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Fino al 1942 il contratto con il quale ci si obbligava a prestare lavoro alle dipendenze di qualcuno
veniva considerato una sorta di contratto di locazione: l’unica cosa che differenziava questo dagli
altri contratti di locazione era l’oggetto cioè l’uomo che era giuridicamente considerato come una
cosa e non come una persona. Le opere dell’uomo poi costituivano il frutto di questa sorta di
contratto di locazione.
Tra i giuristi più famosi però non mancarono quelli che misero in risalto la contraddittorietà di
questo contratto perché se la caratteristica principale di un contratto di locazione è la disponibilità
temporanea di un bene, che deve essere restituito al termine del rapporto, non può parlarsi di
contratto di locazione dell’attività umana che come ogni fonte di energia si consuma nello stesso
momento in cui questa si produce.
Il codice civile del 1865 regolava in maniera specifica il contratto di trasporto e dettava una sola
regola relativa al rapporto di lavoro subordinato: nessuno può obbligare la sua opera ad altrui
servizio che a tempo o per una altrui impresa; gli ultimi ottanta anni di storia hanno visto un
mutamento del quadro normativo riguardante il rapporto di lavoro subordinato inerente soprattutto
alla trasformazione del rapporto di lavoro nel più minutamente regolato tra tutti i rapporti di lavoro
tipici di diritto privato.
Risulta in questo modo più chiaro che l’esigenza di istituire delle norme riguardanti il rapporto di
lavoro sta nell’esigenza di sottrarre il lavoratore allo stato di inferiorità nel quale verrebbe a
trovarsi se la disciplina giuridica lo abbandonasse. La tutela del lavoratore è quindi la funzione
caratteristica della disciplina giuridica del rapporto di lavoro; questo può essere utilizzato come
principio generale di questo settore dell’ordinamento e anche come criterio di interpretazione.
TUTELA DEL LAVORO E SISTEMA DELLE FONTI DEL DIRITTO DEL LAVORO:
CONTRATTI COLLETTIVI, FONTI SOVRANAZIONALI, LEGISLAZIONE REGIONALE
Il sistema delle fonti del diritto del lavoro prevede principalmente due criteri di interpretazione:
• i contratti collettivi: hanno nella tutela del lavoro la loro ragione d’essere e sono nati per
superare la debolezza contrattuale del singolo lavoratore nei confronti del singolo datore di
lavoro, trasferendo la trattativa dal piano individuale al piano collettivo. Naturalmente nel
caso di conflitto tra un atto avente forza di legge (legge, decreto legge e decreto legislativo)
ed un contratto collettivo sono i primi a prevalere
• le convenzioni internazionali del lavoro: sono norme approvate dalla Conferenza
dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (OIL) e sono destinate a diventare vincolanti
all’interno dei singoli stati appartenenti mediante la legge interna di ratifica alle
convenzioni. La loro funzione è principalmente quella di parificazione delle condizioni di
lavoro nei singoli paesi
• ATTENZIONE!!!!!! Non sono fonti di diritto, ma solo in materia di lavoro, i regolamenti e
le direttive dell’Unione Europea
LA SUBORDINAZIONE DEL LAVORATORE QUALE CARATTERE DISTINTIVO DEL
RAPPORTO DI LAVORO
La contropartita della retribuzione nel rapporto di lavoro è l’attribuzione al datore di lavoro di ogni
rischio inerente allo svolgimento della prestazione lavorativa. Questa responsabilità del datore di
lavoro è stata utilizzata dalla legge in molteplici direzioni:
il datore di lavoro ha la responsabilità oggettiva per i danni prodotti a terzi dal
prestatore di lavoro durante l’esecuzione del lavoro
il datore di lavoro è obbligato per legge a corrispondere in tutto o in parte la
retribuzione anche quando manca per determinate cause la prestazione
corrispettiva
SUBORDINAZIONE E SCAMBIO
La subordinazione del lavoratore ed il rischio del datore di lavoro sono elementi ineliminabili
del rapporto di lavoro non solo perché lo caratterizzano così come è regolato nel nostro
ordinamento, ma soprattutto perché una prestazione di lavoro senza questi due elementi non sarebbe
valida in nessun ordinamento. Nel nostro ordinamento il rapporto di lavoro è visto come un
rapporto di scambio e di corrispettività: tra lavoro e retribuzione e tra partecipazione di chi
lavora al risultato del lavoro e rischio di chi dirige i lavori e profitta del risultato.
IL LAVORO GRATUITO
Non è ammissibile un contratto di lavoro gratuito e questo perché il relativo contratto a cui
qualcuno si obbligherebbe non sarebbe un contratto valido rientrante tra quelli previsti all’art. 1322
del Codice Civile.
Art. 1322 - Autonomia contrattuale – Le parti possono liberamente determinare il contenuto del
contratto nei limiti imposti dalla legge e delle norme corporative.
Le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina
particolare purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento
giuridico.
Quando si parla di “interesse dell’impresa” non si allude ad un interesse pubblico che appartiene
alla collettività, ma di un interesse superiore a quello dell’imprenditore e a quello di ogni singolo
soggetto che collabora con l’imprenditore all’interno dell’impresa. In ogni caso l’interesse
dell’impresa compete anche all’imprenditore, ma imprenditore inteso non come singolo, ma come
capo di quella collettività organizzata che viene chiamata impresa. Stabilire quindi se determinati
poteri dell’imprenditore siano attribuiti o meno per la tutela dell’interesse dell’impresa, significa
stabilire se l’imprenditore possa esercitare questi poteri per il soddisfacimento di un suo interesse
personale, oppure per il soddisfacimento di un interesse che gli compete in quanto membro
dell’organizzazione impresa e che di conseguenza compete anche a tutti gli altri membri
dell’impresa.
Un primo importante riferimento dell’interesse dell’impresa lo troviamo nell’art. 2104 che
commisura la diligenza richiesta al prestatore di lavoro, oltre che alla natura della prestazione
dovuta, a quanto richiesto dall’interesse dell’impresa; un'altra indicazione si ha dall’obbligo di
fedeltà del prestatore di lavoro stabilito all’art. 2105 consistente nel non far uso di notizie attinenti
l’impresa al fine di non recare ad essa un pregiudizio che viene imputato all’impresa e non
all’imprenditore, in modo tale da garantire la protezione di un interesse di gruppo e non di un
interesse individuale che tra l’altro non costituirebbe nessun illecito; un'altra interpretazione
importante si ricava dall’art. 2109 in base al quale il periodo delle ferie annuali è stabilito
dall’imprenditore sulla base delle esigenze del prestatore di lavoro e dell’interesse dell’impresa;
ricordiamo infine che l’art. 2103 pone le esigenze dell’impresa come presupposto valido perché
l’imprenditore possa modificare le mansioni del prestatore di lavoro.
Art. 2104 – Diligenza del prestatore di lavoro – Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta
dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione
nazionale.
Deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite
dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.
Art. 2105 – Obbligo di fedeltà – il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi,
in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di
produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.
Art. 2109 – Periodo di riposo – (secondo comma)…ha anche diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito,
possibilmente continuativo, nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e
degli interessi del prestatore di lavoro. La durata di tale periodo è stabilita dalla legge, dalle norme
corporative, dagli usi o secondo equità.
Art. 2103 – Mansioni del lavoratore – Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è
stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a
mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso
di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e
l’assegnazione stessa diventa definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore
assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque
non superiore a tre mesi.
La piene rispondenza della nostra Costituzione al principio pluralista trova conferma nell’art. 46 per
cui “la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e ei limiti stabiliti
dalla legge, alla gestione delle aziende”. Il fatto che la Costituzione preveda la creazione di istituti
giuridici che consentono ai lavoratori di partecipare alla gestione aziendale, conferma la tutela
all’interesse dell’impresa inteso come interesse collettivo al quale anche i lavoratori partecipano.
È da notare inoltre che la destinazione di alcuni poteri dell’imprenditore alla soddisfazione
dell’interesse dell’impresa rappresenta una forma di tutela per i lavoratori, perché in questo modo
questi poteri vengono sottratti al libero arbitrio dell’imprenditore. È in questo modo pacifico che la
nostra Costituzione si basa sul principio di tutela del lavoro.
Accanto al rapporto di lavoro, che è rapporto di scambio, il nostro ordinamento conosce anche la
possibilità di una prestazione lavorativa che venga conferita in un rapporto associativo; possono
esserne esempi la mezzadria, la colonia e le cooperative di lavoro. Quello che risulta diverso nei due
tipi di rapporto non è tanto la presenza o l’assenza della subordinazione, quanto il fatto che nei
rapporti associativi sia preminente la tutela giuridica dell’interesse delle parti. Si deve quindi
parlare di rapporto associativo, quando chi presta l’attività lavorativa partecipa agli utili, ed
eventualmente alle perdite, in proporzione al valore del suo apporto; in questo modo dei due
caratteri fondamentali del rapporto di lavoro, ovvero la subordinazione del lavoratore ed il rischio
del datore di lavoro, viene meno proprio questo ultimo che viene ripartito tra le parti.
Si può quindi concludere dicendo che nel rapporto di lavoro il rischio grava solo sul datore di
lavoro e che quindi la compartecipazione al rischio da parte di altri soggetti può essere un
valido criterio per distinguere i rapporti di lavoro associativi dal rapporto di lavoro.
SEZIONE III: L’ESPANSIONE DELLA DISCIPLINA
Non solo il criterio del rischio, ma anche quello della subordinazione servono invece a distinguere
il rapporto di lavoro dal rapporto di opera, o rapporto di lavoro autonomo che ha anche esso
un suo precedente in una forma di locazione: la locatio operis consistente nel fatto che chi riceveva
in locazione la cosa non ne godeva, ma doveva trasportarla o apportarvi delle migliorie. Una volta
superata l’idea della locazione è rimasto il criterio distintivo della subordinazione al quale molto
spesso si accosta, o addirittura si contrappone il fatto che tra contratto d’opera e contratto di lavoro
sia presente anche una differenza di oggetto: solo il contratto di lavoro ha per oggetto l’attività
del lavoratore, mentre il contratto d’opera ha per oggetto il risultato di questa attività. La base
di questa differenza si annida nella diversa disciplina dell’accollo del rischio dell’utilità per il
creditore della prestazione di lavoro; in sostanza essendo il rischio del datore di lavoro principio
caratteristico ed esclusivo del rapporto di lavoro che ha per presupposto base la subordinazione, è
chiaro che nel lavoro autonomo, mancando la subordinazione, manca anche l’attribuzione al
committente del rischio. Si ha quindi lavoro autonomo quando il committente è privo del potere di
dirigere, essendo la scelta delle modalità di esecuzione del lavoro in facoltà del lavoratore, nei limiti
segnati dal contratto.
La caratteristica sopra descritta del lavoro autonomo risalta quando si tratta di un lavoro con durata
limitata, rigidamente predefinito nel contenuto e nel tempo; la caratteristica risulta invece più
difficile da individuare quando viene concordata l’esecuzione di una attività lavorativa
continuativa. Se si tratta di contratto d’opera la regola è che la facoltà di scelta spetta al lavoratore
che quindi sceglierà la modalità per lui meno onerosa, ma alcune volte può essere coinvolto anche
un potere di scelta del committente. Fermo restando la distinzione tra lavoro subordinato e lavoro
autonomo, si assiste negli ultimi anni ad una estensione della tutela giuridica del primo a tutte
quelle forme di lavoro autonomo le cui posizioni vengono solitamente denominate di
“parasubordinazione”. Si ritiene che i fondamenti di questa estensione siano dati dalla normale
inferiorità economica delle categorie di lavoratori autonomi considerati e dalla posizione di
debolezza contrattuale nella quale si trovano questi lavoratori, intesa come pratica impossibilità di
contribuire a determinare le clausole del contratto. Il criterio che invece viene utilizzato per
distinguere i rapporti di opera da quelli assimilati al rapporto di lavoro, è quello della
collaborazione continuativa e coordinata prevalentemente personale: la continuità della
collaborazione si deve ritenere presente non solo quando la durata continuativa della prestazione è
prevista in un unico contratto, ma anche quando si hanno con una certa continuità prestazioni
d’opera che vengono concordate di volta in volta. Si può parlare correttamente di prestazione
d’opera coordinata solo quando il coordinamento interviene nella fase di esecuzione della
prestazione stessa, e non solo per accordo delle parti, ma per effetto dell’esercizio di un potere del
coordinatore. Per l’estensione delle norme sul lavoro subordinato si richiede una prestazione
prevalentemente personale che concorre all’identificazione, secondo la giurisprudenza, di tutte le
prestazioni d’opera para subordinate, comprese quelle tipiche specificate dalla legge.
IL LAVORO “A PROGETTO”
Nel complesso, dove c’è subordinazione, la tutela del lavoratore è più elevata e quindi il rapporto di
lavoro risulta essere più oneroso per il datore di lavoro; questo spiega perché la figura del lavoratore
parasubordinato negli ultimi anni si è estesa ad un gran numero di casi relativi ai più diversi settori
dell’attività lavorativa. In realtà si presume che il grande numero di lavoratori parasubordinati,
riconosciuti con il nome di co.co.co. (collaboratori coordinati e continuativi) sia dovuto
all’obbiettivo di sottrarre questo tipo di prestazioni alle ferree regole del lavoro subordinato: si finge
si tratti di co.co.co. per poter licenziare con più facilità, pagare meno contributi, pagare una
retribuzione meno elevata, ma in realtà la prestazione lavorativa ha tutte le caratteristiche del
rapporto di parasubordinazione. In conclusione quindi, se non ci sono progetti o programmi di
lavoro, i co.co.co sono considerati rapporti di lavoro subordinato.
Inoltre l’art 1 del decreto contiene la esclusione più importante e cioè la P.A.
tutte queste categorie rientrano nella disciplina Co.Co.Co. precedente.
IL LAVORO A PROGETTO . . .
DEFINIZIONE DI PROGETTO
LA MANCANZA DI OGGETTO
I giudici nel momento in cui devono risolvere una questione come quella del
punto due per prima cosa verificano se è un contratto simulato o no (se vi è
subordinazione o meno) e in un secondo momento se manca il progetto.
Per quanto riguarda la tesi di tipo relativo essa non è accettabile in quanto si
tornerebbe al vecchio Co.Co.Co Si sancisce, infatti, che mancando il progetto
rimane comunque una collaborazione autonoma.
Quantomeno si dovrebbe arrivare a dire che se è da mantenere una autonomia
questa deve essere riferita all’art 2222 (contratto d’opera) e non al contratto
Co.Co.Co. Solo in questo modo si può salvare il principio dell’autonomia.
La forma deve essere scritta e deve contenere ai fini della prova (ab
probationem) determinati elementi (vedi sopra).La forma scritta deve essere
utilizzata anche con riguardo ai diversi elementi che devono essere inseriti.
IL CORRISPETTIVO
Art. 63 - Corrispettivo- “Il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto
deve essere proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro eseguito e
deve tener conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe
prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto”
È l’art. 66 del decreto che tratta questo argomento. In tale articolo viene
evidenziato come la gravidanza, la malattia e l’infortunio non comportano
l’estinzione del rapporto contrattuale. In questo caso il rapporto rimane
sospeso senza l’erogazione del corrispettivo.
Viene poi precisato che salva diversa previene del patto individuale in caso di
malattia e infortunio la sospensione del contratto non comporta la proroga (ciò
che si è perso non è recuperabile) del contratto che si estingue alla scadenza.
Nel caso di gravidanza invece la durata del rapporto è prorogata per un periodo
di 180 giorni salvo disposizione più favorevole del contratto individuale (questa
normativa non ha senso… è inapplicabile… es. progetto vestiti stagione
primavera 2008)
ESTINZIONE E PREAVVISO
RAPPORTI ASSOCIATIVI
Dai quali può essere dedotta una prestazione di lavoro
Art 2247 c.c. – Contratto di società – con il contratto di società due o più
persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di una attività
economica allo scopo di dividerne gli utili” .
Tra i beni e servizi apportati dalle persone nella società può esserci anche
l’apporto di attività di lavoro.
A tal proposito dobbiamo suddividere tra:
• società di capitali: le prestazioni lavorative sono delle prestazioni
accessorie
• società di persone: vi è un vero e proprio conferimento di attività
lavorativa
Biagi ha sostituito la possibilità del cumulo dei due rapporto indifferenziato. Egli
partiva da un contesto economico sociale particolare per il quale in molti
settori con metodo della cumulazione molte cooperative nascondevano
rapporti di lavoro subordinato. Questa tesi fu contrastata dalla giurisprudenza
ma venne accolta dal legislatore il quale con la L. 142/2001 ha previsto la
revisione della legislazione delle cooperative con riferimento al socio
lavoratore.
Il primo articolo di tale legge (soci lavoratori di cooperativa) enuncia che le
disposizioni della legge si riferiscono alle cooperative nelle quali il rapporto
mutualistico ha ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del
socio.
Definisce poi cosa fanno i soci di cooperativa stabilendo che essi:
• concorrono alla gestione dell’impresa partecipando alla formazione degli
organi sociali e alla definizione della struttura di direzione e conduzione
dell’impresa;
• partecipano alla elaborazione di programmi di sviluppo e alle decisioni
concernenti le scelte strategiche. . .
• contribuiscono alla formazione del capitale sociale e partecipano al
rischio dell’impresa, ai risultati economici…
• Mettono a disposizione le proprie capacità professionali anche in
relazione al tipo e allo stato dell’attività svolta, nonché alla quantità delle
prestazioni di lavoro disponibili per la cooperativa stessa.
Viene infine precisato che attraverso la propria adesione o successivamente
all’instaurarsi del rapporto associativo un ulteriore e distinto rapporto di lavoro,
in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i
rapporti di collaborazione coordinata non occasionale, con cui contribuisce
comunque al raggiungimento degli scopi sociali.
Oltre ai co.co.co ed ai lavoratori a progetto esistono varie altre tipologie contrattuali che prevedono
una attività di lavoro:
RAPPORTI ASSOCIATIVI: in questa ipotesi, lo svolgimento di attività lavorativa
costituisce un adempimento del contratto sociale, ammettendo la sovrapposizione tra le
figure del socio e del lavoratore subordinato e facendo così nascere la figura del SOCIO
LAVORATORE che è stata introdotta con la legge 142 del 2001. Il socio lavoratore
partecipa alle varie fasi dell’impresa mettendo a disposizione le proprie capacità
professionali e stabilendo un ulteriore rapporto di lavoro con cui contribuisce comunque al
raggiungimento degli scopi sociali. In questa duplicità di rapporti, quello di lavoro è
strumentale a quello sociale ed il primo non può esistere da solo. Il regolamento delle
cooperative stabilisce di che tipo è questo ulteriore rapporto di lavoro.
ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE: questo rapporto di lavoro può essere
utilizzato come strumento di elusione del lavoro subordinato. Si distinguono due figure:
quella dell’ASSOCIATO che apporta il proprio lavoro e può esercitare un controllo sul
rendiconto, e l’ASSOCIANTE al quale spetta la gestione dell’impresa. L’associato
partecipa alle perdite (solo per un ammontare pari al suo conferimento), nella stessa misura
in cui partecipa agli utili. L’art. 83 del Decreto Bigi tutela la posizione dell’associato in
quanto ipotizza che questi sia un lavoratore subordinato nel caso in cui non abbia una
partecipazione ed una adeguata compensazione o erogazione all’interno dell’impresa.
AMMINISTRATORI DI SOCIETA’ DI CAPITALI: si distinguono in questo caso due
figure che sono quella dell’AMMINISTRATORE UNICO che è colui che esaudisce la
volontà della società quindi non può essere considerato un lavoratore subordinato, e quella
dell’AMMINISTRATORE DELEGATO che può essere considerato un lavoratore
subordinato in quanto si può separare la sua volontà da quella della società. La
qualificazione del rapporto di lavoro degli amministratori è sorta per garantire loro una
posizione previdenziale pensionistica.
LAVORO ACCESSORIO: questo tipo di lavoro ha per destinatari soggetti deboli come i
disoccupati da oltre un anno, le casalinghe, gli studenti, i pensionati, i disabili ed i soggetti
in comunità di recupero ed i lavoratori extracomunitari regolari. I prestatori di lavoro
accessorio vengono pagati con dei coupon il cui valore viene deciso dal Ministro del Lavoro
e non sono gravati da oneri fiscali.
LAVORO GRATUITO: le ipotesi più frequenti sono quelle di lavori svolti nell’AMBITO
(non impresa) famigliare. Nell’ambito della famiglia si può distinguere l’impresa famigliare,
il rapporto di lavoro subordinato ed il lavoro gratuito. Altri esempi di lavoro gratuito sono
quelli svolti all’interno di comunità religiose, in organizzazioni non profit e di volontariato. I
prestatori di lavoro gratuito devono essere assicurati contro infortuni e responsabilità verso
terzi e questo vale anche per chi svolge LAVORI SOCIALMENTE UTILI cioè utili per la
società. In tutti questi casi non si può parlare di lavoro subordinato perché non c’è scambio e
infatti il compenso che viene dato a questi lavoratori serve per mantenere le garanzie
previdenziali.
ORIGINE E SIGNIFICATO DELLA DISTINZIONE FRA LAVORO PRIVATO E LAVORO
PUBBLICO
Un altro problema riguarda la configurabilità come rapporto di lavoro in senso stretto quello
alle dipendenze di enti pubblici. Su questo problema la giurisprudenza, nella prima metà del
secolo scorso, si è attestata su una posizione intermadia: da un lato si attribuiva all’atto costitutivo
del rapporto natura pubblicistica, dall’altro si riconosceva che era necessario, per l’efficacia
dell’atto, alla volontà della Pubblica Amministrazione si accompagnasse quella del singolo
dipendente. In generale però la linea di confine tra lavoro privato e lavoro pubblico non poteva
essere rappresentata dalla natura pubblica del soggetto datore di lavoro, inoltre perché i dipendenti
potessero essere considerati pubblici dipendenti era necessario che si trattasse di soggetti che
partecipavano continuativamente con la loro attività al perseguimento dei fini dello Stato o dell’ente
pubblico, occupassero un ruolo previsto nell’organico dell’ente e fossero stati assunti con un
normale atto amministrativo.
In secondo luogo, bisogna notare come a partire dal secondo dopoguerra si sia andata manifestando
come sempre più frequente la tendenza di un progressivo avvicinamento tra lavoro pubblico e
lavoro privato, secondo una duplice direttiva: da un lato sono stati introdotti nella disciplina del
rapporto privato principi e regole un tempo caratteristici del lavoro pubblico ed una prima
indicazione in tale senso era stata da quelle norme del codice civile che comportavano la
funzionalizzazione di alcuni poteri dell’imprenditore all’interesse dell’impresa e
dall’inquadramento del personale in ruoli organici che prevedevano una progressione in carriera,
aumenti periodici della retribuzione, ecc. ecc.; dall’altro lato nel campo del lavoro pubblico sono
stati introdotti istituti desunti dalla disciplina del lavoro privato. L’elemento decisivo di questa
evoluzione è rappresentato dall’acquisizione della legittimità dell’organizzazione e dell’azione
sindacale dei pubblici dipendenti, pensando cioè che con i sindacati le amministrazioni pubbliche
stipulassero non dei contratti collettivi ma degli accordi, e che questi accordi previa deliberazione
del Governo, dovessero essere recepiti dal Presidente della Repubblica. Nel corso degli anni ’80 si
pensò che la scarsa efficienza della Pubblica Amministrazione dipendesse dalla residua
regolamentazione pubblicistica con i dipendenti, e così dal 1992 iniziò un fortissimo processo di
privatizzazione, al quale però le amministrazioni pubbliche ed il loro personale vennero esclusi per
volere della cosiddetta riforma Biagi.
L’opinione comune della maggioranza degli studiosi di diritto è che il rapporto di lavoro è un
rapporto complesso al quale appartengono le singole posizioni delle parti, le quali scaturiscono tutte
da una unica fonte che è il contratto di lavoro o eventualmente l’occupazione di fatto del lavoratore.
Oltre alle varie posizioni di datore di lavoro e lavoratore, il maggior rilievo è dato all’obbligazione
di lavoro e all’obbligazione di retribuzione, considerate le due obbligazioni principali delle parti
e fra loro corrispettive; in realtà questo modo di concepire il rapporto di lavoro risulta essere
insufficiente a spiegare il fenomeno nella sua interezza e deve essere integrato. Un primo indizio di
insufficienza è rappresentato dai sempre più ricorrenti tentativi di accentuare l’unità del rapporto
con cui alle volte la dottrina si riferisce con la nozione di istituzione. Particolarmente significativa è
la tendenza di unificare la posizione passiva del lavoratore: per esempio la configurazione del
dovere di fedeltà come una forma di espansione del dovere di lavoro. Nella dottrina italiana, invece,
anche tra coloro che tendono ad unificare in una sola obbligazione le due posizioni del rapporto di
lavoro, continua ad essere dato maggior rilievo alla prestazione di lavoro. L’unificazione si attua
quindi da un lato ampliando il contenuto della prestazione di lavoro, e dall’altro valorizzando gli
altri doveri del prestatore.
Quando si parla di rapporto di lavoro si intende un legame tra due soggetti, lavoratore e datore di
lavoro, che non si identifica in nessuna posizione ma che ne costituisce il presupposto. La categoria
concettuale alla quale questa concezione di rapporto di lavoro deve essere ricondotta è quella di
“rapporto fondamentale”. Si intende per rapporto fondamentale una relazione giuridica
continuativa che non esiste nella relazione tra un diritto ed un dovere corrispondente, oppure tra una
prestazione attiva ed una passiva, ma in un vincolo nel quale non si può parlare di lato attivo né di
lato passivo, perciò neutro, ma la cui esistenza costituisce il presupposto per la produzione di una
pluralità di effetti. Una funzione diversa da quella appena descritta viene data alla nozione di
posizione professionale, adoperata per indicare chi ha una autonoma rilevanza giuridica e può
qualificarsi come lavoratore.
L’unità del rapporto di lavoro non si ottiene unificando le due posizioni giuridiche, ma
soltanto considerando la sostanziale unità dell’intero rapporto inteso come rapporto
fondamentale.
La prestazione di lavoro è quella che conforma e costituisce il rapporto di lavoro. In questa ottica è
necessario fare una distinzione tra obblighi negativi di rispetto di una altrui facoltà di
comportamento, o obblighi secondari, ed obblighi di comportamento opportunamente indirizzati
alla soddisfazione di un interesse del creditore, obblighi positivi o primari. La posizione del
lavoratore appartiene sempre alla seconda specie.
Connesso al problema relativo all’appartenenza dell’obbligo di lavoro alla categoria degli obblighi
secondari o primari, è il problema che intende stabilire se l’obbligo di lavoro è un obbligo
positivo (di fare) o un obbligo negativo (di non fare). Sembra a prima vista indubbio che
l’obbligo di lavoro sia il tipico obbligo di fare. L’errore sta nel confondere il punto di vista
normativo con il punto di vista naturalistico: gli obblighi di fare non sono quelli che impongono
una azione in senso naturalistico, ma quelli nei quali la condotta obbligatoria è determinata; per
contro gli obblighi di non fare non sono quelli che impongono una inerzia in senso naturalistico, ma
sono quelli per i quali è vietata una certa condotta determinata, essendo obbligatorio tenere qualsiasi
condotta diversa da quella vietata. L’obbligo di lavorare è quindi sempre un obbligo di fare.
Art. 2103 – Mansioni del lavoratore – Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali
è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero
a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel
caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività
svolta e l’assegnazione stessa diventa definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di
lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e
comunque non superiore a tre mesi.
Per indicare il tipo di attività che costituisce l’oggetto dell’obbligazione l’art. 2103 c.c. utilizza il
termine “mansioni” con il quale si intende niente altro che il lavoro al quale il prestatore è
obbligato così come risulta genericamente nel contratto; stabilendo la norma che ha quelle mansioni
il lavoratore “deve essere adibito” sancisce anche quello che viene chiamato principio della
contrattualità delle mansioni. Questo principio sta a significare che per identificare il tipo di
attività che costituisce l’oggetto del contratto bisogna fare riferimento alla volontà delle parti e a
nessun altro dato di fatto. Naturalmente, per accertare quali mansioni hanno voluto le parti occorre
considerare quelle che sono state effettivamente assegnate, non quelle che risultanti dalla qualifica
formalmente indicata o dalla categoria di inquadramento non corrispondente alle mansioni effettive.
Per concludere il principio della effettività delle mansioni va inteso correttamente come
preminenza del contratto reale sul contratto apparente, e non di preminenza del fatto sul
contratto per l’individuazione dell’attività dovuta.
MANSIONI E QUALIFICA
Le varie mansioni, per essere meglio circoscritte, possono essere scomposte in attività specifiche
che rientrano al loro interno, o raggruppate per stabilire delle regole comuni a tutte le mansioni che
rientrano in un determinato gruppo; con riguardo a questa seconda possibilità si parla generalmente
di categorie o di qualifiche. Più spesso però sia parlando di categoria, ma soprattutto di qualifica, si
intende alludere non tanto ad un insieme di mansioni quanto più alla posizione giuridica attribuita
ad un singolo lavoratore nell’ambito del rapporto di lavoro di cui fa parte. La qualifica deve
quindi definirsi come la posizione che compete al lavoratore nel rapporto fondamentale di
lavoro.
Art. 2095 – Categorie dei prestatori di lavoro – I prestatori di lavoro subordinato si distinguono in
dirigenti, quadri, impiegati ed operai.
Le leggi speciali e le norme corporative, in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare
struttura dell’impresa, determinano i requisiti di appartenenza alle indicate categorie.
L’art. 2095 del c.c. all’interno della rubrica “categorie dei prestatori di lavoro” raccoglie le
possibili mansioni in quattro gruppi ritenuti omogenei: dirigenti, quadri, impiegati e operai. Al
memento dell’entrata in vigore del codice questa classificazione ha avuto una notevole importanza
perché rappresentava il superamento del precedente assetto nel quale solo impiegati e dirigenti
avevano una regolamentazione legale sulla base della legge sull’impiego privato; per quanto
riguarda la distinzione tra impiegati ed operai, il processo di unificazione del trattamento spettante
alle diverse categorie proseguì nella contrattazione collettiva con l’inquadramento unico. Quanto
al numero delle categorie stabilite dall’art. 2095, in origine erano tre: dirigenti, amministrativi o
tecnici, impiegati ed operai. La legge n. 190 del 1985 sul riconoscimento giuridico dei quadri
intermedi ha modificato questa classificazione inserendo tra i dirigenti e gli impiegati la quarta
categoria dei quadri intermedi anche se questa innovazione non ha portato a grandissimi
cambiamenti visto che la rilevanza giuridica dell’appartenenza alla categoria dei quadri è assai
modesta.
L’art. 1176 c.c. stabilisce che “nell’adempiere all’obbligazione il debitore deve utilizzare la
diligenza del buon padre di famiglia”, il principio romanistica che fa riferimento all’uomo medio,
alla diligenza dovuta e alla conseguente irrilevanza delle doti di personale perizia del debitore; nel
secondo comma poi si stabilisce che è necessario avere “riguardo alla natura dell’attività
esercitata”, il che significa che in questo caso la media che viene tenuta in considerazione non è
quella di tutti i debitori, ma soltanto di quelli che esercitano la professione in questione. Anche la
diligenza richiesta al datore di lavoro deve quindi valutarsi tenendo conto della perizia media dei
lavoratori addetti alle medesime mansioni. Conclusioni diverse circa la valutazione del criterio di
diligenza non sono autorizzate nel caso in cui il lavoratore sia in prova, cioè il periodo che
consente alle parti del contratto di lavoro di sperimentare il reciproco gradimento prima che il
contratto di lavoro diventi definitivo, e neppure nel caso di apprendisti e lavoratori assunti con
contratto di formazione e lavoro. Il luogo in cui deve avere adempimento l’obbligazione di
lavoro è quella indicata o desumibile dal contratto. In base ad un principio generale bisogna
precisare che il luogo originariamente convenuto per lo svolgimento del lavoro non può essere
modificato unilateralmente perché si tratta di una modalità dell’oggetto del contratto, ma non
sempre il luogo convenuto è uno spazio circoscritto e stabile: vi sono lavori che per loro natura
richiedono continui spostamenti territoriali, lavori nei quali magari si conviene che il lavoratore si
sposti in sedi diverse, ma quando lo spostamento del luogo della prestazione non è consentito dal
contratto o non è deciso consensualmente, l’interesse del lavoratore ad opporsi è meritevole di
tutela.
L’ORARIO DI LAVORO
Nel periodo fra le due guerre l’ordinamento italiano si collocò in una posizione di notevole
avanguardia stabilendo che la durata massima della giornata lavorativa non potesse eccedere le otto
ore e le 48 ore settimanali di lavoro effettivo con possibilità di superamento con lavoro
straordinario limitato a due ore giornaliere e dodici settimanali; questa regola rimase in vigore
dal 1923 al 1997 quando con il cosiddetto “pacchetto Treu” venne fissato l’orario normale di
lavoro a 40 ore settimanali. Nel frattempo la materia dell’orario di lavoro è divenuta oggetto delle
direttive della Comunità europea che ha spinto il legislatore ad intervenire in alcuni ambiti settoriali
come quello del lavoro subordinato e del lavoro notturno per poi adottare una nuova
regolamentazione dell’orario di lavoro che non pone dei limiti precisi alla durata dell’attività
lavorativa, ma li realizza solo in maniera indiretta, stabilendo l’orario normale a 40 ore
settimanali e 11 di riposo consecutivo ogni 24 ore. Bisogna precisare che per lavoro
straordinario si intende quello che supera l’orario normale delle 40 ore settimanali; il lavoro
straordinario deve essere computato a parte e compensato con le maggiorazioni retributive previste
dai contratti collettivi. Una maggiorazione retributiva è prevista anche per il lavoro notturno che
può essere introdotto solo a seguito di una consultazione sindacale e che è vietato per alcune
categorie di lavoratori.
Quando il lavoro viene prestato per una durata inferiore a quella massima giornaliera si parla di
lavoro a tempo parziale o part-time. Il part-time può essere di tre tipi:
• orizzontale quando la riduzione rispetto al tempo pieno è stabilita in relazione all’orario
giornaliero; ad esempio quattro ore al giorno
• verticale quando la riduzione è riferita al numero di giorni settimanali, mensili o annuali; ad
esempio due giorni alla settimana o tre mesi all’anno
• di tipo misto con la combinazione dei due criteri
Lavoro supplementare si intende quello prestato oltre il tempo parziale concordato.
La disciplina del lavoro a tempo parziale è molto dettagliata e in primo luogo prevede la forma
del contratto che deve essere scritta, ad probationem; non costituisce giustificato motivo di
licenziamento il rifiuto di un lavoratore di modificare il proprio orario di lavoro in part-time; la
collocazione temporale è immodificabile unilateralmente ma il contratto può contenere clausole
flessibili, cioè relative alla variazione della collocazione temporale della prestazione, ed elastiche
cioè relative alla variazione in aumento della durata della prestazione. La mancanza della
collocazione temporale del lavoro non da luogo alla nullità del contratto potendo essere effettuata
equitativamente dal giudice.
I CONTRATTI DI SOLIDARIETA’
Definiamo adesso quelli che vengono definiti contratti di solidarietà. La dottrina ne distingue due
diversi tipi:
1. contratti di solidarietà difensivi: sono contratti collettivi aziendali stipulati con i sindacati
maggiormente rappresentativi sul piano nazionale che stabiliscono una riduzione dell’orario
di lavoro al fine di evitare, o almeno tentare, la riduzione o la dichiarazione di esuberanza
del personale; sono incentivati dalla legge mediante un transitorio trattamento di
integrazione salariale pari al 50% del trattamento retributivo perso a seguito della riduzione
di orario
2. contratti di solidarietà offensivi: sono contratti collettivi aziendali stipulati con i sindacati
maggiormente rappresentativi sul piano nazionale che al fine di incrementare gli organici
prevedono una riduzione stabile dell’orario di lavoro con riduzione della retribuzione e
assunzione a tempo indeterminato di nuovo personale; sono incentivati dalla legge mediante
la transitoria concessione di un contributo a ciascun lavoratore assunto pari al 15% della
retribuzione prevista dal contratto collettivo
Art. 2109 – Periodo di riposo – (primo comma) Il prestatore di lavoro ha diritto ad un giorno di riposo ogni
settimana, di regola in coincidenza con la domenica
Art. 36 Costituzione – (terzo comma)… Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie retribuite, e non
può rinunziarvi
Il riposo settimanale è previsto in via generale dall’art. 2109 comma 1 c.c. e garantito dall’art.
36 della Cost.. Il codice civile prescriveva “un giorno di riposo ogni settimana” mentre la legge
attuale, adeguandosi ad un orientamento della Corte Costituzionale e alle direttive comunitarie
precisa che si tratta di “almeno ventiquattro ore consecutive ogni sette giorni” e che le
ventiquattro ore si accumulano con le undici di riposo giornaliero previste cosicché bisogna dire che
ogni sette giorni devono esserci almeno 35 ore consecutive di riposo. La coincidenza con la
domenica è prescritta di regola quindi significa che possono esserci anche delle eccezioni ; se il
riposo settimanale viene goduto in un giorno diverso dalla domenica, molti contratti collettivi
prevedono che il lavoro domenicale debba essere compensato con una retribuzione maggiorata. In
ogni caso la mancata concessione del riposo settimanale, come la violazione di importanti
aspetti della disciplina in materia di orario di lavoro e ferie, comporta l’applicazione della
sanzione amministrativa pecuniaria. Principi analoghi a quelli indicati si applicano per le festività
infrasettimanali.
LE FERIE
L’art. 36 della Cost. garantisce che ciascun lavoratore abbia diritto oltre al riposo settimanale,
anche a ferie annuali retribuite, cioè un più lungo riposo annuale. Per la determinazione della
durata delle ferie annuali l’art. 2109 rinvia alla legge e a norme corporative; di fatto la legge interna
ha per lungo tempo precisato la durata delle ferie annuali solo per i lavoratori domestici che non
possono fare affidamento sulla contrattazione collettiva e ha stabilito che la durata sia dai 15 ai 25
giorni, a seconda dell’anzianità e delle mansioni. A partire dal 1993, il tema della durata delle ferie
annuali, già considerata della Convenzione internazionale del lavoro del 1970, è diventata oggetto
di una direttiva europea: i primi ad occuparsene sono stati i sindacati principali che con un accordo
hanno stabilito che le ferie avessero per tutti una durata non inferiore alle quattro settimane; questa
D.L. 66/2003 – Art. 10 – Ferie annuali – (primo comma) Fermo restando quanto previsto dall’art. 2109 del
Codice Civile, il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro
settimane. Tale periodo salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva o dalla specifica disciplina riferita
alle categorie di cui all’art. 2 (forze armate e di polizia,servizi di protezione, vigili del fuoco, guardie
penitenziarie, ecc..), va goduto per almeno due settimane, consecutive in caso di richiesta del lavoratore, nel
corso dell’anno di maturazione, e per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di
maturazione.
volta però le confederazioni trasmisero questo accordo al Governo sottoforma di avviso comune
cioè una formula con la quale si vuole sollecitare il Governo ad uniformarsi a questo accordo con
un intervento legislativo, cosa che è avvenuta con l’art. 10 del Decreto Legislativo n. 66 del 2003
sull’attuazione delle direttive concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro.
Questo articolo 10 ha pero delle disposizioni assolutamente inutili: per esempio vieta la sostituzione
delle ferie con l’indennità per ferie non godute ed un discorso analogo è inteso nel caso in cui il
rapporto di lavoro cessi di esistere prima dell’anno, periodo per il quale non sono ancora state
godute le ferie: in questo caso, se l’anno di riferimento di un certo periodo di ferie non è decorso
quando il rapporto di lavoro cessa, bisogna far godere al lavoratore prima che il rapporto di lavoro
cessi il periodo di ferie che ad esso spettano, oppure corrispondere al lavoratore la retribuzione
relativa alla quota di ferie annuali non goduta.
A differenza di ciò che accade per l’obbligazione di lavoro, che trascura la posizione correlativa del
datore di lavoro o la prende in considerazione solo in un secondo momento, il dovere di obbedienza
viene generalmente studiato dal punto di vista della posizione giuridica correlativa del datore di
lavoro e come effetto della medesima.
Art. 2094 – Prestatore di lavoro subordinato – E’ prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante
retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e
sotto la direzione dell’imprenditore.
Art. 2104 – Diligenza del prestatore di lavoro – Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta
dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione
nazionale.
Art. 2086 – Direzione e gerarchia nell’impresa – L’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono
gerarchicamente i suoi collaboratori.
L’art. 2094 nel definire il prestatore di lavoro subordinato parla di lavoro prestato alle
dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore; a questa norma si collega quella dell’art. 2086
per cui i prestatori di lavoro che vengono definiti collaboratori dipendono gerarchicamente
dall’imprenditore che è capo dell’impresa ed infine l’art. 2104 soggiunge che il prestatore di
lavoro deve osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite
dall’imprenditore e dai collaboratori dai quali dipende gerarchicamente. Dal contenuto di
queste norme possiamo sommariamente individuare che da un lato il datore di lavoro ha la
possibilità di dirigere le prestazioni di lavoro, cioè impartire le disposizioni per la sua esecuzione e
disciplina, e dall’altro che il prestatore di lavoro dipende dall’imprenditore, cioè deve osservare
queste disposizioni. La prima osservazione da fare in base a quanto appena detto è che al primo è
assegnata una posizione eminentemente attiva o di vantaggio, mentre il secondo si trova
correlativamente in una posizione passiva o sfavorevole; quello che però vuole essere qui posto in
evidenza che considerare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro attività non obbligatoria ma
facoltativa per l’imprenditore, non pone in evidenza il significato essenziale di questa attività. Le
norme che prevedono la direzione del lavoro infatti non si pongono come obbiettivo quello di
rendere l’attività direttiva facoltativa né tanto meno di assegnare a questa una protezione giuridica,
lo scopo dell’art. 2104 è quello di stabilire che una volta che le disposizioni sono state impartite
dall’imprenditore il lavoratore le deve rispettare. Con riguardo alla posizione giuridica del datore di
lavoro si può correttamente parlare di potere giuridico intendendo con questa espressione la
posizione di un subietto che sia in grado di causare, qualora lo voglia, la produzione di un effetto
giuridico e cioè di una modificazione giuridica.
La qualificazione di potere giuridico che è stata data al potere del datore di lavoro di impartire
disposizioni direttive al lavoratore, rappresenta una presa di posizione sulla questione relativa
all’ammissibilità logica e all’utilità pratica della nozione di potere giuridico. Si è in proposito
sostenuto che quando si vuole parlare dell’esistenza di un potere giuridico, sussisterebbero due
valutazioni eterogenee: da un lato una facoltà del tutto analoga a quella che costituisce il
contenuto di qualsiasi diritto soggettivo assoluto, dall’altro una data rilevanza dell’aver agito, e
non si avrebbe quindi in questo caso una posizione giuridica del soggetto ma solo una certa
rilevanza dell’atto compiuto dal soggetto. In conclusione una volta ammesso che il potere direttivo
è un potere giuridico, una ulteriore specificazione consiste nel figurarlo come diritto potestativo
o come potestà, configurazione che non può avvenire se non sulla base di rilevazioni attinenti
all’interesse protetto; infatti è da escludere che si tratti di diritto potestativo a seconda che lo si
consideri attribuito per la tutela individuale dell’imprenditore, o invece per la tutela di un interesse
superiore.
Art. 2105 – Obbligo di fedeltà – Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in
concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai modi di produzione
dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.
L’art. 2105 rubrica obbligo di fedeltà. Il testo dell’articolo vieta al prestatore di lavoro alcuni
comportamenti specifici come l’attività in concorrenza e la divulgazione o l’uso pregiudizievole
di notizie riservate; quanto alla fedeltà del prestatore di lavoro è noto il suo collegamento con
l’ordinamento tedesco: per esso la fedeltà non è oggetto di un dovere complementare che si
aggiunge all’obbligazione di lavoro, ma l’obbligo fondamentale del prestatore di lavoro, di
contenuto positivo e negativo insieme, che caratterizza l’intero rapporto di lavoro come rapporto di
fedeltà. Così inteso l’obbligo di fedeltà non grava solo sul prestatore di lavoro ma anche sul datore
di lavoro, ed è per questo che la disciplina della fedeltà con una considerazione cos’ ampia non
ha trovato spazio nel nostro ordinamento. Bisogna inoltre precisare a differenza
dell’obbligazione di lavoro che è una obbligazione di fare, l’obbligazione di fedeltà è una
obbligazione negativa o di non fare nel senso che la condotta obbligatoria non è direttamente
descritta dalla norma, che invece indica la condotta illecita, la norma impone dunque non un’azione
ma una omissione.
La questione che a questo punto bisogna affrontare riguarda le cosiddette “aziende di tendenza”,
cioè quelle aziende che svolgono una attività di tipo politico o religioso o comunque indirizzata
all’affermazione di determinate ideologie. Per esse si è posto il problema di stabilire se ai loro
dipendenti si possa chiedere la rinunzia di manifestazioni pubbliche di ideologie proprie
incompatibili a quelle dell’azienda di tendenza per cui si lavora: in mancanza di appigli giuridici per
poter risolvere la questione, diciamo che il primo requisito affinché il problema possa
effettivamente presentarsi è che venga previsto nel contratto collettivo o individuale di questi
soggetti un obbligo di fedeltà; posto che la previsione contrattuale di questo obbligo ci sia si tratta
di vedere se e fino a che punto l’interesse perseguito con l’apposizione della clausola meriti tutela
rispetto alla libera manifestazione del pensiero. Secondo l’opinione dell’autore queste conclusioni
non devono essere modificate nemmeno quando una legge del 1990 ha attribuito giuridica rilevanza
alle organizzazioni di tendenza: essa ha infatti previsto un trattamento giuridico speciale in materia
di licenziamenti individuali, per i “datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di
lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, di religione o di culto”.
Art. 2106 – Sanzioni disciplinari – L’inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti
(diligenza del prestatore di lavoro ed obbligo di fedeltà) può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari,
secondo la gravità dell’infrazione ed in conformità delle norme corporative.
Questo articolo non dice nulla rispetto a chi può procedere all’applicazione di queste sanzioni, ma
sembra evidente si tratti di un potere a capo dell’imprenditore.
Statuto dei lavoratori – Art. 7 – Sanzioni disciplinari – Le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle
infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle
stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Esse
devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro dove questi esistano.
Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza
avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa.
Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale a cui aderisce o conferisce
mandato.
Fermo restando quanto disposto dalla legge n. 604 del 15 luglio 1966 (che riguarda le norme sui licenziamenti
individuali) non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del
rapporto di lavoro; inoltre la multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della
retribuzione base e la sospensione del servizio e della retribuzione per più di dieci giorni.
In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima
che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa.
La previsione legale del potere disciplinare si può trovare in maniera ancora più dettagliata nell’art.
7 dello Statuto dei Lavoratori ed ogni questione relativa al fondamento, al contenuto e ai limiti
dello stesso va risolata in sede di interpretazione dei due articoli che sono stati citati. Prima dello
Statuto dei Lavoratori si riteneva che l’applicazione delle sanzioni disciplinari in conformità delle
norme corporative fosse da intendersi non solo nel senso che le norme corporative dovevano
regolare la materia, ma anche nel senso che la presenza di una specifica regolamentazione collettiva
permetteva di esercitare il potere disciplinare; oggi questa tesi viene contraddetta dall’ultimo
comma dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori per il quale i contratti collettivi vanno applicati solo
dove esistono, ossia dove siano applicabili allo specifico rapporto. Tuttavia, il primo comma dello
stesso articolo stabilisce che “le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in
relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata e alle procedure di contestazione
delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo
accessibile a tutti”. La norma non indica la conseguenza giuridica della sua violazione, ma non si
può pensare per questo che essa contenga un consiglio; in altri termini visto che la norma prevede
determinati adempimenti, qualora questi adempimenti non vengano rispettati da parte del datore di
lavoro, il potere disciplinare non può essere esercitato: così da un lato dove sia mancata la
pubblicità nella forma prescritta non è possibile dimostrare che il lavoratore ha avuto conoscenza
della norma, se invece è stato assolto l’onere di pubblicità, l’ignoranza di fatto non è una
giustificazione per la non applicazione della sanzione. Secondo l’autore quindi, l’unica
giustificazione del potere disciplinare è data dalla rilevanza giuridica dell’interesse dell’impresa,
inteso come interesse comunitario al quale partecipano i prestatori di lavoro e l’imprenditore.
Tutto il discorso che è stato fino a questo punto fatto dovrebbe riguardare il potere di irrogare
sanzioni disciplinari e non quello di licenziare perché per il nostro ordinamento il licenziamento
non è una sanzione disciplinare e quindi né l’art. 7, né l’art. 2106 dovrebbe venire direttamente in
considerazione quando si tratta di decidere della legittimità di un licenziamento. L’opinione
contraria si basa su tre motivazioni che però sono frutto di gravi equivoci:
a) anche il licenziamento può assolvere ad una funzione di disciplina del lavoro: certamente
non può essere riconosciuta natura di sanzione disciplinare a qualunque fatto che possa
contribuire alla disciplina del lavoro
b) molti contratti collettivi annoverano il licenziamento fra le sanzioni disciplinari: da parte
dei contratti collettivi però si osserva che non è lecito trarre da clausole contrattuali criteri
di definizione di nozioni legali
c) dal momento che l’art. 7 stabilisce limiti e garanzie per le sanzioni disciplinari minori,
sarebbe strano che queste non si applicassero proprio al licenziamento che è la maggiore
delle sanzioni disciplinari: questa è una petizione di principio perché postula che il
licenziamento sia la maggiore sanzione disciplinare, ossia proprio quello che essa dovrebbe
dimostrare. In realtà rispetto alle vere sanzioni disciplinari il licenziamento è uno strumento
del diritto dei contratti per provocare l’estinzione del rapporto di lavoro come rapporto di
durata, mentre le sanzioni disciplinari sono sanzioni tipiche del rapporto di lavoro destinate
alla tutela dell’interesse dell’impresa nel corso dell’esecuzione del rapporto stesso.
Arriva fino a questo punto l’interpretazione della legge, ma sul tema è sopravvenuta una sentenza di
accoglimento della Corte Costituzionale la quale ha dichiarato incostituzionali perché contrastanti
con il principio di uguaglianza i primi tre commi dell’art. 7 “interpretati nel senso che siano
inapplicabili ai licenziamenti disciplinari, per i quali questi commi non siano espressamente
richiamati dalla normativa legislativa, collettiva o validamente posta dal datore di lavoro”,
cioè interpretati come li interpretava la Cassazione.
Come l’obbligazione di lavoro è il dovere principale del prestatore di lavoro, il principale dovere
del datore di lavoro è l’obbligazione di retribuire. Generalmente alla retribuzione viene assegnata
funzione di prestazione corrispettiva della prestazione di lavoro e questa corrispettività rispetto
alle prestazioni del lavoratore assume un significato importante perché deve tenere conto di
particolarità della situazione e di esigenze specifiche, che non rilevano nella generalità degli altri
contratti con prestazioni corrispettive. In primo luogo bisogna precisare che la corrispettività
esprime il rapporto fra un certo periodo di lavoro e una rata di retribuzione collegata a quel periodo,
mentre sotto altri profili deve riferirsi a periodi più lunghi o a tutta la durata del rapporto. Un
esempio del primo caso è la retribuzione delle ferie, mentre un esempio del secondo caso è il
trattamento di fine rapporto che viene corrisposto al termine del rapporto come corrispettivo
riferito all’intera sua durata; a proposito del trattamento di fine rapporto bisogna ricordare che
originariamente veniva denominato indennità di anzianità ed era nato come una volontaria
elargizione del datore di lavoro per premiare al termine del rapporto la fedeltà dei prestatori di
lavoro con più lunga anzianità di servizio. Ben presto però ne fu imposta la corresponsione dalla
contrattazione collettiva ed allora assunse natura retributiva, in seguito poi il legislatore ha
riformato radicalmente questo istituto con una legge del 1982 modificandone la denominazione in
trattamento di fine rapporto.
Art. 36 della Costituzione – Il lavoratore ha diritto ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità
e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia una esistenza
libera e dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.
Nel rapporto di lavoro l’art. 36 della Costituzione esige che la retribuzione del lavoratore sia
non solo proporzionale alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, ma anche “in ogni caso”
sufficiente alle esigenze personali e familiari. In base poi ai principi indicati si può riconoscere
natura di retribuzione anche a quanto il datore di lavoro è obbligato a corrispondere per certi periodi
al lavoratore che non lavora per malattia o altre cause legittime di sospensione del lavoro; non sono
invece ovviamente retribuzione le indennità speciali che il datore di lavoro percepisce dagli istituti
previdenziali e gli assegni familiari di cui è sempre debitore l’INPS. Un analogo discorso deve
essere fatto per le mance o altre attribuzioni che il lavoratore percepisce anche in maniera
continuativa da terzi in occasione della sua prestazione di lavoro.
Art. 2121 – Computo dell’indennità di mancato preavviso – L’indennità di cui all’art. 2118 (indennità
equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso) deve calcolarsi
computando le provvigioni, i premi di produzione, la partecipazione agli utili o ai prodotti ed ogni altro
compenso di carattere continuativo, con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese.
Se il prestatore di lavoro è retribuito in tutto o in parte con provvigioni, con premi di produzione o con
partecipazioni, l’indennità suddetta è determinata sulla media degli emolumenti degli ultimi tre anni di
servizio o del minor tempo di servizio prestato.
Fa parte della retribuzione anche l’equivalente del vitto e dell’alloggio dovuto al prestatore di lavoro.
L’art. 2121 esclude dalla retribuzione “quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese”:
l’applicazione di questa norma solleva sempre molte controversie perché c’è sempre la tendenza di
includere nella nozione di rimborso spese anche indennità che vengono corrisposte a sollievo di
particolari disagi che vengono sopportati dal lavoratore in occasione della prestazione di lavoro. La
litigiosità su questo tema potrebbe essere evitata se si tenesse presente che la misura della
retribuzione viene stabilita tenendo conto oltre che al pregio dell’attività, anche della fatica e del
disagio che questa comporta. Ordinariamente la retribuzione è costituita da una somma di denaro,
ma può anche consistere nella corresponsione di altri beni o in altre utilità e allora si parla di
retribuzione in natura; se invece la retribuzione in natura corrisponde alla prestazione
caratteristica di un altro contratto nominato, allora avremo una ipotesi di contratto misto e questo
comporterà l’applicazione a quella prestazione delle regole che le sono proprie, ferma
l’applicazione alla prestazione di lavoro delle norme ad essa relative. In tal caso una delicata
questione è costituita dall’individuazione delle norme che si devono applicare non tanto alle
prestazioni delle parti, ma al rapporto nel suo insieme, ossia al rapporto fondamentale: il criterio
generale è quello di accertare in primo luogo quale sia la prestazione essenziale del rapporto,
altrimenti la soluzione andrebbe cercata comparando il grado di imperatività delle norme relative
ai diversi rapporti.
Art. 2099 – Retribuzione – (secondo comma) - In mancanza di norme corporative o di accordo tra le
parti, la retribuzione è determinata dal giudice, tenuto conto, ove occorra, del parere delle associazioni
professionali.
Art. 2100 – Obbligatorietà del cottimo – Il prestatore di lavoro deve essere retribuito secondo il sistema
del cottimo quando, in conseguenza dell’organizzazione del lavoro, è vincolato all’osservanza di un
determinato ritmo produttivo, o quando la valutazione della sua prestazione è fatta in base al risultato delle
misurazioni dei tempi di lavorazione.
Le norme corporative determinano i rami di produzione e i casi in cui si verificano le condizioni previste
nel comma precedente e stabiliscono i criteri per la formazione delle tariffe.
A norma dell’art. 36 della Costituzione la retribuzione del lavoratore deve essere “proporzionata
alla quantità e alla qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla
famiglia una assistenza libera e dignitosa” ed è noto anche che la giurisprudenza solitamente in
materia è solita utilizzare il secondo comma dell’art. 2099 per avocare al giudice una
determinazione della retribuzione sostitutiva di quella che è stata attuata invalidamente dalle
parti e conforme ai criteri della Costituzione, dei quali i minimi retributivi indicati dai
contratti collettivi dovrebbero in linea di massima considerarsi specificazione concreta. Il
criterio costituzionale della sufficienza fa sorgere qualche problema con riguardo a certi rapporti,
come il tirocinio, il rapporto di formazione e lavoro, il rapporto di inserimento ed il lavoro a tempo
parziale, la cui particolare funzione parrebbe essere con esso inconciliabile. Fermo poi il minimo
costituzionale, la retribuzione può essere determinata con criteri diversi, anche combinati
variamente tra di loro: a tempo, a cottimo individuale o collettivo, con provvigioni,
partecipazione agli utili o ai prodotti ed altre forme di incentivo; il cottimo per esempio, come
sancito dall’art. 2100, è obbligatorio nel lavoro a domicilio e quando il prestatore “in conseguenza
dell’organizzazione del lavoro, è vincolato ad un certo ritmo produttivo”, o, in ogni modo, “la
valutazione della sua prestazione è fatta in base al risultato delle misurazioni ei tempi di
lavorazione”, mentre è vietato nel tirocinio. Opportunamente la legge garantisce l’osservanza di
queste norme con sanzioni penali. Una forma di determinazione di una parte della retribuzione che è
stata per tantissimi anni utilizzata, è quella che realizzava la cosiddetta scala mobile dei salari,
mediante l’aggiunta alla paga base dell’indennità di contingenza che era collegata automaticamente
alle variazioni del costo della vita quali risultano indicate dall’Istituto centrale di statistica a seguito
di un periodico accertamento del prezzo di determinati beni di più largo consumo; nonostante la
sicura appartenenza di questa indennità alla retribuzione, all’inizio gli accordi interconfederali degli
anni 50 ne escludevano l’appartenenza alla retribuzione ed un protocollo del 1993 ha in seguito
provveduto a sostituire la soppressa indennità di contingenza con un altro istituto detto “indennità
di vacanza contrattuale”: esso comporta che dopo tre mesi dalla scadenza di un contratto
collettivo, finché questo non viene rinnovato e a partire dal mese successivo, debba essere
corrisposto ai lavoratori un elemento aggiuntivo provvisorio della retribuzione che è pari al 30% e
dopo sei mesi dalla scadenza al 50% “del tasso di inflazione programmato”.
È successo alcune volte che i giudici abbiano preteso di sostituirsi alla fonte attributiva della
qualifica, individuando essi la qualifica ritenuta più appropriata alle mansioni e lo strumento
utilizzato per arrivare ad ottenere questo risultato è stato in alcuni casi l’art. 2103 che risulta
essere stato modificato dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, e soprattutto l’inciso del primo
comma nel quale per la particolare ipotesi di spostamento temporaneo a mansioni superiori si fa
menzione del “diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta”.
Art. 2103 – Mansioni del lavoratore – …Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha
diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione della stessa diviene definitiva, ove la
medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del
posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore ai tre mesi. Egli non può
essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e
produttive.
Il suo utilizzo per l’avocazione al giudice di un potere di stabilire lui quale sia la qualifica
appropriata a determinate mansioni è operazione del tutto estranea al significato e alla funzione
della norma in questione ed essa infatti parlando di “trattamento corrispondente” non può
riferirsi che alla corrispondenza fra l’attività svolta in fatto e la previsione astratta contenuta nella
norma attributiva del trattamento.
Alla fine degli anni ’80 sembrava che la propensione a sconfinamenti della funzione giurisdizionale
si fosse progressivamente esaurita, ma nel 1989 la questione è stata nuovamente riaperta da una
sentenza della Corte Costituzionale che mirava ad avocare al giudice il potere di stabilire caso
per caso quale fosse il giusto trattamento spettante ad ogni lavoratore. Questa volta lo
strumento utilizzato è stato l’art. 41 della Costituzione e la questione di legittimità riguardava gli
art. 2086, 2087, 2099 e 2103 che secondo il giudice, consentendo al datore di lavoro di attribuire ai
dipendenti a parità di mansioni, diversi livelli e categorie generali di inquadramento retributivo
violerebbero l’art. 41 nella parte in cui subordina la libertà di iniziativa economica al rispetto della
dignità umana.
Secondo l’autore questo orientamento della giurisprudenza deve essere contestato: non si vede
perché, infatti, se la retribuzione è sufficiente e proporzionale alle esigenze di un lavoratore, si
debba considerare lesivo della sua dignità umana il fatto che ad un altro con eguali mansioni sia
dato di più o sia dato lo stesso trattamento ad uno che svolga mansioni inferiori. Fortunatamente la
sentenza della Corte Costituzionale del 1989 era una sentenza di rigetto dalla quale ogni giudice
poteva legittimamente dissentire come poi è avvenuto.
Un discorso diverso deve invece essere fatto in relazione a quegli interventi legislativi diretti ad
evitare che talune differenze esistenze si traducano in trattamenti diversi: in queste ipotesi più che di
attuazione del principio di disuguaglianza si parla di principio di non discriminazione. La
discriminazione consiste nel dare rilevanza, a determinati effetti, a certe differenze che
l’ordinamento non consente che, a quegli effetti rilevino e da questo punto di vista si può dire che si
tratta di una forma di attuazione del secondo comma dell’art. 3.
Art. 3 della Costituzione – (secondo comma) E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese.
Ma l’attuazione del secondo comma dell’art. 3 può esigere che non ci si accontenti della non
discriminazione: infatti ci sono delle disuguaglianze di fatto per eguagliare le quali non basta
trattare allo stesso modo le situazioni diseguali, ma occorre correggere la disuguaglianza con forme
di tutela specifica di chi si trova in posizione sfavorevole.
L’esempio più significativo è dato dalla legislazione sulla parità uomo – donna per la quale è stata
approvata la legge n. 125 del 10 aprile 1991 sulle “azioni positive per la realizzazione della
parità uomo – donna nel lavoro”.
Che cosa si debba intendere per azioni positive per le donne è specificato all’art. 1 della legge.
Legge n.125/1991 – Art. 1 – Le disposizioni contenute nella presente legge hanno lo scopo di favorire
l’occupazione femminile, e di realizzare l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro anche
mediante l’adozione di misure, denominate azioni positive per le donne, al finr di eliminare gli ostacoli che
di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità.
Legge n. 125/1191 – Art. 4 – (sesto, settimo e ottavo comma) Qualora il datore di lavoro ponga in essere un
atto o un comportamento discriminatorio di carattere collettivo, anche quando non siano individuabili in modo
immediato e diretto i lavoratori lesi dalle discriminazioni, il ricorso può essere proposto dal consigliere di
parità istituito a livello regionale, previo parere non vincolante del collegio istruttorio di cui all’articolo 7, da
allegare al ricorso stesso, e sentita la commissione regionale per l’impiego. Decorso inutilmente il termine di
trenta giorni dalla richiesta del parere al collegio istruttorio, il ricorso può essere comunque proposto.
Il giudice, nella sentenza che accerta le discriminazioni sulla base del ricorso presentato ai sensi del comma 6,
ordina al datore di lavoro di definire, sentite le rappresentanze sindacali aziendali, ovvero, in loro mancanza le
organizzazioni sindacali locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano
nazionale, nonché il consigliere regionale per la parità competente per territorio, un piano di rimozione delle
discriminazioni accertate. Nella sentenza il giudice fissa un termine per la definizione del piano.
In caso di mancata ottemperanza alla sentenza di cui al comma 7 si applica l’articolo 650 del codice penale.
Inoltre sono previste delle forme di finanziamento per progetti riguardanti azioni positive per
l’attuazione della parità, l’istituzione di organi pubblici di promozione e controllo per l’attuazione
del principio di parità e la regolamentazione di speciali procedure di repressione delle condotte
discriminatorie; qualunque impresa o sindacato dei lavoratori che abbia adottato progetti di “azioni
positive” può chiedere al Ministro del Lavoro il rimborso degli oneri finanziari connessi alla loro
attuazione. Per quanto riguarda invece le procedure di remissione delle condotte discriminatorie, la
legge del 1991 regola un nuovo procedimento questa volata su iniziativa del consigliere di
parità.
Il nuovo procedimento è esperibile “qualora il datore di lavoro ponga in essere un atto o un
comportamento discriminatorio di carattere collettivo, anche quando non sono individuabili
in modo immediato e diretto i lavoratori lesi dalle discriminazioni”. Il contenuto del
provvedimento che il giudice può adottare è peculiare perché si tratta di un ordine, penalmente
sanzionato “di definire, sentite le rappresentanze sindacali aziendali, oppure se queste
mancano le organizzazioni sindacali locali aderenti alle organizzazioni maggiormente
rappresentative sul piano nazionale, oppure ancora il consigliere regionale per la parità
competente per territorio, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate”.
Art. 4 della Costituzione – La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le
condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una
funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Statuto dei lavoratori – art. 2 – Guardie giurate – Il datore di lavoro può impiegare le guardie giurate
particolari soltanto per scopi di tutela del patrimonio aziendale.
Le guardie giurate non possono contestare ai lavoratori azioni o fatti diversi da quelli che attengono alla
tutela del patrimonio aziendale.
È fatto divieto al datore di lavoro di adibire alla vigilanza sull’attività lavorativa le guardie di cui al primo
comma, le quali non possono accedere nei locali dove si svolge tale attività, durante lo svolgimento della
stessa, se non eccezionalmente per specifiche e motivate esigenze attinenti ai compiti di cui al primo
comma.
Statuto dei lavoratori – art. 4 – Impianti audiovisivi – E’ vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre
apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.
Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive, ovvero
dalla sicurezza sul lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei
lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure
in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro,
provvede l’ispettorato del lavoro, dettando, dove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti.
Statuto dei lavoratori – art. 5 – Accertamenti sanitari – sono vietati accertamenti da parte del datore di
lavoro sulla indennità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente.
Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti
previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda.
Statuto dei lavoratori – art. 6 – Visite personali di controllo – Le visite personali di controllo sul lavoratore
sono vietate fuorché nei casi in cui siano indispensabili ai fini della tutela del patrimonio aziendale, in
relazione alla qualità degli strumenti di lavoro o delle materie prime o dei prodotti.
In tali casi le visite personali potranno essere effettuate soltanto a condizione che siano eseguite all’uscita dei
luoghi di lavoro, che siano salvaguardate la dignità e la riservatezza del lavoratore e che avvengano con
l’applicazione di sistemi di selezione automatica riferiti alla collettività o a gruppi di lavoratori.
IL DOVERE DI SICUREZZA
Art. 2087 – Tutela delle condizioni di lavoro – L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio
dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a
tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Dovere del datore di lavoro previsto specificamente dall’art. 2087 è quello di “adottare
nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a
tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Questo dovere ha
anche una certa rilevanza pubblicistica che comporta tra l’altro la specificazione del dovere
generale di sicurezza in una serie di doveri particolari sanzionati anche penalmente, ed un potere di
controllo e di intervento anche d’ufficio di organi pubblici; non c’è alcun dubbio poi sul fatto che al
potere pubblicistico si affianca, in virtù della disposizione del codice, una specifica obbligazione nei
confronti del prestatore di lavoro, cui corrisponde un diritto di credito di questi.
Si diceva che il dovere generale di sicurezza che viene previsto all’art. 2087 del Codice Civile si
specifica in una serie di doveri particolari che vengono sanzionati anche penalmente: si era
cominciato nella metà degli anni ‘50 con una legge delega ed una serie di decreti legislativi che
avevano introdotto una ampia e dettagliata disciplina delle misure di prevenzione, anche se è
opinione diffusa che questa legislazione sia rimasta sprovvista di effettività.
Statuto dei lavoratori – art. 9 – Tutela della salute e dell’integrità fisica – I lavoratori, mediante loro
rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e
delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee
a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica.
Nel 1970 l’art. 9 dello Statuto dei Lavoratori cercò di rimediare a questa inefficienza attribuendo
ai lavoratori “attraverso loro rappresentanze” uno specifico “diritto di controllare
l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di
promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro
salute e la loro integrità fisica”. Sennonché sembra che anche l’attribuzione ai lavoratori di questo
“diritto di controllare” non abbia realizzato nella pratica sostanziali progressi di tutela della
sicurezza.
È stato quindi introdotto il Decreto legislativo n. 626 del 19 settembre 1994 intitolato
“attuazione delle direttive CEE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei
lavoratori durante il lavoro”.
Decreto Legislativo n. 626/1994 – art. 4 – Obblighi del datore di lavoro, del dirigente e del preposto –
(primo, secondo e terzo comma) – Il datore di lavoro, in relazione alla natura dell’attività dell’azienda
ovvero dell’unità produttiva, valuta tutti i rischi per la sicurezza e per la salute dei lavoratori, ivi compresi
quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, anche nella scelta delle attrezzature di
lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro.
All’esito della valutazione di cui al comma 1, il datore di lavoro deve emanare un documento contenente
specifiche informazioni.
Il documento è custodito presso l’azienda ovvero l’unità produttiva.
Una prima linea guida fondamentale è quella di realizzare la prevenzione in maniera
appropriata alle caratteristiche di ogni singola unità produttiva, imponendo per ciascuna al
datore di lavoro una preventiva valutazione dei rischi per la sicurezza; tutto questo deve poi
tradursi nell’elaborazione di un documento da custodirsi presso l’unità produttiva.
Decreto Legislativo n. 626/1994 – art. 18 – Rappresentante per la sicurezza – (primo, secondo e terzo
comma) – In tutte le aziende o unità produttive, è eletto o designato il rappresentante per la sicurezza.
Nelle aziende o unità produttive che occupano sino a 15 dipendenti il rappresentante per la sicurezza è eletto
direttamente dai lavoratori al loro interno. Nelle aziende che occupano fino a 15 dipendenti il rappresentante
per la sicurezza è eletto direttamente dai lavoratori al loro interno. Nelle aziende che occupano fino a 15
dipendenti il rappresentante per la sicurezza può essere individuato per più aziende nell’ambito territoriale,
ovvero nel comparto produttivo. Esso può essere designato o eletto dai lavoratori nell’ambito delle
rappresentanze sindacali, così come definite dalla contrattazione collettiva di riferimento.
Nelle aziende, ovvero unità produttive, con più di 15 dipendenti il rappresentante per la sicurezza è eletto o
designato dai lavoratori nell’ambito delle rappresentanze sindacali in azienda. In assenza di tali
rappresentanze, è eletto dai lavoratori dell’azienda al loro interno.
Un secondo indirizzo è quello di garantire che la formulazione dei programmi per la sicurezza
e la loro attuazione avvengano mediante la partecipazione diretta o indiretta dei lavoratori
interessati; in questo quadro ha particolare rilevanza la nuova figura del “rappresentante per la
sicurezza” che deve essere eletto o designato dai lavoratori in tutte le aziende o unità produttive.
Una ulteriore linea guida della legislazione attuale è quella di coinvolgere nel dovere di sicurezza
tutti coloro che possono in qualche modo contribuire a realizzarla; ne consegue quindi che oggi
non deve parlarsi solamente di un obbligo di sicurezza dal datore di lavoro nei confronti di ogni
lavoratore, ma di una pluralità di obblighi di sicurezza, variamente configurati, specificati e
sanzionati, di tutti coloro che operano “in tutti i settori di attività pubblici e privati”.
Decreto Legislativo n. 626/1994 – art. 1 – Campo di applicazione – (primo comma) – Il presente decreto
legislativo prescrive misure per la tutela della salute e per la sicurezza dei lavoratori durante il lavoro, in tutti
i settori di attività privati o pubblici.
Decreto Legislativo n. 626/1994 – art. 21 – Informazione dei lavoratori – Il datore di lavoro provvede
affinché ciascun lavoratore riceva una adeguata informazione su:
a) i rischi per la sicurezza e la salute connessi all’attività dell’impresa in generale
b) le misure e le attività di protezione e di prevenzione adottate
c) i rischi specifici cui è esposto in relazione all’attività svolta, le normative di sicurezza e le
disposizioni aziendali in materia
d) ecc…ecc…
Decreto Legislativo n. 626/1994 – art. 22 – Formazione dei lavoratori – (primo comma) – Il datore di
lavoro assicura che ciascun lavoratore, ivi compresi i lavoratori di cui all’art. 1 comma 3 (lavoratori di cui
alla legge n. 877/1973 e lavoratori con rapporto contrattuale privato di portierato), riceva una formazione
sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e di salute, con particolare riferimento al proprio posto di
lavoro e alle proprie mansioni.
Si osserva infine che il decreto 626/1994 attribuisce grande rilevanza all’informazione e alla
formazione sulle misure necessarie per garantire la sicurezza: l’informazione deve riguardare i
rischi generici presenti nell’ambiente di lavoro ed i rischi collegati alle mansioni, la formazione
invece deve essere per ciascun lavoratore adeguata alle mansioni, periodicamente rinnovata in
relazione alle sopravvenienze ed avere il contenuto minimo specificato dalle norme attuative. La
giurisprudenza giustamente afferma la responsabilità penale del medesimo per gli infortuni
derivanti dalla loro violazione ed ammette un concorso di colpa del lavoratore soltanto se questi è
stato adeguatamente formato ed informato.
L’opinione tradizionale qualifica il rapporto di lavoro come un rapporto di tipo contrattuale, cioè
come un rapporto avente la sua fonte in un contratto; tuttavia però all’epoca della redazione del
Codice Civile una parte rilevante della dottrina era molto influenzata da una teoria
anticontrattualistica che si basava sulla concezione istituzionale dell’impresa.
Meno radicale è la contestazione dell’origine contrattuale in quelle dottrine che ritengono che possa
dedursi la costituibilità di rapporti di lavoro anche senza contratto, almeno in determinate ipotesi: la
più nota ed accreditata di esse sostiene che l’occupazione di fatto del lavoratore sarebbe la vera
fonte del rapporto di lavoro, o almeno poterebbe esserlo in alternativa al contratto. Questa tesi è
nata in Germania e si è svolta in una duplice direzione: da un lato affermando che perché si
costituisca un rapporto di lavoro non occorre un valido contratto di lavoro, essendo sufficiente che il
lavoratore sia di fatto occupato; dall’altro lato contestando che il contratto di lavoro, quando c’è
Art. 2126 – Prestazione di fatto con violazione di legge – La nullità o l’annullamento del contratto di
lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi
dall’illiceità dell’oggetto o della causa.
Se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro questi ha in ogni
caso diritto alla retribuzione.
basta da solo a costituire il rapporto senza che di fatto avvenga l’occupazione. Questa tesi trova
fondamento nell’art. 2126 del Codice Civile che rubrica “Prestazioni di fatto con violazioni di
legge” e che stabilisce che la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per
il periodo in cui il rapporto non ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità
dell’oggetto (che si ha nel caso in cui si violino presidi o principi generali) o della causa (illiceità
dei motivi del contratto); ed inoltre nel secondo comma sancisce che se il lavoro è stato prestato con
violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla
retribuzione.
Commentando l’art. 2126 possiamo dire che ci sembra chiaro che il condizionare la costituzione di
una obbligazione al suo adempimento equivale a negare l’obbligazione, visto che non può
ammettersi l’esistenza di una obbligazione, o di un obbligo giuridico, se il diritto non impone al
soggetto un certo comportamento, considerando il comportamento contrario come antigiuridico o
illecito. È altrettanto scorretto sostenere, sulla base di questo articolo, che l’obbligazione di lavoro
si costituisce nel momento stesso in cui si estingue; è invece corretto sostenere che tale
disposizione non prevede la costituzione di nessuna obbligazione di lavoro, ma soltanto
ricollega alla prestazione di fatto alcuni effetti giuridici corrispondenti a quelli che si sarebbero
prodotti se fosse esistita una obbligazione e l’esecuzione del lavoro fosse stata adempiuta dalla
stessa. In conclusione se per l’art. 2126 la prestazione di fatto non può mai produrre una
obbligazione di lavoro, deve allo stesso modo dirsi che non può mai produrre un rapporto di
lavoro, posto che non è certamente configurabile come rapporto di lavoro una situazione
giuridica che non comporti l’obbligazione del lavoratore di lavorare.
Resta da stabilire se la prestazione di fatto possa essere intesa nella fattispecie costitutiva di una
obbligazione di lavoro e quindi di un rapporto di lavoro: l’ipotizzata obbligazione del lavoratore
derivante dal fatto dell’occupazione, non potrebbe mai configurarsi come una obbligazione di
lavoro, ma semmai come una obbligazione di astenersi dall’intempestiva interruzione
dell’occupazione, dannosa al datore di lavoro.
Per quanto riguarda le norme sulla gestione di affari, esse non sembrano applicabili all’ipotesi in
cui sia stato iniziato un lavoro subordinato.
Art. 2030 – Obbligazioni del gestore – Il gestore è soggetto alle stesse obbligazioni che deriverebbero da
un mandato.
Tuttavia il giudice, in considerazione delle circostanze che hanno indotto il gestore ad assumere la
gestione, può moderare il risarcimento dei danni ai quali questi sarebbe tenuto per effetto della sua colpa .
Art. 2028 – Obbligo di continuare la gestione – Chi, senza esservi obbligato, assume scientemente la
gestione di un affare altrui, è tenuto a continuarla e condurla a termine finchè l’interessato non sia in grado
di provvedervi da se stesso.
L’obbligo di continuare la gestione sussiste anche se l’interessato muore prima che l’affare sia terminato,
finchè l’erede possa provvedere direttamente.
Quanto in generale alla possibilità che dalla volontaria interruzione dell’occupazione iniziata derivi
un danno al datore di lavoro, si osserva che un danno così strutturato potrebbe considerarsi ingiusto,
e quindi risarcibile, seguendo due vie: o configurando la complessiva condotta del lavoratore che
instaura l’occupazione di fatto e successivamente la interrompe, deludendo l’affidamento
dell’imprenditore e violando uno di quegli obblighi che abbiamo chiamato secondari e quindi
causano illecito extracontrattuale, o scindendo le due componenti di questa complessiva condotta, e
considerando l’occupazione fonte di una obbligazione del lavoratore e l’intempestiva interruzione
dell’occupazione illecito contrattuale, in quanto inadempimento di tale obbligazione.
Perciò l’ipotizzata obbligazione del lavoratore derivante dal fatto dell’occupazione non potrebbe
mai configurarsi come una obbligazione di lavoro, ma semmai come una obbligazione di astenersi
dall’intempestiva interruzione dell’occupazione, dannosa al datore di lavoro.
Art. 1337 – Trattative e responsabilità precontrattuale – Le parti, nello svolgimento delle trattative e
nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede.
Art. 2043 – Risarcimento per danno illecito – Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un
danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.
Passiamo adesso ad analizzare quelli che sono i soggetti del contratto. Questi sono
LAVORATORE e DATORE DI LAVORO. Iniziamo con l’analizzare la posizione del lavoratore
ed il primo problema che affrontiamo è quello sulla capacità.
Art. 1 – Capacità giuridica – La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita.
I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita.
Si deve avvertire che la dottrina giuridica è solita parlare di capacità di lavoro o capacità
lavorativa in diversi significati : in un primo senso per capacità di lavoro si intende l’attitudine
ad essere obbligati a prestare lavoro e così intesa la capacità lavorativa non è altro che una
speciale capacità giuridica collegandosi alla dottrina che differenzia la capacità giuridica generale
che secondo l’art. 1 del Codice Civile (capacità giuridica) ogni uomo acquista al momento della
nascita, e capacità giuridiche speciali che sono condizionate da alcune qualità del soggetto; in un
secondo significato la capacità di lavoro o lavorativa è l’attitudine naturale di un soggetto allo
svolgimento di una attività socialmente utile e così intesa, essa risulta costituita da molteplici
qualità del soggetto come la capacità psicofisica o fisiologica, la capacità tecnica o professionale
e la capacità morale che consterebbe del complesso di tutte le doti morali che condizionano
l’esatto svolgimento di un certo lavoro. Vengono poi in considerazione la capacità legale di agire
per la stipulazione del contratto di lavoro e per l’esercizio dei diritti e delle azioni che ne dipendono,
nonché la capacità di intendere e di volere o capacità naturale di agire sempre con riguardo allo
svolgimento del rapporto.
A completamento del discorso sulla capacità di agire, è necessario ricordare che non c’è alcun
dubbio sul fatto che la capacità contrattuale spetti al minore emancipato per effetto del matrimonio,
come stabilito dall’art. 390 c.c. e al maggiore inabilitato, art. 414 c.c., perché il contratto di lavoro
non è tra quei negozi eccedenti l’ordinaria amministrazione per i quali si richiede la piena capacità
di agire.
Altrettanto indubbio è poi il fatto che, quando manca la capacità, il contratto non può essere
validamente stipulato che dal legale rappresentante, senza che nulla aggiunga l’eventuale
partecipazione alla stipulazione dell’interessato.
Art. 414 – Persone che possono essere interdette – Il maggiore di età e il minore emancipato, i quali si
trovano in condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai loro interessi,
sono interdetti quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione.
Art. 2 – Maggiore età. Capacità di agire – La maggiore età è fissata al compimento del diciottesimo anno.
Con la maggiore età si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita una età
diversa.
Sono salve le leggi speciali che stabiliscono una età inferiore in materia di capacità a prestare il proprio
lavoro. In tal caso il minore è abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di
lavoro.
L’art. 2 del Codice Civile rubrica “Maggiore età. Capacità di agire” e sancisce che la maggiore
età si ottiene al compimento del diciottesimo anno e nel secondo comma afferma che sono salve le
leggi speciali che stabiliscono una età inferiore in materia di capacità di prestare il proprio
lavoro. In tal caso il minore è abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal
contratto di lavoro”.
Il primo problema relativo a questo articolo è stabilire che cosa si voglia intendere con l’assunto
capacità a prestare il proprio lavoro: una parte della dottrina riteneva che si dovesse far riferimento
alla capacità giuridica speciale visto che tutti gli aspetti della capacità di agire erano già
considerati nel seguito della norma, mentre un’altra parte della dottrina interpretava questa norma
come riferita alla sola capacità di agire sostanziale e processuale ritenendo che la disciplina delle
condizioni di acquisto della capacità giuridica dovessero trovarsi nella Legge n. 977 del 1967 sulla
tutela del lavoro dei bambini e degli adolescenti, che avrebbero stabilito l’acquisto di detta
capacità rispettivamente al quattordicesimo e al quindicesimo anno. La regola ricavabile dal Codice
è in definitiva la seguente: quando, in base alle leggi speciali che regolano la capacità in materia
di lavoro, il minore di diciotto anni è dotato della capacità giuridica ad un certo rapporto di
lavoro, egli ha anche la capacità di esercitare i diritti e le azioni che dipendono dal contratto
di lavoro, pur se non ha ancora la capacità di stipulare il contratto stesso.
La capacità giuridica in materia di lavoro è oggi regolata esclusivamente dalle leggi speciali che
l’art. 2 del Codice Civile cita al secondo comma. In base a questa legislazione deve ritenersi che
oggi la regola generale sia quella dell’acquisto della capacità giuridica di lavoro al momento in
cui il minore ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria e comunque non prima del
compimento del quindicesimo anno di età; un tempo l’obbligo scolastico coincideva con i
quindici anni di età ma con la Legge Moratti sull’istruzione questo obbligo è stato innalzato e
Legge n. 977/1967 – art. 4 – (primo e secondo comma) – E’ vietato adibire al lavoro i bambini, salvo
quanto disposto dal comma 2.
La Direzione provinciale del lavoro può autorizzare, previo assenso scritto dei titolari della potestà
genitoriale, l’impiego dei minori in attività lavorative di carattere culturale, artistico, sportivo o
pubblicitario e nel settore dello spettacolo, purché non si tratti di attività che non pregiudicano la
sicurezza, l’integrità psico – fisica e lo sviluppo del minore, la frequenza scolastica o la partecipazione a
programmi di orientamento o di formazione professionale.
attualmente è stato portato al diciassettesimo o diciottesimo anno di età e quindi corrisponde all’età
in cui si acquista la capacità giuridica.
L’art. 4 della Legge 977 del 1967 prevede che con l’autorizzazione della direzione provinciale
del lavoro, previo assenso scritto dei titolari della potestà genitoriale e apposita visita medica,
si possano utilizzare minori per attività culturali, artistiche e pubblicitarie che però non
pregiudichino la sicurezza, lo sviluppo e la frequenza scolastica.
Per contro l’art. 5 della stessa legge vieta che per lavori ritenuti pericolosi, faticosi ed insalubri
e comunque precisati in un apposito elenco, siano impiegati soggetti minori o che comunque
non abbiano ancora compiuto i 16 o 18 anni, a seconda dei casi. La legge prevede espressamente
sanzioni penali a carico sia del datore di lavoro, sia della persona investita di autorità o incaricata
della vigilanza sul minore, che ne consentano l’assunzione al lavoro in violazione dei limiti minimi
di età da essa stabiliti; incidono sulla capacità giuridica anche le varie norme che impongono
determinate pause nello svolgimento dell’attività lavorativa: pause periodiche giornaliere (disciplina
dell’orario di lavoro), settimanali (riposo festivo), annuali (ferie) o dovute a particolari situazioni
come malattia o gravidanza. Tuttavia in questi casi non è mai implicata la capacità giuridica la
rapporto fondamentale di lavoro, ma solamente la capacità all’obbligazione di lavoro. Naturalmente
nel caso della prestazione di fatto dell’attività lavorativa, troverà applicazione l’art. 2126 del Codice
Civile.
Un particolare problema si è posto in relazione all’assunzione con contratto di apprendistato di
chi abbia superato l’età massima e visto che in questo caso manca la capacità al rapporto di
tirocinio, ma sussiste la capacità al rapporto di lavoro subordinato, si è sostenuta la produzione da
parte del contratto di tirocinio degli effetti propri del contratto di lavoro subordinato; questo vale
solamente nel caso in cui questo contratto di tirocinio si accettato e voluto da entrambe le parti
perché, se come avviene in molti casi il contratto di tirocinio con un soggetto ultra – ventiquattrenne
è stipulato solamente per consentire una retribuzione meno elevata e meno pesanti oneri
contributivi, dovrebbe darsi applicazione alla disciplina generale della simulazione, con
conseguente validità tra le parti di ogni effetto del rapporto di lavoro ordinario dissimulato.
Passiamo ora ad analizzare la situazione del datore di lavoro che è colui che è rappresentante legale
e ha responsabilità giuridica; datore di lavoro può essere anche un soggetto che si occupa della
gestione dell’impresa. La distinzione principale da fare è quella tra DATORE DI LAVORO
IMPRENDITORE e DATORE DI LAVORO NON IMPRENDITORE.
Art. 2082 – Imprenditore – E’ imprenditore chi esercita professionalmente una attività economica
organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.
Questa distinzione si basa sull’art. 2082 del Codice Civile (Imprenditore) che stabilisce che è
imprenditore chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della
produzione o dello scambio di beni e servizi, precisando che si può essere imprenditore anche
senza scopo di lucro.
Art. 2239 – Norme applicabili – I rapporti di lavoro subordinato che non sono inerenti all’esercizio di una
impresa sono regolati dalle disposizioni delle sezioni II, III e IV del capo I del titolo II, in quanto compatibili
con la specialità del rapporto.
L’art. 2239 del Codice Civile (Norme applicabili) stabilisce che i rapporti di lavoro non collegati
all’esercizio dell’impresa sono disciplinati come particolari o speciali e vanno applicati ai datori di
lavoro non imprenditori. Il diritto del lavoro ha fornito un contributo a questa distinzione inserendo
l’istituto delle ORGANIZZAZIONI DI TENDENZA nelle quali le finalità perseguite rendono
incompatibili alcune norme dell’imprenditore e quindi lo si considera non imprenditore.
Legge n. 108/1990 – art. 4 – Area di non applicazione – Fermo restando quanto previsto dall’articolo 3,
le disposizioni degli articoli 1 e 2 non trovano applicazione nei rapporti disciplinati dalla 2 aprile 1958 n.
339. la disciplina di cui all’articolo 18 della legge del 20 maggio 1970 n. 300, come modificato
dall’articolo 1 della presente legge, non trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro non
imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione
ovvero di religione e di culto.
Un esempio è l’art. 4 della Legge 108 del 1990 sulla disciplina dei licenziamenti individuali, il
quale stabilisce che a coloro i quali svolgono finalità di tipo intellettuale, come ad esempio le scuole
religiose, si debba applicare la disciplina debole del licenziamento. In conclusione si considera
NON IMPRENDITORE colui che persegue finalità ideali senza una struttura organizzativa
imprenditoriale. Un altro criterio che può agevolare questa classificazione è la dimensione
strutturale cioè il numero di dipendenti occupati nell’impresa; in relazione a questo però esiste il
fenomeno del COLLEGAMENTO TRA IMPRESE ossia forme di controllo o catene di società:
in questi casi un dipendente è presente nel libro paga di una sola impresa del gruppo, ma il cui
lavoro giova ad un’altra impresa del gruppo, oppure svolge una attività che giova ad interessi che
appartengono contemporaneamente a più imprese del gruppo. In questi casi si ritiene che il datore di
lavoro non sia il gruppo perché questo non ha una propria soggettività; bisogna però valutare se il
gruppo deriva dalla frammentazione di un’altra impresa evitando in questo modo le norme
riguardanti il datore di lavoro, presentando la questione davanti al giudice che in questi casi accerta
l’unitarietà dell’attività imprenditoriale.
La capacità lavorativa naturale, che i testi legislativi preferiscono chiamare inabilità o invalidità,
ha rilevanza giuridica ad alcuni effetti previsti da varie leggi protettive dei lavoratori. Secondo
alcuni autori la capacità naturale di lavoro verrebbe in considerazione come requisito soggettivo
della validità del contratto di lavoro, solamente quando la legge prevede particolari forme di
accertamento di questa capacità: in realtà questo non può essere sufficiente a considerare esistente
la capacità naturale di lavoro perché alcuni soggetti, anche se in possesso di queste particolari forme
di accertamento, potrebbero in realtà essere sprovvisti di questa capacità naturale; non attinente
sembra anche l’affermazione che il consenso del datore di lavoro, che assume un lavoratore
incapace, sarebbe viziato da errore essenziale su una qualità dell’altro contraente. Il vero problema
Art. 1464 – Impossibilità parziale – Quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente
impossibile, l’altra parte ha diritto ad una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e può
anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale.
di fondo è quello di capire se si possa essere obbligati a prestare un lavoro che non si è in grado
di prestare: nel caso di risposta positiva il contratto di lavoro stipulato dalla persona incapace al
lavoro dovrà considerarsi valido e produttivo di tutti gli effetti a cui è destinato, la mancata
esecuzione del lavoro costituirà inadempimento dell’obbligazione di lavoro e quindi, nei casi più
gravi, fonte di risoluzione del contratto, da attuarsi nei modi propri al contratto di lavoro; se la
risposta è invece negativa il contratto di lavoro con il quale si è promessa una prestazione di
lavoro che si è incapaci di realizzare dovrà considerasi non idoneo a costituire la relativa
obbligazione. Per risolvere correttamente la questione, a nostro avviso, è necessario distinguere
tra obbligazione di diligenza ed obbligazione di mezzi, che impone al prestatore di lavoro
soltanto di tenere un certo comportamento, e non di raggiungere attraverso questo comportamento
un certo risultato. A nostro avviso, inoltre, l’incapacità naturale di eseguire il lavoro che costituisce
oggetto del contratto, si deve ritenere una semplice impossibilità della prestazione. Le conclusioni
che abbiamo appena tratto valgono sia per la cosiddetta incapacità fisica o fisiologica, sia per
quella che viene chiamata incapacità tecnica, anche se in realtà questa distinzione dovrebbe essere
sostituita da quella tra incapacità totale ed incapacità parziale, riferita all’adempimento esatto
quantitativamente e qualitativamente, considerando questa ultima come causa di riduzione del
contenuto del vincolo alla parte possibile; trattandosi però di contratto a prestazioni corrispettive
troverà applicazione l’art. 1464 del Codice Civile (impossibilità parziale) e sarà pertanto
consentito al datore di lavoro di chiedere la riduzione della retribuzione e di recedere dal contratto
qualora non ci sia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale. La conseguenza conclusiva
delle considerazioni svolte fino a questo punto è che il contratto di lavoro per il quale manchi
totalmente la capacità di lavoro naturale è INEFFICACE.
Art. 1346 – Requisiti – L’oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile.
Secondo l’art. 1346 del Codice Civile (requisiti) i requisiti dell’oggetto del contratto sono:
1) la possibilità: nel caso di deduzione in contratto di attività impossibile per chiunque,
l’inefficacia del contratto medesimo dovrebbe ricondursi all’impossibilità dell’oggetto; la
vera impossibilità della prestazione di lavoro si ha non soltanto quando sia impossibile il
tipo di attività in astratto, ma anche quando l’impossibilità dipende da situazioni attinenti a
quello che viene considerato il substrato della prestazione di lavoro, cioè l’ambiente nel
quale il lavoro deve essere svolto o la materia del lavoro
2) la liceità: si parla di illiceità dell’oggetto nel caso di assunzione per attività
naturalisticamente possibili, ma contrarie a regole o principi inderogabili dell’ordinamento;
in questo caso è da tenere presente che non ci si trova di fronte a situazioni che precludono il
contratto, ma bensì il rapporto
3) la determinatezza o determinabilità: la determinazione dell’oggetto nel contratto di lavoro
avviene mediante l’indicazione delle mansioni, in maniera generica, restando deferita
all’esercizio del potere direttivo dell’imprenditore la specificazione delle modalità ulteriori;
bisogna precisare che la genericità però non deve essere troppo ampia, senza che appunto
venga meno il requisito della determinatezza. In mancanza di specifiche norme che
consentono di supplire all’omessa determinazione consensuale delle mansioni, non si può
concludere che per l’applicazione all’assunzione del lavoratore tuttofare della regola
generale della nullità per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto.
Vanno fatti poi alcuni cenni sulle caratteristiche della retribuzione che sono le seguenti:
a) la possibilità: questo requisito può in concreto mancare solamente quando è prevista
una retribuzione in natura
b) la liceità: questo requisito viene sempre rispettato perché il dare denaro è prestazione
in sé e per sé lecita
c) la determinatezza o determinabilità: è da precisare che questo requisito non può
mai mancare; non si può infatti avere un contratto nullo o inefficace per
indeterminatezza o indeterminabilità della retribuzione e questa opinione ha come
base l’art 2099 del Codice Civile (retribuzione) che prevede la determinazione
costitutiva del giudice per il caso di mancanza di una determinazione contrattuale,
individuale o collettiva.
Art. 2099 – Retribuzione – La retribuzione del prestatore di lavoro può essere stabilita a tempo o a
cottimo e deve essere corrisposta nella misura determinata dalle norme corporative, con le modalità e nei
termini in uso nel luogo in cui il lavoro viene eseguito.
VOLONTA’ E FORMA
Le varie teorie anticontrattualistiche tendono a svalutare il rilievo della volontà delle parti nella fase
di costituzione e durante lo svolgimento di tutto il rapporto; quando invece si fa riferimento a quello
che sostengono la maggior parte degli studiosi si intende la volontà delle parti come l’elemento
essenziale della fattispecie costitutiva del rapporto di lavoro. Quanto alla manifestazione della
volontà vige anche per il contratto di lavoro il principio generale della libertà di forma: con
riguardo alle clausole a forma vincolata è però da precisare che il vincolo di forma riguarda la
singola clausola e non l’intero contratto in cui quella si inserisce; inoltre in caso di omissione della
norma prescritta per la singola clausola, la nullità della clausola non comporta la nullità dell’intero
contratto nemmeno se si dimostra che senza quella clausola le parti non avrebbero concluso quel
contratto. Il fatto che il contratto individuale che non rispetta la forma stabilita dal contratto
collettivo sia invalido, si desume dall’art. 1352 del Codice Civile (forme convenzionali) il quale
prevede addirittura una presunzione di vincolo ad substantiam e non solo ad probationem.
Art. 1352 – Forme convenzionali – Se le parti hanno convenuto per iscritto di adottare una determinata
forma per la futura conclusione di un contratto, si presume che la forma sia stata voluta per la validità di
questo.
Una regola analoga a quella appena descritta si può trovare nel Decreto Legislativo n. 152 del 26
maggio 1997 sull’attuazione della direttiva CEE concernente l’obbligo del datore di lavoro di
informare il lavoratore delle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro.
All’art 1 (obbligo di informazione) stabilisce che il datore di lavoro è tenuto a fornire, per iscritto,
al lavoratore entro trenta giorni dalla data dell’assunzione, tutte le notizie relative alla modalità del
rapporto, o eventualmente desumibili mediante rinvio al contratto collettivo applicabile.
Decreto Legislativo 152/1997 – Art. 4 – Misure di tutela – In caso di mancato o ritardato, incompleto o
inesatto assolvimento degli obblighi di cui agli articoli 1,2,3 e 5, comma 2, il lavoratore può rivolgersi alla
direzione provinciale del lavoro affinché intimi al datore di lavoro a fornire le informazioni previste dal
presente decreto entro il termine di quindici giorni.
All’art. 4 (misure di tutela) è poi previsto che in caso di mancata o incompleta comunicazione, il
lavoratore può rivolgersi alla direzione provinciale del lavoro perché intimi al datore di lavoro di
fornire le informazioni previste entro il termine di quindici giorni.
La scelta del tipo di contratto, o di più contratti o negozi tra loro combinati, avviene in concreto al
fine di eludere l’applicazione di norme imperative relative al rapporto di lavoro. Questo
comportamento è ovviamente illecito. Secondo l’opinione comune la causa del rapporto di lavoro è
lo scambio tra lavoro e retribuzione, scambio questo che essendo previsto e regolato dalla legge
come funzione caratteristica di un contratto nominato, non può mai essere illecito; invece, ai casi di
stipulazione di contratti diversi dal contratto di lavoro o di applicazione di alcune clausole al
contratto di lavoro allo scopo di eludere alcune norme imperative, deve applicarsi l’art. 1344 del
Codice Civile (contratto in frode alla legge).
Art. 1344 – Contratto in frode alla legge – Si reputa altresì illecita la causa quando il contratto
costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa.
Secondo questo articolo risultano colpiti da nullità negozi in sé leciti, sia in quanto alla causa sia in
quanto agli altri elementi e presupposti, ma caratterizzati sotto il profilo oggettivo dell’idoneità a
raggiungere un risultato analogo a quello vietato, e sotto il profilo soggettivo dall’intento di eludere
la norma imperativa. Questo articolo in realtà non prevede un rimedio realmente efficace per due
motivi:
la prova di un dato soggettivo come l’intento fraudolento, in molti casi di frode alle norme
sul lavoro può non essere agevole
è incongrua la mera sanzione della nullità del contratto rispetto alle esigenze di tutela degli
interessi in gioco nel rapporto di lavoro
Si spiega in questo modo perché in alcuni casi la legge detti una speciale ipotesi di frode a norme
sul rapporto di lavoro al fine di prevedere delle sanzioni più appropriate rispetto a quelle desumibili
dalla regola generale; in altri casi invece, il legislatore, partendo dalla notevole frequenza di certe
forme di frode, ha tolto rilievo all’intento fraudolento sostituendo così la frode alla legge con un
diretto divieto.
L’atteggiamento del legislatore sul termine finale del contratto di lavoro ha subito alterne vicende: il
codice del 1865 consentiva la locazione di opere solo a tempo o per una determinata impresa, il
Codice Civile del 1942 all’art. 2097 acquisita oramai la regola della libera recedibilità del
contratto a tempo indeterminato, capovolse la prospettiva del codice anteriore con norme
chiaramente a sfavore del contratto a tempo determinato.
Si spinse molto più oltre la Legge n. 230 del 18 aprile 1962 (Disciplina del contratto di lavoro a
tempo determinato e che abolì il precedente art. 2097) per la quale il termine divenne una
modalità validamente apponibile al contratto di lavoro solo per iscritto, ad eccezione dei salariati
fissi dell’agricoltura e del contratto di lavoro per il personale di volo.
Legge n. 230/1962 – art. 1 – Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni
appresso indicate.
È consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto:
a) quando ciò sia richiesto dalla speciale natura dell’attività lavorativa derivante dal carattere stagionale
della medesima
b) quando l’assunzione abbia luogo per sostituire lavoratori assenti e per i quali sussiste il diritto alla
conservazione del posto, sempreché nel contratto di lavoro a termine sia indicato il nome del lavoratore
sostituito e la causa della sua sostituzione
c) quando l’assunzione abbia luogo per l’esecuzione di un’opera o di un servizio definiti e predeterminati nel
tempo aventi carattere straordinario od occasionale
d) ecc…ecc…
Inoltre la legge 230/1962 all’art. 1 indicava i casi nei quali l’apposizione del termine era consentita,
con una elencazione di casi da ritenersi assolutamente tassativa. Questa legge ha quindi segnato la
punta massima dello sfavore legislativo per il contratto a tempo determinato.
Oggi però tutte le preesistenti norme sul contratto a termine sono state sostituite dal Decreto
Legislativo n. 368 del 6 settembre 2001 riguardante l’attuazione della direttiva CE relativa
all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato che all’art. 11 (abrogazioni e disciplina
transitoria) non solo abroga espressamente la legge 230/1962 e successive modificazioni, ma
anche tutte le disposizioni di legge che sono incompatibili e non espressamente richiamate dal
decreto stesso.
Decreto Legislativo n. 368/2001 – art. 11 – Abrogazioni e disciplina transitoria – Dalla data di entrata
in vigore del presente decreto legislativo sono abrogate la legge 18 aprile 1962, n. 230, e successive
modificazioni, l’articolo 8 bis della legge 25 marzo 1983, n. 79, l’articolo 23 della legge 28 febbraio 1987,
n. 56, nonché tutte le disposizioni di legge che sono comunque incompatibili e non sono espressamente
richiamate nel presente decreto legislativo.
Questo decreto legislativo è interessante anche per la sua genesi infatti si basa su un accordo
sindacale quadro europeo che è stato recepito da una direttiva comunitaria, e più
precisamente la n. 70 del 1991 alla quale lo Stato italiano ha ritenuto di doversi adeguare per
l’emanazione di questo decreto; in realtà l’adesione non era necessaria in quanto l’ordinamento
italiano preesistente era più favorevole ai lavoratori della direttiva europea che imponeva una certa
tutela per i lavoratori a tempo determinato ma che mirava soprattutto al raggiungimento di due
obbiettivi:
1) la parità di trattamento tra i lavoratori a termine, per i quali veniva previsto un periodo di
formazione, ed i lavoratori a tempo indeterminato
2) evitare un abuso della reiterazione del contratto a termine
All’art. 3 (divieti) viene fatto un rovesciamento rispetto alla legislazione del 1962, adottando una
elencazione tassativa non più delle ipotesi nelle quali il contratto a termine è consentito, ma di
quello nelle quali il contratto a termine è vietato.
La disciplina giuridica attuale della prosecuzione del lavoro dopo la scadenza del termine
distingue tra prosecuzione che dura poco e prosecuzione che dura molto sulla base della durata
originaria del rapporto.
Decreto Legislativo n. 368/2001 – art. 5 – Scadenza del termine e sanzioni. Successione dei contratti
– Se il rapporto di lavoro continua dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente
prorogato ai sensi dell’art. 4, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione
della retribuzione per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al venti per cento fino al decimo
giorno successivo, al quaranta per cento per ciascun giorno ulteriore.
Se il rapporto di lavoro continua oltre il ventesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei
mesi, ovvero oltre il trentesimo giorno negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla
scadenza dei predetti termini.
Qualora il lavoratore venga riassunto a termine, ai sensi dell’articolo 1, entro un periodo di dieci giorni
dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza
di un contratto di durata superiore ai sei mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato.
Quando si tratta di due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle effettuate senza alcuna
soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione
del primo contratto.
Si hanno così tre diversi periodi di prosecuzione che vengono rilevati all’art. 5 (scadenza del
termine e sanzioni. Successione dei contratti): 10 giorni, 20 giorni e 30 giorni; la prosecuzione
per periodi di lavoro che rimangono al di sotto di questi limiti è sanzionata con maggiorazioni
retributive del 20% o del 40% a seconda dei casi. Il terzo ed il quarto comma di questo articolo si
occupano della diversità di trattamento tra prosecuzione di fatto del lavoro e prosecuzione
conseguente ad una nuova assunzione: nel caso in cui venga accertata l’esistenza di un nuovo
contrattato a termine, si deve ulteriormente distinguere tra tre casi:
a) ipotesi che il nuovo contratto a termine sia stipulato prima della scadenza del termine fissato
dal primo ed in questo caso il rapporto si considera a tempo indeterminato fin dall’origine
b) ipotesi della stipulazione del nuovo contratto entro dieci giorni dalla data di scadenza di un
contratto di durata fino a sei mesi, e di venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di
durata superiore ai sei mesi; in questo caso si considera a tempo indeterminato solo il
secondo contratto
c) ipotesi di un nuovo contratto stipulato decorsi i dieci o venti giorni previsti dall’ipotesi
precedente, ma questa ipotesi non è prevista dalla legge
Decreto Legislativo n. 368/2001 – art. 4 – Disciplina della proroga – Il termine del contratto a tempo
determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del
contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia
richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato
stipulato a tempo indeterminato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del
rapporto a termine non potrà essere superiore ai tre anni.
L’art. 4 (disciplina della proroga) consente la proroga del termine solamente quando la durata
iniziale del contratto sia inferiore ai tre anni, per una volta soltanto e purché la durata la durata
complessiva del rapporto a termine non superi i tre anni. Essendo chiara una contraddizione tra
questo articolo ed i commi terzo e quarto dell’art. 5, è opportuno intendere che l’uso delle
espressioni “proroga” e “prorogato” all’art. 4 si debbano riferire all’ipotesi che le parti vogliano
considerare il secondo rapporto una prosecuzione del primo; l’utilizzo delle espressioni
“riassunto” e “assunzioni successive”, utilizzate all’art. 5, alluderebbero invece all’ipotesi che le
parti intendano il secondo rapporto come un rapporto nuovo.
IL PATTO DI PROVA
Art. 2096 – Assunzione in prova – Salvo diversa disposizione delle norme corporative, l’assunzione
del prestatore di lavoro per un periodo di prova deve risultare da atto scritto.
L’imprenditore ed il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l’esperimento
che forma oggetto del patto di prova.
Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto senza obbligo di preavviso o
di indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può
esercitarsi prima della scadenza del termine.
Compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa
nell’anzianità del datore di lavoro.
L’art. 2096 (assunzione in prova) del Codice Civile disciplina una particolare modalità del
contratto di lavoro: il patto di prova che è una speciale clausola opponibile al contratto di lavoro.
Lo scopo di questa clausola è quello di obbligare l’imprenditore ed il prestatore di lavoro a svolgere
l’esperimento che forma oggetto del patto; al secondo comma viene riconosciuto ad entrambe le
parti un potere di recesso sottratto ai limiti ordinari e che può anche convenire trascorso un periodo
di irrecedibilità. Gli altri diritti e doveri delle parti sono quelli propri ad ogni rapporto di lavoro e
compiuto il periodo di prova, come afferma il quarto comma, non occorre per la prosecuzione del
rapporto la stipulazione di un nuovo contratto. Il problema interpretativo più importante
relativamente al patto di prova riguarda l’individuazione dei limiti dello speciale potere di
recesso riconosciuto alle parti durante la prova: il Codice dice che esso è senza obbligo di
preavviso e di indennità, intendendo per indennità quella di mancato preavviso; il Codice però
afferma anche che se la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non
può essere esercitata prima della scadenza di tale termine: deve ritenersi il recesso qui escluso
soltanto lo speciale recesso del periodo di prova. Quanto al presupposto sul quale il recesso può
essere fondato, la dottrina parla solitamente del mancato gradimento come unico e necessario
presupposto. Una particolare questione che si pone frequentemente è se sia opponibile la clausola
della prova ai contratti di lavoro stipulati con i disabili obbligatoriamente assunti. La
Cassazione ha risolto il problema riconoscendo la possibilità di porre la clausola di prova nei
contratti stipulati con disabili assunti obbligatoriamente, ma riconoscendo anche in questi casi
la nullità del licenziamento del lavoratore disabile motivato dalla menomazione fisica che ne
ha reso obbligatorio il collocamento; un punto fermo in questa prospettiva dovrebbe inoltre essere
quello che anche per i disabili obbligatoriamente assunti, il recesso in periodo di prova non può
avere limiti maggiori di quelli ai quali soggiace quando il rapporto di lavoro diventa definitivo.
Chiamiamo COLLOCAMENTO, che viene generalmente esercitato dai sindacati, l’insieme delle
attività che si svolgono per consentire o favorire l’incontro fra domanda ed offerta di lavoro, ossia
la mediazione per la stipulazione di contratti di lavoro. Per settanta anni la disciplina del
collocamento era basata sui seguenti principi:
divieto della mediazione privata
riserva della funzione degli appositi uffici
onere per la generalità dei datori di lavoro che intendessero assumere dei lavoratori, di farne
richiesta all’ufficio, di regola meramente numerica ed eventualmente anche nominativa ma
solo in casi espressamente previsti
avviamento al lavoro da parte degli uffici dei lavoratori previamente iscritti
annullabilità per iniziativa del pubblico ministero dei contratti di lavoro stipulati in
violazione delle norme sul collocamento
Questo sistema ha però sempre funzionato poco e male.
La Legge n. 482 del 2 aprile 1968 si preoccupò di regolare il cosiddetto collocamento
obbligatorio che all’art. 11 obbligava i datori di lavoro con più di 35 dipendenti, esclusi
apprendisti e dirigenti, ad assumere lavoratori appartenenti alle categorie protette per una aliquota
complessiva del 15% del personale in servizio.
Statuto dei lavoratori – art. 33 – Collocamento – (primo, secondo, terzo e quarto comma) – La
commissione per il collocamento di cui all’art. 26 della legge 29 aprile 1949, n. 264, è costituita
obbligatoriamente presso le sezioni zonali, comunali e frazionali degli Uffici provinciali del lavoro e della
massima occupazione, quando ne facciano richiesta le organizzazioni sindacali dei lavoratori più
rappresentative.
Alla nomina della commissione provvede il direttore dell’Ufficio provinciale del lavoro e della massima
occupazione, il quale, nel richiedere la designazione dei rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro,
tiene conto del grado di rappresentatività delle organizzazioni sindacali e assegna loro un termine di 15
giorni, decorso il quale provvede d’ufficio.
La commissione è presieduta dal dirigente della sezione zonale, comunale, frazionale, ovvero da un suo
delegato, e delibera a maggioranza dei presenti. In caso di parità prevale il voto del presidente.
La commissione ha il compito di stabilire e di aggiornare periodicamente la graduatoria delle precedenze per
l’avviamento al lavoro, secondo i criteri di cui al quarto comma dell’articolo 15 della legge 29 aprile 1949 n.
264.
LA PROGRESSIVA LIBERALIZZAZIONE DEL COLLOCAMENTO
Una tappa significativa della progressiva liberalizzazione del collocamento è costituita dallo
Statuto dei lavoratori che all’art. 33 ha reso obbligatoria la costituzione presso gli uffici del
lavoro, di commissioni di derivazione sindacale con la funzione di stabilire ed aggiornare
periodicamente, in base a criteri discrezionali, la graduatoria delle precedenze per l’avviamento al
lavoro.
Legge n. 223/1991 – art. 25 – Riforma delle procedure di avviamento al lavoro – A decorrere dal 1°
gennaio 1989, i datori di lavoro privati, che, ai sensi della legge del 29 aprile 1949 n. 264, e successive
modificazioni ed integrazioni, sono tenuti ad assumere i lavoratori facendone richiesta ai competenti
organi di collocamento, hanno facoltà di assumere tutti i lavoratori mediante richiesta nominativa. Tali
datori di lavoro sono tenuti, quando occupino più di dieci dipendenti e qualora effettuino assunzioni, ad
eccezione di quelle di cui alla disciplina del collocamento obbligatorio, a riservare il dodici per cento di
tali assunzioni ai lavoratori appartenenti alle categorie di cui al comma 5, anche quando siano assunzioni a
termine ai sensi dell’articolo 17 della legge 28 febbraio 1987 n. 56, purché rapportate al tempo annuale di
lavoro.
La Legge n. 223 del 23 luglio 1991 riguardante le norme in materia di cassa integrazione,
mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea,
avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro, all’art. 25
(riforma delle procedure di avviamento al lavoro) ha ammesso la richiesta nominativa in via
generale, mentre una norma poco chiara ha ammesso l’assunzione diretta, sostituendo la richiesta
all’Ufficio di collocamento con una comunicazione successiva. Il successivo principio del
monopolio pubblico del collocamento ha provocato all’Italia una condanna da parte della Corte di
Giustizia europea, che ha fatto cogliere così l’occasione di utilizzare una legge delega (la Legge
469/1997, cosiddetta Legge Bassanini sul decentramento) per emanare un decreto delegato che
ha mandato definitivamente in pensione il decrepito principio del monopolio pubblico sul
decentramento. La grande novità di questa legge fu quella di liberalizzare la mediazione privata,
anche se si tratta di una liberalizzazione controllata. Bisogna avvertire sul piano terminologico che
ciò che in precedenza si chiamava “collocamento” ed era riservato allo Stato, ora si chiama
“intermediazione” e che ciò che un tempo si chiamava “interposizione nelle prestazioni di
lavoro” ed era reato, oggi si chiama “somministrazione di lavoro”.
Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 5 – Requisiti giuridici e finanziari – I requisiti richiesti per
l’iscrizione all’albo di cui all’art. 4 sono:
a) la costituzione della agenzia nella forma di società di capitali ovvero cooperativa o consorzio di
cooperative, italiana o di altro Stato membro della Unione europea
b) la sede legale o una sua dipendenza nel territorio dello Stato o di altro Stato membro della Unione
europea
c) la disponibilità di uffici in locali idonei allo specifico uso e di adeguate competenze professionali
d) in capo agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti muniti di rappresentanza e ai soci
accomandatari: assenza di condanne penali
e) nel caso di soggetti polifunzionali, non caratterizzati da un oggetto sociale esclusivo, presenza di
distinte divisioni operative, gestite con strumenti di contabilità analitica, tali da consentire di
conoscere tutti i dati economico gestionali specifici
f) l’interconnessione con la borsa continua nazionale del lavoro di cui al successivo articolo 15
g) il rispetto delle disposizioni di cui all’art. 8 a tutela del diritto del lavoratore alla diffusione dei
propri dati nell’ambito da essi stessi indicato.
L’art. 5 (requisiti giuridici e finanziari) si occupa appunto di elencare questi requisiti (ne
riportiamo solo alcuni):
a) costituzione dell’agenzia nella forma di società di capitali, o cooperativa, o consorzi di
cooperative
b) sede legale o dipendenza nell’Unione europea
c) disponibilità di locali idonei
d) amministratori e dirigenti senza condanne penali per i delitti indicati
e) interconnessione con la borsa continua nazionale del lavoro
f) tutela del diritto del lavoratore di indicare i modi di diffusione dei propri dati personali
E’ da notare che è venuto meno il requisito dell’oggetto sociale esclusivo, quindi oggi è consentito
non solo di svolgere promiscuamente le diverse funzioni mediatorie, ma anche di svolgere altre
attività economiche e contemporaneamente di occuparsi di promuovere l’incontro tra domanda ed
offerta di lavoro.
Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 6 – Regimi particolari di autorizzazione – (primo, secondo e
quarto comma) – Sono autorizzate allo svolgimento delle attività di intermediazione le università
pubbliche e private, comprese le fondazioni universitarie che hanno come oggetto l’alta formazione con
specifico riferimento alle problematiche del mercato del lavoro, a condizione che svolgano la predetta
attività senza finalità di lucro e fermo restando l’obbligo dell’interconnessione alla borsa continua
nazionale del lavoro, nonché l’invio di ogni informazione relativa al funzionamento del mercato del lavoro
ai sensi di quanto disposto al successivo articolo 17.
Sono altresì autorizzate allo svolgimento della attività di intermediazione, secondo le procedure di cui al
comma 6, i comuni singoli o associati nelle forme delle unioni di comuni e delle comunità montane, le
camere di commercio e gli istituti di scuola secondaria di secondo grado, statali o paritari a condizione che
svolgano la predetta attività senza finalità di lucro, nonché l’invio di ogni informazione relativa al
funzionamento del mercato del lavoro ai sensi di quanto disposto dall’articolo 17.
L’ordine nazionale dei consulenti del lavoro può chiedere l’iscrizione all’albo di cui all’art. 4 di una
apposita fondazione o di altro soggetto giuridico dotato di personalità giuridica costituito nell’ambito del
Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro per lo svolgimento a livello nazionale di attività di
intermediazione.
Legge n. 68/1999 – art. 3 – Assunzioni obbligatorie. Quote di riserva – I datori di lavoro pubblici e
privati sono tenuti ad avere alle loro dipendenze lavoratori appartenenti alle categorie di cui all’articolo 1
nella seguente misura:
a) sette per cento dei lavoratori occupati, se occupano più di 50 dipendenti
b) due lavoratori, se occupano da 36 a 50 dipendenti
c) un lavoratore, se occupano da 15 a 35 dipendenti
L’art. 3 (assunzioni obbligatorie. Quote di riserva) sostituisce alla precedente percentuale del
15% che gravava solamente sulle imprese con più di 35 dipendenti, una percentuale per tutti più
bassa ma graduata: il 7% di disabili per i datori di lavoro con più di 50 dipendenti; 2 disabili per i
datori di lavoro che occupano da 36 a 50 dipendenti; 1 disabile per chi occupa da 15 a 35
dipendenti.
Per quanto riguarda l’esecuzione dell’obbligo di assunzione l’art. 2099 (retribuzione) del Codice
Civile sancisce che in caso di insufficiente determinazione delle mansioni nel corso del
procedimento di collocamento obbligatorio, di fronte al rifiuto del datore di lavoro di assumere il
lavoratore avviato, questi non potrà chiedere al giudice la costituzione con sentenza del rapporto,
ma dovrà accontentarsi di esperire una azione risarcitoria.
Quando l’attività mediatoria non si esaurisce con la stipulazione del contratto di lavoro, ma si
protrae anche durante lo svolgimento del rapporto, si parla di interposizione nel lavoro. Le forme
giuridiche adottate nel corso del tempo per l’interposizione nel lavoro sono molteplici e quella più
frequentemente utilizzata nella dottrina italiana del ‘900 è il cottimo collettivo nel quale
l’imprenditore contratta con un capo – squadra che ripartisce poi tra i membri della squadra la
retribuzione a cottimo conseguita. La dottrina solitamente a questo proposito distingue fra cottimo
collettivo subordinato, caratterizzato dall’interposizione solo nelle fase della stipulazione del
contratto, e cottimo collettivo autonomo, nel quale si realizza propriamente l’interposizione nella
prestazione di lavoro.
Art. 2127 – Divieto d’interposizione nel lavoro a cottimo – E’ vietato all’imprenditore di affidare a
propri dipendenti lavori a cottimo da eseguirsi da prestatori di lavoro assunti e retribuiti direttamente dai
dipendenti medesimi.
In caso di violazione di tale divieto, l’imprenditore risponde direttamente, nei confronti dei prestatori di
lavoro assunti dal proprio dipendente, degli obblighi derivanti dai contratti di lavoro da essi stipulati.
Nel 1960 è stato ritenuto opportuno un nuovo intervento legislativo avente lo scopo di reprimere
direttamente anche le altre formule di interposizione che si sono diffuse nella pratica: infatti la legge
n. 1369 del 1960 riguardante il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di
lavoro e la nuova disciplina dell’impiego di mano d’ opera negli appalti di opere e di servizi
dettò una disciplina organica della materia di cui i caratteri generali sono tre:
Legge n. 1369/1960 – art. 1 – (primo, terzo e quinto comma) – E’ vietato all’imprenditore di affidare in
appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere
prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o
dall’intermediario, qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono.
……
E’ considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o di subappalto, anche per
esecuzione di opere o di servizi, ove l’appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite
dall’appaltante, quand’anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all’appaltante.
……
I prestatori di lavoro, occupati in violazione dei divieti posti dal presente articolo, sono considerati, a tutti
gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni.
A. ampliamento delle ipotesi di interposizione vietata: all’art. 1 di questa legge non è vietata
soltanto l’interposizione nel cottimo, ma ogni forma di interposizione reale nella prestazione
di lavoro, qualunque fosse la natura dei contratti adottati per realizzarla. L’ampiezza del
quadro al quale questo articolo si riferisce, richiede quindi una attenta individuazione dei
reali limiti del divieto per evitare che esso finisca non l’incidere anche sull’appalto
genuinamente riconducibile alla funzione assegnata dall’ordinamento a questo tipo di
negozio. Secondo il terzo comma sempre dell’art. 1 l’elemento differenziale tra l’appalto
che è un istituto che rimane legittimo, e l’interposizione nella prestazione di lavoro, che la
legge chiama anche “appalto di mere prestazioni di lavoro” è dato dalla presenza nel primo
istituto di un sostanziale apporto di capitali, macchine ed attrezzature da parte
dell’appaltatore
B. aggravamento delle sanzioni: le sanzioni sull’interposizione ingiustificata erano sia
civili che penali: sul piano civile la violazione del divieto di interposizione comportava che
i prestatori di lavoro assunti e retribuiti dall’interposto fossero considerati a tutti gli effetti
alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni e
quindi il rapporto di lavoro si instaurava anziché secondo quanto voluto dalle parti, cioè fra
lavoratori ed interposto, fra i primi e l’interponente
Legge n. 1369/1960 – art. 5 – Le disposizioni di cui all’art. 3 della presente legge non si
applicano:
a) agli appalti per costruzioni edilizie all’interno degli stabilimenti
b) agli appalti per installazione o montaggio di impianti e macchinari
c) ai lavori di manutenzione straordinaria
d) ai trasporti esterni da e per lo stabilimento
e) agli appalti che si riferiscono a particolari attività produttive
f) agli appalti per prestazioni saltuarie e occasionali, di breve durata
g) agli appalti per l’esecuzione dei lavori di facchinaggio, di pulizia e di manutenzione
ordinaria degli impianti
h) agli appalti per la gestione dei posti telefonici pubblici
C. applicazione della tutela minima anche ad ipotesi di interposizione non vietata: nel caso
in cui l’appalto avesse riguardato opere o servizi da eseguirsi nell’interno dell’azienda
dell’imprenditore appaltante e non ricorressero certe eccezioni, l’interposizione giustificata
dava luogo ad una responsabilità dell’appaltatore e dell’appaltante, nei confronti dei
dipendenti dell’appaltatore, per non ricevere un trattamento inferiore a quello tenuto nei
confronti dei dipendenti dell’appaltante. Queste eccezioni vengono sancite all’art. 5 e sono
le seguenti: appalti per costruzioni edilizie all’interno degli stabilimenti, appalti per
l’installazione di impianti e macchinari, lavori di manutenzione straordinaria, trasporti
esterni da e per lo stabilimento, appalti che si riferiscono a particolari attività produttive,
appalti per prestazioni saltuarie e di breve durata, appalti per l’esecuzione di lavori di
facchinaggio, pulizia e manutenzione ordinaria degli impianti ed infine appalti per la
gestione di posti telefonici pubblici.
La legge del 1960 appartiene alla stagione del cosiddetto garantismo ad oltranza, cioè alla stagione
in cui la tutela dei lavoratori occupati era la prima preoccupazione del legislatore. In realtà
nell’applicazione pratica di queste disposizioni è stato riscontrato più volte che l’ampliamento della
fattispecie dell’interposizione vietata era eccessivo, perché poteva condurre ad applicare le sanzioni,
anche quelle penali, a situazioni in cui la ratio di tutela del lavoratore non era in realtà riscontrabile.
Una modifica radicabile della legge n. 1369 del 1960 è stata introdotta da una legge che porta
come titolo NORME IN MATERIA DI PROMOZIONE DELL’OCCUPAZIONE, meglio
conosciuta come “Pacchetto Treu”; questa legge oltre a modificare le regole sul contratto di
lavoro a tempo determinato, sull’orario di lavoro e sui vari contratti di formazione, ha introdotto
nell’ordinamento, con la denominazione di “lavoro temporaneo” una possibilità di deroga al divieto
di interposizione. Questa legge è stata poi addirittura abrogata dalla riforma Biagi, nella quale
dell’interposizione non rimane nemmeno il nome perché viene chiamata “somministrazione di
lavoro”. Regola caratterizzante la nuova disciplina giuridica è che l’interposizione nel rapporto di
lavoro non è più illecita in linea di principio ma è soltanto stabilito che per interporsi
legittimamente bisogna prima ottenere l’iscrizione nell’apposito albo, lo stesso albo al quale si
deve essere iscritti per fare i collocatori e quindi per mediare solamente in fase di stipulazione del
contratto. bisogna infine precisare che le caratteristiche finanziarie stabilite per l’autorizzazione
anche alla somministrazione di lavoro sono più elevati di quelli stabiliti per l’autorizzazione alla
sola intermediazione.
L’art. 20 del Decreto Legislativo n. 276/2003 (riforma Biagi) stabilisce che “per tutta la durata
della somministrazione i lavoratori svolgono la propria attività nell’interesse e sotto il
controllo e la direzione dell’utilizzatore”: questo significa che datore di lavoro è l’impresa
utilizzatrice che giustamente viene indicata anche come il soggetto a cui spettano la direzione ed il
controllo.
Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 23 – Tutela del prestatore di lavoro, esercizio del potere
disciplinare e regime di solidarietà – (quinto comma) – Il somministratore informa i lavoratori
sui rischi per la sicurezza e la salute connessi alle attività produttive in generale e li forma e
Decreto
addestra all’uso Legislativo
delle attrezzaturen. di
276/2003 – art. 21 –allo
lavoro necessarie Forma del contratto
svolgimento di somministrazione
della attività lavorativa per – (primo comma)
– Il contratto di somministrazione di manodopera è stipulato in forma
la quale essi vengono assunti in conformità alle disposizioni recate dal decreto legislativo scritta e contiene19i seguenti elementi:
a) gli estremi dell’autorizzazione rilasciata al somministratore
settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni ed integrazioni. Il contratto di
somministrazione b) può
il numero dei lavoratori
prevedere da somministrare
che tale obbligo sia adempiuto dall’utilizzatore; in tale caso ne va
fatta indicazionec) nel
i casi e le ragioni
contratto con diil carattere tecnico,
lavoratore. produttivo,
Nel caso in cui organizzativo
le mansioni cui e sostitutivo
è adibitodiilcui al terzo e quarto
comma dell’art. 20
prestatore di lavoro richiedano una sorveglianza medica speciale o comportino rischi specifici,
l’utilizzatore ned)informa
l’indicazione della conformemente
il lavoratore presenza di eventuali
a quanto rischi per l’integrità
previsto dal decretoe legislativo
la salute del
19 lavoratore e delle
misure di prevenzione adottate
settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni ed integrazioni. L’utilizzatore osserva altresì,
nei confronti dele) medesimo
la data di inizio e la durata
prestatore, tutti prevista del contratto
gli obblighi di somministrazione
di protezione previsti nei confronti dei
propri dipendenti ed è responsabile per la violazione degli obblighieddiil sicurezza
f) le mansioni alle quali saranno adibiti i lavoratori loro inquadramento
individuati dalla
g) il collettivi.
legge e dai contratti luogo, l’orario e il trattamento economico e normativo delle prestazioni lavorative
h) assunzione da parte del somministratore della obbligazione del pagamento diretto al lavoratore del
trattamento economico, nonché del versamento dei contributi previdenziali
In
coerenza con l’idea di partenza, secondo la quale i lavoratori somministrati sarebbero alle
dipendenze dell’impresa fornitrice sembra che la legge supponga che il debitore della retribuzione
sia appunto l’impresa fornitrice; in realtà questo non viene detto nell’articolo che si occupa di
questo aspetto della somministrazione di lavoro, ovvero l’art. 23, il quale dice semplicemente che i
lavoratori “hanno diritto” senza specificare nei confronti di chi. In realtà successivamente viene
precisato che i lavoratori hanno diritto ad “un trattamento economico e normativo
complessivamente non inferiore a quello degli altri dipendenti dell’utilizzatore a parità di
mansioni svolte”. Il terzo comma dell’art. 23 stabilisce che “l’utilizzatore è obbligato in solido
con il somministratore a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi
previdenziali”: in teoria quindi il credito retributivo potrebbe farsi valere nei confronti di entrambi
le imprese, ma in realtà chi in definitiva è tenuto a pagare il lavoratore è l’impresa utilizzatrice,
perché l’art. 21 sancisce che se il pagamento è stato effettuato dall’impresa fornitrice, la prima è
obbligata a rimborsare alla seconda “gli oneri retributivi e previdenziali da questa
effettivamente sostenuti in favore dei prestatori di lavoro”; bisogna però a questo punto
precisare che l’utilizzatore deve comunque pagare al somministratore più di quanto questo paga ai
lavoratori e agli istituti previdenziali, perché deve anche pagare il costo del servizio che il
somministratore svolge. L’art. 23 si occupa degli obblighi di protezione per la sicurezza che
vengono accollati all’utilizzatore salvo un preventivo obbligo di informazione e di addestramento
che possono essere scaricati anche essi sull’utilizzatore. Al settimo comma dello stesso articolo è
previsto l’unico potere che spetta al somministratore, ossia il potere disciplinare e non si può in
questo caso fare altro se non criticare la scelta legislativa che attribuisce ad un soggetto estraneo
all’organizzazione produttiva un potere finalizzato al mantenimento dell’ordine all’interno
dell’impresa, ma probabilmente questa scelta normativa è da imputare alla considerazione del
licenziamento disciplinare perché se supponiamo che sia il somministratore a stipulare con il
lavoratore il contratto, allora dobbiamo supporre che spetti ad esso anche l’atto estintivo.
La disciplina giuridica introdotta nel 1997 con il “Pacchetto Treu” prevedeva e disciplinava due
diversi tipi di contratti: quello fra l’impresa fornitrice e l’impresa utilizzatrice, che veniva chiamato
“contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo” e quello fra l’impresa fornitrice ed
il lavoratore che veniva invece chiamato “contratto per prestazioni di lavoro temporaneo”. Nella
Riforma Biagi però è previsto e regolato solamente il primo dei due contratti, come se soltanto
questo costituisse la fonte del rapporto trilaterale di cui si tratta, anche s e non è pensabile che
questo tipo di rapporto si possa creare senza una manifestazione di volontà anche del lavoratore.
Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 22 – Disciplina dei rapporti di lavoro – (secondo, terzo e quarto
comma) - …..
In caso di somministrazione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e prestatore di
lavoro è soggetto alla disciplina di cui al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, per quanto
compatibile, e in ogni caso con esclusione delle disposizioni di cui all’articolo 5, commi 3 e 4. Il termine
inizialmente posto al contratto di lavoro può in ogni caso essere prorogato, con il consenso del lavoratore e
per atto scritto, nei casi e per la durata prevista dal contratto collettivo applicato dal somministratore.
Nel caso in cui il lavoratore sia assunto con contratto stipulato a tempo indeterminato, nel medesimo è
stabilita la misura della indennità mensile di disponibilità, divisibile in quote orarie, corrisposta dal
somministratore al lavoratore per i periodi nei quali il lavoratore stesso rimane in attesa di assegnazione.
La misura di tale indennità è stabilita dal contratto collettivo applicabile al somministratore e comunque
non è inferiore alla misura prevista, ovvero aggiornata periodicamente, con decreto del Ministro del lavoro
e delle politiche sociali. La predetta misura è proporzionalmente ridotta in caso di assegnazione ad attività
lavorativa a tempo parziale anche presso il somministratore. L’indennità di disponibilità è esclusa dal
computo di ogni istituto di legge o di contratto collettivo.
Le disposizioni di cui all’articolo 4 della legge 23 luglio 1991, n. 223, non trovano applicazione anche nel
caso di fine dei lavori connessi alla somministrazione a tempo indeterminato. In questo caso trovano
applicazione l’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e le tutele del lavoratore di cui all’articolo 12.
Una indiretta conferma di questo si trova nell’art. 22 che comprende il principio di contrattualità
del rapporto di lavoro che si deve intendere come necessaria espressione di volontà sia
dell’imprenditore sia del lavoratore. Abbiamo detto in precedenza che il rapporto di
somministrazione di lavoro è un rapporto trilaterale, quindi anche il contratto da cui esso deriva è
trilaterale, ma dalla regolamentazione complessiva dell’istituto si desume che non è richiesta la con
testualità delle tre espressioni di volontà: infatti il legislatore regolamenta solamente il contratto tra
utilizzatore e somministratore dimostrando di considerare la stipulazione di questo contratto come
momento decisivo per la costituzione del rapporto; bisogna però precisare che questa costituzione
può avvenire solamente se alla stipulazione partecipa anche il lavoratore, o se come normalmente
succede il somministratore è munito del potere di rappresentarlo.
Il Pacchetto Treu configurava il rapporto tra lavoratore ed utilizzatore come un rapporto sempre a
tempo determinato, chiamandolo appunto “lavoro temporaneo”; la legge tuttavia distingueva tra
contratto “a tempo determinato” e contratto “a tempo indeterminato”: nel secondo il lavoratore
lavorava sempre solo per un periodo di tempo prefissato alle dipendenze dell’impresa utilizzatrice,
ma scaduto il tempo previsto si immaginava che dovesse rimanere a disposizione dell’impresa
fornitrice in attesa di essere inviato a lavorare per un’altra impresa utilizzatrice, ma in realtà questo
meccanismo non ha funzionato quasi mai perché in generale non c’era alcun interesse per l’impresa
di mantenere a proprie spese la disponibilità di un dipendente. Nella riforma Biagi le due ipotesi di
contratto di lavoro vengono nuovamente menzionate, ma questa volta per stabilire che se la
somministrazione è a tempo indeterminato si applica la disciplina generale dei rapporti di
lavoro, mentre se la somministrazione è a tempo determinato dovrebbe applicarsi la legge sul
contratto a termine. Ma la novità più importante è un’altra: dalla nuova regolamentazione si ricava
che può essere a tempo indeterminato anche il lavoro per l’utilizzatore e questo significa che è
possibile avere un prestatore di lavoro somministrato che lavora a tempo indeterminato sempre per
lo stesso utilizzatore, ma sempre fittiziamente dipendente dal somministratore; in base a quello che
si può ricavare dal quarto comma dell’art. 22 questo lavoratore potrà essere licenziato per
riduzione di personale senza seguire la procedura corrispondente. Si deve poi tenere presente che la
legge stabilisce dei limiti di carattere funzionale alla somministrazione di lavoro, distinguendo però
due criteri diversi per il contratto a tempo indeterminato e per quello a tempo determinato:
per il primo la somministrazione è ammessa per servizi di consulenza ed assistenza nel settore
informatico, per servizi di custodia, portineria e pulizia, per servizi di trasporto da e per lo
stabilimento, per la gestione di parchi, musei, ecc.., per attività di consulenza direzionale, per
attività di marketing, per la gestione di call center e per costruzioni edilizie all’interno degli
stabilimenti; per il contratto a tempo determinato invece il limite funzionale è indicato in maniera
generica cioè “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo,
anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore”.
Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 18 – Sanzioni penali – (primo comma) – L’esercizio non
autorizzato delle attività di cui all’articolo 4, comma 1, è punito con la sanzione dell’ammenda di Euro 5
per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro. L’esercizio abusivo delle attività di
intermediazione è punito con la pena dell’arresto fino a sei mesi e l’ammenda da Euro 1.500 a Euro 7.500.
Se non vi è scopo di lucro la pena è della ammenda da Euro 500 a Euro 2.500. Se vi è sfruttamento dei
minori la pena è dell’arresto fino a diciotto mesi e l’ammenda è aumentata fino al sestuplo. Nel caso di
condanna, è disposto in ogni caso la confisca del mezzo di trasporto eventualmente adoperato per
l’esercizio delle attività di cui al presente comma.
Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 28 – Somministrazione fraudolenta – Ferme restando le
sanzioni di cui all’articolo 18, quando la somministrazione di lavoro è posta in essere con la specifica
finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al lavoratore,
somministratore e utilizzatore sono puniti con una ammenda di 20 euro per ciascun lavoratore
coinvolto e ciascun giorno di somministrazione.
Il nuovo testo legislativo, la Riorma Biagi, regola con l’art. 27 le sanzioni civili e con gli artt. 18 e
28 le sanzioni penali. Una norma veramente singolare che si trova al primo comma dell’art. 27
anziché indicare la sanzione per la violazione delle norma indicate, attribuisce al lavoratore il potere
di chiedere al giudice “la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze
dell’utilizzatore”; il fatto più grave è però che la norma stabilisce in modo inequivocabile che il
ricorso al giudice per ottenere l’effetto indicato può essere “notificato anche soltanto al soggetto
che ne ha utilizzato la prestazione”. Per quanto riguarda invece le sanzioni penali è da notare che
si tratta di ammende e, per i casi considerati più gravi, di arresto; la ratio di questa scelta può essere
costituita dal proposito del legislatore di eliminare rilevanza alla prova del dolo.
Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 29 – Appalto – (primo comma) – Ai fini della applicazione delle
norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’articolo
1655 del codice Civile si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi
necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del
servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori
utilizzati nell’appalto, nonché per l’assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio di impresa.
L’art. 29 stabilisce che è considerato appalto “l’organizzazione dei mezzi necessari da parte
dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera e del servizio
dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei
lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per l’assunzione, da parte del medesimo appaltatore,
del rischio di impresa”: il legislatore con questo articolo ha voluto ampliare le ipotesi di appalto
legittimo e infatti ad oggi perché esista vero appalto non occorre più che capitali, macchine ed
attrezzature siano dell’appaltatore, ma è sufficiente che vi sia da parte di questi “l’esercizio del
potere organizzativo direttivo, nonché “l’assunzione del rischio di impresa”. Un’altra linea di
confine che la riforma Biagi si occupa oggi di segnare è quella tra somministrazione di lavoro e
distacco a proposito del quale è necessario ricordare che precedentemente veniva anche chiamato
comando ed era legislativamente regolato nel pubblico impiego e non nel rapporto di lavoro privato.
Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 30 – Distacco – (primo, secondo e terzo comma) – L’ipotesi del
distacco si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone
temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata
attività lavorativa.
In caso di distacco il datore di lavoro rimane responsabile del trattamento economico e normativo a favore
del lavoratore.
Il distacco che comporti un mutamento di mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore
interessato. Quando comporti un trasferimento a unità produttiva sita a più di 50 km da quella in cui il
lavoratore è adibito, il distacco può avvenire soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative,
produttive o sostitutive.
All’art. 30 il distacco viene definito utilizzando i criteri di identificazione che sono consolidati
dalla giurisprudenza ossia la presenza di un interesse del datore di lavoro distaccante e la
temporaneità.
Il rapporto fondamentale di lavoro per costituirsi ha bisogno del contratto di lavoro e solo di esso. È
appunto il rapporto fondamentale di lavoro che nasce nel momento in cui il contratto di lavoro si
perfeziona e si estingue nel momento in cui si perfeziona uno di quei fatti come la scadenza del
termine, il recesso, l’impossibilità totale e definitiva della prestazione, che la legge considera
estintivi del rapporto.
Non è invece esatto ricondurre direttamente al contratto di lavoro, o solo ad esso, tutte le singole
posizioni giuridiche, attive o passive, favorevoli o sfavorevoli all’una o all’altra parte che fanno
parte del rapporto di lavoro quando questo si configura come un rapporto complesso; invero tra
tutte queste posizioni giuridiche ce ne sono alcune che possono derivare direttamente dal contratto,
altre che hanno per loro normale presupposto il contratto, altre ancora per cui il contratto costituisce
un presupposto necessario, ma non sufficiente essendo necessario per la loro nascita che al contratto
conseguano altri atti o fatti, che insieme al contratto ne realizzano la fattispecie. Facciamo alcuni
esempi che ci aiuteranno a comprendere meglio:
Art. 1460 – Eccezione d’inadempimento – Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei
contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere
contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano stati stabiliti dalle parti
o risultino dalla natura del contratto.
Tuttavia non può rifiutarsi l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona
fede.
È normale che la retribuzione periodica sia posticipata, e cioè che sia convenuto che il pagamento
debba essere effettuato a varie scadenze, ciascuna successiva al periodo di lavoro a cui si riferisce;
in tal caso però l’obbligazione di effettuare ciascun pagamento non solo nasce al momento del
perfezionamento del contratto di lavoro, ma a quel momento è ancora incerto se nascerà, perché
potrebbe darsi che per esempio il lavoratore si rendesse inadempiente alle sue obbligazioni e allora,
come stabilisce l’art. 1460 del Codice Civile, quell’obbligazione non nascerebbe mai.
Un altro esempio è che la possibilità, secondo l’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, di irrogare
sanzioni disciplinari sia condizionata alla preventiva affissione delle norme disciplinari “in un luogo
accessibile a tutti”. Potere disciplinare e correlativa soggezione non possono quindi considerarsi
costitutivi direttamente del contratto di lavoro, ma da una fattispecie complessa nella quale
l’affissione, che può essere anteriore o successiva al contratto, entra certamente come elemento
essenziale.
L’obbligazione di lavoro è una obbligazione che non deve né può essere adempiuta se il datore di
lavoro non ne specifica le modalità di esecuzione.
Art. 2104 – Diligenza del prestatore di lavoro – Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta
dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione
nazionale.
Deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite
dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.
Quindi anche dopo la stipulazione del contratto di lavoro e la scadenza dell’eventuale termine
iniziale, fino a quando il datore di lavoro, direttamente o attraverso un suo preposto, non impartisce
le disposizioni per l’esecuzione del lavoro, il lavoratore può avere al massimo il dovere di
presentarsi al lavoro e di tenersi a disposizione, ma non ancora il dovere di lavorare.
Perché l’obbligazione di lavoro si costituisca, la stipulazione di un valido contratto di lavoro è sì
necessaria, ma non sufficiente, essendo altresì necessario che alla stipulazione del contratto seguano
le disposizioni per l’esecuzione del lavoro come stabilito dall’art. 2104. Inoltre poiché è
connaturale al rapporto di lavoro che non una sola volta, ma più e più volte nel corso dello
svolgimento del rapporto di lavoro vengano impartite delle disposizioni esecutive, si può concepire
meglio l’obbligazione di lavoro non come una singola obbligazione, ma come un insieme si singole
obbligazioni che si succedono una all’altra, trovando ciascuna la propria fonte in una fattispecie
complessa costituita, oltre che dal contratto di lavoro anche dalle ultime disposizioni esecutive.
In realtà si può anche parlare di una obbligazione di lavoro unica, della quale le disposizioni per
l’esecuzione del lavoro realizzano periodiche modifiche di contenuto, ma secondo l’autore questa
concezione spiega meno bene le peculiarità del rapporto e costringe a ricorrere a costruzioni
inutilmente farraginose.
Art. 1467 – Contratto con prestazioni corrispettive – Nei contratti ad esecuzione continuata o periodica
ovvero ad esecuzione differita, se la prestazione di una delle due parti è divenuta eccessivamente onerosa
per il verificarsi di avvenimenti straordinari ed imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può
domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall’art. 1458.
La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale del
contratto.
La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le
condizioni del contratto.
Il lavoratore è obbligato a lavorare solo secondo le disposizioni ricevute, quindi se non riceve
congrue disposizioni non è obbligato a lavorare, fermo restando l’obbligo dell’imprenditore di
retribuire alle scadenze pattuite, se non possa invocare una causa di esonero, come l’altrui
inadempimento previsto all’art. 1460 o l’impossibilità della prestazione propria o dell’altra parte,
disciplinata all’art. 1467.
Il rapporto di lavoro è una realtà statica solo nel suo aspetto di rapporto fondamentale. Per tutto il
resto è una realtà dinamica e in continuo movimento ed è proprio all’interno di questo contesto
dinamico che si qualificano le modificazioni del rapporto.
A rigore il rapporto di lavoro è sempre in continua modificazione. Se solamente con riguardo a
specifici fatti si parla di modificazioni del rapporto, questo avviene soprattutto perché si vogliono
evidenziare quei fatti che realizzano modificazioni di maggiore rilievo. Quindi la differenza tra fatti
modificativi e fatti evolutivi non è qualitativa, ma quantitativa e come tale è possibile individuarla
in base a criteri discrezionali ed arbitrali.
Bisogna però precisare che maggiore o minore rilievo della modifica, non significa maggiore o
minore importanza pratica della stessa, ne nella valutazione delle parti, né secondo un ipotetico
apprezzamento; il rilievo a cui si fa riferimento è il rilievo giuridico, cioè quello che dipende da una
valutazione dell’ordinamento. A questo proposito possiamo dire che è modifica e non mera vicenda
evolutiva, quella che come tale è valutata dall’ordinamento, il quale perciò la assoggetta a
particolari condizioni o limiti.
Quando si parla di modificazioni di un rapporto si intende collocarsi dal punto di vista
dell’ordinamento, che, in relazione alla permanenza di una parte degli elementi del rapporto
precedente, applica in tutto o in parte al nuovo rapporto che lo sostituisce la medesima disciplina
giuridica. È chiaro, quindi che, come la distinzione tra mero svolgimento e modificazione del
rapporto, così anche quella tra modificazione e novazione è una distinzione quantitativa e non
qualitativa: parliamo di modificazione del rapporto di lavoro quando alla situazione che segue il
fatto modificativo si applica nell’insieme il trattamento giuridico della situazione anteriore, anche se
alcune posizioni risultano diverse. Se le differenze di rilievo assumono rilievo ponderante allora non
si ha più modificazione ma addirittura novazione.
Quando viene sostituito uno dei soggetti del rapporto di lavoro si parla in genere indifferentemente
di modificazione soggettiva, o sostituzione soggettiva, o successione nel rapporto di lavoro. La
modificazione soggettiva potrebbe, in realtà, essere intesa anche come modificazione non
dell’identità ma solo delle qualità di uno dei soggetti.
È opinione comune che la sostituzione soggettiva del lavoratore non sia ammessa ad alcun titolo del
nostro ordinamento e si esclude così sia la successine mortis causa, sia la cessione del contratto
anche se il datore di lavoro vi consenta.
Art. 1256 – Impossibilità definitiva e impossibilità temporanea – L’obbligazione si estingue quando, per
una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile.
Se l’impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo
nell’adempimento. Tuttavia l’obbligazione si estingue se l’impossibilità perdura fino a quando, in relazione
al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato ad
eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse ad conseguirla.
Art. 1463 – Impossibilità totale – Nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la
sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la contro prestazione, e deve restituire
quella che già abbia ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito.
Art. 2118 – Recesso del contratto a tempo indeterminato – (terzo comma) - ……. La stessa indennità è
dovuta dal datore di lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro.
Art. 2122 – Indennità in caso di morte – In caso di morte del prestatore di lavoro, le indennità indicate agli
artt. 2118 e 2120 devono corrispondersi al coniuge, ai figli, e, se vivevano a carico del prestatore di lavoro,
ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo grado.
La ripartizione delle indennità, se non vi è accordo tra gli aventi diritto, deve farsi secondo il bisogno di
ciascuno.
In mancanza delle persone indicate nel primo comma, le indennità sono attribuite secondo le norme della
successione legittima.
È nullo ogni patto anteriore alla morte del prestatore di lavoro circa l’attribuzione e la ripartizione delle
indennità.
Per la verità la non sostituzione del prestatore di lavoro per effetto della morte dello stesso si deduce
facilmente, oltre che dal fatto che in questo caso la morte provoca una impossibilità totale e
definitiva della prestazione, comportante l’automatica estinzione del vincolo obbligatorio (art.
1256) e perciò la risoluzione di diritto del contratto (art. 1463), anche più specificamente dalla
conferma data dal terzo comma dell’art. 2118 e dall’art. 2122 che regolano per il caso di morte
l’attribuzione dell’indennità di fine rapporto dando per scontato ovviamente, che con la morte il
rapporto abbia fine. Meno agevole è la dimostrazione dell’incedibilità del rapporto per atto fra vivi,
che si affida a quell’infungibilità della prestazione: questo significa che nel contratto di lavoro è
dedotta una prestazione di fare infungibile, caratterizzata anche dall’essere una attività di una certa
persona e non di qualsiasi altra; questo prova che la sostituzione della persona del lavoratore
comporta necessariamente anche un mutamento della prestazione dovuta, cioè che la successione
nella posizione di prestatore di lavoro è modificazione soggettiva ed oggettiva insieme.
Il problema relativo alla possibilità di una sostituzione nella posizione di prestatore di lavoro
consiste nell’accertare se sia possibile che ad un prestatore se ne sostituisca un altro, conservando al
rapporto con il secondo il trattamento giuridico applicato al rapporto con il primo. Dalla scarsità di
giurisprudenza pratica relativa a casi di sostituzione soggettiva nella posizione di lavoratore, si è
dedotta la quasi assoluta inesistenza di situazioni concrete dalle quali emergano interessi
individuali, e tanto meno di gruppo, ad utilizzare dei meccanismi negoziali di sostituzione di un
lavoratore ad un altro.
Comunque, il fenomeno sociale della cessione del contratto di lavoro da parte del lavoratore esiste e
il problema che lo riguarda consiste nello stabilire quali siano i suoi effetti giuridici ed in particolare
se si tratti di negozi leciti.
TRATTAMENTO GIURIDICO DELLA CESSIONE DEL POSTO DI LAVORO
Al problema impostato in questo modo, secondo l’autore, deve darsi risposta negativa in relazione
alla negazione al lavoratore cedente dei diritti conseguenti all’estinzione del rapporto, collegata al
riconoscimento al lavoratore cessionario dell’anzianità maturata dal primo.
Art. 1411 – Contratto a favore di terzi – E’ valida la stipulazione a favore di un terzo qualora lo
stipulante ne abbia interesse.
Salvo patto contrario, il terzo acquista il diritto contro il promettente per effetto della stipulazione.
Questa però può essere revocata o modificata dallo stipulante, finché il terzo non abbia dichiarato, anche
in confronto del promettente, di volerne profittare.
In caso di revoca della stipulazione o di rifiuto del terzo di profittarne, la prestazione rimane a beneficio
dello stipulante, salvo che diversamente risulti dalla volontà delle parti o dalla natura del contratto.
Questo ultimo effetto è certamente ottenibile attraverso un patto tra lavoratore cessionario e
imprenditore ceduto, sia per un patto a favore di terzo fra imprenditore e lavoratore (art. 1411), sia
eventualmente per patto trilaterale.
La ratio dell’attribuzione di tale trattamento è quella di assicurare una particolare disponibilità
economica al prestatore di lavoro nel momento in cui per lui viene meno il lavoro e di conseguenza
il godimento della retribuzione periodica; il fatto che in caso di cessione la retribuzione periodica
venga attribuita ad un altro soggetto non altera lo stato del lavoratore cedente rispetto alla situazione
conseguente ogni altra ipotesi di estinzione del rapporto di lavoro. Ad esso dovrà quindi essere
corrisposto il trattamento di fine rapporto.
Si aggiunga poi che proprio perché non si può parlare di una valida cessione di un rapporto
preesistente, potrebbe anche esserci una violazione delle residue norme sul collocamento.
Stranamente, la stessa dottrina che sulla base della rilevanza della personalità della prestazione di
lavoro, esclude la cessione definitiva del posto di lavoro, ammette invece la sostituzione
temporanea, a patto che questa sia autorizzata dal datore di lavoro. Questa ammissione, condivisa
anche da parte della giurisprudenza, è però contraddittoria a quella esclusione: la verità è che
sarebbero possibili sia la sostituzione definitiva, sia quella temporanea, col solo limite derivante
ovviamente dall’eventuale incapacità del sostituito; ma il problema da risolvere è quello del
trattamento giuridico da applicare. Infatti nel caso in cui la sostituzione sia configurata come un
ricorso del prestatore originario all’opera di altri lavoratori per l’esecuzione della prestazione, allora
si ricade probabilmente nella somministrazione di lavoro.
Legge n. 877/1973 – art. 1 – (primo comma) – E’ lavoratore a domicilio chiunque, con vincolo di
subordinazione, esegue nel proprio domicilio o in locale di cui abbia disponibilità, anche con l’aiuto
accessorio di membri della sua famiglia conviventi e a carico, ma con esclusione di manodopera
salariata e di apprendisti, lavoro retribuito per conto di uno o più imprenditori, utilizzando materie prime
o accessorie e attrezzature proprie o dello stesso imprenditore, anche se fornite per il tramite di terzi.
Altrimenti il ricorso all’opera di ausiliari è espressamente consentito solo in certi rapporti di lavoro
speciali, per i quali le norme derogano in proposito alle regole sulla somministrazione di lavoro: il
lavoro a domicilio, nel quale il prestatore può ricorrere all’aiuto accessorio di membri della sua
famiglia conviventi e a carico (art. 1 comma 1 della legge n. 877 del 18 dicembre 1973 sulle
nuove norme per la tutela del lavoro a domicilio); il portierato, per il quale è prevista dalla
contrattazione collettiva un dovere del portiere di designare una persona idonea a sostituirlo, che
però deve essere iscritto nell’apposito registro presso l’autorità locale di pubblica sicurezza. Se
invece la sostituzione venga realizzata con l’instaurazione di un voluto rapporto diretto con il
sostituito, a questo si applicheranno tutte le norme imperative sulla costituzione e sull’estinzione del
rapporto di lavoro, comprese quelle che determinano la possibili cause di estinzione e le
conseguenze patrimoniali dell’estinzione stessa.
Si tenga poi presente che è un fenomeno completamente diverso dalla cessione definitiva o dalla
sostituzione temporanea del posto di lavoro, è il nuovo istituto giuridico del lavoro ripartito.
Così come è chiara l’insostituibilità del lavoratore, è fuori discussione anche che nella posizione di
datore di lavoro sia ammessa ogni forma di successione, a causa di morte e tra vivi.
Art. 2112 – Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda – (primo,
secondo, terzo e quarto comma) – In caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con
il cessionario e il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano.
Il cedente ed il cessionario sono obbligati in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva ai tempi del
trasferimento. Con le procedure di cui agli art. 410 e 411 del codice di procedura civile il lavoratore può
consentire la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.
Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi
nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che
siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario. L’effetto di sostituzione si
produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello.
Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il
trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento. Il lavoratore le cui condizioni di
lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda, può
rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui all’art. 2119, primo comma.
L’art. 2112, lungi dal consentire la cessione del rapporto di lavoro indipendentemente dal
trasferimento dell’azienda, considera la successione conseguenza necessaria del trasferimento,
realizzando così una inscindibilità fra titolarità del rapporto di lavoro e titolarità dell’azienda in cui
esso si svolge.
Coerente alla conservazione del rapporto di lavoro che continua con l’acquirente, è la disposizione
introdotta nella norma del Codice dalla Legge n. 428/1990 sull’obbligo per l’acquirente di
continuare ad applicare i contratti collettivi “vigenti alla data di trasferimento, fino alla loro
scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del
cessionario”, ma si tratta di una introduzione inutile perché conferma quello che era già stato
stabilito da principi civilistici generali.
L’ipotesi prevista dal testo originario della norma, di previa disdetta dell’alienante, non costituiva
una eccezione alla regola dell’inscindibilità perché comportava l’estinzione del rapporto e non la
sua prosecuzione con l’alienante. E doveva ritenersi che si trattasse della comune disdetta e cioè del
recesso dell’imprenditore dal contratto di lavoro.
Tutto ciò è oggi confermato dal nuovo testo dell’art. 2112, a seguito dell’eliminazione del primo
comma e dell’introduzione di una autonoma disposizione al quarto comma.
A questa ultima previsione il legislatore ha aggiunto un’altra strana norma secondo la quale: “Il
lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi
successivi al trasferimento d’azienda, può rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui
all’art. 2119, primo comma”. È possibile però attribuire a questa norma un significato innovativo,
intendendola riferita a modifiche meno sostanziali di quelle che costituirebbero giusta causa
secondo l’art. 2119 ed in tal modo razionalizzare la limitazione del potere di recesso in tronco ai
soli successivi al trasferimento.
L’art. 2112 trova riscontro in un analogo principio stabilito dall’art. 2558 di subentro
dell’acquirente dell’azienda nella generalità dei rapporti costituiti per l’esercizio della stessa.
Art. 2558 – Successione nei contratti – Se non è pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda
subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale.
Il terzo contraente può tuttavia recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, se
sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell’alienante.
Le stesse disposizioni si applicano anche nei confronti dell’usufruttuario e dell’affittuario per la durata
dell’usufrutto e dell’affitto.
L’art. 2558, in virtù della prevista derogabilità ad opera delle parti della cessione, appare inteso
chiaramente alla salvaguardia dell’unità e della funzionalità dell’azienda ceduta a tutela degli
interessi delle stesse parti: dell’alienante ad una più agevole commerciabilità dell’azienda e
dell’acquirente a continuare a fruire dell’avviamento; l’art. 2112 serve invece quegli interessi solo
di riflesso perché è direttamente preordinato in tutte le sue parti alla tutela imperativa dell’interesse
del prestatore di lavoro alla conservazione del posto di lavoro e dei diritti in esso acquisiti.
La conclusione da trarre fino a questo punto è che la corrente contrapposizione fra inammissibilità
del rapporto di lavoro dal lato del lavoratore e libera trasmissibilità dal lato del datore di lavoro è
una contrapposizione fallace. La verità è invece che vi è intrasmissibilità da entrambi i lati del
rapporto: solo che l’intuitus che da lato del lavoratore attiene alla persona dello stesso, dall’altro
lato del rapporto non si appunta sulla persona dell’imprenditore, ma sull’azienda, considerata
come l’ambiente necessario ed infungibile per lo svolgimento del rapporto.
Si tenga presente che il tema che stiamo svolgendo viene riferito all’azienda perché l’espressione
“trasferimento d’azienda” è usata dal codice e da tutta la dottrina italiana che se ne occupa, ma
l’espressione utilizzata dalle direttive comunitarie è invece “trasferimento d’impresa”.
È inoltre il caso di chiarire che tutto il discorso svolto trae alimento dalla disciplina giuridica del
trasferimento di azienda, intesa come sostituzione di un imprenditore con un altro nella titolarità
della gestione aziendale. Non attengono invece al problema, le ipotesi di fallimento o di ricorso ad
altre procedure concorsuali.
Art. 2112 – Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda – (quinto
comma) – Ai fini e per gli effetti di cui al seguente articolo si intende per trasferimento d’azienda
qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella
titolarità di una attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e
che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal
provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda.
Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come
articolazione funzionalmente autonoma di una attività economica organizzata, identificata come tale dal
cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento.
Il testo attuale dell’attuale articolo 2112 contiene un quinto comma interamente dedicato a chiarire
quale sia il campo di applicazione della disciplina dettata dai commi precedenti.
A tale proposito i problemi da considerare sono essenzialmente due:
a) che cosa rientri nella nozione di trasferimento alla quale la norma si riferisce:
trasferimento è “qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarità di una
attività economica organizzata,…..a prescindere dalla tipologia negoziale o dal
provvedimento sulla base dei quali il trasferimento è attuato”
b) in quale significato sia stata usata la parola azienda: azienda è “qualsiasi attività
economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che
conserva nel trasferimento la propria identità”. Si precisa inoltre che la norma si applica
anche al “trasferimento di parte dell’azienda”, cioè di quell’articolazione autonoma
dell’azienda per la quale altre norme lavoristiche hanno adottato l’espressione “unità
produttiva”
Art. 2555 – Nozione – L’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio
dell’impresa.
Si parla dunque di azienda in un senso molto diverso da quello risultante dalla definizione contenuta
nell’art. 2555 e questo dovrebbe indurre a pensare che l’attuazione delle direttive comunitarie è
stato un inutile dispendio di attività legislativa, perché in materia l’ordinamento italiano era già
conforme a quello comunitario.
In realtà una qualche utilità alle nuove norme può essere riconosciuta: in primo luogo si osserva che
nel testo originario la necessità di intendere la nozione di trasferimento di azienda in senso ampio
non era esplicitata, cosicché si doveva pervenirvi con varie argomentazioni ed erano presenti anche
alcune interpretazioni restrittive che la nuova formula sicuramente preclude; in secondo luogo si
deve tenere presente che al livello comunitario si erano verificate delle fughe in avanti, oltre i limiti
consentiti dalla nozione di trasferimento di azienda, anche se intesa nella più ampia concezione.
Queste fughe in avanti sono state corrette dalla giurisprudenza e sono ora contraddette dal tenore
complessivo del comma 5 dell’art. 2112.
Anche l’art. 2112 detta, come ogni norma giuridica, un criterio per risolvere un conflitto di
interessi, e quindi subordina la soddisfazione di alcuni interessi a quella di certi altri; è poi naturale
la propensione dei portatori degli interessi che vengono subordinati ad evitare le situazioni di fatto
che possono portare all’applicazione della norma. In concreto la regola dell’imputazione dei
preesistenti rapporti di lavoro all’acquirente dell’azienda trasferita, con conservazione dei diritti
derivanti dall’anzianità maturata, può realizzare un ostacolo alla circolazione delle aziende, che può
poi risolversi in un fattore di disoccupazione, laddove la sopravvivenza dell’impresa sia
condizionata alla possibilità del suo trasferimento.
Si sono così introdotte alcune deroghe legali all’art. 2112 che muovono in senso opposto al
precedente indirizzo e sono di non facile inquadramento nel sistema: un primo intervento si ebbe
con una legge del 1977 in tema di liquidazione coatta amministrativa di imprese autorizzate
all’esercizio dell’assicurazione obbligatoria contro la responsabilità civile per danni causati
dalla circolazione di veicoli e natanti. Più esplicitamente l’estinzione “di diritto” dei rapporti di
lavoro del personale dipendente dall’impresa assicuratrice posta in liquidazione coatta
amministrativa è stata prevista per l’ipotesi che il decreto che promuove la liquidazione coatta
disponga d’ufficio il trasferimento del portafoglio relativo alle assicurazioni contro danni ad altra
impresa che abbia manifestato previamente il proprio consenso.
Si aggiunsero poi altre possibilità di deroga di carattere più generale, con alcune leggi qualificate
come provvedimenti di emergenza, sia perché destinate ad operare per un periodo di tempo
definito, sia perché motivate dall’esigenza di dare sbocchi socialmente accettabili ad alcune
situazioni concrete. Questi interventi legislativi introducevano un criterio di deroga al principio di
continuità dei rapporti di lavoro in caso di trasferimento di azienda: questo criterio è costituito
dall’ammettere deroghe all’applicazione dell’art. 2112 laddove sussistano determinate situazioni di
crisi dell’impresa cedente, ma solo se ciò si inquadra nel contesto di uno specifico accordo
sindacale.
In base ai commi 5 e 6 dell’art. 47 della Legge n. 428/1990 la disapplicazione dell’art. 2112 del
Codice Civile richiede che si realizzino determinate condizioni che riguardano: in parte la posizione
soggettiva dell’impresa interessata alla vicenda traslativa, che ad opera del CIPI deve essere
stata dichiarata in stato di crisi aziendale o deve trovarsi sottoposta ad una delle procedure
concorsuali elencate dalla disposizione; in parte gli esiti dell’accordo aziendale concluso
seguendo le procedure di cui ai primi due commi dell’art. 47, nel senso che tale accordo deve
garantire la salvaguardia, anche parziale, dei livelli occupazionali che sono precedenti al
trasferimento.
Nel sistema così delineato è di difficile collocazione l’ulteriore requisito della cessazione
dell’attività aziendale: infatti la prospettiva, in linea con l’idea del legislatore, di un considerevole
ampliamento delle ipotesi di disapplicazione dell’articolo 2112 si scontra con l’interpretazione
letterale della norma che invece sembra volere semplicemente sommare questo ulteriore requisito
alle altre condizioni che sono state sopra indicate: dal che deriverebbe che esso deve ricorrere anche
nel caso di imprese dichiarate in crisi.
Oltre a questo scoglio i problemi che questa disposizione solleva sono molteplici. Fra di essi la
questione più importante è sicuramente quella concernente il rapporto fra la norma attuale e la
precedente legislazione sulle deroghe “d’emergenza” all’art. 2112 c.c. L’intenzione del
legislatore del 1990 di porsi su una linea di continuità emerge dal fatto che sono in parte identiche le
condizioni richieste, oggi come in passato, per poter procedere alla disapplicazione dell’art. 2112:
un accordo sindacale e la dichiarazione di crisi aziendale.
Da ciò sembra quindi potersi dedurre che il legislatore avendo istituzionalizzato un sistema di
deroghe che era nato alla fine degli anni settanta con un carattere di mera transitorietà, abbia anche
voluto abrogare questa normativa di emergenza; un discorso analogo a questo può anche essere
fatto in ordine al rapporto tra la parte della disposizione in questione che si riferisce alle imprese in
amministrazione straordinaria in base alla quale, ricorrendo determinate condizioni, l’art. 2112 non
si applica alle ipotesi di cessione di aziende effettuate in attuazione di programmi di imprese in
amministrazione straordinaria.
È proprio la considerazione dell’obbiettivo di disapplicare la normativa codicistica che contraddice
la tesi secondo la quale eccezioni alla regola dell’inscindibilità possono ammettersi in generale ad
opera dei cosiddetti accordi sindacali in deroga e cioè accordi sindacali conclusi al di fuori della
cornice delineata dalla disposizione in esame, e quindi anche nei confronti di imprese che non si
trovano in una situazione di crisi formalizzata. Bisogna poi ricordare come questi accordi possano
anche prevedere che i lavoratori che “non passano” alle dipendenze dell’acquirente restino alle
dipendenze dell’originario datore di lavoro; in ogni caso, per concludere, i prestatori che non
hanno usufruito del passaggio al nuovo datore di lavoro assieme all’azienda ceduta vantano,
secondo il sesto comma dell’art. 47, un diritto di precedenza nelle future assunzioni
dell’acquirente, restando comunque ferma la disapplicazione dell’art. 2112 c.c.
Art. 2103 – Mansioni del lavoratore – Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è
stato assunto o a quelle corrispondenti alle categorie superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a
mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso
di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e
l’assegnazione stessa diventa definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione del
lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e
comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non
per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Ogni patto contrario è nullo.
Il testo originario dell’art. 2103 era stato interpretato ed applicato dalla dottrina e dalla
giurisprudenza in maniera abbastanza costante: era opinione comune che la norma, dopo aver
confermato il principio della contrattualità delle mansioni, fosse intesa a regolare ed attribuire al
datore di lavoro uno speciale potere che generalmente veniva chiamato “jus variandi” ossia un
potere giuridico in senso tecnico, consistente nell’attitudine di modificare, con un atto unilaterale,
l’oggetto originario del contratto di lavoro.
Circa i limiti di questo potere generalmente venivano classificati dalla dottrina in questo modo:
a) sussistenza di specifiche esigenze dell’impresa
b) affinità delle nuove mansioni alle precedenti
c) corresponsione della retribuzione più elevata fra quelle previste per le due mansioni
d) temporaneità dello spostamento
Era comunque sottinteso che i seguenti limiti venivano in considerazione per lo spostamento attuato
unilateralmente dall’imprenditore e non per lo spostamento concordato fra le parti, comunque
sempre ammissibile.
Il disegno di legge governativo dello statuto dei lavoratori non si occupava della materia e infatti il
nuovo articolo 2103 è frutto di emendamenti approvati durante l’elaborazione della legge da parte
del Senato; il primo periodo del nuovo testo dell’art. 2103 riproduce letteralmente il testo del
precedente e quindi esplicita nuovamente il principio della contrattualità delle mansioni. Subito
dopo però il nuovo testo prosegue con l’accostamento alle mansioni di assunzione del lavoratore di
“quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbi successivamente acquisito” e delle
“mansioni effettivamente equivalenti a quelle svolte”; questo accostamento nel precedente testo
normativo mancava perché alla norma sulla contrattualità delle mansioni veniva fatta seguire
un’altra norma sull’eccezionale potere di modifica unilaterale delle mansioni. Non c’è alcun dubbio
quindi sul fatto che i maggiori problemi relativi all’art. 13 dello statuto dei lavoratori si basano
proprio su come interpretare questa sostituzione.
Un solo punto è certo: è che la nuova norma considera legittima al prestatore di lavoro, oltre che
delle mansioni di assunzione, anche altri due diversi tipi di mansioni diversi da quelli di assunzione.
Il primo problema che a questo punto bisogna affrontare è se anche queste mansioni, come quelle
originarie, debbano essere convenute fra le parti, o se invece l’assegnazione alle stesse possa
essere legittimamente disposta dall’imprenditore con un atto unilaterale. La dottrina, nella
soluzione di questo problema, è divisa, e la giurisprudenza rispecchia le incertezze della dottrina
con delle prese di posizione che sono oscillanti e spesso contradditorie; tuttavia bisogna riscontrare
che dopo n primo periodo di decisioni orientate alla soppressione dello jus variandi, la
giurisprudenza più recente tende a sostenere la conservazione.
Si osserva a questo proposito che i lavori preparatori della legge danno chiaramente una indicazione
nel senso della eliminazione del potere unilaterale dell’imprenditore di modificare le mansioni.
Non può inoltre essere trascurato che i presentatori dell’emendamento erano gli stessi
presentatori di una delle proposte di legge per lo statuto dei lavoratori che furono affiancate
nell’esame in commissione referente al disegno di legge governativo; orbene quella proposta
conteneva una norma sulle mansioni che mirava palesemente alla soppressione dello jus variandi:
essa infatti riproduceva nella sua prima parte il primo periodo del vecchio articolo 2103, eliminando
solamente il primo periodo e cioè la norma attributiva dello jus variandi ed aggiungendo una nuova
norma sui trasferimenti analoga a quella poi introdotta nello statuto per iniziativa degli stessi
proponenti.
Si deve tenere poi presente che, dopo l’approvazione del nuovo articolo da parte della
commissione referente del Senato, ci fu chi cercò, durante l’esame in aula, di far approvare
degli emendamenti che avrebbero in qualche modo ripristinato lo jus variandi, ma questi
emendamenti non furono approvati dal Senato.
A parte la ratio dei lavori preparatori, in questo contesto bisogna tenere maggiormente in
considerazione la lettera della disposizione.
Bisogna osservare che essa non contiene alcun riferimento ad un potere dell’imprenditore: il
vecchio testo diceva “l’imprenditore può” e quindi chiaramente non poteva che trattarsi si un
potere unilaterale, ma questa formula nel nuovo articolo 2103 è totalmente scomparsa: essa si limita
ad equiparare alle mansioni di assunzione le mansioni “corrispondenti alla categoria superiore
che abbia successivamente acquisito” e le “mansioni equivalenti alle ultime effettivamente
svolte”, per fare oggetto tutte e tre le mansioni di un poter di adibire, che non può essere di nessun
altro se non del datore di lavoro. Ma è lecito dedurre da una norma che parla solamente di un dovere
dell’imprenditore, l’esistenza di un suo potere? Sembrerebbe proprio di no.
Un ulteriore argomento a favore della tesi che considera necessario il consenso delle parti per
l’attribuzione di tutti i tipi di mansioni previste è l’argomento a contraiis.
Si deve ricordare a questo proposito che lo statuto è inteso alla tutela della libertà e della dignità dei
lavoratori, oltre che mediante una speciale protezione dell’attività sindacale, anche attraverso una
maggiore limitazione del contenuto dei poteri giuridici dell’imprenditore. Ora è chiaro che, se si
ritiene che l’art. 13 abbia soppresso il potere dell’imprenditore di modificare unilateralmente le
mansioni, questa norma si inquadra perfettamente nel sistema dello statuto.
Se invece si ritiene che le varie mansioni diverse da quelle di assunzione previste dalla nuova
norma possano essere assegnate dall’imprenditore unilateralmente, allora non si riesce più a
capire se e in che modo la modifica dell’art. 2103 contribuisca, limitando i poteri dell’imprenditore,
alla tutela degli interessi dei lavoratori.
È invece problematico, se non impossibile, dimostrare che alla soppressione di questo limiti
abbia fatto riscontro l’introduzione di limiti maggiormente penetranti o tali da
controbilanciare i limiti soppressi.
Invero il nuovo testo consente lo spostamento a mansioni “corrispondenti alla categoria
superiore” a quella di assunzione, senza alcun limite; e lo spostamento a mansioni non
corrispondenti a categorie superiori, con i soli limiti dell’equivalenza rispetto alle ultime mansioni
effettive e della non diminuibilità della retribuzione.
Quanto alla prima ipotesi bisogna osservare che non è affatto vero che una promozione costituisca
sempre un vantaggio per il lavoratore, e per questo solo non c’è ragione di limitarla; per quanto
riguarda invece la seconda ipotesi è indubbio che il requisito dell’equivalenza tra mansioni ad
quas e mansioni a quibus costituisce un limite allo spostamento , ma nonostante questo i molti
sforzi compiuti dagli interpreti in questa direzione non sembra che ancora nessuno sia stato in grado
di dimostrare in maniera convincente che questo limite sia in qualche cosa più restrittivo di quello
desumibile dalla conservazione della posizione sostanziale del lavoratore, imposta dalla norma
anteriore.
Anche il limite della non diminuibilità della retribuzione era stabilito nella norma originaria, nella
quale inoltre si aggiungeva nel secondo comma l’esplicita previsione del diritto al trattamento
corrispondente all’attività svolta, se questo è più vantaggioso per il lavoratore, che malgrado sia
oggi formalmente scomparsa, può ritenersi fino ad oggi vigente in quanto desumibile dal principio
della necessaria corrispondenza del trattamento alle mansioni effettive in ogni momento svolte.
Una ultima osservazione deve essere fatta, nello stesso senso, a proposito della nuova disciplina
riguardante i patti contrari alla norma: bisogna tenere presente a questo proposito che nel vecchi
testo, l’inciso “se non è convenuto diversamente” era premesso alla seconda parte della norma e
doveva conseguentemente essere riferito solamente alla disposizione attributiva dello jus variandi,
mentre sia la prima parte della norma e sia l’indicazione dei poteri dell’imprenditore dovevano
considerarsi inderogabili.
Tenuto presente questo aspetto originario della norma, l’innovazione a proposito dello statuto
consisterebbe, se si considerano ancora da essa regolate le modificazioni unilaterali, nel rendere
nulli oltre che i patti estensivi del potere dell’imprenditore, anche i patti limitativi; se invece si
accoglie l’interpretazione secondo la quale non è più ammesso lo spostamento unilaterale e i
limiti stabiliti dalla norma riguardano solamente lo spostamento consensuale, allora per quanto
riguarda il mutamento di mansioni, la regola della nullità dei patti contrari ha un senso molto chiaro
e non fa sorgere problemi.
Non è invece colpita da nessuna nullità, in quanto è un patto contrario a questa norma, la clausola
contrattuale che stabilisce ulteriori limiti alle modifiche consensuali, e questo non in
applicazione di un principio generale di prevalenza del principio più favorevole al lavoratore, del
quale è molto discutibile l’esistenza, ma per lo stesso tenore testuale della norma, che appare intesa
a limitare le modifiche e non ad imporle.
Le critiche all’interpretazione qui sostenuta si muovono da due diversi piani: sotto un primo
profilo si prospettano obiezioni di ordine tecnico che riguardano prevalentemente una
insufficienza di argomenti addotti in favore della tesi che si critica e soltanto marginalmente e quasi
per esclusione, argomenti in favore di diverse soluzioni.
Si osserva che quasi tutti gli autori riconoscono che una parte dei limiti stabiliti dalla norma
originaria dello jus variandi è stata eliminata cosicché la maggiore tutela del lavoratore si affida,
in definitiva e per questo settore della dottrina, solo ed esclusivamente ad un carattere più restrittivo
del criterio dell’equivalenza rispetto a quello precedente della non modificabilità della posizione
sostanziale.
Ancora più chiaramente ha una valenza contraria a quella pretesa l’argomento critico addotto da chi
pone in evidenza che ad un potere unilaterale dell’imprenditore fa riferimento con il verbo
“può” il penultimo inciso della norma in materia di trasferimento: la diversità delle formule
usate conferma il fatto che un potere unilaterale è stato previsto solamente per il trasferimento e non
per il mutamento di mansioni.
Una ultima corrente dottrinale è agguerrita nel respingere l’interpretazione che considera
legittimo il mutamento di mansioni solamente con il consenso del lavoratore; questo perché è
sollecitata più che da motivazioni di carattere tecnico ed interpretativo, dall’intendimento di
realizzare uno “scavalcamento a sinistra” di questa interpretazione. È vero esattamente il
contrario e cioè che la pratica inesistenza di limiti al mutamento consensuale è un corollario
inevitabile, anche se non sempre accettato, di tutte le interpretazioni che considerano ancora oggi
l’art. 2103 riferito allo jus variandi, mentre il solo modo per considerare legislativamente limitato il
mutamento consensuale, è quello di considerare che appunto la norma regoli il mutamento
consensuale.
Sotto l’aspetto ricostruttivo la stessa dottrina appare animata dall’intento di far apparire la nuova
norma quanto più possibile migliorativa della tutela dei lavoratori, rispetto al vecchio testo dell’art.
2103; infatti, secondo questa dottrina, le innovazioni fondamentali della nuova disciplina
sarebbero costituite:
a) dalla configurazione della non diminuibilità della retribuzione non più come una mera
conseguenza patrimoniale dello spostamento a mansioni corrispondenti ad un’area salariale
inferiore, ma come un criterio di esclusione della legittimità dello spostamento a mansioni
comportanti una retribuzione inferiore: il vecchio testo diceva “purché essa non importi
una diminuzione della retribuzione” e quindi si comprende che il significato delle due
formule è proprio lo stesso
b) dalla sostituzione del condizionamento dello jus variandi alle esigenze dell’impresa con il
condizionamento al rispetto dell’equivalenza delle varie mansioni di volta in volta
assegnate, in funzione di un razionale sviluppo delle capacità tecnico professionali del
lavoratore: si osserva in questo caso che non si tratta di una sostituzione, ma della pura
eliminazione di uno dei due limiti contenuti nella normativa anteriore, visto che anche
questa sicuramente esigeva il rispetto dell’equivalenza professionale delle mansioni, con la
disposizione che vietava il mutamento sostanziale.
La verità è che tutti coloro i quali si sforzano di fornire un’interpretazione all’articolo 13 dello
Statuto dei lavoratori idonea ad eliminare i difetti presenti nella legislazione anteriore, continuando
ad attribuire alla norma il compito di regolare lo jus variandi, mostrano di non tenere conto del
problema reale e cioè di quelli che erano i veri difetti da rimediare. La normativa del codice non
era idonea a tutelare la posizione professionale del lavoratore, non tanto per una insufficienza
del potere unilaterale dell’imprenditore di modificare le mansioni, quanto per la mancanza di una
specifica regolamentazione delle modifiche consensuali, che restano così attratte nella sfera di
applicazione dei principi generali, con la terribile conseguenza che anche il più radicale
declassamento della posizione sia professionale, sia retributiva del lavoratore fosse considerato
legittimo in quanto consensuale, anche se accettato dal lavoratore solamente con il suo
comportamento concludente.
LA PROMOZIONE AUTOMATICA
Il secondo periodo dell’articolo 2103 del Codice Civile regola la cosiddetta promozione
automatica generalizzando un principio già recepito dalla contrattazione collettiva.
Questa norma ha ragione di esistere solamente se si ritiene che “l’assegnazione a mansioni
superiori” che essa regola è l’assegnazione che le parti in partenza considerare provvisoria, perché
l’assegnazione a mansioni superiori attuata senza intesa è già regolata dalla precedente norma, che
comporta la maturazione immediata del diritto alla conservazione della posizione acquisita.
Quanto al fatto attributivo delle mansioni superiori provvisorie, si può ammettere che la forma
utilizzata dalla norma potrebbe presentarsi, più di quella dl primo periodo della norma, come uno
spostamento realizzato attraverso un atto unilaterale, ma l’interpretazione sistematica impone di
considerare necessariamente consensuale anche lo spostamento provvisorio, senza di che sarebbe
consentito all’imprenditore di eludere troppo facilmente la regola della con sensualità della
promozione definitiva.
Art. 2113 – Rinunzie e transazioni – (primo comma) – Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto
diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi
collettivi concernenti i rapporti di cui all’art. 409 del codice di procedura civile, non sono valide.
……..
È invece frutto di un equivoco l’idea di assoggettare alla disciplina dell’articolo 2113 l’eventuale
rifiuto di promozione del lavoratore, configurandolo come una rinunzia al diritto alla
promozione. È chiaro infatti che nel caso che si è esaminato non esiste un diritto alla promozione
suscettibile di formare oggetto di rinunzia, essendo la promozione da intendere come modificazione
permanente dell’oggetto del rapporto di lavoro, effetto automatico del verificarsi dell’ipotesi
prevista dalla legge. Diritti del lavoratore che sono suscettibili di formare oggetto di rinunce
sorgeranno naturalmente nell’ambito del rapporto di lavoro modificato, nel corso del suo ulteriore
svolgimento, ma la rinuncia di questi diritti non potrà mai configurarsi come una rinuncia alla
promozione.
È esatto, secondo quanto è stato scritto da qualche autore, che la norma sulla promozione
automatica non risolve il problema del lavoratore sistematicamente adibito a sostituire altri
lavoratori assenti e messo così nella condizione di non riuscire mai ad acquisire una
qualificazione professionale. Ma non si deve per ciò concludere solamente che il fenomeno sia
conforme alla legge.
Qualche delicato problema di applicazione sorge a proposito della retribuzione dovuta in caso di
mutamento di mansioni.
Se il lavoratore viene spostato a delle mansioni che comportano una retribuzione superiore, è
pacifico che egli abbia diritto, dal momento dello spostamento, alla retribuzione superiore.
È già stato detto che secondo la maggioranza degli interpreti, la norma attuale, così come quella
anteriore, non esclude la possibilità di spostamento a mansioni che comporterebbero una
retribuzione minore, ma, appunto con riguardo a questa ipotesi della quale suppone la legittimità,
impone di continuare a corrispondere la retribuzione precedentemente dovuta.
Se la diversa retribuzione che è prevista per le due mansioni dipende esclusivamente dalla
collocazione contrattuale delle stesse nell’ambito di una diversa “categoria” di inquadramento non
sorgono particolari difficoltà, il problema invece si complica se la retribuzione goduta prima
dello spostamento comprendeva dei superminimi concordati personalmente con il lavoratore,
o se una delle mansioni oppure entrambi comportino degli elementi retributivi variabili come
nel caso del cottimo, o collegati a particolari situazioni di rischio o disagio, o se si sia attuato
quel particolare procedimento di valutazione della prestazione che viene generalmente
chiamato job evaluation.
Il parere dell’autore è comunque il seguente.
In caso di spostamento ad una mansione che prevede una retribuzione superiore, sarà dovuta in tutte
le sue componenti la retribuzione prevista per tali mansioni dalle fonti normative applicabili, o in
mancanza da determinarsi secondo quanto stabilito dall’art. 2099 del Codice Civile, maggiorata di
quanto eventualmente previsto ad personam per la mansione precedente, salvo che non risulti che
tale maggiorazione fosse dovuta a dei riconoscimenti di particolari attitudini strettamente attinenti
alle mansioni precedenti; nel caso invece in cui la retribuzione per le mansioni ad quas sia minore di
quella che in concreto il lavoratore percepiva per lo svolgimento delle mansioni ad quibus,
continuerà a spettare la retribuzione precedente in tutte le sue componenti, anche se alcune di queste
componenti fossero previste in relazione ad alcuni fattori, di qualsiasi natura ma non presenti nella
nuova attività.
È necessario comunque avvertire che l’opinione dell’autore, seguita dai casi di giurisprudenza
in generale, è contraddetta dal più recente orientamento della Cassazione, la quale ritiene le
componenti della retribuzione strettamente collegate a particolari rischi o disagi o particolari
modalità della prestazione posano essere perdute in caso di spostamento a mansioni non
comportanti più quelle modalità, anche se la retribuzione ne risulta così diminuita.
Un’altra ipotesi di modificazione oggettiva del rapporto di lavoro è quella che si verifica oggi con il
trasferimento del lavoratore “da una unità produttiva ad un’altra”. Per trasferimento deve
intendersi il mutamento del luogo di svolgimento dell’attività lavorativa.
La norma sul trasferimento del lavoratore da una unità produttiva ad un’altra è sostanzialmente una
novità del testo attuale dell’articolo 2103 del Codice Civile che consente il trasferimento con un atto
unilaterale dell’imprenditore, condizionandolo però a “comprovate ragioni tecniche,
organizzative e produttive”.
Alcuni, partendo dal presupposto che prima dello statuto dei lavoratori non fosse consentito nessun
tipo di trasferimento, hanno considerato questa norma come intesa ad ampliare la sfera dei poteri
dell’imprenditore; altri all’opposto, ritenendo che prima dello statuto il prestatore potesse essere
trasferito senza alcun limite, inquadrano la norma fra quelle che hanno introdotto innovazioni
particolarmente limitative. Secondo l’autore nessuna di queste due tesi è corretta.
Trasferimento comportante mutamento di mansioni si potrà avere sia per le diverse caratteristiche
obbiettive dell’attività che si svolge nelle diverse unità produttive, sia quando le mansioni
contrattuali siano identificate, esplicitamente o implicitamente, dal contratto individuale o
collettivo, anche con riferimento all’unità produttiva: in tal caso, secondo l’autore, dovrà
applicarsi la disciplina giuridica del mutamento di mansioni e non la ben più elastica
disciplina del trasferimento.
Se si escludono dalla sfera di applicazione della norma sul trasferimento quei trasferimenti che
comportano un mutamento di mansioni, rimangono compresi solamente i trasferimenti disposti
nell’esercizio del potere direttivo. Si capisce allora come sia scorretta la tesi che ritiene la
possibilità di trasferimento unilaterale non desumibile dai principi, e quindi non sussistente
prima dello statuto per mancanza di una norma specifica.
Rimane a questo punto da considerare in che senso la nuova norma abbia limitato l’esercizio del
potere direttivo, per l’ipotesi che esso realizzi un trasferimento del lavoratore. Secondo l’autore in
questo caso si tratta di un limite interno, cioè derivante dalla necessaria destinazione dell’atto, che è
esercizio del potere, alla realizzazione della funzione per cui il potere è attribuito. È appunto il tipo
di limitazione che la norma apponeva al vecchio jus variandi, mediante il riferimento “alle esigenze
dell’impresa”.
Anche per quanto riguarda il tipo di interesse, alla cui soddisfazione il potere viene funzionalizzato,
non pare ci possa essere nessuna differenza di significato sostanziale fra la vecchia formula delle
“esigenze dell’impresa” e la nuova formula delle “comprovate ragioni tecniche, organizzative e
produttive”.
Tutte queste formule impongono di considerare legittimamente il potere a cui si riferiscono
solamente per la soddisfazione di alcuni interessi e non di altri. Alcuni autori a questo proposito
parlano di interessi “tipici” dell’imprenditore; altri invece specificano che la tipicità di questi
interessi dipende dalla connessione con altri interessi partecipi dell’attività imprenditoriale, e per
questo parlano di un interesse obbiettivo dell’impresa, inteso come interesse collettivo.
Quello che importa agli effetti pratici, è che, essendo il potere funzionalizzato ad un interesse che
non è esclusivamente l’interesse individuale del titolare del potere, non si tratta di un potere
arbitrario ma di un potere discrezionale, che consente quindi un controllo del giudice sulla
destinazione in concreto dell’atto alla soddisfazione dell’interesse protetto.
La portata innovativa della norma sul trasferimento introdotta dalla statuto, consiste quindi
nell’avere inserito il potere dell’imprenditore fra quei poteri inerenti alla gestione del
rapporto di lavoro che sono funzionalizzati ad un interesse comune alle parti.
Art. 2697 – Onere della prova – Chi vuol fare valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne
costituiscono il fondamento.
Chi eccepisce l’inefficacia di questi fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve
provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.
È però possibile anche un altro significato desumibile dalla circostanza che la norma richiede che le
ragioni giustificatrici del trasferimento siano “comprovate”: questa formula è adatta ad accollare al
datore quell’onere della prova circa l’esistenza delle ragioni indicate, che invece in mancanza della
norma sarebbe a carico del lavoratore. Secondo l’art. 2697, infatti, l’onere della prova sui motivi
dell’annullamento grava su chi propone la relativa azione o eccezione.
A proposito della sanzione che colpisce il trasferimento ingiustificato, bisogna tenere presente
che la disposizione conclusiva del nuovo art. 2103 sulla nullità di ogni patto contrario alla norma,
non può assumere la stessa portata generale che ha per il mutamento di mansioni: infatti, potendo
attuarsi il trasferimento con un patto unilaterale, l’atto che dispone il trasferimento senza il rispetto
dei limiti posti dalla norma non può comprendersi fra quei patti contrari di cui è disposta la nullità.
Se è così, l’art. 2103 non dice quale sia il trattamento giuridico del trasferimento ingiustificato e per
individuarlo non si può fare altro che risalire ai principi generali in materia di sviamento dei
poteri discrezionali dalla funzione ad essi assegnata dall’ordinamento e questo, come si è visto,
porta a concludere per l’annullabilità.
Statuto dei lavoratori – art. 22 – Trasferimento dei dirigenti delle rappresentanze sindacali
aziendali – Il trasferimento dall’unità produttiva dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali di
cui al precedente articolo 19, dei candidati e dei membri di commissione interna può essere disposto
soltanto previo nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza.
Le disposizioni di cui al comma precedente e ai commi dell’articolo 18 si applicano sino alla fine del
terzo mese successivo a quello in cui è stata eletta la commissione interna per i candidati nelle elezioni
della commissione stessa e sino alla fine dell’anno successivo quello in cui è cessato l’incarico per tutti
gli altri.
L’opinione comune annovera fra le vicende del rapporto di lavoro, come ipotesi di modificazione
del contenuto, la sospensione del rapporto. Si distingue poi, rispetto alla categoria generale in
questo modo individuata, la sospensione dell’intero rapporto da quello di una parte di esso, e si
effettuano altre classificazioni in relazione alla causa della sospensione: volontaria o involontaria,
imputabile o non imputabile, comportante o meno il decorso dell’anzianità, eccetera.
Secondo l’autore questa comune impostazione non coglie in modo appropriato il senso delle varie
ipotesi di sospensione indicate, laddove le riferisce al rapporto di lavoro, anche se specificando che
in alcune il rapporto sarebbe sospeso solamente in parte.
La realtà è un’altra ed è che la permanenza del rapporto di lavoro in tutte le ipotesi indicate, non
può essere intesa come una permanenza del rapporto di lavoro fondamentale, mentre
temporaneamente vengono meno alcune delle posizioni giuridiche singole che da quel rapporto
fondamentale derivano, ed in primo luogo l’obbligazione di lavoro ed il corrispondente credito.
Si deve quindi parlare di sospensione non del rapporto di lavoro ma solamente
dell’obbligazione di lavoro, ed eventualmente delle altre singole posizioni giuridiche per le quali,
nelle varie ipotesi è stabilito che temporaneamente vengano meno.
A questo ultimo proposito deve essere richiamato il principio della corrispettività del contratto di
lavoro: esso, infatti, applicato alle ipotesi di sospensione dell’obbligazione di lavoro, significa che
di regola la sospensione del lavoro comporta anche la sospensione della retribuzione. Questo
principio è oggi totalmente derogato dalla legge o dalla contrattazione collettiva in una grande serie
di casi.
Meno pacifico è che anche la maturazione dell’anzianità durante i periodi di sospensione del
lavoro abbia bisogno per realizzarsi di specifica previsione; se almeno si considera il rilievo
dell’anzianità agli effetti contributivi, secondo l’autore questa conclusione non può essere evitata.
Per le stesse ragioni per le quali, quando non è diversamente disposto, la sospensione del lavoro
esclude la retribuzione periodica relativa al periodo di sospensione, analogamente non si può
escludere, salvo che non sia stabilito, quella parte di retribuzione differita che si commisura allo
stesso periodo.
Quanto alla distinzione fra le situazioni che si qualificano di sospensione da un lato e d’altro lato le
ferie ed il riposo festivo e giornaliero, non può negarsi che in entrambi i casi manca un dovere
attuale di lavorare. La differenza sta solamente nel carattere meramente eventuale delle prime visto
che le ferie e le altre pause di riposo sono certe e prevedibili; potremmo quindi chiamare
sospensioni patologiche o anomale le prime, fisiologiche o normali le seconde.
Perché appaiano al lettore i risvolti applicativi di questo discorso è necessario ricordare
l’utilizzazione che la giurisprudenza della Cassazione ha per molto tempo effettuato della
contrapposizione tra assenza dal lavoro dipendenti da circostanze eccezionali, e quindi qualificate
come sospensione del rapporto, ed assenze per fatto ordinario e prevedibile, definite per questo
prive di effetti sospensivi, al fine di consentire per le prime e non per le seconde la sostituzione del
lavoratore assente con un altro lavoratore assunto con un contratto a tempo determinato. La
soluzione data a questo problema pratico, secondo l’autore non è corretta, perché quella
contrapposizione non era scritta nella norma, la quale si limitava a fare menzione di “lavoratori
assenti e per i quali sussiste il diritto alla conservazione del posto”, senza dire nulla sulla causa
patologica e fisiologica dell’assenza.
È necessario osservare prima di tutto che la prospettiva della dottrina verso la riduzione di ogni
ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro all’impossibilità sopravvenuta della prestazione di
lavoro, conduce ad allargare questa figura ben oltre il senso dell’espressione usata, ed in definitiva
non ha altro valore che non sia quello di un accostamento fra vera impossibilità ed altre ipotesi sul
piano degli effetti. Se è vero che l’impossibilità della prestazione di lavoro, quando non produce
l’estinzione dell’intero rapporto di lavoro, provoca sempre almeno la sospensione dell’intero
rapporto di lavoro, è vero anche che ci sono alcuni casi in cui la legge dispone questa sospensione
in relazione a delle circostanze che è scorretto qualificare di impossibilità.
In particolare in alcune ipotesi, l’effetto sospensivo è collegato ad una manifestazione di volontà di
una delle parti, nella quale deve riconoscersi l’esistenza di uno specifico potere giuridico di
sospendere l’obbligazione di lavoro: potremmo a questo proposito parlare di sospensioni
potestative.
LE SOSPENSIONI POTESTATIVE
A proposito delle sospensioni potestative è molto importante avere ben chiaro che l’indicato potere
sospensivo non è in nessun modo desumibile dai principi generali né per l’una né per l’altra parte
del rapporto.
Abbiamo così un potere del datore di lavoro di sospendere il prestatore “dal servizio e dalla
retribuzione” a titolo di sanzione disciplinare, ma non per motivi cautelari, salvo che, come
avviene per alcune categorie, questa forma di sospensione non sia prevista dal contratto collettivo.
Statuto dei lavoratori – art. 30 – Permessi per i dirigenti provinciali e nazionali – I componenti degli
organi direttivi, provinciali e nazionali, delle associazioni di cui all’articolo 19 hanno diritto a permessi
retribuiti, secondo le norme dei contratti di lavoro, per la partecipazione agli utili degli organi suddetti.
Statuto dei lavoratori – art. 31 – Aspettativa dei lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive o a
ricoprire cariche sindacali provinciali e regionali – I lavoratori che siano eletti membri del Parlamento
nazionale o del Parlamento europeo o di assemblee regionali ovvero siano chiamati ad altre funzioni
pubbliche elettive possono, a richiesta, essere collocati in aspettativa non retribuita, per tutta la durata del
loro mandato.
Statuto dei lavoratori – art. 32 – Permessi ai lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive – I
lavoratori eletti alla carica di consigliere comunale o provinciale che non chiedano di essere collocati in
aspettativa, sono, a loro richiesta, autorizzati ad assentarsi dal servizio per il tempo strettamente necessario
all’espletamento del mandato senza alcuna decurtazione della retribuzione.
I lavoratori eletti alla carica di sindaco o di assessore comunale, ovvero di presidente di giunta provinciale
o di assessore regionale, hanno diritto anche a permessi non retribuiti per un minimo di trenta ore mensili.
Statuto dei lavoratori – art. 20 – Assemblea – I lavoratori hanno diritto di riunirsi, nella unità produttiva
in cui prestano la propria opera, fuori dell’orario di lavoro, nonché durante l’orario di lavoro, nei limiti di
dieci ore annue, per le quali verrà corrisposta la normale retribuzione. Migliori condizioni possono essere
stabilite dalla contrattazione collettiva.
I lavoratori hanno un potere di sospendere l’obbligazione di lavoro per sciopero, mentre non esiste
un analogo potere sospensivo dei datori di lavoro per serrata. I lavorator hanno poi anche brevi
“permessi” retribuiti e non retribuiti, per adempiere a delle funzioni sindacali, oppure a delle
funzioni pubbliche elettive, nonché per analoghe funzioni a più lunghe “aspettative” non retribuite.
Una sospensione dell’obbligazione di lavoro si ha anche con l’esercizio del diritto di assemblea
durante l’orario di lavoro, ma anche qui solamente alle condizioni e nei limiti stabiliti dalla legge
e dalla contrattazione collettiva.
Il campo di applicazione del principio di tassatività delle cause di sospensione potestativa più
interessante è dato da quelle di crisi aziendali, che possono condurre all’intervento della Cassa
integrazione guadagni.
Di solito si afferma che queste norme, prevedendo la corresponsione da parte della Cassa
integrazione guadagni ai lavoratori sospesi dal lavoro di indennità corrispondenti ad una quota
della retribuzione da essi goduta in precedenza, realizzano un trattamento assistenziale reclamato
dalla situazione di bisogno nella quale i lavoratori vengono a trovarsi, per la perdita o la riduzione
della retribuzione. Si tratterebbe in questo senso di tutela della disoccupazione; questo significa
quindi che la Cassa integrazione guadagni è oltre che indirettamente un istituto di tutela del lavoro,
innanzitutto giuridicamente uno strumento di intervento in favore delle aziende in crisi.
La conclusione, dal punto di vista pratico, è che l’imprenditore è esonerato dalla corresponsione
della retribuzione ai dipendenti sospesi dal lavoro solamente se, esperite con successo le
relative procedure, l’intervento della Cassa integrazione guadagni si realizzi concretamente.
LE SOSPENSIONI NECESSARIE
Art. 2110 – Infortunio, malattia, gravidanza, puerperio – In caso di infortunio, di malattia, di gravidanza
o di puerperio, se la legge o le norme corporative non stabiliscono forme equivalenti di assistenza o di
previdenza, è dovuto al prestatore di lavoro la retribuzione o una indennità nella misura e per il tempo
determinati dalle leggi speciali, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità.
Nei casi indicati dal comma precedente, l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’art.
2118, decorso il periodo stabilito dalla legge, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità.
Il periodo di assenza dal lavoro per una delle cause anzidette deve essere computato nell’anzianità di
servizio.
Art. 2111 – Servizio militare – La chiamata alle armi per adempiere agli obblighi di leva risolve il contratto
di lavoro, salvo diverse disposizioni delle norme corporative.
In caso di richiamo alle armi, si applicano le disposizioni del primo e del terzo comma dell’articolo
precedente.
Le ipotesi più importanti di sospensione necessaria sono previste dagli articoli 2110 e 2111 del
Codice Civile: infortunio, malattia, gravidanza e puerperio, servizio militare; per tutte bisogna
però anche dire che non danno luogo a vera e propria impossibilità, quindi piuttosto che di
impossibilità bisognerebbe parlare di “inesigibilità” della prestazione.
Per tutte le ipotesi che sono state sopra indicate il codice suppone la sospensione dell’obbligazione
di lavoro e stabilisce che, ove non sussistano “forme equivalenti di assistenza e previdenza”, il
principio di permanenza dell’obbligazione retributiva “nella misura e per il tempo determinati
dalle leggi speciali, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità”.
Ovviamente, poiché sospensione dell’obbligazione di lavoro e permanenza dell’obbligazione
retributiva spingerebbero il datore di lavoro a recedere dal contratto, il codice garantisce anche la
conservazione del posto, consentendo al datore di lavoro di recedere solo “decorso il periodo
stabilito dalla legge, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità”. Il periodo di
inesigibilità della prestazione di lavoro, durante il quale il lavoratore non può essere licenziato,
viene generalmente chiamato “periodo di comporto”.
MALATTIA E INFORTUNIO
Per la malattia persiste un trattamento differenziato a seconda che si tratti di impiegati o di operai.
Per i primi la legge sull’impiego privato prevede un periodo di comporto di tre mesi o di sei
mesi, secondo che l’anzianità di servizio sia inferiore o superiore ai dieci anni, con pagamento
della retribuzione intera il primo mese, o rispettivamente i primi due, poi ridotta alla metà.
Per i secondi invece la determinazione del periodo di comporto viene affidata alla
contrattazione collettiva, ma essi, in quanto non beneficiari del trattamento economico a carico del
datore di lavoro, hanno acquisito il diritto di percepire per un massimo di sei mesi, una indennità
oggi a carico dell’INPS ma che viene anticipata dal datore di lavoro di importo corrispondente alla
metà della retribuzione dal quarto al ventesimo giorno di malattia e ai due terzi della retribuzione
dal ventunesimo al centottantesimo giorno. I primi tre giorni non comportano indennità e quindi si
parla di “periodo di carenza”.
Le regole legali che sono state appena descritte sono ampiamente superate dalla contrattazione
collettiva che tende ad equiparare il trattamento degli impiegati a quello degli operai, accollando per
questi al datore di lavoro l’onere di integrare l’indennità a carico dell’INPS, allungando così per
tutti sia il periodo di comporto, sia il periodo di conservazione della retribuzione.
Delle regole particolari operano per i lavoratori assunti con contratto a termine, per la tubercolosi
(comporto di 18 mesi), per l’infortunio (comporto fino a guarigione certificata dall’INAIL) ed
altre speciali ipotesi.
Legge n. 300/1970 – art. 5 – Accertamenti sanitari – Sono vietati accertamenti da parte del datore di
lavoro sulla idoneità o sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente.
Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli
istituti previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando l datore di lavoro lo richieda.
Il datore di lavoro ha facoltà di far controllare la idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed
istituti specializzati di diritto pubblico.
L’accertamento della verità della malattia è oggetto di attenzione legislativa e soprattutto della
contrattazione collettiva. Alcune norme, ad esempio l’articolo 5 della Legge n. 300/1970, sono
indirizzate a tutelare l’interesse del lavoratore ad un accertamento parziale; altre invece tutelano
l’interesse del datore di lavoro e dell’INPS a poter controllare la sussistenza dei presupposti per la
sopportazione dell’onere economico ad essi accollato: fra queste le norme che stabiliscono l’obbligo
di reperibilità in determinate fasce orarie e quelle che regolano la tempestiva trasmissione al datore
di lavoro e all’INPS delle certificazioni relative alla malattia.
L’ipotesi che la malattia richieda delle cure termali ha provocato dibattiti dottrinali e
giurisprudenziali: la cosa si spiega da un lato con la possibilità, maggiore che per altri tipi di cura,
che malattia e cura termale siano addotte come pretesto, dall’altro lato con i cospicui interessi
economici delle aziende alberghiere delle località termali che sono coinvolti nella questione.
Nei manuali di diritto del lavoro è da tempo corrente la trattazione separata dei cosiddetti contratti
o rapporti speciali di lavoro, anche se l’utilità di questa nozione viene solitamente negata per
l’eccessiva varietà di significati ad essa riconducibili.
Esattamente si è osservato che in dottrina la specialità si presenta come una connotazione di
rapporti di lavoro subordinato ai quali la disciplina relativa al lavoro nell’impresa è applicabile
solamente in quanto non sia derogata da apposite norme legislative o non sia incompatibile con
essa.
Art. 2128 – Lavoro a domicilio – Ai prestatori di lavoro a domicilio si applicano le disposizioni di questa
sezione, in quanto compatibili con la specialità del rapporto.
Art. 2130 – Durata del tirocinio – Il periodo di tirocinio non può superare i limiti stabiliti dalle norme
corporative o dagli usi.
Art. 2239 – Norme applicabili – I rapporti di lavoro subordinato che non sono inerenti all’esercizio di
una impresa sono regolati dalle disposizioni delle sezioni II, III e IV del capo I del titolo II, in quanto
compatibili con la specialità del rapporto.
Art. 2240 – Norme applicabili – Il rapporto di lavoro che ha per oggetto la prestazione di servizi di
carattere domestico è regolato dalle disposizioni di questo capo, e, in quanto più favorevole al prestatore di
lavoro, dalla convenzione e dagli usi.
Art. 2129 – Contratto di lavoro per i dipendenti da enti pubblici – Le disposizioni di questa sezione si
applicano ai prestatori di lavoro dipendenti da enti pubblici, salvo che il rapporto sia diversamente
regolato dalla legge.
Nel nostro Codice civile risultano considerati “speciali” rapporti di lavoro subordinato il lavoro a
domicilio, il tirocinio, il lavoro non inerente all’esercizio di una impresa, il lavoro domestico e
quello prestato alle dipendenze di enti pubblici.
UNITA’ DELLA FATTISPECIE NEGOZIALE TIPICA E TENDENZIALE UNIFICAZIONE
DELLE DISCIPLINE DEI RAPPORTI DI LAVORO NEL SISTEMA DEL CODICE CIVILE
Un esame meno superficiale del sistema normativo del Codice civile in materia di lavoro
subordinato consente di notare che la “specialità” del rapporto rilevante come causa giustificatrice
di una apprezzabile diversità di disciplina sussiste sia per il lavoro nell’impresa, sia per quello non
inerente all’esercizio di una impresa.
Bisogna ricordare che il Codice civile segna il punto di arrivo di un processo evolutivo che,
partito dalla contrattazione collettiva, aveva portato ad allargare ed unificare la nozione del
lavoro subordinato, originariamente definita dalla Legge n. 562 del 18 marzo 1926
esclusivamente in relazione all’attività di natura impiegatizia. Quindi da un lato il Codice civile
è arrivato alla configurazione del contratto di lavoro come fattispecie negoziale tipica, distinta da
ogni altra ed in particolare, da quelle contigue in cui il lavoro è prestato “senza vincolo di
subordinazione”; dall’altro lato il codice civile, nel prendere atto della molteplicità e della
necessaria varietà delle discipline in materia di lavoro subordinato, ha utilizzato la più avanzata ed
elaborata delle leggi esistenti, raccolta nel contratto collettivo del 1937 per gli impiegati
dell’industria, per desumerne istituti, principi e norme di portata generale che si potessero applicare
direttamente ed integralmente a tutti i campi dell’attività imprenditoriale.
Art. 2094 – Prestatore di lavoro subordinato – E’ prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga
mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle
dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.
Unità della fattispecie negoziale tipica, che viene individuata dall’art. 2094 e configurata come
contratto, nominato, di lavoro subordinato, e tendenziale unificazione della sua disciplina
fondamentale attorno al modello articolato del lavoro nell’impresa, mediante estensione ai rapporti
di lavoro anche essi riconducibili alla stessa origine contrattuale, non inerenti all’esercizio di una
impresa: sono questi i pilastri sui quali è costruito il sistema normativo del lavoro subordinato
nel nostro codice civile.
La “specialità” dei rapporti di lavoro subordinato che non sono inerenti all’esercizio di una impresa
non può coesistere in questa circostanza di fatto, meramente negativa e del tutto generica, che
sarebbe di per sé idonea a assumere rilevanza al fine di escludere l’applicabilità delle norme che
necessariamente presuppongono la natura imprenditoriale dell’attività del datore di lavoro con cui il
prestatore deve collaborare.
La specialità dei rapporti di lavoro che vengono evocati dall’articolo 2239 del Codice Civile,
dipende quindi non dalla mancanza di una correlazione funzionale, strutturale e dinamica con
questo tipo di organizzazione, ma dall’esistenza di questa correlazione con un altro tipo di
organizzazione; sono infatti le caratteristiche proprie del contesto organizzativo che possono avere
una influenza sul modo di porsi e di svolgersi del lavoro subordinato nel suo ambito, determinando
la specialità del rapporto. Deve invece essere intesa diversamente la specialità dei rapporti di
lavoro subordinato considerati tali anche se hanno ad oggetto una prestazione di lavoro da
eseguire “nell’impresa”: vedremo infatti in seguito che lo schema causale tipico del contratto, che
è costituito dallo scambio tra lavoro subordinato e retribuzione, si trova in combinazione con un
altro interesse perseguito da una delle parti, e cioè la formazione professionale del lavoratore non
qualificato, il decentramento produttivo dell’attività imprenditoriale.
Intesa in questo modo, la specialità del rapporto di lavoro subordinato può essere riscontrata anche
in altre fattispecie negoziali non previste dal codice civile, ma emerse successivamente con
rilevanza sul piano normativo come strumenti operativi adeguati alle finalità dell’impresa e ai
bisogni dei lavoratori, in un contesto tecnico – organizzativo e socio – economico: questo deve
ritenersi sia avvenuto per il contratto di formazione e lavoro.
Si deve inoltre osservare che le peculiarità funzionali da cui deriva la specialità di questi rapporti
possono riprodursi in senso trasversale alla distinzione tra lavoro subordinato inerente o non
inerente all’esercizio di una impresa: basta pensare all’art. 2239 che tra le norme applicabili ai
rapporti non inerenti all’esercizio di una impresa richiama anche quelle in tema di lavoro a
domicilio o di apprendistato, e all’art. 36 della Costituzione che prevede la possibilità per le
pubbliche amministrazioni di avvalersi dei contratti di formazione e lavoro per l’assunzione del
personale.
L’APPRENDISTATO
L’apprendistato (tirocinio nel c.c.) è nato molto prima del odierno contratto di
lavoro. L’apprendistato delle origini era inteso e regolato, negli statuti delle
corporazioni medievali, come un periodo di preparazione all’esercizio di un’arte
o di una professione, al quale si era legittimati soltanto previa iscrizione ad una
corporazione di artigiani o di maestri, ammissibile una volta compiuto tale
periodo con esito positivo. In tale significato si può dire che l’apprendistato sia
sopravvissuto in una figura tipica e cioè il praticantato richiesto come
presupposto per l’esame di abilitazione il quale non da luogo all’instaurazione
di un rapporto di lavoro subordinato, di qualsiasi specie e perciò si distingue
anche dal rapporto di apprendistato nella sua configurazione attuale.
In epoca moderna l’apprendistato è servito specialmente nei settori della
produzione industriale e artigianale, a consentire o a promuovere l’ingresso di
giovani non ancora qualificati nel mondo del lavoro attraverso una formazione
pratica conseguita progressivamente in virtù del continuativo inserimento in un
contesto aziendale con l’esperienza maturata e l’insegnamento ricevuto
lavorando tutto il tempo necessario.
Cosciente del valore formativo dell’istituto, il legislatore, in armonia con i
principi costituzionali, ha cercato di favorirne la diffusione attraverso:
• Sensibile contenimento dei costi della tutela previdenziale
• Rinvio alla contrattazione collettiva in ordine alla determinazione, anche
in misura inferiore, dei trattamenti retributivi.
Poiché l’addestramento dell’apprendista, nella prassi aziendale, implica
necessariamente un insegnamento innestato sullo svolgimento del
lavoro corrispondente alla qualificazione perseguita, tale prestazione è
stata costantemente considerata IMPRESCINDIBILE assumendo RILEVANZA
ESSENZIALE per la stessa configurabilità dell’istituto oltre che per l’attuazione
della sua peculiare funzione.
La NATURA GIURIDICA dell’istituto è cambiata nel tempo:
Attività esecutiva di un contratto d’opera impropriamente
d compensata con la controprestazione dell’apprendista
a
L’apprendistato è disciplinato dal codice civile agli articoli 2130 -2134 c.c.
(base della normativa!!):
Art 2130 c.c. – Durata del tirocinio – “ Il periodo di tirocinio non può
superare i limiti stabiliti dalle norme corporative o dagli usi “
L’apprendistato che non viene definito è visto come un distinto tipo di rapporto
a se stante ma come un PERIODO DETTO DI TIROCINIO ossia come una fase di
un rapporto di lavoro subordinato nel cui ambito ha rilievo preminente lo
scambio tra la collaborazione dell’apprendista nell’impresa e la retribuzione
dovuta all’imprenditore. L’ISTRUZIONE PROFESSIONALE (art 2132 c.c.) è
elemento ulteriore che determina la SPECIALITA’ DEL RAPPORTO e giustifica le
deviazioni della sua regolamentazione (come quella prevista per la
retribuzione) da quella prevista dalla sezione precedente e cioè del rapporto di
lavoro.
Con tale impostazione del codice è coerente da definizione data dalla legge
25/1955 all’art 2 comma 1
LE NUOVE TIPOLOGIE
Anche per gli apprendisti il rapporto di lavoro viene ad essere instaurato con
ASSUNZIONE DIRETTA ammessa invero per qualsiasi tipologia contrattuale.
Costituito il rapporto il PERIODO DI PROVA eventualmente convenuto si
presenta subito come espressione della duplice funzione dell’apprendistato
infatti l’art 9 della legge 25/1955 che espressamente ne prevede
l’ammissibilità
• da un lato fa rinvio all’art 2096 c.c. per la sua disciplina
• dall’altro introduce un limite massimo di durata di 2 mesi giustificato
dalla finalità formativa del rapporto con il quale è considerato
inconciliabile l’ulteriore protrarsi dell’incertezza di una parte sul
gradimento dell’altra.
Fin dall’inizio (art 11 legge 25/1955) il
• datore di lavoro è OBBLIGATO AD ADEMPIERE O FAR IMPARTIRE NELLA
SUA IMPRESA L’ADDESTRAMENTO NECESSARIO all’apprendista
• l’apprendista a sua volta è OBBLIGATO A SEGUIRE TALE
INSEGNAMENTO
Per quanto riguarda INSEGNAMENTO COMPLEMENTARE questo:
• deve avere una durata minima di almeno 120 ore annue
• tale durata deve essere ripartita tra:
- contenuti formativi a carattere trasversale (35%)
- contenuti formativi a carattere professionalizzante
OBBLIGATO PRINCIPALE è l’apprendista (che deve frequentare con
assiduità i relativi corsi) mentre il datore di lavoro ha soltanto OBBLIGHI
COLLATERALI e STRUMENTALI (collaborare con gli enti pubblici e privati
preposti all’organizzazione dei corsi, permettere all’apprendista di frequentare i
corsi aaccordando permessi retribuiti.
L’eventuale inadempimento dell’una o dell’altra parte non ha la
medesima rilevanza dal punto di vista del sinallagma contrattuale.
Infatti:
ILCONTRATTO D’INSERIMENTO
L’art 56 del decreto riguarda invece la forma e viene sancita per il contratto di
inserimento la forma scritta ab substantiam inoltre viene specificato che
nel contratto deve essere indicato il progetto individuale di inserimento.
Al di la di quanto stabilito dagli art 54-59 del decreto e salvo diversa (anche
peggiorativa) disciplina da parte della contrattazione collettiva richiamata,
l’art 58 dispone che ai contratti di inserimento, in quanto stipulati con
un termine di durata, trovi applicazione la disciplina generale dei
contratti a tempo determinato ora D.l.vo 368/2001 . peraltro la disciplina
del contratto di lavoro a tempo determinato vale solamente nei limiti della sua
compatibilità con un parametro di riferimento che però non è
espressamente indicato ma che comunque si può ritenere la prevalenza delle
disposizioni contenute nello stesso decreto, appositamente dettate per il
contratto di inserimento. (es prorogabilità nella normativa del contratto
inserimento ammessa anche più di una volta nel contratto a tempo
determinato la disciplina è diversa).
Prendendo in considerazione gli articoli del del D.lvo 276/2003 possiamo subito
evidenziare due cose:
• art 55 comma 4 “la formazione eventualmente effettuata durante
l’esecuzione del rapporto di lavoro dovrà essere registrata nel libretto
formativo” ; la formazione quindi per il legislatore delegato è meramente
eventuale nel contratto di inserimento che sotto questo profilo non si
distingue da qualsiasi altro contratto di lavoro a tempo determinato
• art 55 comma 1 “ Condizione per l’assunzione con contratto di
inserimento è la definizione . . . di un progetto individuale di
inserimento finalizzato a garantire l’adeguamento delle competenze
professionali del lavoratore stesso al contesto lavorativo” . Il progetto
appare come elemento essenziale del contratto di inserimento. Più
propriamente l’art 59 comma 1 sancisce che il progetto individuale di
inserimento è preordinato al conseguimento delle superiori
qualificazioni nelle quali si concreterà al termine del rapporto, il
progressivo adeguamento delle capacità professionali del lavoratore
avvenuto nel corso del suo svolgimento.
IL LAVORO A DOMICILIO
Per lungo tempo il lavoro a domicilio, inteso come quel lavoro socialmente
caratterizzato dal luogo di svolgimento della prestazione che può
essere eseguito per conto di imprenditori o di consumatori da una
persona fisica sprovvista della qualità di imprenditore, indistintamente
considerato lavoro autonomo prestato sulla base di un contratto d’opera.
La legge del 1973 è ispirata ad un criterio di valutario del lavoro a domicilio che
tiene conto della sua CONNESSIONE FUNZIONALE COME FORMA DI
DECENTRAMENTO PRODUTTIVO, CON LE STRUTTURE ORGANIZZATIVE
DELL’IMPRESA.
Ciò è evidente sia dalla lettura dell’art 1 che definisce tale contratto di lavoro
che dall’art 2 il quale evidenzia i limiti di ammissibilità del lavoro a domicilio
Una parte della dottrina e della giuri ritengono che il nuovo concetto di
subordinazione abbia rilevanza nel senso di comportare il superamento della
tradizionale dicotomia tra lavoro a domicilio autonomo e subordinato. Però a
proposito si devono fare alcune considerazioni:
• L’art 1 della legge del 1973 non muove dal presupposto che il
lavoratore a domicilio , se inserito nel ciclo produttivo di una o più
imprese , sia per ciò stesso configurabile soltanto come lavoro
subordinato ma pone espressamente il vincolo della subordinazione
come requisito ulteriore perché la fattispecie, qualora ne sussistano gli
elementi costitutivi, sia riconducibile all’ambito di applicazione della
legge stessa;
La legge del 1973 non attribuisce più alcuna rilevanza alla iscrizione all’Albo
degli artigiani in ordine alla qualificazione del rapporto con l’imprenditore
committente.
L’artigiano invero è posto su di un piano diverso come operatore economico
che, anche quando è tenuto ad osservare le direttive del committente, svolge
comunque la sua attività sulla base di un contratto che presuppone e
rispecchia la sua qualità di imprenditore. L’artigiano ora si distingue dal lavoro
a domicilio autonomo o subordinato perché si ricollega a un genus diverso
all’art 2083 c.c.
Lavoro a domicilio e telelavoro
Alla disciplina legislativa del lavoro a domicilio si può ritenere almeno in parte
riconducibile il c.d. telelavoro ossia quella prestazione di lavoro a
distanza, che pur nel quadro di una multiforme tipologia
organizzativa, risulta costantemente caratterizzata, dall’elaborazione
elettronica di informazioni di ogni genere e dall’utilizzazione costante
delle reti di telecomunicazione per il collegamento tra il lavoratore e il
datore di lavoro (o committente). Esso non implica la necessità della
presenza fisica del lavoratore all’interno della struttura aziendale ma soltanto
la sua presenza virtuale. Il fenomeno, sempre più diffuso nella società moderna
e virtuale, è sempre stato preso in considerazione dalla contrattazione
collettiva ma manca comunque una disciplina ad hoc. Si deve segnalare che il
9 giugno del 1994 è stato raggiunto un accordo interconfederale sul telelavoro
in attuazione dell’accordo quadro europeo del 2002.
Per quanto riguarda le P.A. vi è già una disciplina organica
IL LAVORO INTERMITTENTE
In tale norma la fattispecie viene intesa come una tipologia di contratto, che
può essere indifferentemente a tempo indeterminato o anche
determinato.
Attraverso tale contratto il lavoratore SI PONE A DISPOSIZIONE DI UN DATORE
DI LAVORO, con o senza garanzia di tale disponibilità, restando in attesa di
eventuale utilizzazione per lo svolgimento di prestazioni a cadenza
intermittente o anche discontinua.
Tale decreto distingue DUE MODELLI DI LAVORO INTERMITTENTE differenziati
tra loro a seconda che il lavoratore sia o no obbligato “ a rispondere alla
chiamata del datore di lavoro” .
Il RICORSO al lavoro intermittente NON è AMMESSO IN VIA GENERALE ma solo
nelle:
• Tassative ipotesi soggettive individuate all’art 34 comma 2 :
prestazioni rese da soggetti giovani con meno di 25 anni o anziani con
più di 45 anni disoccupati
• Ipotesi oggettive individuate mediante i contratti collettivi stipulati dai
sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale o
territoriale
Lo stesso legislatore,poi, secondo una nota del Ministero del lavoro, avrebbe
individuato distinte ipotesi oggettive (art 37 comma 1 – lavoro
intermittente per prestazioni da rendersi il fine settimana nonché nei
periodi delle ferie estive o delle vacanze natalizie e pasquali) in cui il
lavoro intermittente è ammissibile a prescindere da un previo intervento
autorizzatorio della contrattazione collettiva in quanto l’intervento di
quest’ultima è testualmente previsto al secondo comma per “l’eventuale
identificazione di ulteriori periodi predeterminati” .
In tal senso è ora formulato l’art 34 comma 1 (come modificato D.l.vo
251/2004) che prevede che il lavoro intermittente sia di per sé ammissibile se
relativo a “periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o
dell’anno a norma dell’art 37)
Tale campo di applicazione è limitato ulteriormente dall’art 34 comma
3 per:
1. sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero
2. salvo diversa disposizione degli accordi sindacali, presso unità produttive
nelle quali si sia proceduto , entro i sei mesi precedenti a licenziamenti
collettivi che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle medesime
mansioni;
3. da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei
rischi.
Questa tesi non può essere accolta in quanto al suo interno vi è una duplice
contraddizione:
1. vi è contraddizione tra il contenuto normativo del contratto di lavoro
intermittente e la causa dello stesso che fino alla chiamata o a
prescindere da questa non comporta ne l’obbligo di lavorare per l’una ne
di retribuire per l’altra e quindi è diversa da quella tipica del contratto di
lavoro;
2. contraddizione tra la natura normativa del contratto che esclude la
produzione di qualunque effetto che non sia l’impegno di rispettare le
condizioni ivi convenute nella determinazione delle clausole dei futuri
rapporti e la testuale previsione di un modello di lavoro intermittente con
l’obbligo di rispondere alla chiamata del datore di lavoro, a sua volta
obbligato alla erogazione di una indennità di disponibilità;
Tutte le opinioni fin qui evidenziate sono viziate e lo sono perché cercano di
cogliere la caratteristica peculiare della nuova tipologia negoziale avendo
esclusivo riguardo alla figura del lavoratore non osservando che tale
posizione è antitetica nei due modelli di lavoro intermittente (dall’obbligo alla
fedeltà) . ecco perché la considerazione del solo lavoratore si è resa inidonea
ad individuare una ricostruzione unitaria della complessiva ed articolata
fattispecie del lavoro.
Si deve aver riguardo (capovolgendo la prospettiva) alla posizione del datore di
lavoro nel rapporto, tenendo conto della ratio legis sottesa all’introduzione
della nuova figura del lavoro intermittente. Tale ratio non può essere ridotta
solamente ad una funzione antielusiva ma essa si fonda anche sull’intento
innovativo di individuare ed adottare normative e strumenti con cui le
imprese possono conseguire, anche sul versante dei rapporti di
lavoro, ulteriori margini di flessibilità.
In particolare la flessibilità perseguita attraverso il lavoro intermittente
corrisponde alla specifica esigenza di avere già contrattualmente
acquisita, in un contesto organizzativo prestabilito, la immediata
disponibilità anche non garantita di prestazioni lavorative per le più
mutevoli e svariate necessità operative contingenti con riduzione di oneri e
vincoli inerenti al normale rapporto di lavoro subordinato.
In questa prospettiva fa testo la definizione del lavoro intermittente contenuta
all’art 33 comma 1 che è una norma prescrittiva che identifica la prestazione
lavorativa discontinua come oggetto di un “contratto di lavoro” , non di altro
tipo, anche innominato, di contratto: pertanto è all’interno della struttura del
contratto di lavoro che viene designato e contraddistinto come “intermittente”.
La norma prende in considerazione la posizione del lavoratore che “si pone a
disposizione” del datore di lavoro come conseguenza derivante dal contratto,
senza dare rilevanza all’eventualità che sia oggetto di una facoltà o di un
obbligo, per apposita pattuizione.
Quindi TRATTO CARATTERIZZANTE della nuova figura comune ai due modelli
in cui si articola è dunque la facoltà di chiamata del lavoratore,
riconosciuta al datore di lavoro nell’ambito del rapporto derivante dal contratto
di lavoro intermittente “mediante il quale” viene acquisita la disponibilità del
lavoratore.
La disciplina del contratto di lavoro intermittente (che quindi è uno dei contratti
speciali) differisce da quella generale in materia di lavoro subordinato,
perché mediante l’attribuzione della facoltà, arbitrariamente
esercitabile, di utilizzare o no la prestazione lavorativa a sua
disposizione, il datore di lavoro viene esonerato dall’osservanza del dovere di
cooperare all’adempimento, anche quando, nei periodi di attesa, sia tenuto al
pagamento di una indennità di disponibilità che non ha natura risarcitoria.
Quindi questo contratto viene ad assumere un peculiare rilievo nella categoria
dei contratti di durata non essendo ad esecuzione né continua né periodica
perché è “dubbio lo stesso verificarsi della prestazione”.
Resta da osservare che il legislatore ha inseguito le esigenze di flessibilità
dell’impresa ben oltre l’attribuzione di una facoltà che ne comporta l’esonero
dal dovere di cooperazione di cui all’art 1206 c.c. Infatti l’art 38 comma 3 ha
espressamente negato al lavoratore intermittente, per i periodi in cui
rimane in attesa di una eventuale chiamata, qualsiasi diritto riconosciuto ai
lavoratori subordinati. Stando al tenore legale dello stesso art 38 comma 3
sembra plausibile ritenere che il lavoratore intermittente sia, quanto
meno, vincolato dal dovere di fedeltà e, in genere , dai doveri
complementari all’obbligazione di lavoro, seppur sospesa, assoggettato al
potere disciplinare ed al suo esercizio anche nella estrema forma del recesso.
Ciò avviene anche quando non abbia garantito la propria disponibilità in
quanto l’obbligo di rispondere alla chiamata, non si identifica con l’obbligazione
di lavorare ma discende da un atto di esercizio del potere direttivo ,la cui
eventuale inefficacia vincolante afferisce non all’esistenza e alla struttura del
rapporto di lavoro ma soltanto alla graduazione della subordinazione che in tal
caso risulta affievolita.
IL LAVORO RIPARTITO
Il sistema originario del codice civile era articolato su queste due ipotesi.
Art 2119 c.c. – Recesso per giusta causa – Ciascuno dei contraenti può
recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a
tempo determinato, o senza preavviso se il contratto è a tempo indeterminato,
qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche
provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore
di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata al secondo
comma dell’articolo precedente.
Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento
dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda.
L’art 2118 c.c. prevede il recesso ordinario con preavviso definito anche
recesso ad- nutum (cioè al semplice cenno senza che occorra motivazione
alcuna). Mentre l’art 2119 c.c. prevede un recesso straordinario che può essere
fatto valere solamente per giusta causa e che può riguardare sia il contratto a
tempo determinato che indeterminato. Per il contratto a tempo determinato il
rapporto si estingue prima del termine mentre per quello a tempo
indeterminato vi è l’esonero dal preavviso. Ciò è possibile quando siano
presenti determinate ragioni che non permettono la prosecuzione del rapporto.
Nell’art 2118 c.c. non sono affermati i motivi per i quali le parti possono
recedere ciò significa che nel sistema originario del codice il recesso era un
recesso libero. Il motivo non aveva rilevanza giuridica l’unico obbligo per
entrambe le parti era quello di dare preavviso. Inoltre non era prevista una
differenza di trattamento tra datore di lavoro e lavoratore tanto è vero che non
vi è nemmeno cenno ad una distinzione tra i due i quali vengono considerati
semplicemente come “parti”. Non si teneva conto del fatto (molto importante)
che gli interessi per la prosecuzione del rapporto hanno un peso molto
diverso:
• Le dimissioni non sono molto rilevanti per il datore di lavoro; per
lui non sarà difficile sostituire il vecchio lavoratore con uno nuovo, questo
perché vi è uno squilibrio tra domanda e offerta di lavoro;
• Il licenziamento pone il lavoratore in una situazione di grande
difficoltà; non è sempre facile per il lavoratore riuscire a trovare un
nuovo posto di lavoro.
Come ogni rapporto anche il rapporto di lavoro ha una fine la quale può:
• Essere stabilita dalle parti (contratto a tempo determinato)
• Dipendere da altre cause
L’estinzione del rapporto di lavoro comunque costituisce:
• un momento particolarmente delicato per il lavoratore subordinato il
quale trae dal rapporto stesso la fonte (spesso esclusiva) per il
sostentamento proprio e della propria famiglia.
• un momento di non particolare rilevanza per il datore di lavoro (almeno
per la maggior parte dei casi) in quanto l’estinzione del rapporto di lavoro
comporta per quest’ultimo una mera sostituzione del rapporto venuto
meno .
Questo diverso interesse è dovuto dalla situazione di costante squilibrio
esistente fra domanda e offerta di lavoro. Questo coinvolgimento di interessi
diversi è stato però preso in considerazione solamente in tempi recenti.
Infatti il codice del 1865 tutelava addirittura la temporaneità del rapporto
(come interesse opposto all’attuale) questo per affrancare il lavoratore da
forme di assoggettamento di tipo feudale.
Il codice del 1942 pur esprimendo la propria preferenza per un rapporto a
tempo indeterminato consentiva ad entrambe le parti (poste in una situazione
di formale parità e simmetria) di recedere dal contratto senza alcun vincolo che
quello del preavviso.
La nuova evoluzione post-costituzionale si dirige verso la rottura di quella
simmetria in nome di un principio di parità sostanziale fra le parti (art 3 Cost.)
in funzione della differenziata protezione degli interessi coinvolti nel momento
dell’estinzione del vincolo obbligatorio.
Non mancano comunque segnali dell’attuale legislatore che vanno in direzione
contraria:
• la recente liberalizzazione (pur controllata) del contratto a termine
che rivela un atteggiamento diverso verso il contratto a tempo
indeterminato che è visto quasi come un ostacolo ad un miglio
funzionamento del mercato del lavoro e non più come garanzia per il
lavoratore subordinato.
• Si profilano scenari nei quali la marcata protezione dell’interesse del
lavoratore alla continuità del rapporto, sinora considerata attuativa dei
principi costituzionali, viene vista anch’essa come causa di rigidità del
mercato e sembra perciò attenuarsi.
Passando a parlare della diverse cause estintive del rapporto di lavoro si deve
subito segnalare come l’opinione tradizionale soglia distinguere fra:
• Cause di estinzione del rapporto: si verificano quando la causa del
contratto si sia in concreto realizzata (ad es. compimento del lavoro
dedotto in obbligazione, scadenza del termine finale, nel contratto a
tempo indeterminato il recesso inteso come strumento di autonomia
contrattuale doneo a far cessare un rapporto potenzialmente illimitato.
• Cause di risoluzione del contratto: determinano in sé l’esclusione del
rapporto, essendo collegate alla mancata realizzazione della causa o più
frequentemente a un suo difetto funzionale (es. inadempimento,
impossibilità sopravvenuta, eccessiva onerosità della prestazione.
Si aggiunge inoltre che, essendo il contratto di lavoro un contratto ad
esecuzione continuata, le cause di risoluzione del contratto operano di fatto
come cause di estinzione del rapporto medesimo. Estinzione del rapporto si ha
anche per effetto della dichiarazione di nullità e per l’annullamento del
contratto essendone esclusa la prestazione già eseguita (art 2126 c.c.)
Varie e in alcuni casi concorrenti sono i criteri per classificare le cause di
estintive.
Tipiche cause di estinzione per volontà delle parti sono il recesso e la
risoluzione consensuale..
Deve anzitutto escludersi che la risoluzione di diritto possa avvenire per morte
dell’imprenditore, stante la normale indifferenza della persona di questi
rispetto alla gestione dell’impresa. (a soluzione diversa si può arrivare nel caso
in cui vi sia un rapporto con un libero professionista).
Se l’impossibilità riguarda invece l’impresa si deve fare particolare attenzione
perché molto spesso l’impossibilità non riguarda la prestazione di lavoro come
tale, che rimane possibile, ma quell’attività, di carattere strumentale e
preparatorio , che il datore di lavoro è tenuto a porre in essere affinché il
lavoratore possa concretamente adempiere.
Una situazione particolare è quella del fallimento dell’impresa, che non
determina di per se la cessazione dell’attività, posto che questa può essere
proseguita dal curatore nell’esercizio provvisorio o può essere ceduta ad altro
imprenditore. La legge perciò si limita solo a stabilire che il recesso non rientra
fra giusta causa di risoluzione del rapporto.
Il sistema originario del codice civile era articolato su queste due ipotesi.
Art 2119 c.c. – Recesso per giusta causa – Ciascuno dei contraenti può
recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a
tempo determinato, o senza preavviso se il contratto è a tempo indeterminato,
qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche
provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore
di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata al secondo
comma dell’articolo precedente.
Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento
dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda.
• L’art 2118 c.c. prevede il recesso ordinario con preavviso definito anche
recesso ad- nutum (cioè al semplice cenno senza che occorra
motivazione alcuna).
• L’art 2119 c.c. prevede un recesso straordinario che può essere fatto
valere solamente per giusta causa e che può riguardare sia il contratto a
tempo determinato che indeterminato. Per il contratto a tempo
determinato non vi è ragione di imporre un preavviso, essendo già
stabilita la scadenza del rapporto, e quindi essa opera coma causa di
cessazione anticipata rispetto a tale scadenza mentre per quello a tempo
indeterminato vi è l’esonero dal preavviso e dall’indennità sostitutiva. Ciò
è possibile quando siano presenti determinate ragioni che non
permettono la prosecuzione del rapporto.
Nell’art 2118 c.c. non sono affermati i motivi per i quali le parti possono
recedere ciò significa che nel sistema originario del codice il recesso era un
recesso libero. La disciplina del codice civile (ormai del tutto residuale)
attribuisce ad entrambe le parti la facoltà di recedere unilateralmente e
liberamente dal contratto di lavoro . Il recesso unilaterale assolve quindi alla
funzione di porre fine ad un rapporto la cui durata non è predeterminata e in
relazione a ciò colloca le due parti su un piano di parità, senza considerare il
possibile diverso interesse (molto importante) di ciascuna alla conservazione
del vincolo. Il motivo non aveva rilevanza giuridica l’unico obbligo per
entrambe le parti era quello di dare preavviso. Inoltre non era prevista una
differenza di trattamento tra datore di lavoro e lavoratore tanto è vero che non
vi è nemmeno cenno ad una distinzione tra i due i quali vengono considerati
semplicemente come “contraenti ”. Non si teneva conto del fatto (molto
importante) che gli interessi per la prosecuzione del rapporto hanno un
peso molto diverso:
• Le dimissioni non sono molto rilevanti per il datore di lavoro; per
lui non sarà difficile sostituire il vecchio lavoratore con uno nuovo, questo
perché vi è uno squilibrio tra domanda e offerta di lavoro;
• Il licenziamento pone il lavoratore in una situazione di grande
difficoltà; non è sempre facile per il lavoratore riuscire a trovare un
nuovo posto di lavoro.
L’art 2118 c.c. impone l’obbligo del preavviso (comunicare con sufficiente
anticipo la volontà estintiva) che è l’unico limite al recesso che era previsto
anche nel vecchio sistema. Il preavviso è una cautela introdotta a tutela del
soggetto destinatario del recesso il quale deve essere pre-avvisato del fatto
che l’altra parte ha deciso di uscire dal rapporto di lavoro. Il preavviso serve:
• per il lavoratore a trovare un altro lavoro
• per il datore di lavoro a ricercare un nuova lavoratore
Viene dunque tutelato uno specifico interesse. Ne dovrebbe derivare la libera
rinunziabilità al preavviso da parte del soggetto destinatario del recesso anche
se dubbi sono stati sollevati (almeno sotto il profilo dell’opportunità) qualora sia
il datore di lavoro a rinunziare al preavviso, perché il lavoratore che si dimette
per cambiare posto di lavoro fa affidamento sulla retribuzione per l’intero
periodo di preavviso – specie se lungo – prima di sostituirla con la retribuzione
del nuovo rapporto.
Come detto il primo vincolo per il datore di lavoro riguarda la forma come
modo di manifestazione della volontà di recedere.
Art 2 legge 604 del 1966: “Il datore di lavoro, imprenditore o non
imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di
lavoro. Il prestatore di lavoro può chiedere, entro quindici giorni dalla
comunicazione, i motivi che hanno determinato il recesso: il tal caso il datore di
lavoro deve , nei sette giorni dalla richiesta, comunicarli per iscritto. Il
licenziamento intimato senza l’osservanza delle disposizioni di cui ai commi 1
e 2 è inefficace. Le disposizioni di cui al comma 1 e di cui all’art 9 si applicano
anche ai dirigenti.”
Altra regola procedurale è quella però all’art 7 dello Statuto dei lavoratori che
riguarda per i commi due e tre il licenziamento qualificabile come disciplinare.
Abbiamo due normative che sono un po’ sfalsate ma dobbiamo tener presente
che se abbiamo a che fare con un licenziamento qualificabile come disciplinare
si deve applicare l’art 7 dello Statuto.
Quest’ultimo impone al datore di lavoro di contestare preventivamente al
lavoratore gli addebiti sui quali il successivo licenziamento potrebbe fondarsi. I
motivi devono essere evidenti prima del licenziamento. Conseguentemente tali
motivi saranno scritti anche nella lettera disciplinare e di conseguenza sarà
difficile che la procedura all’art 2 della legge 604 comma 2 venga eseguita. In
teoria sarebbe comunque possibile non fare riferimento esplicito alle ragion i
ma sarebbe inutile perché le ragioni sostanziali sono già emerse nella lettera.
Ne deriva che la procedura all’art 2 non ha reale significato per tutte le ipotesi
si licenziamento per ragioni soggettive disciplinari ma opera solamente per
ragioni oggettive.
Art 8 legge 604/66: “ Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi
del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è
tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni, o in
mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità di importo compreso
fra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione
globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle
dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al
comportamento e alle condizioni delle parti, la misura massima della predetta
indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro
con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di
lavoro con anzianità superiore ai vent’anni, se dipendenti da datore di lavoro
che occupa più di quindici prestatori di lavoro.
Questa posizione porta a dire che quel licenziamento è efficace perché l’art 8
non esclude la cessazione del rapporto (riassumere!!). ci si ritrova quindi in
contrasto con la legge che ritiene che il licenziamento sia inefficace nonostante
il ragionamento della Corte porti a ritenere che il licenziamento sia comunque
valido:
il vizio al secondo comma è estrinseco il problema è che le ragioni non
vengono esplicitate in modo corretto e quindi è come il licenziamento non
fosse ingiustificato evalido a norma dell’art 8 e quindi in contrasto con la legge
del 604 che dice che è inefficace.
Art 18 Statuto dei lavoratori comma quarto: “Il giudice con la sentenza di
cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno
subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l’inefficacia
o l’invalidità stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di
fatto dal giorno del licenziamento sino al giorno dell’effettiva reintegrazione e
al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del
licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura
del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione
globale di fatto….”
IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE (dal libro)
LIMITI SOSTANZIALI
Art 1 della Legge 604/66 “ il licenziamento del prestatore di lavoro non può
avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art 2119 c.c. o per giustificato
motivo”.
LA GIUSTA CAUSA
La giusta causa è definita dal codice civile come quella “causa che consente la
prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” (art 2119 c.c.). essa sussiste
quando vi sono comportamenti del prestatore di lavoro. Ha una connotazione
tipicamente soggettiva.
Art 2119 c.c. – Recesso per giusta causa – “ Ciascuno dei contraenti può
recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a
tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato,
qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche
provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore
di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo
comma dell’art precedente.
Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento
dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda.
Come abbiamo già visto essa opera sia nel contratto a tempo indeterminato,
esonerando il recedente dal preavviso, sia nel contratto a tempo determinato,
consentendogli di estinguere il rapporto prima della scadenza del termine.
Poiché nel secondo tipo di contratta la giusta causa rappresenta l’unico
strumento per la risoluzione anticipata del vincolo la dottrina tradizionale ha
ritenuto che la nozione di giusta causa dovesse essere intesa, nel contratto a
termine, in modo meno rigoroso che nel contratto a tempo indeterminato. Ma
tale opinione sforza la dicitura testuale la quale distingue le tipologie
solamente dal punto di vista degli effetti del recesso nel tempo.
Con riguardo a questa seconda ipotesi c’è chi ha tentato di dare un significato
diverso a ciascuna delle tre ipotesi:
- ragioni inerenti all’attività produttiva
- ragioni inerenti all’organizzazione del lavoro
- ragioni inerenti al regolare funzionamento di essa
mentre altri ritengono si tratti di una mera esemplificazione di uno stesso
oggetto.
In realtà è possibile rintracciare una qualche differenza tra:
Si dovrà valutare fino a che punto ha rilievo la situazione del lavoratore. Non
esiste uno standard di valutazione ma si dovrà vedere di volta in volta i singoli
casi.
Per quanto riguarda invece le altre due ipotesi (ragioni inerenti all’attività
produttiva, all’organizzazione del lavoro) si deve precisare rispondono ad
una scelta dell’impresa (es. si decide di ridurre la produzione, oppure di
introdurre nuove tecnologie . . .licenziamento tecnologico). Se cerchiamo
qualche criterio affidabile per capire quando si possa licenziare per giustificato
motivo per scelta dell’impresa si deve aver riguardo ad alcune sentenze in
merito:
• andamento in diminuzione dell’attività di impresa, licenziamento
tecnologico esso è giustificato anche se le in realtà le cose per l’impresa
non vadano più male;
• perché si sopprime il posto e si decide di ridistribuire le mansioni che
ricopriva il lavoratore tra gli altri lavoratori (ridistribuzione delle mansioni
per ridurre i costi dell’impresa). Questa ipotesi sembra ammettere la
possibilità di licenziamento per ridurre i costi dell’impresa ma ciò non è
possibile perché se si ammettesse tale possibilità si dovrebbe ammettere
anche l’ipotesi di licenziamento del lavoratore anziano per assumerne
uno più giovane per aumentare i profitti dell’impresa.
Con riferimento all’interesse dell’impresa nel testo viene proposta una tesi che
però non è quella maggioritaria. Secondo tale visione l’interesse dell’impresa
dovrebbe essere visto come un interesse collettivo del quale sono parte sia
l’imprenditore che il lavoratore.
La tesi maggioritaria vede invece il rapporto di lavoro come un rapporto
conflittuale di scambio e quindi che l’interesse dell’impresa sia sempre
strumento per individuare un interesse specifico dell’imprenditore. Il
licenziamento è il momento di maggior conflitto. Tale interesse, che è quindi
del datore di lavoro non può però essere un interesse arbitrale ma è un
interesse tipizzato secondo delle regole oggettive di organizzazione. L’interesse
deve essere conforme a criteri organizzativi dell’organizzazione del lavoro.
quasi mai l’interesse del lavoratore viene in evidenza con riferimento
all’organizzazione se non per quanto riguarda appunto la delimitazione
dell’arbitrio del datore di lavoro.
sono però previsti dei particolari divieti al licenziamento per talune ragioni e
cioè:
• art 4 L 604/1966 licenziamento discriminatorio
• altre ipotesi di divieto
IL LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO
IL SISTEMA SANZIONATORIO
“ Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per
giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il
prestatore di lavoro entro il termine di trenta giorni o, in mancanza, a risarcire
il danno versandogli un’indennità di importo compreso tra il minimo di 2,5 ed
un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto
riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa,
all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle
condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere
maggiorata fino a dieci mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità
superiore ai dieci anni e a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità
superiore ai vent’anni, se dipendenti da datori di lavoro che occupa più di
quindici dipendenti”.
Obbligo di riassunzione
Il pagamento dell’indennità
Nella legge del 1966 abbiamo quindi un regime diversificato dei vizi del
licenziamento che non è sufficiente a garantire l’interesse alla conservazione
del posto di lavoro. In particolare si ritiene che i licenziamento sia pur sempre
valido.
Questa norma pone degli interrogativi di non poco conto. Il legislatore ha infatti
abbandonato la scelta certo non irrazionale di distinguere tra
• periodo nel quale il licenziamento fosse ancora sub iudice
• periodo nel quale fosse già intervenuta una sentenza sulla
illegittimità del licenziamento
La nuova formulazione della norma unifica i due periodi e lo fa sotto il segno
del risarcimento per il quale, tra l’altro, sembra prevedere un criterio
proprio e specifico, costituito dalla retribuzione globale di fatto.
Viene infatti stabilita una “indennità commisurata alla retribuzione”… ci sono
diversi modi di internere tale risarcimento:
Art 1227 c.c. secondo comma - “ il risarcimento non è dovuto per i danni
che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”.
Calcolare il risarcimento del danno vuol dire calcolare l’effettivo danno subito.
A norma dell’art 1227 c.c. il quale al secondo comma impone al lavoratore di
attivarsi per trovare una nuova occupazione il risarcimento del danno può venir
ridotto se il lavoratore non ottempera a tale obbligo. Allo stesso modo però se
il lavoratore trova una occupazione nell’attesa della sentenza le retribuzioni nel
frattempo percepite verranno scalate dal totale del danno che avrebbe
percepito. Si farà infatti la differenza tra le retribuzioni che avrebbe in totale
percepito e ciò che ha guadagnato dall’altro lavoro (ATTENZIONE: nello stesso
periodo del vecchio lavoro). questa è una norma che offre un grande vantaggio
al datore di lavoro perché sia che il lavoratore si attivi o non si attivi il danno
avrà un ammontare inferiore.
Inoltre è sempre in applicazione all’art 1227 c.c. che si può avere una
ulteriore riduzione del danno qualora il lavoratore differisca di molto l’inizio
della attività giudiziaria.
Per cui l’incidenza dell’art. 18 per quanto concerne il risarcimento del danno
dipende da fattori esterni (e non da ragioni intrinseche):
• lunghezza del processo
• tasso di disoccupazione o occupazione di una certa area
resta comunque il diritto al risarcimento del danno minimo pari a cinque
mensilità, anche quando il danno effettivo sia inferiore, essendo la sentenza
intervenuta prima di cinque mesi. La misura minima , basata su una
presunzione assoluta di danno, è dunque collegata alla illegittimità in sé del
licenziamento.
La legge 108/1990 ha preso atto di una obbiettiva difficoltà nel caso della
reintegrazione nel posto di lavoro di una completa ricostruzione della
collaborazione tra le parti la quale spesso è preclusa per volontà dello stesso
lavoratore,che nelle more del giudizio ha trovato altra occupazione e non
intende perciò tornare nel vecchio posto di lavoro.
È stata così introdotta l’INDENNITA’ SOSTITUTIVA DELLA REINTEGRAZIONE che
non è altro che un equivalente economico del posto di lavoro.
Come già detto il legislatore regola le due diverse tutele secondo due principi:
1. secondo un principio di gradualità che ha riguardo alla consistenza
economica e organizzativa del datore di lavoro misurata in base
al numero dei dipendenti (datore di lavoro forte tutela più incisiva,
debole la più blanda tutela obbligatoria). Si pone in questo caso un
problema che il computo del numero dei dipendenti non viene fatto
secondo una modalità omogenea e quindi tenendo conto dei dipendenti
dell’intera azienda ma bensì nell’ambito della tutela reale si fa
riferimento all’unità produttiva che dell’azienda è una
articolazione. Da ciò ne sono tra l’altro derivati problemi riguardanti la
disparità di trattamento peraltro sempre risolti negativamente dalla Corte
Costituzionale.
2. l’ambito di applicazione delle diverse tutele viene individuato anche in
funzione delle caratteristiche oggettive di certi rapporti o in funzione di
caratteristiche soggettive del rapporto di lavoro o dello stesso lavoratore.
Le norme cui occorre fare riferimento sono:
TUTELA REALE
TUTELA OBBLIGATORIA
Le norme della presente legge si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro
che rivestono la qualifica di impiegato e di operaio, ai sensi dell’art 2095 c.c. e ,
per quelli assunti in prova, si applicano dal momento in cui l’assunzione
definitiva, e in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto
di lavoro.
Area di non applicazione – “Fermo restando quanto previsto dall’art 3 gli art 1 e
2 non trovano applicazione nei rapporti disciplinati dalla legge 2 aprile 1958 n°
339. la disciplina di cui all’art 8 della legge 20 maggio 1970 n° 300 (….) non
trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che
svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di
istruzione ovvero religione e culto. Inoltre tali disposizioni non si applicano nei
confronti dei lavoratori ultrasettantenni, in possesso dei requisiti pensionistici
sempre che non abbiamo optato per la prosecuzione del rapporto…”
Nel caso si tratti di impresa agricola il numero dei dipendenti dei primi due
criteri scende a cinque.
L’art 18 per quanto riguarda questo tema stabilisce solo alcune regole ormai
superate; restano esclusi dal conteggio secondo tale articolo:
1. lavoratori assunti con contratto di inserimento (che ha sostituito il
contratto di formazione lavoro)
2. gli apprendisti
3. il coniuge ed i parenti del datore entro il secondo grado
4. i lavoratori inviati dal somministratore di lavoro
Come già visto la tutela reale della reintegrazione è poi sempre applicabile in
caso di:
1. licenziamento discriminatorio (a prescindere dal numero dei dipendenti
occupati) art 4 L 108/1990
2. e per i rapporti ancora assoggettati al recesso ad nutum pur se
caratterizzati da un elevato grado di fiduciarietà (rapporto dirigenziale)
La contrattazione collettiva
Direttiva comunitaria
La legge
L’idea di fondo di tale legge è che quando vi sia un progetto più o meno ampio
di riduzione
• delle dimensioni d’impresa
• delle sue attitudini produttive
• del personale occupato
debba esservi una attivata una forma di controllo sociale preventivo affidato
prima alle organizzazioni sindacali e poi anche ala pubblica autorità.
Il licenziamento intimato in esecuzione di quel progetto senza che ci sia stata la
opportuna procedura di controllo è considerato un licenziamento inefficace!
Anche quando il controllo si sia svolto regolarmente l’esecuzione del progetto
di riduzione e la sua “individualizzazione” da un lato trovano un limite nel
rispetto di determinati criteri di scelta fra i lavoratori da espellere, dall’altro
lato comportano l’accollo all’imprenditore di un non irrilevante costo
economico per ogni singolo lavoratore licenziato, il quale poi è ammesso al
trattamento previdenziale di mobilità.
REQUISITI OGGETTIVI
NB: il rispetto del profilo temporale può essere verificato solo a posteriori tanto
più dopo che l’art 8 della legge 236/1993 ha fatto decorrere i 120 giorni dal
completamento della procedura sindacale.
Quindi nella sostanza colui che intende licenziare più di 5 dipendenti attiverà
le procedure e avrà 120 giorni di tempo dalla loro conclusione per realizzare il
progetto. Però è evidente che, ove egli non attivi le procedure sarà sempre
possibile qualificare come collettivo il licenziamento di almeno cinque
lavoratori nel periodo di tempo previsto il quale decorrerà dal primo
licenziamento.
Il tema degli accordi presenta degli aspetti problematici. Per quanto riguarda
innanzitutto il contenuto degli accordi, sembra sufficiente un accordo di
“ratifica” delle decisioni imprenditoriali, senza che sia necessaria la riduzione
del numero dei licenziandi.
In ordine al significato e all’effetto di tale ratifica nascono ulteriori dubbi.
Eventuali riconoscimenti (essendo il licenziamento comunque atto
dell’imprenditore), o prese d’atto da parte del sindacato, delle ragioni adottate
dal datore di lavoro si fondano pur sempre sulle informazioni e sugli elementi
forniti dal datore medesimo durante la procedura nel rispetto dei principi di
buona fede e correttezza. Se ne deve dedurre che l’accordo può assumere un
valore solo presuntivo dell’esistenza delle ragioni della riduzione, della loro
effettività e veridicità, ma non può essere considerato inoppugnabile. Il
problema si pone con riguardo ai singoli lavoratori e non delle associazioni le
quali comunque possono far valere l’antisindacabilità del comportamento del
datore di lavoro (art 28 St. lav). a tal proposito dottrina e giuri hanno visioni
diverse:
• la dottrina ritiene che in fase di accordo l’unico controllo sul merito spetti
al sindacato mentr il singolo potrà accampare la lesione di proprie
posizioni soggettive unicamente la riduzione del personale si sia
individualizzata.
• La giuri sembra seguire una strada diversa riservandosi anche in
presenza dell’accordo sindacale un margine di controllo in ordine non alle
ragioni in se delle scelte economiche ma all’effettività e veridicità delle
esigenze di riduzione prospettate dall’imprenditore, alla loro stabilità nel
tempo, e soprattutto in ordine al nesso di consequenzialità fra la
decisione di riduzione e i singoli licenziamenti.
Non è infine agevole capire come debba essere inteso “ il concorso” fra i
criteri legali, dato che essi se applicati separatamente danno luogo a risultati
diversi. Il legislatore non dice nulla a proposito quindi dove non sia lo stesso
accordo collettivo a fissare l’ordine di applicazione dei criteri legali (che è un
possibile contenuto degli accordi sindacali) il concorso può significare che il
datore di lavoro deve tener conto di tutti e tre anche se in concreto e salvo
specifica giustificazione, uno di essi può essere applicato in modo prevalente.
Si è detto che solitamente i lavoratori da licenziare sono quelli sui quali
confluiscono un maggior numero di criteri sfavorevoli.
PROFILI SANZIANOTORI
per quanto riguarda la violazione delle procedure. Tale riferimento non deve
essere circoscritto all’ipotesi in cui le procedure non sono state neppure
attivate, ma investe anche le modalità con le quali esse sono state gestite e la
cui osservanza costituisce condizione di legittimità del licenziamento. Ciò
concerne:
1. aspetti formali scanditi dall’art 4 in modo preciso ivi compreso l’obbligo
di comunicazione ex art 4 comma 9
2. aspetto sostanziale e adempimento secondo buona fede e correttezza di
tali obblighi quindi reticenze, falsità, omissioni nel fornire tutti i dati
necessari ad un confronto serio e trasparente devono essere intesi come
vizi della procedura tali da determinare l’inefficacia dei licenziamenti
successivamente intimati
La sanzione della annullabilità è comminata per il caso in cui siano stati violati i
criteri di scelta o siano stati applicati i criteri convenzionali di scelta che si
ritengono illegittimi (ferma restando la nullità di licenziamenti adottati in
applicazione di criteri discriminatori.
Nonostante la distinzione tra inefficacia e annullabilità le conseguenze
previste per entrambi i vizi sono quelle all’art 18 della legge 300/70. Tali
conseguenze vengono escluse, con applicazione della tutela obbligatoria di cui
alla L. n. 604/66 per i datori di lavoro qualificabili come organizzazioni di
tendenza (art 24 commi 1 bis e ter L 223/1991).
Merita infine ricordare che nel caso in cui sia stata disposta la
reintegrazione ai sensi dell’art 18 St. Lav., il datore di lavoro può
procedere al licenziamento di un corrispondente numero di lavoratori,
nel rispetto dei criteri di scelta , ma senza rinnovare la procedura.
Nonostante la norma si riferisca testualmente ad ogni ipotesi di reintegrazione,
deve ritenersi che questa nuova opportunità possa essere utilizzata dal datore
di lavoro solo quando i primi licenziamenti siano stati annullati per violazione
dei criteri di scelta e non quando siano stati dichiarati inefficaci per violazione
della procedura.
Per quanto riguarda il sistema di calcolo del Tfr si deve tener presente all’art
2120 c.c. i quale prevede che la quota da accantonare annualmente è
determinata da due fattori:
• un dividendo: LA RETRIBUZIONE ANNUA
• un divisore: COEFFICIENTE DI 13,5
INDEROGABILITA’ E INDISPONIBILITA’
Se invalidità delle rinunzie e delle transazione può essere fatta valere solo con
l’impugnazione da parte del lavoratore significa che gli interessi protetti non
sono quelli generali ma emerge ed è tutelato soprattutto l’INTERESSE
INDIVIDUALE DEL PRESTATORE DI LAVORO A RICOSTITUIRE L’ASSETTO DEGLI
INTERESSI PRECEDENTI ALL’ATTO DISPOSITIVO E A RECUPERARE LE UTILITA’
CHE LA NORMA INDEROGABILE GLI AVEVA ASSICURATO E CHE CON TALE ATTO
HA PERSO.
PRESCRIZIONE ESTINTIVA :
• ORDINARIA (10
ANNI)
• BREVE (5 ANNI)
PRESUNTIVA:
• BREVE (1 ANNO)
• ORDINARIA (3 ANNI)
•
LA PRESCRIZIONE ESTINTIVA
Per la maggior parte dei diritti del lavoratore opera la PRESCRIZIONE BREVE
(5 NNI) (art 2948 c.c.) questo in ragione delle modalità con le quali i crediti
devono essere soddisfatti. Infatti l’art 2948 prevede:
• esplicitamente l’ipotesi delle indennità spettanti per la cessazione del
rapporto (n°4)
• ipotesi generale di “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o
a termini più brevi” (n°5) e vi rientrano tutti i casi di crediti per i quali il
pagamento debba essere effettuato a scadenza fisse o periodiche
Restano esclusi, e quindi si applicherà la PRESCRIZIONE ORDINARIA (10
ANNI):
• i diritti, pur di natura retributiva , il cui adempimento sia assoggettato a
regole diverse (es. crediti da lavoro straordinario del tutto eccezionale)
• i crediti a carattere risarcitorio (come quelli a ristori di danni subiti es.
omissione contributiva)
• diritto al risarcimento della qualifica superiore (differenze retributive
derivanti dal diverso trattamento)
PRESCRIZIONE PRESUNTIVA
LA DECADENZA
ARBITRATO
Con l’arbitrato le parti attribuiscono ad un terzo il potere di decidere la lite:
• in via preventiva mediante una clausola compromissoria
• a lite già insorta, mediante il compromesso.
Nell’ambito del rapporto di lavoro, tuttavia il legislatore ha da sempre
manifestato un deciso sfavore nei confronti dell’arbitrato dapprima vietando sia
il compromesso che la clausola compromissoria e in secondo momento
ammettendole ma con forti limitazioni.
La rigidità della disciplina dell’arbitrato rituale ha così aperto la strada verso
forme più libere di definizione delle controversie i c.d. arbitrati irrituali.
Sennonché la legge 533/1973 ha fortemente compromesso anche questa
forma di arbitrato condizionandolo al pari dell’arbitrato rituale, alla sua
previsione da parte della legge (art 7 st. lav. sanzioni disciplinari) e da
parte dei contratti collettivi, purché resti comunque salva la possibilità di adire
l’autorità giudiziaria.
Inoltre secondo tale norma il LODO che è la decisione dell’arbitro, non era
valido ove fosse stata violazione di disposizioni inderogabili di legge o di
contratti collettivi e in tal caso la sua impugnazione era regolata, alla stregua
delle rinunzie e delle transazioni, art 2113 c.c. commi 2 e 3. in tal modo
l’arbitrato veniva fortemente disincentivato.
MOBBING
Sempre più spesso le istanze di tutela avanzate dai lavoratori riguardano il c.d.
mobbing. Per mobbing si intende quell’insieme di comportamenti protratti
nel tempo, posti in essere dal datore di lavoro, ovvero da superiori
gerarchici del lavoratore o persino da suoi colleghi, volti a realizzare
vere e proprie forme di persecuzione psicologica, di isolamento e
emarginazione nell’ambito aziendale, per lo più con la finalità di
costringere il lavoratore medesimo ad abbandonare il posto di lavoro.
Non sempre gli strumenti utilizzati per realizzare tale tutela sono di per sé
illegittimi ma la riconduzione ad unità dello scopo perseguito di emarginazione
può consentire una tutela pregnante.
CAPITOLO VIII: LA TUTELA DEI DIRITTI DEL LAVORATORE
LA PROCEDURA DI CERTIFICAZIONE
Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 76 – Organi di certificazione – Sono organi abilitati alla
certificazione dei contratti di lavoro le commissioni di certificazione istituite presso:
a) gli enti bilaterali costituiti nell’ambito territoriale di riferimento
b) le Direzioni provinciali del lavoro e le province
c) le università pubbliche e private
d) Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali
e) I consigli provinciali dei consulenti del lavoro
art. 76 e segg. = in questi articoli vengono individuati gli organi abilitati alla certificazione che
sono le commissioni di certificazione istituite presso: enti bilaterali costituiti nell’ambito territoriale
di riferimento, Direzioni provinciali del lavoro e province, università pubbliche e private, Ministero
del Lavoro e delle politiche sociali, consigli provinciali dei consulenti del lavoro. Viene poi prevista
la possibilità di costituire tramite convenzioni, una commissione unitaria di certificazione;
viene regolata sia pure solo parzialmente la competenza territoriale delle diverse commissioni;
vengono individuate varie regole procedimentali ed infine vengono previsti sempre ai fini della
certificazione, moduli e formulari non vincolanti che tengono conto degli orientamenti
giurisprudenziali prevalenti in materia di qualificazione dei rapporti
Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 79 – Efficacia giuridica della certificazione – Gli effetti
dell’accertamento dell’organo preposto alla certificazione del contratto di lavoro permangono,
anche verso i terzi, fino al momento in cui sia stato accolto, con sentenza di merito, uno dei
ricorsi giurisdizionali esperibili ai sensi dell’articolo 80, fatti salvi i provvedimenti cautelari.
art. 79 = questo articolo parla dell’efficacia giuridica della certificazione. All’atto
che conclude la procedura di certificazione deve attribuirsi natura di atto amministrativo ed
in particolare si tratta di un atto amministrativo di certazione, finalizzato a produrre
appunto certezza in ordine alla qualificazione del programma negoziale come definito e poi
presentato dalle parti dell’organo certificante; in funzione di un accertamento unitario degli
effetti della certificazione, il legislatore delegato ha stabilito che questi effetti permangono,
sia pure provvisoriamente, anche nei confronti dei terzi che sono soprattutto gli enti
previdenziali e le amministrazioni tributarie.
Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 80 – Rimedi esperibili nei confronti della certificazione –
(primo, secondo, quarto e quinto comma) – Nei confronti dell’atto di certificazione, le parti e i terzi
nella cui sfera giuridica l’atto stesso è destinato a produrre effetti, possono proporre ricorso, presso
l’autorità giudiziaria di cui all’articolo 413 del codice di procedura civile, per erronea qualificazione del
contratto oppure difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione. Sempre
presso la medesima autorità giudiziaria, le parti del contratto certificato potranno impugnare l’atto di
certificazione anche per vizi del consenso.
L’accertamento giurisdizionale dell’erroneità della qualificazione ha effetto fin dal momento della
conclusione dell’accoro contrattuale. L’accertamento giurisdizionale della difformità tra il programma
negoziale e quello effettivamente realizzato ha effetto a partire dal momento in cui la sentenza accerta che
ha avuto inizio la difformità stessa.
…..
Chiunque presenti ricorso giurisdizionale contro la certificazione, ai sensi dei precedenti commi 1 e 3,
deve previamente rivolgersi obbligatoriamente alla commissione di certificazione che ha adottato l’atto di
certificazione per espletare un tentativo di conciliazione ai sensi dell’articolo 410 del codice di procedura
civile.
Dinnanzi al tribunale amministrativo regionale nella cui giurisdizione ha sede la commissione che ha
certificato il contratto, può essere presentato ricorso contro l’atto certificatorio per violazione del
procedimento o per eccesso di potere.
art. 80 = in questo articolo vengono enunciati i rimedi esperibili nei confronti della
certificazione. Il legislatore prevede infatti, davanti al giudice del lavoro, la possibilità di
impugnazione dell’atto di certificazione per erronea qualificazione del contratto oppure
per difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione. È
poi prevista la possibilità di un ricorso al giudice amministrativo contro l’atto di
certificazione, per violazione di procedimento o per violazione di potere
Decreto Legislativo n. 276/2003 – art. 81 – Attività di consulenza e assistenza alle parti – Le sedi di
certificazione di cui all’articolo 75 svolgono anche funzioni di consulenza e assistenza effettiva alle parti
contrattuali, sia in relazione alla stipulazione del contratto di lavoro e del relativo programma negoziale, sia
in relazione alle modifiche del programma negoziale medesimo concordato in sede di attuazione del
rapporto di lavoro, con particolare riferimento alla disponibilità dei diritti e alla esatta qualificazione dei
contratti di lavoro.
art. 81 = questo articolo prevede una attività di consulenza ed assistenza alle parti. Qui
l’organo di certificazione non qualifica il contratto ma fornisce alle parti, ed in particolare al
lavoratore, un supporto informativo in ordine al possibile contenuto del contratto
medesimo e alla conseguente qualificazione
Premettendo che soltanto l’esperienza concreta potrà dire se la certificazione potrà davvero
assolvere alla funzione per la quale è stata pensata, è necessario fare altre precisazioni: in primo
luogo la caratteristica essenziale della certificazione è la volontarietà, ovviamente per entrambe
le parti del rapporto; in secondo luogo un altro problema a qui il legislatore non da una soluzione è
se la certificazione possa essere utilizzata solo in funzione dell’instaurazione del vincolo
contrattuale o anche in corso di esecuzione del rapporto, e la tesi preferibile sembra essere la
prima; in terzo luogo va ricordato che il potere di qualificazione dei rapporti spetta solo al
giudice, e dunque la qualificazione vi resta necessariamente assoggettata: il legislatore delegato
ha infatti chiarito che gli effetti della certificazione vengono meno, anche retroattivamente, qualora
su ricorso delle parti o anche dei terzi nella cui sfera giuridica l’atto di certificazione è destinato a
produrre i loro effetti, il giudice abbia ritenuto erronea la qualificazione o abbiano accertato la
difformità fra il programma negoziale certificato e la sua successiva e concreta attuazione. Nel
primo caso vi sarà una retroattività piena, nel senso che il rapporto verrà qualificato fin
dall’inizio cos’ come qualificato dal giudice, mentre nel secondo caso la diversa qualificazione
avrà effetto al verificarsi della difformità.