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Aristotele
EDIZIONI LULU.COM
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Introduzione
Non c’è bisogno di essere navigati storici della filosofia per sapere,
almeno intuitivamente, che Aristotele è uno dei più grandi punti di rife-
rimento della filosofia d’ogni tempo: il suo contributo è stato da più parti
definito gigantesco1, e le stesse suddivisioni interne della filosofia oggi
comunemente utilizzate sono state stabilite in origine proprio da lui2.
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nuovi interessi rispetto alla politica, soprattutto conoscitivi ed etici, che
costituiranno una delle principali caratteristiche della nuova era che sta
iniziando: l'età ellenistica.
Aristotele vive quindi pienamente inserito nell’età dell’ultima crisi
della civiltà classica ed è in qualche modo un precursore della nuova era.
Tuttavia la sua figura è indissolubilmente legata alla città di Atene, in cui
abita e insegna in due distinti periodi della sua vita: ed è per questo che
viene ancora considerato come l’ultimo protagonista del pensiero dell’età
classica.
Vita e opere
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mette a sua disposizione mezzi di studio eccezionali, che facilitano le ri-
cerche in tutti i campi del sapere.
Quando però Atene, alla morte di Alessandro, insorge nuovamente
contro i macedoni (siamo nel 323 a.C.), Aristotele è costretto ad abban-
donare nuovamente la città e decide di trasferirsi con la famiglia a Calci-
de, in Eubea, ove incontra la morte nel 322 a.C., a 63 anni.
Gli scritti
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ritrovati in seguito da Apellicone, un bibliofilo e collezionista di antichi
testi, in Asia Minore, tra il II e il I secolo a C.
Più avanti, e siamo così nell’86 a.C., Silla, dopo aver conquistato Ate-
ne, porta la biblioteca di Apellicone a Roma come bottino di guerra. A
Roma le opere di Aristotele vengono quindi pubblicate da un dotto gre-
co, Andronico di Rodi (siamo tra il 40 e 20 a C.): egli pensa per primo di
dividere i testi a seconda dell’argomento, classificandoli in raggruppa-
menti più ampi in base alle aree disciplinari di appartenenza.
Abbiamo così:
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SCRITTI SULL’ARTE: studi che riguardano le tecniche di produzione, in
particolare di Poetica (testi poetici) e Retorica (discorsi retorici).
In ogni caso gli studiosi dello Stagirita sembrano concordi nel non
escludere che la forma in cui le opere di Aristotele ci sono state traman-
date da Andronico corrisponda molto probabilmente al disegno dello
stesso filosofo e tutti riconosco infine all’opera aristotelica una propria
unità e coesione interna, non essendoci di fatto differenze essenziali tra
le posizioni speculative giovanili e quelle della maturità.
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Il confronto con il maestro Platone e la questione della critica
alla teoria delle Idee.
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(e con esso il compito della filosofia): costretto a rinunciare definitiva-
mente al suo ruolo politico, il suo sapere viene esaurendo la propria cen-
tralità, mentre si assiste parallelamente all’affermazione di altri saperi
che rivendicano sempre più la loro autonomia. Nel periodo ellenistico
immediatamente successivo, infatti, nuove scienze acquisiranno grande
importanza. Durante il IV secolo a. C., infatti, le scienze principali (astro-
nomia, matematica, biologia) iniziano ad individuare con maggior preci-
sione il loro specifico oggetto di studio e acquisiscono principi e metodi
definiti, guadagnando un proprio profilo specialistico.
Lo Stagirita non solo è il grande interprete di questa nuova impo-
stazione di ricerca ma favorisce attivamente lo sviluppo delle scienze, e
darà spazio, all'interno del Liceo, alle ricerche specialistiche di stampo
scientifico in ogni campo del sapere.
Siamo così ormai molto distanti dalla realtà politica, sociale e cultu-
rale che muoveva gli interessi di Platone ed anche, ovviamente, dalle
possibili risposte che la filosofia sapeva dare in quel periodo.
Concludendo, se è dunque senz’altro corretto osservare che tra i
due maestri della filosofia greca ci sono delle notevoli differenze, si deve
però anche sottolineare che Aristotele e Platone vivono in epoche del
tutto differenti e che tali diversità hanno delle ragioni che vanno al di là
della semplice impostazione filosofica di fondo. Proviamo a riassumerle
in modo sintetico:
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scienza particolare, a cominciare dagli enti sensibili (che, come abbiamo
detto, per lo Stagirita non sono copie inferiori di una realtà superiore,
ma realtà oggettive e sostanziali a tutti gli effetti). Infatti, nel Liceo ari-
stotelico, diversamente che nell’Accademia platonica, sono particolar-
mente coltivate proprio le ricerche empiriche (che comprendono prime
forme di raccolta e classificazione di dati) e non tanto le matematiche.
Per Aristotele è possibile, anzi necessario, uno studio scientifico della
natura: il mondo naturale ha una sua dignità. Se gli enti sono realtà au-
tonome, ne consegue che essi possono divenire oggetti di vera conoscen-
za: la possibilità di uno studio scientifico (epistème) della natura
(physis), negata da Platone, rappresenta invece uno dei capisaldi del
pensiero aristotelico. La constatazione che gli enti naturali nascono, si
corrompono, mutano e si muovono, in Aristotele si traduce con la ricer-
ca scientifica su base empirica (e non solo metafisica) di cause e principi.
Aristotele è conseguentemente attento a salvaguardare la specificità e
l’autonomia di ogni singola scienza, con un orientamento enciclopedico,
mentre in Platone tutte le scienze sono subordinate alla dialettica.
LA CRITICA ALLA TEORIA DELLE IDEE DI PLATONE. Ci sono poi delle criti-
che particolari che Aristotele rivolge a Platone. Prendiamone in esame i
tratti salienti.
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Come potrebbero le idee-forme essere essenze di oggetti dai quali poi
risultassero separate?” . Quindi, relativamente alla dottrina platonica
delle idee-forme, Aristotele osserva che:
1) le idee-forme non possono stare al di là degli individui sen-
sibili, in un "altro mondo" (iperuranio), se devono costituirne l'essenza;
2) le idee-forme, che nella formulazione platonica vengono
pensate come immutabili ed eterne, non possono spiegare il generarsi
degli individui né il divenire del mondo sensibile (tra "essere" e "diveni-
re" riemerge così quella profonda contrapposizione che Parmenide ave-
va indicato per primo e che Platone aveva solo parzialmente risolto nel
Sofista);
3) ne consegue che, secondo Aristotele, la soluzione platonica
al problema del rapporto tra essere e divenire è insufficiente e deve esse-
re superata: "mimesi" e "metessi" sono quindi da intendersi come sem-
plici metafore, in quanto le idee-forme di fatto non producono gli indivi-
dui sensibili (che all’osservazione risultano invece sempre generati da
altri individui sensibili): la fissità delle idee-forme impedisce di spiegare
il divenire degli enti sensibili;
4) né sono sufficienti gli artifici che Platone ha introdotto nel
suo quadro teoretico per superare le aporie del sistema, come per e-
sempio le forme matematiche e l'Anima del mondo (si pensi al Timeo),
poste come elementi mediatori tra le idee-forme e gli enti sensibili;
5) dunque il mondo delle idee-forme risulta essere una inutile
copia del mondo sensibile con l'aggiunta dell'espressione «in sé»;
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costituire la realtà. Nella Metafisica Aristotele scrive infatti: «Dobbiamo
forse ammettere che ci sia una sfera fuori di questa che vediamo, o una
casa fuori di questa fatta di mattoni? Ma in questo caso essa non sarebbe
mai divenuta un essere determinato, questa sfera o questa casa. L'idea
significa che la cosa è di una certa qualità, non è questo né una cosa de-
terminata, ma fa sì che questo sia un quale. E' chiaro, dunque, che la cau-
salità delle idee, se esse esistessero fuori degli esseri singoli, non servi-
rebbe affatto a spiegare il divenire e le sostanze. Le idee non sono causa
di nessun movimento, di nessuna mutazione: un uomo, infatti, genera un
uomo». E non un’idea. L’argomento dello Stagirita è chiarissimo.
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to di una scienza particolare, a cominciare dagli enti sensibili, che non
sono copie inferiori di una realtà migliore, ma essere a tutti gli effetti. An-
zi, nel Liceo, diversamente che nell’Accademia, sono particolarmente col-
tivate le ricerche empiriche (si pensi alla straordinaria raccolta e la clas-
sificazione di dati) e non tanto le matematiche astratte.
CONCLUSIONI. Per questi motivi Aristotele porta la sua critica nei con-
fronti di Platone sul piano delle difficoltà logiche e gnoseologiche della
dottrina delle idee-forme: in sostanza le idee non offrono alcun vantag-
gio nella comprensione della realtà. Platone infatti ricercava nelle idee-
forme le cause delle cose e delle loro trasformazioni; ma, come s’è visto,
se sono separate dagli enti sensibili, le idee non servono a spiegare il di-
venire. Oggetti sensibili della scienza sono anche per Aristotele nozioni
o predicati universali, ma che non esistono separatamente dagli enti sen-
sibili. Il distacco dal linguaggio metaforico (largamente utilizzato da Pla-
tone) e lo sforzo di mettere a punto un linguaggio tecnico per la filosofia
appaiono da ultimo come elementi distintivi dell’intero corpus aristote-
lico.
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La filosofia come “scienza prima” e la classificazione delle
scienze.
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tale. Ora, così come tutte le singole dimensioni dell'essere presuppon-
gono l'essere in generale, analogamente tutte le scienze, studiando o-
gnuna una parte del reale, presuppongono la filosofia, che studia appun-
to la realtà in generale. In tal modo, la filosofia diviene la "scienza pri-
ma", ossia la disciplina che studia l'oggetto comune a tutte (l'essere) e i
principi comuni a tutti (i principi dell'essere). Così concepita, la filosofia
appare inoltre come la scienza unificatrice ed organizzatrice delle altre
singole scienze, in quanto studia il loro comune fondamento prospettan-
do un quadro completo ed esauriente di tutte le discipline, nei loro rap-
porti di coordinazione e subordinazione. Tant'è vero che, come ha sug-
gerito lo storico della filosofia C. A. Viano, “uno degli esiti più importanti
della filosofia aristotelica è la costruzione di un'enciclopedia del sapere,
destinata a dirigere e organizzare la cultura occidentale per molti seco-
li”.
E così la filosofia aristotelica risulta sì, in qualche modo, “regina del-
le scienze”, ma in un senso differente da quello platonico e in modo tale
da non pregiudicare mai l'autonomia delle singole branche del sapere.
Mentre per Platone la filosofia costituiva l’apice della conoscenza e
comprendeva sotto di sé, gerarchicamente subordinate, tutte le altre ar-
ticolazioni del sapere e la vera realtà, per lui, era costituita dalle idee
(che non rappresentavano solo l’essenza delle cose reali, ma soprattutto
le virtù e i valori), per Aristotele le idee non sono forme ideali, ma sono
piuttosto vanno a costituire la forma immanente delle singole cose.
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oggetto il possibile, ossia ciò che può essere in un modo o in un altro, a
seconda dell’azione umana. Le scienze poietiche comprendono ogni for-
ma di arte, come la retorica, la commedia, la poesia, la poetica. In sintesi,
come vedremo meglio più avanti, Aristotele opera una vera e propria
classificazione delle scienze che inquadra in una sistemazione unitaria,
con al centro la filosofia prima o metafisica, che ne stabilisce i principi
comuni, colti dall’intelletto e non ulteriormente dimostrabili.
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Il primato della Metafisica.
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filosofia naturale o fisica (che comprende anche ciò che oggi chiamiamo
biologia e psicologia) e matematica.
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LA METAFISICA
4 «Rimanendo dunque stabilito che Aristotele non pensò mai a una Metafisica come la
leggiamo oggi noi e che in questa si trovano riuniti libri scritti in tempi diversi e da punti
di vista talora diversi, si può anche alla fine riconoscere serenamente che coloro che mi-
sero insieme quest'opera, Andronico o qualcun altro prima di lui, non lavorarono affatto
male». (Pierluigi Donini, La Metafisica di Aristotele. Introduzione alla lettura (La Nuova
Italia Scientifica: Roma, 1995, pag. 21)
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3. Libro Terzo (Beta) - è una raccolta di aporie (difficoltà filosofi-
che) in cui Aristotele ha condensato le questioni fondamentali della filo-
sofia.
4. Libro Quarto (Gamma) - tratta dell'Ente in quanto ente (essere)
nei suoi molteplici significati. Contiene anche la trattazione del famoso
"principio di non-contraddizione".
5. Libro Quinto (Delta) - tratta del "lessico" filosofico di Aristotele,
da lui continuamente aggiornato per tutta la vita.
6. Libro Sesto (Epsilon) - contiene una serie di schede (probabil-
mente appunti) di definizione delle diverse scienze.
7. Libro Settimo (Zeta) - è il primo dei cosiddetti "libri sulla so-
stanza": qui troviamo un'indagine sulla sostanza.
8. Libro Ottavo (Eta) - secondo libro sulla sostanza, tratta dei prin-
cipi delle sostanze sensibili.
9. Libro Nono (Theta) - terzo libro sulla sostanza, tratta l'essere
come potenza e atto.
10. Libro Decimo (Iota) - sono probabilmente gli appunti per un
corso sui concetti di "ente" e "uno", identità, non-identità, somiglianza,
opposizione.
11. Libro Undicesimo (Kappa) - una rimanipolazione (non attribui-
bile ad Aristotele) su argomenti dei libri Beta, Gamma, Epsilon e Fisica
III.
12. Libro Dodicesimo (Lambda) - tratta delle sostanze immobili e-
terne, e di dio inteso come Motore immobile.
13. Libro Tredicesimo (My) - indaga le Idee e i numeri matematici
ideali, e contiene la famosa critica alla dottrina platonica.
14. Libro Quattordicesimo (Ny) - contiene la critica alle dottrine
platonica e pitagorica su principi, Idee e numeri ideali.
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fondamento). Aristotele di fatto usa spesso il termine "teologia" come
sinonimo di "filosofia prima" (in particolare nel libro XII della Metafisica
lo Stagirita afferma chiaramente che la "filosofia prima" è anche "teolo-
gia", in quanto, trattando del principio primo che fonda tutto il reale,
non può che parlare di Dio, inteso qui come l'essenza pura ed eterna che
muove l'universo intero senza essere a sua volta in movimento, ovvero in-
teso come il sommo Bene verso cui tutte le cose tendono).
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indagine all'essere in quanto essere ed ha perciò come oggetto non una
realtà particolare, come hanno le scienze, ma la realtà in generale, cioè
l'essenza universale dell'essere, comune ad ogni ente, animato o inanima-
to che sia. Di conseguenza, come vedremo meglio più avanti, mentre le
scienze particolari ricercano le cause degli enti oggetto del loro studio,
la filosofia è "scienza delle cause prime" perché ricerca le cause che non
dipendono da altre cause, in quanto sono fondamento esse stesse di tut-
ta la realtà. Così la fisica e la matematica si rivolgono ad un aspetto par-
ticolare della realtà (la prima ha infatti come oggetto i fatti naturali, sot-
toposti al divenire, la seconda studia la quantità, non soggetta al movi-
mento in quanto entità razionale), mentre la filosofia si rivolge invece
all'essere nella sua universalità, all'essere "in quanto è". Per questo pos-
siamo dire che - così intesa - la metafisica è in realtà una forma di onto-
logia e costituisce senz'altro il cuore di tutta la filosofia aristotelica. Se
per Platone tutte le scienze hanno valore solo in quanto sono utili alla
formazione del filosofo-dialettico, che ha la responsabilità del governo
(hanno quindi alla fine un valore etico politico), per Aristotele, come ab-
biamo più volte ribadito, le scienze hanno tutte una medesima dignità e
tra queste la filosofia occupa un posto privilegiato solo in quanto il suo
oggetto di studio è costituito dalle cause prime e dall'essere in quanto es-
sere: questo fa della filosofia la scienza teoretica per eccellenza, la più
generale di cui l'uomo disponga.
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LE DIVERSE DEFINIZIONI DI “METAFISICA”
6 Donnini, per es., definisce questi riferimenti “inequivocabili” (Cfr. P. Donnini, La metafi-
sica di Aristotele, Carocci, pag. 84)
7 Cfr. Dizionario di Filosofia, a cura di Paolo Rossi, La Nuova Italia, Firenze, 2000, p. 49
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scienza in massimo grado. Per “causa” Aristotele intende il principio, la
condizione o il fondamento di ciò che si dà nel mondo8.
Le cause – che come abbiamo accennato sono poi le stesse cause che
costituiscono il punto di partenza dell’indagine sul mondo fisico - si ri-
ducono a quattro tipi:
1) la causa materiale, ovvero ciò di cui un ente è fatto (il vetro per il
bicchiere, il corpo per l’uomo, ecc.);
2) la causa formale, ovvero l’essenza di un ente (quella forma deter-
minata per il bicchiere, la razionalità per l’uomo, ecc.);
3) la causa efficiente, ovvero ciò che produce meccanicamente il
cambiamento nell’ente, ciò che dà origine a qualche cosa (il movimento
del mio braccio è causa del movimento della palla, il padre è causa del
figlio, ecc.);
4) la causa finale, ovvero lo scopo a cui una cosa tende, quello in vi-
sta di cui una cosa diviene quella che è (il divenire adulto è, ad esempio,
il fine del bambino).
8 Cfr. G. Reale, Aristotele e il primo peripato. Bompiani, Milano, 2006, pp. 47 e sgg. Come
osservava G. Reale, per “causa” e “principio” Aristotele intende ciò che fonda, ciò che con-
diziona, ciò che struttura.
9 A. H. Armstrong, Introduzione alla filosofia antica, Il Mulino, Bologna, 1999, pag. 105
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viduate dai pensatori a lui precedenti: la materiale e l’efficiente dai Na-
turalisti, la formale dai Pitagorici e da Platone, e la finale da Anassagora
e Platone. L’errore di questi filosofi fu però, come già sappiamo un erro-
re di unilateralità: per spiegare il divenire è necessario far ricorso a tutte
queste cause e comprenderne la stretta connessione.
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2) Metafisica come “scienza dell’essere in quanto essere” (onto-
logia).
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singole scienze e ognuna ne studia una dimensione specifica: per esem-
pio la matematica ha per oggetto l'essere come quantità, la fisica l'essere
come movimento, e così via. Solo la metafisica considera l'essere in quan-
to tale, prescindendo dalle determinazioni che formano l'oggetto delle
scienze particolari e studiando le caratteristiche universali che struttu-
rano l'essere come tale e quindi tutto l'essere e ogni essere. Anche per
questo la metafisica è la “filosofia prima”, mentre le altre scienze “filoso-
fie seconde”.
Ora, dato che nella Metafisica Aristotele dispiega con una cura stra-
ordinaria la sua teoria dell'essere, pervenendo così ad una completa ri-
scrittura della scienza dell'essere (che già Platone aveva considerato co-
me necessario fondamento di ogni filosofia, ma liberandola questa vota
da quei residui estetici, etici e mitici, che avevano condizionato il mae-
stro), sulla metafisica intesa come ontologia sarà bene soffermarsi con
particolare attenzione.
11 Cfr. anche Enrico Berti, In principio era la meraviglia, Laterza, Bari, 2007, V.
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differenzia fortemente dall’ontologia parmenidea12. Il filosofo di Elea
aveva affermato che l’essere può venire definito e descritto in un unico
modo. Platone, contro (anzi: oltre) Parmenide, il maestro venerando e
terribile, aveva sostenuto e giustificato la pluralità delle Idee, ma aveva
limitato l’attribuzione del vero essere ai soli enti intelligibili (idee-
forme). Aristotele procede anche oltre Platone, estendendo a tutta la re-
altà, in tutte le sue forme, l’attribuzione dell’essere, affermando in que-
sto modo la molteplicità originaria dell’essere: l’essere si predica di tutto.
In altre parole mentre l'approccio di Parmenide si fondava su una
radicale contrapposizione (disgiunzione) tra essere e non-essere e perve-
niva così ad una rigorosa negazione del non-essere (ed in particolare del
movimento e della molteplicità ad esso collegati) giungendo a predicare
la sola realtà dell’essere concepito però in forma assolutamente moni-
sta), l'approccio aristotelico si sviluppa in modo completamente oppo-
sto, affermando - al contrario di Parmenide - l'originaria molteplicità
dell'essere (pollachòs legòmenon, appunto: si dice in molti modi13).
Ritorniamo così al punto iniziale: che cos'è l'essere in quanto essere?
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danno quattro significati fondamentali dell'Essere, per cui l'Essere potrà
essere inteso rispettivamente nei modi seguenti:
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brutto, alto o basso, calvo, biondo, ecc. non ha a che fare con l’essenza di
Tizio che è l’umanità. L’accidente è un essere casuale, può darsi o non
darsi e non è legato alla sostanza da un vincolo necessario. Esso è il si-
gnificato più debole dell’essere e di esso non c’è scienza, perché non può
esserci scienza di ciò che avviene per caso. Volendo essere ancora più
precisi, dall’accidente Aristotele distingue il proprio (ìdion): anche il pro-
prio — come l’accidente — non esprime l’essenza di una sostanza, ma —
a differenza dell’accidente — si predica universalmente di quella sostan-
za. La “capacità di ridere”, ad esempio, è “propria” dell’uomo perché, pur
non facendo parte dell’essenza dell’uomo, caratterizza tutti gli individui
appartenenti alla specie umana.
14 Il termine “sostanza” indica l’essenza necessaria di una cosa o di un fatto. Dal latino
sustantia, essenza, collegato a substare, stare sotto.
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LA CATEGORIE. Come ha suggerito Domenico Massaro, per Aristotele
il mondo è costituito da una grande varietà di enti, i quali sono accomu-
nati tutti dal fatto di possedere l’essere15. Così i molteplici significati del
termine “essere” si possono raggruppare in dieci16 classi ovvero catego-
rie, che sono le seguenti:
1) Sostanza
2) Qualità
3) Quantità
4) Relazione
5) Azione o agire
6) Passione o patire
7) Dove o luogo
8) Quando o tempo
9) Avere
10) Giacere
scendono a otto se si sta all’elenco della Metafisica e della Fisica. La contraddizione è solo
apparente, in quanto come aveva già rilevato Giovanni Reale, la nona categoria è riducibi-
le alla quarta e la decima alla settima. Cfr. G. Reale, Aristotele, Bompiani, pag. 65
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CENTRALITÀ DELLA CATEGORIA DI “SOSTANZA”. Se riflettiamo
sull’esempio addotto, ci rendiamo conto che la categoria più importante
è quella della sostanza. Essa è l’unica ad avere una sussistenza autonoma,
mentre tutte le altre si riferiscono ad essa e in qualche modo la presup-
pongono: la qualità, la quantità, l’azione ecc. sono sempre qualità, quan-
tità, azione di qualcosa, di una sostanza. Il concetto si può esprimere an-
che così: i predicati inclusi nella categoria sostanza «si dicono di un sog-
getto» e non sono in un soggetto, dicono cioè che cosa è quel soggetto,
ne definiscono l’essenza (alla domanda «che cosa è Tizio?» si risponderà
«Tizio è un uomo» e non certo «Tizio è bello o alto, ecc.»); invece i predi-
cati inclusi nelle altre categorie “sono in un soggetto” ossia ne esprimo-
no questa o quella caratteristica (Tizio è bello, alto, ecc.).
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manere se stesso nel divenire17. Ora, la sostanza, proprio perché indivi-
duale, non coincide pienamente con l’essenza (che indica invece
l’insieme delle caratteristiche per cui un ente è quello che è). Il loro rap-
porto è il seguente: l’essenza serve per spiegare la sostanza, ma non vi-
ceversa. Non a caso lo Stagirita identifica l’essenza con la forma, della
quale è possibile astrazione e generalizzazione da parte dell’intelletto,
chiarendo così la valenza logico-linguistica (gnoseologica) del termine,
mentre sostanza si riferisce invece al piano ontologico (quello, appunto,
dell’essere).
3) L’ESSERE INTESO COME “VERO”: entriamo così nel campo della Logi-
ca, la disciplina che studia il giudizio. "Essere" secondo il vero e il falso (to
òn os alethès) corrisponde quindi al piano del pensiero: corrisponde in
altre parole all'essere in quanto pensato. Si capisce così cosa si intenda
per "essere falso": la falsità è solo nel giudizio del soggetto che non si "a-
degua" all'oggettività del reale (che in quanto tale è sempre vera: non e-
sistono "enti falsi", ma casomai giudizi non corrispondenti a stati di fatto
e perciò falsi. Il che significa che l'essere in senso vero e proprio coincide
col vero. In un certo senso, quindi, la realtà non inganna, ma è il soggetto
umano a porsi in modo scoordinato nei confronti della verità, rendendo
oscuro ciò che di per sé sarebbe chiaro e manifesto.
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vimento, che implica necessariamente il passaggio dalla potenza all'atto.
Scrive infatti Aristotele nella Metafisica: "Potenza significa […] possibilità
di ricevere una determinata forma; atto è averla ricevuta. Ad esempio, il
chicco di grano è atto come chicco di grano, ma è potenza nei confronti
della spiga che da lui deriverà; la spiga, pienamente formata, è il chicco di
grano divenuto atto, cioè la potenza che si è attuata". Dunque, con i con-
cetti di atto e potenza Aristotele esibisce un argomento nuovo nella di-
sputa relativa al problema della contraddittorietà del divenire, inteso
come passaggio dal non-essere all'essere e viceversa, così com'era stata
impostata da Parmenide (e non completamente risolta nel Sofista di Pla-
tone). Si ricorderà infatti che per Parmenide solo l'essere è, mentre il
non-essere non è e non può quindi mescolarsi all'essere nel divenire. Con
Aristotele, invece, il divenire si attua in quanto avviene un passaggio al-
l'essere attuale non dal non-essere (assoluto) ma da quel non-essere rela-
tivo che è, a ben vedere, l'essere potenziale.
Ma per quanto l'essere sia per Aristotele un pollachòs legòmenon, si
dica in molti modi, i suoi significati possibili sono sempre in riferimento
ad una unità e ad una realtà ben determinata. Di quale realtà sta parlan-
do? Si tratta della “sostanza”: per Aristotele l'essere, in primo luogo, è so-
stanza. Passiamo quindi all’analisi della ousiologia aristotelica18.
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3) La Metafisica come “scienza della sostanza” (ousiologìa)
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(Metafisica, VI, 3). Innanzitutto l’ousìa - la sostanza - è il soggetto (ypo-
keìmenon), vale a dire ciò per cui si afferma tutto il resto e che non è af-
fermato da niente altro, non è dunque mai il predicato di un soggetto,
ma ciò di cui tutto il resto è predicato. Poi l’ousìa è la quiddità e la quiddi-
tà di ciascun essere è “ciò che esso è di per sé”; non bisogna quindi tener
conto dell’accidente per definire l’ousìa di un essere (Metafisica, 4, 1029
b 15). Ogni essere non differisce dalla sua quiddità ed essa non è in alcun
modo separabile dal soggetto: anzi, dice lo Stagirita, essa è la sostanza di
tutte le cose.
NON C’È SCIENZA SE NON DELLA SOSTANZA. In altre parole, è solo della
sostanza (ousìa) che possiamo esibire una definizione rigorosa. Il che
significa affermare che non vi è altra scienza che quella del generale e
non c’è altra esistenza che quella del particolare21. Gli universali non so-
no quindi delle sostanze: Aristotele accusa qui Platone di aver sostenuto
il contrario (Metafisica, VI, 14). La sostanza è dunque la prima categoria,
prima nel senso di più fondamentale, quella a cui tutte le altre categorie
devono fare riferimento. Ne segue che la filosofia prima (o studio
dell’essere in quanto essere) dedica particolare attenzione allo studio
della sostanza.
Ma che cos'è, più precisamente, la sostanza secondo Aristotele?
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condo lo Stagirita, è possibile individuare un principio che è chiaramen-
te costitutivo per tutto questo grado della realtà: la materia (in greco:
hyle). La materia è intesa dal Filosofo come il sostrato, “ciò che sta sotto”
(hypokéimenon) e che deve essere determinato, formato da qualco-
s’altro: per esempio la materia del bicchiere è il vetro, la materia di un
albero il legno, la materia di un uomo il corpo vivente, ecc. La forma è
dunque per Aristotele un principio, ma di per sé è passivo (perché senza
essere formato apparirebbe come assolutamente indeterminato)
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RIEPILOGO. Che cosa è allora la sostanza?
- Sostanza è certamente l’individuo concreto composto di materia e
forma, il sìnolo che ha vita propria (a differenza delle sue qualità che si
colgono solo per astrazione).
- Sostanza è anche la forma in quanto principio costitutivo intrinse-
co della cosa stessa che determina la cosa ad essere quella che è, che ne
costituisce l’essenza.
- La materia può invece essere detta sostanza solo in un senso “de-
bole” e improprio.
La concezione aristotelica della sostanza si presenta così come una
sintesi del pensiero precedente: i Naturalisti avevano identificato la so-
stanza con gli elementi materiali, Platone con le forme o idee; la verità è
data dalla combinazione di queste due soluzioni (che - prese isolatamen-
te - sono in se stesse errate in quanto unilaterali)24.
24Per approfondire questa differenziazione cfr. G. Reale, Aristotele, Bompiani, pagg. 80-
86.
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lazione sussiste tra questi due significati di sostanza? Vediamo un esem-
pio. Nella proposizione “Tizio è un uomo” “Tizio” è sostanza nel senso
dell’individuo concreto, nel senso del questo qui (quest’uomo qui: Tizio,
o Socrate, ecc.); “uomo” è invece sostanza nel senso dell’essenza che ci
dice che cosa è quell’individuo (Tizio è un uomo, la sua essenza è
l’umanità). Allora, precisa lo Stagirita, nel caso dell’individuo concreto
possiamo parlare di sostanza prima, nel caso dell’essenza di sostanza se-
conda25.
Ma dire che l’individuo è “sostanza prima” significa forse che in de-
finitiva soltanto l’individuo, il sìnolo, è propriamente sostanza? La posi-
zione di Aristotele in merito è abbastanza complessa e non è il caso qui
di approfondirla ulteriormente. Ci basti ricordare che i due significati di
sostanza sono intimamente connessi: sostanza è l’individuo concreto
esistente (il sìnolo: Tizio) e, nel contempo, l’essenza (il che cos’è: uomo)
dell’individuo concreto esistente, ciò che fa sì che quell’individuo sia
quello che è; l’essenza è immanente nell’essere (in questo individuo), ma
l’essere dell’individuo non è pensabile senza l’essenza.
E c’è di più: per Aristotele ci sono, come vedremo, oltre alle sostanze
sensibili, sostanze soprasensibili che, come Dio, non sono sìnoli, ma “pu-
re forme”, da cui dipende tutto il mondo sensibile. Da questa prospetti-
va, la priorità sembrerebbe allora spettare alla forma e non già
all’individuo. La difficoltà si risolve distinguendo due punti di vista che
sono perfettamente compatibili.
a) Dal punto di vista empirico, della nostra esperienza, sostanza pri-
ma è il sìnolo, il concreto individuo.
b) Dal punto di vista metafisico, di come stanno le cose per natura o
in se stesse, la forma appare invece principio, causa e fondamento e il
sìnolo principiato, causato e fondato.
E quindi, dal punto di vista metafisico, sostanza per eccellenza è la
forma.
25Si noti che in una proposizione la sostanza prima (il “questo qui”) può essere solo sog-
getto, mentre la sostanza seconda può essere sia soggetto che predicato.
39
CONCLUSIONI. Concludendo, per Aristotele la sostanza non è altro che
l'essere, o, meglio, il principale e fondamentale modo d'essere. La sostanza
costituisce l'essenza necessaria di qualcosa, ciò che risponde alla do-
manda “che cos'è?”. Se pongo questa domanda a proposito di Socrate,
per esempio, posso rispondere in molti modi, posso per esempio dire
che Socrate è un uomo, che Socrate è un ateniese, o che Socrate è un filo-
sofo. Ma è solo la prima delle tre risposte che esprime l'essenza necessa-
ria di Socrate, il fatto che sia ateniese o filosofo dovendo comunque
“poggiare” sul suo essere uomo, è in qualche modo secondario. Scriveva
Aristotele: «Noi reputiamo di conoscere un oggetto particolare, solo
quando ne conosciamo l'essenza - ad esempio l'essenza di "uomo" o di
"fuoco" - piuttosto che quando ne conosciamo la qualità o la quantità o la
posizione» (Metafisica, VII, 1, 1028a). Aristotele per definire la sostanza
ricorre alla locuzione tò ti en èinai, che in latino è stata tradotta quod
quid erat esse, e che significa pressappoco “ciò che l'essere era”: essa in-
tende suggerire l'idea della permanenza, di ciò che, essendo stato nel
passato, permane nel presente e per sempre.
40
fichi l'atto e la forma, ossia un riparo [...]. [1043b] Ma questo, che per altro
rispetto ha una notevole rilevanza, in relazione alla ricerca della sostanza
sensibile non ne ha alcuna: infatti l'essenza appartiene alla forma e all'at-
to26.
26Aristotele, Metafisica, 1042a 26-30; 1042b 9-11; 1043a 26-1043b 1, Rusconi, Milano,
1994, pagg. 371-377.
41
4) La metafisica come teologia
42
L’analisi del movimento, insomma, costituisce il punto di partenza che
porta dal divenire alla teologia.
43
LE PROPRIETÀ DI DIO. Dio è quindi Atto puro e Forma pura, Motore
immobile, Causa prima; in quanto sostanza sovrasensibile non ha né
grandezza né parti, è eterno, separato, ingenerabile e incorruttibile. A
questa sostanza sovrasensibile, in quanto perfezione massima, appar-
tiene il modo di vivere più perfetto, “quel modo di vivere che a noi [uo-
mini] è concesso solo per breve tempo” e di cui essa invece gode in eter-
no: la vita dell’intelligenza. Dio è quindi pensiero ed è pensiero «che ha
come oggetto ciò che è eccellente in massimo grado» ossia se stesso: egli
è Pensiero che pensa se stesso. Dio è il supremo motore non in quanto
causa efficiente, ma in quanto causa finale: egli muove, senza a sua volta
essere mosso, “come l’oggetto d’amore attrae l’amante”, ossia in quanto
Fine ultimo a cui tendono tutti gli esseri. Dio non ha volontà, perché il
volere e il desiderio presuppongono la mancanza di ciò che si vuole e si
desidera, ed egli non manca di nulla; perciò il rapporto di Dio col mondo
è unidirezionale: tutte le cose tendono a Dio, ma Dio non tende a nulla
ed è impassibile a tutto ciò che accade nel mondo.
Così il mondo non ha avuto un inizio nel tempo e nemmeno si è svi-
luppato dal caos all’ordine: esso è eterno, sempre identico a se stesso e
unico. Tempo e movimento sono coeterni al mondo.
Poiché da Dio come Motore immobile dipende il movimento fisico di
tutti i cieli, tra metafisica e fisica (o filosofia naturale) sussiste, nella vi-
sione aristotelica, una connessione essenziale: non è possibile trattare i
problemi fondamentali del mondo fisico, delle sostanze sensibili, senza
fare riferimento alla sostanza sovrasensibile, anzi alle sostanze sovrasen-
sibili. Secondo Aristotele, infatti, Dio è la suprema, ma non l’unica sostan-
za sovrasensibile: come vedremo meglio nella sezione successiva sulla
fisica, le sfere celesti sono mosse da Intelligenze simili a Dio, anche se a
lui inferiori. Aristotele non è quindi monoteista; come tutti i filosofi gre-
ci, egli ritiene che il divino sia costituito da molte realtà eterne e incor-
ruttibili, anche se pensa queste realtà disposte in un ordine gerarchico
che ha alla sommità il supremo Motore immobile.
44
LA FISICA
45
sono incorruttibili, il nascere ed il perire di tutte le sostanze.
46
possibilità (la «potenza»: dynamis) di attuarsi in determinate forme
(quelle di cui essa è priva) e non in altre. Ma la materia può acquisire la
forma solo se la forma già c’è, già esiste; cioè la forma deve esistere ef-
fettivamente (anche se non separatamente come le idee platoniche) nel-
la sua perfetta realtà (in atto: enérgheia, entelécheia). In questo senso si
può dire che ogni divenire e ogni movimento è un «passaggio dalla po-
tenza all’atto», e che esso inizia da una materia, specificata dalle priva-
zioni che le sono proprie e quindi dalle potenzialità di diventare alcun-
ché, per terminare nell’attualità di tali potenzialità: un uomo ignorante è
privo di cultura ed ha la possibilità di diventare colto; è appunto la cul-
tura, esistente in atto in altri, che rende possibile la realizzazione della
sua possibilità, il passaggio della potenza all’atto, che da ignorante lo fa
diventare colto.
Come abbiamo già anticipato dal punto di vista della Metafisica, ma-
teria e forma non esistono l’una separata dall’altra, ma sempre congiun-
te nelle sostanze individuali e reali: ma proprio nel momento in cui Ari-
stotele ribadisce la critica alla trascendenza e al dualismo platonico e fa
valere la sua concezione immanentistica, cioè unitaria, mostra quanto
sia forte l’eredità platonica, perché la forma aristotelica non è altro che
l’idea, l’universale platonico, reso intrinseco alla materia e al sensibile e
tuttavia conservante una struttura e una dignità ontologica radicalmen-
te diverse e superiori, così come l’atto è superiore alla potenza, il reale al
possibile, il perfetto all’imperfetto.
47
2) la causa «formale», cioè la forma cui una cosa corrisponde
(l’immagine raffigurata da una statua);
3) la causa «efficiente», cioè l’agente che produce la cosa (l’artista
che scolpisce la statua);
4) la causa «finale», cioè lo scopo per cui avviene il divenire e il
movimento (lo scopo per cui è scolpita la statua).
LO SPAZIO E IL TEMPO
Le dottrine dei principi e delle cause, che abbiamo preso in esame
da più prospettive, consentono di dare una spiegazione completa del di-
venire delle realtà concrete e individuali del mondo sensibile ed anche di
chiarire la natura dello spazio (che per lo Stagirita è sempre il luogo di
un corpo) e del tempo: lo spazio è il «limite immobile» che abbraccia un
corpo (e quindi dove non c’è corpo non c’è spazio: onde la negazione, in
funzione antidemocritea, del vuoto); il tempo è «la misura del movimen-
to secondo il prima e il poi». E poiché spazio e tempo sono bensì divisibi-
li all’infinito in potenza, ma in atto non sono infiniti, gli argomenti di Ze-
none contro il movimento non sono validi: nell’attualità di un tempo de-
48
terminato Achille compie un percorso maggiore di quello compiuto dalla
tartaruga e quindi la raggiunge.
49
succedono è data dal movimento circolare, uniforme e costante dei cieli
e la ragione umana ha la capacità di numerare la successione degli istan-
ti in una serie ordinata e regolare. Prendiamo in considerazione altri due
passi della Fisica:
50
LA COSMOLOGIA
52
racchiusa da ulteriori sfere concentriche, tutte comprese dalla sfera più
grande: la sfera delle stelle fisse. L'Universo è quindi finito e l'ultimo
cielo astronomico, quello delle stelle fisse, come s’è detto, lascia spazio
al cielo teologico, quello del Primo motore immobile. L'universo
aristotelico si presenta così come un enorme sistema di ingranaggi in cui
ogni sfera è mossa da quella che la racchiude e così via fino alla sfera
delle stelle fisse, alla quale il movimento è impresso direttamente dal
Primo motore immobile. Dio però, come abbiamo visto, affinché possa
imprimere movimento senza essere sua volta in moto, deve essere causa
finale, cioè scopo ultimo cui ciascun componente dell'universo tende:
tutto l'universo tende verso Dio che è così causa immobile del
movimento cosmico.
MOTI NATURALI E MOTI VIOLENTI. Nella sfera degli elementi, oltre i moti
naturali, vi sono i moti violenti (cioè contrari ai moti naturali, per esem-
pio della pietra quando è lanciata dal basso verso l'alto). Come si spiega
questo tipo di moto che è contro la naturale pesantezza della pietra che
per sé tende verso il basso? Per Aristotele, poiché non è possibile
un’azione a distanza, ma il motore deve essere sempre unito al mosso (è
ovviamente ignoto il principio d’inerzia, scoperto dalla fisica del ‘600), il
moto della pietra lanciata verso l’alto si spiegherebbe perché la mano,
lanciando la pietra, muove anche l’aria circostante la pietra: ed è
quest’aria mossa dalla mano insieme alla pietra che continuerebbe a
conservare il movimento della pietra per un certo tempo; quando è fini-
ta l’azione portante dell’aria, la pietra cade, cioè segue il suo moto natu-
rale che porta la pietra a raggiungere il suo luogo naturale (in questo ca-
so la terra, giacché nella pietra predomina l’elemento terroso). L’aria
53
svolge così una funzione portante senza la quale la pietra lanciata non
potrebbe proseguire nel suo movimento: questo comporta che non vi sia
il vuoto perché nel vuoto, senza cioè l’azione di un corpo (l’aria) che fa
proseguire il moto della pietra, non potrebbe spiegarsi il moto. Aristote-
le nega così con risolutezza l’esistenza del vuoto: questo non solo non
serve a spiegare il movimento, ma non è neppure pensabile perché
comporterebbe l’ammissione di un luogo o spazio senza un corpo (il
vuoto è definito «luogo privato di corpo»): ma ciò è contraddittorio per-
ché il luogo, per Aristotele, è considerato come il limite che circoscrive
un corpo, cioè il luogo è sempre in rapporto a un corpo (senza corpo non
c’è luogo o spazio, quindi non si può pensare un luogo senza corpo).
54
che si producono nella sfera degli elementi sensibili; non vi potrebbero
essere movimenti nel mondo sublunare se, accanto alle loro cause pros-
sime, non vi fossero cause universali, i cieli; onde Aristotele può affer-
mare che anche la generazione dell’uomo comporta la cooperazione del-
le cause celesti («l’uomo genera l’uomo insieme con il sole»). È impor-
tante notare che questa dottrina della causalità, che comporta sempre
l’intervento dei cieli, offrirà in età posteriori un fondamento «scientifi-
co» alle dottrine astrologiche. Ascendendo nella scala dei motori e dei
mossi, o mobili, si giunge, come abbiamo già detto, al primo motore, che
muove il cielo delle stelle fisse (primo mobile) e che non è mosso da al-
tro: questo è il Primo motore immobile (si ricordi che per Aristotele il
mondo è finito, e il suo limite ultimo è costituito dalla sfera delle stelle
fisse: al di là di questa non si può andare e quindi è esclusa la possibilità
di un processo all’infinito). Questo motore immobile è l’atto puro (senza
che in esso nulla sia in potenza, altrimenti richiederebbe un altro moto-
re che provocasse il passaggio dalla potenza all’atto) e unico (poiché
senza materia, che è il principio di individuazione); è intelligenza pura,
atto di pensiero che ha per oggetto se stesso; quindi è pensiero di pen-
siero «atto di pensiero che pensa se stesso per tutta l’eternità».
55
IN SINTESI: GLI ELEMENTI DELLA REALTÀ NATURALE E LA DISTINZIONE DI
CIELO E TERRA. Ricapitolando il discorso fatto fin qui, considerata nelle
sue privazioni fondamentali e quindi nelle sue possibilità generalissime,
la «materia prima», il sostrato amorfo di tutta la realtà naturale, si de-
termina nei quattro elementi della regione terrestre e nel quinto ele-
mento della regione celeste. I quattro elementi della regione terrestre
sono quelli della tradizione scientifica dei pensatori naturalisti: la terra,
cioè l’elemento freddo-secco; il fuoco, cioè l’elemento caldo-secco;
l’acqua, cioè l’elemento freddo-umido e l’aria, cioè l’elemento caldo-
umido. Caratteristica di tutti questi elementi è la determinazione del
movimento naturale come un movimento rettilineo tendente verso l’alto
e verso il basso: la terra tende verso il basso e il fuoco verso l’alto; e an-
che l’acqua tende verso il basso, come prova lo scorrere dei fiumi, anche
se meno della terra (un sasso immerso nell’acqua affonda); mentre l’aria
tende verso l’alto, come prova il salire delle bolle d’aria dell’acqua, ma
meno del fuoco. Di qui la definizione del movimento degli elementi come
un movimento naturale, rettilineo, tendente verso l’alto o verso il basso,
cioè verso i «luoghi naturali» dei singoli elementi. Il movimento rettili-
neo non è però un movimento perfetto, perché il suo inizio non coincide
con la sua fine; questa coincidenza si ha invece nel moto circolare, che
può perciò essere eterno, ma che appunto per questo non può essere
proprio dei quattro elementi della regione terrestre, ma casomai di un
quinto e diverso elemento, «più divino»: e questo è appunto l’«etere», di
cui è formata la regione celeste, eterna e incorruttibile, e perciò non
soggetta al divenire e non inquinata da quegli elementi di imperfezione,
di casualità e di spontaneità che sono invece riscontrabili nell’imperfetto
mondo sub-lunare. Si fissa in tal modo un dualismo tra cielo e terra, una
differenza radicale tra le loro nature, che solo l’astronomia moderna, at-
traverso una lunga polemica, riuscirà a confutare.
56
LA BIOLOGIA
58
LA PSICOLOGIA
L’ANIMA FORMA DEL CORPO. L'anima è per Aristotele la forma del corpo
(si dovrà precisare: di un corpo naturale, cioè di un corpo che possiede
in sé un principio di movimento). L'anima non è quindi un corpo, ma in
un corpo essa è la forma del corpo. L'anima è così il principio degli esseri
viventi. Per Aristotele l'anima e il corpo non devono essere considerati
come due sostanze a sé, unite in mondo accidentale, bensì come
costituenti una sostanza unitaria, il corpo vivente che è il sìnolo di
materia (corpo) e forma (anima). Ma quali sono le funzioni fondamentali
dell'anima? Sono quelle tre che abbiamo già visto: quella vegetativa (che
59
presiede al nutrimento, alla crescita e alla riproduzione, funzioni che
sono comuni a tutti gli esseri viventi), quella sensitiva (proprio solo degli
animali - quindi escluso le piante - in quanto presiede alla percezione e
al movimento); quella intellettiva (propria soltanto dell'uomo, in quanto
unico animale dotato di funzioni intellettive). Tra queste facoltà c'è
evidentemente un ordine gerarchico.
61
LA MATEMATICA
33 Cfr. G. Reale, Aristotele e il primo peripato, Bompiani, Milano, pag. 143 e seguenti.
34 Cfr. G. Reale, Aristotele e il primo peripato, Bompiani, Milano, pag. 144.
35 G. Reale indica a sostegno di questa affermazione il Capitolo 3 del Libro XIII della Meta-
62
viamente — è necessario che esista il movimento come realtà in sé e per
sé separata dal resto. Basta, appunto, la nostra facoltà di astrarre, e la
capacità che la nostra mente ha di considerare quella caratteristica tipi-
ca delle cose sensibili a prescindere da tutte le altre. Tuttavia, va detto
che quella proprietà nelle cose effettivamente sussiste, e quindi ha una
sua precisa realtà ontologica. Analogamente, seguendo questo stesso
procedimento, possiamo prescindere anche dal movimento, e riguarda-
re le cose sensibili solamente in quanto corpi a tre dimensioni. E poi, an-
cora, procedendo nel processo di «astrazione», considerare le cose solo
secondo due dimensioni, cioè come superfici, prescindendo da tutto il
resto. Ulteriormente, noi possiamo stimare le cose solo come lunghezze
e poi come unità indivisibili, aventi però posizione nello spazio, ossia so-
lo come punti. Infine, siamo in grado di considerare le cose anche come
unità pure, entità indivisibili e senza posizione spaziale, ossia come uni-
tà numeriche. È chiaro, per conseguenza, che gli oggetti della geometria
e dell’aritmetica hanno il loro fondamento nelle caratteristiche delle co-
se sensibili e che, dunque, esistono come proprietà ontologiche delle co-
se. Ma nel modo in cui li studiano i geometri e i matematici esistono per
via di «astrazione». Ecco il testo più significativo in merito:
«Pertanto, poiché si può dire in generale e con verità che non solo le
cose separate esistono, ma che anche le cose non-separate esistono (per
esempio si può dire che il mobile esiste), così si potrà dire, in generale e
con verità, anche che gli oggetti matematici esistono, e proprio con quei ca-
ratteri di cui parlano i matematici. E come si può dire, in generale e con ve-
rità, che anche le altre scienze riguardano non ciò che è accidente del loro
oggetto (per esempio non bianco, se il bianco è sano e se la scienza in que-
stione ha come oggetto il sano), ma che riguardano l’oggetto che è peculia-
re a ciascuna di esse (per esempio il sano, se la scienza in questione ha co-
me oggetto il sano; e l’uomo, se la scienza in questione ha come oggetto
l’uomo), così si dovrà dire anche per la geometria: anche se gli oggetti di
cui essa tratta hanno la caratteristica di essere sensibili, essa non li consi-
dera tuttavia in quanto sensibili. Così le scienze matematiche non saranno
scienze di cose sensibili, ma non saranno neppure scienze di altre cose
separate dai sensibili. Molti attributi competono di per sé alle cose, in
quanto ciascuno di questi attributi inerisce ad esse: ci sono, per esempio,
caratteristiche che sono peculiari dell’animale in quanto femmina, oppure
in quanto maschio, anche se non esistono una femmina o un maschio
63
quanto maschio, anche se non esistono una femmina o un maschio separati
dall’animale. Pertanto ci saranno, anche, caratteristiche peculiari delle cose
considerate solamente in quanto lunghezze e superfici [...]. Il ragionamento
fatto sopra varrà anche per l’armonica e per l’ottica: infatti né l’una né l’al-
tra considerano il proprio oggetto come vista o come suono, ma lo conside-
rano in quanto linee e in quanto numeri: questi, infatti, sono proprietà pe-
culiari di quelle. E la stessa cosa dicasi anche per la meccanica»36.
64
L'ETICA
VIRTÙ ETICHE E VIRTÙ DIANOETICHE. Dopo aver mostrato che il bene più
grande dell’uomo, la felicità, consiste nell’esercizio completo della fun-
zione che gli più è propria, ossia consiste nella virtù, Aristotele prosegue
la sua analisi distinguendo tra virtù etiche, che riguardano le funzioni
della parte non razionale dell’anima e consistono nel giusto mezzo tra
due vizi opposti (per esempio: il coraggio, giusto mezzo tra viltà e teme-
rarietà; la generosità, giusto mezzo tra avarizia e prodigalità), e virtù
dianoetiche (dal greco dianóesis: pensiero), che riguardano le funzioni
della parte razionale e sono fondamentalmente la saggezza e la sapienza.
La prudenza (o saggezza), è la virtù dianoetica che rende possibili le al-
tre virtù etiche, individuando nelle situazioni particolari il giusto mezzo,
66
ossia ciò che si deve fare; la sapienza invece consiste nell’esercizio della
conoscenza come fine a se stessa e in essa è riposta la felicità suprema.
67
LA POLITICA
38È nota la posizione di Aristotele in merito: per lo Stagirita ci sono uomini che per natura
sono destinati a essere schiavi. Si tratta di quelle persone che non sono completamente
maturate dal punto di vista razionale, cioè dal punto di vista del carattere essenziale pro-
prio della natura umana.
68
all’analisi delle principali caratteristiche della polis e della sua organiz-
zazione.
69
CONCLUSIONI. Da quello che si è visto, si può ben comprendere come
per Aristotele il tema della politica sia intimamente connesso con quello
dell'etica: "identico è il bene per il singolo e per la città", come abbiamo
ricordato. Nella Politica lo Stagirita dichiara che il fine dello Stato è del
tutto analogo a quello di ciascun individuo: coincide con la piena realiz-
zazione di sé. Lo Stato ha un'origine naturale in quanto l'uomo è per na-
tura un animale politico, ma è allo stesso tempo il risultato storico di
forme crescenti di aggregazione che partono dalla famiglia e passano
per il villaggio fino alla città-stato (polis). Per completare il quadro teo-
rico, Aristotele propone anche una classificazione delle varie forme di
governo, suddivise a seconda del numero di coloro che esercitano il po-
tere (uno, pochi, molti). Per ogni caso si danno forme corrette e forme
dannose: la correttezza della forma di governo è data dall'esercizio del
potere per il bene comune. Tra tutte le forme di governo la migliore è la
politeia, che ha in comune con la democrazia la partecipazione di tutti i
cittadini e con l'aristocrazia il principio che solo i migliori debbano esse-
re chiamati a ricoprire, a turno, le cariche di governo.
70
LA LOGICA
39 Cfr. F. Adorno, T. Gregory, V. Verra, Manuale di storia della filosofia, Laterza, pag. 83
71
I DISCORSI APOFANTICI. La logica si occupa dei discorsi apofantici, ossia
solo dei discorsi che affermano o negano qualcosa, in quanto sono gli
unici ad essere veri o falsi. Altri modelli di discorsi, come per esempio
comandi ("studia!"), le preghiere ("ah se studiassi!"), e desideri ("vorrei
studiare") ecc. di per sé non sono né veri né falsi e come tali non sono
oggetto di studio della logica bensì, come vedremo più avanti, della reto-
rica o della poetica. Il dominio del sapere scientifico, invece, è quello del-
la verità in quanto opposta alla falsità.
40 Gli esempi che seguono sono stati tratti da E. Ruffaldi, P. Carelli, U. Nicola, Il pensiero
72
A E
I O
A = universale affermativo
E = universale negativo
I = particolare affermativo
O = particolare negativo
41 Che cosa sono queste strane lettere? Il segreto è presto svelato: i filosofi medievali esco-
gitarono un sistema per memorizzare queste distinzioni costruendo quello che passerà
alla storia come “quadrato aristotelico”, aiutandosi con l’identificazione di ogni giudizio
tramite una vocale: gli universali affermativi con “A” e i particolari affermativi con “I” (so-
no le prime due vocali del verbo latino “adfirmo”), gli universali negativi con la “E” e i par-
ticolari negativi con la “O” (sono le vocali del verbo latino “nego”).
73
(se una è vera dev’essere falsa l’altra e viceversa). Particolari affermative
e particolari negative sono tra loro subcontrarie: possono essere en-
trambe vere ma non possono essere entrambe false. Universale afferma-
tiva e Particolare affermativa, così come Universale negativa e Particola-
re negativa sono tra loro subalterne: la verità della particolare dipende
dalla verità di quella universale, ma non viceversa (se è vero che “tutti i
corvi sono neri” è vero anche che “alcuni corvi sono neri”, ma il fatto che
“alcuni corvi sono neri” non implica necessariamente che “tutti i corvi
sono neri”). Universale affermativa e Particolare negativa, così come Uni-
versale negativa e Particolare affermativa sono tra loro contraddittorie:
si escludono cioè a vicenda ma non possono essere entrambe false.
A – E = contrarie
A – I; E – O = subalterne
I-O = subcontrarie
I-E; A-O = contraddittorie
74
sillogismo, la cui trattazione costituisce l'argomento fondamentale degli
Analitici Primi. Il sillogismo è una connessione tra tre proposizioni
costruita in maniera tale che, data la verità di due proposizioni iniziali
(premesse), ne derivi con assoluta necessità la verità di una terza
proposizione (conclusione). Ne deriva che non c'è un legame necessario
tra verità di un sillogismo e sua correttezza formale: in altre parole un
sillogismo può essere formalmente corretto ma falso se guardiamo alla
realtà.
tutti i X sono Y
tutti i Z sono X
________________________________________________________________
3) tutti Z sono Y
75
ragioni di spazio e difficoltà non vedremo) sono validi, tali cioè che la
conclusione deriva dalle premesse in modo necessario. Non essendo
possibile condurre qui un'analisi particolareggiata di tutte le forme del
sillogismo aristotelico, dovremo limitarci a ricordare che la validità
formale di un sillogismo (a prescindere dalla sua tipologia specifica)
garantisce soltanto ed esclusivamente la correttezza della sua
conclusione, ma non la sua verità “reale”. Il sillogismo è valido se segue
la procedura corretta, ma è vero solo se le sue premesse sono vere. Un
sillogismo, per esempio, in cui si afferma che 1) ogni animale è
immortale e 2) ogni uomo è animale e dunque 3) ogni uomo è
immortale, è formalmente valido ma palesemente non-vero. D’altra
parte Aristotele era per primo ben consapevole che la validità di un
sillogismo non comporta necessariamente la sua verità nel mondo
“reale”.
Così, come abbiamo detto, il sillogismo conduce ad un'analisi
strutturale della forma dell'argomentazione a prescindere dal suo
contenuto di verità e di falsità: ecco perché nello studio formale del
sillogismo è preferibile utilizzare simboli letterari al posto dei termini.
Come si è visto: X, Y, etc.
76
IL SILLOGISMO SCIENTIFICO E QUELLO DIALETTICO. Se la verità del
sillogismo deriva dalla verità delle premesse è chiaro che solo il
sillogismo le cui premesse sono accertate come vere può essere
considerato come sillogismo scientifico. Il sillogismo per essere
scientifico deve dunque avere delle premesse vere o - in alternativa - le
premesse devono essere costituite da conclusioni di un altro sillogismo
scientifico. Aristotele divide così il sillogismo scientifico dal sillogismo
dialettico: è questo il sillogismo in cui le premesse sono opinioni e come
tali soltanto probabili ("probabile" è ciò che appare accettabile a tutti o
ai più o ai saggi e tra questi o a tutti o ai più o a quelli più noti e illustri").
In altre parole la diversità delle premesse determina la diversità dei
sillogismi: il sillogismo scientifico prende le mosse da premesse e
principi veri e non-confutabili e giunge quindi a conclusioni
inconfutabili e vere; il sillogismo dialettico prende invece le mosse da
premesse probabili e conclude quindi nel probabile.
77
Il principio del terzo escluso, detto anche "tertium non datur" (non si
dà una terza possibilità) indica che oltre all'affermazione e alla
negazione non si dà una terza possibilità (o "è" o "non è": non può
"essere" e "non-essere" nello stesso tempo): o Socrate è vivo o non è
vivo.
78
LA RETORICA
79
l’effetto desiderato. È questa l’analisi dell’arte dell’elocuzione ed in parti-
colare della metafora e del ricorso agli esempi nello svolgimento del di-
scorso.
80
LA POETICA
L’ARTE NEL MONDO ANTICO. Nel mondo antico il genere espressivo che
per molto tempo si è identificato con l'arte è stato quello della poesia
(connessa strettamente alla musica) e per "artista" si intendeva quasi
sempre il poeta - sia epico che tragico. A lungo le arti visive - pittura,
scultura, architettura - sono state associate alle arti pratico-produttive e
"artista" equivaleva ad "artigiano", fosse egli un vasaio, o un falegname,
o un costruttore di case. Per tale motivo, l'attività dei l'artista-artigiano è
stata spesso considerata di rango inferiore, non degna di "uomini liberi",
perché troppo simile a quella degli operai e dei contadini sempre più i-
dentificati con gli schiavi -, o a quella dei mercanti, uomini liberi ma
troppo spesso meteci, cioè stranieri, privi quindi della cittadinanza.
Nella Grecia arcaica, quando tradizioni e conoscenze erano traman-
date oralmente, la funzione della poesia è stata d'altronde essenziale,
perché connessa alla conservazione e trasmissione dei patrimonio cul-
turale. La memoria collettiva, l'identità di una comunità, di un popolo,
dipendevano dall'opera del poeta, che, mediante tecniche mnemoniche
ben determinate, conservava, elaborava e comunicava eventi storici, mi-
ti, modelli di valore, leggi, dispositivi e procedure tecniche, servendosi a
tal fine della narrazione epica, legata ad eventi straordinari e cantata ac-
compagnandosi al suono della lira43.
43 Contenuto e fine essenziale della comunicazione poetica è l'ethos, cioè il costume, che
nella poesia omerica è, essenzialmente, quello dei l'aristocrazia. La poesia di Esiodo, inve-
ce, si apre al mondo dei piccoli proprietari terrieri e dei mercanti: diviene allora fonda-
mentale il valore della Giustizia, in base al quale tutti (almeno tutti gli uomini liberi) do-
vrebbero essere trattati allo stesso modo. A lungo tempo il poeta è maestro di verità, cioè
"ispirato" dalle Muse che gli donano la capacità di "vedere". Rappresentato quasi sempre
cieco, proprio per questo egli è in grado di "vedere" la verità originaria profonda delle
cose, ciò che "è", "fu", "sarà". Per questo il poeta è rispettato e onorato. Egli, allo stesso
modo, "annuncia" Aletheia (verità) e produce piacere in chi ascolta, esprime sapienza e
produce emozioni forti. Alla sua opera presiede Mnémosyné, sorella di Kronos (cioè del
Tempo), la dea Memoria che spalanca alla mente del poeta il passato, in quanto gli con-
sente di esporlo così come Mnémosyné stessa gli "detta". Nella Grecia arcaica arte è poi
spesso sinonimo di armonia. Caratterizzati dall'armonia sono gli esempi di areté (virtù)
che il poeta riporta: il modello di virtù per l'eroe è quello della kalokagathía (bellezza e
81
Con l'avvento della polis e, ancor più, con l'avvento della civiltà della
scrittura, mutano gradualmente anche i caratteri e la funzione della poe-
sia. L'arte poetica tende a "professionalizzarsi": innanzitutto creatore ed
esecutore non coincidono più con la medesima persona. Il poeta diviene
rapsodo, cioè "cucitore di canti", non più creatore, ma declamatore di
poesia. Inoltre i contenuti della poesia riflettono sempre più problemi ed
esperienze dell'individuo, i suoi odi ed amori, le sue fortune e disgrazie.
L'autore parla di sé, su di sé riflette e comincia a mettere per iscritto i
suoi testi. Inoltre nel periodo segnato dalla tirannide di Pisistrato, ad A-
tene vengono messi per iscritto anche i poemi omerici. Una straordina-
ria stagione artistica infatti si apre con l'avvento delle tirannidi, che
promuovono le arti, investendo vere fortune nella costruzione di opere
pubbliche sempre più raffinate e accogliendo nelle loro corti il meglio
della cultura dell'epoca.
Ad Atene, con l'affermarsi della democrazia e con la crescita della
potenza economica e militare, si ha uno straordinario sviluppo culturale
ed artistico, che tocca il culmine nelle attività promosse, nei cuore dei V
sec., da Pericle44. Nello stesso periodo notevole è la produzione teatrale,
politica espansionistica ma anche con una grande fioritura di opere che - come dirà molto
più tardi Plutarco, nelle Vite parallele - "una volta compiute, si traducono in gloria eterna,
e, mentre si compiono, in benessere concreto", perché "suscitano attività di ogni genere: e
queste, risvegliando ogni arte, muovendo ogni mano, danno da mangiare a quasi tutta la
città". Si tratta di una quantità straordinaria di capolavori architettonici, di sculture e pit-
ture che faranno di Atene dirà orgogliosamente Pericle - la scuola dell'Ellade". In partico-
lare, è l'Acropoli, con il Partenone e una corona di edifici dal disegno armonico e ricchi di
ornamenti, a testimoniare la straordinaria stagione artistica della città. Alla testa degli
artisti di questo periodo è lo scultore Fidia. Ma nel V secolo, ad Atene e in altre città-stato,
operano molti altri celebri artisti, come ad esempio gli scultori Policleto e Mirone, i pittori
Zeusi e Parrasio, seguiti, nel IV secolo a.C., da Apelle. Essenziale, inoltre, è l'opera dell'ur-
banista Ippodamo di Mileto, a cui Aristotele attribuirà l'idea della "divisione delle città",
cioè un modello - teorico e pratico allo stesso tempo - di organizzazione della vita urbana
basato su piante disposte lungo assi ortogonali: idea che viene applicata nella costruzione
del Pireo, il porto di Atene, e nella fondazione della colonia di Thuri (nel 445-444 a.C.).
Numerose saranno le città della Grecia, dell'Asia Minore e della Magna Grecia (fra cui Pa-
estum, Agrigento, Napoli e Pompei) il cui disegno risentirà dell'influenza di Ippodamo.
82
soprattutto relativa alla tragedia. In origine essa ha il carattere di ceri-
monia religiosa volta a celebrare il dio Dioniso con danze e canti corali,
poi sempre più è narrazione complessa di eventi quasi sempre ispirati
alla tradizione mitica: il senso religioso originario si arricchisce di que-
stioni di carattere morale, legate al senso dell'esistenza e al destino stes-
so dell'uomo, e a temi politici e sociali di attualità. Il culmine della trage-
dia attica è rappresentato dall'opera di Eschilo, Sofocle ed Euripide. Ma,
insieme alla tragedia, anche la commedia, con Aristofane, si afferma ad
Atene e nelle maggiori città greche, diventando momento essenziale del-
la loro vita civica.
83
della realtà, affermando un concetto che sarà alla base dell'estetica
antica (e che rimarrà tale fino al XVIII secolo). Ma Platone afferma anche
che quella dell'arte è un'imitazione incapace di cogliere e rappresentare
la realtà effettiva delle cose, in quanto raffigurazione superficiale, che si
limita a descrivere l'apparire delle cose, non l'essere (che invece è
costituito, invece, dal mondo delle idee). Resta, quindi, il giudizio sul
carattere illusionistico dell'arte, già formulato da Gorgia, ma in senso
questa volta svalutativo della qualità delle conoscenze che l'arte
consente. Anzi, se si guarda al mondo delle idee e si considera la realtà
prodotta dall'uomo come "imitazione" di quel mondo, si deve
considerate l'imitazione che l'artista fa delle cose come un'imitazione
dell'imitazione, cioè un'imitazione di secondo grado, lontanissima
dall'essere45.
45Anche Omero, da tutti considerato come l' "educatore dell'Ellade", sarebbe solo un imi-
tatore, non un sapiente e un conoscitore della realtà. L'arte è diseducativa, quindi da cen-
surare o addirittura da non ammettere nello Stato ideale, perché troppo spesso fornisce
un'immagine deformata della realtà (ad esempio di quella divina) o dell'ordine dei valori
morali e perché è condotta con tecniche tali da confondere la capacità di intendere degli
ascoltatori. Si è discusso se le ragioni di tale atteggiamento platonico siano metafisiche o
politiche, legate cioè all'intento di "purificare" la tradizione mitica oppure a quello di "de-
purare" il modello di "Stato educativo" da ogni forma di corruzione (quella, ad esempio,
generata in Atene dalle rappresentazioni teatrali o dalle recitazioni pubbliche dei poemi
omerici). Certamente Platone, nelle Leggi, riferendosi alle tragedie, considera la "compo-
sizione" dello Stato ideale (che è "imitazione della vita migliore e più bella") lo "spettaco-
lo" più bello, "la migliore tragedia che sia possibile comporre", il "dramma più bello, che
solo la vera legge può condurre a compimento, secondo le nostre speranze".
84
librio, una nuova armonia nella psiche. Pertanto dall'imitazione artistica
si genera piacere, anche quando le vicende imitate sono terribili, come
avviene nelle tragedie. Valore conoscitivo dell'arte e sua accertata fun-
zione educativa e morale: le tesi aristoteliche capovolgono quelle plato-
niche. Esse, inoltre, sono il frutto di un'analisi concreta e minuziosa del-
l'esperienza artistica, di un approccio teorico che costituisce il fonda-
mento dell'Estetica come disciplina filosofica e, perciò, il quadro di rife-
rimento di artisti e filosofi nelle età successive46.
Lo Stagirita si presenta come un innovatore rispetto ai predecessori:
uno straordinario riformatore anche nel campo della teoria dell'arte
(poetica, estetica). Le sue concezioni sull'arte, pur restando poco note
nell'antichità e nel medioevo, ebbero uno straordinario successo nel ri-
nascimento e costituiranno una base concettuale essenziale per la nasci-
ta dell'estetica moderna.
La prima delle innovazioni che Aristotele introduce è proprio quella
di assegnare per la prima volta al discorso sull'arte e sull'esperienza arti-
stica uno spazio autonomo ed un preciso campo di attività, distinto dagli
altri e, come tale, oggetto di una specifica riflessione teorica.
46 Dello svilupparsi di una specifica riflessione estetica sono testimonianza, nell'Età elie-
nistica, le attività di ricerca, raccolta e catalogazione delle opere che sono state condotte
sistematicamente nel Museo di Alessandria e in altri grandi istituti culturali dell'antichità,
in concomitanza con la diffusione della cultura greca nei vasti territori conquistati da A-
lessandro Magno e con evoluzione delle specializzazioni artistiche connessa all'estendersi
della produzione artistica e letteraria.
85
LA VEROSIMIGLIANZA. Il secondo principio-base dell'estetica aristoteli-
ca è, come abbiamo detto, quello della verosimiglianza. Ma che cosa
dobbiamo intendere per "verosimiglianza"? Per capire il significato di
"verosimiglianza" occorre prima di tutto comprendere la differenza che
Aristotele pone tra storia e poesia. La storia descrive ciò che è accaduto,
mentre la poesia parla di ciò che potrebbe accadere. Ora è importante
rilevare che per Aristotele la poesia ci fa conoscere i fatti meglio della
storia, in quanto la poesia "tende a rappresentare l'universale, la storia il
particolare".
STORIA E POESIA. La storia, in altre parole descrive gli eventi così co-
me si sono realizzati, dunque nella loro concretezza e singolarità. La po-
esia, invece, li rappresenta come fatti che possono accadere (a tutti colo-
ro che si venissero a trovare in determinate condizioni): quindi li de-
scrive come "fatti universali" che rientrano nell'ambito delle possibilità
umane. Mentre allora la storia è imitazione del particolare, l'arte è imi-
tazione dell'universale. Proprio perché universali, gli eventi narrati dalla
poesia tendono ad avvicinarla alla scienza (che studia anch'essa gli e-
venti nella loro generalità), senza raggiungere tuttavia la capacità cono-
scitiva, in quanto nella poesia la rappresentazione avviene attraverso
immagini sensibili e non mediante concetti astratti.
86
Aristotele si distanzia da Platone. Per Platone, come sappiamo, i poeti
dovevano essere banditi dalla città: la poesia era diseducativa, perché
favoriva atteggiamenti e passioni irrazionali. Per Aristotele, invece, la
tragedia (che è la forma più elevata di poesia), sollecitando quelle
passioni di pietà e di terrore nello spettatore, le fa affiorare nella sua
coscienza, le tende al massimo e così le sublima e le purifica. Aristotele
scrive infatti nella Poetica che "mediante una serie di casi che suscitano
pietà e terrore", la tragedia "ha l'effetto di sollevare e purificare l'animo
da quelle passioni" determinando la kàtharsis, o catarsi, cioè la loro
trasformazione in emozioni pure e in un puro piacere, che è quello
estetico.
87
La Poetica: analisi dell’opera
47 Dopo la disastrosa sconfitta subita da Atene nel 338 a.C. nella Battaglia di Cheronea, ad
opera di Filippo il Macedone, si era stabilita tra le pòleis greche, in funzione antipersiana,
un'alleanza militare di cui Filippo era il capo. Ormai l'autonomia politica delle pòleis era
quasi ridotta a zero, e la loro caduta sotto il dominio diretto dei Macedoni era imminente.
Anche Atene non era più una potenza politica e militare ed era destinata a condividere la
stessa sorte delle altre pòleis greche. Ma allora mostrava un'economia in fase di crescita -
anche se non sarebbe durata molto. E la democrazia ateniese era stabile anche se, ormai,
la politica era diventata un fatto di politici di professione e il demos si disinteressava delle
vicende politiche. Inoltre lo scontro sociale tra ricchi e poveri continuava. All'interno di
Atene, dopo il periodo dello scontro aperto con la Macedonia e le veementi invettive di
Demostene, vi era un partito filo-macedone, ma era prevalente un atteggiamento di so-
spetto e di contrapposizione nei confronti della politica espansionista di Filippo e di Ales-
sandro. Aristotele era inviso a gran parte della cittadinanza per l'opera svolta come mae-
stro di Alessandro.
88
occupano della produzione di oggetti: è il campo delle tecniche, delle
"arti". Gli oggetti che possono essere prodotti non sono solo materiali,
ma, per così dire anche immateriali: è il caso degli oggetti prodotti dalle
"arti belle". Dunque, il titolo farebbe pensare ad una trattazione comple-
ta delle arti belle, mentre nell'opera che è arrivata a noi si parla solo del-
la poesia, anzi quasi esclusivamente di quella tragica. Ma alcune tesi
fondamentali sono valide per tutte le arti.
89
In questa nozione di imitazione vi è oscillazione tra l'imitazione co-
me simulazione (far finta di essere altro da ciò che si è) e come rappre-
sentazione (riproduzione di un modello).
90
questo "rendere puri" che la tragedia produce? La spiegazione più signi-
ficativa al riguardo è quella contenuta nella definizione di tragedia: la
rappresentazione di azioni in cui consiste la tragedia "per mezzo di pietà
e paura porta a compimento la depurazione di siffatte emozioni". La tra-
gedia produce negli spettatori pietà e paura a cui segue un effetto libera-
torio e rasserenante48.
48 Gli interpreti si sono domandati se si debba intendere la catarsi delle passioni, la loro
purificazione, oppure la liberazione dalle passioni, un moto di distacco spirituale da esse,
dalla loro "materialità". Si è detto che quest'ultima interpretazione, di carattere più spiri-
tuale, è il frutto dei contesto neoplatonico in cui è stata elaborata e si è perpetuata anche
in epoca moderna. Diverge da quel significato - e la pone così in un contesto religioso - la
catarsi intesa come decontaminazione, come risultato di azioni rituali. Ad altri, infine, è
sembrato di poter concludere che non di liberazione dalle passioni si debba parlare, ma
piuttosto di purificazione delle passioni, di un certo piacere estetico, che, invece di nuo-
cerci - come pensava Platone - ci risana o purifica.
49 Canti corali della lirica greca. Originariamente collegati al culto di Dioniso, hanno dato
91
l'altra sotto tre aspetti: nell'imitare o con mezzi diversi, o oggetti diversi,
o diversamente e non nello stesso modo. Come alcuni imitano riprodu-
cendo molti oggetti con colori e figure (chi per arte, chi per pratica) e
altri usando la voce, così tutte le arti citate compiono l'imitazione con il
ritmo, la parola e la musica, separatamente oppure in combinazione.
[...] Due cause appaiono in generale aver dato vita all'arte poetica,
entrambe naturali: da una parte il fatto che l'imitare è connaturato agli
uomini fin dall'infanzia53 (e in ciò l'uomo si differenzia dagli altri anima-
li, nell'essere il più portato ad imitare e nel procurarsi per mezzo dell'i-
mitazione le nozioni fondamentali); dall'altra il fatto che tutti traggono
piacere dalle imitazioni54. Lo dimostra ciò che avviene nei fatti: le imma-
gini particolarmente esatte di quello che in sé ci dà fastidio vedere, come
per esempio le figure degli animali più spregevoli e dei cadaveri, ci pro-
curano piacere allo sguardo. Il motivo di ciò è che l'imparare è molto
piacevole non solo per i filosofi, ma anche ugualmente per tutti gli altri,
soltanto che questi ne partecipano per breve tempo. Perciò vedendo le
immagini si prova piacere, perché accade che guardando si impari e si
consideri che cosa sia ogni cosa, come per esempio che questo è quello.
Qualora, poi, capiti di non averlo già visto prima, non procurerà piacere
in quanto imitazione, ma per la sua fattura, il colore o un'altra ragione
simile. Poiché, dunque, noi siamo naturalmente in possesso della capaci-
tà di imitare, della musica e del ritmo (i versi, è chiaro, fanno parte del
ritmo), agli inizi coloro che per natura erano più portati a questo genere
di cose, con un processo graduale dalle improvvisazioni dettero vita alla
poesia55.
52 Viene affermato il carattere imitativo della poesia e della tragedia, anche se l'imitazione
può variare in base ai mezzi espressivi, ai temi e ai modi. Mentre il carattere imitativo
attribuito all'arte e all'opera dell'artista era motivo di condanna da parte di Platone, in
Aristotele è caratteristica essenziale e positiva per l'arte, elemento nel quale si esprime
un tratto tipico dell'uomo.
53 L'imitazione è un aspetto essenziale della natura umana, particolarmente evidente nel-
sia per i contenuti di quell'imitazione, che possono produrre conoscenza (quindi "gioia
del conoscere"), sia anche per le forme (colori, versi, ecc.) con cui esse vengono espresse.
55 Dall'imitazione naturale si è passati - evolutivamente - all'imitazione poetica.
92
[...] La tragedia è dunque imitazione di qualche azione seria e com-
piuta, che ottiene una propria grandezza, con un discorso ornato, i cui
ornamenti appaiono distintamente in ciascuna parte, (e che) in forma
drammatica e non narrativa, usa la pietà e la paura per purificare tali
emozioni.
Io chiamo "discorso ornato" quello che unisce il ritmo all'armonia e
al canto; e dico che gli ornamenti non sono tutti in ciascuna parte perché
alcune parti non hanno che il metro, mentre altre hanno la musica.
Poiché è imitazione di un'azione ed è compiuta da personaggi che
agiscono56 i quali necessariamente hanno una certa qualità per il carat-
tere e il pensiero (grazie a questi noi diciamo che le azioni sono dotate di
una certa qualità ed è in seguito ad esse che tutti hanno successo o falli-
scono), imitazione dell'azione è il racconto.
La tragedia è, infatti, imitazione non di uomini ma di azioni e di mo-
do di vita57; non si agisce, dunque, per imitare i caratteri, ma si assumo-
no i caratteri a motivo delle azioni; pertanto i fatti, cioè il racconto, sono
il fine della tragedia, e il fine è la cosa più importante di tutte [...].
zione di azioni vere e proprie di persone e non narrazione delle azioni stesse; c. seria e
compiuta; d. avente sue dimensioni; e. caratterizzata da un particolare stile poetico; f. ge-
neratrice di passioni forti di pietà e paura; g. capace di sublimare e trasfigurare (“depura-
re") tali passioni.
57 Il fine della tragedia sta nei fatti che in essa si rappresentano, sottolinea ancora Aristo-
tele. La tragedia non è uno "studio di carattere (studio scientifico come quello che farà un
discepolo di Aristotele, Teofrasto), perché i caratteri dei personaggi emergono come mez-
zo per produrre l'azione drammatica
58 il fine morale della tragedia non si raggiunge con discorsi moralistici ben fatti, ma con
azioni e discorsi (anche discorsi meno perfetti di quelli di un trattato filosofico) capaci di
attivare nello spettatore reazioni emotive e intellettuali tali da aiutarlo a ritrovare un o-
rientamento morale nella condotta. Qui il distacco da Platone, dalla sua critica dell'arte
imitativa, è netto.
93
do verosimiglianza o necessità59. Lo storico e il poeta non si distinguono
nel dire in versi o in prosa (si potrebbero mettere in versi gli scritti di
Erodoto e nondimeno sarebbe sempre una storia, con versi o senza ver-
si); si distinguono, invece, in questo: l'uno dice le cose avvenute, l'altro
quali possono avvenire.
59 La distinzione fondamentale fra poesia e storia sta innanzitutto nel fatto che la prima
descrive non ciò che è avvenuto, come fa la storia, ma ciò che può avvenire. E lo fa con
verosimiglianza e necessità, in modo che ciò che accade possa realmente apparire ed es-
sere vissuto dallo spettatore come qualcosa di credibile, che può, cioè, realmente verifi-
carsi.
60 In secondo luogo la poesia descrive situazioni universali, tali cioè da favorire un pro-
cesso di identificazione dello spettatore con ciò che è rappresentato, mentre la storia è
cronaca di vicende particolari. Ciò rende possibili e credibili le vicende rappresentate,
tanto più se, come avviene nella tragedia (a differenza della commedia), i personaggi non
sono inventati, ma sono realmente esistiti (o, come quelli del mito, si "crede" che siano
esistiti): ciò che è esistito, ciò che è avvenuto, non può non apparire possibile, rafforzando
quel processo di identificazione fra spettatore e vicenda che costituisce l'asse dell'espe-
rienza drammatica.
61 Componimenti poetici in metro giambico, generalmente a carattere di invettiva o con
intonazione satirica.
94
essere mostrati gli uomini degni di stima, che volgano dalla buona sorte
alla sventura, perché questo non è pauroso né pietoso, ma odioso; nep-
pure i malvagi dalla sventura alla buona fortuna, perché questo è il mas-
simo di estraneità alla tragedia, in quanto non presenta nulla di cui c'è
bisogno: non è né conforme al senso morale, né pietoso, né pauroso;
neppure, per contro, il perfetto malvagio che cade dalla buona sorte nel-
la disgrazia, perché una composizione siffatta comporterebbe sì senso
morale, ma non pietà né paura; la pietà è infatti relativa a colui che è in-
degnamente tribolato, la paura a chi ci è simile (pietà per chi non merita,
paura per chi ci è simile), pertanto ciò che avviene non sarà né pietoso
né pauroso. Resta dunque il caso intermedio fra questi. È di questo tipo
colui che, non distinguendosi per virtù e per giustizia, non è volto in di-
sgrazia per vizio e malvagità, ma per un errore, tra coloro che si trovano
in grande fama e fortuna, come per esempio Tieste, Edipo e gli uomini
illustri provenienti da siffatte stirpi. […] anche senza il vedere, il raccon-
to deve essere composto in modo tale che chi ascolta i fatti che si svol-
gono, per effetto degli avvenimenti, sia colto da tremore e pianga62, il
che si può provare udendo il racconto di Edipo63.
62 Paura e pietà si generano non quando viene punito un malvagio, o quando un malvagio
ha fortuna, e neppure quando un uomo virtuoso precipiti nella sventura, ma nelle situa-
zioni intermedie, quando sono il caso e gli imprevisti a giocare un ruolo essenziale. Tutto
questo stringe ancor più lo spettatore alla vicenda, lo fa soffrire e compatire, operando
l'effetto di "trasfigurazione" che nella Politica Aristotele chiamerà di catarsi, cioè di puri-
ficazione delle passioni e non dalle passioni. Ma vedi, sulla catarsi, il documento seguente.
63 Aristotele, Poetica, 47a, 48b, 49b, 52a, 53b
95
ANTOLOGIA CRITICA
96
QUADRO STORICO E RAPPORTI CON PLATONE
Nel periodo in cui vive Aristotele si assiste alla definitiva crisi del
modello della pòlis e al predominio macedone, che culmina con la nasci-
ta dell’impero di Alessandro Magno. La vita di Aristotele è legata per più
aspetti a quella di Alessandro: ne è precettore dal 345 al 335 a. C., e in
seguito, tornato ad Atene, fonda il Liceo grazie alla sua protezione.
La decadenza della Grecia classica inizia già con la lunga guerra del
Peloponneso. Il dominio di Sparta che ne segue viene contrastato da A-
tene e dalle città greche sue alleate, dapprima con l’alleanza con i Per-
siani, poi con la coalizione sotto la guida di Tebe, che sconfigge Sparta
nella battaglia di Leuttra. L’egemonia di Tebe spinge Sparta e Atene ad
allearsi, sconfiggendola nella battaglia di Mantinea (362 a. C.), che rap-
presenta l’apice della guerra civile tra le pòleis greche e insieme l’inizio
della loro fine.
Filippo Il di Macedonia, diventato re nel 359 a.C., consapevole della
debolezza della Grecia, ne intraprende la conquista, contrastato senza
successo dagli appelli di Demostene che invitava i Greci all’unità contro
«i barbari». La lega tra Atene e Tebe viene sconfitta nella battaglia di
Cheronea (338 a.C.), che pone fine all’indipendenza della Grecia e sanci-
sce il predominio macedone. Poco dopo (336 a. C.) Filippo viene assassi-
nato e il figlio Alessandro, nello spazio di appena dieci anni, dal 334 aI
323 a. C., riuscirà a conquistare un impero.
Il primo anno di regno viene impiegato per riconfermare la supre-
mazia macedone, messa in discussione dopo la morte di Filippo sia dalle
città greche sia dai popoli del nord, i Traci, gli Sciiti e gli Illiri. Riassog-
gettata l’intera penisola balcanica, Alessandro organizza la guerra con-
tro l’impero persiano. Alla spedizione associa numerosi studiosi, dai to-
pografi per tracciare la pianta dei luoghi, ai geografi, dagli storici ai filo-
sofi, a molti altri uomini di cultura. Tra i filosofi, particolarmente impor-
97
tante è il ruolo di Callistene (370-327 a. C.) che scrive il diario della spe-
dizione. C’erano anche botanici, zoologi, geologi, che avevano anche il
compito di spedire materiali e osservazioni ad Aristotele, che contava
sulla spedizione per le ricerche condotte all’interno del Liceo. Non man-
cavano ovviamente sacerdoti e indovini per propiziare le battaglie, e
numerosi erano i medici, sia per curare i feriti, sia per prevenire epi-
demie.
Nel 334 a. C. Alessandro attraversa Io stretto dei Dardanelli con un
esercito di 35.000 soldati e probabilmente altrettanti ausiliari, riportan-
do una prima vittoria sulla cavalleria persiana sulle sponde del fiume
Granico. Alessandro si presenta come liberatore delle città greche della
Ionia e come paladino della Grecia contro i barbari come venivano con-
siderati i Persiani. Dopo la vittoria del fiume Granico, molte città greche
insorgono, schierandosi dalla sua parte contro i Persiani.
L’avanzata di Alessandro continua senza battaglie. Il re dei Persiani,
Dario III (il «Gran Re»), adotta una strategia che mette in seria difficoltà
Alessandro: non accetta battaglia in Asia Minore, lasciando che il nemico
avanzi ma al tempo stesso invia la flotta con parte dell’esercito in Grecia,
per raccogliere e coordinare le molte forze antimacedoni, capeggiate da
Sparta. Riesce in questo modo a conquistare alcune città, come Chio, e
l’isola di Lesbo. Ma nel 333 Dario, forse incoraggiato da questi successi,
cambia strategia, decidendo di affrontare Alessandro in battaglia, radu-
nando uno sterminato esercito
Babilonia e marciando verso la Siria, contro i Greci. L’esercito per-
siano conta oltre mezzo milione di uomini (ma non è possibile determi-
nare il numero dei combattenti effettivi e quello degli ausiliari), quello
macedone circa 40.000, ma Alessandro riesce a ingaggiare battaglia
presso la città di Isso, in una stretta pianura tra le montagne e la costa,
dove un esercito così mastodontico era impossibilitato a manovrare in
modo efficace. Alessandro consapevole della propria inferiorità numeri-
ca, adotta una tattica temeraria, aggirando personalmente, con un drap-
pello di cavalleria, parte dell’esercito persiano e riuscendo a raggiungere
la guardia reale e il carro del Grande Re. Dario, colto di sorpresa, si dà
precipitosamente alla fuga, abbandonando il proprio esercito che si di-
sperde, lasciando Alessandro padrone del campo. La battaglia di Isso se-
gna una disfatta dei Persiani. Alessandro cattura anche l’harem reale,
98
che comprende, oltre alle moltissime mogli anche tutti i figli di Dario,
perché secondo la tradizione persiana tutta la famiglia del Grande Re
doveva seguirlo in battaglia.
Tornato verso la costa, Alessandro conquista Tiro, dopo un lungo
assedio, poi Gaza e da qui passa in Egitto, occupandolo facilmente per-
ché viene accolto come un liberatore dalla popolazione, che non soppor-
tava la dominazione persiana.
Nel 332 a. C. fonda la città di Alessandria, destinata a diventare il
maggior centro cultura dell’età ellenistica. Rispettando le tradizioni egi-
zie e utilizzandole a proprio vantaggio, accetta di essere in coronato, a
Menfi, faraone dell’alto e del basso Egitto. Si reca poi in visita presso
l’oracolo di Ammone. Calliste ne racconta questo pellegrinaggio con trat-
ti prodigiosi (il dio Ammone avrebbe fatto piovere per salvare il sovrano
che si era smarrito nel deserto, inviando poi due corvi per indicargli il
cammino) incominciando a costruire l’immagine di Alessandro come
semidio. Le profezie del sacerdote di Ammone, raccontate dallo stesso
Alessandro, lo designavano come figlio di Giove. In quanto faraone era
considerato figlio di Ammone, il quale come figlio di Ammone il quale
era assimilato a Zeus. Alessandro intendeva, in questo modo, aumentare
il proprio prestigio nell’esercito e soprattutto tra i propri generali, che
nella tradizione macedone erano quasi suoi pari.
Dario, intanto, aveva riorganizzato un esercito ancora più numeroso
del precedente, chiamando in soccorso tutte le satrapie (distretti
dell’impero, comandate da un satrapo, cioè un nobile scelto dal re) o-
rientali e le popolazioni dell’india. Gli storici parlano un milione di fanti
e di circa 40.000 cavalieri, contro i 40.000 fanti e i 7.000 cavalieri di cui
dispone Alessandro.
Probabilmente la consistenza dell’esercito persiano è sovrastimata,
ma comprendeva comunque parecchie centinaia di migliaia di uomini.
Nel 331 Alessandro attraversa il Tigri, oltre il quale si è schierato,
questa volta in un’ampia pianura, presso Gaugamela, l’esercito persiano.
Con pochi cambiamenti, Alessandro ripete la tattica che gli aveva assicu-
rato la vittoria a Isso: si pone al comando di una parte della cavalleria,
disposta a cuneo, e riesce a penetrare nel cuore dell’esercito nemico,
puntando al carro del Gran Re. Ancora una volta, Dario si dà alla fuga,
inseguito per un lungo tratto da Alessandro che non riesce a rag-
99
giungerlo, ma che ottiene la vittoria. Ormai Dario non ha più un esercito,
dato che i vari satrapi, in seguito alla sua fuga, si sentono sciolti dalla fe-
deltà nei suoi confronti. Alessandro conquista facilmente Babilonia e poi
Susa, l’ultima città sulla strada per Persepoli, la capitale della Persia.
Molti satrapi si arrendono e consegnano le proprie città ad Alessandro,
ricevendo in cambio la possibilità di conservare il proprio potere, sotto
il dominio macedone. Nel 330 a.C. anche Persepoli cade. Alessandro ini-
zia allora un lungo inseguimento per catturare Dario, ma quando riesce
a raggiungerlo lo trova ormai cadavere, ucciso dai suoi stessi uomini.
Dopo alcuni anni di pausa, per riorganizzare l’impero conquistato, Ales-
sandro intraprende una spedizione per sottomettere anche l’india. Nel
326 a. C. attraversa - l’Indo e sconfigge le truppe del re indiano Poro nel-
la le battaglia dell’ldaspe. Intendeva, con questa nuova impresa, impedi-
re il rinascere delle satrapie orientali e al tempo stesso stabilire il pro-
prio controllo sui ricchi mercati delle spezie e della seta. Le sue ambi-
zioni vengono però frenate dai suoi stessi soldati, che rifiutano di prose-
guire.
Tornato a Babilonia si adopera per una riconciliazione con le città
greche, dove resisteva ancora un partito antimacedone. Concede il per-
dono a tutti gli esuli, che possono tornare in patria, ma al tempo stesso
impone a tutte le città di tributargli onori divini, riconoscendolo come
figlio di Ammone e quindi di Zeus.
La maggior parte delle città ubbidisce, ad iniziare da Atene, che lo
inserisce tra i principali dèi della città.
Mentre sta progettando una nuova spedizione per la conquista
dell’india, Alessandro muore a Babilonia per febbri malariche (ma alcu-
ne fonti parlano di avvelenamento) a soli 33 anni, nel 323 a. C.
L’impero che aveva creato gli sopravvive per poco più di un anno:
dopo una breve reggenza da parte del generale Perdicca, gli altri gener-
ali e ministri di Alessandro - detti «diadochi» - iniziano un periodo di
scontri e di contrasti - durati quasi quarant’anni - che si conclude con la
frammentazione dell’impero in una serie di regni, i cosiddetti «regni el-
lenistici», inizialmente cinque, poi ridotti a tre: la Macedonia, l’Egitto,
l’Asia64.
100
LA METAFISICA ARISTOTELICA
101
non solo limitarsi a descrivere l’essere, a fare una fenomenologia dei di-
versi significati dell’essere, ma significa giungere a comprendere “le
cause dell’essere in quanto essere”, ossia i princípi dell’essere come tale,
vale a dire l’intero e i suoi fondamenti. Come ben si vede, non solo que-
sta definizione concorda con la prima, ma la chiarifica e l’approfondisce.
3) Nei libri centrali emerge, poi, un ulteriore concetto di metafisica
come “scienza della sostanza”. Ora, la parola “sostanza” traduce il greco
ousía che, alla lettera, vorrebbe dire “essentità”. La “sostanza” o ousía
sarebbe, dunque, il senso principale ed essenziale dell’essere. Che anche
questa definizione concordi con le precedenti, illuminando secondo una
ulteriore prospettiva l’oggetto della metafisica, risulterà evidente non
appena si rifletta su quanto segue. Aristotele stesso dice che, avendo
l’essere molteplici significati, la risposta adeguata alla domanda che cos’è
l’essere si potrà avere, fondamentalmente, studiando l’essere nel suo si-
gnificato principe, che è appunto la “sostanza” o “essentità”. Inoltre, dac-
capo, studiare la sostanza (l’essere come sostanza) significa trovare le
cause e i princípi della sostanza, e le cause e i princípi della sostanza so-
no le cause e i princípi dell’essere principale. Pertanto, le cause della so-
stanza sono le cause prime o supreme, col che ritroviamo non solo la se-
conda ma anche la prima definizione, con le quali questa terza concorda
perfettamente.
4) Una quarta definizione (che ritroviamo formalmente espressa nei
libri VI e XI, e, poi, svolta nel XII) caratterizza la metafisica come “teolo-
gia” o “scienza teologica”. Questa definizione è implicita nelle pieghe di
tutte le altre, e Aristotele stesso lo rileva senza mezzi termini. Studiare le
cause prime significa anche cercare Dio, giacché “tutti ammettono che
Dio sia una causa e un principio”. Il metafisico che studia l’essere in
quanto essere (l’intero dell’essere) è diverso dal fisico e “sta più in su del
fisico”, perché fa oggetto della sua indagine non solo il genere fisico
dell’essere ma anche il genere dell’essere che è superiore a questo, ossia
l’essere della sfera del divino. E anche lo studio della sostanza sbocca
nella teologia, perché studiare la sostanza significa, oltre che domandar-
si che cosa sia la sostanza in generale o quali siano i suoi princípi in ge-
nerale, anche domandarsi se esistano solo sostanze di tipo fisico oppure
anche altre al di sopra di quelle fisiche e quali queste siano. Il che signifi-
102
ca domandarsi se esista o no un divino trascendente, che è, appunto, pro-
blema teologico.
5) Nel libro II, infine, la metafisica è definita anche come “scienza
della verità”. Ma tosto Aristotele precisa che conoscere il vero significa
“conoscere la causa” e, in particolare, che conoscere la verità metafisica
significa conoscere la cause che fanno essere vere le altre cose che da
esse dipendono. Le cause più vere sono le cause supreme e, dunque, an-
che Dio e il Divino. La verità di cui parla qui Aristotele è, poi, identificata
con l’essere stesso, dato che, come egli espressamente rileva, “ogni cosa
possiede tanto di verità quanto possiede di essere”. Sicché “Verità”, nel
senso di questo contesto, è termine che copre esattamente quell’area
semantica coperta dalle quattro definizioni di metafisica sopra illustrate,
e, quindi, la definizione della metafisica come scienza della verità non
esprime una nuova definizione ma semplicemente chiarisce che l’oggetto
della metafisica non è una particolare verità (come può essere quella
delle scienze particolari) ma è la Verità ultima65.
103
Le quattro cause ovvero il perché delle cose
66 Finalismo (o teleologia): Aristotele ritiene che tutto quanto accade nel mondo naturale
sia governato dalla legge del finalismo, o teleologia (dal greco télos, “fine”): tutto ha un
fine, uno scopo. Tale finalismo può intendersi in un duplice senso: a) come subordinazio-
ne dell’universo a Dio, che ha impresso al tutto il primo movimento; b) come energia in-
terna alle singole cose o sostanze che tendono a realizzare naturalmente la propria es-
senza o ragion d’essere. Da questo secondo punto di vista, la ghianda tenderà a divenire
quercia, il bambino tenderà a diventare adulto, come l’orecchio o gli occhi tenderanno a
sentire e vedere. Nella natura aristotelica non c’è posto per il caso. Le deformità e le ma-
lattie, che alterano la naturale perfezione dell’uomo e degli animali sono delle eccezioni,
che confermano la regola.
105
determinista. Egli infatti è preoccupato di lasciare spazio alla libertà,
quando afferma che gli eventi futuri non sono del tutto e per tutto de-
terminati e che l’eccezione è sempre possibile. Inoltre, egli ritiene che ci
sia un ambito, quello delle azioni morali dell’uomo, che non è soggetto
alla legge della necessità ma è, invece, totalmente libero67.
106
Dalla finalità del divenire alla teologia: la concezione
aristotelica di Dio
108
Dio è Causa Prima
DIO È MOTORE IMMOBILE. Nel risalire alla causa dei movimenti che
osserviamo, e che appaiono tutti essere volta a volta cause e
conseguenze di altri movimenti, per Aristotele siamo condotti a
considerare il movimento dei corpi celesti. I corpi celesti sono a loro
volta mossi dalle sfere che li contengono. Ogni sfera riceve il movimento
dalla sfera con cui confina. Causa di tutto il movimento è pertanto la
sfera celeste più esterna, quella delle stelle fisse. Essa però, secondo
Aristotele, è mossa a sua volta da un motore che non è mosso da
nient’altro, Un “qualcosa di eterno che è, insieme, sostanza e atto”
(Metafisica, l072a 25). Dopo aver mostrato che tale essere non solo
svolge una funzione fisica, ma possiede la bellezza e la bontà al massimo
grado, Aristotele lo definisce esplicitamente come «Dio».
109
muovendosi, a loro volta, perché mostrerebbe di contenere una
potenzialità e quindi di non essere perfetto Può muovere solo e
semplicemente essendoci. Esso muove come oggetto di desiderio, di
tensione, di amore — è «l’amor che move il Sole e l’altre stelle» di cui
parla Dante nella chiusa della Divina Commedia — non tende a nulla e
non ama nulla. Nella sua perfezione esso è necessario, eterno, immobile,
perfetto, non manchevole di nulla.
110
Leggiamo a questo proposito un passo dello Stagirita, tratto dalla
Metafisica, dove il filosofo indaga le caratteristiche del terzo tipo di so-
stanza, quella divina. Essa è la più elevata, ma, in quanto sostanza, ha le
stesse caratteristiche delle altre sostanze e anzi può servire a metterle
meglio in luce. Cade così la gerarchia platonica dei tipi di enti (il Bene, le
idee, le realtà sensibili): studiare Dio equivale a studiare una parte
dell’essere, del mondo e a capirlo meglio nella sua interezza.
69Aristotele, Metafisica, XII, 107 ib: trad. it. in , Opere, Laterza, Roma-Bari 1973. Cfr. G.
Boniolo, P. Vidali, Argomentare, vol. I, Bruno Mondadori, pag. 389, con adattamenti.
111
Il passaggio dal divenire all’immutabile
113
dizione che si afferma l’esistenza di un altro sostrato. Ebbene, se il rinvio
da un sostrato a un altro fosse indefinito, il toglimento della contraddi-
zione sarebbe indefinitamente rinviato, e cioè la contraddizione non sa-
rebbe tolta. Tale contraddizione è quindi tolta solo affermando che la
serie dei moventi mossi ha un termine nell’esistenza di un “movente
immobile”, ossia di un ente che, rispetto alla forma considerata, non di-
viene, cioè non passa dalla potenza all’atto.
Dio è la causa finale. — Se a questo punto non ci si limita alla consi-
derazione di un divenire particolare, ma si considera la totalità del dive-
nire, la totalità dell’universo degli enti divenienti, è necessario affermare
che ogni forma, che in tale totalità sopraggiunge, preesiste in «qualcosa
che muove non mosso, eterno, che non è altro se non sostanza e atto»: il
Movente (o Motore) Immobile. Solo atto; perché se fosse in potenza sa-
rebbe soggetto a divenire. E quindi non un atto diverso dal suo esser so-
stanza (perché, daccapo, se esistesse questa diversità, l’esser sostanza
sarebbe qualcosa di potenziale rispetto al suo atto), ma un ente la cui
sostanza è il suo esser atto: atto puro. Esso è il Dio, la cui attività è quella
suprema: l’attività eterna dell’intelligenza che è eternamente intelligibi-
le a sé stessa.
Ma nella realtà sensibile ogni agire — e i moventi, nel sensibile, so-
no appunto un agire — è anche un patire, cioè ogni muovere è insieme
un essere mosso, ogni muovere è un “commuoversi”. Il Movente Immobi-
le, proprio perché immobile, non può commuoversi, cioè non può muo-
vere nel senso in cui la causa efficiente muove. Ma ciò che muove senza
muoversi può essere solo l’oggetto del desiderio e dell’intelligenza. Il
Movente Immobile non è causa efficiente, ma causa finale dell’universo.
Esso è lo scopo dell’universo, ma non lo scopo considerato come il con-
tenuto che viene prodotto dall’agire, bensì lo scopo considerato come
ciò a cui l’azione mira e che guida l’azione. Il Dio muove il mondo, così
come l’oggetto dell’amore, impassibile, muove l’amante.
Il Dio non produce il mondo, ma, impassibile, senza commuoversi, lo
attrae a sé come la terraferma attrae a sé chi va navigando sul mare70.
114
LA FISICA
La fisica aristotelica
115
mostrabilità. Né si può dimostrare ciò che è evidente a partire da ciò che
evidente non è. Esso può essere colto o meno, come avviene in rapporto
ai colori. Si può e si deve, invece, procedere alla confutazione dei suoi
negatori, attraverso un procedimento dialettico, così come è avvenuto in
relazione al principio di non contraddizione e alla sua evidenza logica
nel IV libro della Metafisica. Il medesimo procedimento, rivolto in parti-
colare contro gli Eleati, viene da Aristotele sviluppato nella Fisica.
116
CONTRO IL MECCANICISMO. In contrapposizione al meccanicismo, la na-
tura è intesa come causa finale. Perciò negare il finalismo significa nega-
re la stessa natura. La necessità, presente anch’essa in natura, non è al-
tro che l’elemento materiale presente nella finalità.
117
Medio Evo e verrà fissata nella celebre formula terminus continentis
immobilis primus. In quanto limite, il luogo esiste solo in relazione al
corpo di cui è limite. Proprio per questo, esso non si identifica con il
vuoto. I capitoli finali del IV libro della Fisica affrontano il problema del
tempo, con una profondità e finezza di analisi presupposta dalle indagini
di Plotino, S. Agostino, S. Tommaso, Hegel.
Seguendo il consueto procedimento, Aristotele esamina dapprima le
aporie sull’esistenza del tempo. Se infatti si intende il passato come ciò
che non è più e il futuro come ciò che non è ancora, il tempo dovrebbe
esistere pur essendo costituito di parti che non sono. Anche l’esistenza
dell’istante appare problematica: infatti esso non può intendersi né
come identico, né come differente, né come continuo. Il tempo è stato
spesso identificato con la sfera del tutto, e quindi con lo stesso
movimento. Ma il tempo non è il movimento, giacché questo ultimo è nel
tempo. Tuttavia il tempo non esiste senza il movimento; esso è qualcosa
del movimento. Tempo, spazio e mobile si implicano reciprocamente. In
questo rapportarsi, essi esprimono il prima e il poi, che dallo spazio si
estende al mobile e quindi al tempo. Il tempo è allora «numero del
movimento secondo il prima e il poi» (IV, 2). Il concetto di numero è da
intendere non come numero astratto, cioè come mezzo di numerare, ma
come numero concreto o numero-numerato: ossia numero che sussiste
sempre e solo come predicato di cose. Numerare è l’atto di
determinazione del movimento introdotto dalla coscienza, che, a partire
dal prima e dal poi del movimento, determina anche il tempo. Il tempo è
determinato dai due istanti, prima e poi. Né l’istante è parte del tempo,
elemento discreto che costituisce per sommatoria il tempo,bensì esso è
limite del continuo. In quanto limite, l’istante è senza grandezza, solo
«sosta» virtuale introdotta nel continuo dalla coscienza che determina.
Come si vede, la coscienza gioca un ruolo essenziale nella dottrina
aristotelica del tempo. Dal momento che il tempo è numero, e il numero
è in rapporto con l’atto del numerare proprio della coscienza, Aristotele
si chiede se il tempo potrebbe esistere qualora non esistesse la
coscienza.
118
Zenone nei suoi paradossi, bensì è quantità sempre divisi-bile. Il
continuo è quantità nella quale un limite congiunge sempre due punti
dati, partecipando di entrambi. Il movimento è inconciliabile con una
considerazione della grandezza come costituita di elementi indivisibili.
DIO COME CAUSA ULTIMA DEL DIVENIRE E DELLA PHYSIS. Nel libro VIII,
infine, Aristotele si propone di giungere alla determinazione della causa
ultima del divenire. Dio, pertanto, costituisce il principio ultimo di
giustificazione della phiysis71.
71Tratto, con adattamenti, da Storia del pensiero occidentale, diretta da Emanuele severi-
no, Armando Curcio Editore.
119
La dottrina delle quattro cause
121
La biologia aristotelica: studi sull’anatomia e sulla
riproduzione
122
noi elenca più di quattrocento specie di animali) e gettare le basi di una
anatomofisiologia comparata.
123
Tutte le annotazioni di Aristotele, anche se contengono una parte
abbastanza grande di informazioni errate o leggendarie, sono ricchissi-
me di dettagli minuziosi. Non dobbiamo scordare che la sua biologia e-
serciterà una grande influenza su tutto il Medioevo, ma dobbiamo tutta-
via sottolineare che essa occupa un posto di eccezionale importanza nel-
la sua filosofia, in quante la vita è proprio il campo d’azione per eccel-
lenza delle cause finali care allo Stagirita «Dato che percepiamo nume-
rose cause in tutto il divenire della natura, ad esempio quella che spiega
in vista di che cosa e quella che spiega a partire da che cosa si produce il
movimento, bisogna determinare ancora quale è, per natura, la prima e
quale la seconda. Sembra che la prima sia quella che chiamiamo “in vista
di che cosa”, poiché essa è ragione e la ragione è il principio, tanto nelle
produzioni artistiche che in quelle della natura. Infatti è dopo avere de-
terminato, con il ragionamento o con l’osservazione, il medico che cos’è
la salute, l’architetto che cos’è la casa, che entrambi spiegano le ragioni e
le cause degli atti che compiono e il perché bisogna agire in un certo
modo. Ma vi è molta più finalità e bellezza nelle opere della natura che in
quelle dell’arte» (Parti degli animali I 1 639 b 11); la Natura non fa nien-
te senza motivo.
Ma questo naturalista, che ha applicato alla fisica e alla cosmologia
la visione del mondo che aveva ricavato dall’osservazione degli esseri
viventi, che vi ha trovato il vitalismo e il finalismo con cui spiegare la si-
tuazione degli esseri nel mondo, vi troverà ugualmente come spiegare la
condizione dell’individualità. Poiché, da buon osservatore, Aristotele sa
che vi sono dei mostri, vale a dire degli individui che non hanno ricevuto
la forma per la quale erano stati fatti. Da dove viene questo accidente
che sembra rimettere in discussione l’intera idea di teleologia? Aristote-
le risponde: dalla materia. La forma, infatti, non riesce a informare del
tutto la materia, poiché in essa rimane sempre una privazione che lascia
un margine di indeterminazione e la forma è più o meno contrastata dal-
le potenzialità opposte che la materia contiene. Questo stato di cose è
proprio del mondo sublunare, dove non si può parlare di necessità per-
fetta, ma soltanto di ciò «che accade più spesso». Nulla è dunque perfet-
tamente necessario, la materia resiste alla forma, introduce il contingen-
te e l’accidente (cfr. Meta V 2 1027 a 8 e segg); i neoplatonici riprende-
124
ranno questa idea, inserendola in una prospettiva etica, e in Plotino la
materia rappresenterà il male73.
125
LA PSICOLOGIA
126
forma di un corpo di una qualità determinata» (ibid. II 1 412 b 10). Così
l’anima non è un corpo, in un corpo essa è la forma del corpo, per questo
ne condivide le affezioni, così come una forma condivide le affezioni del-
la sua materia: questa è la soluzione che Aristotele dà al problema
dell’unione dell’anima e del corpo che sarà una delle questioni essenziali
del cartesianeismo.
FUNZIONI DELL’ANIMA. Aristotele distingue diverse funzioni (dyna-
meis) dell’anima: la funzione nutritiva (threptiké), la funzione sensitiva
(aisthetikè), la funzione pensante (dianoetike); Aristotele parla anche
della funzione desiderante (orektikè) (ibid. II 3 414 a 32) e della funzio-
ne motrice (kinetikè) (ibid. II 3 414 a 52 e 11 2413 b 12), che si possono
considerare effetti secondari della sensazione nel senso che il desiderio
presuppone l’immaginazione e provoca il movimento. Queste funzioni, o
facoltà dell’anima, Aristotele le ha chiamate talvolta parti dell’anima ma
è chiaro che, se si parla di un’anima vegetativa, di un’anima sensitiva e di
un’anima intellettiva, si tratta di una sorta di gerarchia tale per cui ogni
facoltà implica quelle che la precedono, ma non obbligatoriamente quel-
le che la seguono:
1) L’anima vegetativa. È l’unica che possiedono i vegetali, è il livello
più basso dell’anima, spinge al nutrimento, è causa del processo di assi-
milazione che rende simile ciò che all’inizio era dissimile. Ha come fine
la preservazione della specie, per questo presiede al nutrimento, ma an-
che alla riproduzione.
2) L’anima sensitiva. La possiedono gli animali, oltre alla pre-
cedente; la possiede l’uomo, che però è dotato anche dell’anima intellet-
tiva.
a) La sensazione. La sensazione era considerata soprattutto una mo-
dificazione qualitativa del soggetto che percepisce a opera dell’oggetto
percepito, ma Aristotele colloca il problema in una prospettiva vicina a
quella che ha utilizzato per parlare del nutrimento: nel nutrimento la
materia è assorbita, mentre nella sensazione gli organi dei sensi ricevo-
no la forma senza ricevere la materia, così come la cera riceve
l’impronta dell’anello, senza ricevere né il ferro né l’oro. «Accade lo stes-
so per il senso: per ogni sensibile esso subisce l’azione di ciò che possie-
de colore, sapore o suono, non tanto perché ognuno di questi oggetti è
detto essere una cosa particolare, ma in quanto ha una certa qualità e in
127
virtù della sua forma» (ibid. III 2424a 17). La sensibilità è una facoltà u-
nica, ma si irradia in cinque sensi distinti che rimandano a organi
specializzati. Tuttavia un «senso comune» sottintende questi cinque
sensi specializzati; la sua funzione è quella di sentire i sensibili comuni
come il movimento e il riposo, il numero e l’unità, la forma, la
dimensione (ibid. 11 6418 a 17); di percepire i «sensibili accidentali», ad
esempio ci permette di identificare il figlio di Diares nell’oggetto bianco
che ho davanti agli occhi, detto in altro modo il senso comune opera dei
paragoni tra i dati dei sensi specializzati, che essi non possono fare in
quanto parziali; infine dà al soggetto che sente la coscienza della sensa-
zione.
b) L’immaginazione (phantasìa). È una sorta di prolungamento della
sensazione ed entra in gioco quando l’oggetto percepito è scomparso; lo
si vede bene nei sogni che altro non sono che un persistere delle imma-
gini (I sogni II 459 a 23), che non possiamo più controllare confrontando
le sensazioni di un senso con quelle di un altro, poiché il sangue, durante
il sonno, preme sul cuore, organo principale della percezione. La memo-
ria è paragonabile all’immaginazione, poiché consiste nella capacità di
riprodurre delle immagini che hanno lasciato in noi un’impronta, come
un sigillo potrebbe fare con la cera.
3) L’anima intellettiva. Già in parecchie occasioni abbiamo sottoli-
neato che la filosofia di Aristotele è una filosofia empiristica, ma è so-
prattutto ora che potremo verificarlo. Sappiamo che per Platone impa-
rare significa ricordarsi di una verità contemplata un tempo faccia a fac-
cia ma in seguito dimenticata, il metodo del filosofo socratico è la maieu-
tica che deve permetterci di «partorire» la verità di cui, senza saperlo,
siamo i depositari. In Aristotele, l’epistemologia non è mai ispirata
dall’escatologia; per lui la conoscenza inizia con la sensazione e «sebbe-
ne l’atto della percezione abbia come oggetto l’individuo, la sensazione
porta nondimeno sull’universale: l’uomo, ad esempio, non l’uomo Cal-
lias. Poi in meno a questi primi concetti universali, un nuovo arresto si
produce nell’anima, fino a che vi si fermano infine I concetti indivisibili e
veramente universali: così una specie di animale è una tappa verso il ge-
nere animale, quest’ultimo concetto è esso stesso una tappa verso un
concetto più elevato» (Analitici secondi 1119 100 a l7). Nella percezione
individuale la conoscenza universale è dunque in potenza, le immagini
che si ripetono o si fondono permettono di esercitare il pensiero. Poiché
128
«è dalla memoria che proviene l’esperienza per gli uomini, infatti una
molteplicità di ricordi della stessa cosa alla fine forma una sola espe-
rienza» (Meta. II 980 b 28).
Le immagini non costituiscono per questo tutto il pensiero, in quan-
to l’immaginazione sensitiva appartiene agli animali, ma «soltanto gli
animali razionali sono capaci di formare una sola immagine a partire da
una pluralità di immagini» (L’anima III 1 1434 a8); bisogna che il pen-
siero vada a cercare le forme nelle immagini, soltanto la facoltà noetica
pensa le forme nelle immagini. Così dunque la sensazione e
l’immaginazione sono la materia dell’intelletto. Eccoci ora in presenza di
uno dei punti più delicati della psicologia di Aristotele: «Dato che nella
natura tutta individuiamo inizialmente qualche cosa che serve da mate-
ria per ogni genere (ciò che è in potenza tutti gli esseri del genere) e poi
un’altra cosa che è la causa e l’agente che li produce tutti - una situazio-
ne di cui l’arte in rapporto alla sua materia è un esempio – è necessario
che anche nell’anima si ritrovino queste differenze. E infatti nell’anima
vi è, da una parte, l’intelletto che è analogo alla materia, per il fatto che
diventa tutte le cose intelligibili, e, dall’altra parte, l’intelletto che è ana-
logo alla causa efficiente, che le produce tutte, visto che è una specie di
stato analogo alla luce: anche la luce, infatti, in un certo senso trasforma
i colori in potenza in colori in atto. E questo intelletto è separato, impas-
sibile e senza mescolanze; poiché l’agente ha sempre una dignità supe-
riore al paziente, il principio alla materia (ibid. II 15 430 a 10). Aristotele
distingue dunque due tipi di intelletto: un «intelletto passivo» (o pathe-
tikòs nous, ibid. 430 a 24) e quello che i commentatori hanno chiamato
un «intelletto agente» (o poitikòs noùs), termine che Aristotele non uti-
lizza, ma che ben interpreta il suo pensiero. L’intelletto paziente è una
sorta di ricettacolo che raccoglie gli intelligibili nella sensazione e
nell’immagine assimilandosi a loro e rimanendo passivo, non può pen-
sare senza l’intelletto agente che attualizza gli intelligibili e, in un certo
senso, di conseguenza li crea, è la luce che fa vedere ciò che è visibile.
A questo punto, se ci soffermiamo sugli epiteti di cui Aristotele si
serve per qualificare l’intelletto agente, ci troviamo di fronte ai problemi
che hanno dovuto affrontare tutti i suoi commentatori:-è separato o se-
parabile (chòristòs) dal corpo, impassibile (apathes), senza mescolanze
(amighes) (op. cit.), immortale (athanatos), eterno (aidios) (ibid. 430 a
129
22) e viene da fuori per entrare nel feto (Generazione degli animali II
373 6 - 28). Sembra dunque che sia sovrumano.
Un buon numero di commentatori vedranno in questo intelletto at-
tivo la presenza nell’uomo dell’intelletto divino. I testi di Aristotele non
permettono di confermare formalmente una simile interpretazione, ma
bisogna riconoscere che, per quanto la si possa contraddire, si è forte-
mente tentati di considerarla molto plausibile. In realtà Aristotele dice
che questo intelletto può essere separato così come l’eterno è separato
dal corruttibile (L’anima II 2 413 b28); l’atto di questo intelletto, pur
presente nell’uomo, non gli appartiene dunque pienamente; certo l’atto
puro che è Dio pensa solo a se stesso, ma bisogna intendere con ciò che
pensa da se stesso. Allora ritroviamo un’altra volta che il pensiero di A-
ristotele parte dall’individuo che esiste per poi passare all’individuo in
sé che è Dio; nella sensazione l’individuo va oltre l’universale, ma
quest’universale dovrà essere attualizzato da un atto che viene da fuori,
che è eterno, Immortale, proprio come, bisogna dirlo, l’Atto puro che è
Dio. Che l’eterno attualizzi il temporale non è il segno che ogni sostanza
individuale non è soltanto presente nel mondo, ma è una presenza che si
dispiega a partire dalle sue rappresentazioni fino a ciò che la presentifi-
ca?74
130
L’ETICA
«Se ogni scienza adempie bene al suo compito mirando al giusto mezzo [...],
se i buoni artisti lavorano guardando a questo mezzo, la virtù che è, come la natu-
ra più accurata e migliore di ogni arte, dovrà tendere proprio al giusto mezzo»75.
Talora gli allievi migliori si allontanano dal cammino che hanno in-
dicato loro i maestri. Il più eccellente discepolo di Platone fu, almeno
quanto a carattere, il suo opposto. Sognatore, poeta, entusiasta, Platone;
pragmatico, realista, scienziato, Aristotele. Per il resto, Aristotele fu un
ottimo allievo di Platone perché sviluppò il suo insegnamento. Tuttavia,
lo fece con un metodo e dei risultati che Platone non avrebbe mai imma-
ginato. Tanto che, avvicinando per la prima volta Aristotele, può servire
riagganciarsi a un pensatore che precedette Platone: a Protagora e alla
sua formula dell’uomo misura di tutte le cose.
Questa idea di Protagora continuava infatti a essere discussa anche
dopo la confutazione di Platone. I Greci non sapevano fare a mezzo del
concetto di misura. Se non misuravano si sentivano perduti. Parole, a-
zioni, passioni andavano tenute al guinzaglio, altrimenti si profilava
all’orizzonte lo spettro dell’imprevedibile. Già uno dei Sette Saggi, Cleo-
bulo, aveva ammonito: «Ottima cosa è la misura». Ma quale misura? Una
qualsiasi?
Non un uomo qualsiasi, come voleva Protagora, ma l’uomo virtuoso
è la misura delle cose. Con questo principio fa il suo ingresso tra le di-
spute ateniesi il grande Aristotele. Ma chi è l’uomo virtuoso? L’uomo
buono, pacifico, altruista, tutto casa e biblioteca?
Questa risposta, troppo scontata, non è quella di Aristotele. La virtù
non è un ideale bello e pronto, ogni uomo deve cercarsela. Perché la vir-
tù è sempre una via di mezzo tra due vizi, uno per difetto, l’altro per ec-
131
cesso. Chi dà vera prova di coraggio? Chi riesce a evitare i due estremi, la
paura e la temerarietà: il difetto e l’eccesso.
Sino ad allora poeti come Pindaro e filosofi come Platone avevano
esaltato chi raggiunge il culmine in ogni cosa. Aristotele invece celebra
chi si ferma a metà strada, a quello ch’egli denomina il «giusto mezzo».
Vale per la morale, ma anche per la politica. Basta con l’incensare gli ari-
stocratici, il modo migliore per reggere lo Stato è trovare una via di
mezzo tra oligarchia e democrazia. E in campo logico? Se mi limito ad
attribuire un predicato a un soggetto - ad esempio se dico «I Greci sono
civili» - sono arbitrario. Ma non lo sono più se inserisco fra questi due
dementi un termine medio, dicendo ad esempio «I Greci sono civili per-
ché giusti». La prospettiva del giusto mezzo può costituire una buona
chiave di lettura attraverso cui orientarsi in un pensatore tanto multi-
forme quale fu Aristotele. Egli non lasciò inesplorato quasi nessun setto-
re dello scibile, ma proprio per questo è utile assumere un angolo visua-
le da cui osservare le sue teorie76.
132
L’etica aristotelica
134
zione», comune anche agli altri animali, come si è visto nella psicologia.
«Resta dunque una vita attiva propria di un essere razionale». Dunque,
«se propria dell’uomo è l’attività dell’anima secondo ragione, o non sen-
za ragione, e se diciamo che questa è l’opera del suo genere e in partico-
lare di quello virtuoso (...); se è così, noi supponiamo che dell’uomo sia
proprio un dato genere di vita, e questa sia costituita dall’attività
dell’anima e dalle azioni razionali, mentre dell’uomo virtuoso sia pro-
prio ciò, compiuto però secondo il bene e il bello, in modo che ciascun
atto si compia bene secondo la propria virtù. Se dunque è così, allora il
bene proprio dell’uomo è l’attività dell’anima secondo virtù, e se molte-
plici sono le virtù, secondo la migliore e la più perfetta. E ciò vale anche
per tutta una vita completa. Infatti una sola rondine non fa primavera,
né un sol giorno; così neppure una sola giornata o un breve tempo ren-
dono la beatitudine o la felicità» (Etica Nicomachea, I, 7).
La perfezione di questa attività, cioè la sua areté o virtù, realizza
dunque il bene. «La vita delle persone virtuose non richiede il piacere
come qualcosa di accessorio, bensì possiede il piacere in sé. Infatti (...)
non è buono chi non gioisca delle azioni virtuose né alcuno chiamerebbe
giusto un uomo che non goda di agire secondo giustizia». Così come il
piacere non è la virtù, ma ad essa consegue, così la realizzazione della
felicità richiede anche i beni esteriori sebbene non sia riducibile ad essi
né ne dipenda essenzialmente. Inoltre, la felicità richiede una vita com-
piuta e una perfetta virtù. Ora solo nell’attività secondo virtù si dà conti-
nuità e stabilità. «Questa qualità sarà dunque presente all’uomo felice ed
egli sarà tale per tutta la sua vita. Sempre infatti o più di ogni cosa egli
farà o contemplerà le cose virtuose, ed egli sopporterà i casi della sorte
ottimamente e in ogni maniera degnamente, se è veramente buono» (E-
tica Nicomachea, I, 10). Dunque, la virtù deve essere scelta per se stessa;
ma questo non significa alcun disprezzo per i beni accessori della vita.
135
una vegetativa, una sensitiva e una razionale. Ciascuna di queste at-
tività dunque si esprime in una peculiare “virtù”. Inoltre, anche la parte
appetitiva o concupiscibile partecipa in qualche modo della parte razio-
nale, in quanto essa deve obbedire alla ragione. Abbiamo cioè a che fare
con l’appetito razionale o con la razionalità appetitiva. E poiché l’anima
consta di due tipi di attività, quella irrazionale e quella razionale, anche
le virtù corrispondenti saranno di due tipi: le virtù etiche e le virtù dia-
noetiche. Le virtù dianoetiche o razionali sono ad esempio la sapienza,
l’intelletto, la ragione discorsiva, la saggezza. Virtù etiche sono ad esem-
pio la generosità, la moderazione, il coraggio.
136
dell’attività, hanno valore in se stessi, «invece nel caso delle virtù non è
sufficiente che alcune azioni siano di una data qualità, che si agisca con
giustizia o con moderazione, bensì occorre che chi le compie lo faccia in
una determinata disposizione d’animo, cioè anzitutto che siano compiu-
te consapevolmente, quindi di proposito, e di proposito a causa di se
stesse, in terzo luogo con volontà ferma e immutabile». Solo a queste
condizioni si tratta di virtù.
137
conde. Fra i sentimenti dobbiamo ricordare ad esempio la paura, la con-
fidenza, l’ira, la vergogna. Tra le azioni, vengono analizzate quelle in
rapporto con la ricchezza (donazione del denaro o acquisizione della
ricchezza), e il perseguimento dell’onore. Lo Stagirita si sforza di deline-
are con precisione gli ambiti delle singole virtù, senza una deduzione
rigorosa e con un ordine spesso accidentale. Si tratta di un’analisi feno-
menologica, che offre un quadro vivace dei comportamenti vigenti nei
costumi e nella società del suo tempo.
138
scambio, moneta, valore, bisogno - non considerate a sé stanti, bensì
come momento delle relazioni sociali e politiche.
139
e la forza), bensì quali lo siano in generale per vivere bene (...). Resta che
essa sia una disposizione pratica, accompagnata da ragione verace, in-
torno a ciò che è bene e male per l’uomo» (Etica.Nicomachea, VI, 5).
Quindi occorre conoscere quale sia il fine per l’uomo, mentre la saggezza
delibera solo in riferimento ai mezzi per giungere al fine. «La virtù rende
corretto lo scopo, mentre la saggezza rende retti i mezzi» (Etica Nicoma-
chea, VI, 12). Ora senza la saggezza non vi può essere virtù etica, ma nel-
lo stesso tempo non v’è saggezza senza la virtù etica, proprio perché la
saggezza si rivolge ai mezzi per conseguire il bene morale.
140
filosofo costituisce il più alto raggiungimento del fine proprio dell’uomo.
Ma questo fine si realizza solo nel vivere comune, cioè nella pòlis77.
141
LA POLITICA
142
Ciò non esclude che, anche per Aristotele, esso debba essere un be-
ne «perfetto» (teleion) , cioè fine a se stesso (da telos, fine), desiderato
in vista di se stesso e non di altro, ed «autosufficiente» (autarkhes), seb-
bene in un senso diverso da quello con cui d’abitudine si intende questo
termine.
“Noi non usiamo - scrive Aristotele - il termine autosufficiente in re-
lazione a un singolo individuo che vive una vita solitaria, ma in relazione
anche a genitori, figli, moglie e in genere agli amici e concittadini, perché
per natura l’uomo è animale politico”.
In questo Aristotele concorda con Platone: la felicità non è un fatto
soltanto individuale, ma è un bene sociale a cui tutti devono poter parte-
cipare; la ragione di questo risiede nella natura politica dell’uomo, giac-
ché l’uomo è costituito in modo tale da poter realizzare la propria felici-
tà solo nella polis. Per questo, come si è già detto poc’anzi, secondo Ari-
stotele, il bene è oggetto della politica e l’etica, cioè la dottrina del bene
individuale, non è che una parte della politica.
Il punto di partenza della ricerca aristotelica della felicità è lo stesso
di Platone, cioè la ricerca della funzione propria (ergon) dell’uomo. Non
è, infatti, possibile definire che cos’è la felicità se non si coglierà qual è
l’agire tipico (ergon) dell’uomo. Infatti, come per un flautista, per uno
scultore, per ogni artigiano, e in generale per coloro che hanno un pro-
prio operare ed agire, il bene e il successo sembrano consistere
nell’opera stessa, così si può credere che ciò valga anche per l’uomo, se è
vero che anche l’uomo ha un qualche operare suo proprio.
Ma è dunque possibile che vi siano opere e attività proprie di un fa-
legname e di un calzolaio, e dell’uomo non ve ne sia nessuna, ed egli sia
inattivo per natura? O, proprio come appare evidente che dell’occhio,
della mano, del piede e’ più in generale, di ciascuna delle parti del corpo
vi è evidentemente un operare tipico, così anche per l’uomo si può porre
una qualche opera propria, al di là di tutte quelle particolari?
La nozione di «agire tipico», «operare proprio», «opera», equivale a
quella di «funzione» in Platone, ossia indica ciò che l’uomo soltanto, o
l’uomo meglio di qualunque altro ente, riesce a fare. L’agire tipico
dell’uomo non sarà né il semplice vivere, perché questo è comune anche
alle piante, né una vita fatta di sensazioni, perché questa è comune an-
143
che al cavallo, al bue e a tutti gli animali, ma riguarderà l’uso della ragio-
ne, o dell’anima razionale.
Il bene inoltre non consiste solo nello svolgere la propria funzione,
ma nello svolgerla bene, cioè in modo eccellente; per esempio è proprio
del citarista suonare la cetra e del citarista eccellente suonarla bene. O-
ra, poiché l’eccellenza, come abbiamo già visto, non è altro che la virtù
(areté), Aristotele definisce la felicità come «attività dell’anima secondo
virtù». Tale virtù dovrà essere esercitata per l’intera vita, non solo in al-
cuni momenti di essa: «come una rondine non fa primavera, né la fa un
solo giorno di sole, così un solo giorno, o un breve spazio di tempo, non
fanno felice e beato nessuno»
Apparentemente siamo di fronte alla stessa definizione di Platone,
ma in realtà Aristotele non contrappone l’anima razionale né alle altre
parti dell’anima (vegetativa e sensitiva), che sono in essa comprese, né
al corpo, di cui l’anima è «atto primo», cioè capacità di svolgere le fun-
zioni che gli appartengono. Un primo segno del carattere inclusivo che la
felicità possiede per Aristotele è l’accenno alla durata della vita. La felici-
tà è una caratteristica della vita umana, cioè della vita vissuta in questo
mondo, con anima e corpo, e della vita intera, cioè non solo di una fase di
essa. Un altro segno dello stesso carattere è l’affermazione che Aristote-
le fa subito dopo, cioè che per la felicità sono necessari anche i beni e-
sterni (una certa ricchezza, una buona famiglia, degli amici) e i beni del
corpo (salute, un aspetto gradevole), anche se quelli dell’anima (le virtù)
sono i più importanti.
Appare evidente - egli scrive - che la felicità ha bisogno dei beni e-
steriori, come abbiamo già detto: è impossibile, o non facile, compiere
azioni belle se si è sprovvisti di risorse. Infatti si compiono molte azioni
per mezzo di amici, denaro o potere politico, usandoli come strumenti; e
se siamo privati di certe cose, come buona nascita, buona discendenza,
bellezza, la nostra beatitudine ne risulta intaccata. Perciò è lontano
dall’essere felice chi è del tutto sgradevole a vedersi o di bassa stirpe o
solitario e senza figli, o, ancor meno, se gli capitano figli o amici degene-
ri, o se ne ha di buoni, ma muoiono. Come abbiamo detto prima, sembre-
rebbe che la felicità abbia bisogno anche di una simile prosperità ester-
na.
144
A partire da ciò, alcuni fanno una cosa sola della felicità e della buo-
na fortuna, proprio come altri la identificano con la virtù.
Si tratta di osservazioni condivisibili ancora oggi, con l’eccezione
forse della buona nascita, poiché non viviamo più in una società schiavi-
stica, in cui chi nasceva schiavo non poteva certamente essere felice.
Dalle parole citate, inoltre, si può desumere quanto Aristotele tenesse
conto della sorte, cioè della fortuna, come accadeva nella concezione
della vita espressa dai grandi poeti, epici e tragici. Non è un caso che, a
questo proposito, egli ricordi il destino occorso a Priamo: è possibile che
la persona più prospera cada in terribili sventure durante la vecchiaia,
come si narra a proposito di Priamo nei poemi eroici; nessuno direbbe
felice chi ha sopportato tali sventure ed è morto in modo così miserabi-
le.
Priamo, uno dei re più potenti della terra, che perciò si poteva pre-
sumere felice, ebbe distrutta la famiglia e la città, perciò divenne il sim-
bolo della precarietà, della fragilità, della sventura. Sull’importanza della
fortuna per la felicità Aristotele insiste per un intero capitolo, anche se
non manca di osservare che «l’uomo veramente buono e saggio saprà
sopportare in modo decoroso tutti gli eventi della sorte», ed alla fine
conclude che è felice «colui che agisce secondo virtù completa ed è
provvisto a sufficienza di beni esterni, non in qualsiasi periodo di tempo,
ma in una vita completa».
Dopo avere individuato nella virtù la componente principale, anche
se non completamente sufficiente, della felicità, Aristotele dedica il resto
dell’Etica Nicomachea all’illustrazione delle virtù. Queste, infatti, intese
come capacità di svolgere secondo ragione funzioni proprie dell’anima
umana, risultano essere molte, perché l’anima umana è una realtà com-
plessa. Una parte di essa, quella vegetativa, è del tutto priva di ragione,
quindi non ha propriamente alcuna virtù; una seconda invece, pur non
essendo essa stessa la ragione, partecipa della ragione, nel senso che è
capace di obbedirle, perciò è capace di virtù.
Questa componente dell’anima corrisponde all’«impeto» (thumos)
di cui aveva parlato Platone e che Aristotele preferisce chiamare «de-
siderio» (orexis). La terza parte dell’anima è la ragione vera e propria
(dianoia), dotata anch’essa di alcune virtù, cioè delle capacità di svolgere
bene le proprie funzioni. Le virtù del desiderio sono chiamate «virtù eti-
145
che», perché una volta acquisite formano il carattere del singolo indivi-
duo e i costumi della comunità: entrambi questi termini, «carattere» e
«costume», in greco si chiamano ethos, da cui deriva «etica». Poiché in
latino i costumi sono detti mores, si può parlare a questo proposito di
virtù «morali», le quali corrispondono alla nozione moderna di virtù. In-
vece le virtù della ragione sono dette «virtù dianoetiche», o «intellettua-
li», e sono una nozione tipica della filosofia antica, che non ha riscontro
nella modernità.
Le virtù in generale, secondo Aristotele, si acquisiscono per mezzo
dell’abitudine - che in greco ha un nome simile a quello del carattere,
cioè ethos-, vale a dire compiendo più volte azioni buone. Allo stesso
modo, gli opposti delle virtù, cioè i vizi, si acquisiscono compiendo più
volte azioni cattive. Perciò, secondo Aristotele, le leggi rendono virtuosi i
cittadini facendo contrarre loro buone abitudini: di qui l’importanza del-
la politica per l’etica. Sia le virtù che i vizi sono «stati abituali dell’anima,
o anche «abiti» (hexeis). Questo è il genere della virtù, ossia ciò che la
accomuna ad ogni altra abitudine. La sua differenza specifica, che insie-
me col genere costituisce per Aristotele la definizione della virtù, è inve-
ce la seguente:
Ogni virtù ha l’effetto di portare alla buona realizzazione ciò di cui è
virtù, e di far si che eserciti bene la sua opera, come per esempio la virtù
dell’occhio rende eccellente l’occhio, e anche la sua opera, dato che ve-
diamo bene perla virtù dell’occhio. Allo stesso modo la virtù del cavallo
rende eccellente un cavallo e buono per correre, per portare il cavaliere
o per star fermo di fronte al nemico. Se quindi per tutte le virtù le cose
stanno così, anche la virtù dell’uomo verrà a essere lo stato abituale per
cui un uomo è buono e compie bene la sua opera.
Come si vede, anche per Aristotele, come per Platone e per i Greci in
generale, virtù significa eccellenza in generale e non ha un significato
soltanto morale.
Ciò va tenuto presente, se si vuole capire bene l’identificazione della
felicità con la virtù. Secondo Aristotele, ogni virtù etica è il «giusto mez-
zo» (meson) tra due vizi opposti, cioè l’eccesso e il difetto, così come lo
sono quelle che potremmo chiamare le virtù del corpo, per esempio la
capacità di nutrirsi bene è il giusto mezzo tra il mangiare troppo e il
mangiare troppo poco. La determinazione di questo giusto mezzo, o
146
«medietà» (mesotes), o «moderazione», non è tuttavia meccanica, ma va-
ria da individuo a individuo - come la giusta quantità di cibo varia se-
condo le dimensioni del corpo - perciò deve essere calcolata caso per
caso dalla ragione. La virtù della ragione, cioè la virtù dianoetica, capace
di fare questo, è la saggezza (phronesis). Come esempi di virtù etiche A-
ristotele cita il coraggio, giusto mezzo tra temerarietà e codardia, la
temperanza, giusto mezzo tra intemperanza e insensibilità, la generosi-
tà, giusto mezzo tra prodigalità ed avarizia, la fierezza, la mitezza, la sin-
cerità, ecc. A ciascuna di queste egli dedica poi una trattazione particola-
reggiata, che costituisce uno degli aspetti più interessanti della sua ope-
ra. Ma che cosa sostiene Aristotele a proposito della giustizia, cioè di
quella virtù che per il suo maestro Platone riassumeva tutte le altre? A
questo argomento Aristotele dedica l’intero libro V dell’Etica Nicoma-
chea. In sintonia con Platone, egli dichiara anzitutto che essere giusti si-
gnifica sapersi comportare sempre bene verso gli altri, soprattutto ob-
bedendo alle leggi. In tal senso, la giustizia è la virtù che rende felice la
società politica.
Le leggi - afferma infatti Aristotele - si pronunciano su tutto e ten-
dono all’utile comune, per tutti o per i migliori, o comunque per chi go-
verna secondo virtù o secondo qualche altro criterio consimile, di modo
che, in uno dei sensi del termine, noi diciamo «giusto» ciò che produce e
preserva la felicità, e le parti di essa, nell’interesse della comunità politi-
ca.
Si tratta della stessa concezione della felicità come bene comune, o
collettivo, che Platone espone nella Repubblica.
Presa in un’accezione più particolare, la giustizia è anch’essa una
forma di «medietà» e può applicarsi o alla distribuzione di beni pubblici,
nel qual caso assume la forma di una proporzione (per esempio gli onori
devono essere proporzionali ai meriti), o allo scambio di beni privati, nel
qual caso assume la forma di un’uguaglianza (un bene deve essere
scambiato con un bene di uguale valore, indipendentemente dai meriti
delle persone). La prima forma di giustizia è stata chiamata «distributi-
va» e la seconda «commutativa».
Alle virtù dianoetiche Aristotele dedica il VI libro dell’Etica Nicoma-
chea, dove tra l’altro distingue tra la ragione «teoretica», aver per fine la
pura conoscenza (theòria), detta anche «scientifica», e la ragione «prati-
147
ca», avente per fine l’azione (praxis), detta anche «calcolativa», perché
calcola i mezzi in relazione al fine. Per Aristotele, «teoretico» e «pratico»
sono due aspetti dell’unica ragione parecchi secoli dopo, Kant ripropor-
rà la stessa distinzione, dedicando ad ogni ambito della ragione un’inda-
gine specifica, intitolata rispettivamente Critica della ragione pura e Cri-
tica della ragione pratica. La ragione teoretica possiede, secondo Aristo-
tele, tre «abiti» o stati abituali: la scienza vera e propria (episteme), che è
la capacità di dimostrare a partire da principi, l’intelligenza (nous), che è
la conoscenza stabile dei principi e la «sapienza» (sophia), che è
l’insieme dei due abiti precedenti, cioè la conoscenza dei principi e la
capacità di dimostrare a partire da essi. Come tale, la sapienza è l’abito
più alto della ragione teoretica, cioè la virtù di questa. Invece la ragione
pratica possiede due abiti: l’arte (tekhné), che è la capacità di produrre
oggetti (poiesis) in modo razionale, e la «saggezza» (phronesis), che è la
capacità di compiere buone azioni (praxeis), cioè di deliberare bene qua-
li azioni si devono compiere e quali si devono evitare per conseguire il
bene proprio, o della propria famiglia, o della propria città. La saggezza,
come abbiamo già detto, è anche la capacità di determinare esattamente
qual è il giusto mezzo tra due vizi opposti, e quindi rende possibile le
virtù etiche. Ciononostante, la saggezza, per essere esercitata, richiede il
possesso di certe virtù etiche, quali la temperanza, perché il desiderio
non controllato può offuscare il giudizio.
Poiché per Aristotele il bene dell’uomo consiste non nella produzio-
ne, la quale ha per fine un oggetto diverso, ma nell’azione, la quale ha
per fine la propria perfezione la saggezza è superiore all’arte e costitui-
sce la virtù, cioè l’abito più alto, della ragione pratica.
Tra le due virtù dianoetiche, ossia la sapienza e la saggezza, Aristo-
tele reputa la prima superiore alla seconda per due motivi. Anzitutto, la
saggezza ha per oggetto il bene dell’uomo, ma l’uomo non è la cosa mi-
gliore che esista nell’universo, mentre la sapienza ha per oggetto i prin-
cipi, cioè le cause prime, di tutte le cose, compresi gli astri («le brillanti
luci di cui si compone il cielo»), che per Aristotele sono realtà divine, e
quindi superiori all’uomo58. In secondo luogo la sapienza costituisce il
fine dell’uomo, mentre la saggezza ha per oggetto i mezzi, cioè le azioni,
attraverso cui si consegue tale fine. Sia la saggezza che la sapienza, os-
serva Aristotele, «producono, ma non come medicina produce la salute,
148
bensì nel modo in cui lo fa la salute: così la sapienza produce la felicità;
infatti, essendo parte della virtù intera, rende felici sia con il fatto di es-
sere posseduta, sia con il suo agire. Inoltre l’operare proprio dell’uomo
giunge a compimento secondo saggezza e la virtù morale: infatti la virtù
rende corretto il fine, e la saggezza ciò che porta a esso». La sapienza
dunque è per l’anima l’analogo della salute per il corpo, vale a dire il fine
ultimo, e perciò costituisce la felicità; invece la saggezza è per l’anima
l’analogo della medicina per il corpo, vale a dire ciò che indica i mezzi
per conseguire il fine ultimo. Da questa differenza Aristotele desume che
“la saggezza non ha autorità [letteralmente «non è signora»] sulla sa-
pienza, né sulla parte migliore, proprio come la medicina non ha au-
torità sulla salute, infatti non si serve di essa, ma vede come possa ge-
nerarsi. Quindi dà ordini in vista di essa, non ad essa”.
La sapienza, essendo la virtù della ragione teoretica, è per Aristotele
l’elemento più importante della felicità. Il fine dell’uomo, ovvero la sua
felicità, consiste nello svolgere bene l’attività che lui solo o lui meglio di
chiunque altro è in grado di svo1gere, e questa attività è la conoscenza
dei principi, cioè delle cause prime, di tutte le cose (altrove detta anche
«filosofia prima»). La felicità suprema dell’uomo consiste dunque essen-
zialmente nel fare filosofia, anche se ciò richiede, come abbiamo visto,
tutta una serie di altre virtù, le virtù etiche e la virtù dianoetica della
saggezza, oltre che tutta una serie di condizioni esterne, come quelle di
cui abbiamo parlato (salute, ricchezza, persone amiche, ecc.). Questa
concezione è stata giudicata eccessivamente intellettualistica e proponi-
bile solo ai filosofi, ma non è così.
Il carattere non intellettualistico della felicità è provato anzitutto dal
fatto che essa, oltre a richiedere l’esercizio di tutte le virtù e a presup-
pone delle condizioni esterne, deve includere anche il piacere. Aristotele
infatti si oppone sia a Speusippo, secondo il quale il piacere non è un be-
ne, sia a Eudosso, secondo il quale il piacere è il bene supremo, soste-
nendo che esso è certamente uno dei beni più importanti per l’uomo e
che una vita felice è necessariamente anche piacevole, come sosteneva
Platone nel Filebo. Ma, a differenza di Platone, che concepiva il piacere
come un processo, Aristotele lo concepisce ora come «l’attività dell’abito
naturale», ora come un perfezionamento dell’attività, cioè come «una
perfezione sopraggiungente, quale ad esempio lo splendore nella gio-
149
ventù». Ciò significa che proviamo piacere ogniqualvolta compiamo
un’attività in cui si esprime la nostra natura, anche animale, ma soprat-
tutto umana, e che il piacere è il segno che stiamo compiendo un’attività
naturale, anzi è un perfezionamento di questa. Esistono perciò piaceri
corporei, che vanno gustati con moderazione, e piaceri intellettuali, che
sono superiori ai primi. Ma, poiché la natura umana è complessa, i pia-
ceri corporei e quelli intellettuali nell’uomo devono «stare in equilibrio».
Negli dèi invece, la cui natura è semplice, vi è un solo tipo di piacere,
quello intellettuale, che non implica movimento, ma immobilità.
Un’altra prova del carattere non intellettualistico della felicità è la
trattazione che Aristotele compie dell’amicizia, alla quale dedica due in-
teri libri dell’Etica Nicomachea, l’VIII e il IX, cioè un quinto dell’intera
opera.
A questo proposito bisogna precisare che col termine philia, nor-
malmente tradotto con «amicizia», Aristotele non intendeva soltanto ciò
che noi intendiamo per amicizia, ma qualunque forma di affetto, da quel-
lo dei coniugi a quello degli amanti, da quello tra genitori e figli a quello
tra i veri e propri amici, a quello che deve intercorrere tra i cittadini di
una stessa città (ovvero l’amicizia civica). Secondo Aristotele, inoltre,
l’amicizia è una virtù, cioè una forma di eccellenza, un bene, anche se na-
turalmente l’amicizia fondata sul valore delle persone è superiore a
quella fondata sull’interesse e a quella fondata sul piacere. L’uomo, per
essere felice, deve essere circondato da amici, perché è essenzialmente
un animale politico, cioè non autosufficiente visto che «per natura tende
a vivere in comune», egli è bisognoso di aiuto, di collaborazione e di af-
fetto.
Infine Aristotele osserva che l’amicizia fa parte della felicità. Dato
che l’amico è come un altro se stesso e che la felicità è il fine della vita di
ognuno, essa si realizza più compiutamente grazie alla percezione della
vicinanza dell’amico: «ciò potrà verificarsi per meno della vita in comu-
ne, e della comunità di ragionamento e di pensiero» (koinonein logòn kai
dianoias). Anzi, conclude Aristotele, “ciò per cui [gli uomini] desiderano
vivere è proprio ciò in cui vogliono passare il loro tempo con gli amici;
per questo vi è chi beve insieme, altri giocano a dadi, altri fanno ginna-
stica in comune o vanno a caccia, o fanno insieme filosofia (sumphiloso-
150
phousin), e tutti passano la loro giornata facendo quella cosa che amano
sopra ogni altra, tra tutte quelle che compongono una vita”.
Anche se in questo passo il verbo sumphilosophein, che qui compare
per la prima volta nella letteratura greca, significa svolgere insieme atti-
vità intellettuali che abbiano come fine il conoscere in generale, non c’è
dubbio che la condizione qui descritta da Aristotele si applichi anche alla
filosofia in senso stretto, cioè alla ricerca delle cause prime. Dunque la
felicità consiste nel praticare questa attività non da soli, bensì con gli
amici, cioè con le persone più care.
Nella stessa direzione si muove anche il libro X dell’Etica Nicoma-
chea, interpretato da alcuni come l’espressione estrema
dell’intellettualismo aristotelico. A questo riguardo, la studiosa america-
na Martha Nussbaum ha perfino sostenuto che i capitoli in cui la felicità
è identificata con la vita teoretica sono in contrasto con i libri preceden-
ti, e perciò spurii, o residui di un platonismo giovanile. È vero, infatti,
che in essi Aristotele considera la felicità come un’attività scelta per se
stessa, il più possibile autosufficiente, continua e piacevole, e la identifi-
ca con la vita teoretica, esercitando la quale gli uomini possono rendersi
il più possibile simili agli dèi, cioè immortali67. Ma questa tesi richiede
alcune precisazioni. Anzitutto per «vita teoretica» non si deve intendere
una vita dedita alla pura contemplazione, concetto nato col cristianesi-
mo, in particolare con gli ordini monastici dediti alla vita contemplativa,
perché per Aristotele non c’è un Dio da contemplare, ma ci sono delle
cause prime da ricercare, il termine theoria, spesso tradotto con «con-
templazione», significa ricerca allo scopo di conoscere, o conoscenza fi-
ne a se stessa in tal senso, la vita teoretica è la vita dedita alla ricerca, la
vita che oggi diremmo propria dello scienziato.
In secondo luogo la vita teoretica, pur essendo in sé preferibile a
qualsiasi altra, presuppone che qualcuno si dedichi ad altri tipi di vita, o
che lo stesso individuo che la pratica si dedichi in altri momenti della
sua vita ad altri generi di attività. Ciò risulta chiaro dal confronto tra la
vita teoretica e la vita politica, nella quale si assumono delle cariche
pubbliche e si esercitano tutte le altre virtù. Quest’ultima, secondo Ari-
stotele, comporta una felicità di secondo grado, perché dipende mag-
giormente dagli altri, ha bisogno di più strumenti, non è completamente
fine a se stessa68. Tuttavia, dopo avere ricordato che anche chi si dedica
151
alla vita teoretica ha bisogno dei beni materiali (la salute, il cibo, ecc.),
Aristotele osserva che, per poterla effettivamente esercitare, non basta-
no i discorsi, ma sono necessarie le leggi. Per questo motivo, il compito
della scienza politica, di cui l’Etica Nicomachea ha esposto la prima par-
te, è quello di formare buoni legislatori.
Sulla necessità di una buona legislazione e di buoni sistemi di go-
verno per raggiungere una felicità piena, Aristotele dichiara a conduzio-
ne dell’opera: “dato che i nostri predecessori hanno tralasciato di esa-
minare il campo della legislazione, forse è meglio esaminarlo in detta-
glio, e quindi trattare della costituzione in generale, in modo che sia por-
tata a compimento, per quanto possiamo, la filosofia dell’uomo. Per pri-
ma cosa ci sforzeremo di esaminare quello che è stato detto bene, nei
particolari, dai nostri predecessori, poi, partendo dalla raccolta delle co-
stituzioni, vedremo quali cose salvano le città, e i vari tipi di costituzioni,
quali le distruggono, e per quali ragioni alcune città sono governate be-
ne e altre tutto il contrario. Dopo aver esaminato questo, forse potremo
comprendere meglio qual è la costituzione migliore, come ogni costitu-
zione è strutturata e di quali leggi e costumi si serve”.
In queste parole è contenuta l’intera struttura della Politica, cioè
dell’altra opera di Aristotele in cui viene esposta, e completata, la filoso-
fia pratica (o scienza politica), il cui oggetto è il bene supremo
dell’uomo, cioè la felicità. La concezione aristotelica della felicità, in-
somma, non va ricercata solo nell’Etica Nicomachea, ma nel complesso
Etica-Politica, dove appunto la Politica dissipa completamente la falsa
impressione di intellettualismo che un’errata lettura dell’Etica può su-
scitare.
Nell’Etica Nicomachea Aristotele - lungi dal considerare la felicità
come soddisfazione dei desideri, o delle preferenze, o delle libere deci-
sioni degli individui di progettare la propria vita - la identifica nella rea-
lizzazione delle capacità proprie dell’uomo, indicando quali sono queste
capacità, e quindi presupponendo un’antropologia. In tal modo lo Stagi-
rita mostra di interessarsi non solo del «giusto», cioè dei modi in cui as-
sicurare a tutti la libertà di scegliere un bene qualsiasi, ma anche del
«bene», cioè di ciò in cui veramente l’uomo realizza se stesso e quanto vi
è in lui di migliore. Il fatto che Aristotele affidi alle leggi il compito di
formare i cittadini alla virtù, e quindi alla felicità, non significa che egli
152
voglia imporre a tutti un particolare tipo di felicità, ad esempio la vita
teoretica, ma che le leggi devono creare per tutti le condizioni in cui po-
ter liberamente realizzare se stessi.
Presentando la felicità in termini di fine ultimo, di piacere e di be-
nessere, anziché di dovere e di obbligo morale, Aristotele garantisce ad
ognuno la libertà di sceglierla o non sceglierla, fornendo tuttavia almeno
una motivazione per sceglierla, una motivazione forte anche dal punto
di vista psicologico.
Abbiamo visto che l’uomo, per Aristotele è «per natura un animale
politico», non nel senso che nasca necessariamente nella città (polis), ma
nel senso che può realizzare completamente la propria umanità solo nel-
la città. Per «natura» infatti egli non intende la condizione primitiva, an-
tecedente alla nascita dello Stato, come i maggiori filosofi moderni
(Hobbes, Locke, Rousseau), ma il pieno compimento, cioè il fine
dell’uomo. Ovviamente l’uomo, prima di appartenere alla città, appar-
tiene alla famiglia, che per Aristotele è la prima società naturale, formata
da due tipi di relazione, l’unione tra l’uomo e la donna in vista della pro-
creazione, e l’unione del padrone e dello schiavo in vista della sopravvi-
venza. Per questa sua composizione la famiglia ha come fine la soddisfa-
zione dei bisogni quotidiani (alimentazione, abitazione), cioè semplice-
mente il «vivere». Lo stesso vale per il villaggio, che è l’unione di più fa-
miglie avente come fine la soddisfazione dei bisogni non quotidiani
(commercio, difesa).
La città invece è l’insieme di più villaggi, e quindi di più famiglie, che
si riuniscono sino a raggiungere l’autosufficienza; perciò essa è la socie-
tà perfetta, la più importante di tutte e quella che tutte le comprende. A
differenza della famiglia e del villaggio, la città non ha per fine soltanto il
vivere, bensì anche il «vivere bene» (eu zen), cioè la felicità. Per questo
l’uomo realizza la sua natura solo nella città, e fuori della città possono
vivere solo le bestie, che non hanno felicità, e gli dèi, che sono già felici.
È chiaro perciò - scrive Aristotele - che la città non è comunanza di
luogo né esiste per evitare aggressioni e in vista di scambi: tutto questo
necessariamente c’è, se dev’esserci una città, però non basta perché ci
sia una città: la città è comunanza di famiglie e di stirpi nel viver bene: il
suo oggetto è una esistenza pienamente realizzata e indipendente [...].
153
Dunque, fine della città è il vivere bene e tutte queste cose sono in
vista del fine. La città è comunanza di stirpi e di villaggi in una vita pie-
namente realizzata e indipendente: è questo, come diciamo, il vivere in
modo felice e bello. E proprio in grazie delle opere belle e non della vita
assodata si deve ammettere l’esistenza della comunità politica».
Dal punto di vista del valore, la città precede la famiglia, e il bene
della città è superiore al bene della famiglia, perché il tutto è superiore
alla parte. Invece dal punto di vista della genesi la famiglia precede la
città e, per il modo in cui era organizzata nella società greca antica,
comporta tutta una serie di discriminazioni tra gli esseri umani. La pri-
ma e la più grave discriminazione è quella tra padrone e schiavo. Come
si è già accennato, la famiglia ha per fine la sopravvivenza, nel senso che
lo schiavo, per sopravvivere, ha bisogno del padrone, che gli dica che co-
sa deve fare, e il padrone ha bisogno dello schiavo, che faccia quello che
il padrone gli comanda. Aristotele cerca di giustificare questa discrimi-
nazione, affermando che alcuni uomini non sanno governarsi da sé e
quindi sono per natura schiavi. Questa affermazione è chiaramente in
contrasto con la sua antropologia, secondo cui tutti gli esseri umani ap-
partengono alla medesima specie e tra gli individui della stessa specie
non possono esservi differenze di natura. Tutti gli uomini, infatti, desi-
derano conoscere, come è detto all’inizio della Metafisica, e tutti gli uo-
mini sono animali politici, fatti per vivere nella città e quindi per go-
vernarsi da sé. Per questo motivo l’esistenza della schiavitù pone ad Ari-
stotele un problema; per tutti i filosofi precedenti, invece, essa rappre-
sentava un dato di fatto, che non richiedeva nemmeno di essere messo
in discussione.
D’altra parte la schiavitù era un’istituzione necessaria in tutte le so-
cietà pre-capitalistiche, quali erano le società antiche, come ha visto be-
ne Marx, perché il modo di produzione ad esse strutturale non era la
produzione industriale, che si serve delle macchine, ma la sola manodo-
pera. Di questo si rese conto lo stesso Aristotele, il quale definì gli schia-
vi «strumenti animati», indispensabili per provvedere alle cose necessa-
rie (ta anankaia);
di essi non vi sarebbe bisogno se gli strumenti inanimati riuscissero
a compiere la propria funzione da soli, per esempio «se le spole tesses-
sero da sé». Si tratta evidentemente di un’ipotesi irreale per quell’epoca,
154
che tuttavia rivela come Aristotele fosse consapevole della funzione di
sostituto delle macchine svolta dagli schiavi. Anziché scandalizzarci,
dunque, della parziale e contraddittoria giustificazione della schiavitù
tentata da Aristotele, dovremmo ricordarci che essa è sopravvissuta in
tutti gli Stati moderni sino alla rivoluzione industriale e che negli Stati
Uniti d’America, uno degli Stati più sviluppati del mondo, essa è stata
abolita solo alla fine dell’Ottocento al prezzo di una sanguinosa guerra
civile.
Per Aristotele, gli schiavi non possono essere felici, perché hanno sì
la ragione - altrimenti non sarebbero uomini - ma solo in quanto sono in
grado di comprendere gli ordini e di obbedire ad essi: per questo moti-
vo, le sole virtù che essi possono praticare sono le virtù etiche, non le
virtù dianoetiche, nelle quali soprattutto consiste la felicità. Nella stessa
condizione degli. schiavi, del resto, si trovano gli artigiani e gli operai,
non perché non sappiano comandare, ma perché non hanno, a causa del
lavoro a cui sono costretti, il tempo di coltivare le virtù dianoetiche. Una
buona parte degli abitanti della città viene in tal modo esclusa dalla feli-
cità, non per decisione di qualcuno, ma per necessità oggettiva.
Nella famiglia, oltre al padrone e agli schiavi, ci sono il marito, che
coincide col padrone, la moglie e i figli. La posizione di questi, pur non
essendo pari a quella del marito e padre, è tuttavia diversa da quella de-
gli schiavi. La moglie e i figli, infatti, sono liberi -in latino «figli» si dice
appunto liberi, - ma non sono adatti ad esercitare il comando, la moglie
per natura e i figli per età: entrambi, quindi, devono sottostare
all’autorità del marito-padre. Anche questo è un carattere della famiglia
dovuto alla struttura della società antica, la quale era notoriamente ma-
schilista. Aristotele tuttavia cerca di attenuarlo, osservando che
l’autorità del marito sulla moglie anzitutto ammette eccezioni, perché in
alcune famiglie la moglie è più adatta a comandare del marito.
In secondo luogo, quella del marito è un’autorità di tipo «politico»,
esercitata tra liberi ed uguali, anzi addirittura di tipo «aristocratico»,
perché ammette una distribuzione di compiti. L’autorità del padre sui
figli invece è di tipo «regale», cioè simile a quella del re sui suoi sudditi:
essa si esercita su disuguali, avendo come fine non il vantaggio del re,
bensì il bene dei sudditi. L’autorità paterna del resto è destinata ad e-
saurirsi quando i figli raggiungono la maggiore età. Si deve pensare
155
dunque che le mogli e i figli possano sviluppare tutte le virtù e quindi
realizzare la felicità.
La condizione necessaria affinché tutti i cittadini sviluppino le virtù
e quindi raggiungano la felicità è l’educazione (paideia), la quale dipende
dalle leggi, cioè dalla costituzione (politeia). Dopo avere definito in ge-
nerale la città e la famiglia, Aristotele intraprende nella Politica l’analisi
delle costituzioni, discutendo tra l’altro quella proposta da Platone nella
Repubblica. Di questa egli critica soprattutto l’abolizione della famiglia e
della proprietà privata per la categoria dei «custodi», osservando che es-
sa:1) trasforma la città in un’unica famiglia, confondendo in tal modo i
ruoli dei due tipi di società, che sono diversi;2) fa sì che nessuno si curi
più dei figli e dei beni, perché ciò che appartiene a tutti non è riconosciu-
to come proprio da nessuno; 3) rende infelici coloro che vi sono coinvol-
ti, cioè i custodi.
Inoltre - afferma Aristotele riferendosi a Platone - pur togliendola
felicità ai custodi, sostiene che il legislatore deve rendere felice la città
tutta quanta: ma è impossibile che sia felice il tutto se tutte le sue parti o
moltissime o alcune, almeno, non hanno felicità. La felicità, invero, non è
dello stesso ordine del numero pari: l’essere pari può essere propietà
del totale, senza esserlo di alcuna delle sue parti; per la felicità ciò è im-
possibile. Pertanto, se i custodi non sono felici, chi altro lo sarà? Non cer-
to gli operai, né la massa dei lavoratori meccanici .
Questo passo dimostra che per Aristotele la città è felice solo se lo
sono i cittadini, e quindi che il bene della città, pur essendo superiore al
bene dell’individuo, deve essere inteso non in senso collettivo, ma in
senso distributivo, cioè consiste nel creare le condizioni in cui ciascuno
possa realizzare il proprio bene individuale.
Non è questo il luogo per esporre l’intera teoria aristotelica delle
costituzioni: basti ricordare che Aristotele riprende la classificazione
tradizionale di monarchia, oligarchia e democrazia, distinguendo per
ciascun tipo di costituzione una forma buona, in cui chi governa mira al
bene dei governati, e una forma degenere, in cui chi governa mira solo al
proprio interesse. Egli poi sostiene che tra le costituzioni buone, cioè re-
gno, aristocrazia e politia, non ce n’è una migliore in senso assoluto, ma
ciascuna può essere più adatta delle altre alla situazione particolare in
cui si applica. Poiché le costituzioni più diffuse sono l’oligarchia (gover-
156
no dei ricchi) e la democrazia (governo dei poveri), il «giusto mezzo» tra
queste due, cioè la «costituzione media», sarà la migliore in base ad essa,
la maggior parte della popolazione è costituita da cittadini né troppo
ricchi né troppo poveri, ma «liberi ed uguali»50. Aristotele tuttavia non è
interessato, come i filosofi politici moderni, solo al tipo di governo in cui
una costituzione si attua, ma anche al tipo di vita che una costituzione
può garantire: gli ultimi due libri della Politica sono dedicati alla tratta-
zione della costituzione migliore sotto questo profilo.
Dopo avere ricordato che la felicità comprende dei beni esterni, dei
beni del corpo e dei beni dell’anima, ma consiste soprattutto in questi
ultimi, cioè nelle virtù, Aristotele osserva che i primi due tipi di beni di-
pendono dalla fortuna e gli ultimi dall’uomo stesso.
Si ammetta dunque di comune accordo che a ognuno tocca tanta fe-
licità quanta virtù: ed appelliamo alla testimonianza del dio, il quale è
felice e beato, ma non per qualche bene esterno, bensì per se stesso e
per avere una determinata natura; ed è per questo che necessariamente
la buona fortuna è diversa dalla felicità (ché dei beni esterni all’anima
causa è il caso e la fortuna, mentre nessuno è giusto o temperante per
caso o in forza del caso).
La città deve prendersi cura sia dei beni esterni e del corpo, attra-
verso quella che oggi chiameremmo la politica economica e sanitaria, sia
dei beni dell’anima, cioè delle virtù dei cittadini, attraverso l’educazione.
A questo punto Aristotele si chiede se è preferibile la vita che com-
porta la partecipazione attiva alla città e alle cariche pubbliche o piutto-
sto quella che si estrania e si ritira da tale partecipazione attiva, «come
ad esempio una qualche forma di vita teoretica, che alcuni dicono essere
l’unica propria del filosofo». Poiché nel seguito egli critica quest’ultima
concezione, essa non può venire identificata con quella esposta da lui
stesso nel libro X dell’Etica Nicomachea; alcuni studiosi la attribuiscono,
infatti, ad Aristippo. Da ciò consegue che la vita teoretica proposta da
Aristotele non esclude la partecipazione alla vita politica. Alla posizione
presumibilmente sostenuta da Aristippo egli obietta che “esaltare
l’inazione più che l’azione non risponde a verità, perché la felicità è atti-
vità e le azioni degli uomini giusti e temperanti riescono a molti e nobili
risultati”.
157
Ma nemmeno la posizione opposta soddisfa completamente Aristo-
tele, specialmente quando viene intesa come desiderio di dominare sugli
altri, come poteva sembrare, ad esempio, nel caso di Callide nel Gorgia o
di Trasimaco nella Repubblica. Facendo eco alla critica platonica della
tirannide, contenuta in quest’ultima, Aristotele afferma che il dominio
sugli altri come tale non produce nessuna felicità, altrimenti gli usurpa-
tori e i violenti sarebbero gli uomini più felici di tutti. Inoltre, «la vita
dell’uomo libero è superiore a quella del padrone, perché non c’è niente
di elevato nell’usare uno schiavo in quanto schiavo, e dare ordini riguar-
danti le cose necessarie alla vita non ha niente di bello».
È giusto quindi che tutti i cittadini governino, ma poiché non posso-
no governare tutti insieme, è giusto che governino a turno.
Uomini uguali devono avere a turno quel che è nobile e giusto, per-
ché questo risponde a un criterio di parità e di uguaglianza, mentre è
contro natura che uomini pari abbiano ciò che non è pari e uomini ugua-
li quel che non è uguale; e niente di quel che è contro natura è bello.
Perciò è buona la vita attiva, in cui tutti a turno partecipano al go-
verno, ma non è detto che essa sia la vita migliore in assoluto.
È vero, infatti, che la felicità sta nell’azione piuttosto che nel non fa-
re nulla, tuttavia la vita attiva non è necessario che sia tale in rapporto
agli altri, come pensano alcuni, né solo pratici sono quei pensieri che
dall’agire sono realizzati in vista di risultati concreti, ma piuttosto quei
ragionamenti e quei pensieri (theorias kai dianoeseis) che hanno in se
stessi il fine e sono realizzati per se stessi: in realtà lo «star bene» è fine
e perciò una certa forma di azione. Soprattutto poi diciamo che agiscono
in senso proprio, anche nel caso di azioni esterne, quelli che dirigono
l’azione coi pensieri.
Dunque Aristotele riconferma la tesi dell’Etica Nicomachea, secondo
la quale la vita migliore in assoluto è la vita teoretica, cioè quella che
persegue la conoscenza fine a se stessa e che consiste nell’esercizio della
virtù dianoetica più alta, la sapienza. Egli anzi la presenta come la forma
suprema di azione, anche se non è rivolta verso gli altri, e porta come
esempio di questa vita quella «del dio e dell’universo, che non hanno at-
tività esterne oltre a quelle che sono loro proprie». Ma accanto alla vita
teoretica, anzi in alternanza con essa, egli raccomanda la partecipazione
attiva al governo della città: la vita politica, infatti, essendo «direzione
158
dell’azione coi pensieri», comporta l’esercizio della seconda virtù diano-
etica, cioè della saggezza.
Non si deve credere, tuttavia, che la vita teoretica sia riservata sol-
tanto ai filosofi. In qualche misura essa deve essere accessibile a tutti,
perché la città felice è quella che assicura la felicità a tutti i cittadini. Ari-
stotele infatti afferma:
Ma poiché ci troviamo a studiare la costituzione migliore, quella,
cioè, sotto la quale la città è massimamente felice, e s’è già detto che non
può esserci felicità senza virtù, è chiaro di conseguenza che nella città
retta nel modo migliore e formata da uomini giusti assolutamente e non
sotto un certo rapporto i cittadini non devono vivere la vita del meccani-
co o del mercante (un tal genere di vita è ignobile e contrario a virtù) e
neppure essere contadini quelli che vogliono diventare cittadini in realtà
c’è bisogno di ozio (skholé) e per far sviluppare la virtù e per le attività
politiche.
L’ozio, inteso positivamente come libertà dal bisogno e buon uso del
tempo libero, è necessario anzitutto per svolgere le attività politiche,
cioè il servizio militare e il governo della città, che Aristotele assegna ri-
spettivamente ai giovani e agli anziani ma esso deve essere impiegato
anche per svolgere attività di tipo teoretico, cioè fini a se stesse.
La decisione in favore della felicità, cioè l’acquisizione delle virtù,
spetta ai singoli ed alla città. E poiché le virtù dipendono - oltre che dalla
natura, cioè dall’indole, e dalla ragione, cioè dalla libera scelta- anche
dall’abitudine, sarà compito della città che vuole essere felice creare le
abitudini virtuose mediante l’educazione. A questo punto Aristotele ri-
chiama la distinzione tra le parti dell’anima e della ragione stabilita
nell’Etica Nicomachea, dichiarando che la ragione è superiore alla parte
priva di ragione e la ragione teoretica è superiore a quella pratica. Per
questo motivo, le attività della parte superiore devono essere preferibili
per quanti sono in grado di raggiungere o tutte le attività dell’anima o
due: in effetti, la cosa sopra tutte preferibile per ciascuno è sempre ciò
che rappresenta il termine più alto da raggiungersi.
Ciò significa che chi può deve cercare di realizzare tutte le virtù, sia
quelle etiche sia le dianoetiche, ossia la sapienza e la saggezza. Chi inve-
ce non può realizzarle tutte deve realizzare almeno le due che vengono
159
subito dopo la sapienza, ossia le virtù etiche e la saggezza. Di ciò deve
tenere conto il legislatore nel programmare l’educazione alla virtù.
L’intera concezione aristotelica della felicità, sia dell’individuo che
della città, si riassume pertanto in queste parole.
Ora la vita tutta si divide in lavoro (askholia) e ozio (skhole), in
guerra e pace, e delle azioni alcune sono necessarie e utili, altre belle. A
loro riguardo si deve fare la stessa distinzione che s’è fatta per le parti
dell’anima e per le loro attività: la guerra dev’essere inviata della pace, il
lavoro in vista dell’ozio, le cose necessarie e utili vista di quelle belle.
L’uomo politico deve legiferare guardando a tutto questo, sia per
quanto riguarda le parti dell’anima che le loro azioni, e specialmente ai
beni più grandi e ai fini. Nello stesso modo agirà riguardo ai modi di vita
e alla scelta della condotta: bisogna sì lavorare e combattere, ma molto
più starsene in pace e in ozio, e così fare le cose necessarie e utili, ma
molto più quelle belle. Di conseguenza, guardando a questi scopi, si de-
vono educare gli uomini e quando sono ancora ragazzi e poi nelle altre
età, quante han bisogno di educazione.
Tutti devono svolgere le attività necessarie, come il lavoro e la guer-
ra, tua con l’obiettivo di passare in seguito alle attività belle, cioè fini a se
stesse, quali l’ozio e la pace; dal canto suo, il legislatore deve mirare, per
mezzo dell’educazione, a realizzare le condizioni in cui tutti quelli che lo
vogliono possano svolgere entrambi i tipi di attività. Ma l’ozio richiede
molte condizioni.
Infatti - dice Aristotele - ci devono essere molte cose necessarie per-
ché si possa stare in ozio; per questo motivo è bene che la città sia tem-
perante, valorosa e forte, perché, come vuole il proverbio, non c’è ozio
per gli schiavi e quelli che non riescono ad affrontare il pericolo con va-
lore sono schiavi degli aggressori. Ci vuole dunque coraggio e forza per il
lavoro, amore di sapienza (philosophia) per l’ozio, temperanza e giusti-
zia in entrambe le condizioni, soprattutto quando si è in pace e in ozio.
Le virtù etiche, come il coraggio, la temperanza, la giustizia, sono
necessarie per il lavoro, mentre per l’ozio è necessario l’«amore di sa-
pienza». La parola philosophia, impiegata da Aristotele in questo passag-
gio, non deve essere intesa come «filosofia prima», ovvero come ricerca
delle cause prime, praticata soltanto dai filosofi veri e propri, ma indica
160
più in generale l’amore per tutto ciò che si compie nell’ozio, cioè per tut-
te le attività fini a se stesse, di carattere intellettuale.
Ciò è confermato dal libro VIII della Politica, interamente dedicato
all’educazione. Questa deve essere, secondo Aristotele, la prima preoc-
cupazione del legislatore; deve inoltre essere unica e uguale per tutti,
pubblica e non privata. Dunque tutti devono essere messi nelle condi-
zioni di esercitare tutte le virtù e di essere in tal modo felici.
Naturalmente alla base dell’educazione pubblica deve esserci la
ginnastica, che serve a educare il corpo e a sviluppare la virtù del corag-
gio. Poi devono essere impartiti la grammatica e il disegno, che sono utili
alla vita e di vasto impiego. Ma il vertice dell’educazione deve essere co-
stituito, secondo Aristotele, dalla «musica», termine con cui egli indica
tutte le attività a cui presiedono le Muse (canto, danza, musica strumen-
tale, poesia, ecc.). Queste non sono attività utili, ma belle, cioè fini a se
stesse, che vengono praticate non per ricavarne qualcosa d’altro, ma per
il piacere che procurano di per se stesse.
Si potrebbe a ragione supporre - scrive Aristotele - che questa è la
causa per cui gli uomini cercano di procurarsi la felicità mediante tali
piaceri: quanto al darsi alla musica, non si può spiegare solo con questa
ragione, ma anche perché, come pare, è utile al riposo. Nondimeno si po-
trebbe indagare se ciò non sia accidentale, mentre la natura della musica
è più elevata di quanto non lasci supporre l’uso predetto, e si deve quin-
di trarne non soltanto il comune piacere, che tutti sentono (perché la
musica ha in sé un piacere naturale per cui il ricorrere ad essa è gradito
a tutte le età e a tutti i caratteri), ma vedere se per caso il suo influsso
non si eserciti anche sul carattere e sull’anima.
Dunque la musica serve per il riposo, dà la felicità e per di più forma
il carattere. Quest’ultimo effetto corrisponde alla purificazione delle
passioni, prodotta dal piacere che si prova nella musica, anzi addirittura
dall’entusiasmo e dal delirio a cui essa può condurre. Sulla «catarsi» Ari-
stotele ritorna, come abbiamo visto, nella Poetica, dove assegna alla tra-
gedia il compito educativo ed etico di purificare passioni come la pietà e
il terrore, in totale disaccordo con la condanna dell’arte pronunciata da
Platone nella Repubblica, ma in perfetta sintonia con la sua teoria
dell’amore come delirio divino esposta nel Simposio e nel Fedro. Su que-
ste considerazioni si chiude la Politica e con essa la trattazione della teo-
161
ria aristotelica della felicità, che pertanto non può certamente essere
considerata intellettualistica78.
162
Lo Stato e il cittadino nella Politica di Aristotele79
15/1/1991.
163
una prova della loro interpretazione aristotelica, mentre altri, come ad
esempio, Düring, vi vedono un Aristotele che comincia a interpretare
secondo la propria personalità certe posizioni, sia pure usando espres-
sioni platoniche.
Dopo il Politico Aristotele scrisse molte altre opere, i cui titoli sono
indicati dal catalogo di Diogene Laerzio. Fra esse si trovano delle epito-
mi alla Repubblica ed alle Leggi di Platone, e altre opere, di cui abbiamo
però soltanto frammenti, che, in qualche modo, sono stati rifusi nella Po-
litica.
164
e al dominio perverso dei molti, che è la democrazia. Il gruppo di libri
dal IV al VI continua l'esame delle costituzioni, ma va detto che alla sua
base non si trova più il primo schema di classificazione, ma un altro,
fondato sulle due costituzioni fondamentali, che per Aristotele sono la
democrazia e l'oligarchia.
Si è molto discusso su questa diversità degli schemi classificatori, e i
pareri degli studiosi sono molto diversi. Molto probabilmente il gruppo
dei libri IV-VI risponde a esigenze diverse, per cui ha Aristotele sfruttato
un raggruppamento diverso. I libri VII e VIII parlano della politeìa, della
polis ideale. L'ottavo, abbiamo detto, non è concluso.
Riassumendo, l'opera può essere divisa in cinque blocchi; il primo,
concerne l'economia; il secondo ha carattere storico, ed è dedicato alla
critica delle costituzioni vigenti o di quelle ipotizzate dai filosofi; il terzo
libro si avvicina al tema, e affronta vari problemi più propriamente poli-
tici; segue il gruppo di libri IV-VI, in cui vengono commentate le varie
costituzioni; si termina con il gruppo VII-VIII, che tratteggia la politeìa
ideale.
Se pensiamo al concetto di unità di un'opera letteraria degli antichi,
è chiaro che possiamo dire tranquillamente che la Politica presenta un
ordine e un'unità. Il primo libro parla della casa: più case formano il vil-
laggio, e più villaggi formano la polis. Quindi, anche se Aristotele aveva
già inserito parte di questo materiale in altri libri, resta vero che il libro I
rappresenta un avvicinamento, per così dire strutturale, all'argomento, e
rientra nella Politica.
Il libro II si avvicina al tema da un punto di vista storico e quindi re-
censisce, abbiamo detto, le varie costituzioni. Il libro III comincia a
prendere in esame due costituzioni, e continua nel quarto blocco, costi-
tuito dai libri IV-VI. La Politica termina infine con l'ultimo blocco, che
parla della politeìa ideale. Quest'ordine è stato accettato o respinto, e
due insigni studiosi, il von Armin e lo Jaeger, lo hanno intesto diversa-
mente. Infatti, in alcune edizioni dell'inizio del secolo si aveva la succes-
sione di libri I-II-III-VII-VIII-IV-V-VI, perché si credeva che questo fosse
l'ordine più logico. In realtà, se studiamo più a fondo tutto lo svolgimen-
to, e teniamo soprattutto presente che la Politica è una serie di lezioni,
vediamo che l'ordine tràdito è in realtà il migliore, e possiamo dire che
gli studiosi recenti sono del tutto concordi su questo.
165
Il libro termina con la trattazione della polis ideale, e, anche qui, oc-
corre capire che questa polis non è un qualcosa di ideale nel senso di
non esistere nella realtà. Il fatto che la polis sia collocata nell'ultima par-
te dell'opera significa che Aristotele fa tesoro di tutto quello che ha det-
to, e quindi costruisce una politeìa che considera quanto di meglio le co-
stituzioni vigenti o ideate da filosofi potessero offrire. Non solo: bisogna
fare anche una considerazione filologica. Aristotele parla spesso, soprat-
tutto nel libro VII, della politéia kat'euchèn. Lo studio della parola euché
è illuminante. Euché significa "preghiera": Aristotele ha scritto un Perì
euchés, cioè un De oratione, ma il termine è usato nel senso di voto idea-
le, desiderio, solo nel libro VII. Dunque il libro VII vuole creare la polis
adatta a quel determinato tipo di cittadino che egli idealizza. Per offrire
un esempio, dal punto di vista urbanistico, Aristotele consacra nella sua
polis una piazza ai liberi, dove questi cittadini possono raccogliersi, par-
lare, discutere. Dal punto di vista politico si ha la famosa rotazione delle
cariche.
Credo che la rotazione delle cariche - che è stata esaltata da tutti gli
studiosi, da Jaeger a De Sanctis, fino ai più recenti, come una forma di
partecipazione del cittadino alla polis, allo Stato - fosse l'unico modo che
Aristotele potesse escogitare per permettere ai suoi veri cittadini di par-
tecipare al governo dello stato. Aristotele si rifaceva in qualche modo
alla costituzione di Atene, che, come sappiamo, permetteva ai suoi citta-
dini, ovvero a coloro che venivano riconosciuti come tali, di partecipare
al governo, e di essere perlomeno per un giorno o per più giorni il capo
dello stato.
166
Dunque questo primo gruppo, questo primo raggruppamento è fon-
dato sul numero-qualità, e distingue monarchia, aristocrazia, e politeìa,
accanto alle loro forme degenerate: tirannide, oligarchia, e democrazia.
La discriminante fra le forme normali e quelle degradate delle costitu-
zioni consiste nel fatto che nella prima domina la virtù. Dunque, seguen-
do una ispirazione socratico-platonica, questi fanno il bene di chi è go-
vernato. Quando il rapporto si rovescia, e il governante fa il proprio be-
ne, si avranno le tre forme corrotte: nella tirannide, il monarca persegue
il suo bene e non pensa più ai sudditi. I pochi, gli aristoi, i migliori, cer-
cano di fare il proprio utile, e si ha così l'oligarchia. In terzo luogo, la po-
liteìa diventa democrazia perché i molti, invece di fare il bene di tutti,
fanno il proprio.
Questo è lo schema che domina nel libro III. Nei libri IV-VI troviamo
un altro schema, fondato sulle due forme della democrazia e dell'oligar-
chia, che compaiano come forme deviate nel primo schema. Perché Ari-
stotele ricorre a questo nuovo criterio? Uno dei motivi può essere il fatto
che egli si rese conto che un governo in cui la virtù domini sovrana è e-
stremamente difficile da realizzare, ed è necessario venire a patti con la
virtù. In base a questo criterio egli si concentra sulla democrazia e sull'o-
ligarchia, che non sono ovviamente forme rette, ma sono in grado di av-
vicinarsi alla forma retta.
Non è strano pertanto che Aristotele, proprio nel libro IV, parlando
della politeìa, la terza forma retta del primo schema, affermi che si tratta
di un misto, derivato da due forme deviate, e cioè dalla democrazia e
dall'oligarchia. In conclusione, nel blocco di libri IV-VI, c'è una visione
più umana, più comprensiva di quello che è l'atteggiamento dell'uomo
verso gli altri. Ci si potrebbe chiedere come, in questi due schemi, le co-
stituzioni si producano, si generino, derivino l'una dall'altra. Era un pro-
blema che anche Platone si era posto, risolvendolo diversamente da Ari-
stotele.
Per Aristotele, ammessa una costituzione ottimale, tutte le altre si
producono da questa in quanto perdono quella virtù essenziale che nella
prima risplende nel modo più vasto; le varie forme, anche storiche, di
costituzione si producono via via allontanandosi dalla prima, che è la
migliore, ed è l'aristocrazia nel senso più alto; seguono la politeìa, la
democrazia, l'oligarchia. In questo Aristotele non faceva altro che colle-
167
garsi alla visione antropologica che i Greci avevano del loro divenire sto-
rico. Basti ricordare Esiodo, il quale parla di una età dell'oro, nella quale
gli uomini vivevano felici, pieni di tutto, non avendo bisogno di niente;
poi l'età dell'oro divenne d'argento, e degenerò lentamente fino all'età
del ferro, in cui il male domina. Proprio perché si rende conto della diffi-
coltà della creazione di una politéia ideale, Aristotele ripiega su quella
costituzione che, potremmo dire, è una costituzione di centro. E qui Ari-
stotele non fa altro che appellarsi a una delle categorie più comuni del
suo filosofare, il famoso tò méson, che domina l'etica e, praticamente,
quasi tutti i campi del suo pensiero.
Il mesótes, è, in sede politica, quella classe di centro che, proprio per
essere di centro, permette la stabilità della costituzione. E Aristotele,
molto acutamente, afferma che è difficile cercare di costruire una poli-
teìa pensando a chi possa essere fabbro, a chi possa essere architetto, a
chi possa ricoprire una delle tante funzioni di cui ha bisogno la polis.
Non è difficile, invece, cogliere quello che nella polis è assolutamente
necessario, e cioè una classe di poveri e una classe di ricchi. Questa se-
condo me è una constatazione fondamentale di Aristotele, alla quale egli
dovette credere con molta forza, perché la si ritrova oltre che in altre
opere, soprattutto nella Costituzione degli Ateniesi.
Anche in Atene c'era una classe di poveri e una classe di ricchi, e A-
ristotele scrive che se i ricchi fossero intelligenti aiuterebbero i poveri,
non certo per spirito altruistico, ma per motivi strettamente economici e
politici, perché una classe media, che è formata quindi di medi ricchi o -
che è lo stesso - di medi poveri, è la classe che garantisce alla costituzio-
ne una vita sicura. Aristotele ritiene dunque indispensabile una divisio-
ne fra poveri e ricchi, ma vuole che non sia esasperata, e vuole che en-
trambe concordino su un piano che è quello del ceto medio, che costitui-
sce la base, il méson, della costituzione. Questo è quanto il legislatore
deve cercare di realizzare.
168
Aristotele, cittadini sono coloro che prestano servizio militare, e, in se-
condo luogo, coloro che possono consigliare e giudicare.
È chiaro che ogni costituzione ha un suo cittadino, ma noi parliamo
del cittadino della repubblica, cioè della costituzione più comune ed ac-
cettabile nel mondo greco: a questo proposito Aristotele afferma con
molta chiarezza che cittadini sono coloro i quali prestano servizio mili-
tare, giudicano e consigliano. È chiaro che in questi tre criteri si riflette
molto di quella che era la costituzione ateniese. Queste tre funzioni sono
anche scandite nel tempo: il servizio militare spetta ai giovani, consiglia-
re e giudicare - quindi consigliare su quello che lo stato deve fare e giu-
dicare in tribunale - spetta agli uomini più anziani. Allora il cittadino ve-
ro, che può assolvere queste tre mansioni e che ha una certa indipen-
denza finanziaria, è colui sul quale si fonda questa politeìa temperata.
Tutti gli altri possono essere cittadini, ma sono cittadini in un altro sen-
so. Aristotele si pone la questione, ad esempio, del bánausos, cioè del
meccanico, del contadino, e di tutti gli altri i quali lavorano con le brac-
cia (Politica, 1277 b 35). A questo proposito egli afferma che la questio-
ne può essere risolta facendo appello a una distinzione molto comune, e
che Platone aveva già usato: quella fra il cittadino vero, che è "parte" del-
lo Stato, e coloro senza i quali la polis non può vivere. Lo Stato, dunque,
è formato dai cittadini veri e dalle parti, chiamiamole così, sine quibus, e
tra queste parti sine quibus possiamo annoverare anche i teti e gli
schiavi. È chiaro che a dominare su tutti è il libero.
Il termine libero, in greco, ha un significato molto preciso e specifi-
co: l'uomo liberale, l'uomo il quale vive dandosi alla speculazione, che
può studiare, che può "perdere il tempo", tra virgolette, per la polis, per
gli amici, per vivere una vita di contemplazione. Questo è, in rapidissima
sintesi, la polis che Aristotele cerca di costruire. È chiaro che la monar-
chia ha una sua costituzione, e l'aristocrazia ne ha un'altra; ma la costi-
tuzione che ad Aristotele preme di imporre è questa costituzione di
mezzo, proprio perché la costituzione di mezzo, ripeto, è quella che dà
più stabilità alla polis.
169
monistica". Che cos'è l'uomo? Questa è una domanda che Aristotele si fa
spesso. Ed egli risolve il problema rifacendosi alla psicologia del tempo:
l'uomo è corpo e anima, ma nel corpo, e soprattutto nell'anima, bisogna
distinguere varie parti.
Si distingue quindi un'anima "vegetativa", che è presente anche nel-
la piante; ma l'uomo non è una pianta, è qualcosa di più, ed il suo fine
non può essere identico a quello delle piante. C'è poi l'anima "sensitiva":
i cani, gli animali in genere, sentono, hanno delle sensazioni, come l'uo-
mo. Ma l'uomo ha qualche cosa di più. C'è poi l'anima "passionale", la se-
de delle passioni, studiate nell'etica: l'uomo ha delle passioni, reagisce
agli eventi, e in rapporto a questa reazione si stabilisce il ruolo della fa-
mosa areté come héxis proairetiké, cioè come "abito adatto alla scelta" e
che consiste nella mesòn. Ma anche l'anima passionale non è la più ele-
vata delle parti - chiamiamole così, con questa parola, sulla quale Aristo-
tele stesso era molto dubbio. Non c'è solo l'anima passionale, ma c'è
qualcosa di più: l'anima "noetica". Se è vero che tutte le altre anime di
cui si è parlato - l'anima vegetativa, sensitiva, passionale - sono in fun-
zione dell'anima logistica, cioè del logos, è chiaro che il logos dovrà in
qualche modo dominarle tutte. Aristotele torna molto spesso, e non solo
nel De anima, su queste distinzioni.
Ora, se l'anima "noetica" è la più alta, quella che tende alla theoría, e
per theoría si intende contemplazione, studio, penetrazione di cose, è
chiaro che una vita vissuta a tale livello è una vita quanto mai vera, giu-
sta, appetibile, migliore. Sicchè l’eudaimonía l'uomo la raggiunge sfrut-
tando precisamente questo tipo di anima, che è l'anima noetica. Di qui si
intende perché molto spesso Aristotele dica che l'uomo libero deve ave-
re una certa tranquillità finanziaria, proprio in quanto questa tranquilli-
tà finanziaria gli permette di dedicarsi alla vita degna dell'uomo libero, e
cioè ad una vita di studio, di contemplazione, una vita spesa per gli ami-
ci; in altri termini, la vita filosofica. In realtà, accanto a questa vita, che è
il culmine di tutte le altre, ci sono per Aristotele la vita edonistica e la
vita politica. La vita edonistica è la vita dei piaceri, ai quali Aristotele dà
la parte che devono avere necessariamente nella vita di un uomo, senza
però enfatizzarne l'importanza. La vita politica è la vita degli onori, ed
essa deve avere il suo posto nella vita dell'uomo, o di determinati uomi-
ni; ma, al di là dei piaceri e degli onori, c'è quest'ultima vita, che è la vita
170
della contemplazione, e ad essa è dedicata l'ultima parte dell'Etica Ni-
comachea. Questa è la vita migliore, perché è la vita stessa di Dio. Nel
famoso libro Lambda della Metafisica, dove si parla appunto della vita di
Dio, si afferma che Dio non fa altro che intendere, contemplare se stesso;
quindi, quello che Dio fa sempre, continuamente, l'uomo lo fa talvolta.
Ed è chiaro che in questo suo raccogliersi e penetrare le cose l'uomo go-
de di un piacere, per quel principio per cui ogni azione, quando è esegui-
ta come si deve, comporta piacere. Quindi la felicità è la realizzazione
più piena della vita noetica alla quale consegue il piacere. È, in piccolo, la
vita stessa di Dio.
171
La Politica aristotelica
173
che costituisce il mezzo per l’acquisizione di ciò che è necessario alla ri-
produzione. L’arte che il padrone in quanto capo della casa (oikos) deve
esercitare per l’acquisizione dei beni si chiama crematistica. Questa è un
aspetto dell’arte dell’amministrazione della casa (oikonomia). La rela-
zione servo-padrone costituisce anch’essa una forma di comunità ele-
mentare naturale, proprio in quanto il servo, non essendo auto-
sufficiente perché privo della capacità deliberativo-intellettiva, deve ne-
cessariamente unirsi al padrone e a lui essere subordinato. Esso è
«strumento» animato del quale il padrone si serve: «anche lo schiavo è
un oggetto di proprietà animato e ogni servitore è come uno strumento
che ha precedenza sugli altri strumenti» (Pol., I, 4), in quanto può a sua
volta servirsi di altri strumenti. L’esistenza della schiavitù costituisce
per Aristotele, come in generale per il mondo antico, un fatto di natura,
non il risultato di una convenzione o della forza. In quanto strumento,
esso si interpone tra l’uomo libero e la natura, conséntendo così
all’uomo libero di sottrarsi all’assoggettamento alla natura. Di qui la de-
finizione dello schiavo come «un essere che per natura non appartiene a
se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo;
e appartiene a un altro chi, pur essendo uomo, è oggetto di proprietà; e
oggetto di proprietà è uno strumento ordinato all’azione e separato»
(Pol., I, 5). Pertanto la schiavitù, in quanto naturale, è giusta. Essa deve
essere considerata dal lato della natura, non dal lato della piena umani-
tà, al pari di qualunque animale di cui ci serviamo.
Per quanto concerne il problema dell’acquisizione e della gestione
dei beni, Aristotele traccia una differenza tra arte dell’amministrazione
domestica (oikonomia) e arte dell’acquisizione delle ricchezze (cremati-
stica): quest’ultima, infatti, procaccia i beni, ma solamente la prima pos-
siede la capacità di servirsene in funzione del raggiungimento del fine. Il
primato compete alla scienza dell’uso, non all’arte dell’acquisizione, che
è dunque subordinata e parte della prima. Vi sono tuttavia due forme di
crematistica: l’una è naturale, e ha il compito di provvedere a procurare i
beni necessari alla vita e utili alla comunità della casa e dello Stato. I be-
ni vengono cioè acquisiti esclusivamente in funzione dei bisogni, per
rendere l’uomo autosufficiente. Ancora una volta viene sottolineato il
primato del valore di uso. Vi è tuttavia una seconda forma di crematisti-
ca, quella non naturale, la quale ha per scopo quello di acquisire ricchez-
174
za senza fine, cioè indipendentemente e oltre la pura esigenza della sod-
disfazione dei bisogni. Questa forma non naturale sorge dal fatto che o-
gni bene può essere considerato o in relazione al suo uso, cioè in rappor-
to alle qualità naturali o artificiali per le quali esso è stato prodotto - ad
esempio il camminare per la scarpa - oppure lo si può considerare in
rapporto al suo valore di scambio, cioè al valore che ad esso bene viene
attribuito per il fatto di essere scambiato. La crematistica utilizza lo
scambio, che è legittimo solo in quanto esso deve consentire di procura-
re ciò di cui l’uomo è naturalmente privo, da acquisire mediante lo
scambio con ciò che egli possiede in abbondanza, in modo da collocare i
beni in rapporto ai bisogni. In questo senso lo scambio, in quanto si
muove lungo la linea dell’autosufficienza voluta da natura per ciascun
vivente, è naturale. Ma, con l’introduzione dell’uso della moneta, prima
adottata come semplice mezzo per rendere più facili gli scambi, è stato
possibile scindere i diversi momenti dello scambio e utilizzare il rappor-
to tra scambio e moneta come strumento per acquisire ricchezza senza
fine, cioè ricchezza monetaria non più vincolata ai bisogni naturali. Con
ciò lo scambio viene ad essere finalizzato al guadagno e al profitto. Il
guadagno viene in tal modo a spezzare il rapporto di philia, di amicizia
fra i cittadini, che si fonda essenzialmente sulla reciprocità, cioè sullo
scambio eguale. Funzione essenziale in questa trasformazione svolge il
commercio al minuto, nel quale si realizza il guadagno che deriva dallo
squilibrio che sussiste tra il valore reale del prodotto e quello possibile
sulla base dello scambio. E allora possibile un incremento della ricchez-
za non più fondato sull’incremento dei beni, utilizzando il denaro quindi
non più come mezzo di scambio che mette in relazione due prodotti, ma
come inizio e fine dello scambio stesso. Si compra cioè solo per vendere.
La crematistica non naturale abbandona così il primato del valore d’uso
e del concetto di bisogno, trascura il limite dell’autosufficienza per ricer-
care il modo infinito di accumulare ricchezza, rendendo produttivo lo
stesso denaro, sia nel commercio come nell’usura o prestito ad inte-
resse. «Perciò si ha pienissima ragione a detestare l’usura, per il fatto
che, in tal caso, i guadagni provengono dal denaro stesso e non da ciò
per cui il denaro è stato inventato. Perché fu introdotto in vista dello
scambio, mentre l’interesse lo fa crescere sempre di più (...), sicché que-
sta è tra le forme di guadagno la più contraria a natura» (Pol., I, 10). Ari-
175
stotele delinea così il passaggio da una forma sociale nella quale
l’economia è subordinata alle relazioni sociali e politiche, ad una forma
nella quale l’economia tende a svincolarsi, a porsi come momento auto-
nomo e quindi a subordinare a sé la totalità delle relazioni umane.
176
deduzione astratta delle norme, alla rigida scissione tra le classi, al pote-
re affidato a filosofi e guerrieri, alla scarsa attenzione dedicata, almeno
nella Repubblica, alla storia e alle consuetudini.
177
ri sotto entrambi gli aspetti.
Le forme di costituzione. Che cos’è la costituzione? «La costituzione
è l’ordinamento delle varie magistrature di uno Stato e specialmente di
quella che è sovrana suprema di tutto: infatti, sovrana suprema è do-
vunque la suprema autorità dello Stato e la suprema autorità è la co-
stituzione» (Pol., III, 6).
Nelle democrazie, sovrano è il popolo; nelle oligarchie, la sovranità
spetta a pochi ricchi. Ora lo Stato esiste solo in vista dell’interesse comu-
ne. «E evidente quindi che quante costituzioni mirano all’interesse co-
mune sono giuste in rapporto al giusto in assoluto, quante, invece, mi-
rano solo all’interesse personale dei capi sono sbagliate tutte e rappre-
sentano una deviazione dalle rette costituzioni: sono pervase da spirito
di dispotismo, mentre lo Stato è comunità di liberi» (Pol., III, 6). Esistono
pertanto diverse forme di costituzioni giuste, nel senso sopra precisato.
Queste sono: la monarchia, l’aristocrazia, la politici; loro degenerazioni
sono rispettivamente la tirannide, l’oligarchia e la democrazia nel senso
deteriore. Si ha invece la politia, «quando poi la massa regge lo Stato ba-
dando all’interesse comune» (III, 7). Nella tirannide, prevale l’interesse
del monarca; l’oligarchia privilegia l’interesse dei ricchi, la democrazia
l’interesse dei poveri: al vantaggio della comunità invece non bada nes-
suna di queste forme costituzionali. Pertanto, perché vi sia una forma
costituzionale adeguata, occorre che nello Stato sia prevalente la classe
media, come avviene nella forma da Aristotele privilegiata, la politia.
Lo Stato è stato costituito non in vista della ricchezza, né solo come
alleanza militare, né allo scopo di commerciare, né per semplice comu-
nanza di luogo: «tutto questo necessariamente c’è, se deve esserci uno
Stato, però non basta perché ci sia uno Stato: lo Stato è comunanza di
famiglie e di stirpi nel vivere bene: il suo oggetto è un’esistenza piena-
mente realizzata e indipendente (...). E proprio in grazia delle opere bel-
le e non della vita associata che si deve ammettere l’esistenza della co-
munità politica» (III, 9).
Qui si allude a una comunità politica che vede la partecipazione dei
molti al potere. A differenza di Platone, Aristotele difende la forma de-
mocratica corretta. Molte persone, prese nella loro totalità e non singo-
larmente, sono infatti superiori ai pochi eccellenti. «In realtà, essendo
molti, ciascuno ha una parte di virtù e di saggezza e come quando si rac-
178
colgono insieme, in massa, diventano un uomo con molti piedi, con mol-
te mani, con molti sensi, così diventano un uomo con molte eccellenti
doti di carattere e d’intelligenza». A ciò deve aggiungersi il pericolo
dell’esclusione della massa dalle cariche. Inoltre, «le leggi rettamente
emanate devono essere sovrane e chi detiene il potere, sia uno o siano
più, è sovrano in tutti quei casi in cui le leggi non possono pronunciarsi
con esattezza, perché non è facile emanare norme generali per tutti i ca-
si» (III, 12).
Certo, soggiunge Aristotele, se esistesse uno (o pochi) «tanto diver-
so per virtù o per capacità politica: come un dio tra gli uomini è natural-
mente un uomo siffatto». Per simili uomini non c’è vincolo o subordina-
zione alla legge; «sono essi la legge e sarebbe ridicolo chi cercasse di re-
digere una legislazione per loro» (III, 13). Ed è proprio per questo che gli
Stati retti a democrazia hanno l’ostracismo: perseguono infatti l’e-
guaglianza e per questo bandiscono quanti mostrano di possedere ec-
cessivo potere o a causa della ricchezza o per altri motivi.
Perciò, conclude Aristotele, occorre operare per favorire nello Stato
la presenza di una classe media. Infatti, «lo Stato vuole essere costituito,
per quanto è possibile, di elementi uguali e simili, il che succede soprat-
tutto con le persone di ceto medio». Questo ceto evita i pericoli di quegli
Stati dominati o da chi possiede troppo o da chi non possiede niente,
Stati per questo motivo esposti ai pericoli della tirannide, della oli-
garchia o della democrazia sfrenata. Solo il ceto medio consente di man-
tenere l’uguaglianza. Le trasformazioni dello Stato. Nel V libro della Poli-
tica, Aristotele prende in esame le cause che portano alla trasformazione
o alla rovina delle rette costituzioni, servendosi di una grande! mole di
informazioni storiche. La causa generale viene ravvisata nel fatto che, se
tutti sono d’accordo nel porre alla base degli Stati un concetto di egua-
glianza proporzionale, tuttavia lo applicano in modo scorretto. Così, la
democrazia demagogica sorge «dall’idea che quanti sono uguali per un
certo rispetto, siano assolutamente uguali (e in realtà, per il fatto che
sono tutti ugualmente liberi pensano di essere assolutamente uguali),
l’oligarchia dalla supposizione che quanti sono disuguali sotto un certo
rispetto siano del tutto disuguali (e in realtà essendo disuguali nel pos-
sesso della proprietà suppongono di essere assolutamente disuguali).
179
Perciò gli uni, essendo uguali, ritengono giusto partecipare in ugual mi-
sura di ogni cosa, mentre gli altri, essendo diseguali, cercano di aver
sempre di più, e il di più è diseguale» (V, 1).
«Dovunque la ribellione nasce da disuguaglianza», e dunque
quest’ultima è da considerarsi la causa dell’instabilità degli Stati. La de-
mocrazia, sotto questo rispetto, è più solida e maggiormente al riparo
dalle ribellioni, mentre la costituzione fondata sulla classe media è quel-
la più sicura di tutte. Ma lo Stato si mantiene stabile se si conserva lo
spirito di obbedienza alla legge e se non si consente a nessuna classe in
particolare di diventare troppo forte. Ma l’elemento di gran lunga più
importante, afferma Aristotele, è dato dal sistema di educazione rispon-
dente alla costituzione. Lo Stato ideale. Il problema della costituzione
migliore è da Aristotele affrontato in connessione con la questione della
migliore vita desiderabile. La cosa più importante per l’individuo, e
quindi anche per lo Stato, è la vita secondo virtù, provvista dei mezzi a-
datti a compiere azioni virtuose. Fra le condizioni dello Stato ideale, oc-
corre innanzi tutto tener conto della popolazione; tale Stato deve avere
«un numero tale di abitanti che sia il minimo indispensabile in vista
dell’autosufficienza per un’esistenza agiata in conformità delle esigenze
di una comunità civile». E poiché in questo Stato tutti devono partecipa-
re alla vita e alle cariche politiche, esso deve poter essere abbracciato in
un unico sguardo, cioè non essere troppo vasto. Così il territorio deve
consentire una vita libera e piacevole, ma non essere così esteso da
spingere al lusso. Gli abitanti dovrebbero avere il carattere degli Elleni,
che possiedono il coraggio dei popoli del Nord e l’intelligenza dei popoli
dell’Asia; perciò questa gente «vive continuamente libera, ha le migliori
istituzioni politiche e la possibilità di dominare tutti, qualora raggiunga
l’unità costituzionale» (VII, 7). Lo Stato deve avere, per raggiungere le
proprie finalità, coltivatori, artigiani, militari, sacerdoti e giudici. Ma non
tutto ciò che è indispensabile per la vita dello Stato è insieme parte dello
Stato. Così i lavoratori manuali non hanno la virtù politica, mentre i col-
tivatori non hanno il tempo per esercitarla.
L’ultima parte della Politica è interamente dedicata all’educazione.
Infatti, la virtù dipende da tre fattori: natura, abitudine e ragione. L’e-
ducazione concerne l’abitudine e la ragione. E poiché lo Stato è costituito
da chi comanda e da chi è comandato, anche l’educazione dovrà incen-
180
trarsi su questo aspetto essenziale. Ogni cittadino deve imparare innanzi
tutto ad obbedire e quindi a comandare. L’educazione dovrà pertanto
formare uomini buoni e buoni cittadini, secondo l’ideale già delineato
nell’Etica. Infine, l’educazione dovrà essere impartita dallo Stato, pren-
dere il suo avvio dall’educazione del corpo, e proseguire con
l’educazione degli impulsi e degli appetiti, per avere il suo coronamento
con la formazione della ragione80.
181
La scienza politica in Aristotele
183
La logica formale e il sillogismo scientifico
La logica non si interessa tanto della verità dei contenuti delle af-
fermazioni (ad esempio se Dio esista, se l’anima sia immortale, se la
mamma abbia o no comperato le uova andando al mercato), quanto del-
la validità del puro ragionamento, cioè delle relazioni che intercorrono
tra le proposizioni: se siano logicamente concatenate e concatenabili;
essa considera cioè la forma del ragionamento, non il suo contenuto; ec-
co perché con Aristotele si parla di logica formale. Se Aristotele si fosse
interessato al contenuto, cioè alla parte “materiale” del ragionamento,
avrebbe dovuto affrontare il discorso sulla verità della premessa inizia-
le, ma questo esula dal campo della logica, che guarda invece ai mecca-
nismi interni del ragionare umano e, per farli risaltare meglio, si avvale
spesso di simboli che stanno al posto delle parole, di segni convenzionali
(pensiamo a quelli di tipo algebrico) che evidenziano in misura migliore
se un ragionamento sia corretto o errato, se cioè sia vero o falso
all’interno di una logica formale. Proprio per non cadere in una confu-
sione di termini Aristotele precisa che quando fondiamo il nostro di-
scorso sulla verità delle premesse iniziali, allora siamo all’interno di un
tipo di ragionamento, chiamato sillogismo dimostrativo o scientifico; se
invece ci interessiamo della possibilità che un ragionamento sia plausi-
bile, allora stiamo utilizzando un sillogismo dialettico (quando invece
vogliamo confutare le tesi dell’avversario con argomenti non fondati
siamo nel sillogismo eristico, utilizzato dai sofisti). Consideriamo la dif-
185
ferenza tra i due sillogismi prima di addentrarci nei meandri delle tecni-
che del ragionamento.
IL SILLOGISMO SCIENTIFICO
“Chiamo dimostrazione il sillogismo scientifico, e chiamo scientifico
il sillogismo rispetto al quale, per il fatto di esserne in possesso, noi ab-
biamo la scienza. Se dunque il sapere è tale quale abbiamo posto che sia,
di necessità anche la scienza dimostrativa consta di premesse vere, pri-
me, immediate, più note, anteriori e cause della conclusione. [...] Un sil-
logismo si potrà infatti costruire anche senza premesse di questo tipo,
ma non sarà una dimostrazione, perché non produrrà scienza. Le pre-
messe devono essere dunque vere, perché non è possibile avere scienza
di ciò che non è, per esempio che la diagonale sia commensurabile. Deve
derivare da premesse prime e indimostrabili, perché non si avrà scienza
se si possiede la dimostrazione di esse: infatti, l’aver scienza delle cose
di cui c’è dimostrazione in maniera non accidentale è possederne la di-
mostrazione. Le premesse devono essere cause ed essere più note e an-
teriori rispetto alla conclusione: cause, perché abbiamo scienza quando
conosciamo la causa, anteriori in quanto appunto sono cause e conosciu-
te prima non solo nell’altro senso di comprendere che cosa sono, ma an-
che di sapere che sono. E sono anteriori e più note in due sensi: infatti,
ciò che è anteriore per natura e ciò che è anteriore rispetto a noi non so-
no la stessa cosa, così come non sono la stessa cosa ciò che è più cono-
scibile e ciò che è più conoscibile rispetto noi. Chiamo anteriore e più
conoscibile rispetto a noi ciò che è più vicino alla sensazione, e anteriore
e più conoscibile in senso assoluto ciò che ne è più lontano. In assoluto
più lontane sono le cose massimamente universali, in assoluto più vicine
le cose individuali: esse sono anche contrapposte le une alle altre.
Constare poi di premesse prime è constare di principi propri: per
primo e principio intende infatti la stessa cosa. Principio è la premessa
immediata di una dimostrazione, ed è immediata la premessa della qua-
le non c’è altra premessa che sia anteriore. Premessa è una delle due
parti di un’enunciazione nella quale un termine è predicato di un altro. È
dialettica la premessa che assume allo stesso modo qualsivoglia dei due
termini; è invece dimostrativa la premessa che assume uno dei due ter-
186
mini in modo definito, in quanto vero. Enunciazione è una qualunque
delle due parti di una contraddizione; contraddizione è l’antitesi che non
ha di per sé un termine intermedio, e parte di una contraddizione è da
un lato l’affermare qualcosa di qualcosa, e dall’altro negare qualcosa di
qualcosa”82.
187
RETORICA E POETICA
Diavolo di un Aristotele
Secondo Umberto Eco il Filosofo ha il merito di aver definito per primo la metafora,
sia nella Poetica sia nella Retorica, e in quelle sue definizioni sosteneva che essa non è
puro ornamento bensì una forma di conoscenza84.
188
vista a lungo solo come un modo di abbellire il discorso senza tuttavia
cambiarne la sostanza. E ancor oggi c’è qualcuno che la pensa così.
Nella Poetica diceva che capire le buone metafore vuole dire «sape-
re scorgere il simile o il concetto affine».
Il verbo che usava era “theorein”, che vale per scorgere, investigare,
paragonare, giudicare. Su questa funzione conoscitiva della metafora A-
ristotele tornava con maggiore ampiezza nella Retorica dove diceva che
è gradevole ciò che suscita ammirazione perché ci fa scoprire una analo-
gia insospettata, vale a dire ci “mette sotto gli occhi” (così si esprimeva)
qualcosa che non avevamo mai notato, per cui si è portati a dire « guar-
da, è proprio così, eppure non lo sapevo».
Come si vede in tal modo Aristotele assegnava alle buone metafore
una funzione quasi scientifica, anche se si trattava di una scienza che
non consisteva nello scoprire qualcosa che era già là, bensì, per così dire,
nel farlo apparire là per la prima volta, nel creare un modo nuovo di
guardare le cose. Il filosofo ha il merito di aver definito per primo la me-
tafora, sia nella Poetica sia nella Retorica, e in quelle sue definizioni so-
steneva che essa non è puro ornamento bensì una forma di conoscenza.
E quale era uno degli esempi più convincenti di metafora che ci met-
te qualcosa sotto gli occhi per la prima volta? Una metafora (che non so
dove Aristotele avesse trovato) per cui i pirati venivano detti “prov-
veditori” o “fornitori”. Come per altre metafore Aristotele suggeriva che
si individuasse, per due cose apparentemente diverse e inconciliabili,
almeno una proprietà comune, e poi si vedessero le due cose diverse
come specie di quel genere.
Anche se i mercanti erano di solito considerati brave persone che
andavano per mare a trasportare e vendere legalmente le loro merci,
mentre i pirati erano dei mascalzoni che assalivano e depredavano le
navi di quegli stessi mercanti, la metafora suggeriva che pirati e mercan-
ti avessero in comune il fatto di operare il passaggio di merci da una fon-
te al consumatore. Indubbiamente una volta che avevano depredato le
loro vittime, i pirati andavano a vendere i beni conquistati da qualche
parte e quindi erano dei trasportatori, provveditori e fornitori di merci
anche se i loro clienti erano probabilmente imputabili di incauto acqui-
sto. In ogni caso quella fulminea somiglianza tra mercanti e predatori
creava tutta una serie di sospetti- così che il lettore era indotto a dire:
189
«Così era, e prima mi sbagliavo». Da un lato la metafora obbligava a ri-
considerare il ruolo del pirata nell’economia mediterranea, ma dall’altro
induceva a qualche sospettosa riflessione sul ruolo e i metodi dei mer-
canti. Insomma, quella metafora, agli occhi di Aristotele, anticipava quel-
lo che poi avrebbe detto Brecht, che il vero crimine non è rapinare una
banca bensì possederla - e naturalmente il buon Stagirita non poteva sa-
pere che l’apparente boutade di Brecht sarebbe apparsa tremendamente
inquietante alla luce di quanto è accaduto negli ultimi tempi nel mercato
finanziario internazionale. Insomma, non occorre far finta che Aristotele
la pensasse come Marx, lui che faceva il consigliere di un monarca, ma
capirete come mi ha divertito questa storiella dei pirati.
Diavolo di un Aristotele.
190
Antologia di testi aristotelici
191
infatti il principio delle produzioni è in colui che produce, ed è o l'intel-
letto o l'arte o altra facoltà; ed il principio delle azioni pratiche è nell'a-
gente ed è la volizione, in quanto l'oggetto dell'azione pratica e della vo-
lizione coincidono. Pertanto, se ogni conoscenza razionale è o pratica o
poietica o teoretica, la fisica dovrà essere conoscenza teoretica, ma co-
noscenza teoretica di quel genere di essere che ha potenza di muoversi e
della sostanza intesa secondo la forma, ma prevalentemente considerata
come non separabile dalla materia. È necessario, poi, che risulti chiaro
anche il modo di essere dell’essenza e della forma, perché, se non è chia-
ro questo, la ricerca è assolutamente vana. Ora, le cose che sono oggetto
di definizione, ossia le essenze, sono alcune, come il camuso, altre, inve-
ce, come la concavità. Queste differiscono tra loro per il fatto che il ca-
muso è sempre unito alla materia (il camuso, infatti, è un naso concavo),
mentre la concavità è scevra di materia sensibile. Pertanto, se tutti gli
oggetti della fisica si intendono in modo simile al camuso, come, per e-
sempio, naso, occhio, viso, carne, orecchio, animale in genere, foglia, ra-
dice, corteccia, pianta in generale (infatti, non è possibile dare definizio-
ne di nessuna di queste cose senza il movimento, ma esse hanno sempre
materia), allora è chiaro che si debba ricercare e definire l'essenza in se-
de di ricerca fisica, ed è chiaro altresì perché sia compito del fisico spe-
culare anche su una parte dell'anima, e precisamente su quella parte
dell'anima che non esiste senza la materia. Da tutto questo risulta evi-
dente, dunque, che la fisica è una scienza teoretica. D'altra parte, anche
la matematica è scienza teoretica. Se, però, essa sia scienza di esseri im-
mobili e separati, per ora ci resta oscuro. Per altro, è chiaro che alcune
branche della matematica considerano i loro oggetti come immobili e
non separati. Ma, se esiste qualcosa di eterno, immobile e separato, è e-
vidente che la conoscenza di esso spetterà certamente ad una scienza
teoretica, ma non alla fisica, perché la fisica si occupa di esseri in movi-
mento, e neppure alla matematica, bensì ad una scienza anteriore all'u-
na ed all'altra. Infatti, la fisica riguarda realtà separate ma non immobili;
alcune delle scienze matematiche riguardano realtà che sono immobili
ma non separate, bensì immanenti alla materia; invece la filosofia prima
riguarda realtà che sono separate ed immobili. Ora, è necessario che tut-
te le cause siano eterne, ma queste in modo particolare: infatti, queste
sono le cause di quegli esseri divini che a noi sono manifesti.Tre sono, di
192
conseguenza, le branche della filosofia teoretica: la matematica, la fisica
e la teologia. Non è dubbio, infatti, che se mai il divino esiste, esiste in
una realtà di quel tipo. E non è dubbio, anche, che la scienza più alta de-
ve avere come oggetto il genere più alto di realtà. E mentre le scienze
teoretiche sono di gran lunga preferibili alle altre scienze, questa è, a sua
volta, di gran lunga preferibile alle altre due scienze teoretiche. Si po-
trebbe, ora, porre il problema se la filosofia prima sia universale oppure
se riguardi un genere determinato ed una realtà particolare. Infatti, a
questo riguardo, nello stesso ambito delle matematiche c'è diversità: la
geometria e la astronomia riguardano una determinata realtà, mentre la
matematica generale è comune a tutte. Orbene, se non esistesse un'altra
sostanza oltre quelle che costituiscono la natura, la fisica sarebbe la
scienza prima; se, invece, esiste una sostanza immobile, la scienza di
questa sarà anteriore (alle altre scienze) e sarà filosofia prima, e, in que-
sto modo, cioè in quanto è prima, essa sarà universale, e ad essa spetterà
il compito di studiare l'essere in quanto essere, cioè che cosa l'essere sia
e quali gli attributi che, in quanto essere, gli appartengono”85.
193
Tutti gli uomini desiderano naturalmente il sapere
1 [980a] [...] Tutti gli uomini per natura tendono al sapere [toû ei-
dénai]. Segno ne è l’amore per le sensazioni: infatti, essi amano le sensa-
zioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità, e, più di
tutte, amano la sensazione della vista: in effetti, non solo ai fini
dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi prefe-
riamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta
nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci
rende manifeste numerose differenze fra le cose.
2 Gli animali sono naturalmente forniti di sensazione; ma, in alcuni,
dalla sensazione non nasce la memoria, in altri, invece, nasce. [980b] Per
tale motivo questi ultimi sono più intelligenti e più atti ad imparare ri-
spetto a quelli che non hanno capacità di ricordare. Sono intelligenti, ma
senza capacità di imparare, tutti quegli animali che non hanno facoltà di
udire i suoni (per esempio l’ape e ogni altro genere di animali di questo
tipo); imparano, invece, tutti quelli che, oltre la memoria, posseggono
anche il senso dell’udito.
3 Orbene, mentre gli altri animali vivono con immagini sensibili e
con ricordi, e poco partecipano dell’esperienza, il genere umano vive,
invece, anche d’arte e di ragionamenti. Negli uomini, l’esperienza deriva
dalla memoria: infatti, molti ricordi dello stesso oggetto giungono a co-
stituire un’esperienza unica. [981a] L’esperienza, poi, sembra essere al-
quanto simile alla scienza e all’arte: in effetti, gli uomini acquistano
scienza e arte attraverso l’esperienza. L’esperienza, infatti, [...], produce
l’arte, mentre l’inesperienza produce il puro caso. L’arte si genera quan-
do, da molte osservazioni di esperienza, si forma un giudizio generale ed
unico riferibile a tutti i casi simili.
194
[...]
4 Orbene, ai fini dell’attività pratica, l’esperienza non sembra diffe-
rire in nulla dall’arte; anzi, gli empirici riescono anche meglio di coloro
che posseggono la teoria senza la pratica. E la ragione sta in questo:
l’esperienza è conoscenza dei particolari, mentre l’arte è conoscenza de-
gli universali; ora, tutte le azioni e le produzioni riguardano il particola-
re: infatti il medico non guarisce l’uomo se non per accidente, ma guari-
sce Callia o Socrate o qualche altro individuo che porta un nome come
questi, al quale, appunto accade di essere uomo. Dunque, se uno possie-
de la teoria senza l’esperienza e conosce l’universale ma non conosce il
particolare che vi è contenuto, più volte sbaglierà la cura, perché ciò cui
è diretta la cura è, appunto, l’individuo particolare.
5 E, tuttavia, noi riteniamo che il sapere e l’intendere siano propri
più all’arte che all’esperienza, e giudichiamo coloro che posseggono
l’arte più sapienti di coloro che posseggono la sola esperienza, in quanto
siamo convinti che la sapienza [tò eidénai], in ciascuno degli uomini, cor-
risponda al loro grado di conoscere [tèn sophían]. E, questo, perché i
primi sanno la causa, mentre gli altri non la sanno. Gli empirici sanno il
puro dato di fatto, ma non il perché di esso; invece gli altri conoscono il
perché e la causa.
6 Perciò noi riteniamo che coloro che hanno la direzione nelle sin-
gole arti siano più degni di onore e posseggano maggiore conoscenza e
siano più sapienti dei manovali, [981b] in quanto conoscono le cause
delle cose che vengon fatte; invece i manovali agiscono, ma senza sapere
ciò che fanno, così come agiscono alcuni degli esseri inanimati, per e-
sempio, così come il fuoco brucia: ciascuno di questi esseri inanimati a-
gisce per un certo impulso naturale, mentre i manovali agiscono per abi-
tudine. Perciò consideriamo i primi come più sapienti, non perché capaci
di fare, ma perché in possesso di un sapere concettuale e perché cono-
scono le cause.
7 In generale, il carattere che distingue chi sa rispetto a chi non sa, è
l’essere capace di insegnare: per questo noi riteniamo che l’arte sia so-
prattutto la scienza [epistéme] e non l’esperienza; infatti coloro che pos-
seggono l’arte sono capaci di insegnare, mentre gli empirici non ne sono
capaci.
195
8 Inoltre, noi riteniamo che nessuna delle sensazioni sia sapienza
[sophía]: infatti, se anche le sensazioni sono, per eccellenza, gli strumen-
ti di conoscenza [gnósis] dei particolari, non ci dicono, però, il perché di
nulla: non dicono, per esempio, perché il fuoco è caldo, ma solamente
segnalano il fatto che esso è caldo.
9 È logico, dunque, che chi per primo scoprí una qualunque arte,
superando le comuni conoscenze sensibili, sia stato oggetto di ammira-
zione da parte degli uomini, proprio in quanto sapiente e superiore agli
altri, e non solo per l’utilità di qualcuna delle sue scoperte. Ed è anche
logico che, essendo state scoperte numerose arti, le une dirette alle ne-
cessità della vita e le altre al benessere, si siano sempre giudicati più sa-
pienti gli scopritori di queste che non gli scopritori di quelle, per la ra-
gione che le loro conoscenze non erano rivolte all’utile. Di qui, quando
già si erano costituite tutte le arti di questo tipo, si passò alla scoperta di
quelle scienze che non sono dirette né al piacere né alle necessità della
vita, e ciò avvenne dapprima in quei luoghi in cui gli uomini erano liberi
da occupazioni pratiche. [...]
10 E lo scopo per cui noi ora facciamo questo ragionamento è di
mostrare che col nome di sapienza [sophía] tutti intendono la ricerca
delle cause prime e dei princípi. Ed è per questo che, come si è detto so-
pra, chi ha esperienza è ritenuto più sapiente di chi possiede soltanto
una qualunque conoscenza sensibile: chi ha l’arte più di chi ha esperien-
za, chi dirige più del manovale e le scienze teoretiche più delle pratiche.
11 [982a] È evidente, dunque, che la sapienza [sophía] è una scien-
za [epistéme] che riguarda certi princípi e certe cause.
12 Ora, poiché noi ricerchiamo proprio questa scienza, dovremo
esaminare di quali cause e di quali princípi sia scienza la sapienza. E for-
se questo diventerà chiaro, se si considereranno le concezioni che ab-
biamo del sapiente [sophós]. Noi riteniamo, in primo luogo, che il sapien-
te conosca tutte le cose, per quanto ciò è possibile: non evidentemente
che egli abbia scienza di ciascuna cosa singolarmente considerata. Inol-
tre, reputiamo sapiente chi è capace di conoscere le cose difficili o non
facilmente comprensibili per l’uomo (infatti la conoscenza sensibile è
comune a tutti, e, pertanto, è facile e non è affatto sapienza). Ancora, re-
putiamo che, in ciascuna scienza, sia più sapiente chi possiede maggiore
conoscenza delle cause e chi è più capace di insegnarle ad altri. Ritenia-
196
mo anche, che, tra le scienze, sia in maggior grado sapienza quella che è
scelta per sé al puro fine di sapere, rispetto a quella che è scelta in vista
dei benefici che da essa derivano. E riteniamo che sia in maggior grado
sapienza la scienza che è gerarchicamente sopraordinata rispetto a quel-
la che è subordinata: infatti, il sapiente non deve essere comandato ma
deve comandare, né egli deve ubbidire ad altri, ma a lui deve ubbidire
chi è meno sapiente.
13 Di tale natura e di tal numero sono, dunque, le concezioni gene-
ralmente condivise intorno alla sapienza e intorno ai sapienti. Ora, il
primo di questi caratteri – il conoscere ogni cosa – deve necessariamen-
te appartenere soprattutto a chi possiede la scienza dell’universale: co-
stui, infatti, sa, sotto un certo rispetto, tutte le cose <particolari, in quan-
to queste sono> soggette <all’universale>. E le cose più universali sono,
appunto, le più difficili da conoscere per gli uomini: sono, infatti, le più
lontane dalle apprensioni sensibili. E le più esatte fra le scienze sono
quelle soprattutto che vertono intorno ai primi princípi: infatti, le scien-
ze che presuppongono un minor numero di princípi sono più esatte di
quelle che presuppongono, altresí, l’aggiunta <di ulteriori princípi>, co-
me ad esempio l’aritmetica rispetto alla geometria. Ma è anche mag-
giormente capace di insegnare, la scienza che maggiormente indaga le
cause: infatti, insegnano coloro che dicono quali sono le cause di ciascu-
na cosa. Inoltre, il sapere ed il conoscere che hanno come fine il sapere e
il conoscere medesimi, si trovano soprattutto nella scienza di ciò che è in
massimo grado conoscibile: infatti, colui che desidera la scienza per se
medesima, desidera soprattutto quella che è scienza in massimo grado, e
tale è, appunto, la scienza di ciò che è in massimo grado conoscibile.
[982b] Ora, conoscibili in massimo grado sono i primi princípi e le cau-
se; infatti, mediante essi e muovendo da essi si conoscono tutte le altre
cose, mentre, viceversa, essi non si conoscono mediante le cose che sono
loro soggette. E la più elevata delle scienze, quella che più deve coman-
dare sulle dipendenti, è la scienza che conosce il fine per cui vien fatta
ogni cosa; e il fine, in ogni cosa, è il bene, e, in generale, nella natura tut-
ta, il fine è il sommo bene.
14 Da tutto ciò che si è detto, dunque, risulta che il nome che è og-
getto della nostra indagine si riferisce ad una unica e medesima scienza:
197
essa deve speculare intorno ai princípi primi e alle cause: infatti, anche il
bene e il fine delle cose è una causa.
15 Che, poi, essa non tenda a realizzare qualcosa, risulta chiara-
mente anche dalle affermazioni di coloro che per primi hanno coltivato
filosofia. Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in o-
rigine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravi-
gliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco
a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i pro-
blemi riguardanti i fenomeni della Luna e quelli del Sole e degli astri, o i
problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova
un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per
questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il
mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia.
Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è
evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e non per con-
seguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti
lo dimostra: quando già c’era pressoché tutto ciò che necessitava alla
vita ed anche all’agiatezza ed al benessere, allora si incominciò a ricerca-
re questa forma di conoscenza. È evidente, dunque, che noi non la ricer-
chiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente
che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asser-
vito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera:
essa sola, infatti, è fine a se stessa.
16 Per questo, anche, a ragione si potrebbe pensare che il possesso
di essa non sia proprio dell’uomo; infatti, per molti aspetti la natura de-
gli uomini è schiava, e perciò Simonide dice che “Dio solo può avere un
tale privilegio”, e che non è conveniente che l’uomo ricerchi se non una
scienza a lui adeguata. E se i poeti dicessero il vero, e se la divinità fosse
veramente invidiosa, è logico che se ne dovrebbero vedere gli effetti so-
prattutto in questo caso, e che dovrebbero essere sventurati tutti quelli
che eccellono nel sapere. [983a] In realtà, non è possibile che la divinità
sia invidiosa, ma, come afferma il proverbio, i poeti dicono molte bugie;
né bisogna pensare che esista altra scienza più degna di onore. Essa, in-
fatti, fra tutte, è la più divina e la più degna di onore. Ma una scienza può
essere divina solo in questi due sensi: (a) o perché essa è scienza che Dio
possiede in grado supremo, (b) o, anche, perché essa ha come oggetto le
198
cose divine. Ora, solo la sapienza possiede ambedue questi caratteri: in-
fatti, è convinzione a tutti comune che Dio sia una causa e un principio,
e, anche, che Dio, o esclusivamente o in grado supremo, abbia questo ti-
po di scienza. Tutte le altre scienze saranno più necessarie di questa, ma
nessuna sarà superiore.
17 D’altra parte, il possesso di questa scienza deve porci in uno sta-
to contrario a quello in cui eravamo all’inizio delle ricerche. Infatti, come
abbiamo detto, tutti cominciano dal meravigliarsi che le cose stiano in
un determinato modo: così, ad esempio, di fronte alle marionette che si
muovono da sé nelle rappresentazioni, o di fronte alle rivoluzioni del So-
le o alle incommensurabilità della diagonale al lato: infatti, a tutti coloro
che non hanno ancora conosciuto la causa, fa meraviglia che fra l’una e
l’altro non vi sia una unità minima di misura comune. Invece, bisogna
pervenire allo stato di animo contrario, il quale è anche il migliore, se-
condo quanto dice il proverbio. E così avviene, appunto, per restare agli
esempi fatti, una volta che si sia imparato: di nulla un geometra si mera-
viglierebbe di più che se la diagonale fosse commensurabile al lato.
18 Si è detto, dunque, quale sia la natura della scienza ricercata, e
quale sia lo scopo che la nostra ricerca e l’intera trattazione devono rag-
giungere87.
87Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano, 1994, pagg. 3-15 – Cfr. Metafisica, 980a 21-983a
21
199
Sostanza e accidente
Ecco alcuni passi tratti da diverse opere aristoteliche in cui lo Stagirita delinea i
modi in cui possono essere definiti l’accidente e la sostanza.
200
retti. Gli accidenti di questo tipo possono essere eterni, nessuno degli
accidenti dell’altro tipo, invece, lo può essere88.
201
c) Sostanza e sostrato (Metafisica, 1042a 26-30; 1042b 9-11; 1043a
26-1043b 1)
1 [2a] [...] “Sostanza” nel senso più proprio, in primo luogo e nella
più grande misura, è quella che non si dice di un qualche sostrato, né è
in un qualche sostrato, ad esempio, un determinato uomo, o un determi-
nato cavallo. D’altro canto, sostanze seconde si dicono le specie, cui sono
202
immanenti le sostanze che si dicono prime, ed oltre alle specie, i generi
di queste. Ad esempio, un determinato uomo è immanente ad una spe-
cie, cioè alla nozione di uomo, e d’altra parte il genere di tale specie è la
nozione di animale. [...]
2 [2b] [...] la ragione per cui le sostanze prime si dicono sostanze in
massimo grado consiste nel fatto che esse stanno alla base di tutti gli al-
tri oggetti, e che tutti gli altri oggetti si predicano di esse, oppure sussi-
stono in esse. [...]
3 È così giustificato, prescindendo dalle sostanze prime, che le spe-
cie e i generi siano i soli tra gli oggetti a dirsi “sostanze seconde”: tra i
predicati, in effetti, essi solo rivelano la sostanza prima. Se qualcuno, in-
vero, deve spiegare che cos’è un determinato uomo, dà una spiegazione
appropriata fornendo la specie oppure il genere; d’altra parte, dichia-
rando che tale oggetto è “uomo”, lo rende più noto di quanto non faccia
dichiarando che è “animale”. Nel caso invece che costui fornisca una
qualche altra nozione, dicendo ad esempio che un determinato uomo è
“bianco” o “corre”, oppure facendo una qualsiasi altra dichiarazione
consimile, avrà dato una spiegazione estranea all’oggetto. È di conse-
guenza giustificato che tra gli altri oggetti soltanto quelli nominati si di-
cano sostanze. [3a] Oltre a ciò, le sostanze prime sono sostanze nel sen-
so più proprio in quanto stanno alla base di tutti gli altri oggetti. Orbene,
precisamente allo stesso modo con cui le sostanze prime si comportano
rispetto a tutti gli altri oggetti, così si comportano rispetto a tutti i rima-
nenti le specie e i generi delle sostanze prime. In realtà, tutti i rimanenti
oggetti vengono predicati delle specie e dei generi. Tu dirai infatti di un
determinato uomo che è “grammatico”, e quindi dirai pure di uomo e di
animale che è “grammatico”. Lo stesso vale per gli altri casi91.
203
2 Una è la sostanza sensibile, la quale si distingue in (a) eterna e in
(b) corruttibile (e questa è la sostanza che tutti ammettono: per esempio
le piante e gli animali; di essa è necessario comprendere quali siano gli
elementi costitutivi, sia che questi si riducano ad uno solo, sia che siano
molti). (c) L’altra sostanza è, invece, immobile; e, questa, alcuni filosofi
affermano che è separata: certuni distinguendola ulteriormente in due
tipi, altri riducendo a una identica natura le Forme e gli Enti matematici,
altri ancora ammettendo solo gli Enti matematici.
3 Le prime due specie di sostanze costituiscono l’oggetto della fisica,
perché sono soggette a movimento; [1069b] la terza, invece, è oggetto di
un’altra scienza, dal momento che non c’è alcun principio comune ad es-
sa e alle altre due92.
204
Il principio di non contraddizione
Aristotele è certo che esiste negli esseri umani qualcosa di cui è impossibile dubita-
re, riguardo alla quale non si può cadere in inganno, sulla quale il relativismo non può
far breccia: è infatti impossibile dubitare del principio che sta a fondamento del modo di
procedere della ragione umana, e che è noto come “principio di non contraddizione”.
205
qualcosa come vero, bisogna dire che essi nascono dall’ignoranza degli
Analitici, e non che le ricerchino mentre ascoltano queste lezioni.
5 È evidente, dunque, che è compito del filosofo e di colui che specu-
la intorno alla sostanza tutta e alla natura di essa, far indagine anche in-
torno ai principi dei sillogismi.
6 [1005b] Colui che, in qualsiasi genere di cose, possiede la cono-
scenza più elevata, deve essere in grado di dire quali sono i principi più
sicuri dell’oggetto di cui fa indagine; di conseguenza, anche colui che
possiede la conoscenza degli esseri in quanto esseri, deve poter dire
quali sono i principi più sicuri di tutti gli esseri. Costui è il filosofo. E il
principio più sicuro di tutti è quello intorno al quale è impossibile cade-
re in errore: questo principio deve essere il principio più noto (infatti,
tutti cadono in errore circa le cose che non sono note) e deve essere un
principio non ipotetico. Infatti, quel principio che di necessità deve pos-
sedere colui che voglia conoscere qualsivoglia cosa deve già essere pos-
seduto prima che si apprenda qualsiasi cosa. È evidente, dunque, che
questo principio è il più sicuro di tutti.
7 Dopo quanto si è detto, dobbiamo precisare quale esso sia. È im-
possibile che la stessa cosa, a un tempo, appartenga e non appartenga a
una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto (e si aggiungano pure an-
che tutte le altre determinazioni che si possono aggiungere, al fine di e-
vitare difficoltà di indole dialettica). È questo il più sicuro di tutti i prin-
cipi: esso, infatti, possiede quei caratteri sopra precisati. Infatti, è impos-
sibile a chicchessia di credere che una stessa cosa sia e non sia, come,
secondo alcuni, avrebbe detto Eraclito. In effetti, non è necessario che
uno ammetta veramente tutto ciò che dice. E se non è possibile che i
contrari sussistano insieme in un identico soggetto (e si aggiungano a
questa premessa le precisazioni solite), e se un’opinione che è in con-
traddizione con un’altra è il contrario di questa, è evidente che è impos-
sibile, ad un tempo, che la stessa persona ammetta veramente che una
stessa cosa esista e, anche, che non esista: infatti, chi si ingannasse su
questo punto, avrebbe ad un tempo opinioni contraddittorie. Pertanto,
tutti coloro che dimostrano qualcosa si rifanno a questa nozione ultima,
perché essa, per sua natura, costituisce il principio di tutti gli altri as-
siomi.
[...]
206
8 Dopo queste precisazioni, risulta chiaro che le affermazioni unila-
terali ed estese a tutto non possono reggere, come pretendono coloro
che dicono che nulla è vero (nulla, infatti, vieta - essi asseriscono - che
tutte le affermazioni siano false allo stesso modo dell’affermazione che
la diagonale è commensurabile), oppure coloro che dicono che tutto è
vero.
9 (a) Infatti questi ragionamenti equivalgono, in fondo, a quelli di
Eraclito, perché colui che afferma che tutto è vero e tutto è falso, afferma
anche separatamente ciascuna di queste dottrine; sicché, se è assurda la
dottrina di Eraclito, assurde saranno, anche, queste altre.
10 (b) Inoltre, ci sono proposizioni che sono manifestamente con-
traddittorie e che non possono essere vere insieme; e d’altra parte ve ne
sono altre che non possono essere tutte false, anche se questo sembre-
rebbe, invece, essere maggiormente possibile in base a ciò che si è detto.
Ma per confutare tutte codeste dottrine bisogna, come si è detto nei pre-
cedenti ragionamenti, non pretendere che l’avversario dica che qualcosa
è o non è, ma che dia significato alle sue parole, in modo che si possa di-
scutere partendo da una definizione, e incominciando dallo stabilire che
cosa significhi vero e falso. Ora, se ciò che è vero affermare altro non è
che ciò che è falso negare, è impossibile che tutte le cose siano false: in-
fatti è necessario che uno dei due membri della contraddizione sia vero.
Inoltre, se è necessario o affermare o negare ogni cosa, è impossibile che
tanto l’affermazione quanto la negazione siano, entrambe, false: una sola
delle sue proposizioni contraddittorie è falsa.
11 (c) Tutte queste dottrine cadono poi nell’inconveniente di di-
struggere sé medesime. Infatti, chi dice che tutto è vero, viene ad affer-
mare come vera anche la tesi opposta alla sua, dal che consegue che la
sua non è vera (dato che l’avversario dice che la tesi di lui non è vera). E
colui che dice che tutto è falso, viene a dire che è falsa anche la tesi che
egli stesso afferma. E se vorranno ammettere delle eccezioni, l’uno di-
cendo che tutto è vero tranne la tesi contraria alla sua, l’altro che è tutto
falso tranne la propria tesi, saranno, cionondimeno, obbligati ad ammet-
tere infinite proposizioni vere e false: infatti, colui che dice che una pro-
posizione è vera, afferma un’altra proposizione vera, e così si procederà
all’infinito.
207
12 È evidente, poi, (a) che non dicono il vero né coloro i quali affer-
mano che tutto è in quiete, né coloro che dicono che tutto è in movimen-
to. Se, infatti, tutto è in quiete, le medesime cose saranno sempre vere e
sempre false; è evidente, invece, che le cose mutano: la stessa persona
che sostiene questa tesi, un tempo non esisteva e, di nuovo, in seguito,
non esisterà. Se, invece, tutto è in movimento, nulla sarà vero, e quindi
tutto sarà falso; ma si è dimostrato che ciò è impossibile. Inoltre, neces-
sariamente, ciò che muta è un essere: il mutamento, infatti, ha luogo a
partire da qualcosa e verso qualcosa.
13 (b) E neppure è vero che tutto sia talora in quiete e talaltra in
movimento, e che non esista nulla di eterno. C’è qualcosa, infatti, che
sempre muove ciò che è in movimento, e il motore primo è, di per sè,
immobile93.
208
3 Orbene, coloro che intendono discutere insieme devono pure in-
tendersi su qualche punto; infatti, se ciò non avvenisse, come potrebbe
esserci fra loro un discorso comune? Dunque, bisogna che ciascuno dei
termini che essi usano sia loro comprensibile e bisogna che significhi
qualcosa e non molte cose ma una sola cosa; e se il termine significa
molte cose, bisogna chiarire bene a quali di queste cose ci si riferisca.
Ora, chi dice: “questo è e non è”, nega esattamente ciò che afferma, e di
conseguenza nega che la parola significhi ciò che significa. Ma questo è
impossibile. Sicché se l’espressione: “questa data cosa è” significa qual-
cosa, è impossibile che sia vera l’affermazione contraddittoria.
4 Inoltre, se una parola significa qualcosa e se ciò che significa è ve-
ro, ciò deve essere di necessità; ma ciò che è di necessità non è possibile
che talora non sia. Dunque, non è possibile che le asserzioni contraddit-
torie, cioè le affermazioni e le negazioni, possano essere vere, insieme, di
un medesimo soggetto.
5 Inoltre, se l’affermazione non è per nulla più vera della negazione,
chi dice di qualcosa “è un uomo” non sarà per nulla maggiormente nel
vero rispetto a chi dice “è non-uomo”. Ma può sembrare che chi dice
“l’uomo è non-cavallo” sia più nel vero, o, comunque, non sia meno nel
vero, rispetto a chi dice “l’uomo è non-uomo”. Conseguentemente, sarà
nel vero anche colui che dice “l’uomo è un cavallo”, dato che si era af-
fermato che i contraddittori sono entrambi ugualmente veri. Risulta, al-
lora, che la medesima cosa è uomo e cavallo e qualsiasi altro animale.
6 Dunque, di questi principi non c’è alcuna dimostrazione vera e
propria; c’è, invece, una dimostrazione che confuta colui che sostiene
queste teorie. Ed è probabile che, se si fosse interrogato in questo modo
lo stesso Eraclito. egli sarebbe stato costretto ad ammettere che non è
mai possibile che le proposizioni contraddittorie siano vere insieme, ri-
spetto alle medesime cose. Egli abbracciò questa dottrina senza darsi
ragione di ciò che diceva. E, in generale, se fosse vero ciò che egli dice,
allora non potrebbe più essere vera neppure questa sua stessa afferma-
zione, cioè che la medesima cosa in un solo e medesimo tempo può esse-
re e non essere. Infatti, così come l’affermazione e la negazione, se sono
separate fra loro, non sono una più vera dell’altra, lo stesso vale anche
se sono prese insieme e se sono considerate come costituenti una affer-
209
mazione unica: questo insieme preso come affermazione non sarà per
nulla più vero che la negazione dello stesso insieme.
7 Infine, se non è possibile affermare nulla di vero, allora sarà falsa
anche questa affermazione: sarà cioè falso il dire che non esiste alcuna
affermazione vera. Se, invece, esiste una affermazione vera, allora si po-
trà confutare la dottrina di coloro che sollevano obiezioni di questo ge-
nere e che distruggono interamente la possibilità del ragionamento.
[...]
8 In generale, poi, è assurdo voler giudicare della verità partendo
dal fatto che le cose di quaggiù sono soggette a mutamento e non per-
mangono mai nelle medesime condizioni: infatti, bisogna perseguire il
vero partendo da quegli esseri che si trovano sempre nelle stesse condi-
zioni e che non sono passibili di alcun mutamento, quali sono, ad esem-
pio, i corpi celesti. Questi, infatti, non appaiono talora con determinati
caratteri e talaltra con caratteri diversi, ma sono sempre identici e non
sono suscettibili di alcun mutamento.
9 Inoltre, se esiste movimento, esiste anche qualcosa che è mosso.
Ora, ogni cosa che si muove parte da qualcosa e tende verso qualcosa:
bisogna, dunque, che ciò che è mosso, prima, si trovi in ciò a partire dal
quale sarà mosso, e, successivamente, non si trovi più in esso e si muova
verso altro e venga a trovarsi in questo. Dunque, le affermazioni con-
traddittorie intorno alle cose in movimento non potranno essere vere ad
un tempo, come vorrebbero quei pensatori.
[...]
10 Dunque, risulta evidente da tutte queste cose che è impossibile
che le affermazioni contraddittorie riguardo al medesimo oggetto e nel
medesimo tempo siano vere; e neppure possono essere veri i contrari,
perché in ogni contrarietà un termine è privazione dell’altro, il che risul-
ta chiaro se si riportano al loro principio le nozioni dei contrari.
11 E similmente non è neppure possibile predicare alcuno dei ter-
mini intermedi (insieme ad uno dei contrari) di un solo e medesimo og-
getto. Infatti, se l’oggetto è bianco, saremo nel falso affermando che esso
non è né bianco né nero: in tal caso, lo stesso oggetto risulterebbe essere
ad un tempo bianco e non-bianco, perché verrebbe ad essere vero di es-
so anche uno dei termini che forma l’espressione composta che indica il
210
medio, (né bianco, né nero), il qual termine è, appunto, il contraddittorio
del bianco.
12 Dunque, non possono essere nel vero né coloro che condividono
l’opinione di Eraclito, né coloro che condividono l’opinione di Anassago-
ra, altrimenti si verrebbero ad affermare i contrari del medesimo sog-
getto. Infatti, quando Anassagora dice che tutto è in tutto, dice che nulla
è dolce più che non amaro, o che qualsivoglia degli altri contrari, se è ve-
ro che tutto è in tutto non solo in potenza, ma in atto ed in modo distin-
to. Nello stesso modo, non è neppure possibile che le affermazioni siano
tutte false o tutte vere: e non è possibile, oltre che a causa di numerose
altre difficoltà che ne conseguono, anche perché, se tutte le affermazioni
sono false, neppure chi afferma questo potrà dire il vero, e se invece tut-
te le affermazioni sono vere, chi dice che tutte le affermazioni sono false
non dirà il falso94.
211
Sostanza e sostrato
212
Atto e potenza
Aristotele pone la distinzione fra ciò che ha il principio della sua generazione fuori di
sé e ciò che lo ha in sé. Il concetto di atto (dal latino actus; le parole che usa Aristotele sono
enérgheia ed entelécheia) è fondamentale nella definizione aristotelica del movimento e
del divenire: esso indica ciò che è, con determinate caratteristiche, nel presente: il foglio
che ho davanti in questo momento, è, in atto, la pagina di un libro. Ma questa pagina nel
passato era qualcosa di diverso (un foglio di carta nella tipografia o, prima ancora, un al-
bero) che comunque poteva diventare una pagina: era una pagina in potenza. Riferito ad
albero o a foglio, cioè nel momento in cui indica qualcosa di definito che è nel presente, atto
traduce il termine entelécheia. Ma c’è un momento, durante la lavorazione in tipografia, in
cui la carta è trasformata in pagina: anche per questa fase di trasformazione si può parla-
re di atto (proprio nel senso di azione), che fa diventare un foglio di carta una pagina di
libro; con questo significato atto traduce il termine aristotelico enérgheia. Nella trasfor-
mazione, nel divenire o nel muoversi di qualsiasi ente si possono quindi schematicamente
individuare tre momenti: a) quando la trasformazione è possibile ma non avviene (la carta
nel magazzino del tipografo); b) quando la trasformazione avviene (la lavorazione della
pagina da parte del tipografo); c) quando la trasformazione è avvenuta (la pagina realiz-
zata all’interno del libro). Il momento a) corrisponde alla potenza, il momento b) e il mo-
mento c) corrispondono all’atto; ma in b) si tratta di enérgheia, in c) di entelécheia.
1 [1049a] [...] Per quanto concerne le cose che dipendono dalla ra-
gione, la questione può così definirsi: esse passano dall’essere in poten-
za all’essere in atto, quando siano volute e non intervengano ostacoli dal
di fuori; nel caso, poi, di colui che deve essere guarito, quando non ci
siano impedimenti interni. E diremo che anche una casa è potenza allo
stesso modo: quando negli elementi materiali non ci sia nulla che ad essi
impedisca di diventare casa, e quando non vi sia più nulla che ad essi si
debba ulteriormente aggiungere o togliere o mutare, allora si ha la casa
in potenza. Così dovrà dirsi per tutti gli altri casi, in cui il principio della
generazione proviene dal di fuori.
2 Le cose, invece, che hanno in sé il principio della generazione sa-
ranno in potenza per virtù propria, quando non vi siano impedimenti
provenienti dall’esterno. Lo sperma, ad esempio, non è ancora l’uomo in
potenza, perché deve essere deposto in altro essere e subire mutamen-
to; invece quando, in virtù del principio suo proprio, sia già passato in
213
tale stadio, allora esso sarà l’uomo in potenza: nel precedente stadio es-
so ha bisogno di un altro principio. Così, per esempio, la terra non è an-
cora la statua in potenza, essa deve, prima, mutare per diventare bronzo.
3 Quando diciamo che un essere non è una determinata cosa ma
“fatto di una certa cosa” (per esempio, l’armadio non è legno, ma è fatto
di legno, né il legno è terra, ma fatto di terra, e, a sua volta, la terra, se
deriva in questo modo da altro, non è quest’altro, ma fatta di
quest’altro), appare evidente che quest’ultimo termine è sempre in po-
tenza, in senso proprio, quello che immediatamente segue. Per esempio,
l’armadio non è fatto di terra, né è terra, ma è di legno; il legno è, infatti,
armadio in potenza, e come tale è materia dell’armadio, ed il legno in
generale è materia dell’armadio in generale, mentre di questo dato ar-
madio è materia questo dato legno. E se c’è qualcosa di originario che
non possa più riferirsi ad altro come fatto di quest’altro, allora questo
sarà la materia prima. Per esempio, se la terra è fatta di aria e se l’aria
non è fuoco, ma fatta di fuoco, il fuoco sarà la materia prima, la quale
non è un alcunché di determinato96.
214
La dottrina delle quattro cause e i vari significati del termine
“causa”
Come abbiamo visto, per Aristotele la “filosofia prima” studia l’essere in quanto ta-
le, cioè ne ricerca le cause intime. Soffermiamo ora la nostra attenzione sul concetto di
causa definendo anche quali esse siano. Il primo significato di causa è quello legato alla
materialità dell’oggetto, al “questo qui” come punto di partenza del conoscere; la causa
materiale è così ciò di cui un oggetto è fatto. Ma senza l’idea che informi quell’oggetto,
esso sarebbe una cosa non definita; ecco allora il secondo significato di causa che è l’idea
presente nell’oggetto, l’idea di sedia che informa la sedia e la rende tale (la forma o causa
formale)97.
E come la materia senza la forma sarebbe un niente informale, la forma senza la
materia sarebbe un contenitore vuoto; l’individuo, per essere tale, ha bisogno e dell’idea
che informa oggetto e della materia che deve essere informata da quello; causa materiale
e causa formale possono essere isolate solo nel pensiero come momento logico e non
reale. Il terzo significato è ciò che noi normalmente intendiamo per causa quando la le-
ghiamo al suo effetto; è cioè la causa da cui nasce un certo fatto, un certo effetto, un certo
mutamento (causa efficiente). L’ultimo significato di causa è la causa finale cui tende, ad
esempio, ogni nostra azione.
Leggiamo a questo proposito tre passi presi da due opere diverse di Aristotele.
215
come in generale chi fa è causa del fatto, chi muta del mutato. Inoltre, la
causa è come fine ed è questa la causa finale, come del passeggiare è la
salute. Se ci si domanda, infatti: “perché quel tale passeggia?” noi ri-
spondiamo: “per star bene”: e così dicendo noi crediamo di aver data la
causa. E della causa finale fan parte tutte le altre cose le quali, anche se
mosse da altri, si trovano in mezzo tra il motore e il fine, come per la sa-
lute il dimagrire o il purgante o i farmaci o gli attrezzi ginnici: tutte que-
ste cose sono in virtù del fine e differiscono tra loro solo in quanto alcu-
ne sono azioni altre sono strumenti98.
98 - Fisica 11. 3, 194 b 16 - 195 a 25, trad. A. Russo, Laterza, Bari 1973
99 Aristotele, Metafisica. I, 983a. 23-983h. trad. Russo
216
scopo del passeggiare è la salute. Infatti, per quale ragione uno passeg-
gia? Rispondiamo: per essere sano. E, dicendo così, noi riteniamo di aver
dedotto la causa del suo passeggiare. E lo stesso si dica di tutte quelle
cose che sono mosse da altro e sono intermediarie fra il motore e il fine:
per esempio, il dimagrire, il purgarsi, le medicine, gli strumenti medici
sono tutte quante cause della salute: tutte, infatti, sono in funzione del
fine e differiscono tra loro in quanto sono, alcune, strumenti, altre, azi-
oni. Questi sono, probabilmente, tutti i significati di causa. E, appunto
perché causa si intende in molteplici significati, ne viene di conseguenza
che ci siano molte cause del medesimo oggetto, e non per accidente: per
esempio, sono cause della statua sia l’arte dello scolpire sia il bronzo, e
non della statua considerata secondo differenti aspetti, ma proprio in
quanto statua; esse non sono, tuttavia, cause nello stesso modo, ma una
è causa come materia, l’altra, invece, come principio del movimento. E
ne viene di conseguenza, anche, che ci siano cause reciproche: l’esercizio
fisico, per esempio, è causa di vigoria e questa è causa di quello: non,
però, nello stesso modo, ma la vigoria è causa in quanto fine, l’altro, in-
vece, come principio di movimento. Inoltre, una medesima cosa può
essere causa dei contrari: infatti, ciò che, con la sua presenza, è causa di
una determinata cosa, diciamo, talvolta, che, con la sua assenza, è causa
del contrario: l’assenza del pilota, per esempio, è causa del naufragio; la
presenza di lui, invece, è causa della salvezza. Ambedue poi - e la pre-
senza e l’assenza - sono cause motrici. Le cause di cui abbiamo detto si
riducono tutte a quattro tipi100.
100 Aristotele, Metafisica V, 1013a - 1013b, trad. G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1993
217
Dio è pensiero di pensiero (nóesis noéseos)
219
FISICA
Il movimento naturale
Siamo di fronte ad un altro esempio di come Aristotele tenda ad orientare la ricerca
scientifica verso gli schemi propri della metafisica. L’antiperístasis sarebbe il fenomeno
della compressione dell’aria intorno all’oggetto da parte dell’oggetto stesso in movimen-
to.
Laddove v’è infinito, infatti, non vi sarà alto né basso né centro, lad-
dove vi è vuoto, per nulla l’alto differirà dal basso, poiché, come non vi è
alcuna differenza del nulla, così anche non ve n’è alcuna del non-essere:
ed il vuoto sembra essere un non-essere ed una privazione; ma il tra-
sporto naturale comporta delle differenze; sicché anche le cose che si
muovono per natura comporteranno delle differenze. Quindi, o non vi è
trasporto naturale per nessuna cosa in alcun luogo, o, se vi è, non esiste
vuoto. Inoltre i corpi lanciati si muovono, quando chi li ha lanciati non li
tocca più, o per antiperístasis, come taluni dicono, o perché l’aria spinta
spinge con movimento più celere di quello del trasporto del corpo spin-
to, da cui è trasportato verso il luogo suo proprio. Invece nel vuoto non è
possibile che avvenga nulla di simile, e nulla potrà essere trasportato, se
non come ciò che è trasportato a mezzo di un veicolo.102
220
Movimento circolare e movimento rettilineo
222
Il Primo motore immobile come spiegazione del movimento
fisico
[241b] È necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da qual-
cosa; difatti se non ha in sé il principio del movimento, è evidente che è
mosso da altro, poiché un altro sarà il motore; se invece l’ha in sé, si
prenda AB, che si muova per se stesso, ma non perché si muova una
delle sue parti. Per prima cosa dunque il supporre che AB sia mosso da
se stesso perché è mosso tutto intero e da nulla di esterno è lo stesso
che se si negasse, qualora KL muovesse LM e fosse esso stesso mosso,
che KM sia mosso da qualcosa perché non risulta evidente quale è il
motore e quale il mosso. Inoltre ciò che non è mosso da qualcosa non è
necessario che cessi di esser mosso perché un’altra cosa è in quiete;
[242a] ma se una cosa è in quiete perché un’altra ha cessato di esser
mossa, è necessario che essa sia mossa da qualcosa.
Ma, poiché è necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da
qualcosa, se una cosa è mossa di movimento locale da un’altra che a
sua volta sia mossa, e il motore a sua volta è mosso da un altro
223
anch’esso mosso e questo da un altro, e così di seguito, è necessario che
vi sia un primo motore e che non si proceda all’infinito. Si ammetta in-
fatti che non sia così, ma che il procedimento divenga infinito. Sia A
mosso da B, B da C, C da D e sempre il contiguo dal contiguo. Poiché si
suppone che il motore muova perché mosso, è necessario che il movi-
mento del mosso e quello del motore avvengano contemporaneamen-
te; infatti contemporaneamente il movente muove e il mosso vien mos-
so. È evidente che sarà contemporaneo il movimento di A, di B, di C e di
ciascuno dei motori e dei mossi. Si prenda ora il movimento di ciascuno
e sia E quello di A, F quello di B, G e H quelli di C e D; difatti se ciascuno
è mosso sempre da ciascuno, tuttavia si potrà nondimeno prendere il
movimento di ciascuno come uno numericamente; poiché ogni movi-
mento procede da un termine ad un altro e non è infinito nelle estremi-
tà. Dico pertanto che è uno numericamente un movimento che si effet-
tua da ciò che è identico in ciò che è identico numericamente nel tempo
identico numericamente. Un movimento infatti può essere identico per
genere, per specie e per numero: è identico per genere quello che ap-
partiene alla medesima categoria, ad esempio, di sostanza o di qualità;
per specie quello che va dall’identico per la specie all’identico per la
specie, ad esempio, dal bianco al nero o dal buono al cattivo, qualora
non sia differente per la specie; per numero quello che va da ciò che è
uno per il numero a ciò che è uno per il numero nel medesimo tempo,
ad esempio, da questo bianco a quel nero oppure da questo luogo a
quel luogo in questo tempo; difatti se fosse in un altro tempo, il movi-
mento non sarebbe più uno per numero, bensí per specie104.
104 Aristotele, La Fisica, Loffredo, Napoli, 1967, pagg. 179-181 – rif. Fisica, 241b 20-242b
5.
224
PSICOLOGIA
225
mente da quella sensitiva. A sua volta senza il tatto non è presente nes-
sun altro senso, mentre esso esiste senza gli altri, poiché molti animali
non possiedono né la vista né l’udito né la percezione dell’odore. Tra gli
esseri, poi, capaci di sensazione, alcuni hanno la facoltà locomotoria ed
altri no. Pochissimi, infine, possiedono la ragione e il pensiero. Difatti gli
esseri corruttibili dotati di ragione hanno anche tutte le altre facoltà,
mentre non tutti coloro che possiedono una di questa facoltà hanno la
ragione; anzi alcuni non possiedono neppure l’immaginazione, mentre
altri vivono soltanto con questa. L’intelletto teoretico esige però un altro
discorso. È chiaro, pertanto, che la trattazione di ciascuna di questa fa-
coltà è la più appropriata per la conoscenza dell’anima.
[...]
105 Aristotele, De anima, 414a 30-414b 14; 415a 2-14; 428b 18-24 (Þ pag. 128)
226
ETICA
1 [1095b] [...] Infatti dai loro modi di vivere non a torto il volgo e le
persone rozze sembrano concepire il bene e la felicità come il piacere.
Per questo essi amano la vita che è dedita al godimento. Infatti tre sono
esattamente i principali generi di vita: quello che ora s’è detto, la vita po-
litica e, in terzo luogo, la vita contemplativa.
2 Ebbene, la massa si mostra del tutto simile agli schiavi, scegliendo
una vita propria degli animali; tuttavia trova una giustificazione per il
fatto che molti di coloro che rivestono cariche direttive hanno gusti u-
guali a Sardanapalo.
3 Le persone raffinate e portate ad agire prediligono invece l’onore;
infatti è ordinariamente questo il fine della vita politica. Ma risulta esse-
re una cosa più superficiale di ciò che cerchiamo. Infatti è opinione co-
mune che esso dipende più da coloro che onorano che da chi è onorato,
invece noi presentiamo che il bene è qualcosa di personale e di difficil-
mente perdibile. Inoltre gli uomini sembrano perseguire l’onore per a-
vere motivo di credere che essi sono persone dabbene. E difatti cercano
di essere onorati dalle persone sagge, e presso coloro dai quali sono co-
nosciuti, e per la loro virtù. Dunque è chiaro che almeno secondo questi
uomini la virtù è superiore.
4 Forse allora si potrebbe supporre che questa piuttosto costituisce
il fine della vita politica. Ma anche questa risulta troppo poco perfetta.
Infatti ad avviso di tutti è anche possibile che una persona che possiede
la virtù dorma o resti inattiva nel corso della vita, e che oltre a ciò pati-
sca mali ed abbia in sorte le sventure più grandi. [1096a] E chi vive in
questo modo nessuno direbbe felice, se non per voler sostenere a tutti i
costi la propria tesi.
227
5 Ma intorno a questi generi di vita basti così: di essi infatti si è det-
to a sufficienza anche nei trattati dati a pubblica conoscenza. Il terzo è la
vita contemplativa, intorno alla quale faremo la ricerca in seguito.
6 La vita di lucro è una vita di costrizione e la ricchezza non è in tut-
ta evidenza il bene ricercato: infatti essa è soltanto una cosa utile ed un
mezzo in vista di altro. Per questo si potrebbe supporre che piuttosto i
beni precedentemente detti siano fini; infatti sono amati per se stessi.
Ma è evidente che non lo sono neppure quelli, anche se molti argomenti
sono stati diffusi in loro favore.
7 Si tralascino dunque questi beni.
8 [1097a] Ritorniamo di nuovo al bene che è l’oggetto della nostra
ricerca. Che cosa mai può essere? Infatti appare come una cosa in
un’azione e in un’arte, come un’altra in un’altra azione e in un’altra arte:
infatti è altro in medicina, in strategia e così di seguito nelle restanti arti.
Che cos’è dunque il bene di ciascuna? Non è forse ciò in vista del quale si
compie il resto? Questo in medicina è la salute, in strategia la vittoria, in
ingegneria la casa, in un’arte una cosa, in un’altra un’altra; ma in ogni
azione ed intenzione è il fine. Infatti è in vista di questo che tutti com-
piono il resto. Di conseguenza, se qualcosa è fine di tutto ciò che è ogget-
to d’azione, questo sarà il bene realizzabile nella prassi; e se vi sono più
cose, saranno queste.
9 Pertanto il discorso, passando da un’istanza all’altra, perviene allo
stesso risultato di partenza; ma questo risultato bisogna sforzarci di
chiarire ancora di più.
10 Poiché i fini sono manifestamente molteplici e di questi noi sce-
gliamo alcuni a motivo di altro (ad esempio la ricchezza, i flauti e in ge-
nerale gli strumenti), è evidente che non sono tutti perfetti; invece il be-
ne supremo è manifestamente qualcosa di perfetto. Di conseguenza, se
vi è un fine soltanto che è perfetto, questo sarà il bene che cerchiamo; se
sono molti, il più perfetto di questi.
11 Ciò che è degno di perseguirsi di per se stesso diciamo che è più
perfetto di ciò che lo è in ragione di altro; e ciò che non è mai sceglibile a
motivo di altro diciamo che è più perfetto delle cose che sono sceglibili
talvolta per se stesse, talvolta a motivo di quell’altro; e pertanto diciamo
che è perfetto in senso assoluto ciò che è sempre sceglibile per se stesso
e non mai a motivo di altro. Ora, una tale cosa tutti ritengono che è so-
228
prattutto la felicità. [1096b] Questa infatti noi scegliamo sempre per se
stessa e non mai a motivo di altro; invece l’onore, il piacere,
l’intelligenza ed ogni virtù li scegliamo sì anche per se stessi (infatti sce-
glieremmo ciascuno di essi anche se non ci pervenisse alcun vantaggio),
ma li scegliamo anche in vista della felicità, supponendo che mediante
essi saremo felici. Invece nessuno sceglie la felicità in vista di questi be-
ni, né, in generale, a motivo di altro.
12 In tutta evidenza la stessa conclusione deriva anche partendo
dall’autosufficienza: infatti – ad avviso comune – il bene perfetto è suffi-
ciente in sé. Intendiamo quello che è sufficiente in sé non per un indivi-
duo singolo, che viva una vita solitaria, ma anche per i suoi genitori, per i
suoi figli, per sua moglie e, in generale, per i suoi amici e per i concitta-
dini, poiché per natura l’uomo è un essere politico. Ma bisogna assumere
un limite di queste persone: infatti per chi le estende agli avi e ai discen-
denti e agli amici degli amici, si va all’infinito. Ma questo problema
dev’essere esaminato in seguito. Per il momento poniamo che ciò che è
sufficiente in se stesso è ciò che, pur essendo da solo, rende la vita sce-
glibile e non bisognosa di nulla; ora una cosa di questo genere noi rite-
niamo che è la felicità. Inoltre riteniamo che è la più degna di scelta di
tutte le cose senza che sia sommata ad altro – se poi fosse sommata, è
chiaro che sarebbe più degna di scelta in unione con il più piccolo dei
beni: infatti l’unione rende superiore la somma dei beni e, fra due beni,
quello più grande è sempre più degno di scelta. Pertanto la felicità è ma-
nifestamente alcunché di perfetto e di autosufficiente, essendo il fine
delle cose che sono oggetto d’azione106.
106Aristotele, Etica nicomachea, 1095b 14-1096a 10; 1097a 30-1097b 6, in Etica Nicoma-
chea, Rizzoli, Milano, 1986, vol. I, pagg. 93-95; pagg. 103-105
229
Che cos’è la virtù?
Per Aristotele la virtù è sempre “una via di mezzo”, ovvero prima di tutto il rifiuto
degli opposti estremismi.
230
tendo la virtù etica: questa infatti ha per oggetto le passioni e le azioni, e
in queste vi sono eccesso, difetto e il mezzo. Ad esempio, avere paura,
esser coraggiosi, desiderare, adirarsi, avere pietà, in generale provare
delle sensazioni e provare dolore ammettono un troppo e un poco, ed
ambedue non vanno bene. Ma provare queste passioni quando si deve e
nelle circostanze in cui si deve e verso le persone che si deve in vista del
fine che si deve e come si deve, è realizzabile il medio e al tempo stesso
l’eccellenza: il che è proprio della virtù.
6 Parimenti anche per ciò che concerne le azioni vi sono eccesso, di-
fetto ed il mezzo.
7 D’altronde la virtù ha per oggetto passioni ed azioni, nelle quali
l’eccesso costituisce un errore e il difetto è biasimato, mentre il mezzo è
lodato ed ha successo: e queste sono, ambedue, caratteristiche della vir-
tù. La virtù è dunque una sorta di medietà, perché appunto tende al
mezzo.
8 Inoltre, l’errare ha molte forme (infatti il male si trova nella co-
lonna dell’illimitato, come immaginavano i Pitagorici, mentre il bene in
quella del limitato), invece il riuscire ne ha una sola – per questo il pri-
mo è facile, il secondo è difficile: è facile fallire il bersaglio, ma è difficile
l’andare a segno. Anche per queste ragioni, dunque, l’eccesso e il difetto
sono propri del vizio, la medietà della virtù:
9 “Buoni infatti si è in un unico modo, cattivi in modi svariati ...”. [...]
10 La virtù è dunque una disposizione che orienta la scelta delibera-
ta, consistente in una via di mezzo rispetto a noi, determinata dalla rego-
la, vale a dire nel modo in cui la determinerebbe l’uomo saggio. È una
medietà tra due vizi, uno per eccesso e l’altro per difetto. E lo è, inoltre,
per il fatto che alcuni vizi difettano, altri eccedono ciò che si deve sia nel
campo delle passioni che delle azioni, mentre la virtù e ricerca e sceglie
deliberatamente il medio.
11 Perciò secondo la sua sostanza e la definizione che ne esprime
l’essenza la virtù è una medietà, ma secondo l’eccellenza e la perfezione
è un estremo.
12 Però non ogni azione né ogni passione ammette la via di mezzo:
per alcune infatti già il nome implica la malvagità, ad esempio la malevo-
lenza, l’impudenza, l’invidia e, nel caso delle azioni, l’adulterio, il furto,
l’omicidio. Infatti tutte queste passioni e azioni, e quelle del medesimo
231
genere, hanno quei nomi per il fatto di essere in se stesse cattive, non i
loro eccessi né i loro difetti107.
Aristotele, Etica Nicomachea, Rizzoli, Milano, 1986, vol. I, pagg. 163-167. Cfr. Etica ni-
107
232
Le virtù dianoetiche
108 Aristotele, Etica Nicomachea, Bur, Milano, 1986, vol. II, pagg. 587-591
234
La vita contemplativa avvicina l’uomo agli Dei
236
viso di tutti – per la serietà e non tende a nessun fine all’infuori di se
medesima, ed ha il suo proprio piacere (e questo incrementerà
l’attività); se infine l’autosufficienza, il tempo libero da occupazioni, la
mancanza di fatiche per quel che è possibile all’uomo, e tutti gli altri ca-
ratteri che si attribuiscono all’uomo beato sono, in tutta chiarezza, i ca-
ratteri che si realizzano secondo questa attività: ebbene, quest’ultima
sarà la felicità perfetta dell’uomo, quando prende la lunghezza completa
della vita. Infatti nessuna delle caratteristiche della felicità è incompleta.
13 Però una vita siffatta sarà superiore alla condizione dell’uomo:
infatti non è in quanto è uomo che vivrà in questo modo, ma in quanto in
lui è presente qualcosa di divino. E di quanto questo eccelle sul compo-
sto, di tanto anche la sua attività eccelle su quella secondo l’altra specie
di virtù. Di conseguenza, se l’intelletto è una cosa divina rispetto
all’uomo, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita
dell’uomo.
14 Non si deve dare ascolto a coloro che consigliano di porre mente,
essendo uomini, a cose umane e non, essendo mortali, a cose immortali,
ma, per quanto è possibile, si deve diventare immortale e compiere ogni
cosa per vivere in modo conforme a quella che, tra le cose che sono
nell’individuo, è la più alta. Seppure infatti essa è piccola per la massa,
per potenza e dignità è di gran lunga superiore a tutte le cose.
15 E si converrà anche che ciascun uomo è questa cosa, se è vero
che essa è l’elemento principale e migliore. Sarebbe dunque un assurdo
se l’uomo non si scegliesse la vita che ci è propria, ma quella di un altro
essere.
16 Quello che abbiamo detto più sopra s’adatterà anche qui: infatti
ciò che è proprio a ciascuno è per natura ciò che per ciascuno vi è di più
alto e di più piacevole. E per l’uomo, dunque, sarà la vita secondo
l’intelletto, se è vero che quest’elemento è soprattutto l’uomo. Di conse-
guenza questa vita è anche la più felice109.
109 Aristotele, Etica Nicomachea, Bur, Milano, 1986, vol. II, pagg. 861-869.
237
POLITICA
238
ciascuno di noi perché il tutto dev’essere necessariamente anteriore alla
parte: infatti, soppresso il tutto non ci sarà più né piede né mano se non
per analogia verbale, come se si dicesse una mano di pietra (tale sarà
senz’altro una volta distrutta): ora, tutte le cose sono definite dalla loro
funzione e capacità, sicché, quando non sono più tali, non si deve dire
che sono le stesse, bensì che hanno il medesimo nome. È evidente dun-
que e che lo stato esiste per natura e che è anteriore a ciascun individuo:
difatti, se non è autosufficiente, ogni individuo separato sarà nella stessa
condizione delle altre parti rispetto al tutto, e quindi chi non è in grado
di entrare nella comunità o per la sua autosufficienza non ne sente il bi-
sogno, non è parte dello stato, e di conseguenza è o bestia o dio111.
111 Aristotele, Politica, 1252b 28- 1253a 29 in Opere, Laterza, Bari, 1973, vol. IX, pagg. 6-7
239
L’uomo e la centralità della politica
240
suetudine con la politica. Per questo coloro che aspirano ad avere cono-
scenza della politica sembra che abbiano inoltre bisogno di esperienza.
6 Quelli dei Sofisti che lo professano, sono in tutta chiarezza molto
distanti dall’insegnare la politica, giacché in generale non sanno né qual
è la sua natura né quali sono i suoi oggetti. Infatti non la porrebbero i-
dentica alla retorica né ad un rango inferiore, né penserebbero che è co-
sa facile il legiferare, raccogliendo quelle leggi che hanno trovato
l’approvazione pubblica. Ché – essi dicono – è possibile scegliere le leggi
migliori, come se la scelta non fosse opera d’intelligenza ed il discernere
correttamente non fosse cosa di grandissima importanza, come avviene
nelle faccende di musica. Sono infatti i competenti che in ogni campo di-
scernono correttamente le opere e capiscono con quali mezzi e come
sono portate a perfezione, e quali s’accordano con quali persone. Invece
i non competenti devono esser già contenti del fatto che non sfugga loro
se l’opera è stata fatta bene o male, come nella pittura. Ora, le leggi as-
somigliano ad opere della politica. [1181b] Come dunque da queste si
potrebbe diventare esperti nella scienza del legislatore, o discernere
quelle che sono le migliori? Ché non risulta che neppure si diventa me-
dici dalle raccolte dei trattati. Eppure essi si sforzano di dire non soltan-
to i trattamenti terapeutici, ma anche come si guarisce e come si devono
curare le diverse specie di malati, distinguendo le differenti disposizioni.
Ma questi procedimenti – tutti ne convengono – sono utili per coloro che
sono competenti, mentre sono inutili per coloro che non sono compe-
tenti. Senza dubbio, dunque, anche le raccolte delle leggi e delle costitu-
zioni saranno ben utili per coloro che sono capaci di studiarle e di di-
scernere che cosa è buono e il contrario e quali prescrizioni sono adatte
a quali persone; ma a coloro che percorrono questo genere di raccolte
senza la disposizione richiesta non competerà il discernere bene, a me-
no che non sia per caso, ma verosimilmente diventeranno più capaci di
comprendere in questa materia.
7 Poiché dunque i nostri predecessori hanno lasciato inesplorato
ciò che concerne la scienza della legislazione, è senz’altro molto meglio
fare noi stessi questa ricerca, ed indagare dunque sul problema com-
plessivo del regime politico, perché, secondo le nostre capacità, sia por-
tata a compimento la filosofia delle cose dell’uomo. In primo luogo,
quindi, se da coloro che ci hanno preceduto qualcosa è stato in parte
241
detto bene, cercheremo di accostarcene. In seguito dalle costituzioni
che abbiamo raccolto cercheremo di vedere quali cose conservano e
rovinano le città e quali ciascun tipo di costituzione, e per quali cause
alcune città sono ben governate, altre il contrario. Infatti quando siano
state viste queste cose, forse comprenderemo meglio quale costituzio-
ne è la migliore, come ciascuna deve essere ordinata, di quali leggi e
costumi deve far uso112.
112 Aristotele, Etica Nicomachea, Bur, Milano, 1986, vol. II, pagg. 887-891
242
La schiavitù è un fatto naturale
244
ammetterebbero che gli altri meritano di essere loro schiavi: e se questo
è vero nei riguardi del corpo, tanto più giusto sarebbe porlo nei riguardi
dell’anima: invece non è ugualmente facile vedere la bellezza dell’anima
e quella del corpo. [1255a] Dunque, è evidente che taluni sono per natu-
ra liberi, altri schiavi, e che per costoro è giusto essere schiavi.
[...]
5 [1255a] [...] Tuttavia non è difficile vedere che quanti ammettono
il contrario in qualche modo dicono bene. “Schiavitù” e “schiavo” sono
presi in due sensi: c’è in realtà uno schiavo e una schiavitù anche secon-
do la legge e questa legge è un accordo per cui ciò che si è vinto in guer-
ra dicono appartenere al vincitore. Ora questo diritto molti giuristi accu-
sano d’illegalità come si accusa un oratore: essi trovano strano che, se
uno è in grado di esercitare violenza ed è superiore in forza, l’altro, la
vittima, sia schiavo e soggetto. E anche tra i dotti c’è chi la pensa in que-
sto modo, chi in quello.
[...]
6 [1255b] [...] È chiaro dunque che la discussione ha un certo motivo
e non sempre ci sono da una parte gli schiavi per natura, dall’altra i libe-
ri e che in certi casi la distinzione esiste e che allora agli uni giova
l’essere schiavi, agli altri l’essere padroni e gli uni devono obbedire, gli
altri esercitare quella forma di autorità a cui da natura sono stati dispo-
sti e quindi essere effettivamente padroni: al contrario esercitare male
l’autorità comporta un danno per tutt’e due (la parte e il tutto, come il
corpo e l’anima, hanno gli stessi interessi e lo schiavo è una parte del
padrone, è come se fosse una parte del corpo viva ma separata: per ciò
esiste un interesse, un’amicizia reciproca tra schiavo e padrone nel caso
che hanno meritato di essere tali da natura: quando invece tali rapporti
sono determinati non in questo modo, ma solo in forza della legge e del-
la violenza, è tutto il contrario113.
Aristotele, Politica, 1254a 8-1255a 2; 1255a 5-12; 1255b 5-15 in Opere, Laterza, Bari,
113
1973, vol. IX
245
I rapporti gerarchici sono naturali
114 Aristotele, Politica, 1253b 1-23 in Opere, Laterza, Bari, 1973, vol. IX, pag. 8
246
I suggerimenti per la costituzione della famiglia
[1335b] [...] Le donne incinte devono prendersi cura del corpo, sen-
za darsi all’inerzia né attenersi a una dieta scarsa: e questo il legislatore
lo può facilmente ottenere ordinando di fare ogni giorno una passeggia-
ta come atto di culto verso le dee che hanno avuto in sorte di presiedere
alla nascita. Ma lo spirito conviene che, al contrario del corpo, se ne ri-
manga in completa rilassatezza, perché i bambini sono evidentemente
influenzati dalla madre che li porta, come le piante dalla terra. Quanto
all’esposizione e all’allevamento dei piccoli nati sia legge di non allevare
nessun bimbo deforme, mentre le disposizioni consacrate dal costume
impongono di non esporne nessuno, a causa dell’eccessivo numero dei
figli: si deve però fissare un limite alla procreazione e se alcune coppie
sono feconde oltre tale limite, bisogna procurare l’aborto, prima che nel
feto siano sviluppate la sensibilità e la vita, perché è la sensibilità e la
vita che determinano la colpevolezza e la non colpevolezza dell’atto. E
dal momento che è stato definito e per l’uomo e per la donna quando
comincia l’età in cui devono dare inizio alla loro unione, si stabilisca pu-
re per quanto tempo conviene che servano lo stato nell’ufficio di prolifi-
care. I figli di chi è avanti negli anni, come di chi è giovane, vengono im-
perfetti e nel corpo e nello spirito; quelli di chi è vecchio vengono deboli.
Perciò tale periodo è in rapporto al massimo vigore della mente – e que-
sto nella maggior parte degli uomini, come han detto alcuni poeti che
misurano la vita in settenni, si ha intorno ai cinquanta anni. Per ciò chi
oltrepassa di quattro o cinque anni quest’età, conviene si astenga dal
metter al mondo figli: del resto, o per la salute, o per un altro motivo del
genere, deve apertamente ricorrere a tale unione. Quanto ai rapporti
con altra persona, donna o uomo, sia in ogni caso condannato chi ha a-
pertamente tali relazioni, per qualunque motivo, in qualunque modo,
finché permane il titolo di coniuge: se poi uno si mostri a far ciò durante
il tempo [1136a] riservato alla procreazione dei figli, sia punito con
l’atimia115 proporzionata alla colpa116.
Aristotele, Politica, 1335b 14- 1336a 1 in Opere, Laterza, Bari, 1973, vol. IX, pagg. 258-
116
259
247
LA LOGICA
Quali siano i significati delle parole? Da una parte esse sono “simboli” delle affezio-
ni che hanno luogo nell’anima, dall’altra sono “suoni di voce significativi per convenzio-
ne”.
1 [16a] Occorre stabilire, anzitutto, che cosa sia nome e che cosa sia
verbo, in seguito, che cosa sia negazione, affermazione, giudizio e di-
scorso.
2 Ordunque, i suoni della voce sono simboli delle affezioni che han-
no luogo nell’anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce.
Allo stesso modo poi che le lettere non sono le medesime per tutti, così
neppure i suoni sono i medesimi; tuttavia, suoni e lettere risultano se-
gni, anzitutto, delle affezioni dell’anima, che sono le medesime per tutti e
costituiscono le immagini di oggetti, già identici per tutti. Orbene, di
questi argomenti si è parlato nei libri che riguardano l’anima: essi ap-
partengono infatti ad una disciplina differente. D’altro canto, come
nell’anima talvolta sussiste una nozione, che prescinde dal vero o dal
falso, e talvolta invece sussiste qualcosa, cui spetta necessariamente o di
essere vero o di essere falso, così avviene pure per quanto si trova nel
suono della voce. In effetti, il falso ed il vero consistono nella congiun-
zione e nella separazione. In sé, i nomi ed i verbi assomigliano dunque
alle nozioni, quando queste non siano congiunte a nulla né separate da
nulla; essi sono ad esempio i termini uomo, o: bianco, quando manchi
una qualche precisazione, poiché in tal caso non sussiste ancora né falsi-
tà né verità. Ciò è provato dal fatto, ad esempio, che il termine becco-
cervo significa bensì qualcosa, ma non indica ancora alcunché di vero o
di falso, se non è stato aggiunto l’essere oppure il non essere, con una
determinazione assoluta o temporale.
3 Il nome è così suono della voce, significativo per convenzione, il
248
quale prescinde dal tempo ed in cui nessuna parte è significativa, se con-
siderata separatamente117.
117 Aristotele, De interpretatione, 16a 1-20, in Organon, Laterza, Bari, 1984, vol. I, pag. 57-
58
249
Sapere epistemico e sapere noetico (Analitici secondi)
[100a] [...] Questo è stato già detto da noi or ora, ma non in modo
chiaro, e val la pena di ripeterlo ancora. In realtà, quando un solo ogget-
to, cui non possono applicarsi differenze, si arresta in noi, allora per la
prima volta si presenta nell’anima l’universale (poiché si percepisce
bensì l’oggetto singolo, ma la sensazione si rivolge all’universale, per e-
sempio, all’uomo, non già all’uomo Callia); [100b] poi rispetto a questi
oggetti si verifica in noi un ulteriore acquietarsi, sino a che nell’anima si
arrestano gli oggetti che non hanno parti e gli universali. Ad esempio,
partendo da un certo animale, si procede sino all’animale, e poi rispetto
a quest’ultimo avviene lo stesso. È dunque evidentemente necessario
che noi giungiamo a far conoscere gli elementi primi con l’induzione. In
effetti, già la sensazione produce a questo modo l’universale. Ora, tra i
possessi che riguardano il pensiero e con i quali cogliamo la verità, alcu-
ni risultano sempre veraci, altri invece possono accogliere l’errore; tra
questi ultimi sono, ad esempio, l’opinione e il ragionamento, mentre i
possessi sempre veraci sono la scienza e l’intuizione, e non sussiste al-
cun altro genere di conoscenza superiore alla scienza, all’infuori
dell’intuizione. Ciò posto, e dato che i principi risultano più evidenti del-
le dimostrazioni, e che, d’altro canto, ogni scienza si presenta congiunta
alla ragione discorsiva, in tal caso i principi non saranno oggetto di
scienza; e poiché non può sussistere nulla di più verace della scienza, se
non l’intuizione, sarà invece l’intuizione ad avere come oggetto i princi-
pi. Tutto ciò risulta provato, tanto se si considerano gli argomenti che
precedono, quanto dal fatto che il principio della dimostrazione non è
250
una dimostrazione: di conseguenza, neppure il principio della scienza
risulterà una scienza. E allora, se oltre alla scienza non possediamo al-
cun altro genere di conoscenza verace, l’intuizione dovrà essere il prin-
cipio della scienza. Così, da un lato l’intuizione risulterà il principio del
principio, e d’altro lato la scienza nel suo complesso sarà in questo stes-
so rapporto rispetto alla totalità degli oggetti118.
251
Induzione e deduzione (Analitici secondi)
Nella conoscenza sono importanti sia il processo induttivo, che parte dalle sensa-
zioni e tende all’universale, sia il processo deduttivo, che segue il procedimento inverso
e si fonda sulla dimostrazione.
252
I tre usi della dialettica (Topici)
Nei "Topici" Aristotele distingue tre diversi usi della dialettica: 1) la dialettica è
strumento utile ad esercitare la mente al ragionamento; 2) è utile a dialogare con gli al-
tri; 3) è utile alla ricerca filosofica.
253
più facilmente. In questo tipo di ragionamento, infatti, la natura
dell’inganno è subito chiara con grande evidenza se si è in grado di os-
servare le cose con finezza. Delle due forme qui distinte possiamo chia-
mare la prima deduzione eristica, ma allo stesso tempo anche deduzione
dialettica vera e propria, mentre chiameremo la seconda deduzione eri-
stica, ma non anche deduzione dialettica, perché sembra esserlo ma non
lo è affatto. Ai diversi tipi di ragionamenti deduttivi che abbiamo indica-
to è necessario aggiungere i paralogismi, che sono forme di ragionamen-
to proprie di determinate scienze, per esempio della geometria o delle
discipline dello stesso tipo. I paralogismi sono ragionamenti ben distinti
da quelli che abbiamo prima descritto perché chi ragiona a partire da
una figura che contiene un errore non parte né da affermazioni vere e
prime né da endossa (il suo punto di partenza è diverso: non parte da
opinioni condivise da tutti gli uomini, o quasi da tutti, o da coloro che
consideriamo più autorevoli e, tra questi ultimi, condivise da tutti o qua-
si, o da coloro di cui abbiamo ragione di fidarci di più). Nel suo ragiona-
mento parte piuttosto da considerazioni che sono proprie delle scienze
considerate; solo che si tratta di considerazioni errate. Infatti, tracciando
dei semicerchi in modo sbagliato, o disegnando delle linee in modo di-
verso da come si dovrebbe, si finisce col fare dei paralogismi. Sono que-
sti quindi, per sommi capi, i vari tipi di ragionamento deduttivo. Dob-
biamo subito osservare che, per tutte le distinzioni che abbiamo fatto,
come per quelle che faremo in seguito, approfondiremo il discorso fino
al punto in cui lo abbiamo fatto fin qui, poi ci fermeremo e non andremo
oltre: il nostro obiettivo, infatti, non è di dare per ciascuno degli oggetti
delle nostre distinzioni una descrizione rigorosa e del tutto esatta; vo-
gliamo soltanto presentarle sommariamente, perché pensiamo che que-
sto sia ampiamente sufficiente. L’obiettivo che vogliamo raggiungere,
infatti, è che si possa riconoscere subito di che tipo di ragionamento si
tratta. Dopo quanto abbiamo detto, sarà bene indicare il numero e la na-
tura dei vantaggi che è legittimo attendersi dal presente trattato. Ora, la
dialettica consente di fare bene tre cose: tenere la mente in esercizio,
dialogare con gli altri, fare ricerca filosofica. Che la dialettica possa ser-
vire a tenere la mente in esercizio deriva dalla sua natura: infatti, una
volta imparato il metodo, possiamo più facilmente ragionare su qualsiasi
argomento ci si presenti. E’ utile per dialogare con gli altri perché ci
254
rende capaci di conoscere a fondo le opinioni degli uomini: e così quan-
do parleremo con le altre persone per convincerle a rinunciare ad af-
fermazioni che ci sembrano del tutto inaccettabili, non partiremo da
convinzioni che sono loro estranee, ma partiremo proprio dalle loro ide-
e. Che la dialettica sia utile per fare ricerca filosofica deriva da questo,
che con essa diveniamo capaci di mettere in luce una aporia argomen-
tando in una direzione e nell’altra, e saremo quindi in grado di distin-
guere su ciascun argomento il vero e il falso. La dialettica, poi, può es-
serci di utilità anche in un’altra cosa, a proposito delle nozioni prime di
ciascuna scienza. E’ impossibile infatti dire su che cosa si fondino i prin-
cipi specifici di una scienza che vogliamo studiare, perché i principi sono
proprio ciò che viene prima di ogni altra cosa per quella scienza: devono
quindi essere definiti a partire dagli endossa. Questo compito è proprio
della dialettica, o almeno è soprattutto della dialettica: infatti la sua vo-
cazione alla ricerca la rende adatta a studiare i principi di tutte le scien-
ze. Ci saremo pienamente impadroniti del metodo quando ne avremo la
stessa padronanza che altri hanno della retorica, della medicina e delle
altre scienze. Non possiamo infatti dire che l’oratore convince sempre il
suo pubblico, e neppure che il medico guarisce sempre l’ammalato: ma
se l’oratore e il medico hanno fatto tutto quello che potevano fare con i
mezzi a loro disposizione, possiamo certamente dire che essi hanno il
pieno possesso del sapere della loro arte. Per prima cosa, adesso, dob-
biamo esaminare quali sono gli elementi costitutivi del nostro metodo.
Se potremo conoscere il numero e la natura degli oggetti su cui è possi-
bile costruire i nostri ragionamenti e identificare i loro elementi costitu-
tivi; se potremo imparare come si fa a non essere mai a corto di argo-
mentazioni; allora potremo considerare davvero concluso il nostro pro-
gramma di lavoro. Ora, c’è una identità di numero e di natura tra gli e-
lementi costitutivi dei ragionamenti e gli oggetti propri delle deduzioni
dialettiche. Infatti gli elementi costitutivi del ragionamento sono le pre-
messe, mentre gli oggetti sui quali vertono le deduzioni sono i problemi.
Ogni premessa, come ogni problema, mostra o il genere, o il proprio o un
accidente (non aggiungiamo la differenza, perché essendo di natura ge-
nerica deve essere compresa nel genere). Ma poiché accade talvolta che
il proprio esprima ciò che conta dell’essenza di un oggetto, e talvolta ac-
cade che non la esprima, dividiamo il proprio nelle due parti corrispon-
255
denti e lo chiamiamo "definizione" quando esprime l’essenza, mentre
nell’altro caso lo chiamiamo semplicemente "proprio", in generale. A
causa di queste considerazioni, è chiaro che le distinzioni che stiamo fa-
cendo portano a quattro termini in tutto: proprio, definizione, genere,
accidente. Tuttavia attenzione: noi non sosteniamo che ciascuno di que-
sti quattro termini costituisca in sé una premessa o un problema; dicia-
mo soltanto che è all’origine dei problemi e delle premesse. Tra un pro-
blema e una premessa c’è una differenza nel modo in cui li esprimiamo.
Infatti se si dice: "Animale terrestre bipede è la definizione dell’uomo?",
oppure: "L’essere animale è il genere dell’uomo?" questa è una premes-
sa; ma se si dice: "Possiamo o no dire che animale terrestre bipede sia
una definizione dell’uomo?" allora è un problema; e così è per casi ana-
loghi. Per conseguenza è del tutto ovvio che problemi e premesse siano
in numero uguale, perché da ogni premessa si può formare un problema,
sostituendo semplicemente una espressione con un’altra. (…) Comin-
ciamo quindi col determinare che cos’è una premessa dialettica e che
cos’è un problema dialettico. Sarebbe un errore, infatti, considerare ogni
premessa e ogni problema come dialettici; infatti nessuna persona ra-
gionevole proporrebbe come premessa un’opinione universalmente ri-
fiutata, e non porrebbe come problema una questione perfettamente
chiara per tutti; in quest’ultimo caso non c’è alcuna ragione di dubbio e
nel caso precedente non c’è nessun motivo di far quella scelta. Una pre-
messa dialettica nasce dal mettere in forma interrogativa un’idea am-
messa da tutti, o da quasi tutti o da coloro che rappresentano l’opinione
più accreditata, e di questi ultimi l’opinione di tutti o di quasi tutti, o dei
più noti; ma non deve essere un paradosso; infatti un’idea che fa parte di
una opinione condivisa ha tutte le possibilità di essere accolta sempre
che non contraddica l’opinione comune. Sono ancora premesse dialetti-
che gli enunciati che somigliano alle idee accolte; lo sono anche quelle
contrarie alle idee accolte, ma in forma negativa; lo sono infine tutte le
opinioni in accordo con le scienze e le tecniche ben consolidate. ( …) Si
presenterà poi come un’idea egualmente accolta, per comparazione con
un enunciato dato, quella che enuncia il contrario a proposito del con-
trario: per esempio, se bisogna trattare bene i propri amici, bisogna trat-
tare male i propri nemici. C’è però apparentemente un contrasto tra il
trattare bene i propri amici e il trattare male i propri nemici; ma se si dà
256
veramente questo caso o no, lo diremo quando tratteremo espressamen-
te dei contrari. E’ chiaro infine che tutte le opinioni in accordo con le
scienze e le tecniche sono delle premesse dialettiche perché le opinioni
di coloro che hanno studiato queste materie hanno ogni possibilità di
essere accettate, per esempio quelle dei medici in materia di medicina,
quelle dei geometri in materia di geometria e così gli altri." Un problema
dialettico è una questione il cui obiettivo può essere sia l’alternativa pra-
tica tra la scelta e un rifiuto, sia l’acquisizione di una verità e di una co-
noscenza; una questione che sia tale sia in se stessa, sia come mezzo che
permetta di risolvere una questione distinta da essa, nell’uno o nell’altro
di questo generi; una questione, infine, che tratti un argomento su cui
non ci sono opinioni in un senso o nell’altro, o su cui l’opinione media
contraddica l’opinione più qualificata, o in cui l’opinione più qualificata
contraddica l’opinione media o in cui ciascuna delle due sia in se stessa
contraddittoria. Alcuni problemi infatti è utile risolverli soprattutto per
sapere se vanno presi o lasciati, per esempio il problema di sapere se il
piacere deve o no essere scelto; altri sono utili a fini di pura conoscenza
come sapere se il mondo è eterno o no. Altri ancora non hanno in sé nes-
suno di questi due caratteri, ma sono degli strumenti che permettono di
risolvere problemi di un tipo o dell’altro; e infatti vi sono cose che noi
speriamo di conoscere non in se stesse ma in vista di altro, per conosce-
re altre cose grazie ad esse. Sono problemi dialettici anche le questioni
sulle quali esistono argomentazioni deduttive di segno opposto (si esita
allora a rispondere mediante un’affermazione o una negazione perché
esistono per entrambi delle argomentazioni persuasive); poi vi sono le
questioni a proposito delle quali non abbiamo argomenti da dare, tanto
sono vasti, e su cui riteniamo difficile motivare le nostre scelte, per e-
sempio sapere se il mondo è eterno o no; argomenti di questo genere
possono diventare l’oggetto di una ricerca. Diamo dunque per acquisite
le definizioni che abbiamo appena dato sui problemi e le premesse. La
tesi dialettica Una tesi è un pensiero paradossale, sostenuto da qualche
filosofo molto noto: per esempio, che è impossibile contraddire, come ha
detto Antistene, o che tutte le cose sono in movimento, come dice Eracli-
to, o che l’essere è uno, come dice Melisso (va notato che se fosse il pri-
mo venuto a proporre paradossi simili sarebbe assurdo prestarvi atten-
zione); sono tesi anche gli enunciati paradossali in favore dei quali di-
257
sponiamo di una argomentazione, per esempio quello che dichiara falso
che tutto ciò che è deve necessariamente o essere divenuto, o essere e-
terno, come hanno sostenuto i sofisti; infatti se uno è grammatico ed è
anche musicista non è né divenuto né eterno; ecco una conclusione che
alcuni rifiutano, ma che ha dei numeri per essere accettata, perché ha un
argomento a suo favore. Anche una tesi è dunque, in fondo, un proble-
ma; ma non ogni problema è una tesi, perché alcuni problemi sono que-
stioni di natura tale che non abbiamo alcuna opinione, né in un senso né
in un altro. Che una tesi sia anche un problema, è chiaro; dopo quanto
abbiamo detto, infatti, va necessariamente ammesso che la tesi sia og-
getto di uno scontro di opinioni, sia tra le opinioni comuni e quelle degli
esperti, sia all’interno dell’uno o dell’altro di questi gruppi, perché una
tesi è un pensiero paradossale. Ma in pratica, attualmente, si chiamano
tesi tutti i problemi dialettici; poco importa d’altra parte che li si chiami
in un modo o nell’altro; perché se distinguiamo come abbiamo fatto le
due nozioni, non è per volontà di creare un vocabolo nuovo, ma perché
le differenze che possono realmente esistere tra loro non ci sfuggano.
Non bisogna indagare qualsiasi problema e qualsiasi tesi, ma soltanto
quelle che potrebbero mettere in imbarazzo un interlocutore che merita
da noi una risposta razionale, e non soltanto che lo si corregga o lo si ri-
mandi all’esperienza; coloro infatti che sollevano la questione se la neve
è bianca o meno, non meritano che di essere rinviati all’esperienza. Non
vanno poi esaminati i casi in cui la dimostrazione sarebbe immediata, né
quelli in cui sarebbe troppo lunga; perché i primi non mettono in imba-
razzo nessuno, mentre i secondi sollevano questioni tali che non posso-
no essere trattati nei limiti di un esercizio dialettico120.
258
Sul sillogismo
259
Le proposizioni apofantiche
1 Ogni discorso è poi significativo, non già alla maniera di uno stru-
mento naturale, bensí, secondo quanto si è detto, per convenzione. Di-
chiarativi sono, però, non già tutti i discorsi, ma quelli in cui sussiste
un’enunciazione vera oppure falsa. Tale enunciazione non sussiste certo
in tutti: la preghiera, ad esempio, è un discorso, ma non risulta né vera
né falsa. Prescindiamo dunque dagli altri discorsi, dal momento che
l’indagine al riguardo è più pertinente alla retorica o alla poetica. Il di-
scorso dichiarativo spetta invece alla presente considerazione.
2 Il primo discorso dichiarativo, che sia unitario, è l’affermazione; in
seguito viene la negazione. ogni altro discorso è invece unitario per un
collegamento. È del resto necessario, che ogni discorso dichiarativo de-
rivi da un verbo o da una flessione del verbo; in realtà, anche il discorso
definitorio dell’uomo, quando non sia stato aggiunto: è, o era, o sarà, o
qualcosa di simile, non risulta ancora un discorso dichiarativo. Per tale
ragione inoltre l’espressione: animale terrestre bipede, costituisce
un’unità, e non invece una molteplicità. Essa risulterà una, in realtà, non
certo per il fatto che i suoi termini siano stati enunciati in una succes-
sione immediata. Il dire ciò spetta tuttavia ad una diversa trattazione. Il
discorso dichiarativo è comunque uno solo, se rivela un’unità oppure se
risulta unitario per un collegamento, mentre si hanno molti discorsi di-
chiarativi, quando questi rivelano, non già un’unità, bensí molti oggetti,
oppure quanto essi mancano di un collegamento. Il nome, o il verbo, sa-
rà dunque da considerarsi semplicemente come un termine detto, non
potendosi sostenere che faccia una dichiarazione colui che rivela a que-
sto modo qualcosa con la voce, sia poi che una persona lo interroghi,
oppure che ciò non avvenga, ed egli stesso si esprima spontaneamente. I
discorsi dichiarativi unitari, d’altro canto, si distinguono in dichiarazioni
semplici, giudizi, se ad esempio qualcosa viene attribuito a qualcosa, o
qualcosa viene separato da qualcosa, ed in dichiarazioni formate da più
dichiarazioni semplici, come nel caso di un discorso già composto. La
dichiarazione semplice, orbene, è suono della voce, significativo per
quanto riguarda l’eventuale appartenenza o non appartenenza di qual-
260
cosa, secondo le divisioni del tempo.
3 L’affermazione è il giudizio, che attribuisce qualcosa a qualcosa. La
negazione è invece il giudizio, che separa qualcosa da qualcosa. D’altra
parte, poiché si può dichiarare, sia che ciò che appartiene a qualcosa non
vi appartiene, sia che ciò che non appartiene a qualcosa vi appartiene,
sia che ciò che appartiene a qualcosa vi appartiene, sia che ciò che non
appartiene a qualcosa non vi appartiene, e poiché lo stesso si può dire
rispetto ai tempi all’infuori del presente, risulterà così possibile sia ne-
gare tutto ciò che qualcuno ha affermato, sia affermare tutto ciò che
qualcuno ha negato. È dunque evidente, che ad ogni affermazione risulta
contrapposta una negazione, e ad ogni negazione un’affermazione121.
121Aristotele, De Interpretatione, 17a 1-32, in Organon, Laterza, Bari, 1970, vol. II, pagg.
60-61
261
Le Categorie: sostanze prime e sostanze seconde
[2a] [...] “Sostanza” nel senso più proprio, in primo luogo e nella più
grande misura, è quella che non si dice di un qualche sostrato, né è in un
qualche sostrato, ad esempio, un determinato uomo, o un determinato
cavallo. D'altro canto, sostanze seconde si dicono le specie, cui sono im-
manenti le sostanze che si dicono prime, ed oltre alle specie, i generi di
queste. Ad esempio, un determinato uomo è immanente a una specie,
cioè alla nozione di uomo, e d'altra parte il genere di tale specie è la no-
zione di animale. [...]
[2b] [...] la ragione per cui le sostanze prime si dicono sostanze in
massimo grado consiste nel fatto che esse stanno alla base di tutti gli al-
tri oggetti, e che tutti gli altri oggetti si predicano di esse, oppure sussi-
stono in esse. [...]
È così giustificato, prescindendo dalle sostanze prime, che le specie
e i generi siano i soli tra gli oggetti a dirsi “sostanze seconde”: tra i pre-
dicati, in effetti, essi solo rivelano la sostanza prima. Se qualcuno, invero,
deve spiegare che cos'è un determinato uomo, dà una spiegazione ap-
propriata fornendo la specie oppure il genere; d'altra parte, dichiarando
che tale oggetto è “uomo”, lo rende più noto di quanto non faccia dichia-
rando che è “animale”. Nel caso invece che costui fornisca una qualche
altra nozione, dicendo ad esempio che un determinato uomo è “bianco”
o “corre”, oppure facendo una qualsiasi altra dichiarazione consimile,
avrà dato una spiegazione estranea all'oggetto. é di conseguenza giusti-
ficato che tra gli altri oggetti soltanto quelli nominati si dicano sostanze.
[3a] Oltre a ciò, le sostanze prime sono sostanze nel senso più pro-
prio in quanto stanno alla base di tutti gli altri oggetti. Orbene, precisa-
mente allo stesso modo con cui le sostanze prime si comportano rispetto
a tutti gli altri oggetti, così si comportano rispetto a tutti i rimanenti le
specie e i generi delle sostanze prime. In realtà, tutti i rimanenti oggetti
vengono predicati delle specie e dei generi. Tu dirai infatti di un deter-
minato uomo che è “grammatico”, e quindi dirai pure di uomo e di ani-
male che è “grammatico”. Lo stesso vale per gli altri casi122.
122 Aristotele, Categorie, 2a 11-18; 2b 15-17; 2b 30-3a 7, in Opere, vol. I, Laterza, Bari,
262
POETICA E RETORICA
La catarsi
263
264
SOMMARIO
INTRODUZIONE .................................................................................................3
QUADRO STORICO CULTURALE .............................................................................3
VITA E OPERE........................................................................................................4
IL CONFRONTO CON IL MAESTRO PLATONE E LA QUESTIONE DELLA CRITICA ALLA
TEORIA DELLE IDEE. .............................................................................................8
LA FILOSOFIA COME “SCIENZA PRIMA” E LA CLASSIFICAZIONE DELLE SCIENZE.14
IL PRIMATO DELLA METAFISICA......................................................................... 17
LA METAFISICA............................................................................................... 19
LA FISICA ........................................................................................................... 45
LA COSMOLOGIA ........................................................................................... 51
LA BIOLOGIA .................................................................................................. 57
LA PSICOLOGIA ...............................................................................................59
LA MATEMATICA ........................................................................................... 62
L'ETICA............................................................................................................... 65
LA POLITICA..................................................................................................... 68
LA LOGICA ......................................................................................................... 71
LA RETORICA................................................................................................... 79
LA POETICA ...................................................................................................... 81
ANTOLOGIA CRITICA.................................................................................... 96
DALLA PÒLIS ALL’IMPERO .................................................................................. 97
LE DETERMINAZIONI ARISTOTELICHE DELLA METAFISICA ............................. 101
LE QUATTRO CAUSE OVVERO IL PERCHÉ DELLE COSE ..................................... 104
DALLA FINALITÀ DEL DIVENIRE ALLA TEOLOGIA: LA CONCEZIONE ARISTOTELICA
DI DIO ............................................................................................................. 107
DIO È CAUSA PRIMA ....................................................................................... 109
265
IL PASSAGGIO DAL DIVENIRE ALL’IMMUTABILE .............................................. 112
LA FISICA ARISTOTELICA ................................................................................ 115
LA DOTTRINA DELLE QUATTRO CAUSE ........................................................... 120
LA BIOLOGIA ARISTOTELICA: STUDI SULL’ANATOMIA E SULLA RIPRODUZIONE
........................................................................................................................ 122
L’ANIMA E LE SUE FUNZIONI ........................................................................... 126
ARISTOTELE E IL CANONE DEL GIUSTO MEZZO ............................................... 131
L’ETICA ARISTOTELICA ................................................................................... 133
LA RELAZIONE TRA FELICITÀ, FILOSOFIA E POLITICA ..................................... 142
LO STATO E IL CITTADINO NELLA POLITICA DI ARISTOTELE .......................... 163
LA POLITICA ARISTOTELICA ............................................................................ 172
LA SCIENZA POLITICA IN ARISTOTELE ............................................................ 182
LA LOGICA FORMALE E IL SILLOGISMO SCIENTIFICO ....................................... 184
DIAVOLO DI UN ARISTOTELE .......................................................................... 188
ANTOLOGIA DI TESTI ARISTOTELICI................................................. 191
LA SUDDIVISIONE DELLE SCIENZE: IL SAPERE TEORETICO ............................. 191
TUTTI GLI UOMINI DESIDERANO NATURALMENTE IL SAPERE ........................ 194
SOSTANZA E ACCIDENTE ................................................................................. 200
IL PRINCIPIO DI NON CONTRADDIZIONE ......................................................... 205
SOSTANZA E SOSTRATO .................................................................................. 212
ATTO E POTENZA ............................................................................................ 213
LA DOTTRINA DELLE QUATTRO CAUSE E I VARI SIGNIFICATI DEL TERMINE
“CAUSA”........................................................................................................... 215
DIO È PENSIERO DI PENSIERO (NÓESIS NOÉSEOS)........................................... 218
IL MOVIMENTO NATURALE ............................................................................. 220
MOVIMENTO CIRCOLARE E MOVIMENTO RETTILINEO .................................... 221
IL PRIMO MOTORE IMMOBILE COME SPIEGAZIONE DEL MOVIMENTO FISICO . 223
LE FACOLTÀ DELL’ANIMA E L’INTELLETTO..................................................... 225
IL FINE DELLA MORALE È LA FELICITÀ ............................................................ 227
CHE COS’È LA VIRTÙ?...................................................................................... 230
LE VIRTÙ DIANOETICHE .................................................................................. 233
LA VITA CONTEMPLATIVA AVVICINA L’UOMO AGLI DEI .................................. 235
LA POLITICA È UN FATTO NATURALE .............................................................. 238
L’UOMO E LA CENTRALITÀ DELLA POLITICA ................................................... 240
LA SCHIAVITÙ È UN FATTO NATURALE ........................................................... 243
266
I RAPPORTI GERARCHICI SONO NATURALI ...................................................... 246
I SUGGERIMENTI PER LA COSTITUZIONE DELLA FAMIGLIA ............................. 247
IL SIGNIFICATO DELLE PAROLE ....................................................................... 248
SAPERE EPISTEMICO E SAPERE NOETICO (ANALITICI SECONDI) ..................... 250
INDUZIONE E DEDUZIONE (ANALITICI SECONDI) ........................................... 252
I TRE USI DELLA DIALETTICA (TOPICI)........................................................... 253
SUL SILLOGISMO ............................................................................................. 259
LE PROPOSIZIONI APOFANTICHE .................................................................... 260
LE CATEGORIE: SOSTANZE PRIME E SOSTANZE SECONDE ............................... 262
LA CATARSI ..................................................................................................... 263
267