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Definizione di diritto comune romano-canonico: un sistema omogeneo ed unitario capace di ridurre ad unità la

molteplicità delle realtà giuridiche particolari.


Uno degli storici importanti citati nel primo capitolo è Francesco Calasso; lui spiega cosa è successo quando il diritto
romano è diventato diritto vigente nel medioevo. Ovvero la dottrina giuridica del sec XII ne forniva un'interpretazione
che lo adeguava alla società medievale e lo affianca all'altro diritto universale, quello canonico. Infatti l'impero era
considerato "sacro" e "romano" perciò aveva bisogno della compresenza di due diritti tra loro indiscibilmente legati.
il dir. romano + il dir. canonico formano l' "utrumque ius"
Il dir. romano riguarda le materie temporali, il dir. canonico le materie spirituali; le lacune dell’uno erano colmate
dall’altro. Per le “terrae Ecclesiae” il dir. canonico disponeva anche in materia temporale.
Il dir. comune non era l’unico, perciò si crea una gerarchia delle fonti.
I giudici attivi in un comune dell’Italia centro-settentrionale applicavano innanzitutto le norme degli statuti cittadini, poi
le consuetudini vigenti nel territorio, infine il dir. comune.
I giudici attivi nel meridione della penisola, invece, prima di passare alle regole di dir. comune, dovevano rivolgersi alle
norme regie.
Questo “sistema” era molto legato alla realtà istituzionale del Sacro Romano Impero, infatti il sistema di dir. comune
entra in crisi irreversibile quando l’Impero medievale inizia a perdere di significato.
Secondo Calasso esistono tre fasi storiche del sistema di dir comune:
1) PERIODO DEL DIR COMUNE ASSOLUTO, sec. XII – XIII
predominio del dir comune su ogni altra fonte
2) PERIODO DEL DIR COMUNE SUSSIDIARIO, sec. XVI – XV
affermazione dello “ius proprium”
3) PERIODO DEL DIR COMUNE PARTICOLARE, età moderna
dominio del dir dei singoli Stati in quanto si imponeva come unica fonte normativa perché emanata dal
princeps
Nella terza fase il dir comune poteva sussistere soltanto se il principe ne aveva ammesso la vigenza.
Da un lato Calasso definiva il dir comune “un fatto spirituale” perciò la sua vigenza nel Medioevo deriva dalla sua
natura religiosa. Dall’altro vedeva l’ordinamento medievale segnato dall’assoluta sovranità imperiale, tanto da parlare
del sistema di dir comune come “sistema legislativo”.
Secondo Paolo Grossi, il ricorso a categorie giuridiche desunte da ordinamenti contemporanei impedisce di cogliere la
particolare natura religiosa.
I sostenitori del sistema del dir comune avevano subito l’influenza di concezioni giuridiche contemporanee e
presentavano il dir comune come il dir delle sole regioni comprese nel Sacro Romano Impero; le critiche a queste
conclusioni affermano che nel Medioevo prevaleva il principio opposto, ovvero quello della personalità del diritto.
Inoltre se il dir comune doveva essere seguito da tutte le regioni del Sacro Romano Impero, doveva essere compresa
anche la Germania, paese che ha continuato a seguire i suoi diritti consuetudinari e solo a partire dal 1495, con
l’istituto del “Reichskammergericht”, il tribunale superiore della Camera imperiale, ha iniziato ad aprirsi alla
giurisprudenza italiana e a riconoscerla, con la “Rezeption”, diritto vigente. Non si spiegava nemmeno la presenza del
dir canonico nelle terre inglesi e francesi, presenza che si comprende facilmente se si abbandona l’esclusiva lettura
del dir canonico come componente di un “utrumque ius” riservato alle soli regioni dell’Impero medievale e lo si vede
nella sua effettiva realtà di dir vigente per l’intera universitas dei fedeli in Cristo.
Il Cassandro ha sostenuto che il dir comune era costituito dal solo dir civile e che il dir canonico aveva la sola funzione
di definire la normativa valida per la Chiesa universale.
Il Legendre ha contestato l’idea di un’identica posizione del dir civile e canonico, rilevando la superiorità del primo,
fondato sul testo della compilazione giustinianea, rispetto al secondo che andava cercando la propria definizione.
Quindi per il dir civile il ruolo della giurisprudenza era primario, per il canonico la funzione esegetica della dottrina
rimaneva secondaria. La maggiore autorità raggiunta dal dir canonico a partire dal sec XIII non è la formazione di un
legame inscindibile con il dir civile, infatti i continui contrasti tra Papato e Impero avrebbero impedito la formazione
dell’unità tra i due diritti al punto che l’espressione “utrumque ius” designava solo in modo sintetico il corso di studi
svolto da chi seguiva nelle università insegnamenti civilistici e canonistici e dunque acquisivano il titolo accademico di
“doctor in utroque iure”.
L’Astuti afferma che i giuristi di quel periodo non avevano alcuna consapevolezza di un rapporto tra ius commune e
iura propria, non riconoscevano alla compilazione giustinianea autorità universale ed esclusiva, ma ricorrevano solo
alle norme che giudicavano ancora valide, scartando le altre. Le norme scelte avevano natura di regole generali che
completavano la disciplina delle fonti locali. I giudici non facevano altro che applicare il criterio esegetico, per cui la
norma particolare deroga alla generale e questa completa la disciplina della prima.
Successivamente è stata contestata la tesi secondo cui nei primi secoli dell’età moderna si era affermata nei singoli
Stati la sovranità legislativa del principe. Tesi che si legava ad un’altra, secondo la quale la caratteristica essenziale

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dello Stato moderno era l’affermazione della potestà legislativa del principe. Infatti poco incisivi furono in quell’epoca
gli interventi normativi del monarca nella vita quotidiana delle comunità del regno e la sua legislazione rimase sempre
secondaria rispetto alle altre fonti.
Il Gorla rivaluta il ruolo dei tribunali supremi dei singoli Stati italiani, rilevando che le corti superiori di giustizia erano
ovunque composte da giuristi istruiti in dir romano e dir canonico quindi giudicavano le vertenze sulla base della lettura
delle norme di questi diritti. Ne derivava che da una parte il dir comune conservava il suo ruolo dominante negli
ordinamenti e dall’altra che grazie alla giurisprudenza dei tribunali supremi esercitava una decisiva forza unificatrice.
Più diffusa l’idea che la superiore autorità unitaria del principe si espresse nell’Italia dell’età moderna non in una
produzione legislativa ma in una importante funzione giudiziaria esercitata tramite i tribunali da lui istituiti. Quindi la
giurisprudenza delle corti supreme si sarebbe inserita nella dottrina del dir comune romano-canonico, affiancando e
completando l’interpretazione dei giuristi.
Ritornando alla tesi dell’Astuti, secondo cui i giuristi non assegnarono alle norme giustinianee un valore assoluto ed
esclusivo, troviamo numerosi esempi: i giuristi glossarono i testi relativi all’obligatio verbis romana e ne utilizzarono il
contenuto per la costruzione teorica della disciplina normativa dei negozi formali ed astratti proprii nella prassi
medievale, ma non pensarono mai di imporre una rinnovata stipulatio; non fecero nemmeno rivivere le forme dei
testamenti romani o i diversi tipi di legati, né di contrapporre il matrimonio romano a quello canonico. I glossatori allora
avrebbero il merito di aver compiuto la necessaria selezione tra ciò che era privo di interesse e ciò che ancora poteva
essere elemento vivo e vitale dell’ordine giuridico. Secondo l’Astuti quindi il dir giustinianeo godeva di autorità di dir
comune solo nelle materie in cui offriva norme che i giuristi medievali giudicavano ancora utili all’inquadramento della
prassi giuridica loro contemporanea.
Alejandro Guzmán Brito ripercorre il cammino della dottrina medievale nell’interpretazione dei due loci principali: il
passo di Gaio riportato in D. 1. 1. 9, il cosiddetto “omnes populi “, che distingueva tra ius civile (elaborato da ciascun
popolo e definito dal giurista come ius proprium) e ius gentium (valido per tutti gli uomini e indicato come ius
commune); il passo di Ulpiano in D. 1. 1. 6. che qualifica il dir civile come dir proprio ma propone come dir comune non
solo lo ius gentium ma anche lo ius naturale. Lo studioso spagnolo afferma che i glossatori non arrivarono mai all’idea
del dir romano come dir comune a tutti i popoli e rimasero fedeli all’impostazione dell’omnes populi.
Un passo in avanti ci fu con la scuola di Orléans quando Pierre de Belleperche propose la distinzione tra due tipi di dir
civile: quello generale, costituito dal dir romano; quelli speciali o particolari, rappresentati dai dir statuari o locali.
Infine Bartolo spezzò i vincoli della lettura tradizionale e affermò il dir romano non più come dir civile proprio generale
bensì come dir civile comune; questa denominazione adeguava la dottrina alla prassi e trovo definitiva accettazione
dal secolo XVI. L’idea del dir comune avrebbe riguardato esclusivamente lo ius civile e sarebbe maturata in epoca
tarda, prima metà del secolo XIV.
Il Cortese ha parlato di un’elevazione del Corpus iuris giustinianeo a diritto comune, successiva alla rinascita degli
studi giuridici, attribuendo il merito agli statuti comunali e alla prassi giudiziaria. Inoltre riguardo alla coincidenza tra dir
comune e dir giustinianeo, ne segnala i limiti cronologici e geografici, poiché a suo parere questa idea venne accolta
solo dall’Italia comunale.
Altro tema di discussione è costituito dal fondamento dell’autorità superiore riconosciuta nel Medioevo e nell’età
moderna al dir giustinianeo, il quale era dir vigente presso i popoli che lo consideravano dir comune. Gli storici che
credevano nell’esistenza di un sistema unitario di dir comune legavano la vigenza del dir giustinianeo all’istituzione
universale del Sacro Romano Impero e, adottando categorie proprie degli ordinamenti contemporanei, lo presentavano
come il dir esclusivo delle regioni imperiali derivante dalla superiore potestà legislativa del monarca universale. Gli
storici tedeschi soprattutto, legati all’idea dell’identità tra la sovranità dell’Impero medievale e quello dello Stato
contemporaneo, sostengono che il fondamento della vigenza del dir comune giustinianeo era costituito dalla sua
natura di “Kaiserrecht”: poteva valere ed essere cogente per le comunità dell’impero solo in quanto promulgato da un
imperatore.
Il Calasso aveva legato all’Impero medievale l’utrumque ius e aveva presentato il sistema di dir comune anche come
un sistema legislativo fondato sulla sovranità del monarca universale; nello stesso tempo mette in evidenza la natura
spirituale e religiosa dell’Impero e afferma che quel dir era considerato come “vera et communis lex” perché intesa
come “sanctio sancta”. Il dir comune giustinianeo sarebbe inteso come dir voluto da Dio per tutti gli uomini.
Questa tesi è stata ripresa in anni più recenti dal Piano Mortari, il quale ha attribuito ai glossatori l’idea che nella
codificazione giustinianea erano stati tradotti in regole di dir positivo i principi di giustizia e di equità propri del
cristianesimo. Ha inoltre affermato che entrambe le scienze erano fondate su un complesso di testi che apparivano di
un prestigio e di un valore eccezionali, la prima sulla Sacra Scrittura e la seconda sulla compilazione giustinianea,
considerata tesoro inesauribile della verità giuridica. Quindi il Corpus iuris giustinianeo godeva presso i giuristi
medievali della stessa autorità suprema riconosciuta ai testi della rivelazione divina.
Successivamente l’argomento è stato ripreso dal Bellomo, il quale ha sostenuto che la legge del principe entrava nel
processo dell’interpretatio iuris come un elemento utile all’interno e nell’iter del più ampio processo di interpretazione

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della realtà e delle Sacre Scritture rivelatrici della Verità e della Giustizia divine. Poi sottolinea la natura di scienze
testuali, dopo aver confutato la tesi del dir comune come “Kaiserrecht”, ha evidenziato l’autorità riconosciuta
unanimemente nel Medioevo al testo scritto in quanto tale. In quel periodo tutte le scienze si propongono come
scienze del libro: la teologia si fonda sulle Sacre Scritture, la filosofia sui testi aristotelici, la medicina sui libri di
Ippocrate; allo stesso modo la scienza giuridica si basava sull’autorevolezza dei testi giustinianei e in virtù di questa
formulava regole valide per tutti gli uomini.
Sulla legittimazione religiosa del dir comune concorda anche Paolo Grossi il quale afferma che una sola legge il dir
comune aveva invece al suo fondo come legittimazione ultima, il dir divino. Inoltre la dottrina medievale, con la sua
interpretatio, operò un distacco sostanziale dal testo creando un dir sostanzialmente nuovo.
Altro tema in discussione è quello del rapporto tra dir civile e dir canonico. I sostenitori del sistema unitario di dir
comune li ritenevano entrambi universali, costituivano l’utrumque ius ed i loro rapporti erano regolati da regole precise.
Il Cassandro ha ritenuto che la funzione del dir comune fosse assolta nel Medioevo dal solo dir romano giustinianeo,
mentre il dir canonico avrebbe avuto la mera funzione di dettare norme generali alle chiese particolari. Altri studi hanno
evidenziato la natura di dir comune del dir canonico in quanto vincolante per tutti i fedeli in Cristo a prescindere dalla
loro appartenenza al Sacro Romano Impero; nelle regioni passate alle confessioni riformate, i testi canonistici
medievali continuarono ad essere utilizzati come fonte di informazione per la soluzione di controversie teologiche e
fonte di norme.
Il Liotta ha ribadito lo stretto collegamento tra il dir giustinianeo e il dir canonico nel Medioevo: tutte le collezioni ufficiali
di decretali furono pubblicate, a partire da Innocenzo III, mediante il loro invio ad scholas, agli Studi generali, dove si
insegnava e si studiava il dir civile; i pontefici legislatori erano giuristi colti formatisi nello studio del dir giustinianeo.
Su un aspetto del dir comune la maggior parte degli studiosi concorda, la sussidiarietò rispetto al diritto proprio. Nel
Medioevo esisteva una precisa gerarchia delle fonti, in virtù della quale i giudici cittadini ricorrevano al dir comune solo
in mancanza di norme di ius proprium. Il dir comune ha conservato questa funzione sussidiaria in età moderna quando
la legislazione principesca diventa la fonte primaria del dir ma continua a far riferimento a quel dir per il proprio
completamento.
L’Astuti ammetteva che le norme romane fungevano da genus rispetto alle norme di diritto particolare le quali
costituivano le diverse species; e al genus si ricorre quando le species non dispongono.
Il Grossi invece respinge la nozione di gerarchia delle fonti in quanto legata ad una visione monastica dell’ordine
giuridico, che prospetta lo Stato come unico ente legittimato a produrre diritto. Secondo lui, gli ordinamenti giuridici
medievali erano tutti sul medesimo piano e si integravano a vicenda; quindi il dir comune e i dir particolari sarebbero
legati da un rapporto reciproco di complementarietà.
In conclusione si può dire che il dir giustinianeo, a motivo della sua natura di dir dell’Impero oppure della sua
derivazione dalla volontà divina o ancora della sua incorporazione in testi di eccezionale rilevanza, venne considerato
a partire dagli ultimi secoli del Medioevo dir comune a tutti i soggetti che vivevano nelle regioni dell’Italia comunale,
quanto meno nelle materie per le quali le norme romane erano considerate ancora utili. Tale autorità era condivisa dal
dir canonico, il cui compito era disciplinare le materie che la Chiesa rivendicava alla propria competenza. La funzione
del dir comune era quella di colmare le lacune dei dir propri, statuari o consuetudinari, operando rispetto ad essi come
dir sussidiario.
Nella dottrina giuridica italiana della prima età moderna troviamo una riflessione sulla natura di dir comune da
riconoscere al dir romano giustinianeo. Il bolognese Alberto Bolognetti riprendeva la discussione della scienza
medievale sulla Omnes populi, ripetendo l’antica distinzione tra ius gentium e ius civile basata sulla qualità di ius
commune del primo e di ius proprium del secondo. Inoltre mette in dubbio la possibilità di qualificare come comune il
dir romano giustinianeo, infatti la dottrina del secolo XVI risulta accogliere pacificamente l’identificazione tra dir romano
e dir comune. Il fiorentino Sebastiano Medici afferma che l’espressione ius civile stava a designare il dir civile romano.
Trova conferma nel vercellese Giovanni Pietro Malignati, secondo cui lo ius civile, cioè il dir romano giustinianeo,
continuava ad essere visto dai giuristi italiani come il dir comune per antonomasia. Nel sec XVII Giovan Battista de
Luca affermava con decisione che il dir romano giustinianeo era inteso come sinonimo di dir comune, mettendo a
confronto il dir generale dei singoli Stati dell’Italia centrosettentrionale con il dir giustinianeo. Il dir romano
necessariamente doveva essere completato dall’interpretatio della dottrina. Il dir comune civile allora era costituito non
solo dal dir romano giustinianeo, ma anche dalla dottrina. L’interpretatio iniziata dai glossatori e proseguita dalle
successive scuole esprimeva la grande tradizione di pensiero costantemente vivificata dagli apporti della dottrina. Una
tradizione interpretativa che aveva fatto conoscere alle norme giustinianee una decisa evoluzione, prendendo in
considerazione solo le norme utili alla disciplina della prassi giuridica. Ne era nato un dir nuovo rispetto al dir romano
giustinianeo, che ne condivideva la natura di dir comune. I richiami delle corti di giustizia e dei giuristi al dir romano
non consistevano in citazioni del solo testo giustinianeo ma in richiami alla dottrina; basti ricordare i numerosi Repertori
di dir civile apparsi tra Quattro e Cinquecento. Il dir civile comune dunque era costituito dall’interpretatio delle norme

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giustinianee elaborata dalla lunga tradizione dottrinaria. Il dir giustinianeo si presenta come un dir comune
potenzialmente onnicomprensivo che non ammetteva rinvio ad altro diritto.
Sul tema del fondamento della legittimità dello ius commune, Alberico Gentili equiparava i giuristi ai teologi, ai medici,
ai filosofi, agli storici e ai letterati, enumerando tutte le scienze fondate sull’autorità di un testo; dunque era la stessa
compilazione giustinianea, articolata nei libri legales studiati ed interpretati nelle università, a conferire tale autorità.
Dunque questa tesi fonda l’autorità della dottrina giuridica medievale sulla sua natura di scienza del libro e preminente
tra i testi giustinianei era il Digesto. Lo spagnolo Fortunio García de Arzilla ritiene, invece, che il fondamento
dell’autorità del dir civile era costituito dalla sua derivazione dal dir divino naturale, quindi un confronto con il dir
canonico dimostrava che i due dir avevano identici fini ed identica origine.
Poi il bresciano Stefano Federici si occupò del problema del rapporto tra dir comune e dir statuario, rilevando che non
era solo la derivazione dalla volontà divina a conferire al dir civile la natura di dir comune a tutti gli uomini e la sua
superiorità su ogni altro dir temporale. In primo luogo era la forza della tradizione secolare di applicazione delle sue
disposizioni e della loro interpretazione da parte dei giuristi definiti “arbitri aequitatis”; la natura di “aequitas constituta”,
ovvero di disposizioni che traducevano in dir scritto il superiore principio di giustizia, che impediva una loro modifica da
parte di nuove leggi che potevano essere ammesse solo in funzione meramente integrativa del dir civile.
La natura del dir romano giustinianeo come dir che costituiva il più alto modello di “aequitas constituta” era stata
riconosciuta dai commentatori, i quali affermarono che questo dir era permeato da uno spirito profondo di razionalità. E
Pietro Andrea Gambaro affermava che la legge aveva forza cogente solo se la volontà normativa del legislatore era
stata guidata dalla ragione.
La dottrina italiana della prima età moderna, inoltre, era convinta che il dir canonico avesse la stessa natura di dir
comune universale del dir civile giustinianeo. Secondo lo spagnolo Fortunio García il dir canonico aveva in comune
con quello civile sia l’obiettivo (l’ “humanae vitae felicitas”) sia l’origine. La natura di dir universalmente vigente era
riconosciuta al dir canonico anche da Federico Scotti, il quale assegnava al canonico la medesima natura di dir
comune del civile per indicare come dovevano essere risolte le antinomie tra di loro.
Dunque due dir universali e comuni che potevano confliggere tra di loro, perciò occorreva individuare criteri per
stabilire i casi in cui l’uno prevaleva sull’altro. Il cortonese Antonio Maria Corasi ne indica alcuni: “quando sumus in
materia spirituali…quando ius civile est contrarium canonico…quando sumus in materia non concernenti peccatum et
in terris ecclesiae” prevale il dir canonico; “quando sumus in materia non concernente peccatum et in terris Imperii”
prevale il dir civile romano. Quindi due diritti e due interpretationes comuni, il canonico per le materie spirituali e il civile
romano per le temporali, ciascuno con le proprie corti di giustizia; in particolare questa regola valeva per le regioni
dell’Italia centrosettentrionale ovvero le “terrae Imperii”, mentre per le “terrae Ecclesiae” il dir canonico costituiva anche
il fondamento del dir temporale.
Bisognerebbe quindi dar ragione agli storici che sostenevano l’esistenza di un organico ed unitario sistema di dir
comune, fondato su un dir vigente per tutti, un dir costituito dall’utrumque ius, l’unione del dir civile e di quello
canonico. Ma il discorso del giurista cinquecentesco non riguarda in generale i territori dell’Impero ma solo le regioni
dell’Italia centro settentrionale, a cui si deve riferire il problema del dir comune, e l’obiettivo del Corasi appare quello di
definire in maniera chiara la competenza delle corti civili e di quelle ecclesiastiche attive in dette terre. Il Federici pone
sullo stesso piano il ruolo del dir civile nelle terrae Imperii e quello del dir canonico nelle terrae Ecclesiae.
Nel secolo successivo Giovan Battista De Luca, nel commentare la costituzione con la quale nel 1680 Innocenzo XI
aveva disciplinato la materia successoria, affronta il problema del rapporto tra le fonti giuridiche riconosciute nei diversi
Stati dell’Italia centrosettentrionale, cioè tra dir romano comune, dir generale del principato e dir statuario delle singole
città. Secondo il De Luca manca qualsiasi ipotesi di integrazione reciproca tra dir romano e dir canonico dato che
l’unica prospettiva è quella delle lacune del dir canonico come dir temporale e della conseguente necessità di un suo
completamento con il dir civile romano. Se invece esaminiamo la prassi giuridica, vediamo che nelle terre della Chiesa
i rapporti tra dir canonico, come dir temporale, e dir civile romano erano più complessi. Entrambi si confermavano dir
comuni ma il secondo non interviene solo a completamento del primo, è a lui vincolato da legami profondi. Ad
attestarlo sempre il De Luca ma in veste di avvocato: nella vertenza insorta a Roma nel 1656 tra la Congregazione
della S. Inquisizione e la compagnia mercantile dei fratelli Pacini, appaltatrice della ferriera di Conca di proprietà della
Congregazione, i Pacini chiedevano di essere esonerati dal versamento del canone per l’anno precedente perché si
erano verificate le condizioni previste nel contratto di appalto per la “remissio mercedis”, mentre la S. Inquisizione si
richiamava alla dottrina giuridica per proporre la lettura opposta. Sia il De Luca (difensore dei Pacini) sia la
Congregazione sollecitarono il rispetto di due capitoli del Liber Extra, i quali dettavano norme sulla “remissio
mercedis”, ma allo stesso tempo richiamavano l’interpretazione elaborata dalla dottrina non in merito a questi capitoli
bensì ai loci del Corpus iuris civilis, che aveva elaborato una disciplina più esaustiva in materia.
Perciò la lunga ed autorevole tradizione interpretativa della scienza giuridica aveva dato vita ad una sensibile osmosi
tra i due diritti nel senso che i civilisti accoglievano le conclusioni della riflessione canonistica ed i canonisti, a loro
volta, recepivano gli apporti del pensiero civilistico. Dunque nella prima età moderna la dottrina giuridica del mos

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italicus dominante nelle regioni dell’Italia centrosettentrionale accoglieva l’idea del dir romano giustinianeo, plasmato
dall’interpretatio dei giuristi, come diritto comune a tutti gli abitanti delle regioni medesime e che tale natura di dir
comune era condivisa anche dal dir canonico, dir comune che in virtù della sua superiore autorità era per tutti
vincolante. Proprio in virtù di questa superiore autorità il dir comune non poteva essere modificato da alcuna potestà
terrena.
Il giurista Costantino Rogerio infatti stabiliva la superiorità del dir comune sui principi dei vari Stati italiani, ai quali
veniva negata ogni potestà di emanare rescritti difformi da questo diritto; quindi il problema era quello della legittimità
di un rescritto del principe contrario alla norma di dir comune. Il problema del rapporto tra principe e legge era antico,
già nel 69 d.C. l’imperatore Vespasiano aveva dichiarato di non essere vincolato dalle leggi dei suoi predecessori. Tale
opinione si consolidò ulteriormente nel periodo successivo, tra il II ed il III secolo trovò espressione nella famosa
formula di Ulpiano in D. 1. 3. 31. “princeps legibus solutus est”. Quindi l’ordine emesso dal principe attraverso la sua
legge in virtù dell’imperium di cui era titolare vincolava tutti i soggetti di diritto, presenti e futuri, ma non lui stesso ed i
suoi successori nella carica. Vista la pericolosità di tale situazione, Valentiniano e Teodosio cercarono di attenuarla
con una soluzione di compromesso che ribadiva la legibus solutio del principe ma ne fissava i limiti. Nella costituzione
“Digna vox” affermano che l’imperatore, pur essendo immune dal dovere giuridico di rispettare le leggi dei
predecessori, avrebbe governato in maniera corretta e degna di massima lode se si fosse esplicitamente impegnato
ad osservarne il dettato. Su questi testi si fondò l’analisi della dottrina medievale.
Azzone riteneva che la legge, espressione dell’imperium, consisteva in un ordine e si poteva parlare di ordine solo
nell’ambito di un rapporto gerarchico in cui la disposizione era indirizzata da un superiore ai soggetti a lui subordinati.
Ma non era configurabile un rapporto gerarchico dato che l’imperatore che aveva promulgato la legge e quello che
l’avrebbe dovuta eseguire ricoprivano la medesima dignità ed erano quindi di pari grado. Di conseguenza l’ordine
contenuto nella legge non riguardava i successori del principe legislatore. Nei confronti di costoro il comando si
trasformava in consiglio, infatti il legislatore poteva cercare di convincere i futuri titolari della carica a rispettare le sue
norme, mai avrebbe potuto imporre tale rispetto. Azzone dunque chiariva che il rispetto delle leggi da parte degli
imperatori era opportuno ma non obbligatorio.
La tesi di Azzone fu condivisa dalla dottrina successiva. Jacques de Révigny affidò il rispetto delle leggi più che alla
voluntas, all’honestas dell’imperatore. I giuristi della prima età moderna ribadivano le conclusioni dei maestri medievali:
ad esempio nel “Tractatus regimins mundi” attribuito a Michael Vulcurnius ritroviamo il pensiero di Azzone sulla
mancanza di un obbligo giuridico dell’imperatore e del papa ad osservare le leggi dei loro predecessori. Ma la
questione riguardava la sola legge che consisteva in un comando, mentre non coinvolgeva le altre fonti giuridiche per
le quali l’obbligo di rispetto da parte del principe non era messo in discussione.
Il tema della legibus solutio presupponeva la vigenza delle leggi promulgate dai predecessori del principe, leggi che
continuavano ad essere vincolanti per tutti i soggetti, con la sola eccezione del principe che ne rimaneva obbligato solo
se avesse liberamente deciso di esserlo. I giuristi erano preoccupati per la tutela del dominium privato di fronte a
provvedimenti espropriativi disposti dal principe e del rispetto da parte di quest’ultimo dei contratti stipulati con singoli
soggetti, poiché le norme che disciplinavano questi concetti valevano per tutti ma non necessariamente per il principe.
Tra queste leggi dei predecessori degli imperatori medievali si trovano in primo luogo i testi giustinianei e non appariva
nemmeno immaginabile una legislazione abrogativa o riformatrice. Nel Medioevo si riconosceva al principe la potestà
legislativa solo come parte della sua funzione di giustizia, dato che egli era tenuto non solo a garantire il rispetto del dir
nato spontaneamente ma anche ad impedire che questo dir contenesse norme contrarie al superiore principio di
giustizia, l’aequitas. Le leggi del principe avevano la funzione esclusiva di abolire le consuetudini inique sostituendole
con norme eque, cioè la funzione di tradurre l’aequitas in ius. Quindi al principe restava poco spazio nei riguardi del dir
civile giustinianeo che la dottrina italiana leggeva come aequitas constituta. Tale incapacità di modificare il dir civile
riguardava non solo i principi di singoli ordinamenti territoriali, ma anche le potestà universali, il papa e l’imperatore.
I giuristi aprivano un’ulteriore questione sulla legittimità di rescritti, imperiali o pontifici, che senza abrogare le norme di
dir comune disponevano in contrasto con le stesse, ovvero il problema della liceità dei rescripta contra ius. La
disciplina romana prevedeva che i giudici non dovevano riferirsi ai rescripta contra ius, potevano farlo solo in via
eccezionale quando la loro osservanza non fosse di nocumento a terzi e andasse ad esclusivo vantaggio del
beneficiario. La dottrina medievale conservò sostanzialmente tale impostazione introducendo ulteriori limiti alle
eccezioni ammesse. L’ostilità delle leggi romane verso i rescripta contra ius veniva ampiamente condivisa dal
glossatore il quale restringeva lo spazio lasciato alle eccezioni ammesse, accettando la liceità dei rescritti nelle sole
ipotesi di eliminazione di un’iniquitas e di indulgenza per un crimine. Maggior apertura mostrò nei confronti dei
rescripta contra ius Cino da Pistoia: ammetteva tali rescritti sia “contra ius naturale” sia “contra legem divinam” purché
“causa subsistente”, in quanto giudice supremo la cui sentenza si presume sempre giusta e inappellabile. Ma la sua
posizione non sembra essere condivisa dai successivi commentatori, come Bartolo che li ammette solo quando
contenevano la clausola “aliqua lege non obstante”, clausola che non necessariamente avrebbe dovuto indicare la
legge violata. La dottrina medievale vedeva con sfavore, dunque, i rescritti contrari al dir civile e li ammetteva solo a

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condizioni ben precise. La liceità del rescritto contra ius non comportava l’eliminazione della legge dallo stesso violata,
la quale continuava a valere per i terzi non toccati dal provvedimento imperiale. Pertanto il rescritto imperiale o
pontifico era considerato legittimo solo in due casi: quando si rinvenisse nella norma di dir civile la previsione di una
deroga alla propria normativa, deroga che doveva riguardare non singoli soggetti ma l’intera comunità; quando si fosse
in presenza di una norma tradizionalmente derogata dal principe perché non espressamente imposta come vincolante.
Al di fuori di questi casi, anche le somme potestà universali erano subordinate al dir comune.
Perciò la dottrina continuò ad accettare l’idea universale dell’immutabilità del dir comune e della sua forza vincolante
per tutti; quello di cui si discuteva era la possibilità del principe di essere dispensato dall’osservanza delle norme di dir
comune in casi eccezionali. Nel trattato “De suprema seu absoluta protestate principis” di Ludovico Rodolfini e da lui
dedicato al duca di Parma Ranuccio I Farnese, leggiamo che il principe era vincolato al rispetto dello ius commune e
solo in casi del tutto straordinari ed eccezionali poteva derogarvi; una deroga che non tutti i giuristi consideravano
legittima. Coloro che condividevano questa tesi fissavano numerosi limiti all’esercizio della potestà assoluta. A detta
del Rodolfini il principe era obbligato a dichiarare esplicitamente nei suoi rescritti di voler fare ricorso a tale potestà
straordinaria: pertanto doveva inserire nei suoi atti “clausulam de plenitudine potestatis”, o “clausulam non obstante”, o
“clausulam ex certa scientia”, o “clausulam motus proprij”. I giuristi che accettavano l’idea della potestà straordinaria
del principe, grazie alla quale egli era legittimato in casi eccezionali a liberarsi dal dovere di rispettare il dir comune, si
preoccupavano di limitare l’esercizio della stessa e di impedirne conseguenze negative sulla certezza dei diritti dei
singoli; in particolare tale preoccupazione riguardava il dominium privato. Il dir comune offriva il fondamento più saldo
alla stabilità del dominium privato nei rapporti intersoggettivi: nei riguardi dell’intervento del principe lo stesso dir
imponeva la condizione dell’esistenza di una iusta causa per i provvedimenti limitativi del suddetto dominium, anche
per quelli adottati in ragione della potestas absoluta. Infatti nemmeno il ricorso a quest’ultima poteva legittimare il
principe a violare, senza giusta causa, un dir di un soggetto disciplinato da disposizioni dello ius civile.
Allora la dottrina italiana della prima età moderna sembra condividere l’idea tradizionale che riconosceva al dir civile,
collegato con il canonico e plasmato dall’interpretatio dei giuristi, non solo vigenza per tutti i soggetti ma anche
superiorità rispetto ai Principi i quali erano sottoposti alle sue regole e queste non potevano abrogare con proprie leggi.
Tutto al più erano legittimati, solo in casi eccezionali, a non ottemperarle; la dottrina allora cerca di tutelare il più
possibile i diritti dei singoli.
La storiografia ritiene che la funzione del dir comune sia di sussidiarietà rispetto ai dir particolari, un’idea affermata non
soltanto dai sostenitori di un ordinato ed unitario sistema di dir comune, con una funzionale gerarchia delle fonti che
dal dir dell’ordinamento più piccolo saliva fino al dir universale, ma anche da quanti negano detto sistema e pensano al
tradizionale rinvio dalla norma particolare a quella generale. Il giurista doveva cercare di concordare la disciplina delle
norme statuarie e consuetudinarie con l’altra delle norme di dir civile comune, doveva leggere le prime secondo gli
schemi offerti dalle seconde. L’idea non era nuova, già a partire da Bartolo la scienza giuridica aveva maturato la
convinzione che le norme statuarie dovevano essere interpretate secondo la ratio iuris communis, e la medesima
regola avrebbe dovuto valere anche per le norme consuetudinarie. Ma cosa significa interpretare lo statuto e la
consuetudine secondo il dir comune? Mario Talamanca ha messo in luce la particolare natura dei testi giustinianei; la
giurisprudenza romana infatti non era composta di astrazioni elaborate bensì si arrestò alla definizione di schemi
classificatori di estrema semplicità, basati sulla divisione dei casi particolari in genera, dai quali si poteva
successivamente passare alla distinzione in species. Questa tendenza a seguire un’impostazione prevalentemente
casistica garantiva la piena adesione alla prassi giuridica. Tale indirizzo fu proseguito dai giuristi di età classica e
postclassica, con la sola eccezione di una corrente minoritaria che cercò un inquadramento ordinato del diritto e una
sua divisione continua e successiva a partire dalle partizioni; tale corrente trovò massima espressione nelle
“Institutiones” di Gaio, unico manuale giunto a noi integralmente. Mentre le “Institutiones” giustinianee si ispiravano al
modello gaiano, il Digesto rimase fedele all’impostazione prevalente nella scienza giuridica romana e conservò la
molteplicità dei casi nati dalla prassi e al loro inserimento nell’astrazione “genus-species”. Questo carattere determinò
l’utilità della raccolta nel Medioevo, una rete estesa dove sistemare i tanti casi sorti nella vita pratica del diritto e
leggerli con un’astrazione contenuta, sempre attenta alla concretezza della realtà sociale. I giuristi medievali da un
canto promossero una più aggiornata interpretazione della dottrina romana per adeguarne i contenuti alla realtà
giuridica del tempo, dall’altro rielaborarono le categorie giustinianee tanto legate alla prassi per renderle idonee ad
accogliere casi molteplici, al fine di completare la disciplina che questi ricevevano dalle fonti locali (consuetudini). Detto
in altre parole, quando il caso sorto nella prassi e regolato dal dir particolare riusciva ad essere accolto nella dottrina,
fondata sulla base dei testi giustinianei, allora le norme che lo riguardavano potevano essere interpretate e completate
alla luce della disciplina giustinianea. Allora il dir civile non si limitava ad una funzione sussidiaria di fonte giuridica
generale cui si ricorreva solo in caso di lacune, ma offriva un inquadramento e completamento alla disciplina del dir
proprio, garantendo a questa stabilità e certezza in virtù della propria indiscussa autorità. Quindi le norme di dir
proprio, in particolare degli statuti, dovevano essere interpretate secondo il dir comune: dove era possibile, le prime
dovevano essere inserite in una delle categorie definite dai testi giustinianei e plasmate dalla dottrina medievale; poi la

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disciplina particolare era letta alla luce dell’interpretazione dei corrispondenti loci giustinianei offerta dalla scienza
giuridica e da questa completata. La norma statuaria inquadrabile negli schemi romanistici riusciva ad essere inserita
nel meccanismo di astrazione seguito dal Digesto, presentandosi come species particolare del genus disciplinato dallo
ius commune.
Ricordiamo la vertenza del 1656 tra la Congregazione della S. Inquisizione e i loro affittuari Pacini, con difensore
Giovan Battista De Luca: la vertenza si incentrava sull’interpretazione di una clausola del contratto di locazione della
ferriera di Conca, clausola secondo la quale quando per causa di una guerra non fosse stato possibile far pervenire
alla ferriera il necessario quantitativo di minerale grezzo, gli affittuari sarebbero stati esentati dal versamento del loro
canone; la grande epidemia di peste che colpì Roma aveva impedito l’arrivo a Conca del quantitativo ordinario di ferro
e, poiché la peste era intesa come “bellum Dei”, i Pacini chiesero il rispetto della clausola contrattuale; la risposta
negativa della Congregazione aprì la vertenza. Il contrasto però non riguardava l’effettiva rispondenza dei fatti
all’ipotesi contrattuale, bensì la lettura che doveva essere data della clausola negoziale. L’Inquisizione intese detta
clausola come disciplinante un caso della “remissio mercedis” regolata dal dir giustinianeo e da quello canonico e
interpretata da una copiosa dottrina medievale e moderna; quindi rifiutò di applicare la norma negoziale nei meri
termini contrattuali, affermano che la stessa doveva essere considerata all’interno della disciplina di dir comune e
quindi dell’interpretazione fornita dai giuristi. La medesima operazione fu seguita dal De Luca per controbattere le tesi
della parte avversa. Ne risultò una duplice operazione: da una parte l’inquadramento del caso concreto in una
categoria di dir comune; dall’altro la lettura della disciplina di dir proprio riguardante il caso alla luce dell’interpretazione
elaborata dalla scienza giuridica in merito alla categoria di dir comune utilizzata. Proprio questo inserimento delle
norme di dir proprio negli schemi di dir comune riesce a spiegare l’utilizzazione per gli statuti delle medesime regole
interpretative per la lettura dei testi giustinianei e canonistici. Spiega inoltre la ricorrente attenzione dei giuristi per le
norme statuarie non riconducibili al dir comune: Alberico da Rosate aveva affermato che tali norme erano legittime ma
al contempo aveva fissato rigidi limiti all’applicazione delle stesse: dovevano essere interpretate nella maniera meno
lesiva del dir comune e la loro osservanza doveva essere limitata a casi specifici dalle stesse regolati, senza
estensione analogica.
Stefano Federici distingue gli statuti in tre categorie: “secundum ius commune”, “praeter ius commune”, “contra ius
commune”. Nella prima categoria gli statuti venivano interpretati secondo le regole dello ius commune, ne conseguiva
un’influenza reciproca tra le disposizioni di dir comune e quelle statuarie che i Commentatori chiamano
“interpretazione estensiva passiva”. Le regole interpretative usate per il dir comune dovevano essere utilizzate anche
per gli statuti “praeter ius commune” (praeter, oltre), categoria in cui rientrava la maggior parte dei testi normativi
comunali. Per il terzo tipo, invece, le norme dovevano considerarsi legittime e dovevano essere applicate nella loro
nudità formale, senza subire quella complessa operazione interpretativa usata per le norme inquadrabili nelle
categorie di dir comune.
Il dir comune era considerato dalla dottrina come onnicomprensivo, dato che le lacune delle norme giustinianee
avrebbero potuto essere colmate dall’interpretatio dei giuristi, e in quanto tale non ammetteva ulteriori rinvii ad altri
diritti dopo di lui. Costituiva l’imprescindibile punto di riferimento per ogni dir particolare e l’unico ordinamento cui
norme particolari potessero rinviare; pertanto anche le norme statuarie “praeter ius commune” dovevano subire
l’interpretatio dottrinaria che le inseriva nelle categorie da quello fornite e solo le norme che facevano eccezione
restavano fuori. Ma per queste ultime non si proponeva un rinvio ad un dir generale diverso dallo ius commune,
rimanevano prive di inserimento in categorie più generali e prive della stabilità e autorità; erano legittimamente
applicate solo in quanto eccezioni e quindi per l’esclusiva disciplina dei casi di cui si occupavano, ogni estensione della
loro applicazione sarebbe stata illegittima.
Al termine di questa analisi della dottrina italiana della prima età moderna, appare possibile indicare alcune
conclusioni: vengono confermate la natura e la funzione riconosciute allo ius commune dalla scienza giuridica
dei secoli precedenti; lo ius commune si confermava espressione della lunga, complessa e articolata
tradizione interpretativa delle norme giustinianee e canoniche iniziata con la scuola della glossa e proseguita
nei secoli successivi. Lo ius commune consisteva allora nell’inscindibile unità di norme giustinianee e della
loro interpretazione creativa prodotta dalla scienza giuridica medievale e moderna, arricchita dal contributo
della riflessione dottrinaria sui testi canonistici; è un dir vigente per tutti i soggetti a prescindere dalla loro
appartenenza ad un regno; è un dir universalmente riconosciuto come dotato di autorità, legittimata da
molteplici argomenti, talmente superiore da non poter essere modificato da leggi generali di pontefici,
imperatori e principi i quali solo in casi di estrema eccezionalità potevano disattendere le sue regole, mai
invece erano legittimati ad abrogarle; era considerato onnicomprensivo, nel senso che in esso poteva essere
rinvenuta la disciplina di tutti i casi maturati nella prassi, in virtù della forza creativa dell’interpretatio, perciò
costituiva l’unico dir di rinvio dai diritti particolari; è il dir che definiva le categorie teoriche generali entro cui
le norme di ius proprium potevano essere inserite. La regola disposta dalla norma particolare veniva letta alla
luce della disciplina definita per quella categoria dal dir romano e dall’interpretazione di quest’ultima elaborata

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dalla scienza giuridica medievale e moderna; si otteneva la legittimazione certa e completa della norma
particolare e il completamento della disciplina disposta dalla prima mediante la lettura delle regole romano-
canoniche in cui era stata inserita. Nei casi in cui l’inquadramento non fosse stato possibile, la norma
particolare era ritenuta legittimamente applicabile solo in quanto eccezione, giustificata dalle necessità
concrete della prassi, della regola generale; pertanto non poteva essere estesa al di fuori del singolo caso
regolato, né poteva essere integrata dall’interpretazione dei giuristi.

Gli iura communia della dottrina napoletana


La scienza giuridica napoletana del periodo compreso tra l’inizio del secolo XVI e la metà del successivo offre un
concetto di dir comune diverso da quello delle regioni centrosettentrionali italiane. A questo proposito, è importante il
contributo sia delle Decisiones dei supremi tribunali del regno
- il Sacro Regio Consiglio, giudice di prima istanza per cause civili di particolare rilievo e giudice di appello da
tutti i tribunali regi inferiori;
- la Regia Camera della Sommaria, per tutte le vertenze in cui fosse coinvolto il fisco e titolare di estese
funzioni amministrative in materia finanziaria e di controllo delle università
- la Gran Corte della Vicaria, corte d’appello dei tribunali provinciali divisa in due ruote, civile e criminale, e
corte di giustizia della città di Napoli
sia dei giuristi autori di raccolte delle medesime Decisiones, soprattutto quelle del Sacro Regio Consiglio, la cui serie fu
inaugurata all’inizio del sec XVI da Matteo D’Afflitto.
La dottrina napoletana del periodo in esame riconosceva natura di ius commune al dir romano giustinianeo e questo
concetto era stato espresso già nel secolo XIII da Martino da Caramanico nel Proemio della sua glossa ordinaria al
“Liber Constitutionem Regni Siciliae” di Federico II. Il dir romano nell’opinione del glossatore meridionale era dir
vigente nel regno non per la sua superiore autorità universale, bensì soltanto in virtù della volontà, espressa o tacita,
dei monarchi, e tra i dir vigenti nel regno aveva natura di dir comune.
Il giurista Andrea d’Isernia proponeva una lettura storicistica del dir romano, in vista di una distinzione cronologica
individuando il momento di cesura nella donazione constantiniana; lettura che, legando le leggi romane al momento
storico in cui erano state promulgate, aveva la conseguenza immediata di privarle della validità universale che la
scienza giuridica delle regioni centrosettentrionali le aveva attribuito. Le leggi precedenti la donazione constantiniana
erano entrate in vigore nelle regioni meridionali al pari delle altre regioni dell’Impero romano e continuavano a valere.
Le norme successive non potevano vantare la medesima legittimazione, allora la loro vigenza nel regno doveva
trovare un’altra giustificazione, indicata dal giurista nella rispondenza alla ratio e all’aequitas. Quindi Andrea d’Isernia
abbandona l’idea di Martino da Caramanico il quale fondava la vigenza del dir romano nella sua interezza sul
consenso dei monarchi meridionali e aveva attribuito a quel diritto una natura particolare, quella di espressione della
ratio iuris, per giustificarne la vigenza. Invece Andrea d’Isernia richiamava la rationabilitas delle norme romane per
legittimarne la natura di dir effettivamente vigente nel regno.
La distinzione cronologica tra le norme romane proposta da Isernia non venne ripresa da Luca da Penne, infatti il
pensiero del giurista è allineato a quello della grande dottrina delle regioni centrosettentrionali e distante dalla
riflessione della scienza giuridica meridionale sulla vigenza del dir romano. Non troviamo cenni né alla divisione
cronologica tra le norme romane né alla permissio regia quale condizione per la loro vigenza nel regno, questa era
legittimata dalla loro rationabilitas e dalla loro derivazione dalla volontà divina. Luca da Penne lasciava da parte ogni
considerazione d’ordine territorialistico e recuperava in pieno la tesi della vigenza universale del dir romano quale dir
voluto da Dio per tutti gli uomini.

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