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Inno Quechua
(frammento)
Le scienze che seguono i percorsi che le sono propri, non hanno causato
molto danno fin'ora; però un giorno l'unione di quelle conoscenze
dissociate ci aprirà alla realtà e alla posizione indelebile che in questa
occupiamo, prospettive così terribili che impazziremo davanti alla
rivelazione, o fuggiremo da quella funesta luminescenza, rifugiandoci nella
sicurezza e nella pace di una nuova età delle tenebre.
H.P. Lovecraft
I miti di Cthulú
Tutta una cosmogonia e tutta una psicologia possono trasmettersi in un
geroglifico che non ha alcun significato per chi non è iniziato.
Dion Fortune
La Cabala mistica
Prologo
***
Il capitano Bertozzi arrivò con non poche difficoltà nel luogo indicato dalla
mappa consegnatagli da Massimo Toddi che gli aveva anche raccomandato
di distruggerla a missione compiuta. Era una viuzza gremita di passanti,
nel centro commerciale di Mái Edagá. Di fatto il posto era un altro mercato
dove due giovani offrivano essenze di tutti i tipi, delicate ceramiche di
artigianato e parecchie stoffe dai disegni molto vari. Sembrarono
veramente sorpresi quando l’italiano chiese del “dottore Abdul al
Alhazred”. Prima di rispondere confabularono a lungo - anche se sottovoce
- nel loro idioma impenetrabile.
Alla fine lo fecero passare nel retrobottega in una saletta appartata, tutta
adorna di ricchi tappeti persiani.
Dovette attendere per circa mezz’ora finché una donna, col viso coperto, gli
indicò di seguirla ancor più all’interno della casa.
In un ampio salotto lo attendeva un uomo molto anziano con un vestito
all’europea piuttosto stropicciato e senza cravatta. Quando si presentò -
parlando un perfetto italiano - come Abdul Ib’n al Alhazred, il capitano
Bertozzi gli chiese cortesemente di mostrargli le sue generalità. Allora
l’uomo fece qualcosa di veramente straordinario. Si trasformò in una
pantera nera e lucente che, balzando dalla poltrona dove era seduto
l’anziano, cominciò a girare intorno all’ufficiale guardandolo
minacciosamente. Con mano incerta il capitano Bertozzi estrasse dalla
valigetta la scatola di piombo che conteneva e nello stesso momento il
vecchio, pallido in volto, riapparve seduto sulla poltrona.
Prima di congedarlo, gli disse alcune parole che il capitano avrebbe
segnato in seguito sul suo taccuino per non dimenticarle:
«Tu non sei il predestinato, ma in questi giorni, nascerà dal tuo seme colui
al quale sarà dato di trovare e capire la Parola».
***
Parte prima
Roma, 1995.
Angelo Merante era preoccupato per le conseguenze che potevano derivare
dall’ipotesi suggerita da Bertozzi. Mentre guidava nell’intenso traffico di
Viale Aventino si diceva che non era possibile l’esistenza di un'equazione di
quel tipo.
Secondo questa - secondo questa ipotesi - l’esistenza materiale dipendava
da un sistema di relazioni metafisiche. Da lì, a sostenere che ciò che si
percepisce con i sensi è un’illusione - come sostengono i buddisti - il passo
era breve.
Dove andava a finire allora la complicata e seria ricerca degli scienziati
occidentali che per secoli avevano accumulato, pezzo su pezzo, particella
su particella, un bagaglio formidabile di evidenze legate alle dimostrazioni
razionali - e, certamente, materiali - dell’esistenza? Che sarebbe successo
dei sofisticati strumenti di osservazione e misurazione creati dall’uomo,
come il microscopio o le reazioni chimiche, se tutto si poteva modificare
con una voglia di volontà, per mezzo di vaghe idee?
Poiché l’ipotesi della pergamena non significava altro. La pretesa che con
una combinazione di allusioni astratte, generate sulla base di certi segni, si
potesse modificare la composizione molecolare della materia. Né più né
meno di quanto sostenuto da certi maghi del Medio Evo, del Rinascimento
- come Paracelso - che certamente era stato sepolto dalla vera scienza.
Ma Bertozzi era il suo miglior amico, e un uomo onesto a tutti gli effetti. La
sua ansia di ricerca, inoltre, era sempre stata puntigliosa e accuratamente
organizzata. E se quell'ipotesi ereditata dal padre risultasse essere vera?
Angelo Merante non volle pensarci e, approfittando della sosta davanti a
un semaforo, accese una lunga sigaretta turca, tirandola fuori da un
astuccio di legno con disegni inisti che gli avevano regalato da poco.
1995, Francavilla al Mare e Roma.
In fondo alla lettera era disegnata una semplice cartina geografica che
indicava un luogo tra le viuzze del centro. E il nome che dovevano
chiedere.
Dopo un attimo di riflessione, Bertozzi disse:
- Credo che dovremo andare lì.
François e Laura protestarono. Il francese disse:
- Attento, Gabriele, potrebbe essere uno scherzo pericoloso del tipo di
quello che ti hanno già fatto a Francavilla al Mare…
- No - rispose Bertozzi -. Ho la forte sensazione che si tratti di una
straordinaria verità.
Who is Bertozzi?
Laura e Bertozzi arrivarono a Mái Edagá alle due di notte. Faceva freddo,
per fortuna l’autista trovò rapidamente il piccolo hotel dove avrebbero
alloggiato durante la loro permanenza. Prima di entrare, Bertozzi baciò la
terra che aveva sentito i suoi primi soni. Dormirono fino a mattina
inoltrata e solo verso le due del pomeriggio uscirono per conoscere il
paese. Camminarono per ore tra le viuzze polverose, tra centinaia di
bancarelle che offrivano ogni sorta di prodotti, fermandosi di tanto in
tanto per ammirare alcuni piccoli oggetti di artigianato locale tra
l’abbondante offerta di oggetti giapponesi, cinesi o nordamericani.
Alle nove di sera, si resero conto che si erano dimenticati di mangiare. E lo
fecero in una piccola trattoria, illuminata da lampade a petrolio appese alle
pareti, e fu anche una porta aperta alle sorprese ogni volta che giocavano a
scoprire gli ingredienti dell’appetitosa cena - scelta a caso giacché non
conoscevano la lingua - che avevano ordinato.
Così passarono due giorni alla scoperta di quella cultura deliziosa e dei
posti nascosti del luogo. Solo al terzo giorno si decisero a compiere quella
missione che sembrava fosse voluta da tanti secoli.
Per tutto il tempo Bertozzi si era sentito in un modo come prima non gli
era mai successo. Una specie di trasposizione del corpo in un piano extra
terreno, in cui gli sembrava di volare invece di toccare terra con i piedi. E
la sua emotività vibrava a fior di pelle, mettendolo spesso e senza una
ragione apparente sull’orlo delle lacrime.
Questa sensazione andava intensificandosi man mano che si avvicinavano
al posto indicato sulla cartina fino a diventare un’acuta oppressione nel
petto tanto che a un certo momento indusse Laura a chiedergli se si
sentisse bene; e lui fu sul punto di chiederle di ritornare rinunciando a
quella strana avventura che all’improvviso gli causava un profondo senso
di instabilità interna.
Ciononostante non disse niente e solo dopo un po’ disse:
- Sí, confesso che sono un po’ emozionato. Però è comprensibile, no?
Finalmente arrivarono al posto indicato. Era una botteguccia dove era
esposto ogni tipo di indumento, dai bellissimi abiti arabi da donna, fino a
quelli molto rifiniti da uomo, in stile occidentale. Una ragazza
particolarmente bella andò loro incontro, senza capire quasi niente di quel
che dicevano, ma i suoi occhi si illuminarono quando le dissero che
cercavano il dottor Al Alhazred. Un uomo scuro con gran baffi neri che era
rimasto in silenzio dietro alla cassa, si avvicinò e in un italiano accettabile
domandò i loro nomi. Dopo che glieli ebbero detti, parlò un po’ con la
ragazza nella loro lingua e subito questa andò nel retro oltre una pesante
tenda.
Bertozzi e Laura si intrattennero osservando le ricche stoffe esposte,
appese con grazia a piccole stampelle di legno a loro volta appese al
soffitto. Dopo venti minuti - ventiquattro per l’esattezza, osservò Bertozzi -
la ragazza tornò dicendo che il dottor Alhazred li attendeva nel suo studio
privato. L’uomo che parlava italiano disse loro che li avrebbe condotti lei.
Da un corridoio molto illuminato da luci al neon, dove si vedevano ritratti
di uomini e donne appesi alle pareti, attraverso una vecchia porta
passarono a un altro che, benché fosse della stessa grandezza sembrava più
angusto. L’impressione era data dalle piccole lampade a olio, che distanti
più o meno tra loro circa tre metri, constituivano l’unica illuminazione del
passagio. Sotto quel bagliore morente, le rugosità dell’intonaco si
evidenziavano drammaticamente; gli europei notarono che non vi era
alcun addobbo se non piccoli segni che sembravano dipinti col pennello,
proprio a metà tra una lampada e l’altra, vale a dire, proprio dove la luce
era insufficiente per vederli con una certa chiarezza.
Arrivarono a una porta angusta che terminava ad arco, e dopo aver
oltrepassato alcune tende si trovarono in uno studio immenso, zeppo di
libri e oggetti antichi, da dove oltre le finestre aperte, attraverso le tende
trasparenti mosse ritmicamente dalla brezza, si potevano scorgere le belle
palme che sembravano essere l’unica compagnia di un antico palazzo di
uno stile precedente a quello mussulmano, oltre il quale vi era solo il
deserto.
L’uomo che li attendeva sorridente dietro l’ampia scrivania sembrava
molto giovane, e i suoi lineamenti avrebbero potuto essere benissimo
quelli di un francese, di uno spagnolo o di un italiano. L’impressione era
accentuata dai vestiti: portava un leggero sweter bordeaux, su una camicia
di un celeste molto pallido, e quando in seguito durante la conversazione si
alzò da dietro la scrivania per muoversi un po’, poterono verificare che
portava anche jeans curati e mocassini di pelle naturale. Dopo averli
salutati in un perfetto italiano, si presentò come «Abdul Al Alhazred,
dottore in economia e commercio… ».
- La sua professione è… - chiese Bertozzi, sorpreso giacché si aspettava di
incontrare un egittologo o uno studioso di scienze occulte o qualcosa di
simile.
- Economista, disse l’uomo. Lavoro per il governo, nel campo della
pianificazione. Abitualmente non risiedo a Mái Edagá, ma ad Addis Ababa.
Sono venuto ora, soltanto per aspettarvi…
- Allora sapeva del nostro arrivo… - disse Bertozzi.
- Lo sapevamo - rispose l’uomo.
- Allora sa anche la storia della pergamena di suo nonno… - disse Bertozzi,
a mezza voce.
- So tutto della pergamena… della mia pergamena, non quella di mio
nonno… - rispose sorridendo l’etiope -: Io sono Abdul Al Alhazred… non
suo nipote.
- Ma mio padre lo vide nel 1945… e aveva circa settant’anni, secondo la sua
descrizione… e lei non deve averne più di trenta…
L’uomo rimase in silenzio, alcuni secondi, come chi pensa a quel che deve
dire.
- Non è semplice spiegare ciò che siamo - perché è esprimibile solo con
referenze non accettate dalla nostra ragione - disse alla fine. Voi e io, siamo
in realtà molto vecchi… solo che nel mio caso personale mi è stata data la
non molto facile responsabilità della coscienza permanente nel piano
fisico… Ma voi siete proprio quelli che, per mia fortuna, dovrete liberarmi
da questo compito con in più la gioia di aver compiuto la mia missione.
Tornando al mio aspetto: posso presentarmi nel modo in cui desidero,
vecchio o giovane, drago o animale, con l’unica limitazione del sesso,
perché mi fu concessa solo una energia maschile. Questi piccoli trucchi li
ho imparati nei duemila anni di esistenza che mi porto dietro…
- Lei ha vissuto duemila anni? domandò Laura.
- Ho vissuto per tutto questo tempo sulla terra, a causa di questa delicata
missione… ma per favore, sedetevi… gradite un caffè?
Dopo essersi seduti, e dopo che una svelta fanciulla in shador ebbe servito
loro un caffè denso e squisito in preziose tazzine, ascoltarono la storia vera
e completa della pergamena… che erroneamente chiamavano « di Mái
Edagá», ma che da allora dovevano chiamare «di Qumrán».
Ecco il racconto di Alhazred: «Durante gli ultimi anni del regno di
Giovanni Hircano, il santo pellegrino Menahem vide che Erode sarebbe
stato un grande re, e il suo governo avrebbe rafforzato Israele.
«Il suo cuore gemello, il nostro fratello e sacerdote Qohelet, disse che per
gli eseni era arrivato il momento di agire. In accordo con ciò che sembrava
una seria interpretazione delle Scritture, i tempi attesi del Messia grande e
portentoso, erano arrivati… secondo la valutazione del nostro sacerdote, il
figlio di Antipatro era chiaramente quello chiamato a restituire la gloria al
popolo di Israele.
«Era ovvio che per questo, prima o poi si sarebbe visto obbligato a
espellere i romani, i greci e gli altri popoli empi e degenerati, come quelli
che dalla Siria e dal Nord Est dispiegavano i loro influssi perversi sulla
razza superiore dei veri semiti di Israele.
«Non importò che Erode, appena incoronato, si fosse sottomesso a
Marc'Antonio, il quale lo aveva fatto proclamare rex amicus et socius
populi romani dal senato. E nemmeno il suo matrimonio con Marianna, la
figlia del Sommo Sacerdote fariseo, traditore della causa di Israele, né
l’orrenda strage di quarantacinque membri del Sinedrio che il giovane re
aveva ordinato per consolidarsi. Al contrario, a Qohelet - che era
ossessionato dalla sua illusione - quelle aberrazioni sembrarono prove
dell’astuzia e fermezza che si convengono a un buon capo.
« Così è che, per la prima volta, si decise a concepire un oggetto
straordinario la cui formula segreta - appresa non senza innumerevoli
raccomandazioni da un antenato recabita che a sua volta l'aveva avuta da
un Ebdemelec Etiope - era rimasta nella sua mente fino ad allora in
astratto. Come si vede, il circolo iniziale si chiude.
«Qohelet si decise a ricostruire la Parola segreta scoperta sembra durante
il regno di Nabucodonosor, da Ebdemelec e i recabiti.
«Questa Parola era la concentrazione cardinale di energia, la quintessenza
della materia, uno dei quattro atomi elementari dell’Universo e conteneva,
in sé, la particella infinitesimale dell’umidità e del fuoco, della sonorità e
del silenzio, del sensibile e dell’invisibile, capace di suscitare, con la sua
alchimia, tutte le forme della materia, di trasformarle o disintegrarle.
«Qohelet decise di rendere attiva questa conoscenza, per metterla al
servizio del suo re, giacché era convinto che egli avrebbe reso possibile ciò
che aveva annunciato Abdias: I senza terra, questo esercito dei Figli di
Israele, erediteranno ciò che appartenne ai cananei… e le città del
Negueb… usciranno vittoriose, fino al monte Sion per governare da lì…
« Per quaranta giorni e quaranta notti Qohelet digiunò, fece penitenza, si
coprì con un saio e cosparse di cenere i capelli già grigi, poiché non si
riteneva degno dell’immensa responsabilità che gli era stata data. Solo
dopo lunghissime invoazioni durante le quali si vide circondato da ogni
sorta di esseri indescrivibili, e in uno stato in cui quasi non toccava terra
con i piedi, prese tra le mani la pelle purificata. Questa era stata riposta in
una scatola d’oro per tantissimi anni, ma si era conservata assolutamente
incorrotta. Lo spirito guidò il suo tratto con mano ferma e pennello sicuro,
per disegnare le nove lettere che conosceva nei minimi particolari, ma che
fino a quel momento non aveva mai osato suscitare. Dopo, con labbra
tremanti si mise a cantarle articolando nella forma indicata e con la
melodia necessaria la loro pronuncia.
«Ma non successe niente. Il tentativo era fallito.
«Disperato, per lunghi giorni Qohelet frugò e rifrugò nei rotoli cercando le
spiegazioni che già sapeva non avrebbe trovato: era una formula segreta;
nessun saggio, se l’avesse intuita, l’avrebbe consegnata per iscritto. Fino a
che, alla fine, osò fare qualcosa di abominevole.
«Tracciando per terra con un gesso nero una stella invertita, invocò
Asmodeo, il demonio maledetto, istruttore di tutte le scienze proibite agli
umani.
«Con una risata interminabile, il demonio gli diede dello scemo… Ma non
sapeva che tutte le cose nell’universo possedevano un polo positivo e uno
negativo? Ebdemelec e i recabiti avevano ingannato i suoi predecessori,
lasciando loro solo una parte del sapere perché la sua presenza fosse
simbolica, con l'unico scopo che non se ne perdesse memoria tra gli
uomini. Era impossibile far funzionare la pergamena senza la
partecipazione di una donna.
«Questo insegnamento costò a Qohelet l’obbligo di servire Asmodeo per
cinquemila anni. Ma si consolò dicendosi - artifici dell’intelletto - che
sicuramente sarebbe stato liberato da lui dal suo Messia, quando si
sarebbe impadronito del vero Potere.
«Qohelet doveva allora cercare la donna; e senza perder tempo, si mise
all’opera. Alcuni misteriosi suggerimenti di Asmodeo lo portarono a Partia
dove, dopo scrupolose ricerche credette di averla trovata.
«Ma prima di bussare alla sua porta, mio padre - sì, mio padre, che era
stato il suo migliore amico e lo accompagnava -, lo uccise.
«Mio padre, che era anche lui un santo, si era reso conto della tremenda
contraddizione in cui stava incorrendo Qohelet. Com'era possibile affidare
a un terribile dittatore e assassino come Erode le facoltà di un Dio, e
pensare che le avrebbe usate per il bene? Come si poteva invocare uno dei
peggiori demoni e credere che anche così si stesse servendo il Signore?
«Una volta sola mio padre affondò il pugnale nella nuca di Qohelet, per
inviarlo dal suo attuale padrone Asmodeo, e recuperò così la pergamena,
con la volontà di purificarsi e distruggerla.
«Ma al ritorno, giunto nella sua caverna di Qumrán, una terribile malattia
immobilizzò le sue membra tanto da poter muovere appena le mani per i
movimenti più essenziali.
«Fu allora che mi chiamò, giacché vivevo a quel tempo con mia madre a
Gerusalemme. Avevo 14 anni e avevo cominciato gli esercizi purificatori
con il proposito di iniziarmi al Servizio del Tempio.
«Però mio padre mi disse che gli era apparso un angelo e gli aveva
consegnato una boccetta con una pozione che dovevo prendere per
protrarre la permanenza del mio corpo qui in terra.
«Avrei dovuto conservare il mio corpo e la coscienza per alcune centinaia
di anni, forse, per compiere la missione che stava per affidarmi.
«Era stata commessa una profanazione inaudita, e si poteva risanare
unicamente restituendo il potente pezzo che era stato concepito
inopportunamente all’unico che avrebbe potuto dissolverla o dargli senso:
il Venerabile, Altruista Ingegnere di tutta la Creazione.
«La pergamena era indistruttibile con i mezzi umani. Anzi, qualsiasi
tentativo in quel senso avrebbe prodotto catastrofi imprevedibili
nell’ambito cosmico e terrestre, se lo si effettuava.
«Per questo, l’unica cosa da farsi era preservarlo fino al momento
opportuno, quando sarebbe giunto chi avrebbe saputo come agire.
«Intanto, la missione che mi affidava era:
«1) Dividerlo in due, esattamente dopo la quinta lettera.
«2) Trovare la donna che, analogamente alla mia esistenza, doveva
diventare immortale e nel contempo conservare la parte negativa della
pergamena finché fosse arrivata l’occasione di consegnarla a chi sarebbe
giunto per porre fine alla missione.
«Insieme, la donna e io, avremmo potuto - eventualmente - provare con
successo di porre in funzione il Potere concesso alla pelle di capra. Ma il
castigo che avremmo attirato sulle nostre anime con simile condotta,
sarebbe stato così orrendo, che persino l’angelo ammutoliva rabbrividendo
al solo immaginarlo».
Bertozzi si mosse per la prima volta sulla sedia e accavallò le gambe. Ma
presto abbandonò quella posizione, perché ricordò che gli arabi
considerano tale attitudine un'offesa. Questo fece sorridere Abdul
Alhazred, che gli disse:
- No, stia comodo se lo desidera, questa cosa da nulla non potrebbe dar
fastidio a me!…
- Mi scusi, mi scusi! - esclamò Bertozzi - Ho interrotto i suo racconto!
- Bene - disse dolcemente Alhazred -. Stiamo arrivando al culmine.
«Mi ci son voluti ventidue anni e sei mesi per incontrare la donna - che
non era quella che aveva trovato Qohelet. Viveva a Ctesifone, si chiamava
Hillen Fraates, aveva 23 anni (vale a dire che era appena iniziata la sua vita
quando mi fu affidato questo compito) ed era discendente di un re.
«Capì meravigliosamente il suo ruolo - era stata istruita per quello - e con
prontezza accettò.
«Le affidai la sua parte, la scatola d’oro con le cinque lettere. E da allora
non la vidi mai più».
- Non l’ha mai più incontrata dopo? - chiese Laura.
- Forse - rispose Abdul al Alhazred - . Voglio dire che non la riconobbi.
Sapete già che noi, tanto lei che io, abbiamo la facoltà di assumere diversi
aspetti, per fare con maggior efficienza il nostro lavoro e rendere meno
opprimente l’attesa del momento della nostra liberazione.
Seconda parte
Mozart disse che il piano che gli era capitato aveva tre tasti intrecciati e
non era sufficientemente accordato, ma la cosa certa è che perse la sfida
con Clementi - affermò Bertozzi
«Si incontrarono all'inizio di gennaio del 1781, per la prima e ultima volta,
nel palazzo dell'imperatore Giuseppe II d'Austria. Clementi avrebbe
raccontato in seguito a uno dei suoi allievi che prima che gli fosse
presentato, considerava Mozart come uno di quei figurini eccessivamente
agghindati che pullulano nelle corti reali. Ma lo diceva affettuosamente
perché Clementi non parlò mai male dei suoi avversari.
«Di contro Mozart non digerì mai che in quel confronto i più lo diedero per
sconfitto. Clementi è un ciarlatano, come tutti gli italiani. Scrive ‘presto’ in
una sonata o peggio ancora ‘prestissimo e alla breve’, e lui stesso la suona
‘allegro’ a compasso 4/4. L'unica cosa che fa bene sono i suoi passaggi in
terza; ma ha sudato giorni e notti a Londra, lavorandoci sopra. A parte
questo, non può fare niente, assolutamente niente, perché non ha la
minima forza espressiva, gusto e meno ancora sentimento: questo dice
Mozart di Clementi, tra altre ironie e offese, nonostante in varie occasioni
Clementi parlasse di lui sempre con gran rispetto.
«Ma questa è proprio una caratteristica tedesca; se osservi la storia della
musica, vedrai che gli inventori della Sinfonia (e dei fondamenti della
musica classica) furono italiani: Scarlatti, Corelli, Bononcini, Albinoni,
Stradella, Vivaldi. Ciononostante i tedeschi chiamano Haydn che si ispirò
costantemente a loro, ‘il padre della sinfonia’. Ma torniamo a Clementi.»
- Posso fare una domanda? - disse Furio De Mattia.
- Certo!
- Qual è il nesso tra questo pianista e la pergamena?
- Bene, ora lo vedrai… se mi lascerete arrivare al punto attraverso una
parte della sua storia.
- Oh certo! - rispose Furio - siamo qui per questo, o no?
Laura si servì una piccola dose di miele con pezzetti di noci, prendendola
con un cucchiaino lungo da un vasetto posto sopra un tavolo da disegno.
- Clementi era un uomo integro e disciplinato. Aveva talento a anche senso
dell'ordine e della pianificazione. Insomma era un uomo a tutto tondo… a
differenza di Mozart la cui educazione artistica era stata molto severa, ma
che nella vita era disordinato e passionale.
«Perché sottolineo questo?… per quanto segue: in un Diario intimo,
esumato in parte dai discendenti di Clementi e pubblicato a Londra nel
1897, ho trovato un paragrafo interessantissimo. Si parla di qualcosa che
nessuno menziona nelle sue biografie. Lo leggerò perché è essenziale» -
assicurò Bertozzi.
Prendendo alcune fotocopie da una cartella, lesse:
- Wiltshire, 7 agosto 1771 (Clementi allora aveva 19 anni), aggiunse
Bertozzi: Ieri abbiamo passato una serata straordinaria a Kentish, a casa di
Lord Craven, dove eravamo stati invitati, come ho detto prima, con tre
mesi di anticipo. Dopo le presentazioni abbiamo preso un aperitivo
durante il quale abbiamo parlato, per conoscerci un po'. Assisteva
all'incontro un gruppo di vicini influenti del posto. In seguito,
naturalmente, fui invitato a suonare.
«Ma la cosa più importante accadde dopo il concerto. Fu allora che Lord
Craven mi presentò quella donna, Lady Lunara, che non dimenticherò
mai.
«Era alta e bella, di età indefinibile poiché sembrava fisicamente molto
giovane e, nel contempo, matura per il modo in cui parlava. Se si spostava,
con angelica fragilità da un posto all'altro della sala, non potevo fare a
meno di seguirla, come un cagnolino, tanto mi sentivo attratto dalla sua
irradiazione. particolare Mi parlò, in un discorso molto saggio ma con
grande umiltà, della vita e della morte; del lavoro, della volontà, dell'arte,
della saggezza e dei Grandi Esseri che dirigono dai piani invisibili la nostra
evoluzione Mai avevo sentito parole tanto profonde da alcun mortale, ma
la cosa più importante era che io sapevo che le ‘lezioni’ di quell'angelo dalle
sembianze femminili, sarebbero state trascendentali per tutta la mia vita e
anche - è bene scriverlo - per quando la mia vita fisica fosse finita.».
Bertozzi smise di leggere.
- Poi Clementi cerca di sintetizzare in alcune pagine ciò che la donna gli
disse, idee che a sua volta l'editore taglia poiché le considera noiose per il
lettore comune. Ma in sintesi sono consigli, in relazione (come dice lui)
con la forma nella quale si deve vivere per accedere alla felicità possibile
per un umano su questa terra. E ha fatto sì che Clementi la conseguisse: da
figlio adottivo, passò a essere il miglior pianista d'Europa, l'unico che batté
Mozart, poi ricco fabbricante di pianoforti per arrivare alla vecchiaia colmo
di prestigio, affetto e possedimenti, dando concerti per i suoi amici fin
negli ultimi anni della sua lunga vita.
«Ebbene, rispondiamo ora alla domanda di Furio: ‘cosa c'entra tutto
questo con la pergamena’. La risposta potremo trovarla, credo, in
quest’altro testo (devo avvertire che è solo un'ipotesi). Leggo:
«Lunara Fluctibus, discendente in linea diretta da antiche famiglie di
Maidstone; di lei si diceva che avesse poteri paranormali, e correva voce
che possedesse un'antica pergamena egizia, chiusa in un cofanetto d'oro,
che la dotava della capacità di trasformare gli oggetti nei suoi contrari
qualora lo desiderasse».
Bertozzi rimase in silenzio, come se quello che aveva letto fosse già
sufficiente per giustificare tutta la sua storia.
- Ebbene? - disse Furio De Mattia.
- Ebbene? Non ti sembra suggestivo? Clementi giovane incontra questa
donna straordinaria e lei gli consegna, pare, la chiave del successo e della
prosperità. Noi stiamo cercando una donna così, no? Perché non potrebbe
essere la stessa?
- Potrebbe essere - mormorò Furio De Mattia. Ma si vedeva che non era
molto convinto.
Il suo nome è Azathoth, il dio cieco che esplode senza fine, e dalla sua
morte nascono i mondi manifesti, pianeti, stelle, soli e i suoi abitanti, lesse
Furio De Mattia e non poté fare a meno di rabbrividire.
… Yog-Sothoth, la materia informe, l'illusione che nessun uomo fuori dal
Naxyr potrà mai vincere. Sta sulla soglia ed è parte della soglia Il suo volto
è un cumulo di globi iridescenti che girano uno attorno all'altro. E uccide
ridendo; le sue spirali sono mortali per chiunque sia tanto imprudente da
lasciarsi ingannare. E' la corruzione della forma.
Stava quasi per smettere di leggere. Aveva trovato quello strano libro nella
biblioteca di Santo Stefano Circolare. Un monaco con la pelle
incartapecorita glielo aveva prestato senza alcuna raccomandazione, come
se disfarsene gli importasse molto poco, benché fosse evidente a prima
vista che era un esemplare unico.
V'era qualcosa di sinistro in quel volume dalle pagine appiccicose e
ingiallite, interamente scritto a mano con caratteri comuni, spesso difficili
da capire. Le espressioni idiomatiche di quell'italiano facevano pensare che
fosse del XI o XII secolo, quando la lingua scritta era ancora molto giovane
e non possedeva un'ortografia definitiva.
V'era un non so che di tenebroso in quell'oggetto. La copertina era fatta a
mano con una pelle eccessivamente liscia, di colore rossiccio che al
toccarla suscitava un'inspiegabile ripugnanza.
Vi fu un tempo in cui gli antichi abitarono a Nord, oltre il fiume di fuoco,
nel deserto freddo in cui si ergeva la Montagna sconosciuta - continuò a
leggere Furio De Mattia.
… Allora, Nyarlathotep pronunciò sette volte la Doppia Parola del potere
segreto… Quella Parola è nascosta nel bosco incantato, nel regno più
profondo del bosco incantato, nel regno più profondo del sogno, nel quale
tutto è e non è.
Da quel mondo non v'è possibilità di fuga. L'unica via d'uscita è affrontare
il misterioso guardiano che si nasconde oltre l'abisso, oltre la stella
luminosa…
Che suggestione strana possedeva quel testo che sottoponeva la ragione a
una serie di impulsi contraddittori, ora di attrazione ora di repulsione! La
mente di Furio De Mattia si riempì di immagini, antichi ricordi,
folgorazioni, incantesimi con il volto di Bertozzi che danzava nel mezzo
come una proiezione nell'aria…
E quando arriverai, incontrerai Chi-non-ha-forma che si nasconderà a te
sotto la maschera di un caos informe.
E ti rivelerà il cammino coln i quale potrai arrivare alla porta nera. E, tra le
due colonne, griderai il nome di tua madre e ripeterai tre volte il nome di
tuo padre. Ma, attenzione! Perché se lo farai senza doverlo fare, ti
rivolterai contro te stesso.
Arrivato a questo punto lanciò un grido, senza poter evitarlo. Chiuse il
libro di scatto e prese il telefono per chiamare Bertozzi. Ma il numero era
sempre occupato.
Roma, 14 febbraio 1996.
Pescara, 20 marzo.
L'incontro con Bertozzi avvenne alle sei del pomeriggio, a casa di Hillen.
Era un piccolo appartamento in una vecchia costruzione giallognola, in
una stradina in discesa da dove si vedevano le montagne.
Bertozzi, solo, arrivò a piedi con quindici minuti di anticipo. Hillen lo
aspettava sulla porta.
La ragazza, piccola, capelli castani, grassoccia, vestiva abiti molto comodi e
leggeri.
- Conosci anche me da tanti secoli? - chiese Bertozzi, quando si furono
accomodati nelle poltrone del salotto prismatico.
- No - rispose semplicemente la ragazza.
- Come sai, allora, che sono io colui che doveva venire?
- Esistono molti piani che gli umani «normali» non conoscono - rispose
pazientemente Hillen Fraates -. In questi, chi è allenato può vedere, come
in un film, gran parte di ciò che esiste nel mondo.
- E' lì che mi hai visto… - disse Bertozzi.
- E' così… ma non perché mi piaceva andare a curiosare nei fatti della
gente, ma per una ragione molto importante: i Grandi Esseri mi avevano
inviato un messaggero (già da vari secoli) che ci mostrò chiaramente come
sarebbe stato colui che doveva venire.
Il rituale della cerimonia di consegna fu iniziato da Hillen alle sei. Durò
esattamente trentasei minuti.
Quando Bertozzi uscì, stringeva contro il petto una valigetta di pelle nera,
consunta dagli anni con dentro, avvolto nel velluto rosso, il cofanetto d'oro
che conteneva la preziosa parte finale della pergamena.
Aveva cominciato a piovigginare. Qua e là piccoli fari giallognoli creavano
un alone simile all'atomo bombardato dall'uranio. Le viuzze anguste
scendevano e salivano nella penombra del corvo*. I capelli di Bertozzi
gocciolavano sulla fronte; non aveva preso la precauzione di prendere
l'impermeabile e il suo vestito bianco, di un solo pezzo, si stava
inzuppando. Non gliene importava niente, a malapena se ne accorgeva.
L'oggetto che portava, stretto contro il petto, gli trasmetteva una
straordinaria leggerezza e una sensazione di serena allegria. Quasi non
sentiva i piedi toccare il selciato: anzi credeva di galleggiare. Da lontano,
distinse le luci della Tabaccheria Vincenzo Cavallone dove Laura - già un
po' in pensiero - lo aspettava.
- Mi ha detto che non posso usarla.
Sulla via del ritorno Bertozzi raccontò a sua moglie le parti essenziali
dell'incontro. Laura guidava…
- Non puoi usarlo?
- Nessuno può usarlo. Anzi: nessuno deve usarlo. La pergamena è qualche
cosa che non dovrebbe esistere. Un'anomalia della natura. Qualche cosa di
mostruoso come la bomba atomica o il Fondo Monetario Internazionale.
Solo che quelli sono poteri ancora controllabili, nonostante la loro
enormità. La pergamena possiede un potere troppo grande, deleterio per
l'umanità, in questa tappa della sua evoluzione.
- Allora cosa dobbiamo fare?
- Dobbiamo restituirla.
- A chi?
- All'Essere Infinito, all'Innumerevole, alla cui sfera superiore fu
illegittimamente tolto dagli umani.
- Non potevano farlo loro, Hillen e Abdul?
- Non potevano.
- Perché?
- Non lo so. Forse perché non erano sposati, come noi. Perché non si
amavano, come noi. Questo ha suggerito Hillen. L'amore è una condizione
imprescindibile per produrre la musica.
- Che musica?
- La musica che fa agire la pergamena. Senza quella musica, non serve a
niente. In questo consiste il capire la Parola: non nel tentare qualche
applicazione concettuale, ma nell'estrarre dal suo senso la musica. Ognuna
delle nove lettere contiene un tipo di melodia. Che coincide con melodie
che conosciamo, poiché le opere d'arte altro non sono che accertate
incursoni di un genio umano nei piani superiori: esistevano già prima di
lui. Ma le melodie della pergamena possono essere suonate da due anime.
Due anime alle quali l'amore permetta di agire come il violino con l'arco.
Laura, d'un tratto, capì. E i suoi occhi si riempirono di lacrime.
Roma.
Otto giorni dopo, Gabriele-Aldo Bertozzi andò alla posta per spedire
alcune lettere e non tornò. Aveva detto a Laura che ne avrebbe approfittato
per fare una passeggiata, ma quando furono le dieci di sera - era uscito alle
cinque del pomeriggio - e non era ancora tornato, d'accordo con Furio De
Mattia, Angelo Merante e Giorgio Mattioli decise di avvertire la polizia.
L'ufficiale in borghese che arrivò al più presto, li trovò riuniti, perché
Laura aveva chiamato gli inisti dalle sette.
Al gruppo si erano aggiunti Flavio Donnini, Argentina Capriotti e Paolo
Pelino. Molero Prior aveva telefonato dicendo che avrebbe preso il primo
aereo in partenza dalla Spagna. Patricia Iezzi stava arrivando da Pescara.
Dopo aver discusso avevano deciso di raccontare tutto alla polizia.
L'ufficiale e il suo aiutante non capirono assolutamente niente della storia
della pergamena - come era da prevedere -, ma si diedero subito da fare
per cercare qualche pista e ritrovare Bertozzi. A questo punto si erano fatte
le tre del mattino.
Lucerna. Sabato 6 aprile 1996.
Dopo circa dieci minuti tornò in scena Hymet. Era tutto sconvolto in volto.
- Non ci resta che arrenderci e consegnare Bertozzi - mormorò rivolto alla
segretaria.
Senza dir niente, Marietta proruppe in lacrime.
- Quei mostri hanno circondato la casa con un arsenale capace di farci
saltare in aria in due minuti - continuò Hymet gridando -. Sono un fallito,
Marietta! - esclamò inusitatamente. Solo ora capisco che non sono nato
per queste cose…
Poco dopo, senza gloria, e con molta pena, i cinque uomini - compresi lo
spagnolo e la ragazza furono fatti salire sul cellulare della Polizia
antiterrorista svizzera.
Bertozzi, da parte sua, dopo aver abbracciato Laura e i compagni inisti, salì
su una macchina con cui erano venuti a cercarlo.
Pescara, 8 aprile. Ore 22.
18 maggio 1996.
Alle ore 18 del 18 maggio si riunirono tutti attorno alla stanza circolare
nella quale Bertozzi e Laura si erano rinchiusi con le due scatole che
contenevano la pergamena.
Pochi minuti dopo che furono entrati, cominciarono a sentire una musica
dolce, come di violini che usciva dalla stanza.
- Hanno qualche strumento con loro? - domandò Furio.
- E' la musica delle loro anime - rispose Patricia -, questo significa che
stanno cercando di far funzionare la pergamena.
Ma dopo un po' di musica sublime, cominciò a sentirsi qualcosa di
radicalmente diverso, suoni simili alla colonna del film «United of
Plutonium» del giapponese Tetsuji Kobayashi.
Ciò proccupò gli inisti che erano a guardia del rituale. Durante alcuni
lunghi minuti quei suoni persistettero. La situazione parve aggravarsi
quando, di tanto in tanto, le musiche si interrompevano, riprendendo
bruscamente con suoni simili a martellate su un tamburo, o stridii acuti,
fino a ricordare a tratti le esecuzioni più violente di Led Zeppelin o Deep
Purpple.
Ma dopo un momento di incertezza tutto si calmò. E cominciò a suonare,
da dentro, il Concerto n. 2 di Rachmaninov. Laura e Gabriele avevano
imparato a memoria uno schema fornito loro da Hillen Fraates. In quello
erano segnate le chiavi musicali della Parola. Eccolo qui:
Dopo un momento di profonda concentrazione, dai cuori di Gabriele e
Laura, seduti entrambi davanti al tavolo dove erano poste le due parti della
pergamena, emerse una linea di luce che, prendendo come vertice la
pergamena, formava un triangolo perfetto che li univa. All'interno di quella
linea circolava una vibrazione luminosa che in accordo con la pronuncia
mentale di ogni lettera fatta all'unisono, si impregnava di diversi colori.
Al prodursi di qualche disappunto o deconcentrazione, i colori si
sporcavano, la linea sembrava segata, la musica si interrompeva, dando
origine ai più vari rumori.
A poco a poco, però, gli sposi riuscirono a ottenere la pronuncia perfetta, il
cui requisito era che nel farlo, avrebbe dovuto suonare la melodia indicata
da ogni passaggio della costruzione eterica della Parola.
Quando arrivarono al Concerto di Rachmaninov successe la cosa più
straordinaria.
Quattro esseri giganteschi, sovrapposti, come se fossero trasparenti, si
manifestarono davanti agli occhi stupiti di Laura e Bertozzi. Erano pieni di
occhi davanti e dietro, e quattro paia di ali spuntavano i lati. Il primo
assomigliava a un leone; il secondo a un toro; il terzo aveva il volto umano,
e il quarto assomigliava a un'aquila in volo. Quegli esseri ripetevano
soltanto:
Santo, Santo, Santo, colui che era e colui che è e colui che viene. Degno sei
di ricevere la gloria, l'onore e il potere, perché lo creasti tutto, e per tua
volontà è esistito e si è creato.
Allora videro apparire un angelo, con l'arcobaleno intorno al capo, il volto
come un sole e i piedi come colonne di fuoco che teneva tra le mani un
libro aperto. L'angelo parlò con voce possente e disse:
E' questo il momento in cui dovete scegliere tra il bene e il male.
Potreste ordinare quello che desiderate, a partire da ora, alla pergamena.
Ma questo potere che avrete per mille anni, dopo la sua estinzione vi farà
retrocedere per 200 milioni di anni nell'evoluzione, fino a convertirvi
un'altra volta nei minerali più primitivi che esistono nell'Universo. A
partire da allora dovreste ricominciare di nuovo ripercorrendo tutto ciò
che avete vissuto per arrivare fin qui.
Se decidete per il Bene, dovete restituire questo pezzo al suo proprietario,
nostro Creatore. In tal caso dovete portare le scatole di piombo e d'oro in
un piccolo villaggio, chiamato Garza, nella provincia di Santiago del
Estero, in Argentina. E' questo un punto che forma un triangolo perfetto
con Pescara e Mái Edagá, nella mappa del mondo. Lì v'è una piccola
cappella che apparteneva alla famiglia dei Revainera. Quando arrivate lì,
dovete consegnare sull'altare, l’oggetto divino.
Tutto scomparve e la stanza per un momento cadde nella penombra.
Splendeva soltanto il filo di luce a forma triangolare che univa Laura con
Bertozzi e la pergamena. Cominciarono a passare davanti ai loro occhi con
immagini simili a quelle olografiche, le maggiori creazioni della civiltà
sulla terra. Il Taj-Mahal, Versailles, la Piazza Rossa, gli immensi parchi
meccanici degli Stati Uniti, i fiumi di denaro che escono dalle zecche delle
banche statali tedesche, giapponesi e nordamericane…
Aerei con un'artiglieria tra le più moderne attraversavano come uccelli
d'acciaio il cielo limpido; i corpi di ballo delle razze più varie
intraprendevano a turno danze straordinarie con milioni di colori; schermi
televisivi giganteschi trasmettevano una e più volte le più grandi
meraviglie della tecnica del XX secolo…
All'improvviso Bertozzi si girò di scatto verso Laura, tagliando il flusso di
luce e immagini.
- Che succede? - gli chiese.
- Dobbiamo portare la pergamena a Garza - disse Bertozzi, con voce
agitata.
- Lo credo anch'io - rispose Laura.
Buenos Aires, 22 giugno 1996.