 626 del 19 settembre 1994 intitolato
“attuazione delle direttive CEE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei
lavoratori durante il lavoro”.

Decreto Legislativo n. 626/1994 – art. 4 – Obblighi del datore di lavoro, del dirigente e del preposto –
(primo, secondo e terzo comma) – Il datore di lavoro, in relazione alla natura dell’attività dell’azienda
ovvero dell’unità produttiva, valuta tutti i rischi per la sicurezza e per la salute dei lavoratori, ivi compresi
quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, anche nella scelta delle attrezzature di
lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro.
All’esito della valutazione di cui al comma 1, il datore di lavoro deve emanare un documento contenente
specifiche informazioni.
Il documento è custodito presso l’azienda ovvero l’unità produttiva.
Una prima linea guida fondamentale è quella di realizzare la prevenzione in maniera
appropriata alle caratteristiche di ogni singola unità produttiva, imponendo per ciascuna al
datore di lavoro una preventiva valutazione dei rischi per la sicurezza; tutto questo deve poi
tradursi nell’elaborazione di un documento da custodirsi presso l’unità produttiva.

Decreto Legislativo n. 626/1994 – art. 18 – Rappresentante per la sicurezza – (primo, secondo e terzo
comma) – In tutte le aziende o unità produttive, è eletto o designato il rappresentante per la sicurezza.
Nelle aziende o unità produttive che occupano sino a 15 dipendenti il rappresentante per la sicurezza è eletto
direttamente dai lavoratori al loro interno. Nelle aziende che occupano fino a 15 dipendenti il rappresentante
per la sicurezza è eletto direttamente dai lavoratori al loro interno. Nelle aziende che occupano fino a 15
dipendenti il rappresentante per la sicurezza può essere individuato per più aziende nell’ambito territoriale,
ovvero nel comparto produttivo. Esso può essere designato o eletto dai lavoratori nell’ambito delle
rappresentanze sindacali, così come definite dalla contrattazione collettiva di riferimento.
Nelle aziende, ovvero unità produttive, con più di 15 dipendenti il rappresentante per la sicurezza è eletto o
designato dai lavoratori nell’ambito delle rappresentanze sindacali in azienda. In assenza di tali
rappresentanze, è eletto dai lavoratori dell’azienda al loro interno.

Un secondo indirizzo è quello di garantire che la formulazione dei programmi per la sicurezza
e la loro attuazione avvengano mediante la partecipazione diretta o indiretta dei lavoratori
interessati; in questo quadro ha particolare rilevanza la nuova figura del “rappresentante per la
sicurezza” che deve essere eletto o designato dai lavoratori in tutte le aziende o unità produttive.
Una ulteriore linea guida della legislazione attuale è quella di coinvolgere nel dovere di sicurezza
tutti coloro che possono in qualche modo contribuire a realizzarla; ne consegue quindi che oggi
non deve parlarsi solamente di un obbligo di sicurezza dal datore di lavoro nei confronti di ogni
lavoratore, ma di una pluralità di obblighi di sicurezza, variamente configurati, specificati e
sanzionati, di tutti coloro che operano “in tutti i settori di attività pubblici e privati”.

Decreto Legislativo n. 626/1994 – art. 1 – Campo di applicazione – (primo comma) – Il presente decreto
legislativo prescrive misure per la tutela della salute e per la sicurezza dei lavoratori durante il lavoro, in tutti
i settori di attività privati o pubblici.

Decreto Legislativo n. 626/1994 – art. 21 – Informazione dei lavoratori – Il datore di lavoro provvede
affinché ciascun lavoratore riceva una adeguata informazione su:
a) i rischi per la sicurezza e la salute connessi all’attività dell’impresa in generale
b) le misure e le attività di protezione e di prevenzione adottate
c) i rischi specifici cui è esposto in relazione all’attività svolta, le normative di sicurezza e le
disposizioni aziendali in materia
d) ecc…ecc…

Decreto Legislativo n. 626/1994 – art. 22 – Formazione dei lavoratori – (primo comma) – Il datore di
lavoro assicura che ciascun lavoratore, ivi compresi i lavoratori di cui all’art. 1 comma 3 (lavoratori di cui
alla legge n. 877/1973 e lavoratori con rapporto contrattuale privato di portierato), riceva una formazione
sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e di salute, con particolare riferimento al proprio posto di
lavoro e alle proprie mansioni.
Si osserva infine che il decreto 626/1994 attribuisce grande rilevanza all’informazione e alla
formazione sulle misure necessarie per garantire la sicurezza: l’informazione deve riguardare i
rischi generici presenti nell’ambiente di lavoro ed i rischi collegati alle mansioni, la formazione
invece deve essere per ciascun lavoratore adeguata alle mansioni, periodicamente rinnovata in
relazione alle sopravvenienze ed avere il contenuto minimo specificato dalle norme attuative. La
giurisprudenza giustamente afferma la responsabilità penale del medesimo per gli infortuni
derivanti dalla loro violazione ed ammette un concorso di colpa del lavoratore soltanto se questi è
stato adeguatamente formato ed informato.

CAPITOLO III: IL CONTRATTO DI LAVORO

SEZIONE I: LA CONTRATTUALITA’ DEL RAPPORTO

L’ANTICONTRATTUALISMO TEORICO: CONTRATTO E ISTITUZIONE; CONTRATTO E


TUTELA IMPERATIVA DEL LAVORO.

L’opinione tradizionale qualifica il rapporto di lavoro come un rapporto di tipo contrattuale, cioè
come un rapporto avente la sua fonte in un contratto; tuttavia però all’epoca della redazione del
Codice Civile una parte rilevante della dottrina era molto influenzata da una teoria
anticontrattualistica che si basava sulla concezione istituzionale dell’impresa.

L’ANTICONTRATTUALISMO POSITIVO: LA “PRESTAZIONE DI FATTO CON VIOLAZIONE


DI LEGGE”

Meno radicale è la contestazione dell’origine contrattuale in quelle dottrine che ritengono che possa
dedursi la costituibilità di rapporti di lavoro anche senza contratto, almeno in determinate ipotesi: la
più nota ed accreditata di esse sostiene che l’occupazione di fatto del lavoratore sarebbe la vera
fonte del rapporto di lavoro, o almeno poterebbe esserlo in alternativa al contratto. Questa tesi è
nata in Germania e si è svolta in una duplice direzione: da un lato affermando che perché si
costituisca un rapporto di lavoro non occorre un valido contratto di lavoro, essendo sufficiente che il
lavoratore sia di fatto occupato; dall’altro lato contestando che il contratto di lavoro, quando c’è
Art. 2126 – Prestazione di fatto con violazione di legge – La nullità o l’annullamento del contratto di
lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi
dall’illiceità dell’oggetto o della causa.
Se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro questi ha in ogni
caso diritto alla retribuzione.

basta da solo a costituire il rapporto senza che di fatto avvenga l’occupazione. Questa tesi trova
fondamento nell’art. 2126 del Codice Civile che rubrica “Prestazioni di fatto con violazioni di
legge” e che stabilisce che la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per
il periodo in cui il rapporto non ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità
dell’oggetto (che si ha nel caso in cui si violino presidi o principi generali) o della causa (illiceità
dei motivi del contratto); ed inoltre nel secondo comma sancisce che se il lavoro è stato prestato con
violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla
retribuzione.

Commentando l’art. 2126 possiamo dire che ci sembra chiaro che il condizionare la costituzione di
una obbligazione al suo adempimento equivale a negare l’obbligazione, visto che non può
ammettersi l’esistenza di una obbligazione, o di un obbligo giuridico, se il diritto non impone al
soggetto un certo comportamento, considerando il comportamento contrario come antigiuridico o
illecito. È altrettanto scorretto sostenere, sulla base di questo articolo, che l’obbligazione di lavoro
si costituisce nel momento stesso in cui si estingue; è invece corretto sostenere che tale
disposizione non prevede la costituzione di nessuna obbligazione di lavoro, ma soltanto
ricollega alla prestazione di fatto alcuni effetti giuridici corrispondenti a quelli che si sarebbero
prodotti se fosse esistita una obbligazione e l’esecuzione del lavoro fosse stata adempiuta dalla
stessa. In conclusione se per l’art. 2126 la prestazione di fatto non può mai produrre una
obbligazione di lavoro, deve allo stesso modo dirsi che non può mai produrre un rapporto di
lavoro, posto che non è certamente configurabile come rapporto di lavoro una situazione
giuridica che non comporti l’obbligazione del lavoratore di lavorare.

PRESTAZIONE DI FATTO, GESTIONE D’AFFARI, AFFIDAMENTO E BUONA FEDE

Resta da stabilire se la prestazione di fatto possa essere intesa nella fattispecie costitutiva di una
obbligazione di lavoro e quindi di un rapporto di lavoro: l’ipotizzata obbligazione del lavoratore
derivante dal fatto dell’occupazione, non potrebbe mai configurarsi come una obbligazione di
lavoro, ma semmai come una obbligazione di astenersi dall’intempestiva interruzione
dell’occupazione, dannosa al datore di lavoro.
Per quanto riguarda le norme sulla gestione di affari, esse non sembrano applicabili all’ipotesi in
cui sia stato iniziato un lavoro subordinato.

Art. 2030 – Obbligazioni del gestore – Il gestore è soggetto alle stesse obbligazioni che deriverebbero da
un mandato.
Tuttavia il giudice, in considerazione delle circostanze che hanno indotto il gestore ad assumere la
gestione, può moderare il risarcimento dei danni ai quali questi sarebbe tenuto per effetto della sua colpa .

Art. 2028 – Obbligo di continuare la gestione – Chi, senza esservi obbligato, assume scientemente la
gestione di un affare altrui, è tenuto a continuarla e condurla a termine finchè l’interessato non sia in grado
di provvedervi da se stesso.
L’obbligo di continuare la gestione sussiste anche se l’interessato muore prima che l’affare sia terminato,
finchè l’erede possa provvedere direttamente.

Quanto in generale alla possibilità che dalla volontaria interruzione dell’occupazione iniziata derivi
un danno al datore di lavoro, si osserva che un danno così strutturato potrebbe considerarsi ingiusto,
e quindi risarcibile, seguendo due vie: o configurando la complessiva condotta del lavoratore che
instaura l’occupazione di fatto e successivamente la interrompe, deludendo l’affidamento
dell’imprenditore e violando uno di quegli obblighi che abbiamo chiamato secondari e quindi
causano illecito extracontrattuale, o scindendo le due componenti di questa complessiva condotta, e
considerando l’occupazione fonte di una obbligazione del lavoratore e l’intempestiva interruzione
dell’occupazione illecito contrattuale, in quanto inadempimento di tale obbligazione.
Perciò l’ipotizzata obbligazione del lavoratore derivante dal fatto dell’occupazione non potrebbe
mai configurarsi come una obbligazione di lavoro, ma semmai come una obbligazione di astenersi
dall’intempestiva interruzione dell’occupazione, dannosa al datore di lavoro.

Art. 1337 – Trattative e responsabilità precontrattuale – Le parti, nello svolgimento delle trattative e
nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede.

Art. 2043 – Risarcimento per danno illecito – Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un
danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.

SEZIONE II: SOGGETTI E OGGETTI DEL CONTRATTO

LE VARIE CAPACITA’ IN MATERIA DI LAVORO

Passiamo adesso ad analizzare quelli che sono i soggetti del contratto. Questi sono
LAVORATORE e DATORE DI LAVORO. Iniziamo con l’analizzare la posizione del lavoratore
ed il primo problema che affrontiamo è quello sulla capacità.

Art. 1 – Capacità giuridica – La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita.
I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita.

Si deve avvertire che la dottrina giuridica è solita parlare di capacità di lavoro o capacità
lavorativa in diversi significati : in un primo senso per capacità di lavoro si intende l’attitudine
ad essere obbligati a prestare lavoro e così intesa la capacità lavorativa non è altro che una
speciale capacità giuridica collegandosi alla dottrina che differenzia la capacità giuridica generale
che secondo l’art. 1 del Codice Civile (capacità giuridica) ogni uomo acquista al momento della
nascita, e capacità giuridiche speciali che sono condizionate da alcune qualità del soggetto; in un
secondo significato la capacità di lavoro o lavorativa è l’attitudine naturale di un soggetto allo
svolgimento di una attività socialmente utile e così intesa, essa risulta costituita da molteplici
qualità del soggetto come la capacità psicofisica o fisiologica, la capacità tecnica o professionale
e la capacità morale che consterebbe del complesso di tutte le doti morali che condizionano
l’esatto svolgimento di un certo lavoro. Vengono poi in considerazione la capacità legale di agire
per la stipulazione del contratto di lavoro e per l’esercizio dei diritti e delle azioni che ne dipendono,
nonché la capacità di intendere e di volere o capacità naturale di agire sempre con riguardo allo
svolgimento del rapporto.
A completamento del discorso sulla capacità di agire, è necessario ricordare che non c’è alcun
dubbio sul fatto che la capacità contrattuale spetti al minore emancipato per effetto del matrimonio,
come stabilito dall’art. 390 c.c. e al maggiore inabilitato, art. 414 c.c., perché il contratto di lavoro
non è tra quei negozi eccedenti l’ordinaria amministrazione per i quali si richiede la piena capacità
di agire.
Altrettanto indubbio è poi il fatto che, quando manca la capacità, il contratto non può essere
validamente stipulato che dal legale rappresentante, senza che nulla aggiunga l’eventuale
partecipazione alla stipulazione dell’interessato.

Art. 390 – Emancipazione di diritto – Il minore è di diritto emancipato con il matrimonio


PROBLEMI SULLA CAPACITA’ DI LAVORO REGOLATA DAL CODICE

Art. 414 – Persone che possono essere interdette – Il maggiore di età e il minore emancipato, i quali si
trovano in condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai loro interessi,
sono interdetti quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione.

Art. 2 – Maggiore età. Capacità di agire – La maggiore età è fissata al compimento del diciottesimo anno.
Con la maggiore età si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita una età
diversa.
Sono salve le leggi speciali che stabiliscono una età inferiore in materia di capacità a prestare il proprio
lavoro. In tal caso il minore è abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di
lavoro.

L’art. 2 del Codice Civile rubrica “Maggiore età. Capacità di agire” e sancisce che la maggiore
età si ottiene al compimento del diciottesimo anno e nel secondo comma afferma che sono salve le
leggi speciali che stabiliscono una età inferiore in materia di capacità di prestare il proprio
lavoro. In tal caso il minore è abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal
contratto di lavoro”.
Il primo problema relativo a questo articolo è stabilire che cosa si voglia intendere con l’assunto
capacità a prestare il proprio lavoro: una parte della dottrina riteneva che si dovesse far riferimento
alla capacità giuridica speciale visto che tutti gli aspetti della capacità di agire erano già
considerati nel seguito della norma, mentre un’altra parte della dottrina interpretava questa norma
come riferita alla sola capacità di agire sostanziale e processuale ritenendo che la disciplina delle
condizioni di acquisto della capacità giuridica dovessero trovarsi nella Legge n. 977 del 1967 sulla
tutela del lavoro dei bambini e degli adolescenti, che avrebbero stabilito l’acquisto di detta
capacità rispettivamente al quattordicesimo e al quindicesimo anno. La regola ricavabile dal Codice
è in definitiva la seguente: quando, in base alle leggi speciali che regolano la capacità in materia
di lavoro, il minore di diciotto anni è dotato della capacità giuridica ad un certo rapporto di
lavoro, egli ha anche la capacità di esercitare i diritti e le azioni che dipendono dal contratto
di lavoro, pur se non ha ancora la capacità di stipulare il contratto stesso.

LA CAPACITA’ GIURIDICA SPECIALE

La capacità giuridica in materia di lavoro è oggi regolata esclusivamente dalle leggi speciali che
l’art. 2 del Codice Civile cita al secondo comma. In base a questa legislazione deve ritenersi che
oggi la regola generale sia quella dell’acquisto della capacità giuridica di lavoro al momento in
cui il minore ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria e comunque non prima del
compimento del quindicesimo anno di età; un tempo l’obbligo scolastico coincideva con i
quindici anni di età ma con la Legge Moratti sull’istruzione questo obbligo è stato innalzato e

Legge n. 977/1967 – art. 4 – (primo e secondo comma) – E’ vietato adibire al lavoro i bambini, salvo
quanto disposto dal comma 2.
La Direzione provinciale del lavoro può autorizzare, previo assenso scritto dei titolari della potestà
genitoriale, l’impiego dei minori in attività lavorative di carattere culturale, artistico, sportivo o
pubblicitario e nel settore dello spettacolo, purché non si tratti di attività che non pregiudicano la
sicurezza, l’integrità psico – fisica e lo sviluppo del minore, la frequenza scolastica o la partecipazione a
programmi di orientamento o di formazione professionale.
attualmente è stato portato al diciassettesimo o diciottesimo anno di età e quindi corrisponde all’età
in cui si acquista la capacità giuridica.

L’art. 4 della Legge 977 del 1967 prevede che con l’autorizzazione della direzione provinciale
del lavoro, previo assenso scritto dei titolari della potestà genitoriale e apposita visita medica,
si possano utilizzare minori per attività culturali, artistiche e pubblicitarie che però non
pregiudichino la sicurezza, lo sviluppo e la frequenza scolastica.

Legge n. 977/1967 – art. 5 – Non possono essere adibiti:


a) i fanciulli e gli adolescenti di età inferiore agli anni 16 e le donne fino agli anni 18 ai lavori
pericolosi, faticosi e insalubri determinati a norma dell’articolo 6 della presente legge
b) i fanciulli e gli adolescenti di età inferiore agli anni 16 e le donne fino agli anni 18 a lavori di
pulizia e di servizio dei motori e degli organi di trasmissione delle macchine che sono in moto
c) i fanciulli e gli adolescenti di età inferiore agli anni 16, anche da parte dei rispettivi genitori,
ascendenti e tutori, a mestieri girovaghi di qualunque genere
d) ecc…ecc….

Per contro l’art. 5 della stessa legge vieta che per lavori ritenuti pericolosi, faticosi ed insalubri
e comunque precisati in un apposito elenco, siano impiegati soggetti minori o che comunque
non abbiano ancora compiuto i 16 o 18 anni, a seconda dei casi. La legge prevede espressamente
sanzioni penali a carico sia del datore di lavoro, sia della persona investita di autorità o incaricata
della vigilanza sul minore, che ne consentano l’assunzione al lavoro in violazione dei limiti minimi
di età da essa stabiliti; incidono sulla capacità giuridica anche le varie norme che impongono
determinate pause nello svolgimento dell’attività lavorativa: pause periodiche giornaliere (disciplina
dell’orario di lavoro), settimanali (riposo festivo), annuali (ferie) o dovute a particolari situazioni
come malattia o gravidanza. Tuttavia in questi casi non è mai implicata la capacità giuridica la
rapporto fondamentale di lavoro, ma solamente la capacità all’obbligazione di lavoro. Naturalmente
nel caso della prestazione di fatto dell’attività lavorativa, troverà applicazione l’art. 2126 del Codice
Civile.
Un particolare problema si è posto in relazione all’assunzione con contratto di apprendistato di
chi abbia superato l’età massima e visto che in questo caso manca la capacità al rapporto di
tirocinio, ma sussiste la capacità al rapporto di lavoro subordinato, si è sostenuta la produzione da
parte del contratto di tirocinio degli effetti propri del contratto di lavoro subordinato; questo vale
solamente nel caso in cui questo contratto di tirocinio si accettato e voluto da entrambe le parti
perché, se come avviene in molti casi il contratto di tirocinio con un soggetto ultra – ventiquattrenne
è stipulato solamente per consentire una retribuzione meno elevata e meno pesanti oneri
contributivi, dovrebbe darsi applicazione alla disciplina generale della simulazione, con
conseguente validità tra le parti di ogni effetto del rapporto di lavoro ordinario dissimulato.
Passiamo ora ad analizzare la situazione del datore di lavoro che è colui che è rappresentante legale
e ha responsabilità giuridica; datore di lavoro può essere anche un soggetto che si occupa della
gestione dell’impresa. La distinzione principale da fare è quella tra DATORE DI LAVORO
IMPRENDITORE e DATORE DI LAVORO NON IMPRENDITORE.

Art. 2082 – Imprenditore – E’ imprenditore chi esercita professionalmente una attività economica
organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.
Questa distinzione si basa sull’art. 2082 del Codice Civile (Imprenditore) che stabilisce che è
imprenditore chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della
produzione o dello scambio di beni e servizi, precisando che si può essere imprenditore anche
senza scopo di lucro.

Art. 2239 – Norme applicabili – I rapporti di lavoro subordinato che non sono inerenti all’esercizio di una
impresa sono regolati dalle disposizioni delle sezioni II, III e IV del capo I del titolo II, in quanto compatibili
con la specialità del rapporto.

L’art. 2239 del Codice Civile (Norme applicabili) stabilisce che i rapporti di lavoro non collegati
all’esercizio dell’impresa sono disciplinati come particolari o speciali e vanno applicati ai datori di
lavoro non imprenditori. Il diritto del lavoro ha fornito un contributo a questa distinzione inserendo
l’istituto delle ORGANIZZAZIONI DI TENDENZA nelle quali le finalità perseguite rendono
incompatibili alcune norme dell’imprenditore e quindi lo si considera non imprenditore.

Legge n. 108/1990 – art. 4 – Area di non applicazione – Fermo restando quanto previsto dall’articolo 3,
le disposizioni degli articoli 1 e 2 non trovano applicazione nei rapporti disciplinati dalla 2 aprile 1958 n.
339. la disciplina di cui all’articolo 18 della legge del 20 maggio 1970 n. 300, come modificato
dall’articolo 1 della presente legge, non trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro non
imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione
ovvero di religione e di culto.

Un esempio è l’art. 4 della Legge 108 del 1990 sulla disciplina dei licenziamenti individuali, il
quale stabilisce che a coloro i quali svolgono finalità di tipo intellettuale, come ad esempio le scuole
religiose, si debba applicare la disciplina debole del licenziamento. In conclusione si considera
NON IMPRENDITORE colui che persegue finalità ideali senza una struttura organizzativa
imprenditoriale. Un altro criterio che può agevolare questa classificazione è la dimensione
strutturale cioè il numero di dipendenti occupati nell’impresa; in relazione a questo però esiste il
fenomeno del COLLEGAMENTO TRA IMPRESE ossia forme di controllo o catene di società:
in questi casi un dipendente è presente nel libro paga di una sola impresa del gruppo, ma il cui
lavoro giova ad un’altra impresa del gruppo, oppure svolge una attività che giova ad interessi che
appartengono contemporaneamente a più imprese del gruppo. In questi casi si ritiene che il datore di
lavoro non sia il gruppo perché questo non ha una propria soggettività; bisogna però valutare se il
gruppo deriva dalla frammentazione di un’altra impresa evitando in questo modo le norme
riguardanti il datore di lavoro, presentando la questione davanti al giudice che in questi casi accerta
l’unitarietà dell’attività imprenditoriale.

LA CAPACITA’ NATURALE DI LAVORO

La capacità lavorativa naturale, che i testi legislativi preferiscono chiamare inabilità o invalidità,
ha rilevanza giuridica ad alcuni effetti previsti da varie leggi protettive dei lavoratori. Secondo
alcuni autori la capacità naturale di lavoro verrebbe in considerazione come requisito soggettivo
della validità del contratto di lavoro, solamente quando la legge prevede particolari forme di
accertamento di questa capacità: in realtà questo non può essere sufficiente a considerare esistente
la capacità naturale di lavoro perché alcuni soggetti, anche se in possesso di queste particolari forme
di accertamento, potrebbero in realtà essere sprovvisti di questa capacità naturale; non attinente
sembra anche l’affermazione che il consenso del datore di lavoro, che assume un lavoratore
incapace, sarebbe viziato da errore essenziale su una qualità dell’altro contraente. Il vero problema
Art. 1464 – Impossibilità parziale – Quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente
impossibile, l’altra parte ha diritto ad una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e può
anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale.
di fondo è quello di capire se si possa essere obbligati a prestare un lavoro che non si è in grado
di prestare: nel caso di risposta positiva il contratto di lavoro stipulato dalla persona incapace al
lavoro dovrà considerarsi valido e produttivo di tutti gli effetti a cui è destinato, la mancata
esecuzione del lavoro costituirà inadempimento dell’obbligazione di lavoro e quindi, nei casi più
gravi, fonte di risoluzione del contratto, da attuarsi nei modi propri al contratto di lavoro; se la
risposta è invece negativa il contratto di lavoro con il quale si è promessa una prestazione di
lavoro che si è incapaci di realizzare dovrà considerasi non idoneo a costituire la relativa
obbligazione. Per risolvere correttamente la questione, a nostro avviso, è necessario distinguere
tra obbligazione di diligenza ed obbligazione di mezzi, che impone al prestatore di lavoro
soltanto di tenere un certo comportamento, e non di raggiungere attraverso questo comportamento
un certo risultato. A nostro avviso, inoltre, l’incapacità naturale di eseguire il lavoro che costituisce
oggetto del contratto, si deve ritenere una semplice impossibilità della prestazione. Le conclusioni
che abbiamo appena tratto valgono sia per la cosiddetta incapacità fisica o fisiologica, sia per
quella che viene chiamata incapacità tecnica, anche se in realtà questa distinzione dovrebbe essere
sostituita da quella tra incapacità totale ed incapacità parziale, riferita all’adempimento esatto
quantitativamente e qualitativamente, considerando questa ultima come causa di riduzione del
contenuto del vincolo alla parte possibile; trattandosi però di contratto a prestazioni corrispettive
troverà applicazione l’art. 1464 del Codice Civile (impossibilità parziale) e sarà pertanto
consentito al datore di lavoro di chiedere la riduzione della retribuzione e di recedere dal contratto
qualora non ci sia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale. La conseguenza conclusiva
delle considerazioni svolte fino a questo punto è che il contratto di lavoro per il quale manchi
totalmente la capacità di lavoro naturale è INEFFICACE.

REQUISITI OGGETTIVI DEL CONTRATTO

Art. 1346 – Requisiti – L’oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile.

Secondo l’art. 1346 del Codice Civile (requisiti) i requisiti dell’oggetto del contratto sono:
1) la possibilità: nel caso di deduzione in contratto di attività impossibile per chiunque,
l’inefficacia del contratto medesimo dovrebbe ricondursi all’impossibilità dell’oggetto; la
vera impossibilità della prestazione di lavoro si ha non soltanto quando sia impossibile il
tipo di attività in astratto, ma anche quando l’impossibilità dipende da situazioni attinenti a
quello che viene considerato il substrato della prestazione di lavoro, cioè l’ambiente nel
quale il lavoro deve essere svolto o la materia del lavoro
2) la liceità: si parla di illiceità dell’oggetto nel caso di assunzione per attività
naturalisticamente possibili, ma contrarie a regole o principi inderogabili dell’ordinamento;
in questo caso è da tenere presente che non ci si trova di fronte a situazioni che precludono il
contratto, ma bensì il rapporto
3) la determinatezza o determinabilità: la determinazione dell’oggetto nel contratto di lavoro
avviene mediante l’indicazione delle mansioni, in maniera generica, restando deferita
all’esercizio del potere direttivo dell’imprenditore la specificazione delle modalità ulteriori;
bisogna precisare che la genericità però non deve essere troppo ampia, senza che appunto
venga meno il requisito della determinatezza. In mancanza di specifiche norme che
consentono di supplire all’omessa determinazione consensuale delle mansioni, non si può
concludere che per l’applicazione all’assunzione del lavoratore tuttofare della regola
generale della nullità per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto.
Vanno fatti poi alcuni cenni sulle caratteristiche della retribuzione che sono le seguenti:
a) la possibilità: questo requisito può in concreto mancare solamente quando è prevista
una retribuzione in natura
b) la liceità: questo requisito viene sempre rispettato perché il dare denaro è prestazione
in sé e per sé lecita
c) la determinatezza o determinabilità: è da precisare che questo requisito non può
mai mancare; non si può infatti avere un contratto nullo o inefficace per
indeterminatezza o indeterminabilità della retribuzione e questa opinione ha come
base l’art 2099 del Codice Civile (retribuzione) che prevede la determinazione
costitutiva del giudice per il caso di mancanza di una determinazione contrattuale,
individuale o collettiva.

Art. 2099 – Retribuzione – La retribuzione del prestatore di lavoro può essere stabilita a tempo o a
cottimo e deve essere corrisposta nella misura determinata dalle norme corporative, con le modalità e nei
termini in uso nel luogo in cui il lavoro viene eseguito.

SEZIONE III: ELEMENTI COSTITUTIVI DEL CONTRATTO

VOLONTA’ E FORMA

Le varie teorie anticontrattualistiche tendono a svalutare il rilievo della volontà delle parti nella fase
di costituzione e durante lo svolgimento di tutto il rapporto; quando invece si fa riferimento a quello
che sostengono la maggior parte degli studiosi si intende la volontà delle parti come l’elemento
essenziale della fattispecie costitutiva del rapporto di lavoro. Quanto alla manifestazione della
volontà vige anche per il contratto di lavoro il principio generale della libertà di forma: con
riguardo alle clausole a forma vincolata è però da precisare che il vincolo di forma riguarda la
singola clausola e non l’intero contratto in cui quella si inserisce; inoltre in caso di omissione della
norma prescritta per la singola clausola, la nullità della clausola non comporta la nullità dell’intero
contratto nemmeno se si dimostra che senza quella clausola le parti non avrebbero concluso quel
contratto. Il fatto che il contratto individuale che non rispetta la forma stabilita dal contratto
collettivo sia invalido, si desume dall’art. 1352 del Codice Civile (forme convenzionali) il quale
prevede addirittura una presunzione di vincolo ad substantiam e non solo ad probationem.

Art. 1352 – Forme convenzionali – Se le parti hanno convenuto per iscritto di adottare una determinata
forma per la futura conclusione di un contratto, si presume che la forma sia stata voluta per la validità di
questo.
Una regola analoga a quella appena descritta si può trovare nel Decreto Legislativo n. 152 del 26
maggio 1997 sull’attuazione della direttiva CEE concernente l’obbligo del datore di lavoro di
informare il lavoratore delle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro.

Decreto Legislativo n. 152/1997 – art. 1 – Obbligo di informazione - Il datore di lavoro pubblico e


privato è tenuto a fornire al lavoratore, entro trenta giorni dalla data dell’assunzione, le seguenti
informazioni:
a) l’identità delle parti
b) il luogo di lavoro; in mancanza di un luogo di lavoro fisso o predominante, l’indicazione che il
lavoratore è occupato in luoghi diversi, nonché la sede o il domicilio del datore di lavoro
c) la data di inizio del rapporto di lavoro
d) ecc…ecc…

All’art 1 (obbligo di informazione) stabilisce che il datore di lavoro è tenuto a fornire, per iscritto,
al lavoratore entro trenta giorni dalla data dell’assunzione, tutte le notizie relative alla modalità del
rapporto, o eventualmente desumibili mediante rinvio al contratto collettivo applicabile.

Decreto Legislativo 152/1997 – Art. 4 – Misure di tutela – In caso di mancato o ritardato, incompleto o
inesatto assolvimento degli obblighi di cui agli articoli 1,2,3 e 5, comma 2, il lavoratore può rivolgersi alla
direzione provinciale del lavoro affinché intimi al datore di lavoro a fornire le informazioni previste dal
presente decreto entro il termine di quindici giorni.

All’art. 4 (misure di tutela) è poi previsto che in caso di mancata o incompleta comunicazione, il
lavoratore può rivolgersi alla direzione provinciale del lavoro perché intimi al datore di lavoro di
fornire le informazioni previste entro il termine di quindici giorni.

IL CONTRATTO DI LAVORO DISSIMULATO

La simulazione in materia di lavoro è particolarmente frequente, perché norme imperative legali e


collettive pongono al datore di lavoro obblighi ed oneri pesanti nei confronti del prestatore di
lavoro, dei sindacati, degli enti ed organi pubblici, più di quanto solitamente non avvenga negli altri
tipi di rapporti contrattuali. Da quando è stata legislativamente prevista la figura del lavoro
parasubordinato è diventata molto frequente la simulazione di questo tipo di rapporto di lavoro
che consente al datore di lavoro notevoli vantaggi economici e tributari e alcune volte da anche la
possibilità al lavoratore di fruire contemporaneamente di trattamenti pensionistici che altrimenti, in
altri tipi di rapporti di lavoro, per esempio quello subordinato, non sarebbero cumulabili; altre volte
ancora la simulazione non attiene al tipo di contratto, ma ad alcuni dei suoi elementi: per esempio
al fine di sottrarre il vero datore di lavoro alla responsabilità patrimoniale per i debiti retributivi,
cioè all’applicazione del contratto collettivo della categoria a cui appartiene, o di norme legali come
quelle sui licenziamenti, che presuppongono certe dimensioni dell’impresa o dell’unità produttiva ;
è infine molto frequente l’ipotesi di simulazione di una retribuzione inferiore a quella reale al fine
di corrispondere minori contributi previdenziali, o di non computare l’intera retribuzione agli effetti
del trattamento di fine rapporto.

CAUSA E MOTIVI. FRODE E CONTRARIETA’ ALLE LEGGI SUL LAVORO

La scelta del tipo di contratto, o di più contratti o negozi tra loro combinati, avviene in concreto al
fine di eludere l’applicazione di norme imperative relative al rapporto di lavoro. Questo
comportamento è ovviamente illecito. Secondo l’opinione comune la causa del rapporto di lavoro è
lo scambio tra lavoro e retribuzione, scambio questo che essendo previsto e regolato dalla legge
come funzione caratteristica di un contratto nominato, non può mai essere illecito; invece, ai casi di
stipulazione di contratti diversi dal contratto di lavoro o di applicazione di alcune clausole al
contratto di lavoro allo scopo di eludere alcune norme imperative, deve applicarsi l’art. 1344 del
Codice Civile (contratto in frode alla legge).

Art. 1344 – Contratto in frode alla legge – Si reputa altresì illecita la causa quando il contratto
costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa.

Secondo questo articolo risultano colpiti da nullità negozi in sé leciti, sia in quanto alla causa sia in
quanto agli altri elementi e presupposti, ma caratterizzati sotto il profilo oggettivo dell’idoneità a
raggiungere un risultato analogo a quello vietato, e sotto il profilo soggettivo dall’intento di eludere
la norma imperativa. Questo articolo in realtà non prevede un rimedio realmente efficace per due
motivi:
 la prova di un dato soggettivo come l’intento fraudolento, in molti casi di frode alle norme
sul lavoro può non essere agevole
 è incongrua la mera sanzione della nullità del contratto rispetto alle esigenze di tutela degli
interessi in gioco nel rapporto di lavoro
Si spiega in questo modo perché in alcuni casi la legge detti una speciale ipotesi di frode a norme
sul rapporto di lavoro al fine di prevedere delle sanzioni più appropriate rispetto a quelle desumibili
dalla regola generale; in altri casi invece, il legislatore, partendo dalla notevole frequenza di certe
forme di frode, ha tolto rilievo all’intento fraudolento sostituendo così la frode alla legge con un
diretto divieto.

SEZIONE IV: ELEMENTI ACCIDENTALI DEL CONTRATTO

IL CONTRATTO DI LAVORO MODALE: CONDIZIONE E TERMINE

La condizione è considerata un elemento accidentale del contratto, non è prevista né specificamente


regolata nel nostro ordinamento ed è per questo che deve ritenersi opponibile solamente entro certi
limiti; il termine è assoggettato ad una specifica disciplina che lo ammette solo per determinate
ragioni. Diciamo che in linea generale si ritiene apponibile al contratto di lavoro la condizione
sospensiva solo quando non c’è obbligo di contrarre e la condizione risolutiva solamente quando
le parti sono libere di disporre l’estinzione del rapporto, precisando che la sanzione, nelle due
differenti ipotesi, deve essere diversamente calcolata.

DALLA REGOLAMENTAZIONE RIGIDA ALLA SEMI – LIBERALIZZAZIONE DEL


CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO

L’atteggiamento del legislatore sul termine finale del contratto di lavoro ha subito alterne vicende: il
codice del 1865 consentiva la locazione di opere solo a tempo o per una determinata impresa, il
Codice Civile del 1942 all’art. 2097 acquisita oramai la regola della libera recedibilità del
contratto a tempo indeterminato, capovolse la prospettiva del codice anteriore con norme
chiaramente a sfavore del contratto a tempo determinato.
Si spinse molto più oltre la Legge n. 230 del 18 aprile 1962 (Disciplina del contratto di lavoro a
tempo determinato e che abolì il precedente art. 2097) per la quale il termine divenne una
modalità validamente apponibile al contratto di lavoro solo per iscritto, ad eccezione dei salariati
fissi dell’agricoltura e del contratto di lavoro per il personale di volo.
Legge n. 230/1962 – art. 1 – Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni
appresso indicate.
È consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto:
a) quando ciò sia richiesto dalla speciale natura dell’attività lavorativa derivante dal carattere stagionale
della medesima
b) quando l’assunzione abbia luogo per sostituire lavoratori assenti e per i quali sussiste il diritto alla
conservazione del posto, sempreché nel contratto di lavoro a termine sia indicato il nome del lavoratore
sostituito e la causa della sua sostituzione
c) quando l’assunzione abbia luogo per l’esecuzione di un’opera o di un servizio definiti e predeterminati nel
tempo aventi carattere straordinario od occasionale
d) ecc…ecc…

Inoltre la legge 230/1962 all’art. 1 indicava i casi nei quali l’apposizione del termine era consentita,
con una elencazione di casi da ritenersi assolutamente tassativa. Questa legge ha quindi segnato la
punta massima dello sfavore legislativo per il contratto a tempo determinato.

Oggi però tutte le preesistenti norme sul contratto a termine sono state sostituite dal Decreto
Legislativo n. 368 del 6 settembre 2001 riguardante l’attuazione della direttiva CE relativa
all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato che all’art. 11 (abrogazioni e disciplina
transitoria) non solo abroga espressamente la legge 230/1962 e successive modificazioni, ma
anche tutte le disposizioni di legge che sono incompatibili e non espressamente richiamate dal
decreto stesso.

Decreto Legislativo n. 368/2001 – art. 11 – Abrogazioni e disciplina transitoria – Dalla data di entrata
in vigore del presente decreto legislativo sono abrogate la legge 18 aprile 1962, n. 230, e successive
modificazioni, l’articolo 8 bis della legge 25 marzo 1983, n. 79, l’articolo 23 della legge 28 febbraio 1987,
n. 56, nonché tutte le disposizioni di legge che sono comunque incompatibili e non sono espressamente
richiamate nel presente decreto legislativo.

Questo decreto legislativo è interessante anche per la sua genesi infatti si basa su un accordo
sindacale quadro europeo che è stato recepito da una direttiva comunitaria, e più
precisamente la n. 70 del 1991 alla quale lo Stato italiano ha ritenuto di doversi adeguare per
l’emanazione di questo decreto; in realtà l’adesione non era necessaria in quanto l’ordinamento
italiano preesistente era più favorevole ai lavoratori della direttiva europea che imponeva una certa
tutela per i lavoratori a tempo determinato ma che mirava soprattutto al raggiungimento di due
obbiettivi:
1) la parità di trattamento tra i lavoratori a termine, per i quali veniva previsto un periodo di
formazione, ed i lavoratori a tempo indeterminato
2) evitare un abuso della reiterazione del contratto a termine

“RAGIONI” DI LEGITTIMA APPOSIZIONE DEL TERMINE

Decreto Legislativo n. 368/2001 – art. 1 – Apposizione del termine – E’ consentita l’apposizione di un


termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo,
organizzativo o sostitutivo.
L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da un atto scritto
nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1.
Per quanto riguarda la legittima apposizione del termine la novità più importante rispetto alla
legislazione anteriore è costituita dal fatto che la Decreto Legislativo 368/2001 all’art. 1
(apposizione del termine) invece di fare una tassativa elencazione delle ipotesi nelle quali
l’apposizione del termine è consentita, utilizza una indicazione generica affermando che il termine è
ad oggi opponibile a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo;
inoltre l’invalidità della clausola del termine non comporta l’intera nullità del contratto neppure se
si tratta di una clausola essenziale, come si intendeva nel passato, perché attualmente il secondo
comma di questo articolo sancisce che la conservazione del contratto a tempo indeterminato risulta
solo per la mancanza della forma scritta.

Decreto Legislativo n. 368/2001 – art. 3 – Divieti – L’apposizione di un termine alla durata di un


contratto di lavoro subordinato non è ammessa:
a) per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero
b) salva diversa disposizione degli accordi sindacali, presso unità produttive nelle quali si sia
proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi, che abbiano riguardato lavoratori
adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato, salvo che
tale contratto sia concluso per provvedere a sostituzione di lavoratori assenti, ovvero abbia una
durata iniziale non superiore a tre mesi
c) presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione
dell’orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale che interessino lavoratori adibiti alle
mansioni cui si riferisce il contratto a termine
d) ecc…ecc….

All’art. 3 (divieti) viene fatto un rovesciamento rispetto alla legislazione del 1962, adottando una
elencazione tassativa non più delle ipotesi nelle quali il contratto a termine è consentito, ma di
quello nelle quali il contratto a termine è vietato.

PROSECUZIONE O RINNOVAZIONE DEL RAPPORTO A TERMINE

La disciplina giuridica attuale della prosecuzione del lavoro dopo la scadenza del termine
distingue tra prosecuzione che dura poco e prosecuzione che dura molto sulla base della durata
originaria del rapporto.

Decreto Legislativo n. 368/2001 – art. 5 – Scadenza del termine e sanzioni. Successione dei contratti
– Se il rapporto di lavoro continua dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente
prorogato ai sensi dell’art. 4, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione
della retribuzione per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al venti per cento fino al decimo
giorno successivo, al quaranta per cento per ciascun giorno ulteriore.
Se il rapporto di lavoro continua oltre il ventesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei
mesi, ovvero oltre il trentesimo giorno negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla
scadenza dei predetti termini.
Qualora il lavoratore venga riassunto a termine, ai sensi dell’articolo 1, entro un periodo di dieci giorni
dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza
di un contratto di durata superiore ai sei mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato.
Quando si tratta di due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle effettuate senza alcuna
soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione
del primo contratto.

Si hanno così tre diversi periodi di prosecuzione che vengono rilevati all’art. 5 (scadenza del
termine e sanzioni. Successione dei contratti): 10 giorni, 20 giorni e 30 giorni; la prosecuzione
per periodi di lavoro che rimangono al di sotto di questi limiti è sanzionata con maggiorazioni
retributive del 20% o del 40% a seconda dei casi. Il terzo ed il quarto comma di questo articolo si
occupano della diversità di trattamento tra prosecuzione di fatto del lavoro e prosecuzione
conseguente ad una nuova assunzione: nel caso in cui venga accertata l’esistenza di un nuovo
contrattato a termine, si deve ulteriormente distinguere tra tre casi:
a) ipotesi che il nuovo contratto a termine sia stipulato prima della scadenza del termine fissato
dal primo ed in questo caso il rapporto si considera a tempo indeterminato fin dall’origine
b) ipotesi della stipulazione del nuovo contratto entro dieci giorni dalla data di scadenza di un
contratto di durata fino a sei mesi, e di venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di
durata superiore ai sei mesi; in questo caso si considera a tempo indeterminato solo il
secondo contratto
c) ipotesi di un nuovo contratto stipulato decorsi i dieci o venti giorni previsti dall’ipotesi
precedente, ma questa ipotesi non è prevista dalla legge

Decreto Legislativo n. 368/2001 – art. 4 – Disciplina della proroga – Il termine del contratto a tempo
determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del
contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia
richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato
stipulato a tempo indeterminato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del
rapporto a termine non potrà essere superiore ai tre anni.

L’art. 4 (disciplina della proroga) consente la proroga del termine solamente quando la durata
iniziale del contratto sia inferiore ai tre anni, per una volta soltanto e purché la durata la durata
complessiva del rapporto a termine non superi i tre anni. Essendo chiara una contraddizione tra
questo articolo ed i commi terzo e quarto dell’art. 5, è opportuno intendere che l’uso delle
espressioni “proroga” e “prorogato” all’art. 4 si debbano riferire all’ipotesi che le parti vogliano
considerare il secondo rapporto una prosecuzione del primo; l’utilizzo delle espressioni
“riassunto” e “assunzioni successive”, utilizzate all’art. 5, alluderebbero invece all’ipotesi che le
parti intendano il secondo rapporto come un rapporto nuovo.

IL PATTO DI PROVA

Art. 2096 – Assunzione in prova – Salvo diversa disposizione delle norme corporative, l’assunzione
del prestatore di lavoro per un periodo di prova deve risultare da atto scritto.
L’imprenditore ed il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l’esperimento
che forma oggetto del patto di prova.
Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto senza obbligo di preavviso o
di indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può
esercitarsi prima della scadenza del termine.
Compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa
nell’anzianità del datore di lavoro.

L’art. 2096 (assunzione in prova) del Codice Civile disciplina una particolare modalità del
contratto di lavoro: il patto di prova che è una speciale clausola opponibile al contratto di lavoro.
Lo scopo di questa clausola è quello di obbligare l’imprenditore ed il prestatore di lavoro a svolgere
l’esperimento che forma oggetto del patto; al secondo comma viene riconosciuto ad entrambe le
parti un potere di recesso sottratto ai limiti ordinari e che può anche convenire trascorso un periodo
di irrecedibilità. Gli altri diritti e doveri delle parti sono quelli propri ad ogni rapporto di lavoro e
compiuto il periodo di prova, come afferma il quarto comma, non occorre per la prosecuzione del
rapporto la stipulazione di un nuovo contratto. Il problema interpretativo più importante
relativamente al patto di prova riguarda l’individuazione dei limiti dello speciale potere di
recesso riconosciuto alle parti durante la prova: il Codice dice che esso è senza obbligo di
preavviso e di indennità, intendendo per indennità quella di mancato preavviso; il Codice però
afferma anche che se la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non
può essere esercitata prima della scadenza di tale termine: deve ritenersi il recesso qui escluso
soltanto lo speciale recesso del periodo di prova. Quanto al presupposto sul quale il recesso può
essere fondato, la dottrina parla solitamente del mancato gradimento come unico e necessario
presupposto. Una particolare questione che si pone frequentemente è se sia opponibile la clausola
della prova ai contratti di lavoro stipulati con i disabili obbligatoriamente assunti. La
Cassazione ha risolto il problema riconoscendo la possibilità di porre la clausola di prova nei
contratti stipulati con disabili assunti obbligatoriamente, ma riconoscendo anche in questi casi
la nullità del licenziamento del lavoratore disabile motivato dalla menomazione fisica che ne
ha reso obbligatorio il collocamento; un punto fermo in questa prospettiva dovrebbe inoltre essere
quello che anche per i disabili obbligatoriamente assunti, il recesso in periodo di prova non può
avere limiti maggiori di quelli ai quali soggiace quando il rapporto di lavoro diventa definitivo.

SEZIONE V: IL “MERCATO” DEL LAVORO

IL COLLOCAMENTO PUBBLICO: DAL REGIME CORPORATIVO AL COLLOCAMENTO


“OBBLIGATORIO”

Chiamiamo COLLOCAMENTO, che viene generalmente esercitato dai sindacati, l’insieme delle
attività che si svolgono per consentire o favorire l’incontro fra domanda ed offerta di lavoro, ossia
la mediazione per la stipulazione di contratti di lavoro. Per settanta anni la disciplina del
collocamento era basata sui seguenti principi:
 divieto della mediazione privata
 riserva della funzione degli appositi uffici
 onere per la generalità dei datori di lavoro che intendessero assumere dei lavoratori, di farne
richiesta all’ufficio, di regola meramente numerica ed eventualmente anche nominativa ma
solo in casi espressamente previsti
 avviamento al lavoro da parte degli uffici dei lavoratori previamente iscritti
 annullabilità per iniziativa del pubblico ministero dei contratti di lavoro stipulati in
violazione delle norme sul collocamento
Questo sistema ha però sempre funzionato poco e male.
La Legge n. 482 del 2 aprile 1968 si preoccupò di regolare il cosiddetto collocamento
obbligatorio che all’art. 11 obbligava i datori di lavoro con più di 35 dipendenti, esclusi
apprendisti e dirigenti, ad assumere lavoratori appartenenti alle categorie protette per una aliquota
complessiva del 15% del personale in servizio.

Statuto dei lavoratori – art. 33 – Collocamento – (primo, secondo, terzo e quarto comma) – La
commissione per il collocamento di cui all’art. 26 della legge 29 aprile 1949, n. 264, è costituita
obbligatoriamente presso le sezioni zonali, comunali e frazionali degli Uffici provinciali del lavoro e della
massima occupazione, quando ne facciano richiesta le organizzazioni sindacali dei lavoratori più
rappresentative.
Alla nomina della commissione provvede il direttore dell’Ufficio provinciale del lavoro e della massima
occupazione, il quale, nel richiedere la designazione dei rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro,
tiene conto del grado di rappresentatività delle organizzazioni sindacali e assegna loro un termine di 15
giorni, decorso il quale provvede d’ufficio.
La commissione è presieduta dal dirigente della sezione zonale, comunale, frazionale, ovvero da un suo
delegato, e delibera a maggioranza dei presenti. In caso di parità prevale il voto del presidente.
La commissione ha il compito di stabilire e di aggiornare periodicamente la graduatoria delle precedenze per
l’avviamento al lavoro, secondo i criteri di cui al quarto comma dell’articolo 15 della legge 29 aprile 1949 n.
264.
LA PROGRESSIVA LIBERALIZZAZIONE DEL COLLOCAMENTO

Una tappa significativa della progressiva liberalizzazione del collocamento è costituita dallo
Statuto dei lavoratori che all’art. 33 ha reso obbligatoria la costituzione presso gli uffici del
lavoro, di commissioni di derivazione sindacale con la funzione di stabilire ed aggiornare
periodicamente, in base a criteri discrezionali, la graduatoria delle precedenze per l’avviamento al
lavoro.

Legge n. 223/1991 – art. 25 – Riforma delle procedure di avviamento al lavoro – A decorrere dal 1°
gennaio 1989, i datori di lavoro privati, che, ai sensi della legge del 29 aprile 1949 n. 264, e successive
modificazioni ed integrazioni, sono tenuti ad assumere i lavoratori facendone richiesta ai competenti
organi di collocamento, hanno facoltà di assumere tutti i lavoratori mediante richiesta nominativa. Tali
datori di lavoro sono tenuti, quando occupino più di dieci dipendenti e qualora effettuino assunzioni, ad
eccezione di quelle di cui alla disciplina del collocamento obbligatorio, a riservare il dodici per cento di
tali assunzioni ai lavoratori appartenenti alle categorie di cui al comma 5, anche quando siano assunzioni a
termine ai sensi dell’articolo 17 della legge 28 febbraio 1987 n. 56, purché rapportate al tempo annuale di
lavoro.

La Legge n. 223 del 23 luglio 1991 riguardante le norme in materia di cassa integrazione,
mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea,
avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro, all’art. 25
(riforma delle procedure di avviamento al lavoro) ha ammesso la richiesta nominativa in via
generale, mentre una norma poco chiara ha ammesso l’assunzione diretta, sostituendo la richiesta
all’Ufficio di collocamento con una comunicazione successiva. Il successivo principio del
monopolio pubblico del collocamento ha provocato all’Italia una condanna da parte della Corte di
Giustizia europea, che ha fatto cogliere così l’occasione di utilizzare una legge delega (la Legge
469/1997, cosiddetta Legge Bassanini sul decentramento) per emanare un decreto delegato che
ha mandato definitivamente in pensione il decrepito principio del monopolio pubblico sul
decentramento. La grande novità di questa legge fu quella di liberalizzare la mediazione privata,
anche se si tratta di una liberalizzazione controllata. Bisogna avvertire sul piano terminologico che
ciò che in precedenza si chiamava “collocamento” ed era riservato allo Stato, ora si chiama
“intermediazione” e che ciò che un tempo si chiamava “interposizione nelle prestazioni di
lavoro” ed era reato, oggi si chiama “somministrazione di lavoro”.

LA MEDIAZIONE LIBERA NELLA STIPULAZIONE DEL CONTRATTO


Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 4 – Agenzie per il lavoro – Presso il Ministero del lavoro e delle
politiche sociali è istituito un apposito albo delle agenzie per il lavoro ai fini dello svolgimento delle
attività di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale, supporto alla
ricollocazione professionale. Il predetto albo è articolato in cinque sezioni:
a) agenzie di somministrazione di lavoro abilitate allo svolgimento di tutte le attività di cui all’art. 20
b) agenzie di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato abilitate a svolgere esclusivamente
una delle attività specifiche di cui all’articolo 20, comma 3, lettere da a) ad h)
c) agenzie di intermediazione
d) agenzie di ricerca e di selezione del personale
e) agenzie di supporto alla ricollocazione del personale

Il Decreto Legislativo n. 276/2003 riguardante l’attuazione delle deleghe in materia di


occupazione e mercato del lavoro, all’art. 4 (agenzie per il lavoro) enumera i vari tipi di agenzia
che sono autorizzate all’attività mediatoria. Queste agenzie devono avere dei requisiti a fronte dei
quali il Ministero del lavoro dispone l’autorizzazione e l’iscrizione provvisoria dell’agenzia
nell’apposito albo.

Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 5 – Requisiti giuridici e finanziari – I requisiti richiesti per
l’iscrizione all’albo di cui all’art. 4 sono:
a) la costituzione della agenzia nella forma di società di capitali ovvero cooperativa o consorzio di
cooperative, italiana o di altro Stato membro della Unione europea
b) la sede legale o una sua dipendenza nel territorio dello Stato o di altro Stato membro della Unione
europea
c) la disponibilità di uffici in locali idonei allo specifico uso e di adeguate competenze professionali
d) in capo agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti muniti di rappresentanza e ai soci
accomandatari: assenza di condanne penali
e) nel caso di soggetti polifunzionali, non caratterizzati da un oggetto sociale esclusivo, presenza di
distinte divisioni operative, gestite con strumenti di contabilità analitica, tali da consentire di
conoscere tutti i dati economico gestionali specifici
f) l’interconnessione con la borsa continua nazionale del lavoro di cui al successivo articolo 15
g) il rispetto delle disposizioni di cui all’art. 8 a tutela del diritto del lavoratore alla diffusione dei
propri dati nell’ambito da essi stessi indicato.

L’art. 5 (requisiti giuridici e finanziari) si occupa appunto di elencare questi requisiti (ne
riportiamo solo alcuni):
a) costituzione dell’agenzia nella forma di società di capitali, o cooperativa, o consorzi di
cooperative
b) sede legale o dipendenza nell’Unione europea
c) disponibilità di locali idonei
d) amministratori e dirigenti senza condanne penali per i delitti indicati
e) interconnessione con la borsa continua nazionale del lavoro
f) tutela del diritto del lavoratore di indicare i modi di diffusione dei propri dati personali
E’ da notare che è venuto meno il requisito dell’oggetto sociale esclusivo, quindi oggi è consentito
non solo di svolgere promiscuamente le diverse funzioni mediatorie, ma anche di svolgere altre
attività economiche e contemporaneamente di occuparsi di promuovere l’incontro tra domanda ed
offerta di lavoro.
Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 6 – Regimi particolari di autorizzazione – (primo, secondo e
quarto comma) – Sono autorizzate allo svolgimento delle attività di intermediazione le università
pubbliche e private, comprese le fondazioni universitarie che hanno come oggetto l’alta formazione con
specifico riferimento alle problematiche del mercato del lavoro, a condizione che svolgano la predetta
attività senza finalità di lucro e fermo restando l’obbligo dell’interconnessione alla borsa continua
nazionale del lavoro, nonché l’invio di ogni informazione relativa al funzionamento del mercato del lavoro
ai sensi di quanto disposto al successivo articolo 17.
Sono altresì autorizzate allo svolgimento della attività di intermediazione, secondo le procedure di cui al
comma 6, i comuni singoli o associati nelle forme delle unioni di comuni e delle comunità montane, le
camere di commercio e gli istituti di scuola secondaria di secondo grado, statali o paritari a condizione che
svolgano la predetta attività senza finalità di lucro, nonché l’invio di ogni informazione relativa al
funzionamento del mercato del lavoro ai sensi di quanto disposto dall’articolo 17.
L’ordine nazionale dei consulenti del lavoro può chiedere l’iscrizione all’albo di cui all’art. 4 di una
apposita fondazione o di altro soggetto giuridico dotato di personalità giuridica costituito nell’ambito del
Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro per lo svolgimento a livello nazionale di attività di
intermediazione.

L’art. 6 (regimi particolari di autorizzazione) conferisce l’autorizzazione anche ad alcuni enti


pubblici senza scopo di lucro come ad esempio le università, i comuni singoli o associati, le camere
di commercio, le scuole di secondo grado, l’Ordine nazionale dei consulenti del lavoro e le
associazioni di datori di lavoro e di prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative che
siano firmatarie di contratti collettivi nazionali di lavoro.
In controtendenza rispetto all’evoluzione verso la liberalizzazione, rimane ancora fortemente
vincolata la legislazione sul collocamento obbligatorio.
La precedente legge è stata sostituita dalla Legge n. 68 del 12 marzo 1999 riguardante le norme
per il diritto al lavoro dei disabili il cui intendimento sembra essere quello da un lato di distribuire
meglio l’onere del collocamento obbligatorio, dall’altro quello di renderlo più duttile, consentendo
di adattarlo alle esigenze concrete.

Legge n. 68/1999 – art. 3 – Assunzioni obbligatorie. Quote di riserva – I datori di lavoro pubblici e
privati sono tenuti ad avere alle loro dipendenze lavoratori appartenenti alle categorie di cui all’articolo 1
nella seguente misura:
a) sette per cento dei lavoratori occupati, se occupano più di 50 dipendenti
b) due lavoratori, se occupano da 36 a 50 dipendenti
c) un lavoratore, se occupano da 15 a 35 dipendenti
L’art. 3 (assunzioni obbligatorie. Quote di riserva) sostituisce alla precedente percentuale del
15% che gravava solamente sulle imprese con più di 35 dipendenti, una percentuale per tutti più
bassa ma graduata: il 7% di disabili per i datori di lavoro con più di 50 dipendenti; 2 disabili per i
datori di lavoro che occupano da 36 a 50 dipendenti; 1 disabile per chi occupa da 15 a 35
dipendenti.
Per quanto riguarda l’esecuzione dell’obbligo di assunzione l’art. 2099 (retribuzione) del Codice
Civile sancisce che in caso di insufficiente determinazione delle mansioni nel corso del
procedimento di collocamento obbligatorio, di fronte al rifiuto del datore di lavoro di assumere il
lavoratore avviato, questi non potrà chiedere al giudice la costituzione con sentenza del rapporto,
ma dovrà accontentarsi di esperire una azione risarcitoria.

LA POSECUZIONE DELLA MEDIAZIONE DURANTE L’ESECUZIONE DEL RAPPORTO:


L’EPOCA DEI DIVIETI DI INTERPOSIZIONE

Quando l’attività mediatoria non si esaurisce con la stipulazione del contratto di lavoro, ma si
protrae anche durante lo svolgimento del rapporto, si parla di interposizione nel lavoro. Le forme
giuridiche adottate nel corso del tempo per l’interposizione nel lavoro sono molteplici e quella più
frequentemente utilizzata nella dottrina italiana del ‘900 è il cottimo collettivo nel quale
l’imprenditore contratta con un capo – squadra che ripartisce poi tra i membri della squadra la
retribuzione a cottimo conseguita. La dottrina solitamente a questo proposito distingue fra cottimo
collettivo subordinato, caratterizzato dall’interposizione solo nelle fase della stipulazione del
contratto, e cottimo collettivo autonomo, nel quale si realizza propriamente l’interposizione nella
prestazione di lavoro.

Art. 2127 – Divieto d’interposizione nel lavoro a cottimo – E’ vietato all’imprenditore di affidare a
propri dipendenti lavori a cottimo da eseguirsi da prestatori di lavoro assunti e retribuiti direttamente dai
dipendenti medesimi.
In caso di violazione di tale divieto, l’imprenditore risponde direttamente, nei confronti dei prestatori di
lavoro assunti dal proprio dipendente, degli obblighi derivanti dai contratti di lavoro da essi stipulati.

In Italia la considerazione legislativa del fenomeno dell’interposizione iniziò un secolo fa con


interventi di portata circoscritta: infatti nel Codice Civile del 1942, l’art. 2127 (divieto
d’interposizione nel lavoro a cottimo) per la prima volta vietò direttamente ed in termini generali
l’interposizione reale nel cottimo, allora molto diffusa, che consisteva nell’affidamento a lavoratori
retribuiti a cottimo di lavori da eseguirsi da altri lavoratori assunti e retribuiti da questi; sanzione del
divieto non era l’invalidità dei contratti conclusi, ma solo una responsabilità dell’imprenditore per le
obbligazioni assunte dal cottimista nei confronti dei suoi dipendenti.

IL DIVIETO GENERALE DI INTERPOSIZIONE INGIUSTIFICATA

Nel 1960 è stato ritenuto opportuno un nuovo intervento legislativo avente lo scopo di reprimere
direttamente anche le altre formule di interposizione che si sono diffuse nella pratica: infatti la legge
n. 1369 del 1960 riguardante il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di
lavoro e la nuova disciplina dell’impiego di mano d’ opera negli appalti di opere e di servizi
dettò una disciplina organica della materia di cui i caratteri generali sono tre:
Legge n. 1369/1960 – art. 1 – (primo, terzo e quinto comma) – E’ vietato all’imprenditore di affidare in
appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere
prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o
dall’intermediario, qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono.
……
E’ considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o di subappalto, anche per
esecuzione di opere o di servizi, ove l’appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite
dall’appaltante, quand’anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all’appaltante.
……
I prestatori di lavoro, occupati in violazione dei divieti posti dal presente articolo, sono considerati, a tutti
gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni.

A. ampliamento delle ipotesi di interposizione vietata: all’art. 1 di questa legge non è vietata
soltanto l’interposizione nel cottimo, ma ogni forma di interposizione reale nella prestazione
di lavoro, qualunque fosse la natura dei contratti adottati per realizzarla. L’ampiezza del
quadro al quale questo articolo si riferisce, richiede quindi una attenta individuazione dei
reali limiti del divieto per evitare che esso finisca non l’incidere anche sull’appalto
genuinamente riconducibile alla funzione assegnata dall’ordinamento a questo tipo di
negozio. Secondo il terzo comma sempre dell’art. 1 l’elemento differenziale tra l’appalto
che è un istituto che rimane legittimo, e l’interposizione nella prestazione di lavoro, che la
legge chiama anche “appalto di mere prestazioni di lavoro” è dato dalla presenza nel primo
istituto di un sostanziale apporto di capitali, macchine ed attrezzature da parte
dell’appaltatore
B. aggravamento delle sanzioni: le sanzioni sull’interposizione ingiustificata erano sia
civili che penali: sul piano civile la violazione del divieto di interposizione comportava che
i prestatori di lavoro assunti e retribuiti dall’interposto fossero considerati a tutti gli effetti
alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni e
quindi il rapporto di lavoro si instaurava anziché secondo quanto voluto dalle parti, cioè fra
lavoratori ed interposto, fra i primi e l’interponente

Legge n. 1369/1960 – art. 5 – Le disposizioni di cui all’art. 3 della presente legge non si
applicano:
a) agli appalti per costruzioni edilizie all’interno degli stabilimenti
b) agli appalti per installazione o montaggio di impianti e macchinari
c) ai lavori di manutenzione straordinaria
d) ai trasporti esterni da e per lo stabilimento
e) agli appalti che si riferiscono a particolari attività produttive
f) agli appalti per prestazioni saltuarie e occasionali, di breve durata
g) agli appalti per l’esecuzione dei lavori di facchinaggio, di pulizia e di manutenzione
ordinaria degli impianti
h) agli appalti per la gestione dei posti telefonici pubblici

C. applicazione della tutela minima anche ad ipotesi di interposizione non vietata: nel caso
in cui l’appalto avesse riguardato opere o servizi da eseguirsi nell’interno dell’azienda
dell’imprenditore appaltante e non ricorressero certe eccezioni, l’interposizione giustificata
dava luogo ad una responsabilità dell’appaltatore e dell’appaltante, nei confronti dei
dipendenti dell’appaltatore, per non ricevere un trattamento inferiore a quello tenuto nei
confronti dei dipendenti dell’appaltante. Queste eccezioni vengono sancite all’art. 5 e sono
le seguenti: appalti per costruzioni edilizie all’interno degli stabilimenti, appalti per
l’installazione di impianti e macchinari, lavori di manutenzione straordinaria, trasporti
esterni da e per lo stabilimento, appalti che si riferiscono a particolari attività produttive,
appalti per prestazioni saltuarie e di breve durata, appalti per l’esecuzione di lavori di
facchinaggio, pulizia e manutenzione ordinaria degli impianti ed infine appalti per la
gestione di posti telefonici pubblici.

IL SUPERAMENTO DEL DIVIETO DI INTERPOSIZIONE: DAL “LAVORO TEMPORANEO”


ALLA “SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO”

La legge del 1960 appartiene alla stagione del cosiddetto garantismo ad oltranza, cioè alla stagione
in cui la tutela dei lavoratori occupati era la prima preoccupazione del legislatore. In realtà
nell’applicazione pratica di queste disposizioni è stato riscontrato più volte che l’ampliamento della
fattispecie dell’interposizione vietata era eccessivo, perché poteva condurre ad applicare le sanzioni,
anche quelle penali, a situazioni in cui la ratio di tutela del lavoratore non era in realtà riscontrabile.
Una modifica radicabile della legge n. 1369 del 1960 è stata introdotta da una legge che porta
come titolo NORME IN MATERIA DI PROMOZIONE DELL’OCCUPAZIONE, meglio
conosciuta come “Pacchetto Treu”; questa legge oltre a modificare le regole sul contratto di
lavoro a tempo determinato, sull’orario di lavoro e sui vari contratti di formazione, ha introdotto
nell’ordinamento, con la denominazione di “lavoro temporaneo” una possibilità di deroga al divieto
di interposizione. Questa legge è stata poi addirittura abrogata dalla riforma Biagi, nella quale
dell’interposizione non rimane nemmeno il nome perché viene chiamata “somministrazione di
lavoro”. Regola caratterizzante la nuova disciplina giuridica è che l’interposizione nel rapporto di
lavoro non è più illecita in linea di principio ma è soltanto stabilito che per interporsi
legittimamente bisogna prima ottenere l’iscrizione nell’apposito albo, lo stesso albo al quale si
deve essere iscritti per fare i collocatori e quindi per mediare solamente in fase di stipulazione del
contratto. bisogna infine precisare che le caratteristiche finanziarie stabilite per l’autorizzazione
anche alla somministrazione di lavoro sono più elevati di quelli stabiliti per l’autorizzazione alla
sola intermediazione.

L’IMPUTAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO NELLA SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO

Una volta ottenuta l’iscrizione nell’albo, il somministratore può dedicarsi all’interposizione


autorizzata. Eravamo abituati configurare il rapporto di lavoro come un rapporto bilaterale, cioè un
rapporto di cui fanno parte due soggetti a ciascuno dei quali l’ordinamento imputa diritti e doveri
che sono fra loro corrispettivi; quando invece si attua una somministrazione di lavoro, il rapporto
non è più bilaterale, ma trilaterale perché le parti del rapporto sono: il lavoratore, l’utilizzatore ed
il somministratore. L’attribuzione al fornitore della posizione di datore di lavoro è solamente una
finzione normativa che imputa tutte le posizioni giuridiche che caratterizzano il rapporto di lavoro
da un lato al lavoratore, e dall’altro all’utilizzatore che quindi assume la veste di datore di lavoro.
Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 20 – Condizioni di liceità - (secondo e terzo comma) – Per tutta
la durata della somministrazione i lavoratori svolgono la propria attività nell’interesse nonché sotto la
direzione e il controllo dell’utilizzatore. Nell’ipotesi in cui i lavoratori vengano assunti con contratto di
lavoro a tempo indeterminato essi rimangono a disposizione del somministratore per i periodi in cui non
svolgono la prestazione lavorativa presso un utilizzatore, salvo che esista una giusta causa o un giustificato
motivo di risoluzione del contratto di lavoro.
Il contratto di somministrazione di lavoro può essere concluso a termine o a tempo indeterminato. La
somministrazione di lavoro a tempo indeterminato è ammessa:
a) per servizi di consulenza e assistenza nel settore informatico
b) per servizi di pulizia, custodia, portineria
c) per servizi, da e per lo stabilimento, di trasporto di persone e di trasporto e movimentazione di
macchinari e merci
d) per la gestione di biblioteche, parchi, musei, archivi, magazzini, nonché servizi di economato
e) per attività di consulenza direzionale
f) per attività di marketing, analisi di mercato, organizzazione della funzione commerciale
g) per la gestione di call – center
h) per costruzioni edilizie all’interno di stabilimenti

L’art. 20 del Decreto Legislativo n. 276/2003 (riforma Biagi) stabilisce che “per tutta la durata
della somministrazione i lavoratori svolgono la propria attività nell’interesse e sotto il
controllo e la direzione dell’utilizzatore”: questo significa che datore di lavoro è l’impresa
utilizzatrice che giustamente viene indicata anche come il soggetto a cui spettano la direzione ed il
controllo.

Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 23 – Tutela del prestatore di lavoro, esercizio del potere
disciplinare e regime di solidarietà – (quinto comma) – Il somministratore informa i lavoratori
sui rischi per la sicurezza e la salute connessi alle attività produttive in generale e li forma e
Decreto
addestra all’uso Legislativo
delle attrezzaturen. di
276/2003 – art. 21 –allo
lavoro necessarie Forma del contratto
svolgimento di somministrazione
della attività lavorativa per – (primo comma)
– Il contratto di somministrazione di manodopera è stipulato in forma
la quale essi vengono assunti in conformità alle disposizioni recate dal decreto legislativo scritta e contiene19i seguenti elementi:
a) gli estremi dell’autorizzazione rilasciata al somministratore
settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni ed integrazioni. Il contratto di
somministrazione b) può
il numero dei lavoratori
prevedere da somministrare
che tale obbligo sia adempiuto dall’utilizzatore; in tale caso ne va
fatta indicazionec) nel
i casi e le ragioni
contratto con diil carattere tecnico,
lavoratore. produttivo,
Nel caso in cui organizzativo
le mansioni cui e sostitutivo
è adibitodiilcui al terzo e quarto
comma dell’art. 20
prestatore di lavoro richiedano una sorveglianza medica speciale o comportino rischi specifici,
l’utilizzatore ned)informa
l’indicazione della conformemente
il lavoratore presenza di eventuali
a quanto rischi per l’integrità
previsto dal decretoe legislativo
la salute del
19 lavoratore e delle
misure di prevenzione adottate
settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni ed integrazioni. L’utilizzatore osserva altresì,
nei confronti dele) medesimo
la data di inizio e la durata
prestatore, tutti prevista del contratto
gli obblighi di somministrazione
di protezione previsti nei confronti dei
propri dipendenti ed è responsabile per la violazione degli obblighieddiil sicurezza
f) le mansioni alle quali saranno adibiti i lavoratori loro inquadramento
individuati dalla
g) il collettivi.
legge e dai contratti luogo, l’orario e il trattamento economico e normativo delle prestazioni lavorative
h) assunzione da parte del somministratore della obbligazione del pagamento diretto al lavoratore del
trattamento economico, nonché del versamento dei contributi previdenziali
In
coerenza con l’idea di partenza, secondo la quale i lavoratori somministrati sarebbero alle
dipendenze dell’impresa fornitrice sembra che la legge supponga che il debitore della retribuzione
sia appunto l’impresa fornitrice; in realtà questo non viene detto nell’articolo che si occupa di
questo aspetto della somministrazione di lavoro, ovvero l’art. 23, il quale dice semplicemente che i
lavoratori “hanno diritto” senza specificare nei confronti di chi. In realtà successivamente viene
precisato che i lavoratori hanno diritto ad “un trattamento economico e normativo
complessivamente non inferiore a quello degli altri dipendenti dell’utilizzatore a parità di
mansioni svolte”. Il terzo comma dell’art. 23 stabilisce che “l’utilizzatore è obbligato in solido
con il somministratore a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi
previdenziali”: in teoria quindi il credito retributivo potrebbe farsi valere nei confronti di entrambi
le imprese, ma in realtà chi in definitiva è tenuto a pagare il lavoratore è l’impresa utilizzatrice,
perché l’art. 21 sancisce che se il pagamento è stato effettuato dall’impresa fornitrice, la prima è
obbligata a rimborsare alla seconda “gli oneri retributivi e previdenziali da questa
effettivamente sostenuti in favore dei prestatori di lavoro”; bisogna però a questo punto
precisare che l’utilizzatore deve comunque pagare al somministratore più di quanto questo paga ai
lavoratori e agli istituti previdenziali, perché deve anche pagare il costo del servizio che il
somministratore svolge. L’art. 23 si occupa degli obblighi di protezione per la sicurezza che
vengono accollati all’utilizzatore salvo un preventivo obbligo di informazione e di addestramento
che possono essere scaricati anche essi sull’utilizzatore. Al settimo comma dello stesso articolo è
previsto l’unico potere che spetta al somministratore, ossia il potere disciplinare e non si può in
questo caso fare altro se non criticare la scelta legislativa che attribuisce ad un soggetto estraneo
all’organizzazione produttiva un potere finalizzato al mantenimento dell’ordine all’interno
dell’impresa, ma probabilmente questa scelta normativa è da imputare alla considerazione del
licenziamento disciplinare perché se supponiamo che sia il somministratore a stipulare con il
lavoratore il contratto, allora dobbiamo supporre che spetti ad esso anche l’atto estintivo.

LA FONTE DEL RAPPORTO DI SOMMINISTRAZIONE DEL LAVORO

La disciplina giuridica introdotta nel 1997 con il “Pacchetto Treu” prevedeva e disciplinava due
diversi tipi di contratti: quello fra l’impresa fornitrice e l’impresa utilizzatrice, che veniva chiamato
“contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo” e quello fra l’impresa fornitrice ed
il lavoratore che veniva invece chiamato “contratto per prestazioni di lavoro temporaneo”. Nella
Riforma Biagi però è previsto e regolato solamente il primo dei due contratti, come se soltanto
questo costituisse la fonte del rapporto trilaterale di cui si tratta, anche s e non è pensabile che
questo tipo di rapporto si possa creare senza una manifestazione di volontà anche del lavoratore.

Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 22 – Disciplina dei rapporti di lavoro – (secondo, terzo e quarto
comma) - …..
In caso di somministrazione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e prestatore di
lavoro è soggetto alla disciplina di cui al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, per quanto
compatibile, e in ogni caso con esclusione delle disposizioni di cui all’articolo 5, commi 3 e 4. Il termine
inizialmente posto al contratto di lavoro può in ogni caso essere prorogato, con il consenso del lavoratore e
per atto scritto, nei casi e per la durata prevista dal contratto collettivo applicato dal somministratore.
Nel caso in cui il lavoratore sia assunto con contratto stipulato a tempo indeterminato, nel medesimo è
stabilita la misura della indennità mensile di disponibilità, divisibile in quote orarie, corrisposta dal
somministratore al lavoratore per i periodi nei quali il lavoratore stesso rimane in attesa di assegnazione.
La misura di tale indennità è stabilita dal contratto collettivo applicabile al somministratore e comunque
non è inferiore alla misura prevista, ovvero aggiornata periodicamente, con decreto del Ministro del lavoro
e delle politiche sociali. La predetta misura è proporzionalmente ridotta in caso di assegnazione ad attività
lavorativa a tempo parziale anche presso il somministratore. L’indennità di disponibilità è esclusa dal
computo di ogni istituto di legge o di contratto collettivo.
Le disposizioni di cui all’articolo 4 della legge 23 luglio 1991, n. 223, non trovano applicazione anche nel
caso di fine dei lavori connessi alla somministrazione a tempo indeterminato. In questo caso trovano
applicazione l’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e le tutele del lavoratore di cui all’articolo 12.

Una indiretta conferma di questo si trova nell’art. 22 che comprende il principio di contrattualità
del rapporto di lavoro che si deve intendere come necessaria espressione di volontà sia
dell’imprenditore sia del lavoratore. Abbiamo detto in precedenza che il rapporto di
somministrazione di lavoro è un rapporto trilaterale, quindi anche il contratto da cui esso deriva è
trilaterale, ma dalla regolamentazione complessiva dell’istituto si desume che non è richiesta la con
testualità delle tre espressioni di volontà: infatti il legislatore regolamenta solamente il contratto tra
utilizzatore e somministratore dimostrando di considerare la stipulazione di questo contratto come
momento decisivo per la costituzione del rapporto; bisogna però precisare che questa costituzione
può avvenire solamente se alla stipulazione partecipa anche il lavoratore, o se come normalmente
succede il somministratore è munito del potere di rappresentarlo.

DURATA DELLA SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO

Il Pacchetto Treu configurava il rapporto tra lavoratore ed utilizzatore come un rapporto sempre a
tempo determinato, chiamandolo appunto “lavoro temporaneo”; la legge tuttavia distingueva tra
contratto “a tempo determinato” e contratto “a tempo indeterminato”: nel secondo il lavoratore
lavorava sempre solo per un periodo di tempo prefissato alle dipendenze dell’impresa utilizzatrice,
ma scaduto il tempo previsto si immaginava che dovesse rimanere a disposizione dell’impresa
fornitrice in attesa di essere inviato a lavorare per un’altra impresa utilizzatrice, ma in realtà questo
meccanismo non ha funzionato quasi mai perché in generale non c’era alcun interesse per l’impresa
di mantenere a proprie spese la disponibilità di un dipendente. Nella riforma Biagi le due ipotesi di
contratto di lavoro vengono nuovamente menzionate, ma questa volta per stabilire che se la
somministrazione è a tempo indeterminato si applica la disciplina generale dei rapporti di
lavoro, mentre se la somministrazione è a tempo determinato dovrebbe applicarsi la legge sul
contratto a termine. Ma la novità più importante è un’altra: dalla nuova regolamentazione si ricava
che può essere a tempo indeterminato anche il lavoro per l’utilizzatore e questo significa che è
possibile avere un prestatore di lavoro somministrato che lavora a tempo indeterminato sempre per
lo stesso utilizzatore, ma sempre fittiziamente dipendente dal somministratore; in base a quello che
si può ricavare dal quarto comma dell’art. 22 questo lavoratore potrà essere licenziato per
riduzione di personale senza seguire la procedura corrispondente. Si deve poi tenere presente che la
legge stabilisce dei limiti di carattere funzionale alla somministrazione di lavoro, distinguendo però
due criteri diversi per il contratto a tempo indeterminato e per quello a tempo determinato:
per il primo la somministrazione è ammessa per servizi di consulenza ed assistenza nel settore
informatico, per servizi di custodia, portineria e pulizia, per servizi di trasporto da e per lo
stabilimento, per la gestione di parchi, musei, ecc.., per attività di consulenza direzionale, per

Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 27 – Somministrazione irregolare – (primo comma) – Quando


la somministrazione di lavoro avvenga al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli articoli 20 e 21,
comma 1, lettere a), b), c), d) ed e), il lavoratore può chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma
dell’articolo 414 del codice di procedura civile, notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la
prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio
della somministrazione.

attività di marketing, per la gestione di call center e per costruzioni edilizie all’interno degli
stabilimenti; per il contratto a tempo determinato invece il limite funzionale è indicato in maniera
generica cioè “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo,
anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore”.

Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 18 – Sanzioni penali – (primo comma) – L’esercizio non
autorizzato delle attività di cui all’articolo 4, comma 1, è punito con la sanzione dell’ammenda di Euro 5
per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro. L’esercizio abusivo delle attività di
intermediazione è punito con la pena dell’arresto fino a sei mesi e l’ammenda da Euro 1.500 a Euro 7.500.
Se non vi è scopo di lucro la pena è della ammenda da Euro 500 a Euro 2.500. Se vi è sfruttamento dei
minori la pena è dell’arresto fino a diciotto mesi e l’ammenda è aumentata fino al sestuplo. Nel caso di
condanna, è disposto in ogni caso la confisca del mezzo di trasporto eventualmente adoperato per
l’esercizio delle attività di cui al presente comma.
Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 28 – Somministrazione fraudolenta – Ferme restando le
sanzioni di cui all’articolo 18, quando la somministrazione di lavoro è posta in essere con la specifica
finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al lavoratore,
somministratore e utilizzatore sono puniti con una ammenda di 20 euro per ciascun lavoratore
coinvolto e ciascun giorno di somministrazione.

Il nuovo testo legislativo, la Riorma Biagi, regola con l’art. 27 le sanzioni civili e con gli artt. 18 e
28 le sanzioni penali. Una norma veramente singolare che si trova al primo comma dell’art. 27
anziché indicare la sanzione per la violazione delle norma indicate, attribuisce al lavoratore il potere
di chiedere al giudice “la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze
dell’utilizzatore”; il fatto più grave è però che la norma stabilisce in modo inequivocabile che il
ricorso al giudice per ottenere l’effetto indicato può essere “notificato anche soltanto al soggetto
che ne ha utilizzato la prestazione”. Per quanto riguarda invece le sanzioni penali è da notare che
si tratta di ammende e, per i casi considerati più gravi, di arresto; la ratio di questa scelta può essere
costituita dal proposito del legislatore di eliminare rilevanza alla prova del dolo.

SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO, APPALTO E DISTACCO

La legge Biagi si è preoccupata di affidare ad alcune norme specifiche la funzione di individuare la


linea di confine fra la somministrazione di lavoro, l’appalto ed il distacco.

Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 29 – Appalto – (primo comma) – Ai fini della applicazione delle
norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’articolo
1655 del codice Civile si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi
necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del
servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori
utilizzati nell’appalto, nonché per l’assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio di impresa.

L’art. 29 stabilisce che è considerato appalto “l’organizzazione dei mezzi necessari da parte
dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera e del servizio
dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei
lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per l’assunzione, da parte del medesimo appaltatore,
del rischio di impresa”: il legislatore con questo articolo ha voluto ampliare le ipotesi di appalto
legittimo e infatti ad oggi perché esista vero appalto non occorre più che capitali, macchine ed
attrezzature siano dell’appaltatore, ma è sufficiente che vi sia da parte di questi “l’esercizio del
potere organizzativo direttivo, nonché “l’assunzione del rischio di impresa”. Un’altra linea di
confine che la riforma Biagi si occupa oggi di segnare è quella tra somministrazione di lavoro e
distacco a proposito del quale è necessario ricordare che precedentemente veniva anche chiamato
comando ed era legislativamente regolato nel pubblico impiego e non nel rapporto di lavoro privato.
Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 30 – Distacco – (primo, secondo e terzo comma) – L’ipotesi del
distacco si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone
temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata
attività lavorativa.
In caso di distacco il datore di lavoro rimane responsabile del trattamento economico e normativo a favore
del lavoratore.
Il distacco che comporti un mutamento di mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore
interessato. Quando comporti un trasferimento a unità produttiva sita a più di 50 km da quella in cui il
lavoratore è adibito, il distacco può avvenire soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative,
produttive o sostitutive.

All’art. 30 il distacco viene definito utilizzando i criteri di identificazione che sono consolidati
dalla giurisprudenza ossia la presenza di un interesse del datore di lavoro distaccante e la
temporaneità.

CAPITOLO IV: LO SVOLGIMENTO DEL RAPPORTO DI LAVORO

SEZIONE I: NOZIONE DI MODIFICAZIONE DEL RAPPORTO

CONTINUITA’ DEL RAPPORTO FONDAMENTALE DI LAVORO E DINAMICA DELLE


SINGOLE POSIZIONI GIURIDICHE

Il rapporto fondamentale di lavoro per costituirsi ha bisogno del contratto di lavoro e solo di esso. È
appunto il rapporto fondamentale di lavoro che nasce nel momento in cui il contratto di lavoro si
perfeziona e si estingue nel momento in cui si perfeziona uno di quei fatti come la scadenza del
termine, il recesso, l’impossibilità totale e definitiva della prestazione, che la legge considera
estintivi del rapporto.
Non è invece esatto ricondurre direttamente al contratto di lavoro, o solo ad esso, tutte le singole
posizioni giuridiche, attive o passive, favorevoli o sfavorevoli all’una o all’altra parte che fanno
parte del rapporto di lavoro quando questo si configura come un rapporto complesso; invero tra
tutte queste posizioni giuridiche ce ne sono alcune che possono derivare direttamente dal contratto,
altre che hanno per loro normale presupposto il contratto, altre ancora per cui il contratto costituisce
un presupposto necessario, ma non sufficiente essendo necessario per la loro nascita che al contratto
conseguano altri atti o fatti, che insieme al contratto ne realizzano la fattispecie. Facciamo alcuni
esempi che ci aiuteranno a comprendere meglio:

Art. 1460 – Eccezione d’inadempimento – Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei
contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere
contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano stati stabiliti dalle parti
o risultino dalla natura del contratto.
Tuttavia non può rifiutarsi l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona
fede.
È normale che la retribuzione periodica sia posticipata, e cioè che sia convenuto che il pagamento
debba essere effettuato a varie scadenze, ciascuna successiva al periodo di lavoro a cui si riferisce;
in tal caso però l’obbligazione di effettuare ciascun pagamento non solo nasce al momento del
perfezionamento del contratto di lavoro, ma a quel momento è ancora incerto se nascerà, perché
potrebbe darsi che per esempio il lavoratore si rendesse inadempiente alle sue obbligazioni e allora,
come stabilisce l’art. 1460 del Codice Civile, quell’obbligazione non nascerebbe mai.
Un altro esempio è che la possibilità, secondo l’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, di irrogare
sanzioni disciplinari sia condizionata alla preventiva affissione delle norme disciplinari “in un luogo
accessibile a tutti”. Potere disciplinare e correlativa soggezione non possono quindi considerarsi
costitutivi direttamente del contratto di lavoro, ma da una fattispecie complessa nella quale
l’affissione, che può essere anteriore o successiva al contratto, entra certamente come elemento
essenziale.

SVOLGIMENTO DELL’OBBLIGAZIONE DI LAVORO

L’obbligazione di lavoro è una obbligazione che non deve né può essere adempiuta se il datore di
lavoro non ne specifica le modalità di esecuzione.

Art. 2104 – Diligenza del prestatore di lavoro – Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta
dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione
nazionale.
Deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite
dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.

Quindi anche dopo la stipulazione del contratto di lavoro e la scadenza dell’eventuale termine
iniziale, fino a quando il datore di lavoro, direttamente o attraverso un suo preposto, non impartisce
le disposizioni per l’esecuzione del lavoro, il lavoratore può avere al massimo il dovere di
presentarsi al lavoro e di tenersi a disposizione, ma non ancora il dovere di lavorare.
Perché l’obbligazione di lavoro si costituisca, la stipulazione di un valido contratto di lavoro è sì
necessaria, ma non sufficiente, essendo altresì necessario che alla stipulazione del contratto seguano
le disposizioni per l’esecuzione del lavoro come stabilito dall’art. 2104. Inoltre poiché è
connaturale al rapporto di lavoro che non una sola volta, ma più e più volte nel corso dello
svolgimento del rapporto di lavoro vengano impartite delle disposizioni esecutive, si può concepire
meglio l’obbligazione di lavoro non come una singola obbligazione, ma come un insieme si singole
obbligazioni che si succedono una all’altra, trovando ciascuna la propria fonte in una fattispecie
complessa costituita, oltre che dal contratto di lavoro anche dalle ultime disposizioni esecutive.
In realtà si può anche parlare di una obbligazione di lavoro unica, della quale le disposizioni per
l’esecuzione del lavoro realizzano periodiche modifiche di contenuto, ma secondo l’autore questa
concezione spiega meno bene le peculiarità del rapporto e costringe a ricorrere a costruzioni
inutilmente farraginose.

Art. 1467 – Contratto con prestazioni corrispettive – Nei contratti ad esecuzione continuata o periodica
ovvero ad esecuzione differita, se la prestazione di una delle due parti è divenuta eccessivamente onerosa
per il verificarsi di avvenimenti straordinari ed imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può
domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall’art. 1458.
La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale del
contratto.
La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le
condizioni del contratto.
Il lavoratore è obbligato a lavorare solo secondo le disposizioni ricevute, quindi se non riceve
congrue disposizioni non è obbligato a lavorare, fermo restando l’obbligo dell’imprenditore di
retribuire alle scadenze pattuite, se non possa invocare una causa di esonero, come l’altrui
inadempimento previsto all’art. 1460 o l’impossibilità della prestazione propria o dell’altra parte,
disciplinata all’art. 1467.

EVOLUZIONE, MODIFICAZIONE E NOVAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

Il rapporto di lavoro è una realtà statica solo nel suo aspetto di rapporto fondamentale. Per tutto il
resto è una realtà dinamica e in continuo movimento ed è proprio all’interno di questo contesto
dinamico che si qualificano le modificazioni del rapporto.
A rigore il rapporto di lavoro è sempre in continua modificazione. Se solamente con riguardo a
specifici fatti si parla di modificazioni del rapporto, questo avviene soprattutto perché si vogliono
evidenziare quei fatti che realizzano modificazioni di maggiore rilievo. Quindi la differenza tra fatti
modificativi e fatti evolutivi non è qualitativa, ma quantitativa e come tale è possibile individuarla
in base a criteri discrezionali ed arbitrali.
Bisogna però precisare che maggiore o minore rilievo della modifica, non significa maggiore o
minore importanza pratica della stessa, ne nella valutazione delle parti, né secondo un ipotetico
apprezzamento; il rilievo a cui si fa riferimento è il rilievo giuridico, cioè quello che dipende da una
valutazione dell’ordinamento. A questo proposito possiamo dire che è modifica e non mera vicenda
evolutiva, quella che come tale è valutata dall’ordinamento, il quale perciò la assoggetta a
particolari condizioni o limiti.
Quando si parla di modificazioni di un rapporto si intende collocarsi dal punto di vista
dell’ordinamento, che, in relazione alla permanenza di una parte degli elementi del rapporto
precedente, applica in tutto o in parte al nuovo rapporto che lo sostituisce la medesima disciplina
giuridica. È chiaro, quindi che, come la distinzione tra mero svolgimento e modificazione del
rapporto, così anche quella tra modificazione e novazione è una distinzione quantitativa e non
qualitativa: parliamo di modificazione del rapporto di lavoro quando alla situazione che segue il
fatto modificativo si applica nell’insieme il trattamento giuridico della situazione anteriore, anche se
alcune posizioni risultano diverse. Se le differenze di rilievo assumono rilievo ponderante allora non
si ha più modificazione ma addirittura novazione.

SEZIONE II: LA SUCCESSIONE NEL RAPPORTO DI LAVORO

IL PROBLEMA DELLA SUCCESSIONE NEL POSTO DI LAVORO

Quando viene sostituito uno dei soggetti del rapporto di lavoro si parla in genere indifferentemente
di modificazione soggettiva, o sostituzione soggettiva, o successione nel rapporto di lavoro. La
modificazione soggettiva potrebbe, in realtà, essere intesa anche come modificazione non
dell’identità ma solo delle qualità di uno dei soggetti.
È opinione comune che la sostituzione soggettiva del lavoratore non sia ammessa ad alcun titolo del
nostro ordinamento e si esclude così sia la successine mortis causa, sia la cessione del contratto
anche se il datore di lavoro vi consenta.

Art. 1256 – Impossibilità definitiva e impossibilità temporanea – L’obbligazione si estingue quando, per
una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile.
Se l’impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo
nell’adempimento. Tuttavia l’obbligazione si estingue se l’impossibilità perdura fino a quando, in relazione
al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato ad
eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse ad conseguirla.
Art. 1463 – Impossibilità totale – Nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la
sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la contro prestazione, e deve restituire
quella che già abbia ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito.

Art. 2118 – Recesso del contratto a tempo indeterminato – (terzo comma) - ……. La stessa indennità è
dovuta dal datore di lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro.

Art. 2122 – Indennità in caso di morte – In caso di morte del prestatore di lavoro, le indennità indicate agli
artt. 2118 e 2120 devono corrispondersi al coniuge, ai figli, e, se vivevano a carico del prestatore di lavoro,
ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo grado.
La ripartizione delle indennità, se non vi è accordo tra gli aventi diritto, deve farsi secondo il bisogno di
ciascuno.
In mancanza delle persone indicate nel primo comma, le indennità sono attribuite secondo le norme della
successione legittima.
È nullo ogni patto anteriore alla morte del prestatore di lavoro circa l’attribuzione e la ripartizione delle
indennità.

Per la verità la non sostituzione del prestatore di lavoro per effetto della morte dello stesso si deduce
facilmente, oltre che dal fatto che in questo caso la morte provoca una impossibilità totale e
definitiva della prestazione, comportante l’automatica estinzione del vincolo obbligatorio (art.
1256) e perciò la risoluzione di diritto del contratto (art. 1463), anche più specificamente dalla
conferma data dal terzo comma dell’art. 2118 e dall’art. 2122 che regolano per il caso di morte
l’attribuzione dell’indennità di fine rapporto dando per scontato ovviamente, che con la morte il
rapporto abbia fine. Meno agevole è la dimostrazione dell’incedibilità del rapporto per atto fra vivi,
che si affida a quell’infungibilità della prestazione: questo significa che nel contratto di lavoro è
dedotta una prestazione di fare infungibile, caratterizzata anche dall’essere una attività di una certa
persona e non di qualsiasi altra; questo prova che la sostituzione della persona del lavoratore
comporta necessariamente anche un mutamento della prestazione dovuta, cioè che la successione
nella posizione di prestatore di lavoro è modificazione soggettiva ed oggettiva insieme.
Il problema relativo alla possibilità di una sostituzione nella posizione di prestatore di lavoro
consiste nell’accertare se sia possibile che ad un prestatore se ne sostituisca un altro, conservando al
rapporto con il secondo il trattamento giuridico applicato al rapporto con il primo. Dalla scarsità di
giurisprudenza pratica relativa a casi di sostituzione soggettiva nella posizione di lavoratore, si è
dedotta la quasi assoluta inesistenza di situazioni concrete dalle quali emergano interessi
individuali, e tanto meno di gruppo, ad utilizzare dei meccanismi negoziali di sostituzione di un
lavoratore ad un altro.
Comunque, il fenomeno sociale della cessione del contratto di lavoro da parte del lavoratore esiste e
il problema che lo riguarda consiste nello stabilire quali siano i suoi effetti giuridici ed in particolare
se si tratti di negozi leciti.
TRATTAMENTO GIURIDICO DELLA CESSIONE DEL POSTO DI LAVORO

Al problema impostato in questo modo, secondo l’autore, deve darsi risposta negativa in relazione
alla negazione al lavoratore cedente dei diritti conseguenti all’estinzione del rapporto, collegata al
riconoscimento al lavoratore cessionario dell’anzianità maturata dal primo.

Art. 1411 – Contratto a favore di terzi – E’ valida la stipulazione a favore di un terzo qualora lo
stipulante ne abbia interesse.
Salvo patto contrario, il terzo acquista il diritto contro il promettente per effetto della stipulazione.
Questa però può essere revocata o modificata dallo stipulante, finché il terzo non abbia dichiarato, anche
in confronto del promettente, di volerne profittare.
In caso di revoca della stipulazione o di rifiuto del terzo di profittarne, la prestazione rimane a beneficio
dello stipulante, salvo che diversamente risulti dalla volontà delle parti o dalla natura del contratto.

Questo ultimo effetto è certamente ottenibile attraverso un patto tra lavoratore cessionario e
imprenditore ceduto, sia per un patto a favore di terzo fra imprenditore e lavoratore (art. 1411), sia
eventualmente per patto trilaterale.
La ratio dell’attribuzione di tale trattamento è quella di assicurare una particolare disponibilità
economica al prestatore di lavoro nel momento in cui per lui viene meno il lavoro e di conseguenza
il godimento della retribuzione periodica; il fatto che in caso di cessione la retribuzione periodica
venga attribuita ad un altro soggetto non altera lo stato del lavoratore cedente rispetto alla situazione
conseguente ogni altra ipotesi di estinzione del rapporto di lavoro. Ad esso dovrà quindi essere
corrisposto il trattamento di fine rapporto.
Si aggiunga poi che proprio perché non si può parlare di una valida cessione di un rapporto
preesistente, potrebbe anche esserci una violazione delle residue norme sul collocamento.
Stranamente, la stessa dottrina che sulla base della rilevanza della personalità della prestazione di
lavoro, esclude la cessione definitiva del posto di lavoro, ammette invece la sostituzione
temporanea, a patto che questa sia autorizzata dal datore di lavoro. Questa ammissione, condivisa
anche da parte della giurisprudenza, è però contraddittoria a quella esclusione: la verità è che
sarebbero possibili sia la sostituzione definitiva, sia quella temporanea, col solo limite derivante
ovviamente dall’eventuale incapacità del sostituito; ma il problema da risolvere è quello del
trattamento giuridico da applicare. Infatti nel caso in cui la sostituzione sia configurata come un
ricorso del prestatore originario all’opera di altri lavoratori per l’esecuzione della prestazione, allora
si ricade probabilmente nella somministrazione di lavoro.

Legge n. 877/1973 – art. 1 – (primo comma) – E’ lavoratore a domicilio chiunque, con vincolo di
subordinazione, esegue nel proprio domicilio o in locale di cui abbia disponibilità, anche con l’aiuto
accessorio di membri della sua famiglia conviventi e a carico, ma con esclusione di manodopera
salariata e di apprendisti, lavoro retribuito per conto di uno o più imprenditori, utilizzando materie prime
o accessorie e attrezzature proprie o dello stesso imprenditore, anche se fornite per il tramite di terzi.

Altrimenti il ricorso all’opera di ausiliari è espressamente consentito solo in certi rapporti di lavoro
speciali, per i quali le norme derogano in proposito alle regole sulla somministrazione di lavoro: il
lavoro a domicilio, nel quale il prestatore può ricorrere all’aiuto accessorio di membri della sua
famiglia conviventi e a carico (art. 1 comma 1 della legge n. 877 del 18 dicembre 1973 sulle
nuove norme per la tutela del lavoro a domicilio); il portierato, per il quale è prevista dalla
contrattazione collettiva un dovere del portiere di designare una persona idonea a sostituirlo, che
però deve essere iscritto nell’apposito registro presso l’autorità locale di pubblica sicurezza. Se
invece la sostituzione venga realizzata con l’instaurazione di un voluto rapporto diretto con il
sostituito, a questo si applicheranno tutte le norme imperative sulla costituzione e sull’estinzione del
rapporto di lavoro, comprese quelle che determinano la possibili cause di estinzione e le
conseguenze patrimoniali dell’estinzione stessa.
Si tenga poi presente che è un fenomeno completamente diverso dalla cessione definitiva o dalla
sostituzione temporanea del posto di lavoro, è il nuovo istituto giuridico del lavoro ripartito.

TRASFERIMENTO D’AZIENDA E CONTINUITA’ DEI RAPPORTI DI LAVORO

Così come è chiara l’insostituibilità del lavoratore, è fuori discussione anche che nella posizione di
datore di lavoro sia ammessa ogni forma di successione, a causa di morte e tra vivi.

Art. 2112 – Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda – (primo,
secondo, terzo e quarto comma) – In caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con
il cessionario e il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano.
Il cedente ed il cessionario sono obbligati in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva ai tempi del
trasferimento. Con le procedure di cui agli art. 410 e 411 del codice di procedura civile il lavoratore può
consentire la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.
Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi
nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che
siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario. L’effetto di sostituzione si
produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello.
Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il
trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento. Il lavoratore le cui condizioni di
lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda, può
rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui all’art. 2119, primo comma.

L’art. 2112, lungi dal consentire la cessione del rapporto di lavoro indipendentemente dal
trasferimento dell’azienda, considera la successione conseguenza necessaria del trasferimento,
realizzando così una inscindibilità fra titolarità del rapporto di lavoro e titolarità dell’azienda in cui
esso si svolge.
Coerente alla conservazione del rapporto di lavoro che continua con l’acquirente, è la disposizione
introdotta nella norma del Codice dalla Legge n. 428/1990 sull’obbligo per l’acquirente di
continuare ad applicare i contratti collettivi “vigenti alla data di trasferimento, fino alla loro
scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del
cessionario”, ma si tratta di una introduzione inutile perché conferma quello che era già stato
stabilito da principi civilistici generali.
L’ipotesi prevista dal testo originario della norma, di previa disdetta dell’alienante, non costituiva
una eccezione alla regola dell’inscindibilità perché comportava l’estinzione del rapporto e non la
sua prosecuzione con l’alienante. E doveva ritenersi che si trattasse della comune disdetta e cioè del
recesso dell’imprenditore dal contratto di lavoro.
Tutto ciò è oggi confermato dal nuovo testo dell’art. 2112, a seguito dell’eliminazione del primo
comma e dell’introduzione di una autonoma disposizione al quarto comma.
A questa ultima previsione il legislatore ha aggiunto un’altra strana norma secondo la quale: “Il
lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi
successivi al trasferimento d’azienda, può rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui
all’art. 2119, primo comma”. È possibile però attribuire a questa norma un significato innovativo,
intendendola riferita a modifiche meno sostanziali di quelle che costituirebbero giusta causa
secondo l’art. 2119 ed in tal modo razionalizzare la limitazione del potere di recesso in tronco ai
soli successivi al trasferimento.
L’art. 2112 trova riscontro in un analogo principio stabilito dall’art. 2558 di subentro
dell’acquirente dell’azienda nella generalità dei rapporti costituiti per l’esercizio della stessa.

Art. 2558 – Successione nei contratti – Se non è pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda
subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale.
Il terzo contraente può tuttavia recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, se
sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell’alienante.
Le stesse disposizioni si applicano anche nei confronti dell’usufruttuario e dell’affittuario per la durata
dell’usufrutto e dell’affitto.

L’art. 2558, in virtù della prevista derogabilità ad opera delle parti della cessione, appare inteso
chiaramente alla salvaguardia dell’unità e della funzionalità dell’azienda ceduta a tutela degli
interessi delle stesse parti: dell’alienante ad una più agevole commerciabilità dell’azienda e
dell’acquirente a continuare a fruire dell’avviamento; l’art. 2112 serve invece quegli interessi solo
di riflesso perché è direttamente preordinato in tutte le sue parti alla tutela imperativa dell’interesse
del prestatore di lavoro alla conservazione del posto di lavoro e dei diritti in esso acquisiti.

L’IMPUTAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO ALL’AZIENDA

La conclusione da trarre fino a questo punto è che la corrente contrapposizione fra inammissibilità
del rapporto di lavoro dal lato del lavoratore e libera trasmissibilità dal lato del datore di lavoro è
una contrapposizione fallace. La verità è invece che vi è intrasmissibilità da entrambi i lati del
rapporto: solo che l’intuitus che da lato del lavoratore attiene alla persona dello stesso, dall’altro
lato del rapporto non si appunta sulla persona dell’imprenditore, ma sull’azienda, considerata
come l’ambiente necessario ed infungibile per lo svolgimento del rapporto.
Si tenga presente che il tema che stiamo svolgendo viene riferito all’azienda perché l’espressione
“trasferimento d’azienda” è usata dal codice e da tutta la dottrina italiana che se ne occupa, ma
l’espressione utilizzata dalle direttive comunitarie è invece “trasferimento d’impresa”.
È inoltre il caso di chiarire che tutto il discorso svolto trae alimento dalla disciplina giuridica del
trasferimento di azienda, intesa come sostituzione di un imprenditore con un altro nella titolarità
della gestione aziendale. Non attengono invece al problema, le ipotesi di fallimento o di ricorso ad
altre procedure concorsuali.

CAMPO DI APPLICAZIONE DEL PRINCIPIO DI INSCINDIBILITA’ DEL RAPPORTO DI


LAVORO DALL’AZIENDA

Art. 2112 – Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda – (quinto
comma) – Ai fini e per gli effetti di cui al seguente articolo si intende per trasferimento d’azienda
qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella
titolarità di una attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e
che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal
provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda.
Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come
articolazione funzionalmente autonoma di una attività economica organizzata, identificata come tale dal
cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento.

Il testo attuale dell’attuale articolo 2112 contiene un quinto comma interamente dedicato a chiarire
quale sia il campo di applicazione della disciplina dettata dai commi precedenti.
A tale proposito i problemi da considerare sono essenzialmente due:
a) che cosa rientri nella nozione di trasferimento alla quale la norma si riferisce:
trasferimento è “qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarità di una
attività economica organizzata,…..a prescindere dalla tipologia negoziale o dal
provvedimento sulla base dei quali il trasferimento è attuato”
b) in quale significato sia stata usata la parola azienda: azienda è “qualsiasi attività
economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che
conserva nel trasferimento la propria identità”. Si precisa inoltre che la norma si applica
anche al “trasferimento di parte dell’azienda”, cioè di quell’articolazione autonoma
dell’azienda per la quale altre norme lavoristiche hanno adottato l’espressione “unità
produttiva”

Art. 2555 – Nozione – L’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio
dell’impresa.

Si parla dunque di azienda in un senso molto diverso da quello risultante dalla definizione contenuta
nell’art. 2555 e questo dovrebbe indurre a pensare che l’attuazione delle direttive comunitarie è
stato un inutile dispendio di attività legislativa, perché in materia l’ordinamento italiano era già
conforme a quello comunitario.
In realtà una qualche utilità alle nuove norme può essere riconosciuta: in primo luogo si osserva che
nel testo originario la necessità di intendere la nozione di trasferimento di azienda in senso ampio
non era esplicitata, cosicché si doveva pervenirvi con varie argomentazioni ed erano presenti anche
alcune interpretazioni restrittive che la nuova formula sicuramente preclude; in secondo luogo si
deve tenere presente che al livello comunitario si erano verificate delle fughe in avanti, oltre i limiti
consentiti dalla nozione di trasferimento di azienda, anche se intesa nella più ampia concezione.
Queste fughe in avanti sono state corrette dalla giurisprudenza e sono ora contraddette dal tenore
complessivo del comma 5 dell’art. 2112.

IL PROCEDIMENTO SINDACALE PROPEDEUTICO AL TRASFERIMENTO D’AZIENDA

L’innovazione fondamentale in tema di trasferimento d’azienda, introdotta nell’ordinamento dalla


“legge comunitaria” del 1990, generalizza per tutti i trasferimenti che riguardino più di quindici
lavoratori il criterio secondo il quale il trasferimento d’azienda deve essere preceduto da un
procedimento di consultazione sindacale.
Il procedimento inizia con una motivata comunicazione scritta, che alienante ed acquirente sono
tenuti ad effettuare almeno 25 giorni prima del progettato trasferimento; sono destinatari della
comunicazione le rispettive rappresentanze sindacali unitarie, o in mancanza di queste le
rappresentanze sindacali aziendali, nonché i sindacati di categoria che hanno stipulato il contratto
collettivo applicato nelle imprese interessate.
Se i destinatari della comunicazione ne fanno richiesta scritta entro 7 giorni dal ricevimento della
comunicazione stessa, alienante ed acquirente sono tenuti ad inviare entro i 7 giorni successivi, un
esame congiunto del progetto di trasferimento.
Se tale esame si conclude con un accordo ovviamente tutte le parti coinvolte sono tenute a rispettare
questo accordo, ma in realtà deve ritenersi che anche in mancanza di accordo il progettato
trasferimento possa comunque essere effettuato, perché la legge impone soltanto il rispetto di una
procedura, non pone limiti sostanziali alla libertà di trasferimento. Tuttavia l’accordo sindacale è
incentivato perché, solamente con un accordo sindacale si possono derogare le norme dell’art. 2112
che altrimenti sarebbero imperative.
La legge non indica precisamente la sanzione per la violazione della procedura, ma si limita a
stabilire che “il mancato rispetto, da parte del cedente o del cessionario degli obblighi previsti
ai commi 1 e 2 costituisce condotta antisindacale ai sensi dell’articolo 28 della legge 20 maggio
1970 n. 300”.
In particolare rimane da stabilire se il decreto possa anche dichiarare l’invalidità, per contrarietà a
norme imperative, o l’inefficacia del negozio traslativo non preceduto dal procedimento di
consultazione sindacale: la risposta a tale quesito è negativa.

LE DEROGHE “D’EMERGENZA” AL PRINCIPIO DI INSCINDIBILITA’

Anche l’art. 2112 detta, come ogni norma giuridica, un criterio per risolvere un conflitto di
interessi, e quindi subordina la soddisfazione di alcuni interessi a quella di certi altri; è poi naturale
la propensione dei portatori degli interessi che vengono subordinati ad evitare le situazioni di fatto
che possono portare all’applicazione della norma. In concreto la regola dell’imputazione dei
preesistenti rapporti di lavoro all’acquirente dell’azienda trasferita, con conservazione dei diritti
derivanti dall’anzianità maturata, può realizzare un ostacolo alla circolazione delle aziende, che può
poi risolversi in un fattore di disoccupazione, laddove la sopravvivenza dell’impresa sia
condizionata alla possibilità del suo trasferimento.
Si sono così introdotte alcune deroghe legali all’art. 2112 che muovono in senso opposto al
precedente indirizzo e sono di non facile inquadramento nel sistema: un primo intervento si ebbe
con una legge del 1977 in tema di liquidazione coatta amministrativa di imprese autorizzate
all’esercizio dell’assicurazione obbligatoria contro la responsabilità civile per danni causati
dalla circolazione di veicoli e natanti. Più esplicitamente l’estinzione “di diritto” dei rapporti di
lavoro del personale dipendente dall’impresa assicuratrice posta in liquidazione coatta
amministrativa è stata prevista per l’ipotesi che il decreto che promuove la liquidazione coatta
disponga d’ufficio il trasferimento del portafoglio relativo alle assicurazioni contro danni ad altra
impresa che abbia manifestato previamente il proprio consenso.
Si aggiunsero poi altre possibilità di deroga di carattere più generale, con alcune leggi qualificate
come provvedimenti di emergenza, sia perché destinate ad operare per un periodo di tempo
definito, sia perché motivate dall’esigenza di dare sbocchi socialmente accettabili ad alcune
situazioni concrete. Questi interventi legislativi introducevano un criterio di deroga al principio di
continuità dei rapporti di lavoro in caso di trasferimento di azienda: questo criterio è costituito
dall’ammettere deroghe all’applicazione dell’art. 2112 laddove sussistano determinate situazioni di
crisi dell’impresa cedente, ma solo se ciò si inquadra nel contesto di uno specifico accordo
sindacale.

LA RIORGANIZZAZIONE DELLE DEROGHE ALL’ART. 2112 C.C. NELLA “LEGGE


COMUNITARIA DEL 90

In base ai commi 5 e 6 dell’art. 47 della Legge n. 428/1990 la disapplicazione dell’art. 2112 del
Codice Civile richiede che si realizzino determinate condizioni che riguardano: in parte la posizione
soggettiva dell’impresa interessata alla vicenda traslativa, che ad opera del CIPI deve essere
stata dichiarata in stato di crisi aziendale o deve trovarsi sottoposta ad una delle procedure
concorsuali elencate dalla disposizione; in parte gli esiti dell’accordo aziendale concluso
seguendo le procedure di cui ai primi due commi dell’art. 47, nel senso che tale accordo deve
garantire la salvaguardia, anche parziale, dei livelli occupazionali che sono precedenti al
trasferimento.
Nel sistema così delineato è di difficile collocazione l’ulteriore requisito della cessazione
dell’attività aziendale: infatti la prospettiva, in linea con l’idea del legislatore, di un considerevole
ampliamento delle ipotesi di disapplicazione dell’articolo 2112 si scontra con l’interpretazione
letterale della norma che invece sembra volere semplicemente sommare questo ulteriore requisito
alle altre condizioni che sono state sopra indicate: dal che deriverebbe che esso deve ricorrere anche
nel caso di imprese dichiarate in crisi.
Oltre a questo scoglio i problemi che questa disposizione solleva sono molteplici. Fra di essi la
questione più importante è sicuramente quella concernente il rapporto fra la norma attuale e la
precedente legislazione sulle deroghe “d’emergenza” all’art. 2112 c.c. L’intenzione del
legislatore del 1990 di porsi su una linea di continuità emerge dal fatto che sono in parte identiche le
condizioni richieste, oggi come in passato, per poter procedere alla disapplicazione dell’art. 2112:
un accordo sindacale e la dichiarazione di crisi aziendale.
Da ciò sembra quindi potersi dedurre che il legislatore avendo istituzionalizzato un sistema di
deroghe che era nato alla fine degli anni settanta con un carattere di mera transitorietà, abbia anche
voluto abrogare questa normativa di emergenza; un discorso analogo a questo può anche essere
fatto in ordine al rapporto tra la parte della disposizione in questione che si riferisce alle imprese in
amministrazione straordinaria in base alla quale, ricorrendo determinate condizioni, l’art. 2112 non
si applica alle ipotesi di cessione di aziende effettuate in attuazione di programmi di imprese in
amministrazione straordinaria.
È proprio la considerazione dell’obbiettivo di disapplicare la normativa codicistica che contraddice
la tesi secondo la quale eccezioni alla regola dell’inscindibilità possono ammettersi in generale ad
opera dei cosiddetti accordi sindacali in deroga e cioè accordi sindacali conclusi al di fuori della
cornice delineata dalla disposizione in esame, e quindi anche nei confronti di imprese che non si
trovano in una situazione di crisi formalizzata. Bisogna poi ricordare come questi accordi possano
anche prevedere che i lavoratori che “non passano” alle dipendenze dell’acquirente restino alle
dipendenze dell’originario datore di lavoro; in ogni caso, per concludere, i prestatori che non
hanno usufruito del passaggio al nuovo datore di lavoro assieme all’azienda ceduta vantano,
secondo il sesto comma dell’art. 47, un diritto di precedenza nelle future assunzioni
dell’acquirente, restando comunque ferma la disapplicazione dell’art. 2112 c.c.

SEZIONE III: LE MODIFICAZIONI OGGETTIVE

STORIA E POSSIBILI INTERPRETAZIONI DELLA NORMA SUL MUTAMENTO DI MANSIONI

Alle modificazioni soggettive del rapporto si contrappongono le modificazioni oggettive, o


dell’oggetto. A questo punto si tratta di spiegare se e a quali condizioni le mansioni che sono
originariamente convenute possano essere successivamente modificate.
La materia costituisce l’oggetto principale di una norma del Codice Civile, l’art. 2103, che è
stato completamente sostituito dall’art. 13 dello Statuto dei Lavoratori.

Art. 2103 – Mansioni del lavoratore – Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è
stato assunto o a quelle corrispondenti alle categorie superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a
mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso
di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e
l’assegnazione stessa diventa definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione del
lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e
comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non
per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Ogni patto contrario è nullo.

Il testo originario dell’art. 2103 era stato interpretato ed applicato dalla dottrina e dalla
giurisprudenza in maniera abbastanza costante: era opinione comune che la norma, dopo aver
confermato il principio della contrattualità delle mansioni, fosse intesa a regolare ed attribuire al
datore di lavoro uno speciale potere che generalmente veniva chiamato “jus variandi” ossia un
potere giuridico in senso tecnico, consistente nell’attitudine di modificare, con un atto unilaterale,
l’oggetto originario del contratto di lavoro.
Circa i limiti di questo potere generalmente venivano classificati dalla dottrina in questo modo:
a) sussistenza di specifiche esigenze dell’impresa
b) affinità delle nuove mansioni alle precedenti
c) corresponsione della retribuzione più elevata fra quelle previste per le due mansioni
d) temporaneità dello spostamento

Era comunque sottinteso che i seguenti limiti venivano in considerazione per lo spostamento attuato
unilateralmente dall’imprenditore e non per lo spostamento concordato fra le parti, comunque
sempre ammissibile.
Il disegno di legge governativo dello statuto dei lavoratori non si occupava della materia e infatti il
nuovo articolo 2103 è frutto di emendamenti approvati durante l’elaborazione della legge da parte
del Senato; il primo periodo del nuovo testo dell’art. 2103 riproduce letteralmente il testo del
precedente e quindi esplicita nuovamente il principio della contrattualità delle mansioni. Subito
dopo però il nuovo testo prosegue con l’accostamento alle mansioni di assunzione del lavoratore di
“quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbi successivamente acquisito” e delle
“mansioni effettivamente equivalenti a quelle svolte”; questo accostamento nel precedente testo
normativo mancava perché alla norma sulla contrattualità delle mansioni veniva fatta seguire
un’altra norma sull’eccezionale potere di modifica unilaterale delle mansioni. Non c’è alcun dubbio
quindi sul fatto che i maggiori problemi relativi all’art. 13 dello statuto dei lavoratori si basano
proprio su come interpretare questa sostituzione.
Un solo punto è certo: è che la nuova norma considera legittima al prestatore di lavoro, oltre che
delle mansioni di assunzione, anche altri due diversi tipi di mansioni diversi da quelli di assunzione.
Il primo problema che a questo punto bisogna affrontare è se anche queste mansioni, come quelle
originarie, debbano essere convenute fra le parti, o se invece l’assegnazione alle stesse possa
essere legittimamente disposta dall’imprenditore con un atto unilaterale. La dottrina, nella
soluzione di questo problema, è divisa, e la giurisprudenza rispecchia le incertezze della dottrina
con delle prese di posizione che sono oscillanti e spesso contradditorie; tuttavia bisogna riscontrare
che dopo n primo periodo di decisioni orientate alla soppressione dello jus variandi, la
giurisprudenza più recente tende a sostenere la conservazione.

ARGOMENTI A FAVORE DELLA SOPPRESSIONE DELLO JUS VARIANDI

Si osserva a questo proposito che i lavori preparatori della legge danno chiaramente una indicazione
nel senso della eliminazione del potere unilaterale dell’imprenditore di modificare le mansioni.
Non può inoltre essere trascurato che i presentatori dell’emendamento erano gli stessi
presentatori di una delle proposte di legge per lo statuto dei lavoratori che furono affiancate
nell’esame in commissione referente al disegno di legge governativo; orbene quella proposta
conteneva una norma sulle mansioni che mirava palesemente alla soppressione dello jus variandi:
essa infatti riproduceva nella sua prima parte il primo periodo del vecchio articolo 2103, eliminando
solamente il primo periodo e cioè la norma attributiva dello jus variandi ed aggiungendo una nuova
norma sui trasferimenti analoga a quella poi introdotta nello statuto per iniziativa degli stessi
proponenti.
Si deve tenere poi presente che, dopo l’approvazione del nuovo articolo da parte della
commissione referente del Senato, ci fu chi cercò, durante l’esame in aula, di far approvare
degli emendamenti che avrebbero in qualche modo ripristinato lo jus variandi, ma questi
emendamenti non furono approvati dal Senato.
A parte la ratio dei lavori preparatori, in questo contesto bisogna tenere maggiormente in
considerazione la lettera della disposizione.
Bisogna osservare che essa non contiene alcun riferimento ad un potere dell’imprenditore: il
vecchio testo diceva “l’imprenditore può” e quindi chiaramente non poteva che trattarsi si un
potere unilaterale, ma questa formula nel nuovo articolo 2103 è totalmente scomparsa: essa si limita
ad equiparare alle mansioni di assunzione le mansioni “corrispondenti alla categoria superiore
che abbia successivamente acquisito” e le “mansioni equivalenti alle ultime effettivamente
svolte”, per fare oggetto tutte e tre le mansioni di un poter di adibire, che non può essere di nessun
altro se non del datore di lavoro. Ma è lecito dedurre da una norma che parla solamente di un dovere
dell’imprenditore, l’esistenza di un suo potere? Sembrerebbe proprio di no.
Un ulteriore argomento a favore della tesi che considera necessario il consenso delle parti per
l’attribuzione di tutti i tipi di mansioni previste è l’argomento a contraiis.
Si deve ricordare a questo proposito che lo statuto è inteso alla tutela della libertà e della dignità dei
lavoratori, oltre che mediante una speciale protezione dell’attività sindacale, anche attraverso una
maggiore limitazione del contenuto dei poteri giuridici dell’imprenditore. Ora è chiaro che, se si
ritiene che l’art. 13 abbia soppresso il potere dell’imprenditore di modificare unilateralmente le
mansioni, questa norma si inquadra perfettamente nel sistema dello statuto.
Se invece si ritiene che le varie mansioni diverse da quelle di assunzione previste dalla nuova
norma possano essere assegnate dall’imprenditore unilateralmente, allora non si riesce più a
capire se e in che modo la modifica dell’art. 2103 contribuisca, limitando i poteri dell’imprenditore,
alla tutela degli interessi dei lavoratori.
È invece problematico, se non impossibile, dimostrare che alla soppressione di questo limiti
abbia fatto riscontro l’introduzione di limiti maggiormente penetranti o tali da
controbilanciare i limiti soppressi.
Invero il nuovo testo consente lo spostamento a mansioni “corrispondenti alla categoria
superiore” a quella di assunzione, senza alcun limite; e lo spostamento a mansioni non
corrispondenti a categorie superiori, con i soli limiti dell’equivalenza rispetto alle ultime mansioni
effettive e della non diminuibilità della retribuzione.
Quanto alla prima ipotesi bisogna osservare che non è affatto vero che una promozione costituisca
sempre un vantaggio per il lavoratore, e per questo solo non c’è ragione di limitarla; per quanto
riguarda invece la seconda ipotesi è indubbio che il requisito dell’equivalenza tra mansioni ad
quas e mansioni a quibus costituisce un limite allo spostamento , ma nonostante questo i molti
sforzi compiuti dagli interpreti in questa direzione non sembra che ancora nessuno sia stato in grado
di dimostrare in maniera convincente che questo limite sia in qualche cosa più restrittivo di quello
desumibile dalla conservazione della posizione sostanziale del lavoratore, imposta dalla norma
anteriore.
Anche il limite della non diminuibilità della retribuzione era stabilito nella norma originaria, nella
quale inoltre si aggiungeva nel secondo comma l’esplicita previsione del diritto al trattamento
corrispondente all’attività svolta, se questo è più vantaggioso per il lavoratore, che malgrado sia
oggi formalmente scomparsa, può ritenersi fino ad oggi vigente in quanto desumibile dal principio
della necessaria corrispondenza del trattamento alle mansioni effettive in ogni momento svolte.
Una ultima osservazione deve essere fatta, nello stesso senso, a proposito della nuova disciplina
riguardante i patti contrari alla norma: bisogna tenere presente a questo proposito che nel vecchi
testo, l’inciso “se non è convenuto diversamente” era premesso alla seconda parte della norma e
doveva conseguentemente essere riferito solamente alla disposizione attributiva dello jus variandi,
mentre sia la prima parte della norma e sia l’indicazione dei poteri dell’imprenditore dovevano
considerarsi inderogabili.
Tenuto presente questo aspetto originario della norma, l’innovazione a proposito dello statuto
consisterebbe, se si considerano ancora da essa regolate le modificazioni unilaterali, nel rendere
nulli oltre che i patti estensivi del potere dell’imprenditore, anche i patti limitativi; se invece si
accoglie l’interpretazione secondo la quale non è più ammesso lo spostamento unilaterale e i
limiti stabiliti dalla norma riguardano solamente lo spostamento consensuale, allora per quanto
riguarda il mutamento di mansioni, la regola della nullità dei patti contrari ha un senso molto chiaro
e non fa sorgere problemi.
Non è invece colpita da nessuna nullità, in quanto è un patto contrario a questa norma, la clausola
contrattuale che stabilisce ulteriori limiti alle modifiche consensuali, e questo non in
applicazione di un principio generale di prevalenza del principio più favorevole al lavoratore, del
quale è molto discutibile l’esistenza, ma per lo stesso tenore testuale della norma, che appare intesa
a limitare le modifiche e non ad imporle.

LE TESI DELLA SOPRAVVIVENZA DELLO JUS VARIANDI

Le critiche all’interpretazione qui sostenuta si muovono da due diversi piani: sotto un primo
profilo si prospettano obiezioni di ordine tecnico che riguardano prevalentemente una
insufficienza di argomenti addotti in favore della tesi che si critica e soltanto marginalmente e quasi
per esclusione, argomenti in favore di diverse soluzioni.
Si osserva che quasi tutti gli autori riconoscono che una parte dei limiti stabiliti dalla norma
originaria dello jus variandi è stata eliminata cosicché la maggiore tutela del lavoratore si affida,
in definitiva e per questo settore della dottrina, solo ed esclusivamente ad un carattere più restrittivo
del criterio dell’equivalenza rispetto a quello precedente della non modificabilità della posizione
sostanziale.
Ancora più chiaramente ha una valenza contraria a quella pretesa l’argomento critico addotto da chi
pone in evidenza che ad un potere unilaterale dell’imprenditore fa riferimento con il verbo
“può” il penultimo inciso della norma in materia di trasferimento: la diversità delle formule
usate conferma il fatto che un potere unilaterale è stato previsto solamente per il trasferimento e non
per il mutamento di mansioni.
Una ultima corrente dottrinale è agguerrita nel respingere l’interpretazione che considera
legittimo il mutamento di mansioni solamente con il consenso del lavoratore; questo perché è
sollecitata più che da motivazioni di carattere tecnico ed interpretativo, dall’intendimento di
realizzare uno “scavalcamento a sinistra” di questa interpretazione. È vero esattamente il
contrario e cioè che la pratica inesistenza di limiti al mutamento consensuale è un corollario
inevitabile, anche se non sempre accettato, di tutte le interpretazioni che considerano ancora oggi
l’art. 2103 riferito allo jus variandi, mentre il solo modo per considerare legislativamente limitato il
mutamento consensuale, è quello di considerare che appunto la norma regoli il mutamento
consensuale.
Sotto l’aspetto ricostruttivo la stessa dottrina appare animata dall’intento di far apparire la nuova
norma quanto più possibile migliorativa della tutela dei lavoratori, rispetto al vecchio testo dell’art.
2103; infatti, secondo questa dottrina, le innovazioni fondamentali della nuova disciplina
sarebbero costituite:
a) dalla configurazione della non diminuibilità della retribuzione non più come una mera
conseguenza patrimoniale dello spostamento a mansioni corrispondenti ad un’area salariale
inferiore, ma come un criterio di esclusione della legittimità dello spostamento a mansioni
comportanti una retribuzione inferiore: il vecchio testo diceva “purché essa non importi
una diminuzione della retribuzione” e quindi si comprende che il significato delle due
formule è proprio lo stesso
b) dalla sostituzione del condizionamento dello jus variandi alle esigenze dell’impresa con il
condizionamento al rispetto dell’equivalenza delle varie mansioni di volta in volta
assegnate, in funzione di un razionale sviluppo delle capacità tecnico professionali del
lavoratore: si osserva in questo caso che non si tratta di una sostituzione, ma della pura
eliminazione di uno dei due limiti contenuti nella normativa anteriore, visto che anche
questa sicuramente esigeva il rispetto dell’equivalenza professionale delle mansioni, con la
disposizione che vietava il mutamento sostanziale.

La verità è che tutti coloro i quali si sforzano di fornire un’interpretazione all’articolo 13 dello
Statuto dei lavoratori idonea ad eliminare i difetti presenti nella legislazione anteriore, continuando
ad attribuire alla norma il compito di regolare lo jus variandi, mostrano di non tenere conto del
problema reale e cioè di quelli che erano i veri difetti da rimediare. La normativa del codice non
era idonea a tutelare la posizione professionale del lavoratore, non tanto per una insufficienza
del potere unilaterale dell’imprenditore di modificare le mansioni, quanto per la mancanza di una
specifica regolamentazione delle modifiche consensuali, che restano così attratte nella sfera di
applicazione dei principi generali, con la terribile conseguenza che anche il più radicale
declassamento della posizione sia professionale, sia retributiva del lavoratore fosse considerato
legittimo in quanto consensuale, anche se accettato dal lavoratore solamente con il suo
comportamento concludente.

LA PROMOZIONE AUTOMATICA

Il secondo periodo dell’articolo 2103 del Codice Civile regola la cosiddetta promozione
automatica generalizzando un principio già recepito dalla contrattazione collettiva.
Questa norma ha ragione di esistere solamente se si ritiene che “l’assegnazione a mansioni
superiori” che essa regola è l’assegnazione che le parti in partenza considerare provvisoria, perché
l’assegnazione a mansioni superiori attuata senza intesa è già regolata dalla precedente norma, che
comporta la maturazione immediata del diritto alla conservazione della posizione acquisita.
Quanto al fatto attributivo delle mansioni superiori provvisorie, si può ammettere che la forma
utilizzata dalla norma potrebbe presentarsi, più di quella dl primo periodo della norma, come uno
spostamento realizzato attraverso un atto unilaterale, ma l’interpretazione sistematica impone di
considerare necessariamente consensuale anche lo spostamento provvisorio, senza di che sarebbe
consentito all’imprenditore di eludere troppo facilmente la regola della con sensualità della
promozione definitiva.

Art. 2113 – Rinunzie e transazioni – (primo comma) – Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto
diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi
collettivi concernenti i rapporti di cui all’art. 409 del codice di procedura civile, non sono valide.
……..

È invece frutto di un equivoco l’idea di assoggettare alla disciplina dell’articolo 2113 l’eventuale
rifiuto di promozione del lavoratore, configurandolo come una rinunzia al diritto alla
promozione. È chiaro infatti che nel caso che si è esaminato non esiste un diritto alla promozione
suscettibile di formare oggetto di rinunzia, essendo la promozione da intendere come modificazione
permanente dell’oggetto del rapporto di lavoro, effetto automatico del verificarsi dell’ipotesi
prevista dalla legge. Diritti del lavoratore che sono suscettibili di formare oggetto di rinunce
sorgeranno naturalmente nell’ambito del rapporto di lavoro modificato, nel corso del suo ulteriore
svolgimento, ma la rinuncia di questi diritti non potrà mai configurarsi come una rinuncia alla
promozione.
È esatto, secondo quanto è stato scritto da qualche autore, che la norma sulla promozione
automatica non risolve il problema del lavoratore sistematicamente adibito a sostituire altri
lavoratori assenti e messo così nella condizione di non riuscire mai ad acquisire una
qualificazione professionale. Ma non si deve per ciò concludere solamente che il fenomeno sia
conforme alla legge.

MUTAMENTO DI MANSIONI E RETRIBUZIONE

Qualche delicato problema di applicazione sorge a proposito della retribuzione dovuta in caso di
mutamento di mansioni.
Se il lavoratore viene spostato a delle mansioni che comportano una retribuzione superiore, è
pacifico che egli abbia diritto, dal momento dello spostamento, alla retribuzione superiore.
È già stato detto che secondo la maggioranza degli interpreti, la norma attuale, così come quella
anteriore, non esclude la possibilità di spostamento a mansioni che comporterebbero una
retribuzione minore, ma, appunto con riguardo a questa ipotesi della quale suppone la legittimità,
impone di continuare a corrispondere la retribuzione precedentemente dovuta.
Se la diversa retribuzione che è prevista per le due mansioni dipende esclusivamente dalla
collocazione contrattuale delle stesse nell’ambito di una diversa “categoria” di inquadramento non
sorgono particolari difficoltà, il problema invece si complica se la retribuzione goduta prima
dello spostamento comprendeva dei superminimi concordati personalmente con il lavoratore,
o se una delle mansioni oppure entrambi comportino degli elementi retributivi variabili come
nel caso del cottimo, o collegati a particolari situazioni di rischio o disagio, o se si sia attuato
quel particolare procedimento di valutazione della prestazione che viene generalmente
chiamato job evaluation.
Il parere dell’autore è comunque il seguente.
In caso di spostamento ad una mansione che prevede una retribuzione superiore, sarà dovuta in tutte
le sue componenti la retribuzione prevista per tali mansioni dalle fonti normative applicabili, o in
mancanza da determinarsi secondo quanto stabilito dall’art. 2099 del Codice Civile, maggiorata di
quanto eventualmente previsto ad personam per la mansione precedente, salvo che non risulti che
tale maggiorazione fosse dovuta a dei riconoscimenti di particolari attitudini strettamente attinenti
alle mansioni precedenti; nel caso invece in cui la retribuzione per le mansioni ad quas sia minore di
quella che in concreto il lavoratore percepiva per lo svolgimento delle mansioni ad quibus,
continuerà a spettare la retribuzione precedente in tutte le sue componenti, anche se alcune di queste
componenti fossero previste in relazione ad alcuni fattori, di qualsiasi natura ma non presenti nella
nuova attività.
È necessario comunque avvertire che l’opinione dell’autore, seguita dai casi di giurisprudenza
in generale, è contraddetta dal più recente orientamento della Cassazione, la quale ritiene le
componenti della retribuzione strettamente collegate a particolari rischi o disagi o particolari
modalità della prestazione posano essere perdute in caso di spostamento a mansioni non
comportanti più quelle modalità, anche se la retribuzione ne risulta così diminuita.

I TRASFERIMENTI: AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA NORMA LIMITATIVA

Un’altra ipotesi di modificazione oggettiva del rapporto di lavoro è quella che si verifica oggi con il
trasferimento del lavoratore “da una unità produttiva ad un’altra”. Per trasferimento deve
intendersi il mutamento del luogo di svolgimento dell’attività lavorativa.
La norma sul trasferimento del lavoratore da una unità produttiva ad un’altra è sostanzialmente una
novità del testo attuale dell’articolo 2103 del Codice Civile che consente il trasferimento con un atto
unilaterale dell’imprenditore, condizionandolo però a “comprovate ragioni tecniche,
organizzative e produttive”.
Alcuni, partendo dal presupposto che prima dello statuto dei lavoratori non fosse consentito nessun
tipo di trasferimento, hanno considerato questa norma come intesa ad ampliare la sfera dei poteri
dell’imprenditore; altri all’opposto, ritenendo che prima dello statuto il prestatore potesse essere
trasferito senza alcun limite, inquadrano la norma fra quelle che hanno introdotto innovazioni
particolarmente limitative. Secondo l’autore nessuna di queste due tesi è corretta.
Trasferimento comportante mutamento di mansioni si potrà avere sia per le diverse caratteristiche
obbiettive dell’attività che si svolge nelle diverse unità produttive, sia quando le mansioni
contrattuali siano identificate, esplicitamente o implicitamente, dal contratto individuale o
collettivo, anche con riferimento all’unità produttiva: in tal caso, secondo l’autore, dovrà
applicarsi la disciplina giuridica del mutamento di mansioni e non la ben più elastica
disciplina del trasferimento.
Se si escludono dalla sfera di applicazione della norma sul trasferimento quei trasferimenti che
comportano un mutamento di mansioni, rimangono compresi solamente i trasferimenti disposti
nell’esercizio del potere direttivo. Si capisce allora come sia scorretta la tesi che ritiene la
possibilità di trasferimento unilaterale non desumibile dai principi, e quindi non sussistente
prima dello statuto per mancanza di una norma specifica.

FUNZIONALIZZAZIONE DEL POTERE DI TRASFERIMENTO E SANZIONI DEL


TRASFERIMENTO ILLEGITTIMO

Rimane a questo punto da considerare in che senso la nuova norma abbia limitato l’esercizio del
potere direttivo, per l’ipotesi che esso realizzi un trasferimento del lavoratore. Secondo l’autore in
questo caso si tratta di un limite interno, cioè derivante dalla necessaria destinazione dell’atto, che è
esercizio del potere, alla realizzazione della funzione per cui il potere è attribuito. È appunto il tipo
di limitazione che la norma apponeva al vecchio jus variandi, mediante il riferimento “alle esigenze
dell’impresa”.
Anche per quanto riguarda il tipo di interesse, alla cui soddisfazione il potere viene funzionalizzato,
non pare ci possa essere nessuna differenza di significato sostanziale fra la vecchia formula delle
“esigenze dell’impresa” e la nuova formula delle “comprovate ragioni tecniche, organizzative e
produttive”.
Tutte queste formule impongono di considerare legittimamente il potere a cui si riferiscono
solamente per la soddisfazione di alcuni interessi e non di altri. Alcuni autori a questo proposito
parlano di interessi “tipici” dell’imprenditore; altri invece specificano che la tipicità di questi
interessi dipende dalla connessione con altri interessi partecipi dell’attività imprenditoriale, e per
questo parlano di un interesse obbiettivo dell’impresa, inteso come interesse collettivo.
Quello che importa agli effetti pratici, è che, essendo il potere funzionalizzato ad un interesse che
non è esclusivamente l’interesse individuale del titolare del potere, non si tratta di un potere
arbitrario ma di un potere discrezionale, che consente quindi un controllo del giudice sulla
destinazione in concreto dell’atto alla soddisfazione dell’interesse protetto.
La portata innovativa della norma sul trasferimento introdotta dalla statuto, consiste quindi
nell’avere inserito il potere dell’imprenditore fra quei poteri inerenti alla gestione del
rapporto di lavoro che sono funzionalizzati ad un interesse comune alle parti.

Art. 2697 – Onere della prova – Chi vuol fare valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne
costituiscono il fondamento.
Chi eccepisce l’inefficacia di questi fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve
provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.

È però possibile anche un altro significato desumibile dalla circostanza che la norma richiede che le
ragioni giustificatrici del trasferimento siano “comprovate”: questa formula è adatta ad accollare al
datore quell’onere della prova circa l’esistenza delle ragioni indicate, che invece in mancanza della
norma sarebbe a carico del lavoratore. Secondo l’art. 2697, infatti, l’onere della prova sui motivi
dell’annullamento grava su chi propone la relativa azione o eccezione.
A proposito della sanzione che colpisce il trasferimento ingiustificato, bisogna tenere presente
che la disposizione conclusiva del nuovo art. 2103 sulla nullità di ogni patto contrario alla norma,
non può assumere la stessa portata generale che ha per il mutamento di mansioni: infatti, potendo
attuarsi il trasferimento con un patto unilaterale, l’atto che dispone il trasferimento senza il rispetto
dei limiti posti dalla norma non può comprendersi fra quei patti contrari di cui è disposta la nullità.
Se è così, l’art. 2103 non dice quale sia il trattamento giuridico del trasferimento ingiustificato e per
individuarlo non si può fare altro che risalire ai principi generali in materia di sviamento dei
poteri discrezionali dalla funzione ad essi assegnata dall’ordinamento e questo, come si è visto,
porta a concludere per l’annullabilità.

IL TRASFERIMENTO DEI RAPPRESENTANTI SINDACALI


Un discorso diverso deve essere fatto in ragione del trasferimento dei dirigenti delle
rappresentanze sindacali aziendali, nonché dei candidati e dei membri di commissione interna,
soggetti che oltre che essere oggetto dell’art. 2103 del Codice Civile, vengono disciplinati anche
all’art. 22 dello statuto dei lavoratori.

Statuto dei lavoratori – art. 22 – Trasferimento dei dirigenti delle rappresentanze sindacali
aziendali – Il trasferimento dall’unità produttiva dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali di
cui al precedente articolo 19, dei candidati e dei membri di commissione interna può essere disposto
soltanto previo nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza.
Le disposizioni di cui al comma precedente e ai commi dell’articolo 18 si applicano sino alla fine del
terzo mese successivo a quello in cui è stata eletta la commissione interna per i candidati nelle elezioni
della commissione stessa e sino alla fine dell’anno successivo quello in cui è cessato l’incarico per tutti
gli altri.

Il nulla osta dell’associazione sindacale viene qualificato come negozio di autorizzazione o


altrimenti è un presupposto necessario della legittimità del trasferimento a prescindere dalle ragioni
del medesimo. Finché il nulla osta non è stato concesso il trasferimento non può essere disposto e
questo significa che manca il potere di trasferire: questo significa che se manca il potere, l’eventuale
trasferimento è privo di effetti giuridici.
Senza prendere posizione sull’alternativa fra mera inefficacia e nullità, bisogna osservare che dove
si sostiene che si tratta di mera inefficacia, dovrebbe ammettersi che essa oltre che assoluta è
anche originaria e definitiva visto che la legge, richiedendo che il nulla osta sia “previo”, esclude
la possibilità di ratifiche o sanatorie, cioè eliminare ogni differenza dalla nullità.
Dicendo che la norma sui trasferimenti dell’art. 22 dello statuto dei lavoratori è una norma speciale
si vuole intendere che ogni trasferimento dall’unità produttiva, anche quello del dirigente sindacale,
è soggetto al limite interno stabilito dall’articolo 13 dello statuto dei lavoratori; in più se tratta
dei dirigenti sindacali indicati, opera il limite esterno dell’articolo 22 dello statuto dei
lavoratori, la cui violazione è assorbente e cioè rende irrilevante l’indagine sulla sussistenza delle
ragioni giustificatrici del trasferimento.

NOZIONE DI “UNITA’ PRODUTTIVA” NELLE NORME SUI TRASFERIMENTI

In ordine di tempo, e non di importanza, l’ultimo problema interpretativo ad attrarre l’attenzione


degli studiosi è stato quello relativo alla nozione di “unità produttiva”.
Un cenno ai termini del problema deve essere fatto in relazione alla proposta, abbastanza
controversa, di negare univocità ai riferimenti all’unità produttiva contenuti nello statuto, ed
accogliendo di volta in volta una diversa nozione adeguata alla diversa natura degli interessi che
vengono tutelati dalla varie norme.
Di questa possibile diversità di significati, le due norme sui trasferimenti dovrebbero fornire un
esempio probante potendosi affermare che l’articolo 13 dello statuto dei lavoratori tutela
l’interesse del singolo lavoratore, mentre l’articolo 22 tutela l’interesse della collettività della
quale il rappresentante sindacale è espressione. Per l’art. 13 l’unità produttiva viene intesa in
senso territoriale, come il luogo dal quale per il lavoratore potrebbe essere scomodo
allontanarsi per ragioni personali o familiari, mentre per l’art. 22 unità produttiva dovrebbe
qualificarsi solamente quel nucleo aziendale nel quale emergono interessi professionali
collettivi autonomi espressi in concreto dalla formazione di una distinta rappresentanza
sindacale aziendale.
Si tratta in sostanza di una espressione incongrua rispetto ad entrambi i diversi significati
prospettati, visto che il riferimento alla produzione contenuto in esse non si riferisce né alla struttura
sindacale, né ad una localizzazione territoriale degli interessi del lavoratore, per indicare la quale
più semplicemente si sarebbe potuto parlare di “sede di lavoro” o “luogo di lavoro” o magari di
specifiche entità territoriali come il Comune.

SEZIONE IV: LE MODIFICAZIONI DEL CONTENUTO

SOSPENSIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO E SOSPENSIONE DELL’OBBLIGAZIONE DI


LAVORO (ED EVENTUALMENTE DELLA RETRIBUZIONE)

L’opinione comune annovera fra le vicende del rapporto di lavoro, come ipotesi di modificazione
del contenuto, la sospensione del rapporto. Si distingue poi, rispetto alla categoria generale in
questo modo individuata, la sospensione dell’intero rapporto da quello di una parte di esso, e si
effettuano altre classificazioni in relazione alla causa della sospensione: volontaria o involontaria,
imputabile o non imputabile, comportante o meno il decorso dell’anzianità, eccetera.
Secondo l’autore questa comune impostazione non coglie in modo appropriato il senso delle varie
ipotesi di sospensione indicate, laddove le riferisce al rapporto di lavoro, anche se specificando che
in alcune il rapporto sarebbe sospeso solamente in parte.
La realtà è un’altra ed è che la permanenza del rapporto di lavoro in tutte le ipotesi indicate, non
può essere intesa come una permanenza del rapporto di lavoro fondamentale, mentre
temporaneamente vengono meno alcune delle posizioni giuridiche singole che da quel rapporto
fondamentale derivano, ed in primo luogo l’obbligazione di lavoro ed il corrispondente credito.
Si deve quindi parlare di sospensione non del rapporto di lavoro ma solamente
dell’obbligazione di lavoro, ed eventualmente delle altre singole posizioni giuridiche per le quali,
nelle varie ipotesi è stabilito che temporaneamente vengano meno.
A questo ultimo proposito deve essere richiamato il principio della corrispettività del contratto di
lavoro: esso, infatti, applicato alle ipotesi di sospensione dell’obbligazione di lavoro, significa che
di regola la sospensione del lavoro comporta anche la sospensione della retribuzione. Questo
principio è oggi totalmente derogato dalla legge o dalla contrattazione collettiva in una grande serie
di casi.
Meno pacifico è che anche la maturazione dell’anzianità durante i periodi di sospensione del
lavoro abbia bisogno per realizzarsi di specifica previsione; se almeno si considera il rilievo
dell’anzianità agli effetti contributivi, secondo l’autore questa conclusione non può essere evitata.
Per le stesse ragioni per le quali, quando non è diversamente disposto, la sospensione del lavoro
esclude la retribuzione periodica relativa al periodo di sospensione, analogamente non si può
escludere, salvo che non sia stabilito, quella parte di retribuzione differita che si commisura allo
stesso periodo.

CLASSIFICAZIONE DELLE VARIE IPOTESI DI SOSPENSIONE

Quanto alla distinzione fra le situazioni che si qualificano di sospensione da un lato e d’altro lato le
ferie ed il riposo festivo e giornaliero, non può negarsi che in entrambi i casi manca un dovere
attuale di lavorare. La differenza sta solamente nel carattere meramente eventuale delle prime visto
che le ferie e le altre pause di riposo sono certe e prevedibili; potremmo quindi chiamare
sospensioni patologiche o anomale le prime, fisiologiche o normali le seconde.
Perché appaiano al lettore i risvolti applicativi di questo discorso è necessario ricordare
l’utilizzazione che la giurisprudenza della Cassazione ha per molto tempo effettuato della
contrapposizione tra assenza dal lavoro dipendenti da circostanze eccezionali, e quindi qualificate
come sospensione del rapporto, ed assenze per fatto ordinario e prevedibile, definite per questo
prive di effetti sospensivi, al fine di consentire per le prime e non per le seconde la sostituzione del
lavoratore assente con un altro lavoratore assunto con un contratto a tempo determinato. La
soluzione data a questo problema pratico, secondo l’autore non è corretta, perché quella
contrapposizione non era scritta nella norma, la quale si limitava a fare menzione di “lavoratori
assenti e per i quali sussiste il diritto alla conservazione del posto”, senza dire nulla sulla causa
patologica e fisiologica dell’assenza.
È necessario osservare prima di tutto che la prospettiva della dottrina verso la riduzione di ogni
ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro all’impossibilità sopravvenuta della prestazione di
lavoro, conduce ad allargare questa figura ben oltre il senso dell’espressione usata, ed in definitiva
non ha altro valore che non sia quello di un accostamento fra vera impossibilità ed altre ipotesi sul
piano degli effetti. Se è vero che l’impossibilità della prestazione di lavoro, quando non produce
l’estinzione dell’intero rapporto di lavoro, provoca sempre almeno la sospensione dell’intero
rapporto di lavoro, è vero anche che ci sono alcuni casi in cui la legge dispone questa sospensione
in relazione a delle circostanze che è scorretto qualificare di impossibilità.
In particolare in alcune ipotesi, l’effetto sospensivo è collegato ad una manifestazione di volontà di
una delle parti, nella quale deve riconoscersi l’esistenza di uno specifico potere giuridico di
sospendere l’obbligazione di lavoro: potremmo a questo proposito parlare di sospensioni
potestative.

LE SOSPENSIONI POTESTATIVE

A proposito delle sospensioni potestative è molto importante avere ben chiaro che l’indicato potere
sospensivo non è in nessun modo desumibile dai principi generali né per l’una né per l’altra parte
del rapporto.
Abbiamo così un potere del datore di lavoro di sospendere il prestatore “dal servizio e dalla
retribuzione” a titolo di sanzione disciplinare, ma non per motivi cautelari, salvo che, come
avviene per alcune categorie, questa forma di sospensione non sia prevista dal contratto collettivo.

Statuto dei lavoratori – art. 30 – Permessi per i dirigenti provinciali e nazionali – I componenti degli
organi direttivi, provinciali e nazionali, delle associazioni di cui all’articolo 19 hanno diritto a permessi
retribuiti, secondo le norme dei contratti di lavoro, per la partecipazione agli utili degli organi suddetti.

Statuto dei lavoratori – art. 31 – Aspettativa dei lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive o a
ricoprire cariche sindacali provinciali e regionali – I lavoratori che siano eletti membri del Parlamento
nazionale o del Parlamento europeo o di assemblee regionali ovvero siano chiamati ad altre funzioni
pubbliche elettive possono, a richiesta, essere collocati in aspettativa non retribuita, per tutta la durata del
loro mandato.

Statuto dei lavoratori – art. 32 – Permessi ai lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive – I
lavoratori eletti alla carica di consigliere comunale o provinciale che non chiedano di essere collocati in
aspettativa, sono, a loro richiesta, autorizzati ad assentarsi dal servizio per il tempo strettamente necessario
all’espletamento del mandato senza alcuna decurtazione della retribuzione.
I lavoratori eletti alla carica di sindaco o di assessore comunale, ovvero di presidente di giunta provinciale
o di assessore regionale, hanno diritto anche a permessi non retribuiti per un minimo di trenta ore mensili.

Statuto dei lavoratori – art. 20 – Assemblea – I lavoratori hanno diritto di riunirsi, nella unità produttiva
in cui prestano la propria opera, fuori dell’orario di lavoro, nonché durante l’orario di lavoro, nei limiti di
dieci ore annue, per le quali verrà corrisposta la normale retribuzione. Migliori condizioni possono essere
stabilite dalla contrattazione collettiva.
I lavoratori hanno un potere di sospendere l’obbligazione di lavoro per sciopero, mentre non esiste
un analogo potere sospensivo dei datori di lavoro per serrata. I lavorator hanno poi anche brevi
“permessi” retribuiti e non retribuiti, per adempiere a delle funzioni sindacali, oppure a delle
funzioni pubbliche elettive, nonché per analoghe funzioni a più lunghe “aspettative” non retribuite.
Una sospensione dell’obbligazione di lavoro si ha anche con l’esercizio del diritto di assemblea
durante l’orario di lavoro, ma anche qui solamente alle condizioni e nei limiti stabiliti dalla legge
e dalla contrattazione collettiva.
Il campo di applicazione del principio di tassatività delle cause di sospensione potestativa più
interessante è dato da quelle di crisi aziendali, che possono condurre all’intervento della Cassa
integrazione guadagni.
Di solito si afferma che queste norme, prevedendo la corresponsione da parte della Cassa
integrazione guadagni ai lavoratori sospesi dal lavoro di indennità corrispondenti ad una quota
della retribuzione da essi goduta in precedenza, realizzano un trattamento assistenziale reclamato
dalla situazione di bisogno nella quale i lavoratori vengono a trovarsi, per la perdita o la riduzione
della retribuzione. Si tratterebbe in questo senso di tutela della disoccupazione; questo significa
quindi che la Cassa integrazione guadagni è oltre che indirettamente un istituto di tutela del lavoro,
innanzitutto giuridicamente uno strumento di intervento in favore delle aziende in crisi.
La conclusione, dal punto di vista pratico, è che l’imprenditore è esonerato dalla corresponsione
della retribuzione ai dipendenti sospesi dal lavoro solamente se, esperite con successo le
relative procedure, l’intervento della Cassa integrazione guadagni si realizzi concretamente.

LE SOSPENSIONI NECESSARIE

Art. 2110 – Infortunio, malattia, gravidanza, puerperio – In caso di infortunio, di malattia, di gravidanza
o di puerperio, se la legge o le norme corporative non stabiliscono forme equivalenti di assistenza o di
previdenza, è dovuto al prestatore di lavoro la retribuzione o una indennità nella misura e per il tempo
determinati dalle leggi speciali, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità.
Nei casi indicati dal comma precedente, l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’art.
2118, decorso il periodo stabilito dalla legge, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità.
Il periodo di assenza dal lavoro per una delle cause anzidette deve essere computato nell’anzianità di
servizio.

Art. 2111 – Servizio militare – La chiamata alle armi per adempiere agli obblighi di leva risolve il contratto
di lavoro, salvo diverse disposizioni delle norme corporative.
In caso di richiamo alle armi, si applicano le disposizioni del primo e del terzo comma dell’articolo
precedente.

Le ipotesi più importanti di sospensione necessaria sono previste dagli articoli 2110 e 2111 del
Codice Civile: infortunio, malattia, gravidanza e puerperio, servizio militare; per tutte bisogna
però anche dire che non danno luogo a vera e propria impossibilità, quindi piuttosto che di
impossibilità bisognerebbe parlare di “inesigibilità” della prestazione.
Per tutte le ipotesi che sono state sopra indicate il codice suppone la sospensione dell’obbligazione
di lavoro e stabilisce che, ove non sussistano “forme equivalenti di assistenza e previdenza”, il
principio di permanenza dell’obbligazione retributiva “nella misura e per il tempo determinati
dalle leggi speciali, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità”.
Ovviamente, poiché sospensione dell’obbligazione di lavoro e permanenza dell’obbligazione
retributiva spingerebbero il datore di lavoro a recedere dal contratto, il codice garantisce anche la
conservazione del posto, consentendo al datore di lavoro di recedere solo “decorso il periodo
stabilito dalla legge, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità”. Il periodo di
inesigibilità della prestazione di lavoro, durante il quale il lavoratore non può essere licenziato,
viene generalmente chiamato “periodo di comporto”.

MALATTIA E INFORTUNIO

Per la malattia persiste un trattamento differenziato a seconda che si tratti di impiegati o di operai.
Per i primi la legge sull’impiego privato prevede un periodo di comporto di tre mesi o di sei
mesi, secondo che l’anzianità di servizio sia inferiore o superiore ai dieci anni, con pagamento
della retribuzione intera il primo mese, o rispettivamente i primi due, poi ridotta alla metà.
Per i secondi invece la determinazione del periodo di comporto viene affidata alla
contrattazione collettiva, ma essi, in quanto non beneficiari del trattamento economico a carico del
datore di lavoro, hanno acquisito il diritto di percepire per un massimo di sei mesi, una indennità
oggi a carico dell’INPS ma che viene anticipata dal datore di lavoro di importo corrispondente alla
metà della retribuzione dal quarto al ventesimo giorno di malattia e ai due terzi della retribuzione
dal ventunesimo al centottantesimo giorno. I primi tre giorni non comportano indennità e quindi si
parla di “periodo di carenza”.
Le regole legali che sono state appena descritte sono ampiamente superate dalla contrattazione
collettiva che tende ad equiparare il trattamento degli impiegati a quello degli operai, accollando per
questi al datore di lavoro l’onere di integrare l’indennità a carico dell’INPS, allungando così per
tutti sia il periodo di comporto, sia il periodo di conservazione della retribuzione.
Delle regole particolari operano per i lavoratori assunti con contratto a termine, per la tubercolosi
(comporto di 18 mesi), per l’infortunio (comporto fino a guarigione certificata dall’INAIL) ed
altre speciali ipotesi.

Legge n. 300/1970 – art. 5 – Accertamenti sanitari – Sono vietati accertamenti da parte del datore di
lavoro sulla idoneità o sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente.
Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli
istituti previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando l datore di lavoro lo richieda.
Il datore di lavoro ha facoltà di far controllare la idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed
istituti specializzati di diritto pubblico.

L’accertamento della verità della malattia è oggetto di attenzione legislativa e soprattutto della
contrattazione collettiva. Alcune norme, ad esempio l’articolo 5 della Legge n. 300/1970, sono
indirizzate a tutelare l’interesse del lavoratore ad un accertamento parziale; altre invece tutelano
l’interesse del datore di lavoro e dell’INPS a poter controllare la sussistenza dei presupposti per la
sopportazione dell’onere economico ad essi accollato: fra queste le norme che stabiliscono l’obbligo
di reperibilità in determinate fasce orarie e quelle che regolano la tempestiva trasmissione al datore
di lavoro e all’INPS delle certificazioni relative alla malattia.
L’ipotesi che la malattia richieda delle cure termali ha provocato dibattiti dottrinali e
giurisprudenziali: la cosa si spiega da un lato con la possibilità, maggiore che per altri tipi di cura,
che malattia e cura termale siano addotte come pretesto, dall’altro lato con i cospicui interessi
economici delle aziende alberghiere delle località termali che sono coinvolti nella questione.

MATERNITA’ E PATERNITA’, SERVIZIO MILITARE

La disciplina giuridica della sospensione dell’obbligazione di lavoro conseguente alla


maternità della donna lavoratrice si caratterizza, rispetto alle altre ipotesi di sospensione
necessaria, per la diversa natura dell’interesse protetto che non è del soggetto parte del
rapporto di lavoro, ossia la lavoratrice madre, ma del figlio. È per questo che il periodo di non
licenziabilità, che decorre dall’inizio della gravidanza, si estenda “fino al compimento di un anno
di età del bambino”. Attenzione: non fino ad un anno dal parto e questo significa che viene
meno in caso di morte del bambino prima del compimento dell’anno.
In materia di tutela delle lavoratrici madri prima, e poi più in generale anche dei lavoratori padri,
erano state emanate a partire dal 1934 e più intensivamente negli ultimi decenni, molte norme
legislative e nella pratica risultava essere molto difficile reperire e coordinare le norme da applicare
ai vari casi.
In occasione dell’emanazione di una delle leggi modificatrici è stata attribuita al Governo una
delega per l’emanazione di un Testo Unico con l’obbiettivo di “conferire organicità e
sistematicità alle norme in materia”, quindi tutte le norme legislative ed i regolamenti anteriori in
materia di sostegno alla maternità e alla paternità sono da considerare abrogate se non sono
richiamate nel medesimo Testo Unico o non sopravvivono in quanto norme speciali.
Il sostegno economico alla maternità e alla paternità è inoltre realizzato da alcune norme a
prescindere dalla posizione di lavoro del beneficiario, pur se non può tacersi che in questa direzione
l’ordinamento italiano occupa in Europa una posizione di retroguardia.
Le innovazioni anche terminologiche che sono state introdotte dal Testo Unico hanno permesso alla
disciplina giuridica alcune definizioni: “congedo di maternità” è l’astensione obbligatoria dal
lavoro della lavoratrice; “congedo di paternità” è l’astensione dal lavoro del lavoratore, in
alternativa al congedo di maternità; “congedo parentale” è l’astensione facoltativa della lavoratrice
o del lavoratore; “congedo per la malattia del figlio” è l’astensione facoltativa dal lavoro in
dipendenza della malattia stessa.
Il congedo di maternità viene chiamato “congedo”, ma questo non è del tutto corretto perché dai
due mesi precedenti la data presunta del parto ai tre mesi successivi, o nel maggior periodo in base
alle mansioni e allo stato di salute della lavoratrice, la sospensione dell’obbligazione di lavoro è
necessaria.
L’inosservanza di queste disposizioni è sanzionata penalmente: questo significa che la gravidanza
ha un duplice effetto giuridico e cioè da un lato la sospensione dell’obbligazione di lavoro,
dall’altro lato la costituzione di un obbligo negativo di contenuto pubblicistico.
Il congedo di paternità è alternativo al congedo di maternità e presuppone la morte o la grave
infermità, o l’abbandono della madre, o l’affidamento esclusivo dei bambini al padre.
Il congedo parentale può essere ottenuto, a seguito del periodo si sospensione necessaria, entro i
primi otto anni di ogni figlio, per non più di sei mesi per ciascun genitore e per non più di dieci
mesi complessivi.
Il congedo per malattia del figlio compete ad entrambi i genitori alternativamente, senza limiti
temporali se il figlio ha meno di tre anni, nel limite di cinque giorni all’anno per ogni figlio di età
tra i tre e gli otto anni.
Oltre ai congedi, la legge prevede per entrambi i genitori, “riposi” e “permessi” per l’assistenza ai
figli, consistenti in sospensioni del lavoro di durata inferiore alla giornata.
Il trattamento economico durante i periodi di congedo di maternità o paternità consiste in una
indennità giornaliera, a carico oggi dell’INPS, pari all’80% della “retribuzione media globale
giornaliera del periodo di paga quadrisettimanale o mensile scaduto ed immediatamente
precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio il congedo”. Durante i congedi
parentali, invece, l’indennità giornaliera è pari al 30% della retribuzione, calcolata con gli stessi
criteri; per i riposi ed i permessi l’indennità è pari allo stesso ammontare della retribuzione mentre
per i congedi per malattia del figlio non è prevista indennità.
La normativa sulla sospensione dell’obbligazione di lavoro per servizio militare può essere
accostata a quella sulla sospensione per la maternità, perché anche essa è destinata a tutelare un
interesse che non è esclusivamente del lavoratore.
Originariamente la non licenziabilità e la conservazione dell’anzianità erano garantite solamente in
caso di richiamo alle armi, e anche in caso di richiamo, solamente per gli impiegati era prevista
una indennità a carico dell’INPS sostitutiva o integrativa della retribuzione; successivamente leggi e
sentenze della Corte costituzionale hanno equiparato al richiamo, agli effetti della
conservazione del posto e dell’anzianità, sia la chiamata per adempiere al servizio militare di
leva, sia il servizio civile che viene compiuto dagli obbiettori di coscienza in sostituzione di
quello militare, sia il volontariato civile nei paesi in via di sviluppo.
Una sentenza additiva della Corte costituzionale ha inoltre esteso anche agli operai il trattamento
indennitario a carico dell’INPS, originariamente previsto solamente per gli operai.

CAPITOLO V: CONTRATTI SPECIALI DI LAVORO

SEZIONE I: LA SPECIALITA’ DEI CONTRATTI DI LAVORO

IL PROBLEMA DELLA SPECIALITA’ DEI CONTRATTI DI LAVORO: LE SOLUZIONI


ESTREME

Nei manuali di diritto del lavoro è da tempo corrente la trattazione separata dei cosiddetti contratti
o rapporti speciali di lavoro, anche se l’utilità di questa nozione viene solitamente negata per
l’eccessiva varietà di significati ad essa riconducibili.
Esattamente si è osservato che in dottrina la specialità si presenta come una connotazione di
rapporti di lavoro subordinato ai quali la disciplina relativa al lavoro nell’impresa è applicabile
solamente in quanto non sia derogata da apposite norme legislative o non sia incompatibile con
essa.

Art. 2128 – Lavoro a domicilio – Ai prestatori di lavoro a domicilio si applicano le disposizioni di questa
sezione, in quanto compatibili con la specialità del rapporto.

Art. 2130 – Durata del tirocinio – Il periodo di tirocinio non può superare i limiti stabiliti dalle norme
corporative o dagli usi.

Art. 2239 – Norme applicabili – I rapporti di lavoro subordinato che non sono inerenti all’esercizio di
una impresa sono regolati dalle disposizioni delle sezioni II, III e IV del capo I del titolo II, in quanto
compatibili con la specialità del rapporto.

Art. 2240 – Norme applicabili – Il rapporto di lavoro che ha per oggetto la prestazione di servizi di
carattere domestico è regolato dalle disposizioni di questo capo, e, in quanto più favorevole al prestatore di
lavoro, dalla convenzione e dagli usi.

Art. 2129 – Contratto di lavoro per i dipendenti da enti pubblici – Le disposizioni di questa sezione si
applicano ai prestatori di lavoro dipendenti da enti pubblici, salvo che il rapporto sia diversamente
regolato dalla legge.

Nel nostro Codice civile risultano considerati “speciali” rapporti di lavoro subordinato il lavoro a
domicilio, il tirocinio, il lavoro non inerente all’esercizio di una impresa, il lavoro domestico e
quello prestato alle dipendenze di enti pubblici.
UNITA’ DELLA FATTISPECIE NEGOZIALE TIPICA E TENDENZIALE UNIFICAZIONE
DELLE DISCIPLINE DEI RAPPORTI DI LAVORO NEL SISTEMA DEL CODICE CIVILE

Un esame meno superficiale del sistema normativo del Codice civile in materia di lavoro
subordinato consente di notare che la “specialità” del rapporto rilevante come causa giustificatrice
di una apprezzabile diversità di disciplina sussiste sia per il lavoro nell’impresa, sia per quello non
inerente all’esercizio di una impresa.
Bisogna ricordare che il Codice civile segna il punto di arrivo di un processo evolutivo che,
partito dalla contrattazione collettiva, aveva portato ad allargare ed unificare la nozione del
lavoro subordinato, originariamente definita dalla Legge n. 562 del 18 marzo 1926
esclusivamente in relazione all’attività di natura impiegatizia. Quindi da un lato il Codice civile
è arrivato alla configurazione del contratto di lavoro come fattispecie negoziale tipica, distinta da
ogni altra ed in particolare, da quelle contigue in cui il lavoro è prestato “senza vincolo di
subordinazione”; dall’altro lato il codice civile, nel prendere atto della molteplicità e della
necessaria varietà delle discipline in materia di lavoro subordinato, ha utilizzato la più avanzata ed
elaborata delle leggi esistenti, raccolta nel contratto collettivo del 1937 per gli impiegati
dell’industria, per desumerne istituti, principi e norme di portata generale che si potessero applicare
direttamente ed integralmente a tutti i campi dell’attività imprenditoriale.

Art. 2094 – Prestatore di lavoro subordinato – E’ prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga
mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle
dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.

Unità della fattispecie negoziale tipica, che viene individuata dall’art. 2094 e configurata come
contratto, nominato, di lavoro subordinato, e tendenziale unificazione della sua disciplina
fondamentale attorno al modello articolato del lavoro nell’impresa, mediante estensione ai rapporti
di lavoro anche essi riconducibili alla stessa origine contrattuale, non inerenti all’esercizio di una
impresa: sono questi i pilastri sui quali è costruito il sistema normativo del lavoro subordinato
nel nostro codice civile.

LA SPECIALITA’ COME CARATTERISTICA CHE ATTIENE AL PROFILO CAUSALE DELLA


FATTISPECIE NEGOZIALE TIPICA

La “specialità” dei rapporti di lavoro subordinato che non sono inerenti all’esercizio di una impresa
non può coesistere in questa circostanza di fatto, meramente negativa e del tutto generica, che
sarebbe di per sé idonea a assumere rilevanza al fine di escludere l’applicabilità delle norme che
necessariamente presuppongono la natura imprenditoriale dell’attività del datore di lavoro con cui il
prestatore deve collaborare.
La specialità dei rapporti di lavoro che vengono evocati dall’articolo 2239 del Codice Civile,
dipende quindi non dalla mancanza di una correlazione funzionale, strutturale e dinamica con
questo tipo di organizzazione, ma dall’esistenza di questa correlazione con un altro tipo di
organizzazione; sono infatti le caratteristiche proprie del contesto organizzativo che possono avere
una influenza sul modo di porsi e di svolgersi del lavoro subordinato nel suo ambito, determinando
la specialità del rapporto. Deve invece essere intesa diversamente la specialità dei rapporti di
lavoro subordinato considerati tali anche se hanno ad oggetto una prestazione di lavoro da
eseguire “nell’impresa”: vedremo infatti in seguito che lo schema causale tipico del contratto, che
è costituito dallo scambio tra lavoro subordinato e retribuzione, si trova in combinazione con un
altro interesse perseguito da una delle parti, e cioè la formazione professionale del lavoratore non
qualificato, il decentramento produttivo dell’attività imprenditoriale.
Intesa in questo modo, la specialità del rapporto di lavoro subordinato può essere riscontrata anche
in altre fattispecie negoziali non previste dal codice civile, ma emerse successivamente con
rilevanza sul piano normativo come strumenti operativi adeguati alle finalità dell’impresa e ai
bisogni dei lavoratori, in un contesto tecnico – organizzativo e socio – economico: questo deve
ritenersi sia avvenuto per il contratto di formazione e lavoro.
Si deve inoltre osservare che le peculiarità funzionali da cui deriva la specialità di questi rapporti
possono riprodursi in senso trasversale alla distinzione tra lavoro subordinato inerente o non
inerente all’esercizio di una impresa: basta pensare all’art. 2239 che tra le norme applicabili ai
rapporti non inerenti all’esercizio di una impresa richiama anche quelle in tema di lavoro a
domicilio o di apprendistato, e all’art. 36 della Costituzione che prevede la possibilità per le
pubbliche amministrazioni di avvalersi dei contratti di formazione e lavoro per l’assunzione del
personale.

CONTRATTI SPECIALI DI LAVORO

L’APPRENDISTATO

LA RILEVANZA DELLA FINALITA’ FORMATIVA NELLA CAUSA DEL


CONTRATTO

L’apprendistato (tirocinio nel c.c.) è nato molto prima del odierno contratto di
lavoro. L’apprendistato delle origini era inteso e regolato, negli statuti delle
corporazioni medievali, come un periodo di preparazione all’esercizio di un’arte
o di una professione, al quale si era legittimati soltanto previa iscrizione ad una
corporazione di artigiani o di maestri, ammissibile una volta compiuto tale
periodo con esito positivo. In tale significato si può dire che l’apprendistato sia
sopravvissuto in una figura tipica e cioè il praticantato richiesto come
presupposto per l’esame di abilitazione il quale non da luogo all’instaurazione
di un rapporto di lavoro subordinato, di qualsiasi specie e perciò si distingue
anche dal rapporto di apprendistato nella sua configurazione attuale.
In epoca moderna l’apprendistato è servito specialmente nei settori della
produzione industriale e artigianale, a consentire o a promuovere l’ingresso di
giovani non ancora qualificati nel mondo del lavoro attraverso una formazione
pratica conseguita progressivamente in virtù del continuativo inserimento in un
contesto aziendale con l’esperienza maturata e l’insegnamento ricevuto
lavorando tutto il tempo necessario.
Cosciente del valore formativo dell’istituto, il legislatore, in armonia con i
principi costituzionali, ha cercato di favorirne la diffusione attraverso:
• Sensibile contenimento dei costi della tutela previdenziale
• Rinvio alla contrattazione collettiva in ordine alla determinazione, anche
in misura inferiore, dei trattamenti retributivi.
Poiché l’addestramento dell’apprendista, nella prassi aziendale, implica
necessariamente un insegnamento innestato sullo svolgimento del
lavoro corrispondente alla qualificazione perseguita, tale prestazione è
stata costantemente considerata IMPRESCINDIBILE assumendo RILEVANZA
ESSENZIALE per la stessa configurabilità dell’istituto oltre che per l’attuazione
della sua peculiare funzione.
La NATURA GIURIDICA dell’istituto è cambiata nel tempo:
Attività esecutiva di un contratto d’opera impropriamente
d compensata con la controprestazione dell’apprendista
a

Sorta di corrispettivo in natura , integrato da un


a accessoria retribuzione in denaro, della prestazione
principale oggetto del rapporto di lavoro, identificata con
il lavoro subordinato dell’apprendista

L’apprendistato è disciplinato dal codice civile agli articoli 2130 -2134 c.c.
(base della normativa!!):

Art 2130 c.c. – Durata del tirocinio – “ Il periodo di tirocinio non può
superare i limiti stabiliti dalle norme corporative o dagli usi “

Art 2131 c.c. – Retribuzione – “ la retribuzione dell’apprendista non può


assumere la forma di salario a cottimo”

Art 2132 c.c. – Istruzione professionale – “ L’imprenditore deve permettere


che l’apprendista frequenti i corsi per la formazione professionale e deve
destinarlo soltanto ai lavori attinenti alla specialità professionale a cui si
riferisce il tirocinio”

Art 2133 c.c. – Attestato di tirocinio – “ Alla cessazione del tirocinio,


l’apprendista, per il quale non è obbligatorio il libretto di lavoro, ha diritto di
ottenere un attestato del tirocinio compiuto”

Art 2134 c.c. – Norme applicabili al tirocinio – “ al tirocinio si applicano le


disposizioni della sezione precedente, in quanto siano compatibili con la
specialità del rapporto e non siano derogate da disposizioni delle leggi speciali
o da norme corporative”

L’apprendistato che non viene definito è visto come un distinto tipo di rapporto
a se stante ma come un PERIODO DETTO DI TIROCINIO ossia come una fase di
un rapporto di lavoro subordinato nel cui ambito ha rilievo preminente lo
scambio tra la collaborazione dell’apprendista nell’impresa e la retribuzione
dovuta all’imprenditore. L’ISTRUZIONE PROFESSIONALE (art 2132 c.c.) è
elemento ulteriore che determina la SPECIALITA’ DEL RAPPORTO e giustifica le
deviazioni della sua regolamentazione (come quella prevista per la
retribuzione) da quella prevista dalla sezione precedente e cioè del rapporto di
lavoro.
Con tale impostazione del codice è coerente da definizione data dalla legge
25/1955 all’art 2 comma 1

“L’apprendistato è uno speciale rapporto di lavoro in forza del quale


l’imprenditore è obbligato ad impartire o far impartire, nella sua impresa
all’apprendista assunto alle sue dipendenze, l’insegnamento necessario perché
possa conseguire la capacità tecnica per diventare lavoratore qualificato,
utilizzandone l’opera dell’impresa medesima”

Questo articolo mette appunto in evidenza che la peculiarità di questo


rapporto consiste nell’obbligo di insegnamento dal quale
l’imprenditore è vincolato nei confronti dell’apprendista, la cui
posizione sotto ogni altro profilo non differisce da quella di qualsiasi altro
lavoratore “assunto alle sue dipendenze” per la prestazione del proprio lavoro
verso il corrispettivo di una retribuzione.
Sulla base di tale definizione dottrina e giuri prevalenti ritengono che
l’apprendistato sia un contratto a causa mista, con interferenza DEL
MOMENTO FORMATIVO nello schema tipico del rapporto di lavoro.
In tal senso si è pronunciata anche la Corte Costituzionale nella sentenza
14/1970 che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art 10 della legge
604/1966 in quanto non contempla gli apprendisti tra i beneficiari
dell’indennità di anzianità muovendo dalla considerazione che i due profili
casuali coesistono senza che l’uno assorba l’altro.

NB: la prestazione di lavoro è in posizione sinallagmatica solo con la


retribuzione non con l’insegnamento con il quale ha invece in comune la
funzione di consentire all’apprendista di conseguire la capacità tecnica per
diventare lavoratore qualificato. Esso quindi nel rapporto di apprendistato è
oggetto sia di un obbligo che di un diritto per il lavoratore!! (come quello per il
lavoratore in prova)

LE NUOVE TIPOLOGIE

La legge Biagi (D.lvo n° 276/2003) è intervenuto con norme innovative in


materie di apprendistato con norme innovative (art 47 – 53) riguardanti la
configurazione e la disciplina dei contratti di apprendistato.
In particolare il legislatore individua tre tipologie di apprendistato ciascuna
delle quali ha specifiche finalità formative e corrispondenti peculiarità nella
relativa disciplina:

1. art 48 APPRENDISTATO PER L’ESERCIZIO DEL DIRITTO-DOVERE DI


ISTRUZIONE E FORMAZIONE : i giovani e gli adolescenti che abbiano
compiuto i quindici anni di età, adempiuto l’obbligo scolastico, possono,
in alternativa al secondo ciclo di istruzione optare per la
stipulazione di un contratto di apprendistato della durata
massima di 3 anni, con cui conseguire una qualifica
professionale.
2. art 49 APPRENDISTATO PROFESSIONALIZZANTE al fine di ottenere
un più alto livello di qualificazione mediante la formazione sul
lavoro e apprendimento integrativo. È consentito ai giovani con età
minima di 18 anni e max di 29 per un periodo compreso tra almeno
due e non più di sei anni con la possibilità di sommatoria con
l’apprendistato svolto per l’esercizio del diritto dovere di istruzione e
formazione.

3. art 50 APPRENDISTATO PER L’ACQUISIZIONE DI UN DIPLOMA DI


SCUOLA SUPERIORE O PER PERCORSI DI ALTA FORMAZIONE
ANCHE UNIVERSITARIA O POST UNIVERSITARIA

Questo assetto diventerà operante solo quando ne sarà completato il


complesso contesto normativo. Infatti tali disposizioni devono essere integrate
da ulteriori interventi legislativi statali e regionali nonché da regolamenti
ministeriali e da contratti collettivi nonché da convenzioni tra le Regioni e le
principali istituzioni investite nell’ambito territoriale di competenze nel campo
della formazione.
In attesa rimane in vigore la precedente disciplina dell’istituto alla quale per
ora si deve far riferimento.

LA DISCIPLINA DEL RAPPORTO

Il rilievo della finalità formativa durante il periodo di tirocinio traspare da una


molteplicità di previsioni normativi che ritroviamo in diverse fonti legislative:
• L 25/1955 e modifiche
• Disciplina del codice
• Art 1-3 L. 2 aprile 424/1968
• Art 21 L. 56/1987
• Art 16 L. 196/1997
• Ampia normativa collettiva

Il legislatore ha innanzitutto previsto dei LIMITI:

1. ALLA CAPACITA’ GIURIDICA DEL LAVORATORE e ALLA CAPACITA’


DI AGIRE DI ENTRAMBE LE PARTI ispirati alla necessità di
circoscrivere l’utilizzazione del contratto di apprendistato, che comunque
è ammessa per tutti i settori compreso il settore impiegatizio, soltanto in
vista di una finalità formativa almeno in via preventiva effettivamente ed
utilmente perseguibile.
Quindi l’utilizzo del contratto di apprendistato è ammissibile:
• Soltanto per la fascia di età compresa tra 16 e 24 anni (a 26 area 1
e 2 aree CEE)
• Spostata a 18 e 26 (o 28) per i portatori di Handicap
• Il limite minimo può scendere fino a 15 anni per chiunque abbia
adempiuto agli obblighi scolastici
• Limite massimo elevabile fino a 29 anni dai contratti collettivi
nazionali di categoria del settore artigiano per qualifiche ad alto
contenuto professionale
2. L’art 47 comma 2 del D.lvo 276/2003 con il fine di evitare uno
snaturamento del rapporto VIETA ALL’IMPRENDITORE di assumere
apprendisti in misura superiore al 100% dei dipendenti qualificati e
“specializzati” in servizio, salvo consentire al piccolo imprenditore senza
o con meno di 3 dipendenti qualificati o specializzati di assumere fino a
un massimo di 3 apprendisti.

Anche per gli apprendisti il rapporto di lavoro viene ad essere instaurato con
ASSUNZIONE DIRETTA ammessa invero per qualsiasi tipologia contrattuale.
Costituito il rapporto il PERIODO DI PROVA eventualmente convenuto si
presenta subito come espressione della duplice funzione dell’apprendistato
infatti l’art 9 della legge 25/1955 che espressamente ne prevede
l’ammissibilità
• da un lato fa rinvio all’art 2096 c.c. per la sua disciplina
• dall’altro introduce un limite massimo di durata di 2 mesi giustificato
dalla finalità formativa del rapporto con il quale è considerato
inconciliabile l’ulteriore protrarsi dell’incertezza di una parte sul
gradimento dell’altra.
Fin dall’inizio (art 11 legge 25/1955) il
• datore di lavoro è OBBLIGATO AD ADEMPIERE O FAR IMPARTIRE NELLA
SUA IMPRESA L’ADDESTRAMENTO NECESSARIO all’apprendista
• l’apprendista a sua volta è OBBLIGATO A SEGUIRE TALE
INSEGNAMENTO
Per quanto riguarda INSEGNAMENTO COMPLEMENTARE questo:
• deve avere una durata minima di almeno 120 ore annue
• tale durata deve essere ripartita tra:
- contenuti formativi a carattere trasversale (35%)
- contenuti formativi a carattere professionalizzante
OBBLIGATO PRINCIPALE è l’apprendista (che deve frequentare con
assiduità i relativi corsi) mentre il datore di lavoro ha soltanto OBBLIGHI
COLLATERALI e STRUMENTALI (collaborare con gli enti pubblici e privati
preposti all’organizzazione dei corsi, permettere all’apprendista di frequentare i
corsi aaccordando permessi retribuiti.
L’eventuale inadempimento dell’una o dell’altra parte non ha la
medesima rilevanza dal punto di vista del sinallagma contrattuale.
Infatti:

• inadempimento dell’apprendista solo se comporta una assenza


ingiustificata o una violazione del dovere di obbedienza o diligenza può
dar luogo al recesso per giusta causa. Altrimenti in coerenza con la
finalità formativa del rapporto sono ipotizzabili soltanto indiretti
strumenti coercitivi o persuasivi (rimprovero verbale o scritto…)
• posizione passiva del datore di lavoro tutti gli obblighi anche se
secondari dell’imprenditori alla formazione dell’apprendista sono tutti
assistiti da sanzioni amministrative le quali hanno un considerevole
valore dissuasivo e permettono l’identificazione della misura della gravità
dell’inadempimento, automaticamente configurabile come giusta causa
di dimissioni.
La finalità formativa agisce anche sulla struttura del rapporto di lavoro
modificando in senso riduttivo sia il potere direttivo che disciplinare:
• è espressamente vietato adibire l’apprendista a
- mansioni non attinenti alla qualifica da perseguire;
- manovalanza e produzione in serie
- lavorazioni retribuite a cottimo o ad incentivo
• è inapplicabile la sanzione della sospensione dal lavoro e della
retribuzione
L’ esercizio del potere direttivo oltre i limiti stabiliti è privo di efficacia e
soggetto a sanzione amministrativa.

Per quanto riguarda la RETRIBUZIONE la qualificazione dell’attività svolta


dall’apprendista come lavoro subordinato retribuito comporta
l’APPLICABILITA’ DELL’ART 36 COST.
Il giudizio di proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla
qualità del lavoro prestato deve tener conto della fittizia equiparazione
fatta all’art 10 comma 2 della legge 25/1955 “ Le ore destinate
all’insegnamento complementare sono considerate a tutti gli effetti, ore
lavorative e computate nell’orario di lavoro”. il giudizio della sufficienza della
retribuzione ad assicurare all’apprendista un’esistenza libera e dignitosa deve
tener conto di quanto stabilito all’art 11 lettera c L.25/1955 che prevede “di
osservare le norme dei contratti collettivi di lavoro e di retribuire l’apprendista
in base ai contratti stessi”. Quindi per la determinazione della retribuzione si
dovrà tener presente di quanto stabilito dalla contrattazione collettiva . (NO
ERGA OMNES???)

La DURATA DELL’APPRENDISTATO non può uscire dai limiti legali previsti


che sono massimo di 4 anni e un minimo di 18 mesi. All’interno di tale
intervallo la contrattazione collettiva può disporre sempre però con “esclusivo
riferimento al periodo necessario all’apprendimento”.l
Comunque secondo la dottrina e la giurisprudenza il rapporto di
apprendistato si costituisce a tempo indeterminato ed è sottoposto
nel corso del suo svolgimento alla disciplina del recesso dai rapporti di
lavoro di questo tipo. In tal senso viene in evidenza la sentenza della Corte
Costituz. Che ha dichiarato illegittimo l’art 10 della legge 604/66 in quanto tale
articolo delimita il proprio campo di applicazione con riferimento solo agli
operai e agli impiegati e quindi esclude gli apprendisti.
Inoltre la funzione di scambio che sta alla base del rapporto di lavoro si
manifesta evidente quando il periodo di apprendistato volge al termine in
quanto l’art 19 della legge 25/1955 (legittimo secondo la Cosrt Cost. come
espressione della sua specialità) prevede la NECESSITA’ della disdetta a
norma dell’art 2118 c.c. da parte dell’imprenditore che intenda evitare
la continuazione , altrimenti automatica del rapporto di lavoro, considerato
tale dall’inizio anche ai fini dell’anzianità di servizio, con l’apprendista ormai
qualificato.
Alla cessazione del rapporto l’imprenditore è tenuto a rilasciare all’apprendista
un certificato delle competenze professionali acquisite.

L’ambivalenza dell’apprendistato trova conferma anche nelle AGEVOLAZIONI


CONTRIBUTIVE PREVISTE infatti tali benefici:
1. da un lato sono rivolte ad incentivare la finalità formativa del rapporto
2. vengono mantenuti fino a un anno dopo la sua trasformazione in
rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

È da evidenziare come sia innovativa la normativa in materia di


agevolazione fiscale prevista all’art 16 della legge 196/1997 la quale
prevede che tali agevolazioni siano condizionate non solo dall’esistenza del
rapporto di apprendistato ma anche dall’adempimento da parte del
imprenditore di consentire ai propri apprendisti la partecipazione alla
formazione esterna all’azienda.

Infine dobbiamo rilevare che la previsione all’art 21 comma 7 legge 56/1987


dell’esclusione degli apprendisti dal computo del numero dei
dipendenti nei casi in cui esso abbia rilevanza per leggi o contratti
collettivi ai fini della “applicazione di particolari normativi o istituti”
in materia di lavoro subordinato si giustifica unicamente per la necessità di
incentivare la creazione di nuovi posti di lavoro in presenza di una grave ed
acuta crisi dell’occupazione giovanile.

ILCONTRATTO D’INSERIMENTO

IL PROBLEMA DELL’OCCUPAZIONE GIOVANILE E IL CONTRATTO DI


FORMAZIONE E LAVORO

Con l’intento di trovare una soluzione al problema della disoccupazione


dei giovani il legislatore è intervenuto a più riprese cercando sempre di
collegare tale obbiettivo con la necessità di soddisfare la concomitante
esigenza di assicurare la formazione indispensabile per l’ingresso nel
mercato del lavoro.
In tale prospettiva si inserisce l’art 3 della legge 863/1984 la quale ha
previsto una nuova figura negoziale: IL CONTRATTO DI FORMAZIONE E
LAVORO e cioè un contratto di lavoro nel cui schema causale acquista
rilevanza anche una finalità formativa.
Esso è stato accolto con favore dai datori di lavoro legittimati a stipularlo
soprattutto grazie a:
• insieme di incentivi stabiliti dallo stesso art 3 della legge 863/1984
• concessione da parte della contrattazione collettiva ad un
inquadramento dei lavoratori in formazione inferiore fino a due
livelli rispetto a quello corrispondente alla professionalità da acquisire
(minor retribuzione)

tuttavia risultò evidente che in molti casi il contratto di formazione e lavoro si


era prestato, di fatto, ad un uso distorto esclusivamente finalizzato al
godimento dei relativi benefici.
Il legislatore decise quindi di intervenire ma non mettendo in evidenza la
portata degli obblighi formativi o potenziando i controlli bensì decise:
• in un primo momento di eliminare alcuni dei vantaggi previsti (art 8
legge 407/90)
• in un secondo momento, per evitare una reazione negativa da parte dei
datori di lavoro dall’ inversione di tendenza un rinnovato sostegno (L.
451/1990 disciplina organica attuale)

QUALIFICAZIONE E TIPOLOGIE DI CONTRATTO DI FORMAZIONE E


LAVORO

Per quanto riguarda la qualificazione giuridica del contratto di formazione e


lavoro la prevalente dottrina e la giurisprudenza dominante sono dell’avviso
che la formazione sia un elemento che assume rilevanza sotto il profilo
causale, determinando la specialità di questa figura negoziale nell’area del
lavoro subordinato. La consolidata giurisprudenza è arrivata a configurarlo
come UN CONTRATTO DI LAVORO A CAUSA MISTA caratterizzato dallo scambio
tra lavoro subordinato e retribuzione nel quadro di un processo attuativo del
rapporto obbligatorio finalizzato ad un risultato formativo predeterminato.
In tal modo si giustificano :
• rigoroso inquadramento nel tipo contrattuale del lavoro subordinato
• deroghe espressamente previste alla relativa disciplina
• deroghe presumibili dal limite della compatibilità con la specialità del
rapporto.
Questa qualificazione non consente una differenziazione dal contratto di
apprendistato : entrambe hanno il medesimo fine anche se la giurisprudenza
ha tenuto sottolineare che in realtà mentre il contratto di apprendistato è volto
alla mera acquisizione della professionalità quello di formazione –lavoro
all’attuazione di una sorta di ingresso guidato del giovane nel mondo del
lavoro. (ma in realtà vi è una parziale sovrapposizione).
Inoltre questa configurazione cos generica del profilo causale del contratto di
formazione e lavoro risulta idonea a comprendere nel suo ambito la
suddivisione in tipologie successivamente prevista all’art 16 comma 12 della
legge 451/1994 che ha distinto tra contratto di formazione e lavoro:
• mirato alla acquisizione di professionalità intermedie o elevate
• mirato ad agevolare l’inserimento professionale mediante un’esperienza
lavorativa che consenta un adeguamento delle capacità professionali al
contesto organizzativo e produttivo;
queste due tipologie infatti si differenziano solo per durata massima del
contratto (12 e 24 mesi) modalità di erogazione dei contributi. Nonostante la
distinzione anche per il contratto di più breve durata è comunque necessario
una fase formativa sia pur limitata nel tempo ???

la parziale sovrapposizione funzionale tra contratto di formazione e lavoro e di


apprendistato e la divaricazione anche qualitativa tra le due tipologie in cui il
contratto di formazione e lavoro è stato articolato hanno infine portato al
provvedimento con cui il legislatore ha conferito al governo il compito di curare
il riordino dei contratti con contenuto formativo.
Conseguentemente il Governo è intervenuto oltre che per una revisione
della disciplina in materia di apprendistato, anche nel contiguo settore
del contratto di formazione e lavoro che mantiene inalterata la propria
configurazione e la vigente disciplina soltanto per le P.A. mentre viene
soppresso per gli altri datori di lavoro.
IL NUOVO CONTRATTO DI INSERIMENTO

In luogo dei contratti di formazione lavoro è ora prevista la possibilità di


stipulare un nuovo contratto di lavoro a contenuto formativo IL CONTRATTO DI
INSERIMENTO (art 54-59 D.Lvo 276/2003) che peraltro non è consentito alle
Pubbliche Amministrazioni (art 1 comma 2 del decreto).

Esso viene definito all’art 54

- Definizione e campo di applicazione - “Il contratto di inserimento è un


contratto di lavoro diretto a realizzare, mediante un progetto
individuale di adattamento delle competenze professionali del
lavoratore a un determinato contesto lavorativo, l’inserimento ovvero
il reinserimento nel mercato…” -

il progetto individuale , in cui devono essere specificati i modi, mezzi e


percorsi dell’adattamento alla struttura nella quale il lavoratore viene inserito
viene direttamente proposto al lavoratore, il cui consenso a riguardo è richiesto
per il perfezionamento dell’intesa negoziale, all’atto di assunzione con il
contratto di inserimento.
La sfera soggettiva di applicazione della nuova figura contrattuale (art 54
commi 1 e 2 ) risulta notevolmente ampliata specialmente dalla parte dei
lavoratori che possono essere:
- soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni;
- disoccupati di lunga durata da 29 fino a 32 anni;
- lavoratori con più di 50 anni di età privi di un posto di lavoro;
- lavoratori che desiderino riprendere una attività lavorativa e che non abbiano
lavorato da almeno due anni;
- donne di qualsiasi età residenti in un area . . .
- persone affette da grave handicap fisico e mentale.

L’art 59 del medesimo decreto 276/2003 riguarda gli incentivi economici e


normativi e in questo caso è da sottolineare che:
• vengono confermati (con esclusione dei rapporti con i giovani tra i 18 e i
29 anni di età i benefici contributivi già riconosciuti ai contratti di
formazione e lavoro a norma del Regolamento CE 2004/2002
• vengono accentuati gli “incentivi economici e normativi” con:
- la riconosciuta possibilità di inquadramento in una categoria
fino a due livelli inferiore a quella da conseguire al termine del
rapporto;
- l’esclusione dal computo numerico dei dipendenti, a qualsiasi
effetto rilevante, anche ai fini del licenziamenti individuali e collettivi

L’art 56 del decreto riguarda invece la forma e viene sancita per il contratto di
inserimento la forma scritta ab substantiam inoltre viene specificato che
nel contratto deve essere indicato il progetto individuale di inserimento.

All’art 57 viene presa in considerazione la durata la quale è relativamente


breve e deve essere compresa tra i 9 e i 18 mesi (36 per quelli con evidenti
handicap). Viene specificato che nel computo della durata massima non si
tiene conto delle eventuali sospensioni dipendenti da:
- servizio militare o civile
- periodi di astensione per maternità
Il contratto di inserimento non è rinnovabile con lo stesso datore di
lavoro e è ammessa la proroga entro però i limiti massimi stabiliti.

La finalità promozionale di uno sbocco occupazionale stabile


nell’organismo aziendale in cui il lavoratore si è inserito è perseguita con
particolare vigore dall’art 54 comma 3 che impone a chi intende assumere
con un contratto di inserimento la imprescindibile condizione di aver
mantenuto in servizio con rapporti di lavoro a tempo indeterminato almeno il
60% dei lavoratori titolari di un contratto di inserimento scaduto nei 18 mesi
precedenti con un modesto temperamento in quanto è stabilito che a tal fine
non si computano:
- i lavoratori che si sono dimessi;
- licenziati per giusta causa;
- quelli che hanno rifiutato di rimanere in servizio;
- quelli risolti nel corso del periodo di prova . . .
Questa nuova opportunità è diventata ben presto utilizzabile grazie alla
stipulazione dell’’Accordo Interconfederale, con efficacia provvisoria e
sussidiaria rispetto alla futura contrattazione collettiva nazionale o
aziendale,che ha stabilito le modalità di previsione dei programmi individuali di
inserimento, necessarie per l’attivazione dell’autonomia negoziale dei singoli.

Al di la di quanto stabilito dagli art 54-59 del decreto e salvo diversa (anche
peggiorativa) disciplina da parte della contrattazione collettiva richiamata,
l’art 58 dispone che ai contratti di inserimento, in quanto stipulati con
un termine di durata, trovi applicazione la disciplina generale dei
contratti a tempo determinato ora D.l.vo 368/2001 . peraltro la disciplina
del contratto di lavoro a tempo determinato vale solamente nei limiti della sua
compatibilità con un parametro di riferimento che però non è
espressamente indicato ma che comunque si può ritenere la prevalenza delle
disposizioni contenute nello stesso decreto, appositamente dettate per il
contratto di inserimento. (es prorogabilità nella normativa del contratto
inserimento ammessa anche più di una volta nel contratto a tempo
determinato la disciplina è diversa).

LA SPECIALITA’ DEL CONTRATTO DI INSERIMENTO

La fisionomia del contratto di inserimento non è nitida ma nonostante ciò non è


convincente sostenere che il contratto di inserimento non ha una funzione
formativa ma sia volto solamente al sostegno di categorie disagiate di
lavoratori o sostenere comunque che la finalità formativa sia combinata , in
misura e con modalità imprecisate, con quella prevalente e caratterizzante, di
promozione dell’occupazione.

Appare maggiormente plausibile la posizione di chi sostiene che il contratto


di inserimento sia caratterizzato come il contratto di apprendistato e di
formazione lavoro da una causa mista che ne comporta l’inserimento fra
i contratti speciali. Ma a ben guardare anche questa posizione risulta
contraddittoria perché:
• da un lato esclude che nel contratto di inserimento il datore di lavoro sia
obbligato alla formazione
• dall’altro non indica quale sarebbe in tale contratto l’elemento funzionale
da considerare in commistione con lo scambio tra lavoro subordinato e
retribuzione.

Prendendo in considerazione gli articoli del del D.lvo 276/2003 possiamo subito
evidenziare due cose:
• art 55 comma 4 “la formazione eventualmente effettuata durante
l’esecuzione del rapporto di lavoro dovrà essere registrata nel libretto
formativo” ; la formazione quindi per il legislatore delegato è meramente
eventuale nel contratto di inserimento che sotto questo profilo non si
distingue da qualsiasi altro contratto di lavoro a tempo determinato
• art 55 comma 1 “ Condizione per l’assunzione con contratto di
inserimento è la definizione . . . di un progetto individuale di
inserimento finalizzato a garantire l’adeguamento delle competenze
professionali del lavoratore stesso al contesto lavorativo” . Il progetto
appare come elemento essenziale del contratto di inserimento. Più
propriamente l’art 59 comma 1 sancisce che il progetto individuale di
inserimento è preordinato al conseguimento delle superiori
qualificazioni nelle quali si concreterà al termine del rapporto, il
progressivo adeguamento delle capacità professionali del lavoratore
avvenuto nel corso del suo svolgimento.

Coerentemente quindi il legislatore delegato ha ravvisato nel progetto


individuale lo stesso oggetto del contratto di inserimento in quanto sta
a rappresentare il modo di essere della prestazione lavorativa, che non è
fine a stessa in funzione del corrispettivo ma è orientata ad un risultato
migliorativo della ‘professionalità del lavoratore,che può essere
considerato, in definitiva, sostanzialmente formativo.

In questa prospettiva di inscindibile connessione tra inserimento mirato e


correlativa formazione che l’Accordo interconfederale del 2004 ha restituito il
massimo rilievo ad un vero e proprio momento formativo stabilendo che il
progetto individuale abbia un contenuto necessario, costituito dalla:
• qualificazione da perseguire
• durata e modalità della formazione . . .

La qualificazione giuridica del progetto individuale di inserimento


come “oggetto” del relativo contratto ne comporta l’innesto
nell’ambito degli elementi costitutivi dello scambio, con conseguente
alterazione della causa negoziale che pertanto assume una connotazione mista
(non diversa da quella dei tradizionali contratti di inserimento)
Significativa è la rilevanza assegnata alle “gravi inadempienze” del
datore di lavoro nella “realizzazione del progetto individuale di
inserimento” che vengono appositamente sanzionate non sul piano
civilistico con la conversione del contratto di inserimento in contratto di lavoro
a tempo indeterminato (come era previsto per il contratto di formazione lavoro)
ma esclusivamente obbligando il datore di lavoro al versamento pari al
doppio dei contribuiti previdenziali risparmiati (art 55 comma 5) .

IL LAVORO A DOMICILIO

LA PROGRESSIVA ATTRAZIONE DEL LAVORO A DOMICILIO NELL’AREA


DEL LAVORO SUBORDINATO FINO AL CODICE CIVILE DEL 1942

Per lungo tempo il lavoro a domicilio, inteso come quel lavoro socialmente
caratterizzato dal luogo di svolgimento della prestazione che può
essere eseguito per conto di imprenditori o di consumatori da una
persona fisica sprovvista della qualità di imprenditore, indistintamente
considerato lavoro autonomo prestato sulla base di un contratto d’opera.

Espansione del fenomeno


nell’ambito della produzione

Penetrante attenzione da parte di studiosi e maggiore sensibilità da parte


del mondo sindacale e politico che mise in evidenza i connessi problemi sociali
e le correlative esigenze di tutela. Ma le istituzioni dello stato liberale non
arrivarono a concretare una qualsiasi produzione normativa in materia .

Ordinamento corporativo prese in considerazione il lavoro a domicilio come


fattispecie passibile della disciplina in materia di lavoro subordinato (norme del
1923/24) Nella Carta dei lavoratori del 1927 i lavoratori a domicilio furono
riconosciuti come destinatari della contrattazione collettiva e di speciali norme

La nuova impostazione poneva le basi per un sostanziale mutamento nella


qualificazione giuridica del lavoro a domicilio dando rilevanza alla distinzione
tra:
• Lavoro a domicilio compiuto per conto di consumatori
• Lavoro a domicilio compiuto per conto di imprenditori (almeno in
parte assimilato al lavoro subordinato)
Art 2128 c.c. – Lavoro a domicilio – “ Ai
prestatori di lavoro a domicilio si applicano le
disposizioni di questa sezione, in quanto
compatibili con la specialità del rapporto” .

Il processo evolutivo ha trovato risposta in questo articolo del codice il quale


ha previsto l’applicabilità al lavoro a domicilio per conto di uno o più
imprenditori dell’intera disciplina del codice sui rapporti di lavoro
subordinato . Il lavoro a domicilio viene pienamente inserito nel sistema del
diritto del lavoro nel cui ambito le peculiarità relative al luogo della
prestazione vengono a conseguire rilevanza limitativa del campo di

DALL’ART 2128 C.C. ALLA LEGGE 877/1973

Con la caduta dell’ordinamento corporativo e delle sue norme di


inquadramento delle categorie professionali l’art 2128 c.c. fu privato dei
collegamenti cha facevano da sostegno alla sua generica previsione e
di conseguenza sorsero difficoltà interpretative che si aggravarono con il
tempo anche a causa delle oscillazioni della giurisprudenza e per l’ambiguità
dei nuovi contratti collettivi.
Così per:
• necessità di superare le persistenti incertezze
• migliorare la situazione occupazionale italiana
fu emanata la LEGGE n° 264/1958 la quale però venne totalmente
abrogata, causa la sua inefficienza dalla legge 877/1973.

La legge 264/58 superava l’impostazione dell’art 2128 c.c. in quanto la


specialità del lavoro a domicilio veniva assunta :
• come criterio negativo per la verifica della compatibilità di norme relative
al lavoro nell’impresa
• ma soprattutto come baricentro di una distinta e autonoma disciplina che
assorbiva anche le precedenti e particolari disposizioni di estensione ed
esclusione , pur lasciando un largo margine alla residua applicabilità
dell’art 2128 c.c.
Per delimitare l’ambito di applicazione della disciplina vengono richiamati
diversi elementi:
• esecuzione del lavoro per conto di uno o più imprenditori
• proprio domicilio
• eventuale aiuto dei soli familiari
Entro questi confini la legge aveva previsto una barriera formale (iscrizione
all’Albo degli artigiani) in modo tale da ridurre il problema della
qualificazione del lavoro a domicilio alla sola alternativa tra lavoro subordinato
e autonomo da risolvere quindi basandosi sugli art 2222 c.c. (imprenditore) e
2094 c.c. (lavoratore subordinato).
Sennonché tale previsione non si rivelò sufficiente in quanto:
• da un lato molti lavoratori a domicilio si sono spacciati per
artigiani per il solo fatto dell’iscrizione all’albo di questa categoria
• dall’altro il riferimento alla subordinazione nel significato dell’art
2094 c.c. aveva frenato una possibile inversione di tendenza nella
rigida interpretazione della portata del vincolo
Si rese quindi necessaria una revisione di tale disciplina che venne appunto
abrogata.

LA VALUTAZIONE NORMATIVA DEL LAVORO A DOMICILIO COME


STRUMENTO DI DECENTRAMENTO PRODUTTIVO

La legge del 1973 è ispirata ad un criterio di valutario del lavoro a domicilio che
tiene conto della sua CONNESSIONE FUNZIONALE COME FORMA DI
DECENTRAMENTO PRODUTTIVO, CON LE STRUTTURE ORGANIZZATIVE
DELL’IMPRESA.
Ciò è evidente sia dalla lettura dell’art 1 che definisce tale contratto di lavoro
che dall’art 2 il quale evidenzia i limiti di ammissibilità del lavoro a domicilio

Art 1 Legge 877/1973 prevede che

È lavoratore a domicilio chiunque, con vincolo di subordinazione, esegue nel


proprio domicilio o in locale di cui abbia disponibilità, anche con l’aiuto
accessorio di membri della sua famiglia conviventi e a carico, ma con
l’esclusione di manodopera salariata e di apprendisti, lavoro retribuito per
conto di uno o più imprenditori, utilizzando materie prime o accessorie e
attrezzature proprie o dello stesso imprenditore, anche se fornite per il tramite
di terzi.
La subordinazione agli effetti della presente legge e in deroga a quanto
stabilito dall’art 2094 c.c., ricorre quando il lavoratore a domicilio è tenuto ad
osservare le direttive dell’imprenditore circa le modalità di esecuzione, le
caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere nella esecuzione parziale, nel
completamento o nell’intera lavorazione di prodotti oggetto dell’attività
dell’imprenditore committente.
Non è lavoratore a domicilio e deve a tutti gli effetti considerarsi dipendente
con rapporto di lavoro a tempo indeterminato chiunque esegue, nelle
condizioni di cui ai commi precedenti, lavori in locali di pertinenza dello stesso
imprenditore, anche per l’uso di tali locali e dei mezz’idi lavoro in esso
esistenti corrisponde al datore di lavoro un compenso di qualsiasi natura.
La connessione funzionale risulta innanzitutto evidente dai limiti di
ammissibilità al lavoro a domicilio posti all’art 2 della legge che si possono
riassumere:
• il lavoro a domicilio è espressamente vietato sia alle imprese in fase di
ristrutturazione, riorganizzazione o riconversione che abbiano licenziato o
sospeso dipendenti in connessione con tali processi;
• è vietato per le imprese che abbiano ceduto a qualsiasi titolo macchinari
e attrezzature per proseguire all’esterno la medesima attività produttiva
prima svolta nei propri reparti;
• divieto di avvalersi dell’opera di mediatori e intermediari (per evitare la
formazione di qualsiasi iniziativa speculativa di sostegno alla diffusione di
questa forma di decentramento produttivo)
• divieto di affidare l’esecuzione di lavorazioni nocive o pericolose a
soggetti operati al di fuori della struttura imprenditoriale.
Essa è comunque chiaramente evidenziabile anche dall’art 1 della legge il
quale descrive in modo unitario , esclusivamente dal punto di vista della sua
dislocazione funzionale per l’impresa , gli elementi costitutivi di una figura
indifferenziata comprensiva:
• dell’aiuto di soli familiari conviventi e a carico
• dell’utilizzo di materie prime e attrezzature che possono essere sia
dell’imprenditore che del lavoratore.

L’art 1 dopo aver configurato il lavoro a domicilio come FORMA DI


DECENTRAMENTO PRODUTTIVO ha stabilito che per quanto riguarda la
subordinazione si deroga all’art 2094 .c. sia pure limitatamente agli effetti della
legge.

GLI ASPETTI DEROGATORI NELLA SUBORDINAZIONE DEL LAVORATORE


A DOMICILIO

Il requisito assunto dal legislatore come caratteristica essenziale del lavoro a


domicilio (esistenza di una particolare relazione, giuridicamente rilevante, tra il
soggetto obbligato e il luogo dell’adempimento, la cui disponibilità sia riservata
al lavoratore almeno nei confronti dell’imprenditore) ha INCIDENZA
RIDUTTIVA NEI CONFRONTI DEL POTERE DIRETTIVO.
Nel lavoro a domicilio infatti vi è un MUTAMENTO QUALITATIVO, derivante
• dall’esclusione di alcune facoltà del contenuto del potere direttivo;
• dalla diversità della efficacia connessa agli atti di esercizio delle facoltà
residue.
Infatti il lavoratore a domicilio , avendo la esclusiva disponibilità del luogo
del adempimento, decide autonomamente in ordine alle modalità spaziali e
temporali della prestazione dovuta e al coordinamento della stessa con
l’eventuale aiuto accessorio dei famigliari SENZA ESSERE SOTTOPOSTO AL
CONTROLLO DEL DATORE DI LAVORO se non in modo indiretto in occasione
della consegna del lavoro; inoltre il lavoratore pur essendo tenuto
all’osservanza delle direttive tecniche ricevute, non è vincolato in
modo assoluto ma, all’interno del proprio ambito organizzativo, se ne può
discostare mediante adattamenti o deviazioni salvo il limite della
congruenza con le “caratteristiche e i requisiti” del risultato da perseguire.
Quindi possiamo dire che per gli aspetti esaminati la subordinazione è
veramente in deroga a quanto stabilito dall’art 2094 c.c. perché è DIVERSO IL
MODO IN CUI IL LAVORATORE SI PONE ALLE DIPENDENZE
DELL’IMPRENDITORE.
Tuttavia la sua autonomia è soltanto un limite alla subordinazione.

LAVORO A DOMICILIO, ARTIGIANATO E TELELAVORO

La legge del 1973 presenta il lavoro a domicilio come rapporto speciale


nell’area del lavoro subordinato. È una inversione di prospettiva, che è in
connessione derivativa con la deroga apportata all’art 2094 c.c.

Problema della distinzione tra lavoro a domicilio e autonomo

Una parte della dottrina e della giuri ritengono che il nuovo concetto di
subordinazione abbia rilevanza nel senso di comportare il superamento della
tradizionale dicotomia tra lavoro a domicilio autonomo e subordinato. Però a
proposito si devono fare alcune considerazioni:

• L’art 1 della legge del 1973 non muove dal presupposto che il
lavoratore a domicilio , se inserito nel ciclo produttivo di una o più
imprese , sia per ciò stesso configurabile soltanto come lavoro
subordinato ma pone espressamente il vincolo della subordinazione
come requisito ulteriore perché la fattispecie, qualora ne sussistano gli
elementi costitutivi, sia riconducibile all’ambito di applicazione della
legge stessa;

• La subordinazione in deroga all’art 2094 c.c. non coincide con la


mera inserzione nel sistema organizzativo dell’impresa per la
realizzazione delle sue finalità istituzionali, né comporta un totale
svuotamento del potere direttivo dell’imprenditore, con conseguente
esclusione della possibilità di qualificare il lavoro a domicilio per conto di
uno o più imprenditori anche come lavoro autonomo;

• Pag 305 ????

Problema della distinzione tra lavoro a domicilio e lavoro artigianale

La legge del 1973 non attribuisce più alcuna rilevanza alla iscrizione all’Albo
degli artigiani in ordine alla qualificazione del rapporto con l’imprenditore
committente.
L’artigiano invero è posto su di un piano diverso come operatore economico
che, anche quando è tenuto ad osservare le direttive del committente, svolge
comunque la sua attività sulla base di un contratto che presuppone e
rispecchia la sua qualità di imprenditore. L’artigiano ora si distingue dal lavoro
a domicilio autonomo o subordinato perché si ricollega a un genus diverso
all’art 2083 c.c.
Lavoro a domicilio e telelavoro

Alla disciplina legislativa del lavoro a domicilio si può ritenere almeno in parte
riconducibile il c.d. telelavoro ossia quella prestazione di lavoro a
distanza, che pur nel quadro di una multiforme tipologia
organizzativa, risulta costantemente caratterizzata, dall’elaborazione
elettronica di informazioni di ogni genere e dall’utilizzazione costante
delle reti di telecomunicazione per il collegamento tra il lavoratore e il
datore di lavoro (o committente). Esso non implica la necessità della
presenza fisica del lavoratore all’interno della struttura aziendale ma soltanto
la sua presenza virtuale. Il fenomeno, sempre più diffuso nella società moderna
e virtuale, è sempre stato preso in considerazione dalla contrattazione
collettiva ma manca comunque una disciplina ad hoc. Si deve segnalare che il
9 giugno del 1994 è stato raggiunto un accordo interconfederale sul telelavoro
in attuazione dell’accordo quadro europeo del 2002.
Per quanto riguarda le P.A. vi è già una disciplina organica

LA DISCIPLINA DEL RAPPORTO

Anche altri ASPETTI SALIENTI DELLAA DISCIPLINA DEL LAVORO A


DOMICILIO trovano una spiegazione dal punto di vista dei motivi di intervento
connessi CON LA PROBLEMATICA DEL DECENTRAMENTO PRODUTTIVO.
Essi si possono riassumere come segue:

1. ADEMPIMENTI AMMINISTRATIVI: con il fine di garantire un penetrante


controllo in ambito territoriale con incidenza sulle situazioni e sui rapporti
che si sviluppano all’esterno delle strutture aziendali è previsto:
- obbligo per l’imprenditore di iscrizione in apposito albo pubblico
“registro dei committenti” prevista anche per i lavoratori in altro e
separato registro;
- predisposizioni di commissioni a composizione mista con compiti di
coordinamento;
- formalizzazione a cura dell’imprenditore di una serie di dati inerenti al
rapporto in uno speciale libretto personale sostitutivo del prospetto paga
ma non del libretto di lavoro;

2. RIDUZIONE DEL DOVERE DI FEDELTA’: art 11 legge 877/73 che


prevede una riduzione dell’obbligo di fedeltà del lavoratore a domicilio
subordinato che si concretizza nel solo obbligo di custodire il segreto
sul modello dei lavori affidatogli senza invece alcun divieto di
mettersi in concorrenza con l’imprenditore committente. Questa libertà
trova limite solo qualora per la quantità di lavoro da svolgere egli si trovi
in posizione uguale a quella di un lavoratore interno.

3. RETRIBUZIONE: essa evidentemente non può essere commisurata alla


durata della prestazione che non è determinabile perché svolta in locali
che non sono di pertinenza dell’imprenditore e quindi non è sottoposta a
vincoli di orario. È pertanto previsto all’art 8 che il lavoratore sia
retribuito a COTTIMO PIENO, sulla base di tariffe stabilite dai contratti
collettivi di categoria o in mancanza, da una commissione regionale
paritetica o se questa non decide in tempo utile dalla Direzione Regionale
del lavoro che provvede anche all’adeguamento ogni sei mesi
dell’ammontare all’andamento dell’inflazione. È inoltre interessante il
fatto che nella formazione delle tariffe si deve tener conto anche delle
“spese per l’uso di macchinari, locali, energia ed accessori” che il
lavoratore a domicilio deve sobbarcarsi in sostituzione dell’imprenditore.

4. ESCLUSIONE DAL CAMPO DI APPLICAZIONE DELLA DISCIPLINA


PREVENZIONISTICA: (tutela della sicurezza e della salute) che
presuppone l’appartenenza dei locali in cui si svolge il lavoro alle
strutture operative dell’impresa.

È da rilevare il fatto che per quanto riguarda la LEGISLAZIONE


PREVIDENZIALE essa è interamente applicabile ai lavoratori a domicilio ma
con l’eccezione della Cassa integrazione guadagni .

IL LAVORO INTERMITTENTE

IL LAVORO INTERMITTENTE: DEFINIZIONE, TIPOLOGIE, PRESUPPOSTI E


LIMITI DI AMMISSIBILITA’

È una figura contrattuale senza precedenti che il D.l.vo 276/2003 ha previsto


e regolato nel Capi I del titolo V. la sua introduzione risponde ad una esigenza
antielusiva ai fini di un recupero all’area del lavoro subordinato di una prassi ,
alquanto diffusa tra gli imprenditori, rivolta ad acquisire l’opera di dipendenti
occasionali in forma simulata o sommersa.

Art 33 - definizione e tipologie - “ il contratto di lavoro intermittente è il


contratto mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di
lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa nei limiti di cui all’art 34.
Il contratto di lavoro intermittente può essere stipulato anche a tempo
determinato”.

In tale norma la fattispecie viene intesa come una tipologia di contratto, che
può essere indifferentemente a tempo indeterminato o anche
determinato.
Attraverso tale contratto il lavoratore SI PONE A DISPOSIZIONE DI UN DATORE
DI LAVORO, con o senza garanzia di tale disponibilità, restando in attesa di
eventuale utilizzazione per lo svolgimento di prestazioni a cadenza
intermittente o anche discontinua.
Tale decreto distingue DUE MODELLI DI LAVORO INTERMITTENTE differenziati
tra loro a seconda che il lavoratore sia o no obbligato “ a rispondere alla
chiamata del datore di lavoro” .
Il RICORSO al lavoro intermittente NON è AMMESSO IN VIA GENERALE ma solo
nelle:
• Tassative ipotesi soggettive individuate all’art 34 comma 2 :
prestazioni rese da soggetti giovani con meno di 25 anni o anziani con
più di 45 anni disoccupati
• Ipotesi oggettive individuate mediante i contratti collettivi stipulati dai
sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale o
territoriale

Lo stesso legislatore,poi, secondo una nota del Ministero del lavoro, avrebbe
individuato distinte ipotesi oggettive (art 37 comma 1 – lavoro
intermittente per prestazioni da rendersi il fine settimana nonché nei
periodi delle ferie estive o delle vacanze natalizie e pasquali) in cui il
lavoro intermittente è ammissibile a prescindere da un previo intervento
autorizzatorio della contrattazione collettiva in quanto l’intervento di
quest’ultima è testualmente previsto al secondo comma per “l’eventuale
identificazione di ulteriori periodi predeterminati” .
In tal senso è ora formulato l’art 34 comma 1 (come modificato D.l.vo
251/2004) che prevede che il lavoro intermittente sia di per sé ammissibile se
relativo a “periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o
dell’anno a norma dell’art 37)
Tale campo di applicazione è limitato ulteriormente dall’art 34 comma
3 per:
1. sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero
2. salvo diversa disposizione degli accordi sindacali, presso unità produttive
nelle quali si sia proceduto , entro i sei mesi precedenti a licenziamenti
collettivi che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle medesime
mansioni;
3. da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei
rischi.

Per mancanza di una ipotesi giustificativa o per la violazione di un divieto non è


previsto un effetto legale sostitutivo, con conversione di contratto di lavoro
intermittente con contratto di lavoro a tempo pieno, determinato o
indeterminato. Per tanto si deve ritener APPLICABILE L’ART 1419
comma 1 con estensione della nullità all’intero contratto, qualora sia
accertato in concreto che le parti non lo avrebbero stipulato se non
per prestazioni di lavoro intermittente.

GLI ORIENTAMENTI CHE NEGANO RILEVANZA GIURIDICA AL LAVORO


INTERMITTENTE SNZA GARANZIA DI DISPONIBILITA’ O LO PONGONO
NELL’AREA DEL LAVORO AUTONOMO

Una parte della dottrina enfatizzando la previsione di una ipotetica


inefficacia vincolante della chiamata ha ritenuto coerente negare natura
contrattuale alla fattispecie del lavoro intermittente almeno in tal caso
basandosi sull’art. 1355 che stabilisce la nullità “dell’assunzione di un obbligo
o l’alienazione di un diritto sia subordinata a una condizione sospensiva che la
faccia dipendere dalla mera volontà dell’alienante o rispettivamente da quella
del debitore”. Altri hanno invece ravvisato nella disponibilità senza impegno
del lavoratore l’oggetto di un accordo privo di rilevanza giuridica.
Queste considerazioni però non possono essere condivise in quanto
inconciliabili con i dati normativi. Infatti:
• nella definizione all’art 33 comma 1 del lavoro intermittente non vi è
distinzione tra il caso in cui vi sia l’obbligo di risposta alla chiamata e
quello in cui non c’è.
• Tutta la disciplina del contratto è identica per i due modelli di lavoro
intermittente salva la previsione di una speciale indennità al lavoratore in
correlazione alla eventuale garanzia della sua disponibilità.
Non può essere nemmeno accolta la tesi, prospettata in dottrina che ha
sostenuto la riconducibilità al contratto d’opera del lavoro intermittente che
non comporti l’obbligo del lavoratore di porsi a disposizione del datore di lavoro
questo perché la complessiva disciplina del contratto e della
prestazione di lavoro intermittente è quella propria del lavoro
subordinato seppur con qualche adattamento.

GLI ORIENTAMENTI CHE RAVVISANO NELLA DISPONIBILITA’ GARANTITA


GLI OGGETTI DI UN DISTINTO RAPPORTO O DI UN DISTINTO
CONTRATTO

È una opinione infondata quella di coloro che individuano nel contratto di


lavoro intermittente uno speciale contratto di lavoro subordinato caratterizzato
da u n nucleo obbligatorio aggiuntivo avente ad oggetto la risposta del
lavoratore alla chiamata, con correlativo diritto ad una indennità di disponibilità
di cui si mette in dubbio la sua natura retributiva.
Esasperando il rilievo riconosciuto alla disponibilità garantita come oggetto di
un obbligo che sarebbe in separata relazione di corrispettività con l’indennità
dovuta allo stesso titolo, una parte della dottrina è arrivata a scindere il
contratto di lavoro in se considerato con la sua causa alternativa e sostitutiva
rispetto allo scambio tra lavoro e retribuzione quale previsto dall’art 2094 c.c.
del contratto di lavoro subordinato che sarebbero stipulati inter partes, con
l’obbligo o facoltà del lavoratore di aderire alla chiamata, intesa come proposta
contrattuale. Nella sua più evoluta elaborazione, questa tesi sostiene che il
contratto di lavoro intermittente sarebbe un contratto normativo nel senso che
le parti possono concordare le condizioni elencate all’art 35 dando corpo ad
una disciplina convenzionale che è destinata a trovare applicazione solo se ed
in quanto la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita.

Questa tesi non può essere accolta in quanto al suo interno vi è una duplice
contraddizione:
1. vi è contraddizione tra il contenuto normativo del contratto di lavoro
intermittente e la causa dello stesso che fino alla chiamata o a
prescindere da questa non comporta ne l’obbligo di lavorare per l’una ne
di retribuire per l’altra e quindi è diversa da quella tipica del contratto di
lavoro;
2. contraddizione tra la natura normativa del contratto che esclude la
produzione di qualunque effetto che non sia l’impegno di rispettare le
condizioni ivi convenute nella determinazione delle clausole dei futuri
rapporti e la testuale previsione di un modello di lavoro intermittente con
l’obbligo di rispondere alla chiamata del datore di lavoro, a sua volta
obbligato alla erogazione di una indennità di disponibilità;

IL CONTRATTO DI LAVORO INTERMITTENTE COME CONTRATTO


SPECIALE DI LAVORO SUBORDINATO

Tutte le opinioni fin qui evidenziate sono viziate e lo sono perché cercano di
cogliere la caratteristica peculiare della nuova tipologia negoziale avendo
esclusivo riguardo alla figura del lavoratore non osservando che tale
posizione è antitetica nei due modelli di lavoro intermittente (dall’obbligo alla
fedeltà) . ecco perché la considerazione del solo lavoratore si è resa inidonea
ad individuare una ricostruzione unitaria della complessiva ed articolata
fattispecie del lavoro.
Si deve aver riguardo (capovolgendo la prospettiva) alla posizione del datore di
lavoro nel rapporto, tenendo conto della ratio legis sottesa all’introduzione
della nuova figura del lavoro intermittente. Tale ratio non può essere ridotta
solamente ad una funzione antielusiva ma essa si fonda anche sull’intento
innovativo di individuare ed adottare normative e strumenti con cui le
imprese possono conseguire, anche sul versante dei rapporti di
lavoro, ulteriori margini di flessibilità.
In particolare la flessibilità perseguita attraverso il lavoro intermittente
corrisponde alla specifica esigenza di avere già contrattualmente
acquisita, in un contesto organizzativo prestabilito, la immediata
disponibilità anche non garantita di prestazioni lavorative per le più
mutevoli e svariate necessità operative contingenti con riduzione di oneri e
vincoli inerenti al normale rapporto di lavoro subordinato.
In questa prospettiva fa testo la definizione del lavoro intermittente contenuta
all’art 33 comma 1 che è una norma prescrittiva che identifica la prestazione
lavorativa discontinua come oggetto di un “contratto di lavoro” , non di altro
tipo, anche innominato, di contratto: pertanto è all’interno della struttura del
contratto di lavoro che viene designato e contraddistinto come “intermittente”.
La norma prende in considerazione la posizione del lavoratore che “si pone a
disposizione” del datore di lavoro come conseguenza derivante dal contratto,
senza dare rilevanza all’eventualità che sia oggetto di una facoltà o di un
obbligo, per apposita pattuizione.
Quindi TRATTO CARATTERIZZANTE della nuova figura comune ai due modelli
in cui si articola è dunque la facoltà di chiamata del lavoratore,
riconosciuta al datore di lavoro nell’ambito del rapporto derivante dal contratto
di lavoro intermittente “mediante il quale” viene acquisita la disponibilità del
lavoratore.
La disciplina del contratto di lavoro intermittente (che quindi è uno dei contratti
speciali) differisce da quella generale in materia di lavoro subordinato,
perché mediante l’attribuzione della facoltà, arbitrariamente
esercitabile, di utilizzare o no la prestazione lavorativa a sua
disposizione, il datore di lavoro viene esonerato dall’osservanza del dovere di
cooperare all’adempimento, anche quando, nei periodi di attesa, sia tenuto al
pagamento di una indennità di disponibilità che non ha natura risarcitoria.
Quindi questo contratto viene ad assumere un peculiare rilievo nella categoria
dei contratti di durata non essendo ad esecuzione né continua né periodica
perché è “dubbio lo stesso verificarsi della prestazione”.
Resta da osservare che il legislatore ha inseguito le esigenze di flessibilità
dell’impresa ben oltre l’attribuzione di una facoltà che ne comporta l’esonero
dal dovere di cooperazione di cui all’art 1206 c.c. Infatti l’art 38 comma 3 ha
espressamente negato al lavoratore intermittente, per i periodi in cui
rimane in attesa di una eventuale chiamata, qualsiasi diritto riconosciuto ai
lavoratori subordinati. Stando al tenore legale dello stesso art 38 comma 3
sembra plausibile ritenere che il lavoratore intermittente sia, quanto
meno, vincolato dal dovere di fedeltà e, in genere , dai doveri
complementari all’obbligazione di lavoro, seppur sospesa, assoggettato al
potere disciplinare ed al suo esercizio anche nella estrema forma del recesso.
Ciò avviene anche quando non abbia garantito la propria disponibilità in
quanto l’obbligo di rispondere alla chiamata, non si identifica con l’obbligazione
di lavorare ma discende da un atto di esercizio del potere direttivo ,la cui
eventuale inefficacia vincolante afferisce non all’esistenza e alla struttura del
rapporto di lavoro ma soltanto alla graduazione della subordinazione che in tal
caso risulta affievolita.

IL LAVORO RIPARTITO

IL PROGRESSIVO RICONOSCIMENTO DEL LAVORO RIAPARTITO FINO


ALLA LEGGE DELEGA N° 30/2003

Il lavoro ripartito aveva avuto un significativo riconoscimento in una Circolare


del Ministero del lavoro la quale aveva cercato di invidiarne la fattispecie e
mettere in evidenza i tratti distintivi dal lavoro part-time.
In tale contesto è maturata la delega al Governo di trattare la disciplina del job
sharing “muovendo dal presupposto dell’ammissibilità di prestazioni ripartite
fra due o più lavoratori, obbligati in solido nei confronti di un datore di lavoro
per l’esecuzione di un’unica prestazione lavorativa”. Tale definizione era
aderente alla nozione della solidarietà all’art 1292 c.c. secondo cui “
l’obbligazione è in solido quando più debitori sono obbligati tutti per la
medesima prestazione” ma tale definizione si poneva esclusivamente sul piano
dell’attuazione del rapporto obbligatorio, senza investirne la struttura. Così
inteso il job sharing sarebbe risultato compatibile anche con due o più rapporti
di lavoro parti time aventi ad oggetto la stessa prestazione, collegati tra loro
proprio in virtù della solidarietà tra i condebitori.

IL DECRETO 276/2003: IL LAVORO RIPARTITTO COME OGGETTO DI UN


CONTRATTO SPECIALE DI LAVORO SUBORDINATO

È stata introdotta una nuova nozione di job sharing:

Art 41 comma 1: “il contratto di lavoro ripartito è uno speciale contratto di


lavoro mediante il quale due lavoratori assumono in solido l’adempimento di
una unica e identica obbligazione”
È prevista poi al secondo comma la facoltà di determinare discrezionalmente e
in qualsiasi momento la sostituzione tra i due lavoratori ovvero la
modificazione consensuale della distribuzione dell’orario di lavoro.
L’art 41 sancisce in modo chiaro che i due lavoratori sono tenuti, ciascuno
per la totalità, all’adempimento della obbligazione, che non è soltanto
identica ma anche unica ossia strutturalmente indistinta dal punto di vista
soggettivo.
L’unicità della obbligazione è riscontrabile:
• nella fase attuativa in cui ogni lavoratore è considerato responsabile
dell’adempimento dell’intera obbligazione lavorativa (art 41
comma 2);
• nella fase estintiva con la cessazione dell’intero vincolo
contrattuale per effetto delle dimissioni o del licenziamento
anche di uno solo di essi (art 41 comma 5)
• sul piano descrittivo con la designazione dei lavoratori in coppia come
soggetti coobbligati.
Diviene così testualmente inconfutabile la distinzione tra job sharing e lavoro
part time indirettamente confermata dalla possibilità prevista dall’art 41
comma 5 il quale prevede che qualora sia venuto meno il rapporto con uno dei
lavoratori per dimissioni o licenziamento, l’altro condebitore aderisca
all’eventuale proposta del datore di lavoro ripartito, che è speciale, in un
normale contratto di lavoro subordinato.

La definizione legislativa fa apparire superata anche l’opinione che ravvisa il


job sharing un contratto atipico di lavoro subordinato. Questa tesi
precedentemente sostenuta non trova più alcun riscontro testuale nel nuovo
intervento legislativo essendo previsto testualmente che il job sharing in
quanto contrapposto al normale contratto di lavoro (art 2094 c.c.) se ne
distingue perché speciale (art 41 comma 1 ) e non perché atipico e quindi
risulta direttamente riconducibile sotto la normativa generale in materia di
lavoro subordinato, che infatti trova applicazione pienamente, salvo soltanto il
limite della compatibilità con la “particolare natura” del rapporto. Sarebbe
infatti incoerente il fatto che il legislatore avesse il job sharing come lavoro
subordinato e che nel contempo lo avesse considerato come oggetto di un
contratto atipico.

LA SPECIALITA’ DEL LAVORO RIPARTITO NELLE INDICAZIONI DELLA


DOTTRINA

La posizione di coloro che vedono il job sharing come oggetto di un contratto


speciale di lavoro subordinato non è contestabile dopo l’emanazione del
D.l.vo 276/2003 che ha espressamente qualificato il contratto di lavoro ripartito
come “speciale contratto di lavoro” e in quanto tale distinto dal contratto di
lavoro subordinato nel quale peraltro può trasformarsi , ma sottoposto
comunque alla normativa generale che lo riguarda, salva la eventuale
incompatibilità di questa con la sua “particolare natura” (art 43 comma 3).
Tra le opinione che si pongono nell’ambito di tale orientamento ma che non
possono essere considerate vi sono:

• opinione che assume come connotato essenziale del contratto di lavoro


subordinato “normale” il numero, non superiore a due delle parti
contraenti contrapposte, dando una portata preclusiva alla formazione
letterale dell’art 2094 c.c. Di fronte alla complessità della disciplina
legislativa della fattispecie ed alla odierna varietà e diffusione dei
fenomeni di aggregazione e dissociazione soggettiva nei rapporti di
lavoro subordinato, sarebbe riduttivo e anacronistico insistere ancora in
una così infondata e insostenibile prospettazione;
• è da respingere anche l’opinione che ravvisa nello strettissimo vincolo
fiduciario tra i lavoratori,che contano l’uno sull’altro per l’adempimento
dell’obbligazione solidalmente gravante su entrambi, la caratteristica che
darebbe luogo alla specialità del job sharing. In realtà l’affidamento
reciproco tra i lavoratori non ha alcuna incidenza sulla struttura e sulla
dinamica di tale rapporto, perché ha un rilievo che si esaurisce nella
sfera interna della coesione tra i lavoratori.

Appare più pertinente una prospettiva di indagine che in sintonia al legislatore


abbia riguardo al profilo della flessibilità, che assume particolare evidenza del
job sharing. Nella disciplina del job sharing elemento essenziale e indefettibile
è il VINCOLO DELLA SOLIDARIETA’ tra i lavoratori, che deve restare
fermo in ogni caso, quali che siano le intese raggiunte dalle parti,
anche se diverse dalle previsioni legislative in materia (art 41 comma 2)
e deve essere rispettato anche dalla contrattazione collettiva (art 43
comma 1).

L’INTERESSE DEL DATORE DI LAVOROALLA FLESSIBILITA’ SOSTITUTIVA


SENZA COSTI AGGIUNTIVI COME ELEMENTO CHE, ATTRAVERSO IL
VINCOLO DI SOLIDARIETA’ TRA I LAVORATORI VALE A
CARATTERIZZARE IL LAVORO RIPARTITO.

Il vincolo di solidarietà tra condebitori è per sua natura rivolto a potenziare la


posizione del creditore il quale può esigere da ciascuno l’adempimento della
totalità a norma dell’art 1292 c.c. .
Quindi la complessiva disciplina del job sharing si pone , attraverso il vincolo di
solidarietà e le relative implicazioni, a tutela dell’interesse del datore di lavoro
a ricevere l’intera prestazione, il congegno della solidarietà passiva comporta
che almeno uno dei lavoratori contitolari della posizione debitoria
(indifferentemente) deve tenersi in ogni caso disponibile all’adempimento. In
questo senso si può parlare di una specifica flessibilità inerente al job sharing .
è una flessibilità aggiuntiva senza costi aggiuntivi, conseguita esclusivamente
a carico, e a rischio, dei condebitori con modalità diverse da quelle di uso
corrente utilizzabili in alternativa con riferimento ad una obbligazione
lavorativa che non sia soggettivamente complessa.
Nella medesima prospettiva si pongono anche gli strumenti di autogestione
della prestazione di cui possono discrezionalmente disporre in ogni momento i
lavoratori in coppia i quali:
• reciproca sostituzione
• variazione della percentuale temporale del rispettivo impegno
essi non sono espressione di una facoltà ma sono un modo di adempiere
spontaneamente l’obbligazione solidale dovendo l’assenza del lavoratore
essere necessariamente compensata dall’altro per non tradursi in una
violazione del contratto.

Anche tali variazioni in realtà sono riconducibili al profilo della flessibilità


dell’interesse del datore di lavoro, poiché comportano in ogni caso una parziale
sostituzione reciproca, che si pone anch’essa come doverosa, pur nell’esercizio
della facoltà di modificare l’assetto temporale del rapporto. Ciò è confermato
dall’art 41 che in via eccezionale ammette eventuali sostituzioni da parte di
terzi vietate ai lavoratori, solo previo consenso, non dovuto dello stesso datore
di lavoro. (Non finito pag. 320)

L’ESTINZIONE DEL RAPPORTO (Prof.)

Il problema dell’estinzione del rapporto si pone con riguardo ai contratti a


tempo indeterminato. Il recesso come atto unilaterale recettizio è la strumento
per porre fine ad un rapporto che altrimenti avrebbe una durata illimitata
(anche se in realtà un limite c’è sempre). È il recesso ordinario. Il recesso però
assolve una sua funzione anche nel contratto a termine. In questo caso non è
più un recesso ordinario perché ha come funzione quella di consentire una
uscita immediata dal rapporto a causa di una anomalia del rapporto stesso ed
in particolare in caso di inadempimento della controparte (c.d. recesso
straordinario). Questa dottrina che si è affermata in Italia deriva
dall’impostazione della dottrina tedesca la quale prevede per l’appunto:
• RECESSO ORDINARIO
• RECESSO PER GIUSTA CAUSA O STRAORDINARIO: è un recesso in tronco
per il quel non è necessario dare un preavviso e che può riguardare sia i
contratti a termine che a tempo indeterminato.

Il sistema originario del codice civile era articolato su queste due ipotesi.

Art 2118 c.c. - Recesso dal contratto a tempo indeterminato – Ciascuno


dei contraenti può recedere dal contratto a tempo indeterminato, dando
preavviso nel termine e nei modi stabiliti (dalle norme corporativi) dagli usi o
secondo equità. In mancanza di preavviso il recedente è tenuto versa l’altra
parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe
spettata per il periodo di preavviso. La stessa indennità è dovuta dal datore di
lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro.

Art 2119 c.c. – Recesso per giusta causa – Ciascuno dei contraenti può
recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a
tempo determinato, o senza preavviso se il contratto è a tempo indeterminato,
qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche
provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore
di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata al secondo
comma dell’articolo precedente.
Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento
dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda.

L’art 2118 c.c. prevede il recesso ordinario con preavviso definito anche
recesso ad- nutum (cioè al semplice cenno senza che occorra motivazione
alcuna). Mentre l’art 2119 c.c. prevede un recesso straordinario che può essere
fatto valere solamente per giusta causa e che può riguardare sia il contratto a
tempo determinato che indeterminato. Per il contratto a tempo determinato il
rapporto si estingue prima del termine mentre per quello a tempo
indeterminato vi è l’esonero dal preavviso. Ciò è possibile quando siano
presenti determinate ragioni che non permettono la prosecuzione del rapporto.
Nell’art 2118 c.c. non sono affermati i motivi per i quali le parti possono
recedere ciò significa che nel sistema originario del codice il recesso era un
recesso libero. Il motivo non aveva rilevanza giuridica l’unico obbligo per
entrambe le parti era quello di dare preavviso. Inoltre non era prevista una
differenza di trattamento tra datore di lavoro e lavoratore tanto è vero che non
vi è nemmeno cenno ad una distinzione tra i due i quali vengono considerati
semplicemente come “parti”. Non si teneva conto del fatto (molto importante)
che gli interessi per la prosecuzione del rapporto hanno un peso molto
diverso:
• Le dimissioni non sono molto rilevanti per il datore di lavoro; per
lui non sarà difficile sostituire il vecchio lavoratore con uno nuovo, questo
perché vi è uno squilibrio tra domanda e offerta di lavoro;
• Il licenziamento pone il lavoratore in una situazione di grande
difficoltà; non è sempre facile per il lavoratore riuscire a trovare un
nuovo posto di lavoro.

L’ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO


PROFILI GENERALI

LA CAUSE DI ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO IN GENERALE

Come ogni rapporto anche il rapporto di lavoro ha una fine la quale può:
• Essere stabilita dalle parti (contratto a tempo determinato)
• Dipendere da altre cause
L’estinzione del rapporto di lavoro comunque costituisce:
• un momento particolarmente delicato per il lavoratore subordinato il
quale trae dal rapporto stesso la fonte (spesso esclusiva) per il
sostentamento proprio e della propria famiglia.
• un momento di non particolare rilevanza per il datore di lavoro (almeno
per la maggior parte dei casi) in quanto l’estinzione del rapporto di lavoro
comporta per quest’ultimo una mera sostituzione del rapporto venuto
meno .
Questo diverso interesse è dovuto dalla situazione di costante squilibrio
esistente fra domanda e offerta di lavoro. Questo coinvolgimento di interessi
diversi è stato però preso in considerazione solamente in tempi recenti.
Infatti il codice del 1865 tutelava addirittura la temporaneità del rapporto
(come interesse opposto all’attuale) questo per affrancare il lavoratore da
forme di assoggettamento di tipo feudale.
Il codice del 1942 pur esprimendo la propria preferenza per un rapporto a
tempo indeterminato consentiva ad entrambe le parti (poste in una situazione
di formale parità e simmetria) di recedere dal contratto senza alcun vincolo che
quello del preavviso.
La nuova evoluzione post-costituzionale si dirige verso la rottura di quella
simmetria in nome di un principio di parità sostanziale fra le parti (art 3 Cost.)
in funzione della differenziata protezione degli interessi coinvolti nel momento
dell’estinzione del vincolo obbligatorio.
Non mancano comunque segnali dell’attuale legislatore che vanno in direzione
contraria:
• la recente liberalizzazione (pur controllata) del contratto a termine
che rivela un atteggiamento diverso verso il contratto a tempo
indeterminato che è visto quasi come un ostacolo ad un miglio
funzionamento del mercato del lavoro e non più come garanzia per il
lavoratore subordinato.
• Si profilano scenari nei quali la marcata protezione dell’interesse del
lavoratore alla continuità del rapporto, sinora considerata attuativa dei
principi costituzionali, viene vista anch’essa come causa di rigidità del
mercato e sembra perciò attenuarsi.

Passando a parlare della diverse cause estintive del rapporto di lavoro si deve
subito segnalare come l’opinione tradizionale soglia distinguere fra:
• Cause di estinzione del rapporto: si verificano quando la causa del
contratto si sia in concreto realizzata (ad es. compimento del lavoro
dedotto in obbligazione, scadenza del termine finale, nel contratto a
tempo indeterminato il recesso inteso come strumento di autonomia
contrattuale doneo a far cessare un rapporto potenzialmente illimitato.
• Cause di risoluzione del contratto: determinano in sé l’esclusione del
rapporto, essendo collegate alla mancata realizzazione della causa o più
frequentemente a un suo difetto funzionale (es. inadempimento,
impossibilità sopravvenuta, eccessiva onerosità della prestazione.
Si aggiunge inoltre che, essendo il contratto di lavoro un contratto ad
esecuzione continuata, le cause di risoluzione del contratto operano di fatto
come cause di estinzione del rapporto medesimo. Estinzione del rapporto si ha
anche per effetto della dichiarazione di nullità e per l’annullamento del
contratto essendone esclusa la prestazione già eseguita (art 2126 c.c.)
Varie e in alcuni casi concorrenti sono i criteri per classificare le cause di
estintive.
Tipiche cause di estinzione per volontà delle parti sono il recesso e la
risoluzione consensuale..

Il recesso unilaterale (licenziamento se proviene dal datore di lavoro e


dimissioni se proviene dal lavoratore) costituisce indubbiamente la causa di
estinzione del rapporto di lavoro socialmente più significativa.
Il recesso nel rapporto di lavoro non soltanto assolve a due funzioni:
• alla funzione di por fine ad un rapporto di lavoro senza
predeterminazione di durata (recesso c.d. ordinario e perciò operante
solamente nel contratto a tempo indeterminato) ;
• assorbe l’ipotesi di anomalia funzionale della causa derivante da
inadempimento (recesso c.d. straordinario per giusta causa e perciò
operante anche a tempo determinato)

Per quanto riguarda la risoluzione consensuale essa segue i normali principi


dell’autonomia privata. In virtù di tali principi occorre verificare che essa non
sia frutto di simulazione e non nasconda un licenziamento del quale verrebbero
elusi i penetranti vincoli posti dal legislatore.
Fondata sulla comune volontà delle parti è anche l’ipotesi in cui venga apposta
una condizione risolutiva al rapporto (es. quando la cessazione del
rapporto viene collegata al compimento dell’età pensionabile). Si deve però
fare attenzione e dubitare della legittimità di tali clausole per due motivi:
• esse possono eludere la regola del preavviso
• la presenza di una condizione risolutiva può contrastare con la
tipizzazione legale dei presupposti di estinzione del rapporto di lavoro e
determinare, in definitiva, una sostanziale elusione della disciplina
limitativa dei licenziamenti, la dove essa sia applicabile e il rapporto non
sia liberamente disponibile dalle parti.
Le cause di risoluzione legale del contratto sono riconducibili secondo le regole
generali a:
1. inadempimento
2. impossibilità sopravvenuta
3. eccessiva onerosità
il rapporto di lavoro però presenta numerose peculiarità:
• la risoluzione per inadempimento viene assorbita dal recesso (inteso
come recesso straordinario perché collegato ad una anomalia funzionale
della causa);
• risoluzione per eccessiva onerosità, con riguardo ad un sopravvenuto
squilibrio delle prestazioni pregiudizievole al lavoratore, è resa
sostanzialmente inoperante dall’immediata precettività della norma
costituzionale sulla retribuzione e dall’opera di costante adeguamento,
da parte della contrattazione collettiva, del valore economico della
prestazione di lavoro.
• impossibilità sopravvenuta. Il discorso è un po’ più complesso. La
prestazione del datore di lavoro non è mai una prestazione impossibile
perché è una prestazione pecuniaria. L’impossibilità può dipendere da
- fatto concernente la persona del lavoratore (impossibilità a prestare
lavoro)
- da fatto afferente la sfera dell’impresa o più in generale
dell’organizzazione del lavoro (impossibilità a ricevere la prestazione.

IMPOSSIBILITA’ A PRESTARE LAVORO


(per quanto riguarda le conseguenze retributive gi visto con sospensione
rapporto…) L’impossibilità, se totale e definitiva, determina in conformità al
diritto, la risoluzione di diritto come avviene per morte del lavoratore.
Se invece è un impossibilità parziale, in conformità al diritto comune può
portare ad una risoluzione per recesso dell’altra parte qualora questa non
abbia interesse apprezzabile all’adempimento parziale (art 1464 c.c.). A tale
proposito va sottolineato che anche l’impossibilità totale ma temporanea
(malattia o carcerazione del lavoratore) si risolve sempre, avuto riguardo alla
complessiva durata del rapporto, in impossibilità parziale, posto che l’attività
lavorativa non prestata a causa dell’impossibilità deve considerarsi
definitivamente perduta.
Nel caso di impossibilità parziale così intesa, si è soliti affermare che la
disciplina del rapporto di lavoro deroga a quella propria del diritto comune con
riferimento alle ipotesi regolate agli art. 2110 e 2111 c.c. nelle quali è prevista
la irrecedibilità da parte del datore di lavoro finché non sia ricorso il periodo
stabilito dalla legge, dalla contrattazione collettiva o secondo equità, dovendosi
viceversa fare ricorso alla disciplina comune per le altre ipotesi (es.
carcerazione).
Forse piuttosto che di deroga si dovrebbe parlare di adattamento di tali principi
attraverso strumenti eteronomi (legge, contrattazione collettiva,
equità…)conseguentemente viene limitato il recesso del datore di lavoro dato
che se esso viene posto in essere durante il periodo di irrecedibilità deve
considerarsi inefficace..
Altra ipotesi è quella dell’impossibilità sopravvenuta alle mansioni. La
giurisprudenza aveva escluso l’applicabilità della norma comune in tema di
impossibilità, riconducendo la fattispecie al licenziamento per giustificato
motivo. La legge 68/1999 sulla tutela dei disabili sembra:
• da un lato garantire incondizionatamente il posto di lavoro ai lavoratori
divenuti disabili a causa di infortunio sul lavoro o malattia professionale
(art 1 comma 7);
• dall’altro rafforza le conclusioni cui era pervenuta la giuri escludendo la
sussistenza di un giustificato motivo di licenziamento allorché sia
possibile l’assegnazione a mansioni diverse, anche inferiori, e stabilendo
poi un percorso privilegiato di ricollocamento presso l’altra azienda
quando neppure quella soluzione sia possibile a norma dell’art 4 comma
4.
Al di fuori di tali ipotesi rimane l’alternativa tra l’applicazione della disciplina
comune dell’impossibilità o quella specifica del recesso cioè del licenziamento.
L’orientamento prevalente sembra essere nel secondo senso anche se la reale
differenza si misura sulla persistenza o meno dell’obbligo del preavviso mentre
la prova a carico del datore di lavoro non è molto diversa da quella che gli
incombe affinché il licenziamento possa dirsi giustificato.

IMPOSSIBILITA’ A RICEVERE LA PRESTAZIONE

Deve anzitutto escludersi che la risoluzione di diritto possa avvenire per morte
dell’imprenditore, stante la normale indifferenza della persona di questi
rispetto alla gestione dell’impresa. (a soluzione diversa si può arrivare nel caso
in cui vi sia un rapporto con un libero professionista).
Se l’impossibilità riguarda invece l’impresa si deve fare particolare attenzione
perché molto spesso l’impossibilità non riguarda la prestazione di lavoro come
tale, che rimane possibile, ma quell’attività, di carattere strumentale e
preparatorio , che il datore di lavoro è tenuto a porre in essere affinché il
lavoratore possa concretamente adempiere.
Una situazione particolare è quella del fallimento dell’impresa, che non
determina di per se la cessazione dell’attività, posto che questa può essere
proseguita dal curatore nell’esercizio provvisorio o può essere ceduta ad altro
imprenditore. La legge perciò si limita solo a stabilire che il recesso non rientra
fra giusta causa di risoluzione del rapporto.

Art 2119 c.c. comma 2 - Non costituisce giusta causa di recesso di


risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta
amministrativa dell’azienda.

La dottrina tradizionale considerava causa di risoluzione di diritto anche la


cessazione definitiva dell’attività dell’impresa. Ma dopo la legge 223/1991
anche tale ipotesi deve ritenersi assimilata a quella della riduzione del
personale e dunque realizzata attraverso il recesso.

Vi sono infine ipotesi in cui è il legislatore a decidere le diverse cause estintive :


• mancato rientro del lavoratore in azienda dopo l’espletamento del
servizio militare;
• mancata presentazione al lavoro del lavoratore entro trenta giorni
dall’invito del datore a seguito di sentenza di reintegrazione per
licenziamento illegittimo.

Pag 359 saltato piccolo pezzo tempo determinato

IL RECESSO DAL RAPPORTO DI LAVORO NEL SISTEMA DEL CODICE


CIVILE. IL PREAVVISO E L’INDENNITA’ SOSTITUTIVA

Il sistema originario del codice civile era articolato su queste due ipotesi.

Art 2118 c.c. - Recesso dal contratto a tempo indeterminato – Ciascuno


dei contraenti può recedere dal contratto a tempo indeterminato, dando
preavviso nel termine e nei modi stabiliti (dalle norme corporativi) dagli usi o
secondo equità. In mancanza di preavviso il recedente è tenuto versa l’altra
parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe
spettata per il periodo di preavviso. La stessa indennità è dovuta dal datore di
lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro.

Art 2119 c.c. – Recesso per giusta causa – Ciascuno dei contraenti può
recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a
tempo determinato, o senza preavviso se il contratto è a tempo indeterminato,
qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche
provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore
di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata al secondo
comma dell’articolo precedente.
Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento
dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda.

• L’art 2118 c.c. prevede il recesso ordinario con preavviso definito anche
recesso ad- nutum (cioè al semplice cenno senza che occorra
motivazione alcuna).
• L’art 2119 c.c. prevede un recesso straordinario che può essere fatto
valere solamente per giusta causa e che può riguardare sia il contratto a
tempo determinato che indeterminato. Per il contratto a tempo
determinato non vi è ragione di imporre un preavviso, essendo già
stabilita la scadenza del rapporto, e quindi essa opera coma causa di
cessazione anticipata rispetto a tale scadenza mentre per quello a tempo
indeterminato vi è l’esonero dal preavviso e dall’indennità sostitutiva. Ciò
è possibile quando siano presenti determinate ragioni che non
permettono la prosecuzione del rapporto.

Nell’art 2118 c.c. non sono affermati i motivi per i quali le parti possono
recedere ciò significa che nel sistema originario del codice il recesso era un
recesso libero. La disciplina del codice civile (ormai del tutto residuale)
attribuisce ad entrambe le parti la facoltà di recedere unilateralmente e
liberamente dal contratto di lavoro . Il recesso unilaterale assolve quindi alla
funzione di porre fine ad un rapporto la cui durata non è predeterminata e in
relazione a ciò colloca le due parti su un piano di parità, senza considerare il
possibile diverso interesse (molto importante) di ciascuna alla conservazione
del vincolo. Il motivo non aveva rilevanza giuridica l’unico obbligo per
entrambe le parti era quello di dare preavviso. Inoltre non era prevista una
differenza di trattamento tra datore di lavoro e lavoratore tanto è vero che non
vi è nemmeno cenno ad una distinzione tra i due i quali vengono considerati
semplicemente come “contraenti ”. Non si teneva conto del fatto (molto
importante) che gli interessi per la prosecuzione del rapporto hanno un
peso molto diverso:
• Le dimissioni non sono molto rilevanti per il datore di lavoro; per
lui non sarà difficile sostituire il vecchio lavoratore con uno nuovo, questo
perché vi è uno squilibrio tra domanda e offerta di lavoro;
• Il licenziamento pone il lavoratore in una situazione di grande
difficoltà; non è sempre facile per il lavoratore riuscire a trovare un
nuovo posto di lavoro.

Questa scelta normativa è stata messa in crisi in quanto nella realtà vi è un


vero e proprio peso diverso degli interessi. Il legislatore ha deciso di
intervenire in modo diverso tra il licenziamento e le dimissioni. È stata
ancora una volta introdotta dal legislatore una disciplina ineguale per
ripristinare un equilibrio sul piano sostanziale. Vi è quindi una disciplina
differenziata tra licenziamento e dimissioni:
• Dimissioni sono rimaste libere
• Licenziamento : il legislatore è intervenuto per regolare le ragioni che
possono condurre al licenziamento.

RECESSO AD NUTUM è il recesso previsto dall’art 2118 c.c. nel sistema


originario. Ad oggi il recesso ad nutum si applica in pochissimi casi che
riguardano i dirigenti e alle dimissioni (per le quali è richiesto solo il preavviso!)

L’art 2118 c.c. impone l’obbligo del preavviso (comunicare con sufficiente
anticipo la volontà estintiva) che è l’unico limite al recesso che era previsto
anche nel vecchio sistema. Il preavviso è una cautela introdotta a tutela del
soggetto destinatario del recesso il quale deve essere pre-avvisato del fatto
che l’altra parte ha deciso di uscire dal rapporto di lavoro. Il preavviso serve:
• per il lavoratore a trovare un altro lavoro
• per il datore di lavoro a ricercare un nuova lavoratore
Viene dunque tutelato uno specifico interesse. Ne dovrebbe derivare la libera
rinunziabilità al preavviso da parte del soggetto destinatario del recesso anche
se dubbi sono stati sollevati (almeno sotto il profilo dell’opportunità) qualora sia
il datore di lavoro a rinunziare al preavviso, perché il lavoratore che si dimette
per cambiare posto di lavoro fa affidamento sulla retribuzione per l’intero
periodo di preavviso – specie se lungo – prima di sostituirla con la retribuzione
del nuovo rapporto.

Vi sono due problemi legati al preavviso:


1. la durata del preavviso: l’art 2118 c.c. stabilisce che la durata del
preavviso viene stabilita dalla norme corporative, dagli usi o secondo
equità ed in alcuni casi può essere stabilita anche per legge. Non può
essere stabilito con accordo delle parti. In alcuni casi sono stati utilizzati i
patti di fidelizzazione per vincolare il lavoratore a rimanere nell’azienda.
È una tecnica utilizzata ad esempio nei CCNL ad esempio il preavviso
sarebbe di 15 giorni e viene fissato a 6 mesi). Il problema è capire se
l’autonomia contrattuale può stabilire termini diversi. È solitamente
differenziata a seconda che si tratti di licenziamento (maggiore) o di
dimissioni (minore)
2. la conseguenza del mancato preavviso: l’art 2118 c.c. afferma nel
primo comma che si può recedere “dando il preavviso”, mentre nel
secondo comma prevede che “in mancanza di preavviso, il recedente è
tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo della
retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso”.
Dobbiamo prendere in considerazione l’efficacia del preavviso che può
essere:
- efficacia reale del preavviso: secondo l’opinione maggioritaria il
preavviso è elemento costitutivo del recesso e, di conseguenza si ritiene
che anche quando non vi sia attività di lavoro, perché il datore di lavoro
esonera il lavoratore dal prestarla, il rapporto si estingua solo al
compimento del preavviso medesimo. Il rapporto si considera cessato
quando viene a scadenza il periodo di preavviso. La scadenza si ha
sempre e comunque quando scade il preavviso. Ciò significa che il
rapporto di lavoro continua secondo la disciplina precedentemente in
atto e che gli devono essere applicate tutte le norme , legislative e
contrattuali (es. aumenti retributivi) che successivamente siano
intervenute e, che il datore di lavoro, seguendo l’opposta tesi potrebbe
facilmente eludere.
Non vi è nessun problema se il preavviso è lavorato ma i problemi si
pongono quando il recedente non dà il preavviso ma paga l’indennità
sostitutiva. Qual è l’efficacia?
-efficacia meramente obbligatoria: obbligo di dare il preavviso. Se il
preavviso non viene dato si è tenuti al risarcimento del danno. È lo stesso
art 2118 c.c. che prevede in caso di mancato preavviso una
forfettizazione del risarcimento del danno “in mancanza di preavviso, il
recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente
all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di
preavviso”.
Opinione non maggioritaria ritiene che all’estinzione immediata del
rapporto può pervenirsi solo in presenza di una comune volontà delle
parti quando cioè, ferma restando l’imputazione al recedente
dell’iniziativa di estinguere il rapporto, vi è consenso ad escludere il
periodo di preavviso. Il problema qui sta nella corretta ricostruzione ed
interpretazione della volontà delle parti, specialmente del lavoratore. (pag.
362 libro)

Il problema ha rilevanza pratica: il rapporto continua anche dopo durante il


preavviso deve essere applicata come visto la disciplina corrispondente anche
per quel periodo (es. aumenti retributivi).
Secondo il nostro volume la tesi maggioritaria è quella dell’efficacia reale ma si
deve tener presente che la giurisprudenza della cassazione è orientata
maggiormente verso la tesi dell’efficacia meramente obbligatoria: il datore di
lavoro deve licenziare con preavviso; può però sostituire tale preavviso con
l’indennità sostitutiva e in quel caso il rapporto di lavoro si chiude sul
momento.
Il preavviso è un limite per il recesso ordinario ma non per la giusta causa che
è esonerata dal preavviso.

LA LIBERTA’ DI DIMESSIONI E I LIMITI, CONVENZIONALI E LEGISLATIVI


AL LICENZIAMENTO.

L’assetto del codice civile in materia di estinzione del rapporto di lavoro ha


subito, nel tempo una profonda trasformazione la quale ha riguardato
esclusivamente il licenziamento.

Per quanto concerne le dimissioni, invece, è stato mantenuto il principio di


libertà di cui all’art 2118 c.c., senza requisiti di forma né obblighi di
giustificazione, ma con il solo vincolo del preavviso. Tra l’altro, proprio
l’esigenza di garantire quella libertà ha comportato l’introduzione di
meccanismi di controllo della genuinità della volontà risolutoria. (Es. sono nulle
le dimissioni della lavoratrice nel periodo in cui opera il divieto di licenziamento
per causa di matrimonio se non confermate entro un mese presso l’Ufficio del
lavoro..). L’esigenza di garantire la genuinità delle dimissioni, da verificarsi
nella situazione concreta, rende assai dubbia la legittimità di quelle clausole
della contrattazione collettiva ai sensi delle quali , al verificarsi di determinati
comportamenti del lavoratore (es. assenza ingiustificata oltre un certo
termine) questi è ritenuto dimissionario.

Le limitazioni che sono state poste al licenziamento appartengono a due grandi


gruppi ma prima di esaminarle è opportuno ricordare come già nel codice civile
fossero presenti momenti anticipatori della tutela dell’interesse del prestatore
di lavoro alla conservazione del rapporto attraverso la irrecedibilità da parte
del datore di lavoro in presenza di impossibilità sopravvenuta della
prestazione lavorativa (art 2110 e 2111 c.c.) … (pag. 364)
Le limitazioni del potere del datore di lavoro di licenziare hanno avuto origine
nella contrattazione collettiva sulla base di una distinzione tra due dimensioni
indubbiamente diverse tra loro:
• quella individuale che ha riguardo al singolo rapporto e alla sua
collocazione, utilizzabilità e funzionalità nell’ambito dell’organizzazione
produttiva;in quest’ambito era prevista una tutela di tipo sostanziale – il
principio per cui il licenziamento doveva essere sorretto da un giustificato
motivo – con possibile controllo a licenziamento già intimato, circa il
rispetto di quel principio e con la previsione , in caso negativo, di
conseguenze sanzionatorie di tipo pecuniario applicate da un apposito
collegio di conciliazione e arbitrato.
• quella collettiva che ha riguardo alle dimensioni in senso ampio
dell’impresa e alle sue scelte economiche generali. Stante la più diretta
implicazione del principio di libertà di iniziativa economica, la limitazione
si esauriva in un confronto preventivo con le organizzazioni sindacali il
cui esito negativo non intaccava la libertà delle parti.

L’intervento legislativo ha visto il proporsi di 4 leggi:

• legge 15 luglio 1966 n° 604


• legge 20 maggio 1970 n° 300 (art 18 statuto dei lavoratori)
• legge 11 maggio 1990 n° 108
• legge 23 luglio 1991 n° 223
questi leggi è prendevano in considerazione il solo licenziamento individuale
mentre la materia di licenziamento collettivo per riduzione del personale” è
stata lasciata fino alla legge 223/1991 alla regolamentazione degli accordi
interconfederali con i limiti propri dell’autonomia collettiva:
• sotto il profilo soggettivo: efficacia per i soli iscritti ai sindacati stipulanti
• sotto il profilo oggettivo: il settore considerato era solo quello industriale
Dalla diversità delle fonti di disciplina è derivata una netta separazione tra i
due tipi di licenziamento , che tuttavia non ha impedito l’insorgere di frequenti
difficoltà di classificazione tutte le volte in cui il licenziamento fosse stato
determinato da esigenze oggettive dell’impresa di carattere organizzativo.
La legge 223 /1991 ha codificato la differenza introducendo , sulla scorta della
disciplina comunitaria, una specifica definizione di licenziamento collettivo ma
ciò non ha risolto i problemi esistenti.
È comunque opportuno seguire lo schema tradizionale e quindi trattare in
primo luogo dei licenziamenti individuali e poi di quelli collettivi
IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE

LIMITI DI CARATTERE FORMALE O PROCEDIMENTALE:


riguardano la forma intesa sia come modo di
manifestazione della volontà ovvero come
procedimento, cioè come processo di formazione

DI CARATTERE SOSTANZIALE: riguardano innanzitutto i presupposti interni


del potere (ragioni) , che non è più libero, com’era in base all’art 2118 c.c. ma
viene condizionato all’esistenza di un giustificato motivo o di una giusta causa
(art 3 legge 604/1966 e art 2119 c.c.); possono poi riguardare il rispetto di
posizioni giuridiche del lavoratore provviste di autonoma tutela, come si
verifica nel caso di licenziamento discriminatorio, che è oggetto di specifico

VIOLAZIONE DEI SANZIONE “DEBOLE”: il


LIMITI licenziamento intimato in
Comporta sanzioni violazione di quei limiti è illecito
diversificate, disposte ma tuttavia idoneo ad
secondo un principio di estinguere comunque il rapporto
gradualità. Quest’ultima (si parla per il lavoratore di
stabilità obbligatoria). Questa
forma di tutela risale alla legge
604/1966 ed è riservata a datori

SANZIONE “FORTE”: il licenziamento illegittimo non è in grado di estinguere il


rapporto medesimo che permane (stabilità reale). Questa è stata introdotta con
lo Statuto dei Lavoratori del 1970 e concerne datori di lavoro in grado di
sopportarla per la loro consistenza economica ed organizzativa (misurata sulla

La coerenza di questo disegno normativo è stata tuttavia compromessa,


almeno in parte (un correttivo è stato introdotto dalla legge 108/1990 dalla
scelta, compiuta nello statuto dei lavoratori, di calcolare il numero dei
dipendenti con riferimento non all’intera impresa ma alle sue singole
articolazioni (le unità produttive autonome).
I LIMITI FORMALI

LA FORMA DEL LICENZIAMENTO ED I VINCOLI “PROCEDIMENTALI”

Come detto il primo vincolo per il datore di lavoro riguarda la forma come
modo di manifestazione della volontà di recedere.

Art 2 legge 604 del 1966: “Il datore di lavoro, imprenditore o non
imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di
lavoro. Il prestatore di lavoro può chiedere, entro quindici giorni dalla
comunicazione, i motivi che hanno determinato il recesso: il tal caso il datore di
lavoro deve , nei sette giorni dalla richiesta, comunicarli per iscritto. Il
licenziamento intimato senza l’osservanza delle disposizioni di cui ai commi 1
e 2 è inefficace. Le disposizioni di cui al comma 1 e di cui all’art 9 si applicano
anche ai dirigenti.”

Il testo di questo articolo è il testo come modificato dalla legge 108/1990. la


forma richiesta è una forma scritta ab substantiam. Il licenziamento orale è
nullo. Il problema del licenziamento orale è che in certe situazioni potrebbe
essere fatto passare per dimissioni. Sappiamo però che oggi questo non è più
possibile con l’introduzione, da parte della legge del novembre 2007, di
appositi moduli di licenziamento.
La regola è di applicazione pressoché generalizzata posto che ne restano
esclusi solo:
• i rapporti di lavoro domestico (L. 339/1958 con almeno 4 ore giornaliere
ma a maggior ragione anche quelli con orario inferiore)
• i rapporti di lavoro dei prestatori di lavoro ultrasettantenni in possesso
dei requisiti pensionistici, sempre che non abbiano optato, ai sensi della
normativa vigente, per la prosecuzione del rapporto e il differimento
della pensione (art 4 comma 2 legge 108/1990)
sono invece espressamente ricompresi dallo stesso art 2 comma 4 i rapporti di
lavoro con i dirigenti che pure sono estranei alle limitazioni legali in ordine alla
giustificatezza del licenziamento.
Il licenziamento intimato senza forma scritta è inefficace. Il requisito della
forma scritta comporta che l’atto sia sottoscritto dal datore di lavoro o
comunque dal soggetto munito dei poteri rappresentativi necessari essendo
altrimenti inefficace salva successiva ratifica con effetto retroattivo..
È da sottolineare che il licenziamento è un atto unilaterale e recettizio e
conseguentemente produce i suoi effetti quando giunge a destinazione: si
presume che il destinatario ne sia a conoscenza nel momento in cui l’atto
perviene al domicilio del lavoratore. Quest’atto deve essere indirizzato al
lavoratore (non può essere indirizzato ad un soggetto terzo perché è un atto
recettizio).

Il secondo comma dell’art 2 introduce un meccanismo di tipo procedurale che


concerne la motivazione del licenziamento (NB da con confondere con il
principio di giusta causa!!!!). in base a tale comma il lavoratore può chiedere ,
entro quindici giorni dalla comunicazione i motivi che hanno determinato il
recesso. In tal caso il datore di lavoro ha l’obbligo di comunicarli, sempre per
iscritto entro sette giorni dalla richiesta, anche in questo caso a pena di
inefficacia.
Per tanto se è vero che il licenziamento non è più libero ma deve essere
sorretto da una congrua motivazione è vero però che l’indicazione del motivo
non è necessariamente contestuale all’intimazione del licenziamento stesso ma
viene lasciata alla disponibilità del lavoratore. Quindi l’indicazione di motivi può
anche non esserci ma l’importante è che esistano. (NB lo stesso lavoratore
infatti può avere interesse a che le ragioni del licenziamento non vengano rese
esplicite soprattutto dove esse riguardino la sfera disciplinare e possono
pregiudicare successivi rapporti di lavoro).. Se il lavoratore non chiede i motivi
è acquiescente se non impugna il licenziamento davanti al giudice, ma se lo
impugna deve emergere la giustificazione (infatti in fase stragiudiziale i motivi
possono non saltar fuori).

Altra regola procedurale è quella però all’art 7 dello Statuto dei lavoratori che
riguarda per i commi due e tre il licenziamento qualificabile come disciplinare.
Abbiamo due normative che sono un po’ sfalsate ma dobbiamo tener presente
che se abbiamo a che fare con un licenziamento qualificabile come disciplinare
si deve applicare l’art 7 dello Statuto.
Quest’ultimo impone al datore di lavoro di contestare preventivamente al
lavoratore gli addebiti sui quali il successivo licenziamento potrebbe fondarsi. I
motivi devono essere evidenti prima del licenziamento. Conseguentemente tali
motivi saranno scritti anche nella lettera disciplinare e di conseguenza sarà
difficile che la procedura all’art 2 della legge 604 comma 2 venga eseguita. In
teoria sarebbe comunque possibile non fare riferimento esplicito alle ragion i
ma sarebbe inutile perché le ragioni sostanziali sono già emerse nella lettera.
Ne deriva che la procedura all’art 2 non ha reale significato per tutte le ipotesi
si licenziamento per ragioni soggettive disciplinari ma opera solamente per
ragioni oggettive.

L’indicazione dei motivi assolve ad un'altra importante funzione: quella di


fissare l’oggetto dell’eventuale controversia, nel senso che il datore di lavoro
non può successivamente modificarli (principio di inamovibilità dei motivi).
L’indicazione dei motivi deve essere precisa, specifica, circoscritta perché in tal
modo si riescono a cristallizzare le ragioni del licenziamento.

NB: la giuri maggioritaria non esclude però che in caso di licenziamento


disciplinare il datore di lavoro possa poi allargare le circostanze diverse da
quelle contestate qualora esse abbiano una funzione meramente confermativa
o esplicativa dei fatti contestati. … però con tale pretesto non è possibile
svuotare il significato dell’immutabilità!!!

Se l’art 2 commi due e tre non vengono rispettati il licenziamento è


inefficace e quindi il rapporto deve considerarsi ancora in piedi e quindi il
lavoratore deve avere la retribuzione dal momento dell’estromissione. Ila
questione dell’inefficacia ha alimentato varie discussione nella Corte che in
relazione all’inefficacia distingue tra:
• violazione del primo comma: il licenziamento non esiste è nullo, non
produce alcun effetto.
• violazione del secondo comma: la mancata indicazione delle
motivazioni non è un vizio intrinseco al licenziamento ma è estrinseco. Il
licenziamento c’è ma non vengono indicati i motivi e quindi quel
licenziamento è un licenziamento che è posto per determinate ragioni
che però sono fatte valere in modo non corretto. Di conseguenza quel
licenziamento che pur si fonda su quelle determinate ragioni non è
giustificato e conseguentemente ha lo stesso trattamento del
licenziamento ingiustificato (art 8 legge 604/66)

Art 8 legge 604/66: “ Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi
del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è
tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni, o in
mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità di importo compreso
fra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione
globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle
dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al
comportamento e alle condizioni delle parti, la misura massima della predetta
indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro
con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di
lavoro con anzianità superiore ai vent’anni, se dipendenti da datore di lavoro
che occupa più di quindici prestatori di lavoro.

Questa posizione porta a dire che quel licenziamento è efficace perché l’art 8
non esclude la cessazione del rapporto (riassumere!!). ci si ritrova quindi in
contrasto con la legge che ritiene che il licenziamento sia inefficace nonostante
il ragionamento della Corte porti a ritenere che il licenziamento sia comunque
valido:
il vizio al secondo comma è estrinseco il problema è che le ragioni non
vengono esplicitate in modo corretto e quindi è come il licenziamento non
fosse ingiustificato evalido a norma dell’art 8 e quindi in contrasto con la legge
del 604 che dice che è inefficace.

Alla fine si è deciso che il licenziamento è inefficace ma deve essere


corrisposto un risarcimento del danno .

Art 18 Statuto dei lavoratori comma quarto: “Il giudice con la sentenza di
cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno
subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l’inefficacia
o l’invalidità stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di
fatto dal giorno del licenziamento sino al giorno dell’effettiva reintegrazione e
al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del
licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura
del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione
globale di fatto….”
IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE (dal libro)

È istituto nato nell’ambito della contrattazione collettiva che molto spesso


considera il licenziamento medesimo come la massima delle sanzioni
disciplinari (licenziamento per colpa).
Il codice invece separa i due istituti assegnando:
• alle sanzioni disciplinari una funzione correttiva (art 2106 c.c.) in vista
della conservazione del rapporto);
• al licenziamento la funzione estintiva dello stesso (art 2118 c.c.)
sennonché l’introduzione dell’art 7 Statuto dei lavoratori (soprattutto la
formulazione del quarto comma dello stesso

Art 7 statuto dei lavoratori comma 4° - “Fermo restando quanto disposto


dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni
disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro; inoltre
la multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della
retribuzione base e la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di
dieci giorni.”

ha fatto sorgere il problema dell’applicabilità di quei suoi nuovi limiti e


dell’estensione delle garanzie per il lavoratore anche al licenziamento
qualificabile come disciplinare.

In un primo momento la giurisprudenza ordinaria pur riconoscendo la


funzione disciplinare propria anche la licenziamento, ha ritenuto che le
garanzie di cui all’art 7 non sulla base della mera inclusione del licenziamento
fra le sanzioni, ma solo in quanto quelle garanzie fossero state
espressivamente richiamate da tali fonti e dunque non per forza loro.
Con la sentenza 204/1982 la Corte Costituzionale ha ritenuto contrastante
con il principio di eguaglianza il diverso trattamento tra sanzioni conservative e
sanzioni espulsive quanto all’applicazione del principio del contraddittorio,
considerato come principio di elementare civiltà giuridica, ed ha perciò
dichiarato la illegittimità costituzionale dei tre commi dell’art 7
riguardanti rispettivamente:
- la predeterminazioni e la pubblicità del codice disciplinare;
- la preventiva contestazione degli addebiti;
- l’audizione a difesa
“ se interpretati nel senso che siano inapplicabili ai licenziamenti disciplinari,
per i quali detti commi non siano espressamente richiamati dalla normativa
legislativa, collettiva o validamente posta dal datore di lavoro.
La sentenza è stata oggetto di numerose critiche soprattutto perché comunque
la nozione di licenziamento indisciplinare è rimasta comunque indefinita. La
successiva giurisprudenza, anche per non ricreare una nuova disparità di
trattamento , ha preferito adottare una nozione sostanziale di licenziamento
disciplinare , che ricorre tutte le volte in cui esso si fondi sulla colpa del
lavoratore , imponendosi in questo caso il rispetto del principio del
contraddittorio e di difesa.
Ricondotta alla legge la qualificazione del licenziamento disciplinare
quest’ultimo è stato identificato cometa reazione alla colpa del lavoratore cioè
- secondo lo schema dell’art 2106 c.c. – a comportamenti costituenti
inosservanza ai doveri stabiliti dagli artt. 2104 e 2105 c.c., doveri tra loro non
facilmente distinguibili a seconda che riguardino l’esecuzione del lavoro
nell’ottica del singolo rapporto o che siano posti a presidio dell’ordine e della
disciplina aziendale
L’integrale applicazione della sentenza 204/82 della Corte Costituzionale
avrebbe comportato nel caso di licenziamento disciplinare per colpa, il rispetto
dell’art 7 comma 1 e dunque la predeterminazione e la pubblicità dei
comportamenti costituenti colpa. Ma la giurisprudenza ha evitato tale
conclusione ritenendo che:

• la nozione di giusta causa e giustificato motivo sino già determinati dalla


legge (art 2119 c.c. e art 3 legge 604/66) in modo preciso;
• rifiutando di ipotizzare un rapporto di lavoro nel quale, a causa del
mancato assolvimento dell’obbligo di predeterminazione e pubblicità, il
potere di licenziare per colpa del lavoratore sia paralizzato.

Pertanto la mancata pubblicità di tali comportamenti produce effetti solo sul


piano probatorio, impedendo al datore di lavoro di dare per pacifica la
consapevolezza, nel lavoratore, di porre in essere un comportamento
illegittimo. D’altronde la stessa Corte Costituzionale nella successiva sentenza
427/89 ha omesso di considerare il primo comma, dichiarando l’illegittimità
dell’elusione dei soli commi secondo e terzo, nei quali trova espressione (e si
esaurisce) il principio del contraddittorio e di difesa.

LIMITI SOSTANZIALI

Art 1 della Legge 604/66 “ il licenziamento del prestatore di lavoro non può
avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art 2119 c.c. o per giustificato
motivo”.

I limiti sostanziali al licenziamento individuale posti dal legislatore sono quindi


due:
• la giusta causa (art 2119 c.c.)
• il giustificato motivo (art 3 legge 604/66)

LA GIUSTA CAUSA

La giusta causa è definita dal codice civile come quella “causa che consente la
prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” (art 2119 c.c.). essa sussiste
quando vi sono comportamenti del prestatore di lavoro. Ha una connotazione
tipicamente soggettiva.
Art 2119 c.c. – Recesso per giusta causa – “ Ciascuno dei contraenti può
recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a
tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato,
qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche
provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore
di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo
comma dell’art precedente.
Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento
dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda.

Come abbiamo già visto essa opera sia nel contratto a tempo indeterminato,
esonerando il recedente dal preavviso, sia nel contratto a tempo determinato,
consentendogli di estinguere il rapporto prima della scadenza del termine.
Poiché nel secondo tipo di contratta la giusta causa rappresenta l’unico
strumento per la risoluzione anticipata del vincolo la dottrina tradizionale ha
ritenuto che la nozione di giusta causa dovesse essere intesa, nel contratto a
termine, in modo meno rigoroso che nel contratto a tempo indeterminato. Ma
tale opinione sforza la dicitura testuale la quale distingue le tipologie
solamente dal punto di vista degli effetti del recesso nel tempo.

L’art 2119 fa un riferimento generico alla giusta causa e non specifica se le


ragioni che vengono in evidenza spossano essere sia ragioni oggettive che
ragioni soggettive.
Dobbiamo però tener presente che il secondo comma specifica che “non
costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento
dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda”. Questa
è una ragione oggettiva! Taluni quindi hanno ritenuto che proprio perché tale
ragione è una ragione oggettiva che non comporta giusta causa a contrario
esistono quindi altre ragioni oggettive che possono comportarla.
Questa però è una tesi non più seguita in quanto ad oggi si ritiene che tutte le
ipotesi che comunque riguardano l’impresa (improseguibilità o difficoltà che
riguardano l’impresa) non costituiscono giusta causa ma giustificato motivo
con preavviso.
Di conseguenza le ragioni che costirtuiscono giusta causa possono essere
solamente ragioni soggettive. Ci si chiede quindi quali siano questi
comportamenti.
Potremmo dire tutti quei comportamenti che costituiscono inadempimento.
Avranno quindi rilievo le violazioni degli obblighi legali di (diligenza, fedeltà,
ecc.) e di quelli eventualmente posti dalla contrattazione collettiva (si parlerà
quindi di licenziamento disciplinare).
Si è poi discusso se la giusta causa si riferisca solo all’inadempimento o se
ricomprenda anche situazioni diverse dall’inadempimento, in seguito alle quali
tuttavia sia venuto meno il vincolo di fiducia che si suppone caratterizzare il
rapporto di lavoro (avrebbero in questa seconda ipotesi rilievo fatti e
comportamenti riguardanti la vita privata del lavoratore..). sussistono delle
condotte che pur senza provocare inadempimento guastano il rapporto di
fiducia incidendo sulle aspettative che il datore di lavoro ha su un futuro
corretto adempimento da parte del lavoratore.
A favore dell’opinione estensiva si adduce
• proprio la generalità dell’espressione normativa in particolare se
confrontata con l’antecedente legge degli anni 20 sull’impiego privato
nella quale il recesso per giusta causa era collegato solo a “mancanze”
cioè a inadempimenti colpevoli;
• al fondamento fiduciario del rapporto di lavoro e alla necessità che la
collaborazione personale non sia in alcun modo turbata neppure da
eventi che, pur esterni al rapporto di lavoro, possono tuttavia ritenersi
ad esso non estranei, se e in quanto tali da incidere sull’aspettativa di
una normale continuazione di quella collaborazione (es. commissione di
un furto da parte di un dipendente).

La giurisprudenza opta decisamente per questa opinione . Inoltre su tale punto


è molto rigida la giurisprudenza della Cassazione

A favore invece dell’opinione restrittiva


• si è richiamato in primo luogo al processo di spersonalizzazione del
rapporto di lavoro. Questo richiamo è però ormai inutilizzabile per quanto
riguarda le modalità di assunzione dopo il tramonto della “impersonale”
chiamata numerica. Esso comunque si fonda sull’art 8 dello St. lav. il
quale vieta al datore di lavoro di indagare su fatti che non siano rilevanti
ai fini della valutazione delle attitudini professionali del lavoratore;
• introduzione con la legge 604/66 del giustificato motivo soggettivo
definito come “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali” . la
nozione di giusta causa sarebbe perciò stata modificata in senso
restrittivo dalla nuova nozione di giustificato motivo sicché la differenza
tra l’una e l’altra sarebbe solo di tipo quantitativo posto che per la prima
è prevista la prosecuzione anche se provvisoria, mentre per la seconda è
imposto il preavviso.

La cassazione comunque non rimette al datore di lavoro ogni valutazione di tali


ragioni (no mera valutazione del datore di lavoro) ma cerca per quanto
possibile di indicare dei principi oggettivi (criteri) . i
È la medesima coscienza sociale che ritiene tali comportamenti con compatibili
con il rapporto di lavoro.
Il problema è ora quello di capire cosa sia la fiducia. La Cassazione indica una
serie di criteri per relativizzare tale nozione:
• Se le mansioni svolte sono importanti ed elevate il rapporto fiduciario tra
datore e lavoratore sarà maggiormente intenso e anche un
comportamento lieve potrebbe sminuire tale fiducia;
• Individuare il grado di colpa che può essere accertato nella singola
situazione
Deve esserci una ricerca di indici oggettivi che consentono che la valutazione
del datore di lavoro non sia arbitraria.

Al di la della fondatezza delle due opinioni si esprime un delicato conflitto tra


due opposte esigenze:
- quella di una generale affidabilità delle prestazioni di lavoro;
- quella di tutelare in ogni caso certi ambiti di riservatezza del lavoratore, il cui
coinvolgimento all’interno del rapporto di lavoro non può oltrepassare certi
limiti.
Soluzione equilibrata è appunto quella di intendere la fiducia in senso
oggettivo e di ritenere perciò rilevanti , ai fini della sussistenza di una giusta
causa solo quelle circostanze che sono tali da “menomare la fiducia nei
successivi inadempimenti (art 1564 c.c.).

LE RAGIONI OGGETTIVE (prof)

IL GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO Art 3 L. 604/66

La formula più antica riguardante il licenziamento per giustificato motivo


parlava di “ RAGIONI INERENTI ALL’ATTIVITA’ PRODUTTIVA” mentre
l’attuale formula (art 3 L. 604/1966 come modificata dalla L. 108/1990) recita
così:

“ Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un


notevole inadempimento degli obblighi contrattuali dei prestatori di lavoro
ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva +, all’organizzazione
del lavoro e al regolare funzionamento di essa.”

Questa nozione prevede due ipotesi distinte:

1. il “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali”


2. le “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e
al regolare funzionamento di essa”

Con riguardo a questa seconda ipotesi c’è chi ha tentato di dare un significato
diverso a ciascuna delle tre ipotesi:
- ragioni inerenti all’attività produttiva
- ragioni inerenti all’organizzazione del lavoro
- ragioni inerenti al regolare funzionamento di essa
mentre altri ritengono si tratti di una mera esemplificazione di uno stesso
oggetto.
In realtà è possibile rintracciare una qualche differenza tra:

1. ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del


lavoro: queste infatti si baserebbero esclusivamente su scelte e
ragioni individuate dall’impresa.
2. regolare funzionamento di essa: sembra potersi riferire ai casi in cui
viene in considerazione la persona del lavoratore. Essa però non viene in
evidenza nel senso soggettivo (inadempimento) ma mentre nei primi
due casi le ragioni coincidono con una scelta autonoma dell’impresa nel
terzo caso è il regolare funzionamento può essere messo in discussione
da caratteristiche particolari o situazioni del prestatore di lavoro che
determinano un irregolare funzionamento dell’organizzazione (es.
lavoratore divenuto inidoneo alle proprie mansioni e a mansioni
equivalenti, oppure il lavoratore frequentemente ammalato). Viene i
evidenza quindi una situazione soggettiva del lavoratore che potrebbe
determinare un mal funzionamento dell’organizzazione.

Si dovrà valutare fino a che punto ha rilievo la situazione del lavoratore. Non
esiste uno standard di valutazione ma si dovrà vedere di volta in volta i singoli
casi.

1. inidoneità sopravvenuta: la legge del 1999 prevede che tali lavoratori


debbano essere adibiti a mansioni equivalenti o anche inferiori e laddove
ciò non fosse possibile il datore di lavoro può licenziare il soggetto.

2. malattia: si deve aver riguardo all’art 2110 c.c. è infatti un caso di


sospensione del rapporto di lavoro. il lavoratore ammalato ha diritto alla
conservazione del posto di lavoro ma ciò non in assoluto. Infatti è
stabilito un periodo di comporto che viene stabilito dalla legge o dal
contrattazione collettiva. Solo all’interno di tale periodo il lavoratore non
può essere licenziato. Normalmente nell’arco di vigenza del contratto si
sommano le assenze fatte dal lavoratore nei vari anni. Maturato tale
periodo il lavoratore perde il diritto al mantenimento del posto di lavoro.
per un periodo inoltre si era ritenuto che fermo restando il periodo di
comporto il lavoratore potesse essere licenziato anche prima della
maturazione di tale periodo ancorché il datore di lavoro riuscisse a
dimostrare che le ripetute assenze del lavoratore avevano comportato
una irregolarità nello svolgimento della organizzazione. Questa tesi è
stata superata dalla Corte di Cassazione la quale esclude tale possibilità
basandosi sullo stesso articolo che prevede per l’appunto “ fino a
maturazione del periodo di comporto”. È chiaro però che oltre tale
motivo il datore di lavoro dovrà solo dimostrare che tale periodo è stato
maturato, non deve dare ulteriori motivazione all’eventuale
licenziamento.

3. carcerazione preventiva: è un assenza che potrebbe essere non


imputabile al lavoratore. In questo caso la possibilità di licenziare si
misura sulla base della disorganizzazione che tale assenza crea. Se il
ruolo ricoperto da tale lavoratore è particolarmente importante e la sua
assenza è prolungata il datore di lavoro potrebbe procedere con il
licenziamento motivato dal pregiudizio al regolare svolgimento
dell’impresa. Il datore deve dar prova della disorganizzazione creata.

Per quanto riguarda invece le altre due ipotesi (ragioni inerenti all’attività
produttiva, all’organizzazione del lavoro) si deve precisare rispondono ad
una scelta dell’impresa (es. si decide di ridurre la produzione, oppure di
introdurre nuove tecnologie . . .licenziamento tecnologico). Se cerchiamo
qualche criterio affidabile per capire quando si possa licenziare per giustificato
motivo per scelta dell’impresa si deve aver riguardo ad alcune sentenze in
merito:
• andamento in diminuzione dell’attività di impresa, licenziamento
tecnologico esso è giustificato anche se le in realtà le cose per l’impresa
non vadano più male;
• perché si sopprime il posto e si decide di ridistribuire le mansioni che
ricopriva il lavoratore tra gli altri lavoratori (ridistribuzione delle mansioni
per ridurre i costi dell’impresa). Questa ipotesi sembra ammettere la
possibilità di licenziamento per ridurre i costi dell’impresa ma ciò non è
possibile perché se si ammettesse tale possibilità si dovrebbe ammettere
anche l’ipotesi di licenziamento del lavoratore anziano per assumerne
uno più giovane per aumentare i profitti dell’impresa.

Il panorama è molto complesso ed è difficile individuare criteri costanti riferibili


alle singole ipotesi. La giurisprudenza però a proposito da qualche indicazione
affidabile di carattere generale:

1. la scelta del datore di lavoro di ridurre il personale non è sindacabile nel


merito in quanto altrimenti potrebbe esserci la violazione dell’art 41 Cost.
però è possibile accertare la sua effettività – veridicità: tale scelta era
solo uno strumento per potersi liberare del lavoratore o dava
realmente una opportunità sul piano economico ?
2. deve essere una scelta ragionevolmente stabile (attenzione il
licenziamento di più di 5 lavoratori è considerato un licenziamento
collettivo) e di conseguenza il datore di lavoro non può poco dopo
assumere un altro lavoratore per le stesse mansioni. È segno di poca
serietà.
3. deve esserci un nesso di causalità tra la scelta e il licenziamento di
quel particolare lavoratore. Data infatti per scontata la scelta del
datore di lavoro bisogna che le ragioni della scelta siano coerenti con
l’aver licenziato proprio quel particolare lavoratore. Magari la scelta
poteva ricadere su una certa rosa di lavoratori e quindi il datore dovrà
giustificare perché all’interno di quella rosa ha optato per il licenziamento
di quel lavoratore.
4. onere di ripescaggio e di ricollocazione (c.d. repechage) : il datore
deve dare dimostrazione di non poter utilmente ricollocare il lavoratore in
altre posizioni nell’impresa. A proposito di ciò però vi sono delle critiche
in quanto di dice che la legge non parla di tale onere. È infatti un istituto
di creazione giurisprudenziale (inammissibile nel nostro ordinamento). In
realtà la giurisprudenza non ha inventato tale regola ma la ha dedotta
dal principio per cui occorre creare un bilanciamento tra le ragioni
dell’impresa e la tutela alla conservazione del posto di lavoro. esso si
realizza quando tutta l’impresa (anche le altre unità produttive) devono
sacrificare tale lavoratore. È quindi un licenziamento necessitato. Il
licenziamento in sostanza deve costituire la RATIO ESTREMA. Tale onere
deriva proprio da qui: applicazione di un principio generale.

L’INTERESSE DELL’IMPRESA (precisazione prof)

Con riferimento all’interesse dell’impresa nel testo viene proposta una tesi che
però non è quella maggioritaria. Secondo tale visione l’interesse dell’impresa
dovrebbe essere visto come un interesse collettivo del quale sono parte sia
l’imprenditore che il lavoratore.
La tesi maggioritaria vede invece il rapporto di lavoro come un rapporto
conflittuale di scambio e quindi che l’interesse dell’impresa sia sempre
strumento per individuare un interesse specifico dell’imprenditore. Il
licenziamento è il momento di maggior conflitto. Tale interesse, che è quindi
del datore di lavoro non può però essere un interesse arbitrale ma è un
interesse tipizzato secondo delle regole oggettive di organizzazione. L’interesse
deve essere conforme a criteri organizzativi dell’organizzazione del lavoro.
quasi mai l’interesse del lavoratore viene in evidenza con riferimento
all’organizzazione se non per quanto riguarda appunto la delimitazione
dell’arbitrio del datore di lavoro.

IL LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO. ALTRE FATTISPECIE DI


LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO

Come abbiamo visto il licenziamento deve essere sorretto da una ragione


(necessaria giustificazione del licenziamento, licenziamento ingiustificato) e
quindi a norma dell’art 1 della legge 604/66 non può avvenire che per
• giusta causa
• giustificato motivo

sono però previsti dei particolari divieti al licenziamento per talune ragioni e
cioè:
• art 4 L 604/1966 licenziamento discriminatorio
• altre ipotesi di divieto

IL LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO

Art 4 L. 604/1966 - Il licenziamento determinato da ragioni di credo politico


o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad
attività sindacali è nullo indipendentemente dalla motivazione adottata”

Il legislatore ha deciso che il licenziamento discriminatorio sia sanzionato con


la nullità (si tipicizza il fattore dell’illecito e quindi la sanzione è la nullità)
indipendentemente dalla motivazione che in concreto è stata adottata dal
datore di lavoro. Ma è previsto che l’onere della prova , quanto alla
sussistenza della discriminazione, sia a carico del lavoratore.
Questa norma va integrata con l’art 15 dello Statuto dei lavoratori il quale
prevede che ha esteso i fattori di discriminazione facendovi rientrare anche:
razza, lingua, sesso, l’handicap, età, orientamento sessuale,
convinzioni personali del lavoratore e della lavoratrice. Inoltre il
carattere discriminatorio è stato confermato anche dall’art 43 del D.lvo
286/1998 che contempla come fattore di discriminazione anche
l’appartenenza del lavoratore ad un gruppo etnico ed ad una
cittadinanza. Un ulteriore fattor di divieto concerne il caso di accertata
infezione di HIV.
Infine l’art 4 della legge 108/1990 ha ulteriormente rafforzato la tutela
discriminatoria prevedendo in ogni caso l’applicazione della disciplina della
reintegrazione (art 18 st. lav) anche al di là dei limiti dimensionali di
operatività di tale norma ed al di la delle esclusioni soggettive per
essa previste.

Con riferimento al licenziamento discriminatorio si devono fare due importanti


considerazioni:

1. PROBLEMA DEL MOTIVO UNICO E DETERMINANTE: in applicazione


del principio generale sulla necessità che il motivo sia unico e
determinante la giurisprudenza esclude perciò l’applicazione della tutela
antidiscriminatoria in tutti quei casi il cui il datore di lavoro possa dar
prova di un’altra ragione del licenziamento, idonee da sola a farlo
ritenere giustificato e ciò anche quando risulti in concreto la prova della
discriminazione. Questa tesi è stata contestata in dottrina in virtù della
rilevanza oggettiva della discriminazione attuata con il licenziamento, a
prescindere dall’elemento intenzionale.

2. PROBLEMA RIGUARDANTE LE ORGANIZZAZIONI DI TENDENZA: per


tali organizzazione l’art 4 comma 1 L. 108/1990 dispone la non
applicabilità della tutela reale, con la conseguente applicazione della
più blanda tutela obbligatoria; per quanto concerne il licenziamento
discriminatorio sanzionato in via generale con l’art 18 sulla base del
rinvio ad esso operato dall’art 3 della legge 108/90, l’art 4 della
medesima legge non fa espressamente salva tale sanzione , a differenza
che per le altre ipotesi di esclusione della tutela reale (cioè lavoratori
domestici, lavoratori ultrasettantenni in possesso dei requisiti
pensionistici: se ne sono quindi dedotte:
• L’inapplicabilità dell’art 3 : ma questa conseguenza può essere
evitata considerando come ha fatto la giurisprudenza l’applicazione
della tutela reale ai licenziamenti discriminatori come principio di
carattere generale e preminente rispetto alla tutela di particolari
interessi di cui sia titolare il datore di lavoro in ragione delle sue
finalità
• Irrilevanza nelle organizzazioni di tendenza del motivo
discriminatorio (pag 383 ??)

ALTRE SPECIFICHE IPOTESI DI DIVIETO

Le altre ipotesi nelle quali possa ravvisarsi un motivo illecito di licenziamento


diverso da quelli tassativamente indicati come discriminatori sono collegati:
1. specifica tutela della donna nel momento del matrimonio (L. n° 7/1963)
2. lavoratrice madre o padre lavoratore

La tutela della donna nel momento del matrimonio


Ai sensi della L. n° 7/1963 è nullo il licenziamento per causa di matrimonio,
tale presumendosi il licenziamento intimato nel periodo intercorrente dal
giorno della richiesta della pubblicazione fino ad un anno dalla celebrazione del
matrimonio medesimo. Era infatti che le lavoratrici che avevano contratto
matrimonio venissero licenziate. In alcuni casi si inserivano nel contratto delle
clausole di nubilato.

La tutela della lavoratrice madre (lavoratore padre)

L’art 54 comma 1 del D.lvo n° 151/2001 vieta il licenziamento delle


lavoratrici madri dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo
di interdizione obbligatoria, nonché fino al compimento di un anno di età del
bambino. Il divieto opera “in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza”
e quindi prescinde dalla conoscenza che ne abbia il datore di lavoro (e perfino
la stessa lavoratrice). Quest’ultima se licenziata durante tale periodo ha il
diritto di riottenere il ripristino del rapporto di lavoro mediante la presentazione
di una certificazione idonea a dimostrare l’oggettiva sussistenza, al momento
del licenziamento, delle condizioni che vietano il licenziamento. Il licenziamento
della lavoratrice madre è qualificato espressamente come nullo (art 54 comma
5). Il divieto viene meno (art 54 comma 4) in caso di colpa grave della
lavoratrice costituente giusta causa del licenziamento (non giusto motivo!!),
della cessazione dell’attività dell’azienda, di scadenza del termine ed infine di
esito negativo della prova, fermo restando, in quest’ultimo caso, il divieto di
discriminazione, facilmente aggirabile, altrimenti, in virtù della speciale
disciplina del recesso nel patto di prova.
Infine il recente D.Lvo n° 151/2001 ha esteso il divieto di licenziamento della
lavoratrice madre al padre lavoratore che usufruisca del congedo di
parentela. la tutela opera fino al compimento di un anno di età del bambino.

L’IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO

L’AZIONE GIUDIZIARIA E L’ONERE DELLA PROVA

Art 6 L. 604/1966 prevede che il licenziamento deve essere impugnato, a


pena di decadenza, entro 60 giorni dalla ricezione della
comunicazione, con qualunque atto scritto , anche stragiudiziale, idoneo a
rendere nota la volontà del lavoratore di contestare la legittimità del
licenziamento medesimo. Nonostante la norma non parli di atto sottoscritto dal
lavoratore sembra comunque non si possa prescindere dalla necessità che
l’atto comunque provenga dal lavoratore medesimo e sia a lui riferibile.
Vi è un eccezione: l’atto può provenire anche dalla organizzazione
sindacale in base ad un potere autonomo di impugnativa ad essa ,
espressamente riconosciuto dalla norma, senza che occorra
l’iscrizione del lavoratore all’organizzazione, ne il conferimento di una
specifica procura o mandato.
La procura scritta deve invece essere preventivamente conferita dal
lavoratore ad un terzo soggetto, come ad esempio all’avvocato al quale
il lavoratore si sia rivolto per la tutela dei propri interessi. Naturalmente il
lavoratore potrà successivamente ratificare per iscritto il precedente atto di
impugnazione, mentre tutto è più facile se la lettera di impugnazione del legale
viene sottoscritta anche dal lavoratore (soluzione molto diffusa che evita i
problemi).

Inoltre nell’ambito della tutela obbligatoria, per la quale la L. n° 108/1990


ha introdotto un tentativo di conciliazione preventivo rispetto all’azione
giudiziaria, la comunicazione al datore di lavoro della richiesta
dell’espletamento della procura di conciliazione, vale ad impedire,
ovviamente se avanzata nel termine, la decadenza dall’impugnazione.

L’introduzione di un termine di decadenza per l’impugnazione del


licenziamento risponde ad esigenze di certezza in ordine alla permanenza del
rapporto di lavoro e in relazione alla struttura organizzativa, che verrebbe
turbata dal reinserimento, anche dopo molto tempo, del lavoratore
illegittimamente licenziato. Sennonché è certo che il termine di impugnazione
(breve) di decadenza concernente l’impugnazione , ma non il successivo
esercizio dell’azione giudiziaria, per la quale opera il termine di prescrizione
quinquennale, inidoneo a garantire quelle esigenze di certezza, ovvero si
impone (quando si tratti di azione di nullità) l’imprescrittibilità dell’azione, che
di quelle esigenze rappresenta l’esatto contrario.
Nonostante l’art 6 della L. 604/1966 appaia onnicomprensiva, il termine di
decadenza deve ritenersi inapplicabile al licenziamento orale che è da
considerarsi tamquam non esset! (pag 386??)
Il termine di decadenza decorre dalla comunicazione del licenziamento,
ovvero dalla comunicazione dei motivi se non contestuali all’atto. La
decadenza non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere oggetto di
tempestiva eccezione da parte del datore di lavoro, non vertendosi qui in
materia sottratta alla disponibilità delle parti (art 2969 c.c.). quando essa sia
maturata, il licenziamento è inoppugnabile, ma la giurisprudenza
ammette che il lavoratore possa ancora esperire un’azione di
risarcimento, secondo le regole del diritto comune (ivi comprese quelle
relative all’onere della prova), per tutti quei danni che non siano
direttamente collegati alla esclusione del rapporto: sarà così
automaticamente risarcibile:
• il danno morale da licenziamento ingiurioso
• il danno biologico
• il danno alla vita di relazione
derivante dal recesso in quanto tale.

Nell’area della tutela cosiddetta obbligatoria l’art 5 della L. 108/1990


stabiliva che la domanda giudiziale dovesse essere preceduta da un
tentativo di conciliazione stragiudiziale
• o in base alle specifiche procedure previste dai contratti collettivi
• o in sede sindacale
• o in sede c.d. amministrativa cioè davanti alla Commissione di
conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro
in caso di fallimento della conciliazione ciascuna delle parti, entro 20
giorni, avrebbe potuto promuovere la soluzione della controversia
mediante arbitrato. La ratio della norma era quella di consentire esiti
accettabili delle controversie, dal punto di vista equitativo, nell’ambito delle
piccole imprese, attraverso una gestione sostanzialmente sindacale delle
stesse. Sennonché il tentativo obbligatorio di conciliazione è stato esteso a
tutte le controversie di lavoro, cosicché la specifica disciplina relativa alla
tutela obbligatoria risulta ormai assorbita dalla disciplina generale.

Instaurata la controversia davanti al giudice opera la norma all’art 5 della


L. 604/1966 che prevede che l’onere della prova della sussistenza
della giusta causa e del giustificato motivo di licenziamento spetta al
datore di lavoro. Non si tratta di un inversione dell’onere della prova,
giacché se è vero che attore in giudizio è il lavoratore è pur sempre il datore di
lavoro che fa valere nella controversia l’esercizio di un potere, dei cui
presupposti egli sarebbe tenuto a dar prova anche in base ai principi generali.
Resta invece al lavoratore la prova dell’esistenza dell’atto di licenziamento
(non sempre facile spesso datore vuole far apparire dimissioni).
La domanda del lavoratore ha ad oggetto l’applicazione di determinate
conseguenze sanzionatorie del licenziamento illegittimo. È dunque a suo carico
la prova dei presupposti di quelle conseguenze, soprattutto per quanto
concerne la consistenza numerica del personale occupato che è il principale
criterio di diversificazione per l’applicazione, rispettivamente, della tutela
obbligatoria e della tutela reale. Non è una prova particolarmente difficile
essendo sufficiente che il lavoratore chieda l’esibizione in giudizio del libro
matricola dell’azienda.

IL SISTEMA SANZIONATORIO

La illegittimità del licenziamento che può essere determinata da diversi vizi:


• assenza di giusta causa o giustificato motivo
• vari tipi di nullità
• inefficacia
è caratterizzata da una pluralità di strumenti sanzionatori alcuni specifici del
rapporto di lavoro altri ricavabili dal diritto comune dei contratti.
La divisione più significativa si ha tra:
• ipotesi nelle quali il vizio non incide sull’idoneità del licenziamento ad
estinguere il rapporto si ché il licenziamento deve qualificarsi come
illecito (tutela obbligatoria)
• ipotesi nelle quali il vizio incide su quella idoneità e il licenziamento, oltre
che illecito (e quindi produttivo di danno) è anche invalido (tutela reale)

LA TUTELA OBBLIGATORIA (ART ( LEGGE 604/66)

La tutela obbligatoria è stata introdotta dalla L. 604/1966. Si qualifica come


obbligatoria in quanto grava sul datore di lavoro un mero obbligo di licenziare
solo in presenza di giusta causa o giustificato motivo. L’art 8 di tale legge
prevede che :

“ Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per
giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il
prestatore di lavoro entro il termine di trenta giorni o, in mancanza, a risarcire
il danno versandogli un’indennità di importo compreso tra il minimo di 2,5 ed
un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto
riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa,
all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle
condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere
maggiorata fino a dieci mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità
superiore ai dieci anni e a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità
superiore ai vent’anni, se dipendenti da datori di lavoro che occupa più di
quindici dipendenti”.

Il legislatore mette in alternativa due possibili sanzioni:


1. obbligo di riassunzione
2. il pagamento di una indennità

Obbligo di riassunzione

Viene chiaramente messo in luce che il licenziamento ingiustificato determina


la cessazione del rapporto di lavoro in quanto si parla espressamente di
“riassunzione” nonostante nel secondo rapporto il lavoratore ricoprirà in
linea di massima le medesime mansioni del primo rapporto e taluni ritengono
anche la medesima anzianità maturata, onde evitare che il datore di lavoro
inadempiente possa trarne giovamento. È pur sempre un nuovo rapporto e ciò
significa che il licenziamento avvenuto è un licenziamento valido in quanto
realizza la causa di cessazione del rapporto ma nonostante ciò è illecito in
quanto non è la giustificazione e quindi si contraddice all’obbligo di dare
giustificazione.

Il pagamento dell’indennità

Il fulcro della norma è comunque il pagamento dell’indennità.


L’art 8 ad una prima lettura sembra configurare la riassunzione come la vera
sanzione immediatamente derivante dall’ingiustificatezza del licenziamento e il
pagamento dell’indennità come un obbligo solo subordinato. Il questa
prospettiva, l’indennità non sarebbe dovuta al lavoratore tutte le volte in cui la
riassunzione non sia possibile per ragioni non imputabili al datore di lavoro
debitore, e dunque anche quando sia stato il lavoratore a rifiutarla . il datore di
lavoro avrebbe sicuramente approfittato di questa possibilità di scelta offrendo
al lavoratore la riassunzione e sapendo che per la maggior parte dei casi il
lavoratore non la accetta.
Al fine di evitare simili ingiuste conseguenze si è ritenuto che l’indennità spetti
comunque al lavoratore per il fatto oggettivo che un nuovo rapporto non si è
costituito, a prescindere dai quali siano le ragioni o il soggetto cui la mancata
costituzione sia da addebitare.
Dunque o viene offerta e accettata la riassunzione, oppure è dovuta
l’indennità. Questa interpretazione che in definitiva attribuisce facoltà di
scelta al lavoratore-creditore tra le due prestazioni è stata avvallata anche
dalla Corte Costituzionale come l’unica conforme al dettato costituzionale.
L’indennità risarcitoria di cui all’art 8 ha carattere forfettario, nel senso
che il lavoratore non può chiedere, per il licenziamento ingiustificato,
danni ulteriori, salvo che essi si fondino su titoli diversi come ingiurie, lesione
della salute ecc. In particolare il lavoratore nulla può chiedere per il periodo
che va dal licenziamento all’eventuale riassunzione o al pagamento
dell’indennità, posto che il rapporto si è validamente estinto.

Per quanto riguarda la misura della eventuale indennità essa è:

• innanzitutto rapportata all’ultima retribuzione globale di fatto (cioè


quella effettivamente spettante al lavoratore su base legale e
contrattuale)
• viene stabilità una misura minima di 2,5 mensilità e una max di 6
• tra il min e il max la valutazione è discrezionalmente rimessa al
giudice in base a criteri che non riguardono il danno subito ma:
- numero degli occupati
- dimensioni dell’impresa
- anzianità di servizio del lavoratore
- comportamento delle parti
- condizioni economiche delle parti stesse

ATTENZIONE: queste conseguenze esaminate riguardano IL LICENZIAMENTO


INGIUSTIFICATO! Di conseguenza le altre fattispecie di licenziamento illegittimo
devono essere regolate dal diritto comune cosi per:
• licenziamento inefficacie per mancanza di fora scritta o per mancanza di
comunicazione dei motivi
• licenziamento nullo per ragioni di rappresaglia o discriminatorie
• caso di illegittimità non riconducibili alla legge 604/66 come la nullità per
matrimonio, maternità, violazione art 7 St. lav. )
in tutti questi casi il licenziamento è improduttivo di effetti, si che il rapporto
permane e sono dovute le retribuzioni fino a che non intervenga una
successiva e diversa causa di estinzione del rapporto..

Nella legge del 1966 abbiamo quindi un regime diversificato dei vizi del
licenziamento che non è sufficiente a garantire l’interesse alla conservazione
del posto di lavoro. In particolare si ritiene che i licenziamento sia pur sempre
valido.

con lo Statuto si introduce una modifica al problema delle sanzioni attraverso


l’art 18 dello Statuto.

LA TUTELA REALE (ART 18 ST. LAV)

L’art 18 - reintegrazione nel posto di lavoro - dello Statuto dei


lavoratori come modificato dalla legge 108/90, innova profondamente quanto
alle conseguenze sanzionatorie del licenziamento illegittimo introducendo la
cosiddetta tutela reale. La prima scelta positiva fatta dal legislatore è quella
di unificare le conseguenze sanzionatorie per tutti i vari tipi di licenziamento
illegittimo previsti dalla L. 604/1966:
• licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo (qualificato
annullabile)
• licenziamento inefficace per ragioni formali
• licenziamento discriminatorio.
L’art 18 è complesso e si può suddividerlo, per meglio comprenderlo, in
BLOCCHI

REINTEGRAZIONE NEL POSTO DI LAVORO E DIRITTO AL RISARCIMENTO


DEL DANNO

Art 18 Reintegrazione nel posto di lavoro

“ Ferma restando l’esperibilità delle procedure previste dall’articolo 7 della


legge 15 luglio 1966 n° 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara
inefficace il licenziamento ai sensi dell’art 2 della predetta legge o annulla il
licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne
dichiara la nullità a norma della stessa legge, ordina al datore di lavoro,
imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale o
ufficio e reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa
alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se
trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di
lavoro”

La norma dispone che il giudice con la sentenza:


• dichiarativa dell’inefficacia
• dichiarativa della nullità del licenziamento in base alla legge 604/1966
• sentenza con la quale annulla il licenziamento ingiustificato

ordini al datore di lavora la REINTEGRAZIONE DEL LAVORATORE NEL POSTO DI


LAVORO. Questa formula è ben diversa da quella utilizzata dalla legge 604 in
quanto in questo caso si suppone che il rapporto di lavoro, a seguito del
licenziamento accertato come illegittimo non si sia mai estinto.
L’ordine di reintegrazione mira al ripristino della sua funzionalità di fatto e alla
concreta ripresa della collaborazione fra le parti.
Le conseguenze all’ordine di reintegrazione sono due:

1. il datore di lavoro DOVRA’ INVITARE IL LAVORATORE A RIPRENDERE IL


SERVIZIO. Qualora il lavoratore accolga l’invito riprenderà l’attività
lavorativa precedentemente interrotta anche se il datore di lavoro avrà
facoltà di destinarlo allo svolgimento di mansioni diverse o in una unità
produttiva diversa purchè naturalmente siano rispettate la condizione
dell’equivalenza delle mansioni o altre condizioni poste dall’art 2103 c.c.
2. condanna del datore al risarcimento del danno secondo il quarto comma
dell’art 18 St. lav.

Art 18 4° comma –“ il giudice con la sentenza di cui al primo comma


condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore
per il licenziamento di cui è stata accertata l’inefficacia o l’invalidità stabilendo
una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno
del licenziamento a quello della dell’effettiva reintegrazione globale e al
versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del
licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione. In ogni caso la misura della
reintegrazione non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione
globale di fatto”

Per quanto riguarda il RISARCIMENTO DEL DANNO mentre la disciplina


originaria distingueva tra il periodo corrente dal licenziamento alla
sentenza e quello successivo alla sentenza, l’attuale disciplina unifica i
due periodi e dispone che il giudice condanni il datore di lavoro al
risarcimento del danno subito per il licenziamento invalido o inefficace “
stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di
fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva
reintegrazione” fermo restando al diritto di un risarcimento minimo di
5 mensilità. Inoltre dovranno essere versati per il medesimo periodo i
contributi al fine di ricostruire la posizione previdenziale del lavoratore.

Questa norma pone degli interrogativi di non poco conto. Il legislatore ha infatti
abbandonato la scelta certo non irrazionale di distinguere tra
• periodo nel quale il licenziamento fosse ancora sub iudice
• periodo nel quale fosse già intervenuta una sentenza sulla
illegittimità del licenziamento
La nuova formulazione della norma unifica i due periodi e lo fa sotto il segno
del risarcimento per il quale, tra l’altro, sembra prevedere un criterio
proprio e specifico, costituito dalla retribuzione globale di fatto.
Viene infatti stabilita una “indennità commisurata alla retribuzione”… ci sono
diversi modi di internere tale risarcimento:

1. primo modo di interpretare l’indennità: il risarcimento del danno si


traduce in una indennità che non è altro che la retribuzione. Sarebbe
quindi forfettizzata dal datore di lavoro.
2. secondo modo di interpretare l’indennità: secondo equità e buon senso
nonché seguendo la lettera della legge che dice “ un indennità
commisurata” cioè l’indennità non è coincidente alla retribuzione ma solo
ad essa rapportata,in modo tale che la retribuzione stessa ne rappresenti
il parametro.

Si deve comunque tener presente che è comunque pur sempre un risarcimento


e perciò saranno applicabili le comuni disposizioni in materia di risarcimento:
• ci dev’essere un danno
• il datore di lavoro deve essere colpevole di tale danno (es. invalidità
sopravvenuta non imputabile al datore di lavoro)
la coincidenza del risarcimento del danno con la retribuzione costituirà una
presunzione semplice ben suscettibile di prova contraria. Di conseguenza:
• il lavoratore dovrà provare eventuali danni ulteriori rispetto alla perdita
della retribuzione
• il datore dovrà dimostrare l’eventuale minor misura del danno per effetto
di nuovi redditi percepiti dal lavoratore successivamente al
licenziamento.

Art 1227 c.c. secondo comma - “ il risarcimento non è dovuto per i danni
che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”.

Calcolare il risarcimento del danno vuol dire calcolare l’effettivo danno subito.
A norma dell’art 1227 c.c. il quale al secondo comma impone al lavoratore di
attivarsi per trovare una nuova occupazione il risarcimento del danno può venir
ridotto se il lavoratore non ottempera a tale obbligo. Allo stesso modo però se
il lavoratore trova una occupazione nell’attesa della sentenza le retribuzioni nel
frattempo percepite verranno scalate dal totale del danno che avrebbe
percepito. Si farà infatti la differenza tra le retribuzioni che avrebbe in totale
percepito e ciò che ha guadagnato dall’altro lavoro (ATTENZIONE: nello stesso
periodo del vecchio lavoro). questa è una norma che offre un grande vantaggio
al datore di lavoro perché sia che il lavoratore si attivi o non si attivi il danno
avrà un ammontare inferiore.
Inoltre è sempre in applicazione all’art 1227 c.c. che si può avere una
ulteriore riduzione del danno qualora il lavoratore differisca di molto l’inizio
della attività giudiziaria.
Per cui l’incidenza dell’art. 18 per quanto concerne il risarcimento del danno
dipende da fattori esterni (e non da ragioni intrinseche):
• lunghezza del processo
• tasso di disoccupazione o occupazione di una certa area
resta comunque il diritto al risarcimento del danno minimo pari a cinque
mensilità, anche quando il danno effettivo sia inferiore, essendo la sentenza
intervenuta prima di cinque mesi. La misura minima , basata su una
presunzione assoluta di danno, è dunque collegata alla illegittimità in sé del
licenziamento.

Le due sanzioni REINTEGRAZIONE E RISARCIMENTO DEL DANNO sono


regolata congiuntamente all’art 18 St.Lav. ma è opinione ormai affermata in
giurisprudenza quella della loro AUTONOMA AZIONABILITA’ in particolare
della possibilità per il lavoratore di chiedere solo il risarcimento del danno e
non la reintegrazione perché quest’ultima gli :
• è sgradita
• è divenuta oggettivamente impossibile
l’autonoma richiesta di risarcimento si basa sul fatto che quest’ultimo è da
ritenersi direttamente all’illegittimità del licenziamento.
Nel caso in cui la sentenza che ha accertato la illegittimità del licenziamento
venga riformata in appello, il lavoratore dovrà RESTITUIRE QUANTO
CORRISPOSTO a titolo di risarcimento fino alla sentenza di primo grado, oltre
all’eventuale indennità sostitutiva della reintegrazione!!

L’INDENNITA’ IN SOSTITUZIONE DELLA REINTEGRAZIONE

La legge 108/1990 ha preso atto di una obbiettiva difficoltà nel caso della
reintegrazione nel posto di lavoro di una completa ricostruzione della
collaborazione tra le parti la quale spesso è preclusa per volontà dello stesso
lavoratore,che nelle more del giudizio ha trovato altra occupazione e non
intende perciò tornare nel vecchio posto di lavoro.
È stata così introdotta l’INDENNITA’ SOSTITUTIVA DELLA REINTEGRAZIONE che
non è altro che un equivalente economico del posto di lavoro.

Art 18 St. lav. comma 5 – “ Fermo restando il diritto al risarcimento del


danno così come previsto al quarto comma, al prestatore di lavoro è data la
facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel
posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di
fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell’invito dal
datore di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entra trenta
giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento
dell’indennità di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si intende risolto
allo spirare dei termini predetti.”

Il valore dell’indennità sostitutiva viene stabilito in modo predeterminato in


15 mensilità; è quindi un valore medio che potrebbe essere alto per taluni e
basso per altri.
ATTENZIONE: non è una mera facoltà del lavoratore ma si tratta di un diritto
potestativo rispetto al quale il datore di lavoro si trova in posizione di
soggezione!
Per quanto riguarda la più specifica natura dell’indennità sostitutiva della
reintegrazione vi sono diverse tesi; la più diffusa, che è anche quella che è
stata avvallata dalla Corte costituzionale, configura l’indennità sostitutiva come
oggetto di una obbligazione con facoltà alternativa dal lato del
creditore (il lavoratore) al quale è data la possibilità di scambiare il bene
giuridico della reintegrazione con una somma predeterminata. Nel caso in cui il
lavoratore abbia optato per l’indennità sostitutiva, nonostante l’ordine di
reintegrazione il rapporto di lavoro si estingue.

La seconda parte del 5° comma contiene una disposizione assai contorta ai


sensi della quale, qualora il lavoratore non riprenda servizio entra trenta giorni
all’invito del datore, né abbia optato per l’indennità sostitutiva entro trenta
giorni dal deposito della sentenza di reintegrazione, “il rapporto di lavoro si
intende risolto allo spirare dei termini predetti”.
Si prevede un’unica conseguenza (la risoluzione del rapporto) in ragione dello
spirare congiunto di due termini della stessa ampiezza (30 giorni) ma con
decorrenze diverse infatti una loro coincidenza sarebbe del tutto casuale:
• il primo termine quello riguardante l’invito del datore di lavoro a
ripresentarsi (previsto anche nel vecchio art 18 St. Lav) decorre anche
dal giorno della pronuncia del deposito della sentenza;
• il secondo riguardante l’opzione decorre dalla comunicazione
dell’avvenuto deposito della (motivazione della) sentenza

Non ha quindi una ragionevolezza!!! L’unica possibilità per poter applicare


facilmente questa disposizione è quella di distinguere due ipotesi in concreto:
• il lavoratore in seguito all’invito del datore di lavoro ha già accettato di
riprendere il servizio. In questo caso egli non più chiedere l’indennità
sostitutiva a meno che non abbia fatto esplicita riserva.

• Nel caso in cui venga prima in scadenza il termine di opzione resta


fermo il diritto del lavoratore alla reintegrazione, resta fermo il diritto
del lavoratore alla reintegrazione, senza che della mancata richiesta
della indennità possa ricavarsi alcuna conseguenza in ordine alla
estinzione del vincolo.

L’ultima parte dell’art 18 concerne uno specifico strumento processuale


di tutela per il caso di licenziamento dei dirigenti sindacali. È infatti
previsto che su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato, il giudice
possa emanare, una ordinanza di immediata reintegra quando, gli elementi
di prova forniti dal datore di lavoro si rivelano irrilevanti o insufficienti e dunque
si possa desumere che il licenziamento sia determinato dalla carica sindacale
ricoperta dal lavoratore. Se il datore di lavoro non ottempera all’ordinanza
scatta a suo carico la sanzione del pagamento al Fondo Pensioni Lavoratori
Dipendenti di una somma pari , per ogni giorno di ritardo all’importo della
retribuzione dovuta al lavoratore. È uno strumento che ha avuto scarsa
applicazione.

L’AMBITO DI APPLICAZIONE DELLE DUE TUTELE

Come già detto il legislatore regola le due diverse tutele secondo due principi:
1. secondo un principio di gradualità che ha riguardo alla consistenza
economica e organizzativa del datore di lavoro misurata in base
al numero dei dipendenti (datore di lavoro forte tutela più incisiva,
debole la più blanda tutela obbligatoria). Si pone in questo caso un
problema che il computo del numero dei dipendenti non viene fatto
secondo una modalità omogenea e quindi tenendo conto dei dipendenti
dell’intera azienda ma bensì nell’ambito della tutela reale si fa
riferimento all’unità produttiva che dell’azienda è una
articolazione. Da ciò ne sono tra l’altro derivati problemi riguardanti la
disparità di trattamento peraltro sempre risolti negativamente dalla Corte
Costituzionale.
2. l’ambito di applicazione delle diverse tutele viene individuato anche in
funzione delle caratteristiche oggettive di certi rapporti o in funzione di
caratteristiche soggettive del rapporto di lavoro o dello stesso lavoratore.
Le norme cui occorre fare riferimento sono:

TUTELA REALE

Art 18 St. lav. come modificato dalla legge 108/1990

“ Ferma restando l’esperibilità delle procedure previste dall’articolo 7 della


legge 15 luglio 1966 n° 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara
inefficace il licenziamento ai sensi dell’art 2 della predetta legge o annulla il
licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne
dichiara la nullità a norma della stessa legge, ordina al datore di lavoro,
imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento,
filiale o ufficio e reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il
licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di
lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di
reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”

Art 3 legge 108/1990

- Licenziamento discriminatorio – “ il licenziamento determinato da ragioni


discriminatorie ai sensi dell’art 4 della legge 15 luglio 1966 n° 604 e dell’art 15
della legge 20 maggio 1970 n° 300, come modificato dall’art 13 della legge 9
dicembre 1977 n° 903, è nullo indipendentemente dalla motivazione adottata e
comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro,
le conseguenze previste dall’art 18 della legge 120 maggio 1970 n° 300 come
modificato dalla presente legge.
Tali disposizioni si applicano anche ai dirigenti”

TUTELA OBBLIGATORIA

Art 10 della legge 604/66

Le norme della presente legge si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro
che rivestono la qualifica di impiegato e di operaio, ai sensi dell’art 2095 c.c. e ,
per quelli assunti in prova, si applicano dal momento in cui l’assunzione
definitiva, e in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto
di lavoro.

Art 2 della legge 108/1990

Riassunzione o risarcimento del danno – “ I datori di lavoro privati


imprenditori non agricoli e non imprenditori, e gli enti pubblici (….) che
occupano alle loro dipendenze fino a quindici lavoratori e i datori di lavoro
imprenditori agricoli che occupano alle loro dipendenze fino a cinque lavoratori
computati con il criterio di cui all’art 28 dello St. lav. (…) sono soggetti
all’applicazione delle disposizioni di cui alla legge 604/66 così come modificata
dalla presente legge. Sono altresì soggetti all’applicazione di dette disposizioni
i datori di lavoro che occupano fino a sessanta dipendenti, qualora non sia
applicabile il disposto dell’art 18 dello St. come modificato dall’art 1 della
presente legge”.

Art 4 della legge 108/1990

Area di non applicazione – “Fermo restando quanto previsto dall’art 3 gli art 1 e
2 non trovano applicazione nei rapporti disciplinati dalla legge 2 aprile 1958 n°
339. la disciplina di cui all’art 8 della legge 20 maggio 1970 n° 300 (….) non
trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che
svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di
istruzione ovvero religione e culto. Inoltre tali disposizioni non si applicano nei
confronti dei lavoratori ultrasettantenni, in possesso dei requisiti pensionistici
sempre che non abbiamo optato per la prosecuzione del rapporto…”

AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA TUTELA REALE

L’art 18 parificando datori di lavoro imprenditori e non imprenditori stabilisce


tre criteri alternativi per l’applicazione della tutela reale:

1. occupazione di più di quindici dipendenti della singola unità produttiva


2. occupazione di più di quindici dipendenti nell’ambito del territorio
comunale, anche in diverse unità produttive
3. occupazione complessiva, con riguardo all’intera organizzazione con più
di sessanta dipendenti

Nel caso si tratti di impresa agricola il numero dei dipendenti dei primi due
criteri scende a cinque.

La disomogeneità dei criteri crea non poche perplessità in ordine al rispetto al


principio di eguaglianza. Infatti mentre al di sopra dei sessanta dipendenti la
tutela reale è comunque garantita a prescindere dal modello organizzativo
adottato dal datore di lavoro, al di sotto di quel tetto continua a rilevare e ad
essere discriminante l’appartenenza del datore di lavoro ad unità produttiva
con più di quindici dipendenti (disparità di trattamento all’interno della stessa
impresa)

Nella sostanza le due tutele si applicano:

Da 1 a 15 dipendenti Sempre la tutela obbligatoria


Da 16 a 60 dipendenti Dipende da come è organizzata l’impresa: se
con unità produttive autonome con più di 15
dipendenti si applica la tutela reale se con meno
quella obbligatoria.
Più di 61 dipendenti Sempre tutela reale

La questione di costituzionalità è sempre stata risolta negativamente dalla


Corte Costituzionale considerando ancora razionale la scelta di preservare dalla
reintegrazione le piccole unità.

LA NOZIONE DI UNITA’ PRODUTTIVA

Viene identificata all’art 18 come “ciascuna sede, stabilimento, ufficio o reparto


autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento” .
Si deve tener presente che:
• le espressioni utilizzate hanno valore esemplificativo e quindi sono
suscettibili di essere ampliate (dipenderà dal settore es. filiale del settore
bancario)
• il concetto giuridico di unità produttiva si qualifica oltre che per il numero
dei dipendenti anche per l’autonomia della stessa. Nella elaborazione
giurisprudenziale costituisce unità produttiva solo quell’articolazione che
sia munita di autonomia tanto dal punto di vista strutturale (rapporti
organizzativi tra centro e periferia dell’impresa) quanto di tipo finalistico
e produttivo (risultato tecnico complessivo che alla unità viene affidato).
Si è così arrivati a configurarla come organizzazione idonea a esplicare
l’attività dell’impresa o di una frazione ben distinta del processo
produttivo: un’ entità che di per se potrebbe qualificarsi come impresa.

Si deve fare attenzione che il problema di una possibile aggregazione al fine


del computo numerico dei dipendenti è stato posto anche con riferimento al
caso in cui le singole unità produttive appartengono a datori di lavoro diversi
ma legati in virtù di un collega,mento societario (art 2359 c.c.) la
giurisprudenza ritiene che il collegamento non da luogo alla creazione di un
unico centro di imputazione di rapporti e la diversa personalità giuridica
impedisce una valutazione unitaria dell’organizzazione.
ATT: solo nel caso in cui ferma restando l’unità di direzione l’attività di impresa
venga divisa in diverse parti giuridicamente autonome , allo scopo di applicare
l’applicazione della tutela reale (o della normativa della attività sindacale) si
ammette, con prova dello scopo fraudolento a carico del lavoratore, il computo
unitario dei dipendenti.

IL COMPUTO DEI DIPENDENTI

Il problema di stabilire chi conteggiare non deve essere confuso con il


problema di individuare coloro ai quali applicare la tutela : è possibile che un
soggetto debba essere computato ma che allo stesso tempo nei suoi confronti
non operi alcuna disciplina limitativa (es dirigenti)

L’art 18 per quanto riguarda questo tema stabilisce solo alcune regole ormai
superate; restano esclusi dal conteggio secondo tale articolo:
1. lavoratori assunti con contratto di inserimento (che ha sostituito il
contratto di formazione lavoro)
2. gli apprendisti
3. il coniuge ed i parenti del datore entro il secondo grado
4. i lavoratori inviati dal somministratore di lavoro

vengono invece conteggiati i lavoratori assunti con contratto a tempo


indeterminato parziale per la quota di orario effettivamente svolto.

In mancanza di disciplina esplicita si ritiene, basandosi sul fatto che tutti i


dipendenti che sono occupati sono al contempo organizzati e quindi sono
elemento necessario per il funzionamento dell’unità produttiva o dell’intera
impresa, che debbano essere computati:

1. i lavoratori a tempo determinato (salvo che non sostituiscano un altro


lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto)
2. lavoratori esterni come quelli a domicilio, in quanto subordinati a tutti gli
effetti e in ogni caso collegati ad una ben precisa unità produttiva)
3. i soci lavoratori di cooperativa qualora essi siano titolari oltre che del
rapporto associativo anche di un rapporto di lavoro subordinato

per quanto riguardo il momento nel quale procedere al computo (problema


importante per le imprese con fluttuazione stagionale di personale) escluso che
rilevi il preciso momento del licenziamento i criteri più diffusi sono quelli della:
1. normalità dell’occupazione in un arco di tempo ragionevole
2. organico oggettivo (che esprime in termini generali la stabile necessità di
personale dell’impresa)
L’onere di provare i requisiti numerici grava secondo una giuri abbastanza
consolidata sul lavoratore, in quanto il requisito numerico costituisce elemento
costitutivo della tutela reale. Spetterà invece al datore di lavoro provare
l’autonomia dell’unità produttiva e il conseguente, separato computo dei
lavoratori ad essa addetti.

Come già visto la tutela reale della reintegrazione è poi sempre applicabile in
caso di:
1. licenziamento discriminatorio (a prescindere dal numero dei dipendenti
occupati) art 4 L 108/1990
2. e per i rapporti ancora assoggettati al recesso ad nutum pur se
caratterizzati da un elevato grado di fiduciarietà (rapporto dirigenziale)

Come si è già sottolineato l’incisiva protezione dell’interesse del lavoratore alla


conservazione del posto garantita dall’art 18 St. lav. è stata ritenuta, da parte
di taluni, per un verso eccessiva per i datori di lavoro, per altro verso tale da
irrigidire lo stesso funzionamento del mercato del lavoro. in realtà molto spesso
le conseguenti pesanti previste per i datori di lavoro derivano da elementi
esterni quali: l’eccessiva durata del processo e l’alto tasso di disoccupazione.

AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA TUTELA OBBLIGATORIA

Tale ambito è disciplina in positivo dall’art 2 della legge 108/1990 ma sarebbe


comunque ricavabile in negativo dall’art 18 St. Lav.
In linea generale essa opera là dove non opera la tutela reale e costituisce
dunque la tutela di base.
Essa opera quindi:
1. per quei datori di lavoro imprenditori e non, che occupino fino a quindici
dipendenti (cinque per quelle agricole) e cioè per le piccole imprese,
organizzazioni
2. imprese e organizzazioni più ampie in quegli ambiti nei quali non sia
applicabile la tutela reale medesima cioè nelle singole unità produttive
territori comunali con meno di 15 dipendenti

Al complesso assetto normativo il legislatore ha fatto eccezione in ragione di


specifiche caratteristiche del datore di lavoro cioè per quei datori di lavoro non
imprenditori che “ svolgono senza fini di lucro attività di natura politica
religiosa o di culto “ c.d. organizzazioni di tendenza. Ad essi
indipendentemente dal numero di lavoratori occupato (anche con più di
sessanta dipendenti) si applica il regime della tutela obbligatoria, con
esclusione della reintegrazione nel posto di lavoro salvo quanto si è detto per il
licenziamento discriminatorio.

LA RESIDUA AREA DI APPLICABILITA’ DEL RECESSO AD NUTUM

L’applicabilità del recesso ad nutum è collegata ora a condizioni del rapporto


ora a caratteristiche soggettive del prestatore di lavoro.

• Sono anzitutto esclusi dalla disciplina limitativa i dirigenti. Resta salvo


per quest’ultimi l’obbligo di comunicazione per iscritto del licenziamento
e resta salva l’applicazione della tutela reale in caso di licenziamento
discriminatorio.
La ratio della esclusione è da attribuire alla peculiare fiduciarietà propria
del rapporto dirigenziale, che non consente il perseguire della
collaborazione ove il vincolo della sia venuto meno anche se non si può
non osservare che una simile affermazione si adatta essenzialmente alla
figura del dirigente alter ego dell’imprenditore cioè in posizione di vertice
(molto meno invece a quella del dirigente provvisto di particolare
professionalità).
L’esclusione dei dirigenti dalla disciplina legale limitativa ha favorito lo
svilupparsi, ad opera della contrattazione collettiva di forme di tutela
particolarmente efficaci sul piano economico, affidati a collegi di
conciliazione e arbitrato, ai quali si è demandato l’accertamento del
carattere eventualmente “ingiustificato” del licenziamento, e in caso
positivo, la fissazione, a carico del datore di lavoro, di una sostanziosa
indennità supplementare (rispetto a quella di mancato preavviso se c’è).

• In relazione all’art 10 della legge 604/66 che si riferisce ai lavoratori con


qualifica operaia ed impiegatizia aveva fatto pensare ad una esclusione
degli apprendisti che di quelle qualifiche non sono ancora provvisti. La
corte costituzionale ha fugato ogni dubbio in ordine all’applicabilità agli
apprendisti della tutela in caso di licenziamento. Inoltre la più recente
normativa in linea con la sentenza della Corte ha confermato l’esclusione
degli apprendisti dalla tutela legale proprio al termine del periodo di
apprendistato confermando altresì che di vero licenziamento si tratti. (art
48 comma 3 lettera c decreto Biagi). Tale soluzione lascia delle
perplessità in quanto da un punto di vista sostanziale è chiaro che il
momento nel quale l’esigenza di tutela si fa più forte è proprio quello
della fine del rapporto di apprendistato.
• Il lavoro domestico è anch’esso escluso dalla disciplina limitativa (salva
la tutela antidiscriminatoria)
• Sportivi professionisti

Per quanto concerne invece le esclusioni fondate su condizioni soggettive del


prestatore di lavoro l’art 4 della L. 108/1990 sottrae alla disciplina limitativa i
lavoratori ultrasettantenni e in possesso dei requisiti pensionistici, sempre che
essi rinunciando a chiedere il trattamento di pensione, non abbiano esercitato
l’opzione per la prosecuzione del rapporto.
La loro esclusione dalla disciplina legale trova fondamento nell’opportunità di
agevolare il ricambio generazionale nel mercato del lavoro. la norma sulla
prosecuzione del rapporto è norma anzitutto previdenziale la quale però ha
delle ricadute anche sul rapporto dal momento che l’esercizio dell’opzione
garantisce al lavoratore la tutela contro il licenziamento.

Saltato estinzione del rapporto nelle P.A. Pag 407


I LICENZIAMENTI COLLETTIVI
LE FONTI DELLA DISCIPLINA

La contrattazione collettiva

Come abbiamo gia osservato le primi limitazioni al potere di licenziare del


datore di lavoro sono state introdotte dalla contrattazione collettiva del settore
industriale sulla base di una ben precisa differenza quella fra licenziamenti
individuali e collettivi per riduzione del personale.
Tale differenza era da ricondursi alla diversa dimensione
• per i lavoratori, degli interessi coinvolti
• per il datore lavoro alla più immediata interferenza nel caso di riduzione
del personale, con la garanzia di libertà in ordine alle generali scelte
economiche contenute nell’art 41 Cost.
infatti la conservazione, a vantaggio dell’imprenditore, della insindacabile
libertà nel determinare dimensioni e struttura dell’impresa ha fatto si che la
limitazione si esaurisse in un CONFRONTO PREVENTIVO CON LE
ORGANIZZAZIONI SINDACALI, confronto che se negativo non avrebbe impedito
all’imprenditore di realizzare per intero il suo progetto.
La separazione della materia dei licenziamenti collettivi e la sua estraneità
rispetto ai licenziamenti individuali è stata poi sancita dall’ art. 11 comma 2
della Legge 604/66 che ha ESCLUSO I LICENZIAMENTI COLLETTIVI PER
RIDUZIONE DEL PERSONALE DAL SUO CAMPO DI APPLICAZIONE. Questi per
tanto hanno continuato ad essere regolati dagli accordi interconfederali per
l’industria ovviamente nei limiti soggettivi di efficacia propria degli accordi
medesimi (circoscritta agli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti) ; solo la
parte relativa alla fissazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare
ebbe efficacia propria della legge. Questa dei CRITERI DI SCELTA è stata per
lungo tempo l’unica parziale regolamentazione per legge della materia dove si
esclude la norma N° 675/77 all’art 25 riguardante la sospensione dei
licenziamenti per riduzione di personale fino all’espletamento delle procedure
di mobilità disciplinate dalla medesima norma.
La giurisprudenza

Il vuoto normativo è stato tuttavia colmato da una ricca elaborazione


giurisprudenziale la quale si è concentrata sull’individuare, sulla scorta della
separazione normativa, una nozione, di licenziamento autonoma.
Tale autonoma definizione era fondata:
1. requisito di carattere formale: attivazione da parte del datore di
lavoro della procedura sindacale di cui gli accordi interconfederali per il
settore industriale; la mancata attivazione a avrebbe comportato una
pluralità di licenziamenti individuali e quindi l’applicazione dell’art 3 della
legge 604/66;
2. requisiti di carattere sostanziale: sono criteri operanti in tutti i settori
produttivi. Il licenziamtno deve rispondere ad un quantitativo: (collettivo
si ricollega ad una pluralità). Ed inoltre di vi deve essere un
ridimensionamento o una trasformazione strutturale e non transitoria
dell’attività produttiva tramite
- una ridefinizione dell’organizzazione d’impresa;
- tramite la mera riduzione dell’elemento personale, cioè della forza
lavoro, purchè fosse dimostrabile un preciso nesso di causalità tra la
scelta riduttiva e i progettati licenziamenti;
per quanto riguarda l’insussistenza dei requisiti sostanziale la giuri ha
ritenuto operasse una impropria conversione del licenziamento collettivo
in una serie di licenziamenti individuali.

Direttiva comunitaria

In tale quadro è intervenuta la direttiva 75/129 con il fine di rafforzare la


tutela dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi senza perdere di
vista la necessità di un equilibrato sviluppo economico-sociale della comunità.
La tutela prevista consiste in una previsione, per il datore di lavoro, di
consultazioni con le organizzazioni sindacali sulla base di dettagliate
informazioni da fornire a quest’ultime in ordine al progetto di
riduzione e alle sue modalità di attuazione nei confronti dei lavoratori.
Sono previsti anche obblighi di comunicazione all’autorità pubblica
competente, che viene in qualche modo coinvolta nella vicenda al fine di
attenuare l’impatto sociale della stessa.
Vi è anche una definizione di licenziamento collettivo o meglio si precisa che
esso non devono avere rilevanza i motivi “inerenti alla persona” e che deve
essere basato su precisi criteri quantitativi da misurare nell’ambito di un
predeterminato arco di tempo.

La legge

A seguito di due condanne da parte della Corte di Giustizia delle Comunità


europee per l’inadempimento alla direttiva comunitaria del 1975 l’Italia ha
deciso di dare attuazione alla direttiva con la LEGGE 23 LUGLIO 1991 N° 223
. In tale legge il legislatore ha definito il licenziamento collettivo ed ha
regolato il relativo potere imprenditoriale attraverso numerosi e puntuali
obblighi di informazione e consultazione con organizzazioni sindacali e autorità
pubbliche.
LA RIDUZIONE DEL PERSONALE NELLA LEGGE 223/1991

L’idea di fondo di tale legge è che quando vi sia un progetto più o meno ampio
di riduzione
• delle dimensioni d’impresa
• delle sue attitudini produttive
• del personale occupato
debba esservi una attivata una forma di controllo sociale preventivo affidato
prima alle organizzazioni sindacali e poi anche ala pubblica autorità.
Il licenziamento intimato in esecuzione di quel progetto senza che ci sia stata la
opportuna procedura di controllo è considerato un licenziamento inefficace!
Anche quando il controllo si sia svolto regolarmente l’esecuzione del progetto
di riduzione e la sua “individualizzazione” da un lato trovano un limite nel
rispetto di determinati criteri di scelta fra i lavoratori da espellere, dall’altro
lato comportano l’accollo all’imprenditore di un non irrilevante costo
economico per ogni singolo lavoratore licenziato, il quale poi è ammesso al
trattamento previdenziale di mobilità.

La legge prevede due tipi di riduzione di personale:

1. il C.D. COLLOCAMENTO IN MOBILITA’ (art 4 L. 223/1991)


2. LICENZIAMENTO COLLETTIVO PER RIDUZIONE DEL PERSONALE (definito
all’art 4 ma disciplinato nelle procedure all’art 4)
Ad entrambi si applica poi l’art 5 concernente i criteri di scelta dei lavoratori e
le conseguenze sanzionatorie

La DIFFERENZA tra le due ipotesi sta innanzitutto nella circostanza che il


COLLOCAMENTO IN MOBILITA’ art 4 riguarda le imprese che siano state
ammesse al trattamento di integrazione salariale straordinaria e che,
nel corso o al termine di applicazione del programma di risanamento, ritengono
“ di non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi” (art
4 comma 1) mentre IL LICENZIAMENTO IN RIDUZIONE DEL PERSONALE
prescinde dal preventivo ricorso alla cassa integrazione e, pertanto,
riguarda le imprese che non se ne sono avvalse in concreto.

Ciò risponde alla logica generale della legge 223/1991 la quale HA


INTESO RIDURRE LA CASSA INTEGRAZIONE STRAORDINARIA per
CONSENTIRE UN EFFETTIVO RISANAMENTO DELL’IMPRESA quindi:
1. ha configurato l’art 4 come una sorta anomalia nell’ambito del
progettato risanamento
2. ha previsto l’art 24 e quindi il licenziamento collettivo per il caso in
cui l’eccedenza di personale fin dall’inizio si prospetti come non

La coerenza di questo disegno normativo è stata sensibilmente compromessa


in special modo dalla legge 236/1993. Si è infatti incentivato il ricorso alla
Cassa Integrazione, addossando alle imprese che intendono licenziare ex art 24
un onere economico sensibilmente maggiore di quello che grava sulle imprese
che licenzino ex art 4.

Presupposti del collocamento in mobilità

Il legislatore non li definisce e quindi si ricavano nelle c.d. cause


integrabili dell’intervento straordinario e cioè nelle ipotesi di
ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione, di crisi di particolare rilevanza
sul piano occupazionale. La sussistenza di tali presupposti è già oggetto
di un preventivo e discrezionale accertamento da parte dell’autorità
amministrativa ai fini della concessione del trattamento di
integrazione salariale. In questa situazione di riconosciuta difficoltà si
innesta poi la valutazione , fatta dal datore di lavoro e vincolata all’osservanza
delle procedure di cui all’art 4, circa l’impossibilità di un completo superamento
delle difficoltà medesima e circa la conseguente necessità di ridurre la forza
lavoro occupata.
Non sono previsti requisiti numerici (il collocamento in mobilità potrebbe
riguardare un solo lavoratore) anche se è chiaro che in concreto la vicenda
investe quasi sempre una pluralità di soggetti. D’altronde l’art 24 riserva al tipo
disciplinato dall’art 24 e solo a quello la qualificazione di licenziamento
collettivo per riduzione di personale. È previsto invece che il collocamento in
mobilità (art 4) costituisca una soluzione obbligatoria , nel senso che non vi
sono misure alternative per evitare o eliminare gli esuberi.

L’altro tipo di riduzione di personale all’art 24 riguarda:


• Le imprese escluse dalla cassa integrazione straordinaria ed ora tutti i
datori di lavoro non imprenditori
• Le imprese che non siano prima “passate” attraverso la Cassa medesima
e che intendano ridurre il personale anche in assenza di una situazione di
crisi o che ritengono fin dall’inizio che la crisi sia irresolubile.

Comunque l’ESITO per entrambi è LA CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO


non più proficuo per ragioni attinenti all’impresa e la successiva ATTIVAZIONE
DI UN MECCANISMO (iscrizione alle liste di mobilità) volto al RINSERIMENTO del
lavoratore NEL MERCATO DEL LAVORO, per lo più con il sostegno si una
prestazione previdenziale (indennità di mobilità per coloro che dipendono da
imprese soggette al regime della cassa integrazione straordinaria)

I REQUISITI DEL LICENZIAMENTO COLLETTIVO: art 24 della L. 223/1991

In attuazione alla direttiva comunitaria l’art 24 da una definizione di


licenziamento collettivo la quale si basa su diversi requisiti:
• Requisiti soggettivi concernenti il datore di lavoro
• Requisiti oggettivi concernenti
- numero dei licenziandi
- ambito temporale del licenziamento
- ambito spaziale del licenziamento
- elemento di carattere quantitativo
REQUISITI SOGGETTIVI

L’art 24 si applica alle imprese che occupano PIU’ DI 15 DIPENDENTI . tale


limite è riferito all’impresa nel suo complesso, ma non sono specificati i criteri
da utilizzare per il computo dei dipendenti, criteri che potrebbero essere:
• quelli per l’intervento alla Cassa integrazione straordinaria
• quelli previsti per i licenziamenti individuali
per le imprese fino a quindici dipendenti la fattispecie astrattamente
riconducibile al licenziamento collettivo sarà valutata alla stregua di
giustificato motivo oggettivo di licenziamento con applicazione della
relativa disciplina.

REQUISITI OGGETTIVI

L’art 24 si riferisce alle imprese che “ intendono effettuare almeno


cinque licenziamenti, nell’arco di 120 giorni, in ciascuna unità
produttiva, o più unità produttive nell’ambito del territorio di una
stessa provincia”

Numero dei licenziandi

È previsto un numero minimo di cinque lavoratori. Tale numero riguarda il


progetto di licenziamento (intenzione del datore di lavoro). Di conseguenza
il licenziamento non cessa di essere collettivo qualora, al termine delle
procedure sindacali e magari proprio come esito positivo di queste, il datore di
lavoro si risolva a licenziare un numero di lavoratori inferiore a quello
progettato.
È controverso se possono essere computate anche le ipotesi di estinzione del
rapporto di lavoro per cause in qualche modo assimilabili come i
prepensionamenti e le dimissioni incentivate; la direttiva europea 92/56 le
ricomprende ma la giuri più recente almeno con riferimento alle dimissioni non
è d’accordo.

Profilo temporale e spaziale

I progettati licenziamenti devono potersi inserire all’interno di un profilo


temporale (un arco di 120 giorni) e spaziale (la singola unità produttiva o
l’ambito provinciale). La ratio è evidentemente quella di poter individuare i
limiti di un unico progetto di riduzione e quella di consentire l’unificazione di ciò
che il datore abbia evidentemente frazionato magari intimando vari
licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo.

NB: il rispetto del profilo temporale può essere verificato solo a posteriori tanto
più dopo che l’art 8 della legge 236/1993 ha fatto decorrere i 120 giorni dal
completamento della procedura sindacale.
Quindi nella sostanza colui che intende licenziare più di 5 dipendenti attiverà
le procedure e avrà 120 giorni di tempo dalla loro conclusione per realizzare il
progetto. Però è evidente che, ove egli non attivi le procedure sarà sempre
possibile qualificare come collettivo il licenziamento di almeno cinque
lavoratori nel periodo di tempo previsto il quale decorrerà dal primo
licenziamento.

Quanto al profilo spaziale il 15° comma dell’art 4 della legge 223/1991


disciplina il caso in cui l’eccedenza riguardi unità produttive ubicate in
diverse province o regioni e prevede l’attuazione di una sola procedura “
centralizzata” a livello regionale o nazionale.

Elemento di carattere quantitativo

Tale elemento è dato da una “riduzione o trasformazione di attività o lavoro” .


esso dovrebbe costituire il centro della nuova nozione di licenziamento
collettivo e criterio unificante nel caso in cui il datore di lavoro, con il fine di
evitare le procedure sindacali e gli ulteriori limiti posti al suo potere di recesso,
abbia frammentato il progetto di riduzione in singoli licenziamenti individuali.
A tal proposito l’ultimo periodo del primo comma dell’art 24 riconduce alla
nozione generale di licenziamento di licenziamento collettivo tutti i
licenziamenti che , nell’arco di 120 giorni e nel medesimo ambito spaziale
“SIANO COMUNQUE RICONDUCIBILI ALLA MEDESIMA RIDUZIONE O
TRASFORMAZIONE” facciano cioè parte del medesimo progetto. È una
disposizione chiaramente antifraudolenta.
Tale espressione è comunque una espressione generica nel senso che vi si
possono ricondurre:
• riduzione che deriva da una trasformazione strutturale
• riduzione che deriva da una mera riduzione produttiva
• da una mera riduzione della forza lavoro
• Ipotesi dove non c’è nemmeno una riduzione produttiva (es.
introduzione nuove tecnologie)
Questa ampia formula utilizzata dalla legge in sostanza allude ad ELEMENTI DI
FATTO che appaiono come mere conseguenze di scelte che restano comunque
protette dal principio di libertà e sulle quali tuttavia la normativa in oggetto a
differenza di quella del giustificato motivo oggettivo prevede, un preventivo
confronto con le organizzazioni sindacali.
La differenza comunque si può spiegare considerando che il licenziamento
collettivo attiene ALLE SCELTE GENERALI CIRCA LE DIMENSIONI
DELL’ORGANIZZAZIONEPRODUTTIVA mentre nel licenziamento individuale
determinato da ragioni oggettive vi è anche un problema di giustificare
l’inutilizzabilità o non proficuità del singolo rapporto. Comunque tale differenza
non va certo enfatizzata in quanto tale confine è sempre più labile e in
definitiva l’opinione maggioritaria tende a differenziarle essenzialmente per il
profilo quantitativo.

LE PROCEDURE SINDACALI DI MOBILITA’ (Art 4 L.223/1991)

La disciplina delle procedure di mobilità viene iscritta fra la tecnica di


“procedimentalizzazione” che si ha quando la decisione unilaterale
dell’imprenditore (in questo caso di licenziare) viene complicata dalla necessità
di confrontarsi con gli appositi interessi dei soggetti coinvolti nell’esercizio di
quei poteri e rappresentati dalle organizzazioni sindacali, affinché sia garantita
la maggior trasparenza possibile nell’esercizio del potere.
La procedura prevede diverse fasi ed il tutto deve concludersi in un modo o
nell’altro entro 75 giorni dall’apertura della procedura (metà tempo quando i
lavoratori interessati siano meno di 10):

1^ FASE : OBBLIGO DI INFORMAZIONE ALLE ORGANIZZAZIONI


SINDACALI (art 4 commi 2 e 3)

L’obbligo di informazione per iscritto alle rappresentanze sindacali aziendali


(non per imprenditori non imprenditori ai quali non è applicabile il titolo terzo
dello St. lav.) è particolarmente DETTAGLIATO e sussiste anche quando la
riduzione è stata decisa DALL’IMPRESA CONTROLLANTE (art 4 comma 15 bis).
Tale comunicazione riguarda:
• Motivi che hanno determinato la situazione di eccedenza del personale;
• Motivi che impediscono misure alternative di rimedio;
• Il numero, la collocazione e i profili professionali dei dipendenti in
esubero
• Eventuali misure per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale del
programma di mobilità
L’ADEMPIMENTO SECONDO BUONA FEDE E CORRETTEZZA consente: +
• di preparare il confronto sindacale mettendo il sindacato nelle condizioni
di valutare le serietà ed effettività della prospettata scelta di riduzione
• assolve alla funzione di precisare le ragioni che hanno indotto il datore di
lavoro ad aprire la procedura secondo un principio analogo a quello
dell’immutabilità dei motivi nel licenziamento individuale.
A ulteriore garanzia della serietà del progetto l’imprenditore, deve allegare alla
comunicazione copia del versamento all’INPS dell’anticipo sul complessivo
onere gravante ex art 5 (pari al trattamento massimo mensile di integrazione
salariale per ogni lavoratore considerato in esubero).

2^ FASE DELL’ESAME CONGIUNTO, IL POSSIBILE ACCORDO O UN


NUOVO ESAME CONGIUNTO DAVANTI ALL’ORGANO AMMINISTRATIVO

Entro 7 giorni dalla comunicazione e a richiesta delle rappresentanze sindacali


e delle rispettive associazioni vi è la seconda fase dell’esame congiunto (art 4
comma 5) nella quale si CONFRONTANO E SCONTRANO GLI OPPOSTI
INTERESSI. Tema obbligatorio del confronto sono essenzialmente i motivi che
hanno determinato l’eccedenza e la possibilità di utilizzare diversamente il
personale in eccedenza o parte di esso. Tema eventuale è costituito
dall’individuazione dei criteri di scelta fra i licenziandi.

Sia nella prima fase che in questa vengono DIRETTAMENTE IN


CONSIDERAZIONE LE RAGIONI che hanno indotto il datore di lavoro a
programmare la riduzione di personale. Pertanto è nella procedura sindacale
che si è inteso coinvolgere la VERIFICA SUL MERITO DELLA SCELTA
IMPRENDITORIALE attraverso un confronto serio e trasparente.
Naturalmente le scelte economiche dell’imprenditore anche se valutate in
modo negativo dalle organizzazioni sindacali restano pur sempre PROTETTE
DALL’ART 41 COST. Su tali scelte comunque l’imprenditore è costretto a
discutere in modo serio e ove gli obblighi di informazione e di esame
congiunto manchino o non sono adempiuti correttamente potrà ritenersi
SUSSISTERE la violazione della procedura , violazione che a norma dell’art 5
viene sanzionata con l’inefficacia del licenziamento successivamente intimato.

Attraverso l’esame congiunto in linea di massima si dovrebbe approdare ad un


accordo. Se ciò non avviene la Direzione provinciale del lavoro promuove un
ULTERIORE UN ULTERIORE CONFRONTO TRA LE PARTI, intervenendo
attivamente attraverso la formulazione di proposte per la conclusione
dell’accordo.

Esaurita la procedura, anche sulla base di un eventuale accordo il datore di


lavoro a norma dell’art 4 comma 9 “ha la facoltà di collocare in mobilità gli
operai e i quadri eccedenti, comunicando per iscritto a ciascuno di essi il
recesso nel rispetto dei termini di preavviso.
NB: i destinatari del licenziamento non sono tutti i lavoratori in quanto ne sono
esclusi i dirigenti per i quali il licenziamento collettivo non si applica. Per contro
la disciplina dei licenziamenti collettivi viene applicata anche ai soci lavoratori
di cooperative.
Inoltre il nono comma prevede un’ulteriore adempimento a carico del datore
di lavoro: la comunicazione, contestuale al licenziamento e rivolta alla
Direzione regionale del lavoro, alla Commissione regionale tripartita e alle
associazioni sindacali di categoria, dell’elenco dei lavoratori collocati in
mobilità.
Il legislatore quindi incentiva in modo esplicito il raggiungimento di un’intesa
con le organizzazioni sindacali nel corso della procedura. Lo scopo è sempre
quello di valorizzare strumenti di controllo sindacale nelle vicende delle
eccedenze di personale, al fine di attenuare l’impatto sociale.
In questa direzione la legge prefigura possibili CONTENUTI DELL’ACCORCO
SINDACALE:
• assegnazione di mansioni in deroga all’art 2103 c.c. (anche non
equivalenti)
• comandi o distacchi temporanei presso altra impresa
• contratti di solidarietà
• prepensionamenti . . .

PRECISAZIONI SUGLI ACCORDI SINDACALI

Il tema degli accordi presenta degli aspetti problematici. Per quanto riguarda
innanzitutto il contenuto degli accordi, sembra sufficiente un accordo di
“ratifica” delle decisioni imprenditoriali, senza che sia necessaria la riduzione
del numero dei licenziandi.
In ordine al significato e all’effetto di tale ratifica nascono ulteriori dubbi.
Eventuali riconoscimenti (essendo il licenziamento comunque atto
dell’imprenditore), o prese d’atto da parte del sindacato, delle ragioni adottate
dal datore di lavoro si fondano pur sempre sulle informazioni e sugli elementi
forniti dal datore medesimo durante la procedura nel rispetto dei principi di
buona fede e correttezza. Se ne deve dedurre che l’accordo può assumere un
valore solo presuntivo dell’esistenza delle ragioni della riduzione, della loro
effettività e veridicità, ma non può essere considerato inoppugnabile. Il
problema si pone con riguardo ai singoli lavoratori e non delle associazioni le
quali comunque possono far valere l’antisindacabilità del comportamento del
datore di lavoro (art 28 St. lav). a tal proposito dottrina e giuri hanno visioni
diverse:
• la dottrina ritiene che in fase di accordo l’unico controllo sul merito spetti
al sindacato mentr il singolo potrà accampare la lesione di proprie
posizioni soggettive unicamente la riduzione del personale si sia
individualizzata.
• La giuri sembra seguire una strada diversa riservandosi anche in
presenza dell’accordo sindacale un margine di controllo in ordine non alle
ragioni in se delle scelte economiche ma all’effettività e veridicità delle
esigenze di riduzione prospettate dall’imprenditore, alla loro stabilità nel
tempo, e soprattutto in ordine al nesso di consequenzialità fra la
decisione di riduzione e i singoli licenziamenti.

I CRITERI DI SCELTA DEI LAVORATORI DA LICENZIARE

Nel momento in cui al progetto di riduzione viene data esecuzione con il


sacrificio di un certo numero di posti di lavoro, sorge l’esigenza di DISTRIBUIRE
tale sacrificio FRA I LAVORATORI in modo equo e coerente, attraverso
l’individuazione di idonei criteri di selezione. Di ciò si occupa ora il legislatore
all’art 5 della legge 223/1991 anche se la norma in questione pone alcuni
problemi.

Art 5 L. 223/1991 primo comma

Criteri di scelta dei lavoratori ed oneri a carico delle imprese –


“L’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve avvenire in
relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso
aziendale, nel rispetto dei criteri previsti dai contratti collettivi stipulati dai
sindacati di cui all’art 4 comma 2, ovvero in mancanza di questi contratti, nel
rispetto dei seguenti criteri in concorso tra loro:
a) carichi di famiglia;
b) anzianità;
c) esigenze tecnico-produttive ed organizzative”

questo comma ci compone di tre gruppi normativi:


1. generale riferimento ad esigenze tecnico-produttive ed organizzative del
complesso aziendale;
2. rinvio ai criteri previsti dagli accordi collettivi
3. in via sussidiaria qualora tali accordi non vi siano, la previsione di tre
criteri di scelta da applicare in concorso tra loro:
a) carichi di famiglia;
b) anzianità;
c) esigenze tecnico-produttive ed organizzative.
È anzitutto da evidenziare che il duplice riferimento alle esigenze
aziendali non deve considerarsi una inutile ripetizione.
Il primo riferimento alle “esigenze del complesso aziendale” assolve alla
funzione di DELIMITARE L’AMBITO,più o meno ampio, entro il quale poi operare
la scelta concreta dei lavoratori, in base ai criteri stabiliti dai contratti collettivi
e in via sussidiaria dalla legge. Esso inoltre NON DEVE ESSERE INTESO IN
SENSO LETTERALE perché altrimenti se, l’ambito di scelta dovesse essere
sempre l’intera azienda, se ne svuoterebbe la funzione selettiva; non può
neppure però essere trascurata la valenza egualitaria della formula normativa,
nel senso che solo considerando l’intero complesso aziendale si possono
correttamente individuare i licenziandi tutte le volte in cui si vogliono
sopprimere posizioni lavorative sostanzialmente fungibili.

Una volta individuato l’ambito della selezione la norma innanzitutto rinvia ai


criteri di scelta stabiliti mediante accordo collettivo con le
rappresentanze sindacali aziendali o con le associazioni di categoria.
Per quanto riguarda l’efficacia soggettiva e quindi il possibile contrasto con l’art
39 Cost la Corte Costituzionale ha dato per scontato che tali accordi siano
efficaci nei confronti di tutti i lavoratori (in quanto posti in essere in base a
delega di legge) ma ne ha escluso la natura di accordi normativi (ai quali
soltanto l’art 39 si riferirebbe) e li ha inquadrati tra gli accordi di
procedimentalizzazione. (però in tema di criteri di scelta l’accordo di
procedimentalizzazione non costituisce in realtà limitazione di un potere
imprenditoriale altrimenti libero in quanto l’adozione dei criteri di scelta
dovrebbe rispettare comunque i criteri legali all’art 5 L. 223/1991.

Per quanto invece riguarda limiti di carattere oggettivo, cioè inerenti al


contenuto,che gli accordi devono seguire essi si possono riassumere nel
seguente modo:

1. RISPETTO DEL PRINCIPIO DI NON DISCRIMINAZIONE: in relazione


agli specifici fattori di discriminazione previsti dalla legge. In particolare il
secondo comma dell’art 5 con riguardo al sesso precisa un limite assai
penetrante e cioè: l’imprenditore non può collocare in mobilità una
percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale di
manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in
considerazione.

2. RISPETTO DEL PRINCIPIO DI RAZIONALITÀ: è un principio che non


da tutti è condiviso e che è stato sancito dalla stessa Corte Costituzionale nella
sentenza sopra 268/1994. Sicuramente tale principio è condiviso nella parte in
cui traduce l’esigenza di razionalità dei criteri di scelta nell’essere questi
ispirati a parametri oggettivi e generali non collegati cioè a situazioni personali
dei licenziandi, ne tali da consentire a priori l’identificazione.

3. LIMITI DERIVANTI DAL TENORE DEI CRITERI LEGALI SUSSIDIARI:


a tal proposito ci sono visioni contrastanti. Il problema si è posto in riferimento
agli accordi collettivi che utilizzano il criterio della prossimità al pensionamento
come criterio di preferenza per il licenziamento, la dove invece il criterio legale
dell’anzianità funziona come criterio di preferenza per la conservazione del
posto. La questione è opinabile. Da un lato infatti si può ritenere che
l’autonomia non possa portare ad un appiattimento di dei criteri convenzionali
su quelli legali, pena l’inutilità della previsione. Per contro potrebbe rilevarsi
che l’attribuzione al sindacato del “potere” di convenire i criteri di selezione
abbia finalità di salvaguardare l’interesse collettivo e prima di tutti di quelli
socialmente più deboli si che si dovrebbero escludersi criteri che apertamente
contrastino con quelli legali “ sociali” . L’opinione prevalente è comunque nel
senso dell’ammissibilità del criterio.

In assenza di criteri convenzionali operano i criteri legali:

1. le esigenze tecnico-produttive : operano nell’ambito già definito


dal primo periodo del primo comma dell’art 5 quale specifico criterio oggettivo
dei singoli posti di lavoro che devono essere sacrificati. La valenza oggettiva
del criterio porta a ritenere inammissibile il rilievo del rendimento dei singoli
lavoratori.

2. criteri sociali (carichi di famiglia e anzianità) che hanno lo scopo di


tutelare maggiormente i soggetti che dal licenziamento si pensa possano
subire le conseguenze maggiori anche se sembra contraddirvi l’accezione,
ormai consolidata, dell’anzianità come anzianità di servizio e non anagrafica.

Non è infine agevole capire come debba essere inteso “ il concorso” fra i
criteri legali, dato che essi se applicati separatamente danno luogo a risultati
diversi. Il legislatore non dice nulla a proposito quindi dove non sia lo stesso
accordo collettivo a fissare l’ordine di applicazione dei criteri legali (che è un
possibile contenuto degli accordi sindacali) il concorso può significare che il
datore di lavoro deve tener conto di tutti e tre anche se in concreto e salvo
specifica giustificazione, uno di essi può essere applicato in modo prevalente.
Si è detto che solitamente i lavoratori da licenziare sono quelli sui quali
confluiscono un maggior numero di criteri sfavorevoli.

PROFILI SANZIANOTORI

Come già si è notato vi sono strumenti sanzionatori autonomi riferiti a


singole fasi del licenziamento collettivo: il non corretto svolgimento della
procedura può dar luogo al ricorso per CONDOTTA ANTISINDACALE di cui
all’art 28 St. lav. da parte degli organismi sindacali a ciò legittimati.
Ma le sanzioni più significative riguardano l’atto finale di tale fattispecie e cioè
il licenziamento.

Art 5 comma 3 legge 223/1991


“Il recesso di cui all’art 4 comma 9,è inefficacie qualora sia intimato senza
osservanza della forma scritta o in violazione delle procedure richiamate
dall’art 4 comma 12, ed è annullabile in caso di violazione dei criteri di scelta
previsti dal comma 1 del presente articolo . . .Al recesso di cui all’art 4 comma
9 del quale sia stata dichiarata l’inefficacia o l’invalidità, si applica l’articolo
della legge 20 maggio 1970 n° 300, e successive modificazioni.”

Quindi il legislatore stabilisce che il singolo licenziamento sia:


1. inefficace qualora sia intimato senza l’osservanza della forma scritta o
in violazione delle procedure
2. annullabile in caso di violazione dei criteri di scelta

per quanto riguarda la violazione delle procedure. Tale riferimento non deve
essere circoscritto all’ipotesi in cui le procedure non sono state neppure
attivate, ma investe anche le modalità con le quali esse sono state gestite e la
cui osservanza costituisce condizione di legittimità del licenziamento. Ciò
concerne:
1. aspetti formali scanditi dall’art 4 in modo preciso ivi compreso l’obbligo
di comunicazione ex art 4 comma 9
2. aspetto sostanziale e adempimento secondo buona fede e correttezza di
tali obblighi quindi reticenze, falsità, omissioni nel fornire tutti i dati
necessari ad un confronto serio e trasparente devono essere intesi come
vizi della procedura tali da determinare l’inefficacia dei licenziamenti
successivamente intimati
La sanzione della annullabilità è comminata per il caso in cui siano stati violati i
criteri di scelta o siano stati applicati i criteri convenzionali di scelta che si
ritengono illegittimi (ferma restando la nullità di licenziamenti adottati in
applicazione di criteri discriminatori.
Nonostante la distinzione tra inefficacia e annullabilità le conseguenze
previste per entrambi i vizi sono quelle all’art 18 della legge 300/70. Tali
conseguenze vengono escluse, con applicazione della tutela obbligatoria di cui
alla L. n. 604/66 per i datori di lavoro qualificabili come organizzazioni di
tendenza (art 24 commi 1 bis e ter L 223/1991).

Quanto all’applicazione dell’art 18 della legge St.lav. Vi è una sfumatura tra i


campi di applicazione:
• art 18 St. Lav: unità produttiva autonoma con più di 15 dipendenti o una
complessiva occupazione di più di 60
• art 4 e 24 L. 223/1991: per i quali è sufficiente una occupazione
complessiva di più di quindici dipendenti.
Ciò non crea alcun problema in quanto il richiamo all’art 18 è riferito solamente
agli effetti del licenziamento e non al suo campo di applicazione con la
conseguenza che prevale il più esteso campo di applicazione del licenziamento
collettivo.

Merita infine ricordare che nel caso in cui sia stata disposta la
reintegrazione ai sensi dell’art 18 St. Lav., il datore di lavoro può
procedere al licenziamento di un corrispondente numero di lavoratori,
nel rispetto dei criteri di scelta , ma senza rinnovare la procedura.
Nonostante la norma si riferisca testualmente ad ogni ipotesi di reintegrazione,
deve ritenersi che questa nuova opportunità possa essere utilizzata dal datore
di lavoro solo quando i primi licenziamenti siano stati annullati per violazione
dei criteri di scelta e non quando siano stati dichiarati inefficaci per violazione
della procedura.

(saltato licenziamenti collettivi nella P.A.)

IL TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO


ORIGINE E FUNZIONE DELL’ISTITUTO

Al momento della cessazione del rapporto di lavoro, al lavoratore subordinato


spetta un’ATTRIBUZIONE PATRIMONIALE, che è in vario modo COMMISURATA :
• ALLA RETRIBUZIONE PERCEPITA
• E ALLA DURATA DEL RAPPORTO DI LAVORO

ALL’ORIG Tale attribuzione aveva carattere di liberalità


INE e costituiva un premio di fedeltà per i

Fu resa obbligatoria dalla contrattazione


LA VECCHIA DISCIPLINA: L’INDENNITA’
collettiva DI ANZIANITA’
e successivamente dalla legge per
l’impiego privato (art 10 comma 4 L R.D.L. N°
1825 del 1924 ) il quale introdusse una
L’indennità di anzianità spettava“INDENNITA’
alla cessazioneDI del rapporto di lavoro a
LICENZIAMENTO” purché
beneficio
quest’ultima non fosse dipesa da: degli impiegati il cui rapporto fosse cessato NON
1. LICENZIAMENTO PER COLPA DEL LAVORATORE
2. DIMISSIONI DEL LAVORATORE
Essa costituiva quindi: Il codice civile recepì quel modello normativo e
1. una sorta di correttivo del lo potere
disciplinò compiutamente
di recesso ad nutum aggiungendo come
del datore di
lavoro ulteriori ipotesi di esclusione dal diritto quella
2. assolveva ad una funzione delle DIMISSIONIa beneficio
previdenziale VOLONTARIE regolandone i
del lavoratore
che si fosse visto risolvere meccanismi
il rapporto daldiqualecomputo
traeva e estendendolo a
sostentamento.
tutte le categorie di lavoratori.
La legge 604/66 ha portato una importante innovazione stabilendo che
l’indennità fosse dovuta “ al prestatore di lavoro in ogni caso di
risoluzione del rapporto di lavoro” (quindi anche in caso di dimissioni e
colpa del lavoratore) sancendone Correzionecosì apportata
la naturadall’art
retributiva
9 dellamalegge
senza
eliminarne la funzione previdenziale604/66 (che anzi è stata rafforzata estendendo
l’indennità a tutte le ipotesi a prescindere dalle ragioni che hanno determinato
la cessazione).
Quindi l’indennità costituiva (e L. costituisce
29 maggio per 1982
quei rapporti
n° 297 sorti
che haprima del
sostituito
1982) una forma di retribuzione spettante
l’indennità come
di corrispettivo
licenziamento all’intero
con il
rapporto e differita, in funzione previdenziale alla sua
TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO : la cessazione.
Per quanto riguarda i CRITERI DI COMPUTO
modifica nonla èvecchia
solo disciplina dell’artma
terminologica 2120che
c.c. prevedeva che l’indennità fosse proporzionata agli anni di servizio
riguarda anche i criteri di computo . Per i periodi ma in
base: lavorativi svoltesi precedentemente della legge
• al moltiplicatore dell’ultima297/1982
retribuzione
sono stati conservati in vigore i criteri
• alla categoria di appartenenza (per i soli
di computo impiegati
stabiliti era garantita
per l’indennità di almeno
anzianità.
una mensilità per ogni anno di servizio)
Così per quei rapporti il TFR si compone di due
da ciò erano derivati effetti moltiplicatori
elementi: non controllabili e per limitare tali
fenomeni il legislatore decise di intervenire con la legge 91/1977 escludendo
che per l’avvenire fossero computabili nella retribuzione da prendere come
moltiplicatore le quote dell’indennità di contingenza da allora in poi maturate.
La legge 297/82 fu lo strumento che evitò l’abrogazione della legge del ’77.
L’art 2121 c.c., infine, sancisce che la retribuzione da prendere in
considerazione è omnicomprensiva nel senso che in essa va computato OGNI
COMPENSO DI CARATTERE CONTINUATIVO ad esclusione dei RIMBORSI
SPESE.

LA STRUTTURA DEL TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO

Il Tfr è rappresentato da una somma di denaro che viene corrisposta al


lavoratore in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato e che
viene determinata anche in relazione alla durata del medesimo rapporto.
La struttura tra indennità di anzianità e Tfr è cambiata:
• l’indennità di anzianità era costituita da ULTIMA RETRIBUZIONE x
DURATA DEL RAPPORTO
• il Tfr si determina SOMMANDO per ogni anno di servizio una quota
della retribuzione non superiore all’importo della retribuzione dovuta
nell’anno DIVISA per 13,5. in tal modo la quota accantonata
annualmente corrisponde più o meno al valore di una mensilità. Il
trattamento è poi soggetto a un meccanismo di RIVALUTAZIONE dato
dall’applicazione, alla fine di ogni anno di un tasso di incremento in
misura fissa pari all’1,5%, e in misura variabile, dall’applicazione di
un tasso pari al 75% dell’aumento dell’indice dei prezzi al
consumo accertati dall’ISTAT.

Anche se si parla normalmente di accantonamento questo meccanismo di


calcolo non impone in realtà un accantonamento reale di risorse. È noto infatti
che il nuovo sistema del Tfr ha costituito una cospicua fonte di
autofinanziamento delle imprese.
La funzione previdenziale dell’istituto permane anzi la sempre più ampia
destinazione del Tfr al finanziamento di forme pensionistiche complementari
l’ha ulteriormente valorizzata. Ma è altrettanto certo che il Tfr in quanto
costituito da quote di retribuzione accantonate, ha consolidato al sua natura
retributiva ( di retribuzione differita).
Il nuovo sistema sembra invece porre in termini diversi la questione del
MOMENTO DI MATURAZIONE DEL DIRITTO AL TFR.
Infatti mentre non era in discussione che l’indennità di anzianità sorgesse solo
al momento della cessazione del rapporto , il sistema di accantonamento
annuale, sembrerebbe avvallare l’idea che il diritto al Tfr sorga con la
costituzione del rapporto, venga progressivamente accrescendosi con le quote
accantonate anno per anno e dunque maturi durante il rapporto.
Sennonché anche per il Tfr deve escludersi prima della cessazione del
rapporto di lavoro che il diritto possa dirsi compitamente determinato. Il diritto
a quest’ultimo sorge solo con la cessazione. Tutto questo esclude che il
lavoratore, al di fuori delle ipotesi di anticipazione previste dalla legge, possa
aver diritto ad ottenere la liquidazione delle quote maturate prima della
cessazione potendo solo esperire a riguardo azioni conservative. Questa tesi è
dominante in giuri la quale la ha applicata per risolvere questioni importanti
soprattutto con riguardo alla trasferimento di azienda: unico debitori si è
considerato l’imprenditore acquirente (presso il quale il rapporto di lavoro
venga a cessare) e si è perciò esclusa una responsabilità solidale dell’alienante
per le quote di Tfr maturate prima del trasferimento.
IL SISTEMA DI CALCOLO

Per quanto riguarda il sistema di calcolo del Tfr si deve tener presente all’art
2120 c.c. i quale prevede che la quota da accantonare annualmente è
determinata da due fattori:
• un dividendo: LA RETRIBUZIONE ANNUA
• un divisore: COEFFICIENTE DI 13,5

La retribuzione annua è individuata secondo criteri di ONNICOMPRENSIVITA’


posto che concorrono a determinarla tutte le somme, compreso l’equivalente
della prestazione in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro e a
titolo non occasionale con esclusione dei soli rimborsi spesa. Per dipendenza si
intende che deve trattarsi di emolumenti legati a questo da un NESSO DI
CASUALITA’ e non di mera occasionalità. Il criterio della semplice non
occasionalità allude:
• da un lato ad un profilo temporale dovendosi includere nel computo della
retribuzione annua anche ciò che non è stato corrisposto in modo
continuativo purché non in via eccezionale o del tutto saltuaria,
• dall’altro l’espressione legislativa fa riferimento ad un “titolo” che non sia
occasionale, mostrando con ciò di voler dar rilevanza anche alle ragioni
per le quali un certo emolumento è corrisposto al lavoratore.
Non sempre comunque la giuri utilizza criteri univoci ed un problema che
spesso è venuto in rilevanza è quello concernente la COMPUTABILITA’ DEGLI
STRAORDINARI. A tal riguardo essa fa rientrare nel computo i compensi per
prestazioni fisse e costanti oltre l’orario normale ma non quelli per prestazioni
effettuate per esigenze anomale e non preventivate (picchi di straordinario).
Il terzo comma dell’art 2120 c.c. prevede che nell’ipotesi di sospensione
dell’obbligazione di lavoro di cui all’art 2110 c.c. (infortunio, malattia,
gravidanza e puerpero) deve essere computato “l’equivalente della
retribuzione a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di
normale svolgimento del rapporto”.
La ratio della norma è quella di evitare che il lavoratore venga penalizzato ai
fini del calcolo del Tfr da periodi di sospensione da lui non imputabili.
NB: l’individuazione della retribuzione annua da accantonare non è
inderogabile in quanto il secondo comma dell’art 2120 c.c. fa espressamente
salva una diversa previsione dei contratti collettivi. Essi infatti possono
derogarsi e solitamente, essendo essa onnicomprensiva, vi derogano in pejus
restringendo la base di calcolo in modo da:
1. ridurre i costi del lavoro
2. regolare il rapporto tra retribuzione corrente e differita con aumento
della prima a scapito dell’altra.
Tali deroga comunque NON Può RIGUARDARE il coefficiente e cioè il divisore
(13,5) che non può essere modificato.
L’ANTICIPAZIONE DEL TRATTAMENTO

Il nuovo istituto ha previsto la possibilità accordata al lavoratore , che abbia


MATURATO ALMENO OTTO ANNI DI ANZIANITA’ presso lo stesso datore di
lavoro, di chiedere una anticipazione del Tfr, in misura non superiore al 70%
del trattamento cui il lavoratore medesimo avrebbe diritto nel caso di
cessazione del rapporto alla data della richiesta .
La legge individua specifiche ipotesi di anticipazione:
1. EVENTUALI SPESE SANITARIE PER TERAPIE ED INTERVENTI sanitarie
riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche senza comunque la
preclusione verso l’utilizzo di strutture non pubbliche, posto che le
strutture pubbliche devono attestare la necessità delle terapie e
dell’intervento.
2. ACQUISTO DELLA PRIMA CASA DI ABITAZIONE PER SE O PER I FIGLI
DOCUMENTATA CON ATTO NOTARILE, estesa anche al caso di acquisto
non ancora concluso con l’atto notarile in corso di perfezionamento
(questo in una logica di incentivo all’acquisto della prima casa)
3. SPESE SOSTENUTE DURANTE LA FRUIZIONE DEI CONGEDI PARENTALI
Perché il lavoratore possa concretamente ottenere l’anticipazione, peraltro una
sola volta nel corso del rapporto, occorre che siano rispettati ulteriori requisiti e
limiti sicché di un diritto all’anticipazione si può parlare solo nel rispetto di
questi.
Si ESCLUDE infatti il diritto all’anticipazione:
1. in caso di aziende dichiarate in crisi ai sensi della normativa sulla cassa
integrazione all’evidente scopo di non gravarle di oneri difficilmente
sopportabili;
2. al fine di salvaguardare la funzione di autofinanziamento per le imprese
l’art 2120 c.c. stabilisce che le richieste vengono soddisfatte
annualmente entro il limite del 10% degli aventi titolo e comunque del
4% del numero totale dei dipendenti.
I criteri per di priorità per la scelta tra le varie richieste viene demandata alla
contrattazione collettiva (fermo restando il divieto di scelte discriminatorie).
Non è comunque facile individuare un parametro soddisfacente. Sarebbe di
semplice applicazione quello della priorità cronologica ma è anche nero allo
stesso tempo che le ipotesi individuate dalla legge sembrano già avere un
ordine di importanza.(salute beni di importanza superiore riconosciuto dalla
Costituzione dovrebbe essere preferito).
Inoltre il secondo comma dell’art 2120 c.c. specifica che alla contrattazione
collettiva è data la possibilità di stabilire condizioni di miglior favore, ad
esempio ampliando le ipotesi di anticipazione o elevando i limiti di capienza
delle richieste. Ciò che è escluso è la previsione di anticipazioni reiterate e
periodiche e magari eccedenti la stessa quota di Tfr.
Per quanto riguarda l’AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA DISCIPLINA DEL
TFR esso è generale e riguarda tutti i rapporti di lavoro privato per i quali sono
previste forme di indennità di anzianità, di fine lavoro (att. Legge 23071962
rapporti a tempo determinato) di buonuscita, comunque denominate e da
qualsiasi fonte disciplinate . per i rapporti di pubblico impiego l’applicazione del
Tfr è stata prevista con la legge 335/1995 anche se con la mediazione della
contrattazione collettiva.
Per il caso di insolvenza del datore di lavoro è stato istituito presso l’INPS un
Fondo di Garanzia, integralmente finanziato da contributi a carico dei datori di
lavoro e destinato appunto a sostituirsi al datore di lavoro insolvente nel
pagamento del Tfr.

L’INDENNITA’ IN CASO DI MORTE


L’art 2122 c.c. si occupa del caso in cui il rapporto di lavoro si estingua per
morte del lavoratore e stabilisce che il Tfr (fino a quel momento
maturato) nonché l’indennità sostitutiva del preavviso vengono
corrisposti a determinati famigliari del lavoratore: coniuge e figli e se
vivevano a carico di quello, i parenti entro il terzo grado e gli affini
entro il secondo. La ripartizione avviene:
• in via prioritaria sulla base dell’accordo tra i soggetti indicati
• in via subordinata secondo il bisogno di ciascuno
in mancanza di tali soggetti operano le norme sulla successione legittima. È
nullo ogni patto anteriore alla morte del lavoratore circa l’attribuzione o la
ripartizione della indennità, configurato alla stregua di un patto successorio.
Molto si è discusso riguardo la natura dell’indennità in caso di morte e al
titolo in base al quale essa è attribuita ai soggetti indicati all’art 2122
c.c. La tesi che va per la maggiore è quella che ritiene che tale attribuzione
trovi ragione nella funzione previdenziale del Tfr che viene estesa a quei
soggetti che per la morte di quest’ultimo subiscono un particolare pregiudizio e
ai quali il trattamento è attribuito anche in relazione alla gravità del pregiudizio
stesso.

LA TUTELA DEI DIRITTI DEL LAVORATORE

INDEROGABILITA’ E INDISPONIBILITA’

La normativa in materia di lavoro subordinato ha lo scopo essenziale di


realizzare una particolare protezione del prestatore di lavoro come soggetto
più debole del rapporto e come soggetto che nel rapporto stesso impegna la
propria persona.
Lo strumento principale per la realizzazione di tale obbiettivo è costituto
dall’introduzione di una DISCIPLINA INDEROGABILE, che
• predetermina il possibile contenuto del rapporto;
• attribuisce al lavoratore diverse posizioni giuridiche di vantaggio
• pone dei limiti alle posizioni giuridiche attive del datore di lavoro
l’autonomia delle parti è quindi fortemente compromessa dall’inderogabilità
delle norme perché la PATTUIZIONE DIFFORME è NULLA ed è sostituita
automaticamente dalla norma medesima.
Questo sistema sarebbe inutile senza che il legislatore si preoccupasse di
garantire EFFETTIVITA’ a tale protezione e lasciasse i diritti del prestatore
stesso nella sua piena disponibilità o esposti alle azioni esecutivi dei suoi
creditori. Ecco che la tutela sul piano generico (norma inderogabile di sorgere)
è accompagnata da una tutela sul piano c.d. funzionale e cioè “ della gestione
del diritto” già sorto, variamente incidente sulla possibilità di disporvi in quanto
l’atto dispositivo può vanificare in concreto l’effetto della norma inderogabile.
Secondo i principi generali inderogabilità e indisponibilità devono essere tenute
ben distinte (pag 444) anche se è fuori dubbio che tra inderogabilità della
norma e indisponibilità del diritto vi sia un nesso particolarmente intenso, tale
da giustificare l’apposizione di penetranti limiti alla libertà di disposizione del
lavoratore medesimo.
Si deve inoltre tener presente che nessuno dei diritti inerenti al rapporto di
lavoro può considerarsi assolutamente indisponibile.
Quanto sopra precisato riguardo il nesso fra inderogabilità e indisponibilità
potrebbe essere messo in discussione dalla c.d. derogabilità assistita e cioè
quel meccanismo mediante il quale il lavoratore può accertare un regolamento
del proprio rapporto in deroga a quanto assicuratogli dalla legge, ma solo in
determinate sedi e appunto con l’assistenza di determinati soggetti ai quali
verrebbe affidato il compito di valutare il grado di tollerabilità di siffatte
deroghe.

L’INVALIDITA’ DELLE RINUNZIE E DELLE TRANSAZIONI: L’ART 2113 C.C.


E IL SUO FONDAMENTO

Art 2113 c.c. – Rinunce e transazioni - le rinunce o transazioni che hanno


per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili
della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’art
409 del codice di procedura civile, non sono valide.
L’impugnazione deve essere proposta a pena di decadenza entro sei mesi dalla
data di cessazione del rapporto o della transazione, se queste sono intervenute
dopo la cessazione medesima
Le rinunce e le transazioni di cui ai commi medesimi possono essere
impugnate con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale del lavoratore idoneo
a rendere nota la volontà.
Le disposizioni del presente articolo non si applicano alla conciliazione
intervenuta ai sensi degli art 185, 410 e 411 del codice di procedura civile.

Tale articolo qualifica come INVALIDE le rinunzie e le transazioni AVENTI AD


OGGETTO DIRITTI DERIVANTI DA DISPOSIZIONI INDEROGABILI DI LEGGE O DI
CONTRATTO COLLETTIVO.
Stabilisce che l’IMPUGNAZIONE (anche stragiudiziale), debba essere proposta A
PENA DI DECADENZA, entro 6 MESI dalla data di cessazione del rapporto o dalla
data della rinunzia o transazione se successive. SOTTRAE infine, a tale
disciplina, le CONCILIAZIONI intervenute in sede amministrativa e sindacale.
Quindi il legislatore:
1. da rilievo alla SITUAZIONE DI DEBOLEZZA E INFERIORITA’
CONTRATTUALE nella quale il lavoratore versa il lavoratore e questo si
capisce dal fatto che è prevista che il lavoratore sia libero e capace di
impugnare gli atti dispositivi solo a rapporto terminato a meno che egli
non sia assistito nelle tre sedi sopra e quindi la sua debolezza sia
riequilibrata dalla presenza di un terzo (giudice, organo amministrativo,
organizzazione sindacale)
2. la norma è formulata anche in termini OGGETTIVI perché ha riguardo a
qualunque rinunzia o transazione in materia inderogabile nella quale,
cioè trovi espressione un interesse superiore all’autonomia individuale.
Vengono sanciti come invalidi anche gli atti dispositivi posti in essere
DOPO LA CESSAZIONE DEL RAPPORTO (quindi quando capacità e libertà
sembrano recuperate).
Fondamento dell’invalidità e ratio della norma

Vi sono visioni contrastanti a proposito:


• rinunzie e transazioni sarebbero invalide in sé per sé in quanto il
fondamento dell’invalidità sarebbe dato dall’intrinseca inidoneità dei
diritti inderogabili del prestatore di lavoro ad essere oggetto di piena
disposizione;
• opinione maggioritaria ritiene che l’invalidità sarebbe da ricollegare in
una speciale incapacità giuridica relativa del lavoratore che sussiste solo
nei confronti del datore di lavoro e in relazione a solo determinati negozi
(incapacità riconducibile alla debolezza economica e contrattuale del
lavoratore medesimo).
Questa seconda opinione spiega però a fatica l’invalidità degli atti dispositivi
successivi alla cessazione del rapporto.
Comunque cosa importante è specificare quali siano gli interessi che la
norma ha inteso tutelare stabilendo l’invalidità di rinunzie e transazioni su
diritti inderogabili.
Innanzitutto si deve escludere che contempli l’ipotesi di nullità: impugnazione,
il termine di decadenza, la sorta di convalida degli atti dispositivi posti in
essere in sede giudiziaria,amministrativa e sindacale possono ricollegarsi solo
ad ipotesi di annullabilità. Ciò non contraddice affatto i principi generali
posto che la nullità è sicuramente a presidio dell’osservanza delle norme
inderogabili, ma non si estende necessariamente agli atti dispositivi dei diritti
che da tali norme derivano.

Se invalidità delle rinunzie e delle transazione può essere fatta valere solo con
l’impugnazione da parte del lavoratore significa che gli interessi protetti non
sono quelli generali ma emerge ed è tutelato soprattutto l’INTERESSE
INDIVIDUALE DEL PRESTATORE DI LAVORO A RICOSTITUIRE L’ASSETTO DEGLI
INTERESSI PRECEDENTI ALL’ATTO DISPOSITIVO E A RECUPERARE LE UTILITA’
CHE LA NORMA INDEROGABILE GLI AVEVA ASSICURATO E CHE CON TALE ATTO
HA PERSO.

Allo stesso tempo quindi la struttura dell’art 2113 prende in considerazione la


debolezza del lavoratore (invalidità di tali atti di disposizione) ma aumenta la
autonomia individuale dello stesso permettendogli di impugnare tali atti a
rapporto cessato momento in cui il lavoratore non si trova più in situazione di
debolezza. (pag 448 e 449 ???)

PROBLEMI APPLICATIVI DELL’ART 2113 c.c.

RINUNZIA: negozio unilaterale a contenuto abdicativo, con il quale il titolare


del diritto lo dismette. Deve essere verificata in questo caso la volontà
abdicativi del lavoratore, soprattutto dove si tratti di rinunzia tacita o per fatti
concludenti, in astratto ammissibile visto che per la rinunzia non sono stabilite
regole formali.
TRANSAZIONE: tipico negozio di composizione delle liti. La transazione è
caratterizzata da reciproche concessioni ma nonostante ciò presenta anch’essa
il contenuto abdicativo della prima, che potrebbe essere non riequilibrato da
quanto nella composizione della controversia, venga acquisito dal lavoratore.
Nel 1973 l’applicazione dell’art 2113 c.c. è stata estesa anche a tutti i rapporti
complementari nell’art 409 c.c. (cioè quelli assoggettati alla speciale disciplina
processuale delle controversie di lavoro). l’estensione concerne:
• i rapporti associativi agricoli
• quelli di collaborazione continuata e continuativa a carattere
prevalentemente personale (parasubordinazione)
• contratti a progetto.
Tale estensione si fonda sulla situazione di debolezza economica propria anche
dei soggetti titolari di quei rapporti, che li rende assimilabili ai lavoratori
subordinati e che di conseguenza ne limita, la capacità di disposizione.
Come abbiamo già accennato l’impugnazione delle rinunzie e delle transazioni
deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla cessazione del
rapporto, o se successive a questa, dalla data della rinunzia o transazione. Essa
può essere proposta con qualsiasi atto scritto anche stragiudiziale, purché
idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore.
Il lavoratore ha la facoltà di impugnare tali atti di disposizione a prescindere:
• da un effettivo pregiudizio che gli possa essere derivato
• da eventuali vizi da cui il negozio dispositivo possa essere affetto
sorgono alcuni dubbi a riguardo della impugnazione stragiudiziale e l’azione
giudiziaria. Si ritiene sia preferibile l’opinione in base alla quale, evitata la
decadenza, il lavoratore deve comunque ottenere dal giudice una pronuncia di
annullamento dell’atto dispositivo, nel termine quinquennale di prescrizione
dell’azione di annullamento.

Problema relativo alle quietanze di saldo

Le quietanze di saldo liberatorie sono quelle dichiarazioni che il lavoratore, su


invito ed iniziativa del datore di lavoro, rende, solitamente a rapporto cessato,
per quietanza di ogni sua pretesa e con le quali il datore medesimo
intenderebbe definire ogni possibile controversia relativa al pregresso rapporto.
In questo caso il problema sta nel vedere se tale quietanza inglobi in sé anche
una vera e propria volontà abdicativa o transitiva in ordine a diritti ulteriori
rispetto a quelli che si attestano come soddisfatti (contestabile quindi solo
entro i termini di decadenza all’art 2113 c.c.) o se essa costituisca una
dichiarazione di mera scienza cioè esprimente un personale convincimento del
lavoratore medesimo circa la completezza del pagamento (opponibile anche
dopo la scadenza del termine).
La soluzione non può che pervenire dalla dichiarazione di volontà del
dichiarante tenendosi conto del principio di buona fede. L’atteggiamento della
giuri è cauto nel riconoscere valore negoziale di rinunzia alle quietanze ed
infatti tende a configurarle alla stregua di dichiarazioni di scienza anche
quando sembrerebbero incorporare volontà abdicative o transattive, salvo una
rigorosa prova contraria.

La sottrazione delle conciliazioni


L’ultimo comma dell’art 2113 c.c. sottrae al regime di invalidità delle rinunzie e
delle transazioni LE CONCILIAZIONI intervenute in sede giudiziale,
amministrativa e sindacale, le quali pertanto devono considerarsi inoppugnabili
dal lavoratore, salvo che, anche in questa ipotesi non possano farsi valere
specifici vizi del negozio (come i vizi della volontà). La ratio della norma sta
nella presunzione che la presenza di un terzo soggetto imparziale nelle prime
due ipotesi e l’assistenza della organizzazione sindacale nella terza,
costituiscano adeguato rimedio alla debolezza contrattuale del lavoratore.
La conciliazione è infatti un modo di composizione delle controversie realizzato
con l’intervento di un terzo che ne favorisce la conclusione, e che nel caso di
controversie riguardanti il rapporto di lavoro, si suppone sia in grado di mettere
sull’avviso il lavoratore in ordine al significato e alle conseguenze dell’atto e
dell’accordo. (in realtà tale soggetto secondo la giuri deve limitarsi a prendere
atto dell’accordo già raggiunto dalle parti, verificando unicamente che la
volontà transattiva del lavoratore sia genuina. (ci sarebbero anche transazioni
poste in essere con le stesse certificazioni, vale o meno l’inoppugnabilità? Pag.
452)

LA PRESCRIZIONE DEI DIRITTI DEL LAVORATORE. LA DECADENZA.

La prescrizione è fondata sull’interesse pubblico alla conformità tra la


situazione di fatto e la situazione di diritto, nel senso che il singolo
diritto soggettivo trascorso un certo tempo senza che sia esercitato, si
estingue in ragione della prolungata inerzia del suo titolare.

L’affermazione che tutti i diritti del prestatore di lavoro sono soggetti a


prescrizione può essere messa in dubbio dall’art 2113 c.c. la prescrizione è
infatti legata al tema della indisponibilità perché il mancato esercizio di un
diritto può essere inteso come un modo indiretto di disposizione: i diritti
indisponibili sono anche imprescrittibili. Però i diritti del prestatore di lavoro,
pur muniti di forti garanzie e tutele, sono caratterizzati solo da forme limitate
di indisponibilità e di conseguenza sono soggetti a prescrizione.

PRESCRIZIONE ESTINTIVA :
• ORDINARIA (10
ANNI)
• BREVE (5 ANNI)

PRESUNTIVA:
• BREVE (1 ANNO)
• ORDINARIA (3 ANNI)

LA PRESCRIZIONE ESTINTIVA

Per la maggior parte dei diritti del lavoratore opera la PRESCRIZIONE BREVE
(5 NNI) (art 2948 c.c.) questo in ragione delle modalità con le quali i crediti
devono essere soddisfatti. Infatti l’art 2948 prevede:
• esplicitamente l’ipotesi delle indennità spettanti per la cessazione del
rapporto (n°4)
• ipotesi generale di “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o
a termini più brevi” (n°5) e vi rientrano tutti i casi di crediti per i quali il
pagamento debba essere effettuato a scadenza fisse o periodiche
Restano esclusi, e quindi si applicherà la PRESCRIZIONE ORDINARIA (10
ANNI):
• i diritti, pur di natura retributiva , il cui adempimento sia assoggettato a
regole diverse (es. crediti da lavoro straordinario del tutto eccezionale)
• i crediti a carattere risarcitorio (come quelli a ristori di danni subiti es.
omissione contributiva)
• diritto al risarcimento della qualifica superiore (differenze retributive
derivanti dal diverso trattamento)

NB: non è soggetto invece a prescrizione l’accertamento dell’anzianità di


servizio la quale è solo un fatto giuridico e come tale non si prescrive mentre
si prescrivono i diritti ad essa collegati (es. maggiorazioni per scatti di
anzianità)

PRESCRIZIONE PRESUNTIVA

Questa forma di prescrizione si fonda sulla considerazione che determinati


crediti, , vengono soddisfatti tempestivamente e talora senza rilascio di
quietanza.
Fra questi quelli dei prestatori di lavoro , per le retribuzioni corrisposte a
periodi non superiori (art 2955 c.c.) o superiori al mese (art 2956 c.c.) . la
prescrizione presuntiva di un anno è infatti prevista all’art 2955 mentre quella
triennale all’art 2956 c.c. .
Ciò che si presume non è l’estinzione del diritto ma L’ADEMPIMENTO
DELL’OBBLIGAZIONE,onde a rigore non dovrebbe parlarsi di prescrizione in
senso proprio. (si presume si sia svolto il pagamento).
Essa è inoltre RELATIVA perché altrimenti corrisponderebbe all’estinzione del
relativo diritto. Per tanto al lavoratore che si vede opporre la prescrizione
presuntiva di avvenuto pagamento, è consentita LA PROVA CONTRARIA:
prova assai limitata che si limita alla confessione, fatta in giudizio dal datore di
lavoro, di non effettivamente soddisfatto il credito e nel giuramento decisorio
che lo stesso lavoratore voglia deferire al datore di lavoro per accertare se
l’estinzione del debito si è verificata (art 2959 e 2960 c.c.)

DECORRENZA DELLA PRESCRIZIONE

In generale a norma dell’art 2935 c.c. si ritiene che “la prescrizione


comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto
valere”.
Applicato ai crediti da lavoro significa che la prescrizione decorre dalle
singole scadenze dei vari crediti, naturalmente a rapporto in corso.

In materia però è ripetutamente intervenuta la Corte Costituzionale la quale

1. con la sentenza 63/1966 ha dichiarato la illegittimità costituzionale


degli articoli riguardanti la prescrizione estintiva breve (art 2948c.c.)
la prescrizione presuntiva annuale (art 2955 c.c.), la prescrizione
presuntiva triennale (art 2956 c.c.) nella parte in cui consentono la
prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il
rapporto di lavoro. Questi articoli in realtà nulla dicono riguardo al
momento della decorrenza della prescrizione (che invece è presa in
considerazione dall’art 2935 c.c.) ma si limitano a stabilire la durata della
stessa.
La Corte in definitiva ha introdotto una nuova norma combinando le due
regole e da corpo ad una ulteriore ipotesi di sospensione collegata alla
particolare situazione del lavoratore titolare del diritto.

La Corte ha infatti stabilito che il diritto alla retribuzione


proporzionata e sufficiente (art 36 Cost.) non sia liberamente
azionabile dal lavoratore fintantoché il rapporto sia in corso
ed egli sia perciò condizionato dal timore del licenziamento
all’epoca ancora disciplinato dall’art 2118 c.c. (recesso ad nutum)
.Secondo la Corte tale situazione porterebbe il lavoratore ad una
sostanziale rinuncia al proprio diritto (per timore). E poiché il diritto
alla retribuzione è da considerarsi irrinunciabile (terzo comma art 36

Conseguentemente la prescrizione del diritto alla retribuzione sufficiente


all’art 36 Cost. decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro la dove vi sia
per il lavoratore timore del licenziamento…

2. La stessa Corte prendendo in considerazione ciò ha adattato la sua


prima decisione alla normativa successivamente intervenuta in
materia di licenziamento.
Ed infatti:
• Tale principio non è stato ritenuto applicabile a rapporti come quelli
del pubblico impiego che sono muniti di stabilità tale da escludere
il timore del licenziamento
• Per i rapporti di lavoro con datori di lavoro privati si dovrà verificare
i casi in cui può sussistere tale paura per il lavoratore e dove no in
quanto le la legge ha introdotto particolari garanzie ed ecco:
- il principio è stato escluso per tutte quelle ipotesi nelle quali vi
sia stabilità e cioè ipotesi nelle quali il licenziamento del lavoratore
sia subordinato alla presenza di requisiti predeterminati e sia
consentito al giudice di, accertata l’inesistenza di tali presupposti,
di invalidare il licenziamento illegittimo e di rimuoverne gli effetti
(stabilità reale tutte le ipotesi dell’art 18 St. Lav. il timore
non c’è perché il giudice può eliminare gli effetti)
- sarà applicabile il principio introdotto con la sentenza del 66 nei
casi in cui ciò non avvenga e quindi sia possibile applicare
solamente la stabilità obbligatoria (che non garantisce
l’invalidazione del licenziamento) o il recesso ad nutum.

LA DECADENZA

La decadenza determina l’estinzione del diritto per la ragione obbiettiva del


mancato esercizio entro un termine predeterminato (solitamente
breve) e perentorio. La decadenza deve essere prescritta in modo espresso
dalla legge o dall’autonomia privata.
Nell’ambito del rapporto di lavoro non sono molte le ipotesi di decadenza
legali che si possono ricondurre a:
1. caso di impugnazione delle rinunzie e delle transazioni entro sei mesi;
2. impugnazione del licenziamento
3. impugnazione della sanzione disciplinare davanti al collegio di
conciliazione e arbitrato (art 7 St. lav)
Più frequenti sono i casi di decadenza convenzionale stabiliti anzitutto
dall’autonomia collettiva. La contrattazione è assoggettata alla regola
dell’art 2965 c.c. per la quale il termine di decadenza non deve rendere
eccessivamente difficoltoso l’esercizio del diritto. Per l’applicazione di
tale principio viene utilizzato l’art 2113 c.c. in quanto il termine di 6 mesi
previsto da tale articolo funge da parametro affinché l’esercizio del diritto
possa dirsi non difficoltoso.
Sembra infine che un termine di decadenza possa essere stabilito anche nel
contratto individuale naturalmente nei medesimi limiti in cui può operare
anche la contrattazione collettiva.

LE GARANZIE DEI CREDITI DEL LAVORATORE

La tutela dei diritti a contenuto patrimoniale spettanti al lavoratore subordinato


si realizza anche attraverso l’introduzione di specifici limiti ALLA POSSIBILITA’
CHE UN TERZO SOGGETTO, suo creditore, AGGREDISCA LE SOMME che gli
spettano nei confronti del datore di lavoro, sottraendole così alla funzione cui
esse sono destinate.
Tale indisponibilità è comunque limitata e si traduce:

1. ART 545 C.P.C. possibilità di procedere a pignoramento delle somme


dovute a titolo di stipendio, salario o altre indennità relative al rapporto
di lavoro SOLO FINO AL LIMITE DI 1/5 del loro ammontare
2. è sempre limitata a un 1/5 la possibilità di assoggettare i crediti del
prestatore di lavoro a sequestro conservativo sempre da parte di terzi
creditori
3. il limite è stabilito dal giudice qualora l’azione cautelare o esecutiva sia
promossa per crediti alimentari
4. sempre la funzione di sostentamento anche della famiglia del lavoratore
fa ritenere che una quota della retribuzione possa essere versata
direttamente, su provvedimento del giudice, al coniuge o ai figli nei
confronti dei quali l’obbligo di mantenimento non venga adempiuto
5. sempre ai medesimi obblighi generali di un quinto è assoggettata anche
la misura della compensazione applicabile però (secondo la giuri) qualora
i contrapposti crediti abbiano origine in rapporti negoziali tra loro
autonomi

L’ordinamento oltre a proteggere i crediti di lavoro da possibili azioni esecutive


o cautelari si preoccupa di rafforzare la sua posizione di creditore nei confronti
del datore di lavoro attribuendo ai crediti retributivi specifiche garanzie e
prevedendo cause legittime di prelazione (i privilegi ) nel soddisfacimento sui
beni del datore di lavoro ove questi sia risultato inadempiente e occorra
procedere a esecuzione forzata. Ricordiamo:

1. responsabilità solidale nel limite di un anno nella cessazione dell’appalto,


del committente di opere e servizi nei confronti dei dipendenti
dell’appaltatore per i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali
dovuti da quest’ultimo;
2. assunzione da parte dell’impresa utilizzatrice di lavoro somministrato, in
caso di inadempimento dell’impresa di somministrazione, dell’obbligo del
pagamento diretto al lavoratore del trattamento economico, sempre che,
naturalmente, non si ritenga che unico, vero datore di lavoro sia
l’impresa utilizzatrice
3. la responsabilità solidale di cedente e cessionario in caso di trasferimento
di azienda

Per quanto riguarda i PRIVILEGI (cause di prelazione nel soddisfacimento del


credito determinante dalla natura e dalla qualità dello stesso) abbiamo:

1. privilegio generale sui beni mobili per:


- crediti di retribuzione;
- indennità di fine rapporto;
- indennità per danni da omissione contributiva;
- danni da licenziamento illegittimo;
- danni conseguenti da infortunio sul lavoro;
- credito per i danni da c.d. demansionamento
Qualora questi crediti non vengano soddisfatti con i beni mobili essi
vengono collocati sussidiariamente sugli immobili secondo un ordine che li
vede preferiti rispetto gli altri crediti. Al loro interno ulteriore preferenza è
stabilità per il TFR e all’indennità di mancato preavviso (si tratta di solito di
somme piuttosto elevate)

2. privilegi speciali (rari nella nostra materia)operano con riguardo ai beni


determinati, in ragione del particolare collocamento tra bene e credito
come ad esempio il privilegio sulla nave o aeromobile per i crediti
dell’equipaggio

I privilegi operano anche all’interno delle procedure concorsuali (fallimento,


concordato preventivo . . .) possono tuttavia rilevarsi strumenti insufficienti
allorché il patrimonio del datore di lavoro si riveli, in concreto non abbastanza
capiente.
In attuazione alla direttiva comunitaria 80/1987 la quale ha invitato gli stati
membri a predisporre strumenti in grado di garantire i lavoratori in caso di
insolvenza del datore di lavoro è stato previsto presso l’INPS un “Fondo di
Garanzia” attraverso la legge 297/1982 avente lo scopo di sostituirsi al
datore di lavoro nel pagamento del TFR in caso di insolvenza.
Il fondo è alimentato esclusivamente da contributi ad esclusivo carico dei
datori di lavoro e funziona, così come meccanismo di ridistribuzione, fra gli
stessi , del rischio di insolvenza.
Presupposto dell’intervento del fondo è l’accertamento del credito al Tfr che
risulta dall’ammissione al passivo della procedura concorsuale (o dalla
sentenza che abbia definito in giudizio di opposizione in caso di mancata
ammissione). Su questo punto la legge ha ampliato l’ambito della direttiva
europea completando anche l’ipotesi in cui il datore di lavoro non sia soggetto
a procedura concorsuale e tuttavia sia in tutto o in parte inadempiente. In tal
caso il lavoratore prima di ottenere l’intervento del fondo dovrà aver promosso
senza successo l’esecuzione forzata (ATT: disparità di trattamento).
Tale disciplina non è stata ritenuta idonee dalla Corte in quanto:
• la garanzia del solo TFR è stata considerata troppo circoscritta;
• i crediti per il Trf non avrebbero natura retributiva (secondo la Corte);
e quindi il nostro legislatore è intervenuto con il D.lvo 80/1992 attribuendo al
fondo di garanzia il compito di assicurare anche il pagamento dei crediti
retributivi non soddisfatti a causa dell’insolvenza del datore di lavoro nel caso
di procedure concorsuali o dell’inadempienza del datore nel caso queste non
siano applicabili . lo Stato italiano comunque ha usufruito di tutte le possibilità
di contenere la garanzia la quale è circoscritta:
• si crediti diversi dal Tfr relativi agli ultimi 3 mesi del rapporto di lavoro;
• opera nei limiti di un massimale, costituito dal triplo del trattamento di
cassa integrazione straordinaria
• non è cumulabile per evitare duplicazioni di garanzie con il trattamento
di Cassa integrazione e con retribuzioni percepite relativamente al
medesimo periodo

LA TUTELA STRAGIUDIZIALE: CONCILIAZIONE E ARBITRATO

Il quadro normativo delle tutele volte ad assicurare l’effettiva realizzazione dei


diritti spettanti al prestatore di lavoro in base alla disciplina inderogabile deve
essere completato considerando MOMENTO DELLA CONTROVERSIA E I MODI
DELLA SUA COMPOSIZIONE.
La tendenza generale, che può essere ricostruita, è nel suo complesso, quella
di un mercato favorevole nei confronti della tutela giurisdizionale statuale,
verso la quale vengono convogliate le controversie , perché si ritiene che
quella, meglio di ogni altra, sia la sede nella quale sia possibile un compiuto
accertamento e una adeguata garanzia dei diritti dei lavoratori. L’arbitrato
(modo alternativo di soluzione delle controversie) viene fortemente limitato
quanto ai presupposti per la sua utilizzabilità e sostanzialmente disincentivato ;
gli strumenti “amichevoli” di composizione, come le conciliazioni, meramente
facoltativi
LE CONCILIAZIONI

La conciliazione non è in se negozio autonomo ma una composizione


transattiva della controversia fra le parti caratterizzata dalla presenza di un
terzo soggetto. Esse sono di due tipi:
• in sede amministrativa: essa è regolata all’art 410 c.p.c. e si svolge
davanti ad una commissione Costituita presso la direzione provinciale del
lavoro nominata e presieduta dal direttore e composta da quattro
rappresentati dei lavoratori, designati dalle rispettive organizzazioni
sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Se la
conciliazione riesce il relativo verbale debitamente sottoscritto viene
depositato nella cancelleria del tribunale e il giudice su istanza della
parte interessata, accertata la sua regolarità formale, lo dichiara
esecutivo con decreto. L’esecutività riguarda la possibilità di ottenere
l’attuazione coattiva degli obblighi previsti nel verbale medesimo e non
deve essere confusa con la inoppugnabilità della conciliazione (art 2113
c.c.) che impedisce al lavoratore di impugnarla e per la quale è
sufficiente che il verbale sia sottoscritto.
• in sede sindacale: viene regolata dal legislatore solo per quanto
concerne il procedimento per la formazione del titolo esecutivo all’art
411 c.p.c. fermo restando ovviamente l’inoppugnabilità all’art 2113 c.c.
nulla invece viene detto su cosa si debba intendere per conciliazione
sindacale.

La conciliazione nel codice di procedura civile era solo un opportunità offerta


alla parti in lite: la’art 410 infatti parlava di “tentativo facoltativo di
conciliazione” . una prima inversione di tendenza si è avuta con la legge
108/1990 che ha previsto per la sola ipotesi di tutela obbligatoria, il tentativo
obbligatorio di conciliazione come condizione di procedibilità della domanda
giudiziale. Tuttavia la vera svolta si è avuta con la D.lvo. 80/98 che
riformulando l’art 410 c.p.c. ha introdotto , in via generale, il tentativo
obbligatorio di conciliazione per tutte le controversie di lavoro di cui all’art 409
c.p.c. (quindi anche per quelli associativi agricoli e parasubordinati). Il previo
tentativo è posto come condizione di procedibilità dell’azione giudiziaria.
Questa nuova normativa regola anche gli effetti sostanziali della richiesta di
conciliazione la quale INTERROMPE IL TERMINE DI PRESCRIZIONE E SOSPENDE,
per tutta la durata del tentativo stesso e per i venti giorni successivi, ogni
termine di decadenza. Sorgono alcuni dubbi riguardo sulla ipotesi di
sospensione sia per la non giustificata deviazione dai principi, che escludono
che la decadenza possa essere sospesa, sia per le ragioni pratiche, dato che il
legislatore in questo modo impone al lavoratore una ulteriore iniziativa , dopo
la richiesta del tentativo di conciliazione, volta ad impedire la decadenza nel
frattempo sospesa. La ratio sta nell’opportunità di decongestionare l’accesso
alla giurisdizione ordinaria la quale dal 1° luglio 1998 è particolarmente
gravata anche dal carico delle controversie del pubblico impiego “privatizzato”.
Una particolare procedura è prevista per la conciliazione delle tutele
nell’ambito del lavoro pubblico.

ARBITRATO
Con l’arbitrato le parti attribuiscono ad un terzo il potere di decidere la lite:
• in via preventiva mediante una clausola compromissoria
• a lite già insorta, mediante il compromesso.
Nell’ambito del rapporto di lavoro, tuttavia il legislatore ha da sempre
manifestato un deciso sfavore nei confronti dell’arbitrato dapprima vietando sia
il compromesso che la clausola compromissoria e in secondo momento
ammettendole ma con forti limitazioni.
La rigidità della disciplina dell’arbitrato rituale ha così aperto la strada verso
forme più libere di definizione delle controversie i c.d. arbitrati irrituali.
Sennonché la legge 533/1973 ha fortemente compromesso anche questa
forma di arbitrato condizionandolo al pari dell’arbitrato rituale, alla sua
previsione da parte della legge (art 7 st. lav. sanzioni disciplinari) e da
parte dei contratti collettivi, purché resti comunque salva la possibilità di adire
l’autorità giudiziaria.
Inoltre secondo tale norma il LODO che è la decisione dell’arbitro, non era
valido ove fosse stata violazione di disposizioni inderogabili di legge o di
contratti collettivi e in tal caso la sua impugnazione era regolata, alla stregua
delle rinunzie e delle transazioni, art 2113 c.c. commi 2 e 3. in tal modo
l’arbitrato veniva fortemente disincentivato.

Il D.lvo 80/1998 ha inciso in modo significativo tentando di rilanciare sia la


conciliazione che l’arbitrato, cui si può appunto ricorrere in caso di fallimento
della prima.
Non viene abbandonato il principio per cui è il contratto collettivo a dover
autorizzare l’arbitrato per le controversie di lavoro. Ma viene rilanciato
l’arbitrato stesso conferendo maggiore stabilità al lodo arbitrale che non è più
soggetto all’impugnazione ex art 2113 c.c. come un qualunque negozio
transattivo o rinunzia.
Sulla validità del lodo è ammessa impugnazione in unico grado davanti al
Tribunale. Viene altresì prevista la possibilità di istituire, tramite la
contrattazione collettiva o camere arbitrali stabili.

BREVI CENNI SULLA TUTELA GIURISDIZIONALE

Lo strumento della tutela giurisdizionale è il più diffuso e probabilmente il più


efficace tra gli strumenti. Essa è correlata assai spesso alle posizioni sostanziali
per le quali viene apprestata e alla loro rilevanza nell’ordinamento: ciò spiega
perché il prestatore di lavoro gode di una particolare protezione anche nel
momento dell’attuazione dei suoi diritti attraverso il ricorso al giudice. La legge
533/1973 ha realizzato una tutela processuale che in taluni aspetti non è
eccessivo definire differenziata.
La novella riguarda:
• le controversie relative ai rapporti di lavoro subordinato
• le controversie relative ai rapporti associativi agrari
• i co.co.co
• le collaborazioni a progetto.
In tempi recenti inoltre il legislatore, privatizzato il rapporto di pubblico
impiego, ne ha conseguentemente mutato il regime di tutela giurisdizionale, a
partire dal 1998, devolvendo al giudice ordinario tutte le controversie ad esso
relative ad eccezione di quelle riguardanti specifici rapporti e di quelle relative
alla procedure concorsuali o selettive. La modifica non è di formale
sostituzione di un giudice all’altro, ma riguarda in un certo senso lo stesso
oggetto del processo, che coerentemente con i profili sostanziali, non sarà più
un processo di impugnazione di atti autoritativo della pubblica amministrazione
ma un processo sul rapporto.

Competente a conoscere delle controversie sarà:


• in primo grado il tribunale in composizione monocratico
• in secondo grado la Corte di Appello competente per territorio
• in terzo grado la Corte di Cassazione

all’inizio del processo il giudice esperisce il tentativo di conciliazione, se questo


riesce la conciliazione a norma dell’art 2113 c.c. è inoppugnabile. Altrimenti il
processo prosegue, improntato ai principi di:
• oralità
• concentrazione
• speditezza
fin dall’inizio devono essere chiariti i fatti, i mezzi di prova e le ragioni di diritto
di cui ciascuna parte indende avvalersi. Il processo è altresì caratterizzato dalla
presenza di autonomi poteri istruttori del giudice, anche se il loro esercizio non
può evidentemente rimediare all’inerzia delle parti.
Dopo l’esperimento dell’istruttoria, il giudice pronuncia la sentenza . qualora si
tratti di sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di
lavoro egli deve determinare oltre agli interessi legali, il maggior danno da
svalutazione monetaria ove, il credito di lavoro assume talune delle
caratteristiche del credito di valore anziché di valuta. La sentenza di condanna
a favore del lavoratore è provvisoriamente esecutiva; ora, con successiva
modifica, anche quelle a favore del datore di lavoro possono esserlo, ma
devono seguire le regole ordinarie sulla provvisoria esecuzione.
Inoltre quando il diritto sia certo ma non sia oggettivamente possibile una sua
precisa determinazione, il giudice ha il potere di liquidare la prestazione in via
equitativa.

MOBBING

Sempre più spesso le istanze di tutela avanzate dai lavoratori riguardano il c.d.
mobbing. Per mobbing si intende quell’insieme di comportamenti protratti
nel tempo, posti in essere dal datore di lavoro, ovvero da superiori
gerarchici del lavoratore o persino da suoi colleghi, volti a realizzare
vere e proprie forme di persecuzione psicologica, di isolamento e
emarginazione nell’ambito aziendale, per lo più con la finalità di
costringere il lavoratore medesimo ad abbandonare il posto di lavoro.

Non sempre gli strumenti utilizzati per realizzare tale tutela sono di per sé
illegittimi ma la riconduzione ad unità dello scopo perseguito di emarginazione
può consentire una tutela pregnante.
CAPITOLO VIII: LA TUTELA DEI DIRITTI DEL LAVORATORE

LA PROCEDURA DI CERTIFICAZIONE

Parliamo adesso della procedura di certificazione. Il Decreto Legislativo numero 276/2003


modificando alcune precedenti disposizioni normative, introduce una particolare procedura di
CERTIFICAZIONE circa la natura e la qualificazione giuridica dei rapporti di lavoro, il cui
obbiettivo dichiarato è quello di ridurre il contenzioso giudiziario sulla qualificazione dei
rapporti medesimi, il cui inquadramento può risultare alle volte non sempre agevole. La versione
iniziale del decreto regolava la certificazione come strumento interno al decreto medesimo,
limitandola alla qualificazione dei contratti di lavoro intermittente, di lavoro ripartito, a tempo
parziale, a progetto e di associazione in partecipazione, oltre che all’appalto e al regolamento delle
cooperative di lavoro; il decreto correttivo numero 251/2004 ha esteso la procedura di certificazione
alla qualificazione, in linea generica, dei contratti di lavoro. Vediamo nel dettaglio che cosa
prevedono i vari articoli:

Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 76 – Organi di certificazione – Sono organi abilitati alla
certificazione dei contratti di lavoro le commissioni di certificazione istituite presso:
a) gli enti bilaterali costituiti nell’ambito territoriale di riferimento
b) le Direzioni provinciali del lavoro e le province
c) le università pubbliche e private
d) Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali
e) I consigli provinciali dei consulenti del lavoro

Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 78 – Procedimento di certificazione e codici di buone pratiche


– (primo comma) – La procedura di certificazione è volontaria e consegue obbligatoriamente ad una
istanza scritta comune delle parti del contratto di lavoro.

art. 76 e segg. = in questi articoli vengono individuati gli organi abilitati alla certificazione che
sono le commissioni di certificazione istituite presso: enti bilaterali costituiti nell’ambito territoriale
di riferimento, Direzioni provinciali del lavoro e province, università pubbliche e private, Ministero
del Lavoro e delle politiche sociali, consigli provinciali dei consulenti del lavoro. Viene poi prevista
la possibilità di costituire tramite convenzioni, una commissione unitaria di certificazione;
viene regolata sia pure solo parzialmente la competenza territoriale delle diverse commissioni;
vengono individuate varie regole procedimentali ed infine vengono previsti sempre ai fini della
certificazione, moduli e formulari non vincolanti che tengono conto degli orientamenti
giurisprudenziali prevalenti in materia di qualificazione dei rapporti

Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 79 – Efficacia giuridica della certificazione – Gli effetti
dell’accertamento dell’organo preposto alla certificazione del contratto di lavoro permangono,
anche verso i terzi, fino al momento in cui sia stato accolto, con sentenza di merito, uno dei
ricorsi giurisdizionali esperibili ai sensi dell’articolo 80, fatti salvi i provvedimenti cautelari.
  art. 79 = questo articolo parla dell’efficacia giuridica della certificazione. All’atto
che conclude la procedura di certificazione deve attribuirsi natura di atto amministrativo ed
in particolare si tratta di un atto amministrativo di certazione, finalizzato a produrre
appunto certezza in ordine alla qualificazione del programma negoziale come definito e poi
presentato dalle parti dell’organo certificante; in funzione di un accertamento unitario degli
effetti della certificazione, il legislatore delegato ha stabilito che questi effetti permangono,
sia pure provvisoriamente, anche nei confronti dei terzi che sono soprattutto gli enti
previdenziali e le amministrazioni tributarie.

Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 80 – Rimedi esperibili nei confronti della certificazione –
(primo, secondo, quarto e quinto comma) – Nei confronti dell’atto di certificazione, le parti e i terzi
nella cui sfera giuridica l’atto stesso è destinato a produrre effetti, possono proporre ricorso, presso
l’autorità giudiziaria di cui all’articolo 413 del codice di procedura civile, per erronea qualificazione del
contratto oppure difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione. Sempre
presso la medesima autorità giudiziaria, le parti del contratto certificato potranno impugnare l’atto di
certificazione anche per vizi del consenso.
L’accertamento giurisdizionale dell’erroneità della qualificazione ha effetto fin dal momento della
conclusione dell’accoro contrattuale. L’accertamento giurisdizionale della difformità tra il programma
negoziale e quello effettivamente realizzato ha effetto a partire dal momento in cui la sentenza accerta che
ha avuto inizio la difformità stessa.
…..
Chiunque presenti ricorso giurisdizionale contro la certificazione, ai sensi dei precedenti commi 1 e 3,
deve previamente rivolgersi obbligatoriamente alla commissione di certificazione che ha adottato l’atto di
certificazione per espletare un tentativo di conciliazione ai sensi dell’articolo 410 del codice di procedura
civile.
Dinnanzi al tribunale amministrativo regionale nella cui giurisdizione ha sede la commissione che ha
certificato il contratto, può essere presentato ricorso contro l’atto certificatorio per violazione del
procedimento o per eccesso di potere.

 art. 80 = in questo articolo vengono enunciati i rimedi esperibili nei confronti della
certificazione. Il legislatore prevede infatti, davanti al giudice del lavoro, la possibilità di
impugnazione dell’atto di certificazione per erronea qualificazione del contratto oppure
per difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione. È
poi prevista la possibilità di un ricorso al giudice amministrativo contro l’atto di
certificazione, per violazione di procedimento o per violazione di potere

Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 81 – Attività di consulenza e assistenza alle parti – Le sedi di
certificazione di cui all’articolo 75 svolgono anche funzioni di consulenza e assistenza effettiva alle parti
contrattuali, sia in relazione alla stipulazione del contratto di lavoro e del relativo programma negoziale, sia
in relazione alle modifiche del programma negoziale medesimo concordato in sede di attuazione del
rapporto di lavoro, con particolare riferimento alla disponibilità dei diritti e alla esatta qualificazione dei
contratti di lavoro.
 art. 81 = questo articolo prevede una attività di consulenza ed assistenza alle parti. Qui
l’organo di certificazione non qualifica il contratto ma fornisce alle parti, ed in particolare al
lavoratore, un supporto informativo in ordine al possibile contenuto del contratto
medesimo e alla conseguente qualificazione

Premettendo che soltanto l’esperienza concreta potrà dire se la certificazione potrà davvero
assolvere alla funzione per la quale è stata pensata, è necessario fare altre precisazioni: in primo
luogo la caratteristica essenziale della certificazione è la volontarietà, ovviamente per entrambe
le parti del rapporto; in secondo luogo un altro problema a qui il legislatore non da una soluzione è
se la certificazione possa essere utilizzata solo in funzione dell’instaurazione del vincolo
contrattuale o anche in corso di esecuzione del rapporto, e la tesi preferibile sembra essere la
prima; in terzo luogo va ricordato che il potere di qualificazione dei rapporti spetta solo al
giudice, e dunque la qualificazione vi resta necessariamente assoggettata: il legislatore delegato
ha infatti chiarito che gli effetti della certificazione vengono meno, anche retroattivamente, qualora
su ricorso delle parti o anche dei terzi nella cui sfera giuridica l’atto di certificazione è destinato a
produrre i loro effetti, il giudice abbia ritenuto erronea la qualificazione o abbiano accertato la
difformità fra il programma negoziale certificato e la sua successiva e concreta attuazione. Nel
primo caso vi sarà una retroattività piena, nel senso che il rapporto verrà qualificato fin
dall’inizio cos’ come qualificato dal giudice, mentre nel secondo caso la diversa qualificazione
avrà effetto al verificarsi della difformità.

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