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ALESSANDRO BARICCO Da Novecento Tutta quella citt, non se ne vedeva la fine... La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine?

E il rumore. Su quella maledettissima scaletta... era molto bello, tutto... e io ero grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi, era garantito che sarei sceso, non c'era problema. Col mio cappello blu, primo gradino, secondo gradino [...]. Non quel che vidi che mi fermo. quello che non vidi. Puoi capirlo fratello? quel che non vidi ... lo cercai ma non c'era, in tutta quella sterminata citt c'era tutto tranne... C'era tutto. Ma non c'era una fine. Quel che non vidi dove finiva tutto quello, la fine del mondo. Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno pu fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu sei infinito, e dentro quei tasti, infinita la musica che puoi suonare. Loro sono 88, tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si pu vivere. Ma se tu, ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai, e questa la verit, che non finiscono mai e quella tastiera infinita... Se quella tastiera infinita, allora su quella tastiera non c' musica che puoi suonare. Tu sei seduto sul seggiolino sbagliato: quello il pianoforte su cui suona Dio. Cristo, ma le vedevi le strade? Anche solo le strade. Ce n' a migliaia, come fate voi laggi a sceglierne una, a scegliere una donna, una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire. Tutto quel mondo, quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce e quanto ce n'. Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell'enormit, solo a pensarla? A viverla... Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila per volta. E di desideri ce n'erano anche qui, ma non pi di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicit, su una tastiera che non era infinita. Io ho imparato cos. La terra, quella una nave troppo grande per me. un viaggio troppo lungo. una donna troppo bella. un profumo troppo forte. una musica che non so suonare. Perdonatemi, ma io non scender. Lasciatemi tornare indietro, per favore (p. 55-57). VERSIONE PI ADERENTE AL TESTO
Tutta quella citt... non se ne vedeva la fine... / La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine? / E il rumore / Su quella maledettissima scaletta... era molto bello tutto... e io ero grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi, era garantito che sarei sceso, non c'era problema / Col mio cappello blu / Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino / Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino / Primo gradino, secondo / Non quel che vidi che mi ferm / E' quel che non vidi / Puoi capirlo, fratello? , quel che non vidi... lo cercai ma non c'era, in tutta quella sterminata citt c'era tutto tranne / C'era tutto / Ma non c'era una fine. Quel che non vidi dove finiva tutto quello. La fine del mondo / Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno pu fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si pu vivere. Ma se tu / Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me / Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi / Milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai e questa la vera verit, che non finiscono mai e quella tastiera infinita /

Se quella tastiera infinita, allora / Su quella tastiera non c' musica che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello il pianoforte su cui suona Dio / Cristo, ma le vedevi le strade? / Anche solo le strade, ce n'era a migliaia, come fate voi laggi a sceglierne una / A scegliere una donna / Una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire / Tutto quel mondo / Quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce / E quanto ce n' / Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell'enormit, solo a pensarla? A viverla... / Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila persone per volta. E di desideri ce n'erano anche qui, ma non pi di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicit, su una tastiera che non era infinita. Io ho imparato cos. La terra, quella una nave troppo grande per me. E' un viaggio troppo lungo. E' una donna troppo bella. E' un profumo troppo forte. E' una musica che non so suonare. Perdonatemi. Ma io non scender. Lasciatemi tornare indietro. Per favore /

Non sono pazzo, fratello. Non siamo pazzi quando troviamo il sistema per salvarci. Siamo astuti come animali affamati. Non c'entra la pazzia. E' genio quello. E' geometria. Perfezione. I desideri stavano strappandomi l'anima. Potevo viverli, ma non ci son riuscito. Allora li ho incantati. E a uno a uno li ho lasciati dietro di me. Geometria. Un lavoro perfetto. Tutte le donne del mondo le ho incantate suonando una notte intera per una donna, una, la pelle trasparente, le mani senza un gioiello, le gambe sottili, ondeggiava la testa al suono della mia musica, senza un sorriso, senza piegare lo sguardo, mai, una notte intera, quando si alz non fu lei che usc dalla mia vita, furono tutte le donne del mondo. Il padre che non sar mai l'ho incantato guardando un bambino morire, per giorni, seduto accanto a lui, senza perdere niente di quello spettacolo tremendo bellissimo, volevo essere l'ultima cosa che guardava al mondo, quando se ne and, guardandomi negli occhi, non fu lui ad andarsene ma tutti i figli che mai ho avuto. La terra che era la mia terra, da qualche parte del mondo, l'ho incantata sentendo cantare un uomo che veniva dal nord, e tu lo ascoltavi e vedevi, vedevi la valle, i monti intorno, il fiume che adagio scendeva, la neve d'inverno, i lupi la notte, quando quell'uomo fin di cantare fin la mia terra, per sempre, ovunque essa sia. Gli amici che ho desiderato li ho incantati suonando per te e con te quella sera, nella faccia che avevi, negli occhi, io li ho visti, tutti, miei amici amati, quando te ne sei andato, sono venuti via con te. Ho detto addio alla meraviglia quando ho visto gli immani iceberg del mare del Nord crollare vinti dal caldo, ho detto addio ai miracoli quando ho visto ridere gli uomini che la guerra aveva fatto a pezzi, ho detto addio alla rabbia quando ho visto riempire questa nave di dinamite, ho detto addio alla musica, alla mia musica, il giorno che sono riuscito a suonarla tutta in una sola nota di un istante, e ho detto addio alla gioia, incantandola, quando ti ho visto entrare qui. Non pazzia, fratello. Geometria. un lavoro di cesello. Ho disarmato l'infelicit. Ho sfilato via la mia vita dai miei desideri. Se tu potessi risalire il mio cammino, li troveresti uno dopo l'altro, incantati, immobili, fermati l per sempre a segnare la rotta di questo viaggio strano che a nessuno mai ho raccontato se non a te / (pp. 58-60) I barbari 1. La lettura viene motivata da fattori esterni alla letteratura Io una mia idea ce l'ho. [] La maggior parte di quelli che oggi comprano libri, non sono lettori. Detta cos sembra la solita litania del reazionario che scuote la testa e disapprova (in pratica la traduzione dello slogan: la gente non legge pi). Ma vi prego di guardare la cosa con intelligenza: l dentro nascosta una delle mosse che costruiscono la genialit dei barbari, la loro bizzarra idea di qualit. Provo a spiegare partendo dall'indizio pi evidente e volgare: se guardate una classifica di

vendite, ci troverete un numero incredibile di libri che non esisterebbero se non partissero, per cos dire, da un punto esterno al mondo dei libri: sono libri da cui hanno fatto un film, romanzi scritti da personaggi televisivi, racconti messi gi da gente in qualche modo famosa; raccontano storie che gi sono state raccontate altrove, o spiegano fatti che sono gi accaduti in un altro momento e in altra forma. Naturalmente la cosa infastidisce e d quella sensazione diffusa di spazzatura imperante: ma anche vero che l, nella sua forma pi volgare, crepita un principio che, invece, volgare non : l'idea che il valore del libro stia nel suo offrirsi come tessera di un'esperienza pi ampia: come segmento di una sequenza che partita altrove e che, magari, finir altrove. L'ipotesi che possiamo imparare questa: i barbari usano il libro per completare sequenze di senso che sono generate altrove. Quel che rifiutano, che non li interessa, il libro che si rif, completamente, alla grammatica, alla storia, al gusto della civilt del libro: questo lo ritengono povero di senso. Non inseribile in nessuna sequenza trasversale, e quindi gli deve parere terribilmente asfittico. O quanto meno: non quello il gioco che sanno fare. Per capire bene dovete pensare, che so, a Faulkner. Per scendere con Faulkner in un suo libro, di cosa si ha bisogno? Di aver letto molti altri libri. In un certo senso bisogna essere padroni dell'intera storia letteraria: bisogna essere padroni della lingua letteraria, abituati al tempo anomalo della lettura, allineati a un certo gusto e a una certa idea di bellezza che nel tempo sono stati costruiti all'interno della tradizione letteraria. C' qualcosa di esterno alla civilt dei libri che vi necessario per fare quel viaggio? Quasi niente. Se non esistesse nient'altro che i libri, i libri di Faulkner sarebbero in fondo comprensibilissimi. L, il barbaro si ferma. Che senso ha, si deve chiedere, fare una fatica porca per imparare una lingua minore, quando c' tutto il mondo da scoprire, ed un mondo che parla una lingua che so? Volete una regoletta che riassuma tutto questo? Eccola: i barbari tendono a leggere solo i libri le cui istruzioni per l'uso sono date in posti che NON sono libri. (p. 68-9)

2. Si passati dallespressione (primato dellautore) alla comunicazione (primato del lettore) Piovene, come Montale e Moravia e al contrario di noi, aveva vissuto un certo numero di anni in cui la parola scritta fu espressione molto prima di comunicazione (Goffredo Parise). Espressione molto prima di comunicazione. Ecco il punto. L'incrinatura. L'inizio della fine. Sono parole vaghe (espressione, comunicazione), ma io ci ho trovato il sapore dell'intuizione preziosa. Magari l'ho capita male, ma per me indicava molto bene la direzione di un movimento. Non lo spiegava, ma ne identificava molto bene la rotta: una rotta orizzontale invece che verticale. D'improvviso la parola scritta spostava il suo baricentro dalla voce che la pronunciava all'orecchio che l'ascoltava. Per cos dire, risaliva in superficie, e andava a cercarsi il transito del mondo: a costo di perdere, nel commiato dalle sue radici, tutto il proprio valore. Come intu Parise, non si trattava di una semplice variazione allo statuto di un'arte: ne era la fine. Last generation. Quel che venuto dopo, gi contagio barbaro, seppur molto prudente, graduale, riformista. La percepiamo come un'apocalisse, perch in effetti scalza i fondamenti della civilt della parola scritta, e non le lascia prospettive di sopravvivenza. Ma in realt, senza dare troppo nell'occhio, non distrugge solo ma insegue un'altra idea di civilt e di qualit letteraria. E' un'idea che abbiamo visto spuntare nella spazzatura che riempie le classifiche di vendita, ma che qui vediamo all'opera in un contesto pi alto. Viene dalla frasetta di Parise, ma si spinge assai pi in l. Dice questo: privilegiare la comunicazione non vuol dire scrivere cose banali in modo pi semplice per farsi capire: significa diventare tasselli di esperienze pi ampie, che non nascono, n muoiono, nella lettura. La qualit di un libro, per i barbari, sta nella quantit di energia che quel libro in grado di ricevere dalle altre narrazioni, e poi di riversare in altre narrazioni. Se in un libro passano quantit di mondo, quello un libro da leggere: se anche tutto il mondo fosse l dentro, ma immobile, privo di comunicazione con l'esterno, quello un libro inutile. So che fa impressione, ma vi chiedo di assumere che questo sia, bene o male, il loro principio. E di capirne le conseguenze.

Lo voglio dire senza mezzi termini: nessun libro pu esser una cosa del genere se non adotta la lingua del mondo. Se non si allinea alla logica, alle convenzioni, ai principi della lingua pi forte prodotta dal mondo. Se non un libro le cui istruzioni per l'uso sono date in luoghi che NON sono solamente libri. Dire che luoghi sono, non facile: ma la lingua del mondo, oggi, indubitatamente, si forma in televisione, al cinema, nella pubblicit, nella musica leggera, forse nel giornalismo. E' una specie di lingua dell'impero, una specie di latino, parlato da tutto l'occidente. E' fatta da un lessico, da una certa idea di ritmo, da una collezione di sequenze emotive standard, da alcuni tab, da una precisa idea di velocit, da una geografia di caratteri. I barbari vanno verso i libri, e ci vanno volentieri, ma per loro hanno valore solo quelli scritti in quella lingua: perch cos non sono libri, ma segmenti di una sequenza pi ampia, scritta nei caratteri dell'impero, che magari partita dal cinema, passata da una canzonetta, approdata in tiv, e dilagata in Internet. Il libro, di per s, non un valore: il valore la sequenza. A un livello minimo, come abbiamo visto, tutto ci produce il lettore che, per prolungare Porta a Porta compra i libri di Vespa, o per far proseguire Narnia, compra il testo da cui tratto. Ma a livello un po' pi raffinato, produce, ad esempio, i lettori dei libri di genere, thriller su tutti: perch i generi trovano fondamento spesso fuori dalla tradizione letteraria: puoi anche non aver mai letto un libro, ma le regole del giallo le conosci. Sono scritti nella lingua del mondo. Sono scritti in latino. Per essere pi precisi, il loro DNA scritto in un codice universale, in latino: poi i loro tratti somatici possono anche essere particolari e bizzarri: anzi, questo costituisce una ragione d'interesse. Assicurata la porta d'ingresso di una lingua universale, il barbaro pu poi spingersi anche molto lontano sul terreno della variante o della raffinatezza. Pensate a Camilleri: vi sembra, la sua, una lingua globalizzata, standard, mondiale? Certamente no. Eppure molti barbari non hanno difficolt ad amarla: perch, a monte, quelli di Camilleri sono libri scritti in latino: lo sono talmente che quando il barbaro, secondo il suo tipico istinto, li immette in una sequenza pi ampia e trasversale, traducendoli in linguaggio televisivo, quei libri non fanno resistenza, anzi sono gi bell'e che tradotti. Eppure la lingua di Camilleri favolosa, raffinata, letteraria, se volete anche un po' difficile: ma non quello il punto. Camilleri pi difficile tradurlo in francese che tradurlo in linguaggio televisivo: questo il punto. In libri come i suoi, penso, si incontrano il portato della vecchia e nobile civilt letteraria e la scossa dell'ideologia dei barbari: sono animali mutanti, e in questo descrivono bene il contagio a cui il rosso dell'uovo andato incontro. E' spesso stupido dare una data precisa alle rivoluzioni, ma se penso al piccolo orticello della letteratura italiana, allora penso che il primo libro di qualit a intuire questa svolta, e a cavalcarla, sia stato Il Nome della Rosa, di Umberto Eco (1980, bestseller planetario). Probabilmente, l, la letteratura italiana, nel suo antico senso di civilt della parola scritta e dell'espressione, finita. E qualcosa d'altro, di barbarico, nato. Non un caso che a scrivere quel libro sia stato uno che veniva da zone limitrofe, non uno scrittore puro: quel libro era, gi di suo, una sequenza, un trasferimento da provincia a provincia. Non sgorgava dal talento di un animale-scrittore, ma dall'intelligenza di un teorico che, guarda caso, aveva prima di altri e meglio di altri studiato le vie di comunicazione trasversali del mondo. Per me il primo libro scritto bene di cui si possa dire serenamente: le sue istruzioni per l'uso sono integralmente date in luoghi che non sono libri. Pu sembrare paradossale, perch poi parlava di Aristotele, di teologia, di storia, ma in realt cos: se ci pensate bene, potete anche non avere mai letto un libro prima, e Il nome della Rosa vi piacer lo stesso. E' scritto in una lingua che avete imparato altrove (p. 73s).
3.

Chi decide cosa conta davvero ai tempi di Google?

Secondo esempio. In genere noi ci fidiamo degli esperti: se nel loro complesso i critici letterari del mondo decidono che Proust un grande, noi pensiamo che Proust un grande. Ma se voi entrate in Google digitate "capolavoro letterario", chi , di preciso, che vi spinger abbastanza velocemente a incocciare la Recherche? Dei critici letterari? Solo in parte, in minima parte: a spingervi fin l saranno siti di cucina, meteo, informazione, turismo, fumetti, cinema, volontariato, automobili e, perch no, pornografia. Lo faranno direttamente o indirettamente, come sponde di un biliardo: voi siete la biglia, Proust la buca. E allora io mi

chiedo: da che genere di sapienza deriva il giudizio che la rete ci d, e che ci conduce a Proust? Ha un nome, una roba del genere? Ecco: quel che c' da imparare, da Google, quel nome. Io non saprei trovarlo, ma credo di intuire la mossa che nomina. Un certa rivoluzione copernicana del sapere, per cui il valore di un'idea, di un'informazione, di un dato, legata non principalmente alle sue caratteristiche intrinseche ma alla sua storia. E' come se dei cervelli avessero iniziato a pensare in altro modo: per essi un'idea non un oggetto circoscritto, ma una traiettoria, una sequenza di passaggi, una composizione di materiali diversi. E' come se il Senso, che per secoli stato legato un'ideale di permanenza, solida e compiuta, si fosse andato a cercare un habitat diverso, sciogliendosi in una forma che piuttosto movimento, struttura lunga, viaggio. Chiedersi cos' una cosa, significa chiedersi che strada ha fatto fuori da se stessa. Lo so che l'ermeneutica novecentesca ha gi prefigurato, in maniera molto sofisticata, un paesaggio del genere. Ma adesso che lo vedo diventato operativo in Google, nel gesto quotidiano di miliardi di persone, capisco forse per la prima volta quanto esso, preso sul serio, comporti una reale mutazione collettiva, non un semplice aggiustamento del sentire comune. Quel che insegna Google che c' oggi una parte enorme di umani per la quale, ogni giorno, il sapere che conta quello in grado di entrare in sequenza con tutti gli altri saperi. Non c' quasi altro criterio di qualit, e perfino di verit, perch tutti se li ingoia quell'unico principio: la densit del Senso dove il sapere passa, dove il sapere in movimento: tutto il sapere, nulla escluso. L'idea che capire e sapere significhino entrare in profondit in ci che studiamo, fino raggiungerne l'essenza, una bella idea che sta morendo: la sostituisce l'istintiva convinzione che l'essenza delle cose non sia un punto ma una traiettoria, non sia nascosta in profondit ma dispersa in superficie, non dimori dentro le cose, ma si snodi fuori da esse, dove realmente incominciano, cio ovunque. In un paesaggio del genere, il gesto di conoscere dev'essere qualcosa di affine al solcare velocemente lo scibile umano, ricomponendo le traiettorie sparse che chiamiamo idee, o fatti, o persone. Nel mondo della rete, a quel gesto hanno dato un nome preciso: surfing (coniato nel 1993, non prima, preso in prestito da quelli che cavalcano le onde su una tavola; di solito scopano molto). La vedete la leggerezza del cervello che sta in bilico sulla schiuma delle onde? Navigare in rete, diciamo noi italiani. Mai nomi furono pi precisi. Superficie al posto di profondit, viaggi al posto di immersioni, gioco al posto di sofferenza. Sapete da dove viene il nostro caro vecchio termine cercare? Porta nella pancia il termine greco krkos, cerchio: avevamo in mente quello che continua a girare in cerchio perch ha perso qualcosa, e lo vuole trovare. Capo chino, sguardo su un fazzoletto di terra, tanta pazienza e un cerchio sotto i piedi che sprofonda a poco a poco. Che mutazione, ragazzi (p. 91s). 4. Una sfida per la scuola Se davvero ci troviamo nel bel mezzo di uno scontro tra civilt e barbarie, non una perdita di tempo fermarsi a capire, per un attimo, da che parte stanno le istituzioni a cui affidiamo il compito dell'educazione. Le fornaci ufficiali dove si mettono in cottura i nostri cervelli. Scuola e televisione, direi: l che passa il grosso della formazione collettiva. Ci sono naturalmente tante altre cose, ma se vogliamo guardare alle due fornaci maggiori, l che dobbiamo fermarci. E chiederci: da che parte stanno? Facile: la scuola sta dalla parte della civilt, la televisione da quella della barbarie. Evidentemente ci sono un sacco di eccezioni: una singola figura di professore o una particolare trasmissione possono cambiare molto le cose. Ma se dobbiamo attenerci a una tendenza di massima, vincente sulle altre, allora penso si possa dire serenamente che a scuola si insegnano i principi della civilt di monsieur Bertin e alla televisione domina l'ideologia dei surfer. Non ho tempo di fare tutti i distinguo del caso, e capire dove la scuola elementare differente dalla scuola superiore, e dove Report differente dai reality show: ma credo che, in linea di massima, si possa effettivamente riconoscere che la scuola presidia i valori della civilt, e la televisione sperimenta senza alcuna cautela il nuovo sentire dei barbari. Cosa se ne pu concludere? Innanzitutto che siamo gente schizofrenica, che al mattino ragiona come Hegel e dopo pranzo si muta in pesce, e respira con le branchie. Cosa che

non finisce di affascinarmi. Nel liceale che al mattino studia Lorenzo Valla (succede) e nel pomeriggio si trasforma in un animale della rete, decollando nel suo personale multitasking, inscritta una schizofrenia che andrebbe capita. Come spiegabile la mansuetudine con cui accetta la scuola? O, al contrario, come spiegare la naturalezza assoluta con cui vive da pesce non appena si chiude in camera sua? E' una singolare specie di anfibi mentali, o quel che vivono al mattino lo vivono trattenendo il fiato, in una sorta di ipnosi rinunciataria? Oppure, al contrario: sono vivi solo al mattino, e il pomeriggio si fanno frullare da un sistema luccicante di cui sono vittime pi che protagonisti? Ma anche, si potrebbe dedurre, siamo una collettivit in cui i principi della civilt restano una specie di boccone prelibato, riservato a chi ha la possibilit di formarsi nelle istituzioni scolastiche, e la barbarie una specie di ideologia di default, concessa gratis a chiunque, e consumata massicciamente da chi non ha accesso ad altre fonti di formazione. Cosa non inedita, nella nostra storia: la civilt come lusso, e la barbarie come riscatto degli esclusi. Certo, rispetto al passato, noi possiamo farci forti di una scolarizzazione di massa che non ha precedenti: e possiamo credere che, in qualche modo, ci riuscito di rendere disponibile ai pi il luogo protetto in cui la civilt consegna la sua eredit. Ma rimane sospetta l'acquiescenza con cui si abbandonato l'altro pilastro formativo, la televisione, consegnandolo allegramente al nemico. Passi la televisione commerciale, ma quella pubblica? Come pu essere accaduto che sia divenuta, essa stessa, un quartier generale dei barbari? A parte ogni ragione di carattere tecnico o economico, non puzza un po' che si sia consegnato al nemico, quasi senza combattere, proprio il quartiere pi popolare, ritraendosi nei quartieri dorati del centro citt? Lo vedete il maligno istinto a reagire all'aggressione dando in pasto i peones pi deboli e intanto ritirando la parte nobile dell'esercito nel lusso di blindate roccaforti? Errore strategico, perch se lasci arrivare il barbaro sotto le mura, poi quello le scavalca, o trova la feritoia, o compra il traditore (p. 159s). 5. La mutazione si pu governare Non c' mutazione che non sia governabile. Abbandonare il paradigma dello scontro di civilt e accettare l'idea di una mutazione in atto non significa che si debba prendere quel che accade cos com', senza lasciarci l'orma del nostro passo. Quel che diventeremo continua a esser figlio di ci che vorremo diventare. Cos diventa importante la cura quotidiana, l'attenzione, il vigilare. Tanto inutile e grottesco il ristare impettito di tante muraglie avvitate su un confine che non esiste, quanto utile sarebbe piuttosto un intelligente navigare nella corrente, capace ancora di rotta, e di sapienza marinara. Non il caso di andare gi come sacchi di patate. Navigare, sarebbe il compito. Detto in termini elementari, credo che si tratti di essere capaci di decidere cosa, del mondo vecchio, vogliamo portare fino al mondo nuovo. Cosa vogliamo che si mantenga intatto pur nell'incertezza di un viaggio oscuro. I legami che non vogliamo spezzare, le radici che non vogliamo perdere, le parole che vorremmo ancora sempre pronunciate, e le idee che non vogliamo smettere di pensare. un lavoro raffinato. Una cura. Nella grande corrente, mettere in salvo ci che ci caro. un gesto difficile perch non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre, nella mutazione. Perch ci che si salver non sar mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ci che abbiamo lasciato mutare, perch ridiventasse se stesso in un tempo nuovo. E adesso ci starebbe bene un bel paragrafo per spiegare cosa secondo me bisognerebbe portare in salvo nella mutazione. Ma il fatto che non ho le idee molto chiare, al proposito. So che c'e sicuramente qualcosa, ma cosa, difficile dirlo, adesso, con esattezza. Difficile. L'unica cosa che mi viene in mente , ancora una volta, una pagina di Cormac McCarthy. proprio al fondo di quel libro che gi vi ho citato nelle epigrafi, ve lo ricordate? La storia dello sceriffo e del killer. "Cosa si dice a uno che per sua stessa ammissione non ha l'anima?" Ve lo ricordate? Bene. Quello un libro davvero senza speranza, sembra la resa incondizionata a una mutazione rovinosa, nessuna speranza, nessuna via d'uscita. Per a un certo punto lo sceriffo passa vicino a una strana cosa, una specie di abbeveratoio scavato nella pietra dura a colpi di scalpello. proprio nell'ultima pagina. Vede l'abbeveratoio e si ferma. E lo guarda. Una cosa lunga quasi due metri, e larga mezzo, e profonda altrettanto.

Nella pietra si vedono ancora i segni dello scalpello. Sar stato l da cento, duecento anni, dice lo sceriffo. Cos, dice, mi venuto da pensare all'uomo che l'aveva fabbricato. Si era messo l con una mazza e uno scalpello e aveva scavato un abbeveratoio che sarebbe potuto durare diecimila anni. Ma perch? In che cosa credeva quel tizio? Dovete pensare che lo sceriffo a quel punto davvero stanco, non crede pi in niente, e sta per chiudere la sua stella in un cassetto per sempre. Dovete immaginarvelo cos. Mentre si chiede perch diavolo uno dovrebbe mettersi a scavare un abbeveratoio di pietra con l'idea di fare qualcosa che dura diecimila anni. In cosa bisogna credere, per avere idee del genere? In cosa crediamo per avere ancora questo istinto cieco a mettere al sicuro qualcosa? McCarthy, lui l'ha scritta cos: "Penso a quel tizio seduto l con la mazza e lo scalpello, magari un paio d'ore dopo cena, non so. E devo dire che l'unica cosa che mi viene da pensare e che quello aveva una sorta di promessa dentro al cuore. E io non ho certo intenzione di mettermi a scavare un abbeveratoio di pietra. Ma mi piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa. la cosa che mi piacerebbe pi di tutte"( p. 179s). da Barnum 1. Tennis che metafora ... Il tennis vero lo rivedo quando entrano in campo Becker e Pioline, due che, senza essere proprio degli artisti, la pallina per la sanno accarezzare, sfiorare, stoppare, sedurre, intrattenere, scherzare: non solo spararla. L, allora il tennis torna ad essere metafora esatta e divulgativa degli umani destini. Capace di offrire epistemologiche illuminazioni. Come, ad esempio, quando sulla testa di Becker piove una palla morta e innocua come una spugna insaponata, e lui mette insieme i suoi ottanta chili di potenza, le migliaia di ore spese a ripetere quello stesso gesto, la giovinezza buttata via a fare titic e titac contro un muro,i miliardi guadagnati a farlo davanti alla gente, le centinaia di partite perse e vinte, i mille istanti come quello gi vissuti, sempre uguali, e tutto carica su quella racchetta che fa roteare dietro la schiena e poi alza sulla testa fino ad impattare perfettamente quella pallina gialla, nel gesto pi facile di tutto il tennis, uno smash da bambini, che lui fa a regola d'arte, colpendo la palla e spedendola, contro ogni logica, contro qualsiasi senso storico, contro le pi elementari leggi del buon senso, in rete. E' l che capisci. E' in quella pallina che affoga nella rete come un mandarino nel calzino della befana, che capisci. E ti appare chiarissimo, tutto in un istante, che non c' salvezza, non c' difesa contro l' errore, e sempre sar cos, che continuerai a dire la frase sbagliata nel momento sbagliato, e a non fare l'unica cosa che sai dovresti fare, e a cadere nelle trappole che hai imparato a memoria, e ad aver paura sempre della stessa cosa, in eterno, e a non capire quello che per mille volte ti sei spiegato, e a far del male anche se gi lo sai che lo farai. Non c' niente da fare. Se sbaglia Becker quella palla idiota, perch mai uno non dovrebbe sbagliare gli smash della vita? Puoi spendere anni a vivere, ore a leggere libri, milioni a farti allenare dallo psicanalista: ma alla fine la palla in rete che finisce. L' errore annulla qualsiasi passato nell'istante in cui arriva a bruciarti qualsiasi futuro. L'errore azzera il tempo, qualsiasi tempo. Vedi cosa riesce a spiegarti, il tennis, senza dar nell'occhio: che quando sbagli - nel preciso istante in cui lo fai - sei eterno (p. 61s). 2. La pallanuoto, metafora del libero mercato La pallanuoto uno sport buffo; in un certo senso la puntuale metafora del tanto lodato libero mercato: in superficie vedi belle geometrie, plastici movimenti, meravigliose prodezze balistiche. Sotto, dove non vedi, la rissa: colpi bassi, canagliate di ogni tipo, virili fetenzie (p. 64).
3.

Quel che resta del giorno (dal romanzo di Katzuo Ishiguro)

Con la sua vicenda umana Mr. Stevens detta una teoria: l'esattezza un sistema di difesa. un lago in cui annegare la vita e le sue insidie. Se tu metti davanti a tutto il dovere

dell'esattezza, quel che succede che molti pezzi della vita, semplicemente, non accadono. Li fermi prima. come una sicura che impedisce all'esistenza di premere il grilletto. Prevenire invece che curare. un modo di intendere le cose che risulta per lo pi denigrato, in nome di quella stupida storia del giorno da pecora e del giorno d leone, ma in realt una tecnica di sopravvivenza sofisticata e raffinatissima. L'esattezza [...] non evita l'errore: pi radicalmente non gli d il tempo di esistere. Suprema tecnica di dilazione all'infinito. Il risultato un'esistenza n giusta n ingiusta, n bella n brutta, n vera n falsa. [...] quella , semplicemente, un'esistenza neutrale. Una forma di vita al cospetto della quale i valori si autosospendono e non esiste pi un quotidiano schierarsi ma semplicemente un pacifico abitare il tempo, e la vita. Ti viene da pensare che da domani metti a posto tutti i tuoi cassetti, e rifai il letto appena sveglio [...] e per sempre sarai il maggiordomo di te stesso. E cos ti salverai. (p. 73s)

4. Il gioco pi veloce del mondo Non so chi se n' accorto: ma han fatto in Italia i mondiali di hockey su ghiaccio. Un notizione, per canadesi, svedesi, finlandesi e nordici vari. Non per gli italiani. Che l'han presa come, mi immagino, gli allevatori del Wisconsin prenderanno i mondiali di calcio in Usa a giugno: 'Vuoi dire che non possono prendere la palla con le mani? Ma va. In realt l'hockey uno sport di bellezza esagerata, e, in definitiva, il non poterlo giocare rappresenta una delle poche ragioni per rammaricarsi di non vivere in un paese in cui fa un freddo maiale e il sole tramonta alle tre e mezzo. L'hockey velocit, leggerezza e violenza. Strano mix. L'hockey l'unico sport in cui giocano cos veloci che a un certo punto non sai pi dov' la palla (che poi un disco, tipo rotolo di nastro adesivo da elettricista). E l'unico sport in cui mezza squadra esce dal campo e mezza entra senza neppure fermare l'azione. E l'unico sport in cui marcantoni da cento chili volteggiano su due lame da nulla e sembrano ballerini, e lo sono, fino a quando non decidono di spalmare l'avversario contro le sponde di plexiglas, e allora diventano bufali in picchiata e non nemmeno fallo, mai. Dato che il ghiaccio duro e gli avversari anche, volteggiano non in tut, ma imbottiti come omini Michelin, con un caschetto in testa e gommapiuma dappertutto. Si distinguono, nel curioso look, i portieri: immobili come batraci, se ne stanno davanti a una porta poco pi grande di loro, completamente bardati da capo a piedi che sembrano i cavalli nelle corride: se ne stanno l e aspettano che il disco, a cento all'ora, li colpisca da qualche parte, faccia compresa, e quella la chiamano 'parata'. Ogni tanto, quel piccolo proiettile nero trova spiragli invisibili e va a gonfiare la rete, alle loro spalle. Altre volte decolla impazzito e schizza tra il pubblico: e l i casi sono due: o sei cretino, te lo prendi in fronte finisci in ospedale, o sei un tifoso di hockey, lo prendi a volo, e poi lo tieni nel cassetto, e ogni occasione buona per tirarlo fuori, e 'guarda un po' qui', anche se gli altri non ci crederanno mai, ma tu sai che vero. Con la segreta speranza di portarmi indietro qualcosa da mettere nel cassetto sono andato a vedere la finale, domenica, Canada-Finlandia, Forum di Assago, 9.000 spettatori, sala stampa rutilante idiomi incomprensibili, spalti rutilanti di tifosi scandinavi, birra a fiumi. Canadesi favoriti, finlandesi a sorpresa. Zero a zero alla fine del primo tempo, zero a zero alla fine del secondo: i due batraci si sono presi il disco dappertutto, faccia compresa, sempre senza fare una piega. Reti inviolate, come si dice. Il Baggio della situazione tal Luc Robitaille, un canadese che si fa i miliardi giocando tra i professionisti statunitensi, con i Kings di Los Angeles. Capelli lunghi dietro, faccia dangelo, propensione a scansare le risse e a giocare di fino. E lui che, quando i finlandesi riescono a infilare un golletto, scende in campo, stacca un paio di eleganti figure da pattinaggio artistico poi al primo disco che gli capita, guarda negli occhi la difesa finnica, la infilza con un chirurgico assist e costringe al gol un compagno dal nome sublime: BrindAmour. Uno a uno. Tempo supplementare. Rigori.

Che non sono come i nostri: sono molto peggio. Si parte da met campo, palla al piede (traduco in footbalese), si va incontro al portiere e alla fine si cerca in qualche modo di uccellarlo. Una perfidia psichica: perch hai molto pi tempo per pensare Lo tiro alto, lo tiro basso, a sinistra, no a destra, tanto lo sbaglio perch sono un pirla ed chiaro che poi lo sbagli. Sbagliano due volte, i finlandesi, e sembra fatta. Ma sbagliano due volte anche i canadesi e alla fine dei cinque rigori regolamentari il tabellone dice tre a tre: unagonia. Affogata nella sovrana indifferenza di unItalia a cui non gliene frega niente, quelli stanno facendo una cosa tipo Italia Germania 4 a 3: roba da mito. Si va avanti ad oltranza: chi sbaglia per primo, perde. Il giornalista di fianco a me, finlandese, stacca curiosi mugolii di sofferenza constatando con occhi da bovino triste che ha finito le unghie da mangiare. Sotto di me, in panchina, il coach canadese, tal Kingston, assiste impassibile, continuando a prendere appunti come se stesse raccogliendo le ordinazioni per il t. Evidentemente privo di sistema nervoso. Esce dalla gabbia Baggio-Robitaille. Lui contro il batrace finlandese. Come in un western. Una finta, una seconda, il batrace finisce culo a terra, il disco si infila. Torna in panchina, Baggio, ed come il Tardelli del Mundial, un urlo lungo un secolo. Il finlandese che risponde si chiama Nieminen. Una finta, una seconda, il batrace canadese non si sposta di un millimetro. Tira, Nieminen: e se lo ricorder per una vita quel disco che schizza maledettamente fuori, fine della partita, fine del sogno, mezza Finlandia che lo manda in mona (monen, immagino). Musica a palla e canadesi a far gruppi lacoontici tra caschi, bastoni e guantoni che volano. In un angolo il vecchio Kingston continua a prendere appunti. Due t al latte, un croissant, una mousse, abbiamo vinto diobbuono, una cioccolata con panna. Mitico (p. 90s). 5. La Cappella Sistina, ascoltando Tom Waits La Cappella Sistina, prima di vederla, la senti. Tipo caramella balsamica: la senti nel naso e nelle orecchie. Ci arrivi da un cunicolo che gira e sale e scende, un cunicolo stretto e basso, con le pareti color ospedale. Tutti in fila, strascicando i piedi. Non ci sono quasi finestre, c poca aria. Inesorabile odore di umanit, lascito generoso di centinaia di ascelle e calzini internazionali in pio pellegrinaggio o colto vagabondare. La Cappella Sistina prima di vederla, la senti: odore di palestra, di classe del liceo alla quinta ora, di pullman destate. Non che uno si aspetti cori di arcangeli, allingresso, ma ti ci devono proprio fare entrare da una specie di scarpiera a forma di corridoio? Quando il naso si abitua, scattano le orecchie. Entri da una porticina da nulla, e prima di vedere alcunch, senti il boato uniforme e continuo di centinaia di persone stipate e sgomitanti che urlano a bassa voce. Lacustica della Cappella restituisce un biblico e febbricitante frastuono. Strana impressione. Non ho grandi esperienze nel settore ma ti vengono subito in mente quei posti tipo lager, o stadio cileno, quelle cose l, dove una fetta di umanit fa lanticamera per qualche odioso orrore. Quando dimprovviso si accendono dei lugubri altoparlanti e una voce grida Attenzione! quello che ti aspetti che poi dica: Le donne si portino sulla sinistra, gli uomini sulla destra, cose cos. Per fortuna, pi mitemente, dice di far silenzio e di non scattare fotografie. Il frastuono cala immediatamente di qualche decibel. Sgomitando mi guadagno un metro quadrato vagamente libero. Dato che contro quel casino bisogna pur fare qualcosa mi infilo le cuffiette e attacco il walkman. Baglioni. No. Annie Lennox. No. Paolo Conte. No. Cerco Bruckner, il mite organista che scriveva musica per Dio: dimenticato. Non rimane che Tom Waits. Vada per Tom Waits. Alzo il volume. Alzo gli occhi. Lhanno risciacquata, la Sistina. Ci hanno restituito il technicolor. Hanno tolto qualche pudica braghetta e pulito le crepe. Sembra nuova di pacca. Il Giudizio Finale me lo ricordavo ingoiato da una fuliggine nerastra tipo polmone di fumatore. Ci vedevi poco, in tutto quel nero, e forse il fascino stava anche l: adesso va di mezzetinte che un piacere, fa un po Laura Ashley, ma almeno vedi, e scopri un sacco di cose, ed come quando al cinema metti gli occhiali. La parte che a me sempre piaciuta di pi quella a mezza altezza, dove i corpi salvati e risorti salgono al cielo e quelli condannati vengono ricacciati gi, e tutti galleggiano magicamente nellaria proprio come gli astronauti della Nasa, quando li facevano vedere alla tiv, in quelle navicelle senza forza di gravit, ce nera sempre uno che faceva lo scemo e lasciava andare il

panino, e il panino cominciava a svolacchiare in giro, fino a che qualcuno lo riacciuffava, e tutti ridevano, e doveva essere un modo per dimenticarsi che stavano come granelli di sabbia spediti a ronzare nellinfinito, soli come cani. Devessere colpa di Tom Waits: uno dovrebbe pensare altre cose, messo l a tu per tu con Michelangelo, e con il Giudizio Finale. Ho abbassato Tom Waits, e ho pensato altre cose. Ho pensato quanto micidiale quella Cappella, a ben pensarci, e senza farsi troppo sviare dalle tinte pastello. Un monumento ossessivo a un totemico e rovinoso incubo: il peccato. Non si esce innocenti, da l. Centinaia di metri quadrati di immagini ti martellano come irresistibili spot rifilandoti in offerta speciale la pi subdola delle merci: il complesso di colpa. Svicoli dal Giudizio Finale e finisci da Adamo ed Eva, la mela, il serpente, il castigo. Cerchi rifugio un po pi in l e caschi nel Diluvio Universale, altro castigo, spettacolare, una pulizia etnica in grande stile. Perfino quel gesto meraviglioso, Dio e luomo, le due dita che si sfiorano, icona impareggiabile, stampata lass sul soffitto, e per sempre in tutti gli occhi cui accaduto di vederla, perfino lei ha qualcosa di inquietante, sembra gi un castigo anche quello, un castigo preventivo, c qualcosa in quel Dio che ci impedisce di vederlo semplicemente buono e padre: ha qualcosa dellanimale in agguato, ha dentro uninquietudine che lo scompiglia. Non un Dio felice, quello. un meccanismo micidiale, a ben pensarci: stai l con la faccia allins, a farti stregare da tutta quella bellezza, oltretutto lavata col Dixan, e intanto, senza che te ne accorgi, ti si sta stampando in qualche recesso dellanima un invisibile strato di senso di colpa, che si sovrappone a quelli che gi ti hanno spalmato in anni di cosiddetta educazione, il tutto a edificare, millimetro per millimetro, la catastrofe di una coscienza perennemente in debito, e cronicamente colpevole. Forse solo perch non cera il sole, e dai finestroni entrava il grigio di una giornata da schifo. Forse per colpa di Tom Waits. Comunque dalla Sistina sono fuggito con due semplici idee in testa. Prima: la prossima volta che ci vado ci vado alle otto del mattino, perch quella folla un orrore. Seconda: la prossima volta che nasco ateo, lo faccio in un paese dove quelli che credono in Dio credono in un Dio felice (p. 96s)
6.

Quegli otto minuti di Natural born killers

Una volta i film iniziavano piano. C'era il paese sperduto nel West, la vita di tutti i giorni, chi vive e chi muore, ma insomma, una cosa tranquilla: che poteva durare per sempre. La musica raccontava una serenit inattaccabile, e nel saloon si rideva, si giocava e si faceva l'amore. Poi arrivava uno straniero, che parlava poco e che sparava da dio: e l il film iniziava davvero, nel senso che si scatenava un putiferio dell'altro mondo. Cose cos. Una volta i film iniziavano piano. Da un po' di tempo gli americani hanno deciso che i film non iniziano: si spegne la luce e loro ti esplodono addosso: come se fossero iniziati mezz'ora prima. Cos la prima scena sempre una sparatoria, un assassinio, una gran scopata, una catastrofe. Poche parole, molta azione. E tensione alle stelle. Una specie di spot del film piazzato all'inizio del film: tutto quello che stai per vedere gi l, riassunto e compresso. Lo spot con cui inizia Natural born killers, l'ultimo film di Oliver Stone, dura pi o meno otto minuti. Due giovani entrano in una tavola calda, e massacrano tutti i presenti tranne uno: perch possa raccontare quello che ha visto. Sono otto minuti pazzeschi. Non tanto per quel che si vede: per come lo si vede. Inquadrature sghembe, bianco e nero e colori che si alternano, ralenti, sovrapposizioni di immagini, colonna sonora a pi strati, frammenti di immagini che apparentemente non c'entrano (un lupo? un falco?), parlato e immagine non a sincrono, inquadrature deformanti, la luce alle volte naturale alle volte teatrale, la voce dei protagonisti assurda. Il tutto senza un percepibile senso logico: come se avessero girato il film in dieci modi diversi e poi l'avessero montato prendendo un'inquadratura qua e una l, a casaccio. Alla fine la tavola calda un cimitero: e i tuoi nervi si sono fatti un viaggio vertiginoso. Tiri il fiato e ti sembra di aver visto mezzo film: sullo schermo appaiono i titoli di testa. Non nemmeno iniziato. Io, quegli otto minuti, sono tornato a vedermeli: diecimila lire, pi di mille lire al minuto, ma valeva la pena. Volevo capire: perch l riassunto un modo di fare cinema che non un bel modo o un brutto modo: un modo diverso, in qualche modo rivoluzionario. E senza sapere bene cosa, mi sembrava chiaro che c'era qualcosa da imparare. Sono cose complicate, e non che sia facile comprimerle in un Barnum. Ma comunque: il fatto che quelli l stanno abbattendo staccati dopo steccati, e stanno squarciando l'orizzonte

della narrazione, e sfondando i muri della percezione: e, insomma, riescono a raccontare una storia con una potenza, un'intensit e una ricchezza d'impulsi che spaventosa. Stanno andando oltre: e non lo fanno mettendo su opere d'arte d'avanguardia, per la libidine di pochi perversi intelligenti: lo stanno facendo con un prodotto popolare, artigianale e culturalmente medio come un film di successo. Dopo lo spot di otto minuti c' il film che ne dura altri 120: ed tutto cos. La storia che racconta non nemmeno molto importante, forse perfino bruttina, un po' scontata: ma come la racconta, questo non scontato, questo dinamite, se solo lo si guarda senza moralismi e senza pigrizia intellettuale. Quella una spettacolarit che non ha paragoni, e che stabilisce una nuova unit di misura: ad essere onesti, bisognerebbe mettersi l, con santa pazienza, e ritarare tutti i nostri strumenti narrativi. Inventare le ferrovie, quasi duecento anni fa, non cambi di un metro la distanza tra Liverpool e Londra: ma stravolse l'idea stessa di distanza. I metri erano quelli di sempre, il cervello no. Nessun cervello degno di questo nome esce da Natural born killers uguale a prima. Sar ingenuo e sciocco: ma io, uscito da l, ho pensato a quella cosa strana che scrivere libri o, peggio ancora, scrivere teatro, e ho visto, nitida, l'immagine di uno in bicicletta che insegue un treno. Pigia sui suoi ridicoli pedali, mentre quello l scompare all'orizzonte, e se non ci fossero le rotaie nemmeno sapresti pi dov' finito. So benissimo che non cos, che un libro pu andare pi veloce di un film di Stone, ma so anche che scriverlo, un libro cos veloce, maledettamente difficile: e dopo questo film di Stone , se possibile, ancora pi difficile. Certo, si pu far finta di niente e continuare a scrivere belle storie in bella prosa, con l'unit stilistica, la voce narrante, gli aggettivi tutti a posto, il climax a met, tutte quelle sante cose che fanno il galateo della buona letteratura. Ma a che serve? E soprattutto: chi ha ancora voglia di eccitarsi per quelle cose l? (p. 132s). da Barnum 2 7. Uomini senza faccia e senza paura Tuttintorno c il nulla. Una Spagna qualunque, potrebbe anche essere Busto Arsizio. Barcellona solo unipotesi a unora di autostrada. La pista si chiama Circuit de Catalunya, quattro chilometri e rotti con un rettilineo che non finisce pi. Ultima prova del Motomondiale, con i tre titoli gi assegnati: quello delle 250 (sarebbe una cilindrata, per capirsi) lha vinto uno che nato a Roma, ha ventiquattranni e si chiama Massimiliano Biaggi, detto Max. Giocava a pallone, poi un amico lha portato a fare un giro, a Vallelunga, lui salito sulla moto e non lhanno visto pi, sparato via da unaccelerata che non ancora finita. Sembra leggenda, e invece andata proprio cos. Dicono che sia lui il nuovo grande talento delle due ruote. E quando chiedi cosha pi degli altri ti rispondono: cattivo. A vederlo non sembra: ha la faccia che hai visto centinaia di volte addosso a certi ventenni, quelli che il sabato sera sono i boss e poi il luned stanno in grembiule bianco a fare caff al bar, sognando California. Solo che per lui sempre sabato sera, e il boss lo davvero. Sono venuto qui a vederlo correre, perch dicono che sia unemozione. E ho visto tutto quel che gli sta attorno: scoprendo che unemozione. La prima cosa che senti lodore. Allinizio ti chiedi dove diavolo stanno bruciando chilometri di salsiccia. Poi metti a fuoco, la salsiccia scompare, e resta olio bruciato, ma non puzza, profumo, con sfumature di gomma e benzina. Quando torni a casa ce lhai ancora nel naso, e per sempre nella memoria. La seconda cosa che ti violenta il rumore. Chiss se Cage laveva mai sentito. Gli sarebbe piaciuto. Non rumore allo stato brado: ritmo che pulsa, e macina decibel con elegantissima violenza. Ogni curva ha la sua melodia, e ogni motocicletta ha il suo suono. Alla fine sembra una partitura scritta da uno Stravinskij in vena di scherzi. Il meglio lo senti alla fine del rettilineo, che qui lungo un chilometro, cio uneternit. Se tra le gambe hai una Cinquecento, se col polso dai gas fino in fondo e se ti appiattisci sul serbatoio fino a scomparire, in pochi secondi diventi un proiettile sparato a trecento chilometri orari. Dato che per alla fine c un curvone che ti riporta alla realt, non puoi rimanertene cos per sempre, qualcosa devi fare. E allora quel che fanno, a duecento metri dalla fine, aprirsi di scatto come dei paracadute, cercare lo scontro con laria, alzare il busto, buttare fuori le ginocchia, allargare le braccia, e intanto mollare lacceleratore, pigiare il freno, e sperare di aver fatto i conti giusti. Bellissimo da vedere: ancora pi bello da sentire, se ti metti esattamente in quel punto, a duecento metri dalla fine, appoggiato al muretto, a tre metri dalla pista. Ti arrivano addosso i

trecento chilometri orari come una specie di rantolo intollerabile e poi di colpo, quando si apre il paracadute, tutto si spegne, ma non silenzio quello, una sorta di buco nero sonoro che si ingoia tutto, unimplosione micidiale, una specie di straordinario rewind del suono, un gorgo di non-suono che ti piglia e ti inabissa in un qualche dove che non sai. E abbastanza sorprendente, dopo, constatare che sei ancora tutto intero, appoggiato al muretto. E che senti ancora. Da casa, davanti alla tiv, li guardi e pensi: sono tutti matti. Quelli si bevono le curve con la testa a mezzo metro dallasfalto, e il culo fuori dalla moto, e il ginocchio a fare scintille sul cordolo. Si sfiorano ai duecento allora, sbandano come serpenti, ogni tanto decidono che due ruote sono anche troppe, e fanno a meno di quella davanti, impennandosi allegramente. Matti. Ti immagini che vivano con la morte nel casco, se non proprio nella testa. Poi arrivi l e scopri una cosa strana, e cio che di morte non si parla, e la paura, quella non esiste. E strano perch poi cadono tutti, almeno una decina di volte allanno si spalmano regolarmente, anche i pi bravi. E Doohan, laustraliano che questanno ha vinto il mondiale delle 500, uno che, dopo una scivolata come tante, se n stato per mesi immobile senza sapere se avrebbe mai pi mosso la gamba destra. E uno dei miti di questo sport, Rainey, circola per il paddock su una sedia a rotelle, e anche quella volta sembrava una caduta da niente. Insomma, il rischio c. Ma la paura non la vedi. Lho vista negli occhi dei pugili, non lho vista qui. Forse perch qui, gli occhi quasi non esistono. Questo uno sport senza facce. Tutto nascosto sotto il casco. Ho chiesto a un fotografo, uno di quelli che se ne stanno a bordo pista tutto il santo tempo, con obiettivi come cannoni, gli ho chiesto qual era la foto pi bella che avesse mai fatto: pensavo un sorpasso, o una caduta, cose cos. Mha detto che ogni tanto, con una certa luce, in una certa angolazione, se hai fortuna, per un istante le visiere dei caschi diventano trasparenti: e se tu scatti, quel che vedi nella foto, alla fine, sono gli occhi. Una meraviglia, mha detto, senza nemmeno provare a spiegarmi come sono. Volevo chiedergli se cera della paura. Ma aveva laria di uno che parlava dellindicibile. Cos ho lasciato perdere. Poi, quando col taccuino in mano, in una perfetta imitazione di un giornalista, mi son trovato nel motorhome di Biaggi, con lui davanti, vestito normale, soprattutto senza casco- che gli potevi vedere gli occhi, glielho chiesto, naturalmente, al Max campione del mondo. Hai mai paura? Non ha mosso un muscolo. Mai. Mi ha chiarito le cose definitivamente un signore che si chiama Giovanni Sandri e che il capo meccanico di Max. Lavora tra i motori dal 69 ed , immagino, uno di quei maghi che sentono passare la moto e dal rumore sanno gi cosa non va. Faccia tranquilla da zio che ci pensa lui: quelle facce che speri di trovarti davanti quando vai a fare una gastroscopia. Mi son fatto spiegare perch Biaggi il pi grande, se lo . Lo . Lui e Doohan sono i migliori. Mi ha spiegato che due piloti su cento sanno andare veloci e capiscono veramente qualcosa di meccanica: e Biaggi uno di quelli. Mi ha spiegato che se metti Biaggi su un circuito che non ha mai visto, al terzo giro lui ha gi trovato le traiettorie: e non sono cose che si insegnano, o ce lhai o niente. Mi ha spiegato che Biaggi lavora da matti e, soprattutto, cattivo: vuole vincere, tutto il resto e tutti gli altri non significano niente. Mancava, nellindice delle virt, il coraggio. O almeno: mi sembrava mancasse. Il coraggio? Mah non che abbiano coraggio questi qua E diverso: che se fai questo mestiere, neanche lo sai cos la paura. Discorso chiuso.
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Palomar e Palomar

San Diego County, California La strada che porta all' Osservatorio astronomico di Palomar passa in mezzo ad aranceti e riserve indiane. Gli aranceti sono la California che sognavano i personaggi di Steinbeck, scivolando gi per la Interstate 66, e per le pagine di Furore. Le riserve indiane sono riserve indiane e basta: una cosa pi triste perfino delle verdure bollite e del circo. Quando vedi cataste di carcasse d' automobile e vecchi pneumatici dappertutto, allora sei in una riserva indiana. Le case sono quelle che poi incontri in autostrada viaggiare agli ottanta all' ora caricate su lunghi camion: parallelepipedi con porte e finestre e lavandini e tutto, te le spostano dove vuoi. Quel che c' di pi simile ai vecchi tepee, tende per gente che amava spostarsi, o doveva fuggire. Le facce sono quelle dei film con gli indiani, ma hanno in testa un cappellino da baseball. Spesso, se nelle vicinanze della casa c' un grande albero, sotto ci vedi una poltrona: una poltrona da salotto, solo che sta l fuori, sotto l' albero. Ne ho viste tante. Non ci ho mai visto seduto nessuno. Le

riserve indiane sono la micidiale icona di una disfatta. In mezzo a riserve indiane e aranceti americani corre la strada che porta all' Osservatorio di Palomar, Contea di San Diego, California. L' Osservatorio di Palomar iniziarono a pensarlo negli anni Venti, per guardare le stelle pi lontane che c' erano. Lo inaugurarono nell' estate del 1949, in una notte senza nubi. I primi racconti di Palomar, Calvino li scrisse nel 1975, pubblicandoli sul Corriere della Sera. Il libro usc nel 1983, da Einaudi. L' autore lo riassunse cos: "Un uomo si mette in marcia per raggiungere, passo a passo, la saggezza. Non ancora arrivato". Calvino mor nel 1985. Palomar il suo ultimo libro. L' Osservatorio di Palomar una specie di enorme elmo bianco, bellissimo, che brilla sul crinale di una montagna qualunque. Bianco come una casa andalusa, o un lenzuolo negli spot del Dash. Tutt' intorno solo alberi bassi, qualche sentiero, e una strada che finisce l. Non ci sono case, uffici, niente. C' lui, l' immane telescopio, e basta. La cupola che lo nasconde una semisfera quasi perfetta che pu ruotare per 360 gradi. Di giorno mai, ma di notte si apre uno spicchio della semisfera, come una enorme ferita: e dalla ferita, il telescopio guarda. Vede luci accadute milioni di anni fa. La prima pagina di Palomar un uomo che guarda un' onda. E la descrive. Non come fosse un uomo: come se fosse uno strumento ottico. Chiunque sappia scrivere - voglio dire chiunque abbia con la scrittura un rapporto anomalo, straordinario e elettivo - conosce prima o poi quella tentazione. Astenersi dalla letteratura, e limitarsi a descrivere. "Forse la prima regola che devo pormi questa: attenermi a ci che vedo", pensa il signor Palomar. E' una tentazione irresistibile: azzerare tutto l' aspetto seduttivo, canagliesco, della narrazione e puntare dritto al cuore delle cose, cercando di arrestarti un passo prima del meretricio del narrare, dove ancora il gesto che fai semplicemente: nominare. Puoi provare a farlo se disponi di un dominio assoluto sulla tua scrittura. Palomar ci riesce, perch scritto in modo divino. Il lessico si appoggia sugli oggetti, e sembrano le due parti di un' unica conchiglia. Le frasi sembrano essere il respiro esatto dell' esserci delle cose. Pulizia, limpidezza, geometria. Ci sono passaggi che simulano un' oggettivit tanto accecante da far sbiadire il miglior Kafka ad autore sentimentale. Riusciva, a Calvino, di coniare schegge di referti scientifici solo vagamente ammorbiditi dalla memoria lontana di una qualche eleganza letteraria. "Il recinto rettangolare di sabbia incolore fiancheggiato su tre lati da muri sormontati da tegole, oltre i quali verdeggiano gli alberi. Sul quarto lato una pedana di legno a gradini dove il pubblico pu passare e sostare e sedersi". Bisogna leggerlo lentamente. "Il recinto rettangolare di sabbia incolore fiancheggiato su tre lati da muri sormontati da tegole, oltre i quali verdeggiano gli alberi. Sul quarto lato una pedana di legno a gradini dove il pubblico pu passare e sostare e sedersi". Perfetto. Palomar cristallizza un' utopia che chiunque sappia scrivere conosce. E tuttavia: come mai, pur essendo un' utopia, non brucia, e anzi, in certo modo, sa di morte: fredda? Dentro, l' Osservatorio di Palomar tutto grigio, come una nave da guerra. E sembra Metropolis, di Fritz Lang. Sotto l' immane campana della cupola, levita, enorme, il telescopio. Una specie di cannone galleggiante tra miriadi di meccanismi che gli permettono ogni tipo di rotazione. Non bisogna pensare a un grande cannocchiale, a lenti immense: il principio un altro: un enorme specchio che raccoglie la luce delle stelle e la riflette concentrandola in un minuscolo punto: l' occhio dell' astronomo. Un' idea che venne a Newton, nel 1688. Qui l' hanno applicata alla grande: volevano vedere le stelle pi lontane: costruirono uno specchio concavo del diametro di cinque metri. Il "200 pollici", lo chiamano amichevolmente, come se fosse un obbiettivo della loro macchina fotografica. E in un certo senso lo . Ci misero mesi a costruirlo. Lo fecero a Pasadena. Pensa al giorno in cui lo trasportarono fin l: duecento chilometri di autostrada e un monte da scalare. Roba da film. Di notte, dalla grande ferita aperta nella cupola filtrano luci partite milioni di anni fa, rimbalzano sull' immane specchio e risalgono fino a una piccola cabina, appesa in alto, dove seduto su una sedia girevole, un uomo le raccoglie. E per questa newtoniana faccenda di rimbalzi e riflessi, accade una cosa che appare bellissima, al profano quantomeno, perch al sapiente sembrer ovvia, ma per il profano, che non se l' aspettava, suona bellissima, e perfino vagamento simbolica: per guadagnare la punta del cielo, l' astronomo guarda in basso.

Sta chino su uno strumento, come se fosse un semplice microscopio, e appeso lass, guarda il cielo, guardando per terra. Il signor Palomar guarda le cose - si attiene a guardare le cose per catturare la loro verit. Per vedere il cielo, guarda per terra. E anche questa un' utopia niente male: che nominando le cose diventi possibile rivelare la loro verit. E anche pi radicalmente: che nominare le cose sia possibile. Se ne accorse, ovviamente, lo stesso Calvino, e tutte le ultime pagine di Palomar sono dedicate alla dissezione di questo dubbio, perpetrata con il bisturi di una intelligenza implacabile e l' antiemorragico di una prosa scientifica. Riflette, il signor Palomar, e si rende conto che non basta guardare le cose, bisognerebbe poterle vedere a prescindere dai propri occhi, occhi contingenti, umani, suscettibili di mille condizionamenti, e soggettive imprecisioni. Immagina, il signor Palomar, di riuscire a diventare nient' altro che "una finestra attraverso la quale il mondo guarda il mondo". Si spinge a cercare di vedere, il signor Palomar, come sarebbe il mondo se lui non esistesse, se fosse morto. Si sforza di vedere "l' estendersi e il succedersi delle cose sotto il sole, nella loro calma impassibile", una volta "eliminata quella macchia di inquietudine che la nostra presenza". Lo fa nell' ultimo capitolo. Paradossale conclusione: il mondo vero quando nessuno lo osserva. Capolinea di qualsiasi utopia. Palomar un teorema che alla fine confuta se stesso. E' un libro che quando hai finito di leggerlo non esiste pi. Forse che vedere le cose non pu essere descriverle. C' bisogno di uno scarto artificiale che compensi la naturale e inevitabile dissintonia che corre tra occhio e mondo. Una sorta di contromovimento, che li riallinei, recuperando in maniera artificiale quello che sarebbe un naturale rapporto con l' autenticit. Il gesto che imprime quel contromovimento, quello scarto artificiale, ha un nome: narrare. Anche il "200 pollici" ha bisogno di un contromovimento, per vedere. Quando l' astronomo, vagolando per i cieli, cattura una galassia, o un pianeta, e riesce a inquadrarli con esattezza, quel che non pu fare rimanere immobile. Giacch la terra gira, e per quanto lentamente lo faccia, questo basta a spostare l' occhio del telescopio di quel nulla che, a distanza di anni luce, significa spazi immensi. Cos, l' immane telescopio porta in s un meccanismo che lo fa ruotare, dall' istante in cui ha inquadrato la sua preda, alla stessa velocit della terra, ma in senso opposto, verso ponente. Lo muove, perch possa rimanere immobile. Cos, volendo attenersi ai fatti, l' immane telescopio, quando dialoga con i confini ultimi di Andromeda, lo fa da un luogo che non appartiene alla terra, e che dunque, lecito dedurre, un luogo dell' immaginazione. Sar il silenzio, bestiale, che c' intorno. O quell' atmosfera un po' irreale. A star seduti contro il grande elmo bianco, vengono strani pensieri. Se scrivi, e sei italiano, e vieni tradotto, poi ti chiedono, gli stranieri, quali sono i tuoi modelli. E per quanto tu divaghi tra americani e tedeschi, alla fine loro vogliono che tu dica: Calvino. E tu finisci per dirlo. "B, s, ovviamente, Calvino". Per non sapresti dire, precisamente, il perch. Non potresti citare un solo suo libro che ti abbia veramente fulminato. Il cavaliere inesistente, s, ma con una leggerezza quasi impercettibile, come se te l' avesse sussurrato. E le Citt invisibili, che era bellissimo, ma com' che Borges sembrava cos pi bello? E Palomar, ma Palomar un non-libro. E' uno splendido epitaffio alla letteratura. E' cos chiaro che Calvino era un grande, ma non riesci precisamente a ricostruire com' che lo diventato. Sar il silenzio che c' . Ma ti vengono strane curiosit, tipo: ma Calvino vendeva?, voglio dire, entrava nelle classifiche? E gli altri, lo lasciavano in pace o facevano la fila per guadagnarsi cinque minuti di celebrit rovesciandogli addosso fetenzie? E quando rifiut il premio Viareggio sostenendo che "era definitivamente conclusa l' era dei premi letterari", gliela fecero passare o lo coprirono di ironia fetente? E quando non rifiut, due anni dopo, il Premio Asti, nessuno se ne accorse o ci si fiondarono su tutti i biliosi del Paese? Voglio dire, com' era la sua quotidiana partita a dama con la meschinit collettiva, com' la vita di uno che poi diventa un grande? E come riuscito, lui, a guadagnarsi non dico l' ammirazione, che il meno, o la fama, che nulla: ma il rispetto. Cosa ha fatto, tutti i giorni della sua vita, per riuscire alla fine a guadagnarsi il rispetto? E' chiaramente tutto 'sto silenzio, e l' elmo bianco, e questo nome bello come un suono. Palomar.

A una cinquantina di metri dal grande elmo bianco c' una piccola panchina di pietra. E sulla panchina sta scritto: In memoria di Pearl. Poi c' il nome per esteso, Doris Pearl Curry, e le date 1936-1982. Poi, a capo, tutto su una riga, senza virgole in mezzo: figlia sorella moglie madre nonna. E alla fine, bello in centro: amica di tutti. Chiss Pearl. Com' era. Amica di tutti. Uno se la immagina. Una vita tutta normale, senza fare del male a nessuno, e una specie di leggerezza addosso, contagiosa. Stava mai zitta, secondo me. Ma in un modo delizioso, evidentemente. Se gliel' hanno messa proprio l, la panchina, una ragione ci sar. Le piaceva Palomar. Ci andava ogni anno. Costringeva tutti ad andarci. O non ci era mai andata. Ma le piacevano le stelle. E le guardava dalla veranda di una casa normale, in un paese normale, con un garage attaccato alla casa e il canestro da basket appeso sul portone. Faceva un tacchino ripieno che era una meraviglia. E la sera guardava le stelle. Quello che non riesci a perdonare, a Palomar, che espelle dal paesaggio qualunque Doris Pearl Curry: abroga l' elementare bellezza dell' umano. Tanto pi la mente e la scrittura si fanno esatte, quanto pi scivolano via dal profilo di ci che, semplicemente, vivo. C' qualcosa, nel signor Palomar, di vagamente umano, ma sono quasi vezzi ironici, lasciati cadere l per lenire la freddezza del grande teorema. In un libro che racconta, tutto sommato, una disfatta, mai che trovi una umile riga di tristezza: cos, tanto per riportare tutto sulla terra. E' come se il prezzo dell' intelligenza fosse l' anemia del sentimento. E l' ammissione dei sentimenti, una inaccettabile crepa nella superficie smerigliata del pensiero calcolatore. Dev' essere per quello che, alla fine, dici "B, s, ovviamente Calvino", ma senza tutta quella convinzione che vorrebbero da te. E' che non riesci a ricordare dove, quella smagliante ed esatta leggerezza, ti ha raccontato una terra, e non la sua mappa. Semplicemente l' umano, e non la sua radiografia. (Quando, negli anni Venti, si misero a cercare il posto giusto per montare il loro 200 pollici, scelsero il Monte Palomar, per tante ragioni, e perch era in mezzo al nulla. Poi le cose non andarono come se l' erano immaginate. Los Angeles e San Diego scoppiarono di gente, di case, di strade, di automobili, e soprattutto: di luce. Il buio, per un telescopio, come l' ossigeno. Adesso il 200 pollici soffoca in una delle aree pi luminose d' America. Lighting pollution, la chiamano loro: inquinamento da luce. Di fatto, le mille luci della California meridionale hanno ridotto la vista del telescopio a poco pi della met. E' largo 5 metri, l' enorme specchio, ma se fosse grande la met ormai sarebbe lo stesso. Cos hanno messo un cartello, a Palomar. Si intitola: tu puoi aiutarci. Molto americano. Dice che bisogna sensibilizzare le autorit al problema, dice che bisogna convincerle a usare certe lampade meno inquinanti. E poi dice una cosa bellissima: se vivi in California meridionale, la sera, per favore, quando vai a dormire, spegni, se puoi, la luce del giardino. Grazie. Magari non molti, ma alcuni ci saranno. La sera chiudono la porta a chiave, si mettono il pigiama, e spengono le luci del giardino, cos qualcuno, sul Monte Palomaar, potr vedere qualche anno luce pi lontano. Non per buttarla sul sentimentale, in spregio a Palomar, ma mi venuta in mente una cosa. Se proprio vuoi sapere chi ti ama davvero - ma davvero - guardati intorno e cerca uno che spegne la luce del suo giardino, la sera, perch tu possa veder le stelle pi lontane che puoi, nel cielo) (p. 158s).

A Vattimo Caro Vattimo, troppo tardi ho scoperto che oggi salirai in cattedra per lultima lezione all Universit. Troppo tardi per smontare tutto e riuscire a venire l, come mi sarebbe piaciuto fare. Peccato. A conti fatti, non se ne incrociano poi molti, di veri maestri, in una vita, e tu per me lo sei stato, un vero maestro, e in un modo che non ho mai dimenticato. Secondo me, se hai ventanni e ti piace lo spettacolo dellintelligenza, finire in unaula a sentire un vero filosofo, il massimo. A me successo per quattro anni, alle tue lezioni, e da l ho

contratto la convinzione che la filosofia resta lesercizio pi alto, se solo quello che cerchi l ordine delle idee, il rigore delle visioni, il virtuosismo dellintelligenza: uno sport estremo, da vette ultime, e chi c passato sa che non c nulla di paragonabile alla vista che c da lass. Tutto il resto pianura. Colline, ogni tanto. [...] Credo di aver capito letica kantiana quando molto seriamente ci hai fatto presente che alle tre di notte, in una citt deserta, davanti a un semaforo rosso, ti fermi solo se sei un fesso: o se sei Kant.

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